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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALE Annuario di Diritto del lavoro N. 49 LA CRISI ECONOMICA E I FONDAMENTI DEL DIRITTO DEL LAVORO ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO NEL CINQUANTENARIO DELLA NASCITA DELL’ASSOCIAZIONE BOLOGNA, 16-17 MAGGIO 2013

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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALEAnnuario di Diritto del lavoro N. 49

LA CRISI ECONOMICAE I FONDAMENTI

DEL DIRITTO DEL LAVORO

ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO NEL CINQUANTENARIO DELLA NASCITA

DELL’ASSOCIAZIONEBOLOGNA, 16-17 MAGGIO 2013

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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALEAnnuario di Diritto del lavoro N. 49

LA CRISI ECONOMICAE I FONDAMENTI

DEL DIRITTO DEL LAVORO

ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIONEL CINQUANTENARIO DELLA NASCITA

DELL’ASSOCIAZIONEBOLOGNA, 16-17 MAGGIO 2013

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ISBN 9788814183850

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V

ELENCO DEI PARTECIPANTIELENCO DEI PARTECIPANTI

Abbate Maurizio

Aimo Mariapaola

Alessi Cristina

Aniballi Valentina

Antenucci Andrea

Aversa Nilia

Avondola Arianna

Balletti Emilio

Bano Fabrizio

Barbieri Marco

Basenghi Francesco

Bellardi Lauralba

Bellavista Alessandro

Bernardo Patrizio

Bertocco Silvia

Bianco Adele

Bolego Giorgio

Bollani Andrea

Borelli Silvia

Borghi Paola

Borzaga Matteo

Boscati Alessandro

Brino Vania

Brollo Marina

Brun Stefania

Campanella Piera

Canavesi Guido Luigi

Carinci Franco

Carinci Maria Teresa

Casale Davide

Casale Giuseppe

Cataudella Maria Cristina

Centamore Giulio

Cerbone Mario

Cerreta Michele

Chiaromonte William

Ciucciovino Silvia

Comande Daniela

Corrias Massimo

Corso Irene

Corti Matteo

Cristiani Giovanni

D’Aponte Marcello

D’Onghia Madia

De Falco Fabrizio

De Feo Domenico

De Luca Michele

De Luca Tamajo Marcella

De Luca Tamajo Stefano

De Luca Tamajo Raffaele

De Marco Cinzia

De Marinis Nicola

De Rosa Maddalena

De Simone Gisella

De Tommaso Silvio

Del Conte Maurizio Ferruccio

Del Frate Maria

Del Punta Riccardo

Di Noia Francesco

Dentici Lorenzo Maria

Diamanti Riccardo

Donini Annamaria

Emiliani Simone Pietro

Fagnoni Scilla

Faleri Claudia

Falsone Maurizio

Fasano Monica

Fenoglio Anna

Ferluga Loredana

Ferrara Maria Dolores

Ferraresi Marco

Ferrari Paola

Ferraro Fabrizio

Ficari Luisa

Filı Valeria

Fontana Giacomo

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VI

Fontana Giorgio

Forlivesi Michele

Fraioli Antonio Leonardo

Franza Gabriele

Fuchs Maximilian

Fusco Federico

Gaeta Lorenzo

Galardi Raffaele

Galizia Carmen

Gambacciani Marco

Gargiulo Umberto

Garilli Alessandro

Garofalo Carmela

Garofalo Domenico

Gentile Riccardo

Ghera Edoardo

Giordano Francesco Saverio

Girelli Nadia

Giubboni Stefano

Goldin Adrian

Greco Maria Giovanna

Grivet-Feta Sabrina

Iaquinta Francesca

Ichino Pietro

Imberti Lucio

Ingrao Alessandra

Izzi Daniela

Jeammaud Antoine

La Macchia Carmen

Lassandari Andrea

Lattanzio Filippo

Lazzari Chiara

Liebman Stefano

Lilla Olga

Loffredo Antonio

Lozito Marco

Luciani Vincenzo

Ludovico Giuseppe

Lunardon Fiorella

Magnani Mariella

Magnifico Silvia

Mainardi Sandro

Marazza Marco

Marciano Angela

Marimpietri Ivana

Mariani Marina

Marinelli Massimiliano

Marinelli Francesca

Martelloni Federico

Martire Giovanna

Martone Michel

Marzani Marco

Mattarolo Maria Giovanna

Mattei Alberto

Menegatti Emanuele

Menghini Luigi

Mezzacapo Domenico

Mieli Giorgio

Minervini Annamaria

Miscione Michele

Mocella Marco

Monda Pasquale

Monterossi Luisa

Montanari Anna

Muratorio Alessia

Nadalet Sylvain Giovanni

Napoli Mario

Neal Alan

Nicolosi Marina

Nicosia Gabriella

Nogler Luca

Novella Marco

Nunin Roberta

Occhino Antonella

Ogriseg Claudia

Olivelli Paola

Pace Domenico

Palladini Susanna

Pandolfo Angelo

Panizza Giovanni Battista

Pannone Ottavio

Pantano Fabio

Passalacqua Pasquale

Pederzoli Chiara

Pennisi Giuliano

Perletti Isabel

Persiani Mattia

Pessi Roberto

Pietra Valeria

Pino Giovanni

Piovesana Anna

Pisani Carlo

Pizzoferrato Alberto

Pozzaglia Pietro

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VII

Preteroti Antonio

Proia Giampiero

Prosperetti Giulio

Putignano Nicola

Quadri Giulio

Quaranta Mario

Raimondi Enrico

Ranieri Maura

Ratti Luca

Razzolini Orsola

Rescigno Pietro

Ricci Maurizio

Riccobono Alessandro

Robimarga Massimiliano

Rodriguez-Pinero Y Bravo-Ferrer Miguel

Rota Anna

Romagnoli Umberto

Ruggeri Domenico

Rusciano Mario

Russo Marianna

Sala-Chiri Maurizio

Salimbeni Maria Teresa

Salvalaio Manuela

Santini Fabrizia

Santoni Francesco

Santoro Passarelli Giuseppe

Santucci Rosario

Sartori Alessandra

Sbocchia Giulia

Scarano Lorenzo

Scarponi Stefania

Scognamiglio Renato

Seghezzi Isabella

Serraiocco Alessandra

Sgarbi Luca

Sigillo Massara Giuseppe

Signorini Elena

Simoncini Gina Rosamari

Siotto Federico

Spataro Maria

Speziale Valerio

Spinelli Carla

Talarico Milena

Tamburro Cristina

Terenzio Enrico Maria

Tessarolli Liliana

Testa Felice

Topo Adriana

Tosi Paolo

Treu Tiziano

Trojsi Anna

Valcavi Gian Paolo

Valenzi Ilaria

Vallauri Maria Luisa

Veltri Alessandro

Venditti Lucia

Ventura Alessandro

Ventura Giovannina

Vettor Tiziana

Vianello Riccardo

Villa Ester

Vinciguerra Maria

Zilio Grandi Gaetano

Zoli Carlo

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CRONACA DEL CONGRESSOCRONACA DEL CONGRESSO

Le Giornate di studio dell’A.I.D.La.S.S. si sono tenute a Bo-logna nei giorni 16 e 17 maggio 2013, in occasione del cinquante-nario della nascita della Associazione. Questa ricorrenza ha in-dotto il Consiglio direttivo dell’Associazione a deliberare la parte-cipazione dei Maestri fondatori dell’Associazione, dei precedentiPresidenti dell’A.I.D.La.S.S. e di alcuni illustri professori stra-nieri.

Le Giornate di studio sono state dedicate al tema La crisi eco-nomica e i fondamenti del diritto del lavoro e la realizzazione e statacurata dal Prof. Sandro Mainardi e dalla Dott.ssa Anna Monta-nari, con la collaborazione dell’Alma Mater Studiorum - Univer-sita di Bologna e grazie al contributo di numerosi enti.

Dopo gli indirizzi di saluto del Direttore del Dipartimento diScienze Giuridiche e del Vice Direttore del Dipartimento di Socio-logia e Diritto dell’Economia dell’Ateneo di Bologna, i lavori sonostati aperti dal Presidente dell’Associazione, Prof. Giuseppe San-toro Passarelli, dal Presidente della Sociedad Internacional de De-recho del Trabajo y de la Seguridad Social, Prof. Adrian Goldin edal Presidente del Comitato organizzatore, Prof. Franco Carinci.

I lavori sono poi proseguiti per tre sessioni presiedute, rispet-tivamente, dai Proff. Renato Scognamiglio, Mario Rusciano, Giu-seppe Santoro Passarelli.

Nel corso della terza sessione si e tenuta una tavola rotondaintitolata Uno sguardo sull’Europa alla quale sono intervenuti iProff. Maximilian Fuchs della Katholische Universitat Eichstatt In-golstadt, Antoine Jeammaud dell’Universite Lumiere Lyon 2, AlanNeal della University of Warwick e Miguel Rodrıguez-Pinero yBravo-Ferrer, Catedratico de Derecho del Trabajo y de la SeguridadSocial e Consejero Permanente de Estado.

Durante i lavori sono stati proclamati i vincitori dell’edizione2012 dei premi « Ludovico Barassi » e « Francesco Santoro Passa-relli » e dell’edizione 2011-2012 del premio « Massimo D’Antona ».

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Parte Prima

RELAZIONI E INTERVENTI

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Giovedı 16 maggio 2013 - mattina

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DIRITTO DEL LAVORO E QUADRO ECONOMICO:DIRITTO DEL LAVORO E QUADRO ECONOMICO:

NESSI DI ORIGINE E PROFILI EVOLUTIVINESSI DI ORIGINE E PROFILI EVOLUTIVI

di UMBERTO ROMAGNOLI

Il piu euro-centrico dei diritti.

Sono grato all’Aidlass per l’invito a partecipare ai festeggia-menti del suo 50o compleanno e mi congratulo col suo Presidenteper la scelta delle parole che tematizzano l’oggetto della mia rela-zione. Mi piace pensare, infatti, che l’assenza dell’espressione lin-guistica ‘‘crisi economica’’ non sia casuale e sia dovuta allo stessomotivo per cui nemmeno io la usero, o la usero con parsimonia.

Dato che la ciclicita e una costante dei processi economici, lacrisi dell’economia e da considerarsi un abituale compagno diviaggio del diritto del lavoro. Ergo, non puo designarne uno statodiverso dalla normalita. Mentre quello attuale, come tutti concor-dano, e uno stato d’eccezione. Stando cosı le cose, e preferibileparlarne come di un brutale inasprimento delle ingiustizie socialiche in passato erano combattute e che ora si e smesso di combat-tere. Per sempre? Non credo. E tuttavia per un periodo di tempoindefinito durante il quale rischia di cambiare non solo il nostropaese, bensı la storia dell’intero Occidente europeo che nella se-conda meta del ’900 si e costruita su di un rapporto d’interazionepositiva tra economia e democrazia.

Pertanto, adesso che il rapporto si e spezzato, si profila il ri-schio che il lascito culturale di Federico Mancini racchiuda nontanto un monito quanto piuttosto un presagio: ‘‘se l’Europa nondovesse crescere come organismo democratico, quel che reste-rebbe da organizzare non sarebbe piu l’Europa’’ (1).

(1) F. MANCINI, La Corte di giustizia: uno strumento per la democrazia nella Comunitaeuropea, in Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Mulino, Bologna, 2004,

p. 97.

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Gia dai tempi del liceo un’idea dello spirito del capitalismo delleorigini ce la eravamo fatta leggendo famosi romanzi dell’800. Pero,pur abitando nel fazzoletto di terra in cui il capitalismo e nato, eda cui ha spiccato il volo per colonizzare il mondo, il suo spirito ori-ginario non lo avevamo mai visto circolare per strada. Tant’e chepensavamo in buona fede che fosse estinto e la sua resurrezione im-possibile. Oggi, invece, e tornato fra noi per urlarci in faccia che lanarrazione di un diritto che dal lavoro prenderebbe nome e ragionee mistificante, perche quello che chiamiamo ‘‘diritto del lavoro’’non e mai stato del lavoro se non nella misura compatibile con lasua matrice compromissoria e, dunque, e al tempo stesso un dirittosul lavoro. Prova ne sia che l’ininterrotta micro-discontinuita chene caratterizza l’evoluzione e causata dalla dinamica di fattori eso-geni attinenti alla logica dell’organizzazione produttiva, al modo diprodurre ed alla sua efficienza, alla quantita di ricchezza prodottaed ai criteri adottati dalle forze che ne decidono la ridistribuzione.

Come dire: in epoca risalente al lavoro e stato concesso dirompere un millenario silenzio — per affermare che esiste, vive enon e invisibile — a condizione di metabolizzare il divieto di al-zare troppo la voce. Pertanto, e per via del fatto che il lavoro hacommesso il torto di alzarla oltre la soglia consentita che il capita-lismo lo prende a ceffoni, riesumando i suoi animal spirits. Dopo-tutto, pacta sunt servanda.

E uno schema di ragionamento che puo persuadere soltantochi sia visceralmente interessato a sostenere che la subalternitadel lavoro e incancellabile e che questo dato basta per giustificarela richiesta avanzata dal potere economico di reintegrare un do-minio eroso dall’evoluzione del sistema legale.

Viceversa, il passato che abbiamo alle spalle non e interpreta-bile a stregua di una parabola moraleggiante sul peccato e il do-vere di redimere il peccatore.

Il passato racconta semplicemente che il lavoro non avevabussato alla porta della storia giuridica soltanto per essere rin-chiuso dentro il recinto del diritto dei contratti tra privati e farsiavvolgere nel cellophane delle sue categorie logico-concettuali.Anzi, finche la sua fonte regolativa e stata l’autonomia negozialeprivato-individuale, come accadeva agli inizi, il lavoro era rinta-nato nell’informalita della sua proto-storia. Per uscirne non gli ba-sto nemmeno il dispiegarsi dell’autonomia negoziale privato-collet-tiva. Perche anch’essa — dovendosi piegare all’esigenza, tipica

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della produzione industriale, di pianificare l’impiego di una forzalavoro regolare, massificata, rigidamente organizzata all’internodi macro-strutture gerarchizzate — e largamente influenzata dauna cultura che attribuisce all’economia un ruolo pervasivo.

Per vedere accolte nell’ordinamento giuridico le sue aspetta-tive in misura significativa, il lavoro ha dovuto richiamare su dise l’attenzione di una elite intellettuale che contrastasse la pretesadell’economia di governare la societa e impedisse alla liberta del-l’agire economico di tradursi nella liberta di monetizzare tutto, oquasi tutto, e dunque di mercificare il lavoro e, perche no?, lastessa esistenza. Poi, ha dovuto attendere che si formassero lecondizioni materiali per mettere la politica al posto di comando.

Se si condivide questa premessa, e cioe che l’eta della de-mer-cificazione del lavoro e cominciata solo quando si e affermata unacultura giuridica che subordina alla politica l’economia, e difficileallontanare l’impressione che il ceto professionale dei giuristi dellavoro attivi in Europa durante la lunga fine del secolo XX abbiaconsumato una trahison des clercs che per certi aspetti rimanda aquella di cui parlava nel secolo scorso Julien Benda.

Scagli la prima pietra quello di noi che non ha neanche flirtatocol nuovo che vedevamo crescere o simpatizzato coi suoi portatori,ancorche intenzionati a rimettere in discussione i principi fonda-tivi del diritto del lavoro insegnato nelle Universita e applicatonei tribunali. Qualunque fosse il grado di coinvolgimento, e indi-pendentemente dalla plausibilita delle motivazioni, era un com-portamento inspiegabile se non ipotizzando che l’agente non avevala percezione di violare lo statuto epistemologico e scientifico dellasua professione. Infatti, nessuno e tenuto a sapere, piu e meglio diun giurista, che la legislazione e il piu significativo dei mezziespressivi della politica e che le decisioni del potere pubblico sottoforma di leggi, decreti, sentenze sono una componente costitutivadel diritto del lavoro. E nessuno, piu e meglio di lui, dovrebbe sa-pere che, per il lavoro, ogni passo indietro della sua tutela giuridicaequivale ad un passo in avanti sulla strada della rimercificazione.

Ciononostante, c’e chi ha finto di non sapere che il diritto dellavoro ha potuto proporsi come ‘‘uno dei pochi indubbi esempidel progresso della cultura giuridica del ’900’’ (2) perche, emanci-

(2) F. WIEACKER, Storia del diritto privato moderno, con particolare riguardo alla Ger-mania, II, Giuffre, Milano, 1980, p. 293.

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pandosi dalla concezione patrimonialistica e mercatistica predi-letta dalla gius-privatistica, e penetrato nello spazio pubblico finoad issarsi, nel secondo dopoguerra, nelle zone alpine del diritto co-stituzionale. Solo cosı e diventato adulto e, al tempo stesso, hapotuto contribuire ad avvicinare le societa dell’Occidente europeoalla soluzione del problema di come far coesistere benessere eco-nomico, coesione sociale, democrazia politica — un problema cheuna volta Ralf Dahrendorf paragono a quello della ‘‘quadraturadel cerchio’’.

Senza il prodursi di questo evento, Renato Scognamiglio nonavrebbe potuto dire che il diritto del lavoro e ‘‘il’’ diritto del se-colo (3). Nella sola Europa occidentale, pero. E, a voler essere pi-gnoli, nemmeno in tutti i paesi, anche se d’importanza e in nu-mero sufficienti ad accreditare l’opinione che quello del lavoro e ilpuo euro-centrico dei diritti. In effetti, cio che accomuna i legisla-tori del centro-sud e del nord dell’Europa e una tensione riforma-trice, sconosciuta a tutti gli altri, per correggere le strutturaliasimmetrie del rapporto di lavoro (4). Il che significa che in Eu-ropa, e soltanto qui, si e stabilizzato un clima culturale favorevolealla politica delle convergenze in assenza delle quali la coabita-zione del diritto del lavoro col diritto di proprieta e con la libertad’iniziativa economica degenera in rissa.

Adesso, l’equilibrio d’antan e saltato e il diritto del lavoro statornando dove tutto e cominciato. Perche?

L’eclisse dello Stato sociale europeo.

Con la globalizzazione dell’economia si e creato uno smisuratomercato del lavoro al cui interno si scatena una sfrenata concor-renza. Lı entrano in contatto molte decine di centinaia di milionidi uomini e donne di tutti i continenti (un miliardo e mezzo, estato calcolato) che considerano un dono del Signore qualsiasi la-voro con qualsiasi paga e circa mezzo miliardo di uomini e donneappartenenti ai paesi del G8 i quali, per scongiurare il rischio di

(3) Nuove forme di lavoro tra subordinazione, coordinazione, autonomia, Cacucci,

Bari, 1997.

(4) F. MANCINI, L’incidenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro degli Statimembri, in Democrazia, cit., p. 159.

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de-localizzazione degli impianti produttivi (e/o di segmentazionedei cicli di produzione) nei paesi emergenti o in via di sviluppo,cedono diritti.

Se non tutti, molti di questi diritti rappresentano il precipi-tato politico di conflitti sociali esplosi entro i confini degli Stati-nazione dell’Europa occidentale dopo la cessazione della secondaguerra mondiale. Ossia, durante quello che Tony Judt definiva‘‘il lungo momento socialdemocratico’’. Era la fase della moder-nita dominata dall’incubo dell’effetto-contagio che l’esperimentorivoluzionario in atto nell’Est europeo era in grado di produrre alivello planetario. E per prevenirlo che, qualunque fosse la conce-zione del mondo cui aderivano (liberale, cattolica, socialista), i go-vernanti misero a punto programmi di welfare State capaci di gua-dagnarsi il consenso dei governati dimostrando nei fatti come ledemocrazie dell’Occidente capitalistico potessero competere vitto-riosamente col regime comunista (5).

Poi, l’impero sovietico e imploso, il Muro di Berlino e crollatoe l’incubo e svanito. La per la, pur essendo evidenti i nessi di ori-gine, anche culturale, tra i due modelli rivali nessuno venne sfio-rato dal dubbio che, caduto il modello sovietico, sarebbe cadutoanche il modello dello Stato sociale europeo. Casomai, l’esito delconfronto premiava il secondo e dunque provava la validita del-l’approccio riformista di cui la social-democrazia ha sempre riven-dicato il copy-right. Anche se, per la verita, questo e un caso incui sarebbe consigliabile la prudenza. Coi tanti padri che ha la so-cial-democrazia non puo avere la certezza che tutte le madri sianodonne oneste ed e per questo che farebbe bene ad interrogarsisulle criticita del modello che concorrono a fare dello Stato piu ungeneroso, docile e passivo erogatore di danaro pubblico che un av-veduto gestore di servizi d’interesse collettivo.

Fatto sta che il finale della partita e stato interpretato e vis-suto, anziche come un incentivo ad eliminare sprechi e distorsionidel modello europeo per migliorarne il rendimento, come la con-ferma irrefutabile che non esistono alternative realistiche alla so-cieta capitalistica. Cosı, sebbene non fosse in rerum natura ne pre-

(5) R. DI LEO, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa,

Ediesse, Roma, 2012, pp. 92 ss.

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scritto dal destino che la sconfitta del modello sovietico trasci-nasse per forza con se quello europeo, ne ha accelerato l’eclisse (6).

Ad ogni modo — unitamente alla tolleranza della deriva del-l’ideal-tipo social-democratico nelle diverse forme proprie dei sin-goli Stati-nazione: si pensi, guardando in casa nostra, alle pen-sioni-baby ed alle pensioni d’oro, al mantenimento sine die dicassa-integrati appartenenti ad aziende decotte ed all’uso deipubblici impieghi in chiave di lotta alla disoccupazione — il nau-fragio del modello sovietico ha messo a nudo che l’adesione ai pro-grammi di welfare era prevalentemente strumentale, come la di-sponibilita a negoziarli. In realta, il modello europeo si sostenevasu di un intreccio di motivazioni tra cui vale la pena distinguere.Non c’era soltanto autentica convinzione. C’era anche coazione.Perche in giro c’era tanta paura: la paura del nemico; e c’era lanecessita di rintuzzarne le mire espansionistiche, sia pure conmezzi che non offendessero la sensibilita democratica — indub-biamente cresciuta, rispetto agli anni del nazi-fascismo e del fran-chismo cui risale l’icona dello Stato-chioccia ed insieme padre-pa-drone, ma destinata a crescere ancora.

C’era infine una diffusa approssimazione culturale — ma suquesto aspetto dovro tornare in seguito.

Tutto cio aiuta a capire perche l’establishment delle societa ac-quisitive dell’Ovest europeo — cui oggi corrisponde il vertice isti-tuzionale dell’Unione Europea — ritenga che quello Stato sociale,costruito in un contesto geo-politico che non c’e piu, abbia per-duto senso e scopo o, comunque, non sia piu conveniente. In ef-fetti, e riconosciuto vincente rispetto al modello col quale antago-nizzava e, contemporaneamente, soccombente rispetto al modellonord-americano. Come dire che i termini del confronto non sonopiu quelli di prima. Ad un certo punto sono cambiati. Sono cam-biati nel momento in cui al modello europeo si e venuto contrap-ponendo un modello che e il compendio di quanto di piu anti-eu-ropeo si possa immaginare, perche e indiscutibilmente, orgogliosa-mente, prepotentemente segnato ab origine dalla supremazia del-l’economia sulla politica. E il modello che mette al posto dicomando gli interessi economici privato-individuali e promuove‘‘l’ideologia del successo individuale, che spinge al fare per avere,

(6) G. BERTA, Eclisse della socialdemocrazia, Mulino, Bologna, 2009.

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al saper fare al meglio per avere il meglio, al voler essere il meglioper avere il potere di scegliere il meglio per se’’ (7). Un’ideologiache, proprio perche partorisce il sogno dell’iper-individualismo,non puo non demonizzare il sogno di una societa ‘‘altra’’ che stadietro il riformismo. Almeno, dietro il riformismo migliore e menocontaminato o inquinato: quello che i giuristi dovrebbero conven-zionalmente riconoscere nel riformismo che ha nella costituzionerepubblicana il suo ormeggio identitario — ma anche questo e unelemento valutativo che dovro riprendere.

L’incerto imprinting culturale del diritto del lavoro.

Leggendo nei testi scolastici che l’ora X dell’inizio dello sman-tellamento dello Stato sociale europeo e scoccata quando, colcompetitore, sparı anche la necessita di conservare intatti gli ap-parati allestiti per gareggiare con lo Stato sovietico, soltanto i piuingenui o piu sciocchi dei nostri nipoti si meraviglieranno che ildiritto del lavoro novecentesco sia stato il bersaglio da colpire perprimo.

In effetti, il suo sacrificio era una scelta obbligata.Avendo molto in comune con cio che ha portato la social-de-

mocrazia europea all’auto-dissoluzione, anche quella del dirittodel lavoro e un’intrinseca debolezza: genetica, si potrebbe dire.

Ne costituisce un sintomo la frequenza con cui i giuristi dellavoro si comportano come il figliol prodigo che torna dal padre egli confessa i danni che ha causato alle stesse idee di progresso perseguire le quali se ne era andato di casa. Non che fossero tutticompattamente schierati da una parte sola; tutt’altro. Il fatto eche il diritto del lavoro del ’900 e uno dei prodotti meno imper-fetti e piu riusciti del riformismo, le performance del quale perodipendono dall’indeterminatezza della matrice culturale.

Per questo, la letteratura giuridica in materia di lavoro s’in-fittisce di dissidi non antagonistici (o di antagonismi apparenti)dove non si tarda a capire chi sia tra i contendenti quello che difatto ha gia accettato il modo di pensare dell’avversario, si servedel suo lessico, condivide i suoi referenti ideali. E cio perche attin-

(7) R. DI LEO, Il ritorno delle elites, manifestolibri, Roma, 2012, p. 17.

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gono dai medesimi serbatoi di pensiero, si muovono nel medesimoretro-terra valoriale e sono prigionieri dei medesimi pregiudizi.

Vero e che, frutto spontaneo della prassi, il diritto del lavoroe subito caduto in preda alle contrapposte ideologie che ambivanoad esserne considerate le levatrici: il liberalismo, nella sua declina-zione sociale (oggi declinante) piuttosto che in quella meramenteeconomica (la chiamano neo-liberismo), e il socialismo umanitarionato da una costola dell’Illuminismo. Tuttavia, la contesa ideolo-gico-culturale ha gradualmente generato un clima che, negli ul-timi tempi, ha assunto i contorni di una specie di coabitazione du-rante la quale i duellanti piano piano si sono resi conto che cioche li unisce supera cio che li divide. Li unisce l’interesse reci-proco a riconoscersi la legittimazione ad amministrare un capitali-smo trionfante. Li unisce l’idea che il sistema esistente e suscetti-bile di manutenzione, ma non e modificabile nei suoi fondamenti.Li unisce la fiducia che, con l’essenziale contributo dei mass-mediacontrollati dal potere economico, la societa finira per adattarsi.Quasi per inerzia: ‘‘non ci sono condizioni alle quali l’uomo nonpossa assuefarsi’’, si legge in una pagina di un grande scrittoredella Russia zarista, ‘‘specialmente se vede che tutti coloro che locircondano vivono nello stesso modo’’.

D’altronde, pur nascendo da una critica di un assetto degli in-teressi la cui radicalita condurrebbe in astratto ad estremizzare ilconflitto, il diritto del lavoro ne e per l’appunto la versione giuri-dificata e, come non mi stanco di ripetere, bilateralizzata. Perquesto, ne ha sempre privilegiato la pars construens anche a costodi rilegittimare cio che e oggetto di contestazione. In compenso,pero, le venature di socialita che lo connotano mettono in rilievola condiscendenza della controparte ad annacquare l’ethos del ca-pitalismo ed a moderarne la dirompente esuberanza.

Diciamo allora la verita: riformismo e una delle troppe paroledel dizionario contemporaneo condannate a restare in una condi-zione di polisemia o (il che e lo stesso) ad essere frainteso. Anzi,ormai e una parola che non parla. E certamente e destinata a mo-rire se il pensiero dominante se ne appropria per proporsi comeispiratore di un ‘‘riformismo ablativo’’ che ha l’audacia di sfidarel’opinione dei linguisti secondo i quali il dictum non e separabiledal dicens, laddove una parola che parlava sinistramente alle de-stre di tutti i paesi, cambiando improvvisamente il segno diventaun goffo tentativo per svuotarla di significato.

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Se questo e un eccesso riprovevole per la sua impudenza, e in-vece normale che il perimetro semantico del riformismo sia nasco-sto da una nebbia che, piaccia o non piaccia, permette alla cul-tura riformistica di inglobare anche quella corporativa (8). Anzi,godendo dell’appoggio della Chiesa cattolica, che ne e stata lamallevadrice piu autorevole, la cultura corporativa ha accumu-lato tra gli uomini di pensiero e d’azione nell’Europa del secoloXX crediti non inferiori a quelli che puo vantare la cultura rifor-mistica di ascendenza laica.

Per evitare equivoci, dico subito che lo stretto legame esi-stente tra cultura riformista e cultura corporativa — visibile so-prattutto quando l’una e l’altra coprono, secondo l’id quod ple-rumque accidit, operazioni di piccolo cabotaggio — e meno imba-razzante di quanto non possa sembrare a prima vista. Ricono-scerne l’esistenza mette a disagio soltanto chi vede nella culturacorporativa l’habitat piu propizio all’instaurarsi di un regime fasci-sta. A chi sa di storia, invece, non sfugge che il corporativismopuo affermarsi tanto prima dell’avvento quanto dopo il crollo diun regime fascista.

Cade opportuno, al riguardo, riandare a Francesco Carneluttiche — sul primo fascicolo della rivista giuridica fondata e direttada Giuseppe Bottai nel 1927, Il diritto del lavoro — pubblica unarticolo con un incipit di questo tenore: ‘‘In massima, non ci sonocose nuove da dire’’; e, poco piu tardi, da aspirante leader del-l’anti-fascismo salottiero, non esitera a lodare il regime: ‘‘uno dei[suoi] piu grandi meriti sta nel non essersi mai lasciato travolgeredall’impeto distruttivo e nell’avere conservato tutto quanto erapossibile conservare’’ (9).

Insomma, e un grave errore confondere il corporativismo colfascismo: questo e un fenomeno transitorio, quello e senzatempo (10). Infatti, la fine dei corporativismi storicamente realiz-zati non puo mai dirsi definitiva: e sempre e soltanto virtuale.Per questo, il culto del neo-corporativismo praticato nell’Europadegli anni ’80 restituı all’esperienza della Repubblica di Weimar

(8) Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, a cura di G. Vardaro,

Franco Angeli, Milano, 1988.

(9) In Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi. Ferrara, 5-8 maggio1932, III, Roma, 1932, p. 80.

(10) S. CASSESE, Lo Stato fascista, Mulino, Bologna, 2010, p. 95 ss.

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un’accecante attualita: Weimar costituisce per l’appunto il proto-tipo delle democrazie a vocazione corporativa (11).

Si da il caso, percio, che il riformismo sia debitore di granparte del suo successo teorico e pratico alle medesime ragioni chehanno garantito l’universalizzazione del corporativismo: la plura-lita di significati, la versatilita operativa e la spregiudicatezza concui butta sul tavolo il suo jolly. Un jolly che si trova anche nelmazzo delle carte di cui dispone il corporativismo. L’asso piglia-tutto consiste nella possibilita di ricondurre le ambiguita tantodel riformismo quanto del corporativismo ad una lettura del c.d.principio di realta orientata in modo da negare l’esistenza diun’opzione e la discrezionalita della scelta compiuta. Non che ilpragmatismo sia necessariamente sinonimo di opportunismo insenso deteriore. Nondimeno, aperto com’e alla possibilita di auto-correggersi e perfezionarsi in corso d’opera, predispone all’indul-genza. L’intero ‘‘diritto vivente’’, e l’auto-assolutoria asserzionedi un autorevole esponente del corporativismo fascista, ‘‘e un si-stema di contraddizioni’’ (12). Ma l’asserzione e condivisa anchedai piu convinti riformisti; anzi, e il loro mantra. Come dire: rifor-mismo e corporativismo hanno alimentato una cultura che nonpuo non attrarre i professionisti dell’interpretazione — giuristi epolitologi, filosofi ed economisti. Anche se soltanto dopo la ricercadi Irene Stolzi (13) che ha finalmente fatto piena luce su un per-corso che per molto tempo e stato piu chiacchierato che studiato,adesso puo ritenersi generalmente acquisita quella che all’epocaera la percezione di una ristretta elite: riformismo e corporativi-smo sono gli ingredienti di base della cultura dell’accomodamentoempirico dove ciascuno si piglia cio che piu gli aggrada o gli servemomentaneamente.

Il diritto del lavoro del ’900 simboleggia per l’appunto la con-tiguita tra riformismo e corporativismo. L’uno e l’altro hannofatto quel che potevano affinche il lavoro, sbucato dal buio dellastoria, potesse far udire la sua voce. Pero, l’eclettico impianto cul-turale del diritto del lavoro come puo favorire avanzamenti cosı

(11) U. ROMAGNOLI, Weimar e il diritto del lavoro in Italia, in Lav. e dir., 2010,

p. 181 ss.

(12) A. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 76.

(13) L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella rifles-sione dell’Italia fascista, Giuffre, Milano, 2007.

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non esclude arretramenti: Gerard Lyon-Caen amava dire che ‘‘ledroit du travail c’est Penelope devenue juriste’’. Dipende. Di-pende dall’oscillante rendimento della sua attitudine a mediareconflitti. La quale dipende, a sua volta, dal contesto in cui haluogo la mediazione. E vi sono contesti in cui la mediazione scadenella manipolazione del consenso od anche nel ricatto. Ed e pro-prio quel che successe tanti anni fa quando (come recitava la te-stata di un quotidiano fiorentino che si pubblicava agli albori delsocialismo) ‘‘il capitale [era] tutto e il lavoro niente’’. Successe du-rante i decenni del secolo scorso caratterizzati da quella che Char-les Maier definisce la rifondazione dell’Europa borghese. Sta suc-cedendo di nuovo.

Adesso, infatti, si profila un passaggio d’epoca che somiglia —per dimensioni e profondita del cambiamento — a quello che se-gno l’avvento del capitalismo industriale (14) e, per cio stesso,mette in affanno la cultura giuridica piu aderente alla politica checredeva di saperne domare gli eccessi. La violenza dello scontro ladisorienta, perche la costringe a dubitare della sua capacita diesorcizzare lo spettro della lotta di classe che l’Europa della primameta del ’900 represse congedandosi dalla democrazia per riem-pirsi di corporativismi autoritari e, sia pure con molte diffe-renze (15), si riaffaccia nel terzo millennio.

Vero e che gli esperti d’uncinetto esegetico che affollano leaule giudiziarie non smetteranno di elaborare progetti di sentenzadiscordanti con le scelte legislative che riducono il lavoro a varia-bile dipendente dell’economia. Tuttavia, l’argomentazione inter-pretativa non si regge mai da sola. Perche la sua correttezza lo-gico-formale e condizione necessaria, ma non sufficiente. Ovunquee sempre, la bonta del prodotto dell’interpretazione e certificatadalla maggioranza dei consensi che ottiene, ossia e misurata dal li-vello di condivisione che raggiunge tra interlocutori e fruitorid’ultima istanza. Come dire che l’interprete deve fare i conti coldiffuso senso comune. E, si sa, andare in contro-tendenza costafatica.

(14) U. ROMAGNOLI, La transizione infinita verso la flessibilita ‘‘buona’’, in LD, 2013.

(15) La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 10 ss.

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La responsabilita della cultura giuridica del lavoro.

La storiografia non puo darci indicazioni su come sarebbe ilpaese in cui viviamo se la costituzione che oggi occupa stabil-mente le piazze ci fosse andata con la stessa continuita e con lastessa carica di aggressivita sin dal giorno della promulgazione.Anzi, ci parla dell’atmosfera ‘‘brumosa’’ che assediava la Costi-tuente: nel 1946 Piero Calamandrei scriveva su Il ponte che ‘‘lagente ignora la sua attivita e se ne disinteressa’’. Del resto, anchei padri costituenti se ne rendevano conto. Ma, non essendo deigiacobini, avevano chiaro che, in democrazia, non e possibile anti-cipare il futuro con azioni che non siano sostenute da larghi con-sensi. Uno di loro ce lo ha detto apertamente.

Vittorio Foa, nel saggio che raccoglie le ‘‘riflessioni’’ sulla suavita, celebra l’apologia della mossa del cavallo, che metaforizzaun modo dell’agire ‘‘nella politica come in generale nella vita’’. Lagradualita, confessa Foa, ‘‘mi era sempre apparsa come una timi-dezza. (...) Da vecchio, pero, mi rendo conto che e spesso qualcosad’altro’’: e considerazione degli altri e valutazione della necessitadel loro concorso all’azione (...) e l’apporto della gente richiedetempo’’ (16).

Infatti, benche il disgelo costituzionale fosse stato avviato dalcentro-sinistra nella prima meta degli anni ’60, senza l’accelera-zione impressa dalle lotte dell’autunno caldo non ci sarebbe statolo statuto dei lavoratori, che si proponeva di sconfiggere l’eresiagiuridica che faceva dello stato occupazionale e professionale ac-quisibile per contratto il prius e dello stato di cittadinanza il po-sterius, e, senza l’impetuosa ascesa del movimento femminista neldecennio successivo, si sarebbe continuato a pensare che la sin-drome anti-egualitaria che colpisce le societa organizzate da e peruomini se fosse, il loro indistruttibile connotato. Con questi prece-denti, verrebbe spontaneo dire che anche la gradualita del pro-cesso culminato in questi anni nell’incontro della costituzione conla gente abbia qualcosa a che fare con la mossa del cavallo. Anchestavolta, infatti, si assiste al ‘‘coinvolgimento del prossimo nellarealizzazione di un progetto’’. Per questo, bisognerebbe rivisitarela cultura giuridica. E non solo quella del lavoro. Ma anche, e so-

(16) Il Cavallo e la Torre, Einuadi, Torino, 1991, p. 337.

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prattutto, quella della gius-pubblicistica, la cui riluttanza a valo-rizzare la capacita regolativa della carta costituzionale ha contri-buito a ritardarne, come si e accertato, la socializzazione e dunquela stessa attuazione.

Se il diritto del lavoro e bene o male arrivato fin qui, lo deveanche alla vischiosita dei discorsi giuridici di cui e stato oggetto.Sennonche, quando gli acrobati se ne vanno, arrivano i clowns o igiocolieri.

Oggi, infatti, non solo i governanti sono dell’avviso che il la-voro rientri in maniera pressoche esclusiva nella sfera degli inte-ressi del suo venditore e del suo compratore e che la regolazionedello scambio spetti a soggetti che agiscono in base ad una conce-zione proprietaria della contrattazione collettiva. Prova ne sia chela richiesta di abrogare l’art. 8 della legge 148 del 2011 e stata tra-sversalmente giudicata ‘‘inopportuna, scriteriata, populista’’ el’assordante silenzio mediatico calato sulla campagna referenda-ria, se non l’ha affondata ut erat in votis, sicuramente l’ha danneg-giata.

Il dato da cui partire e che la norma interpella direttamentegli operatori giuridici: giudici, avvocati e giuristi-scrittori, ovvia-mente — ma anche negoziatori sindacali, capi del personale pri-vato e pubblico, consulenti del lavoro. Li interpella perche co-storo non possono dirsi estranei al processo di de-costituzionaliz-zazione che ha fatto defluire ed allontanato il lavoro, le sue regolee la sua rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore inte-resse presidiato dallo Stato. Il che significa che, per auspicabileche possa apparire la rimozione dell’art. 8, e verosimile che coete-ris paribus essa non potra comportare automaticamente il bloccone a fortiori l’inversione delle tendenze ascrivibili alla cultura giu-ridica prevalente in materia sindacale e del lavoro (17): quelladella privatizzazione e della cedevolezza del sistema delle fonti diproduzione normativa.

Cio che colpisce e l’intonazione gladiatoria della formula le-gale. La latitudine della derogabilita degli standard protettivi. Lasfrontata estremizzazione dalla logica economicistica. La macro-incostituzionalita della soluzione data al problema dell’efficacia

(17) U. ROMAGNOLI, La deriva del diritto del lavoro (Perche il presente obbliga a fare iconti col passato), in LD, 2013, p. 3 ss.

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dell’auto-regolazione sociale. La protervia con cui, dietro loschermo del consenso maggioritario dei rappresentanti sindacalicome condizione dell’efficacia dei contratti collettivi, si occultache il tit. III dello statuto dei lavoratori — come osservava Mas-simo D’Antona in un saggio del 1990 — ‘‘si preoccupa delle ga-ranzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma nondefinisce la posizione dei rappresentati nei confronti dei mede-simi’’; e cio sebbene nel frattempo sia esplosa la piu virulenta crisiche si potesse immaginare degli istituti di rappresentanza demo-cratica, quella sindacale inclusa.

Insomma, cio che colpisce e la spudoratezza con cui si prefi-gura la radicalizzazione di un corporativismo esasperatamenteaziendalizzato (18) in una con l’indebolimento del ruolo del con-tratto nazionale cui si accompagnera, in prospettiva, la balcaniz-zazione delle relazioni sindacali.

Perlomeno, la Confindustria e i suoi partner sanno essere piucauti. Ma intanto non solo si pronunciano a sostegno del conti-nuum produttivita — decentramento contrattuale — flessibilitadelle regole, facendone la linea Maginot di un sistema produttivoche si sta sgretolando, ma invocano sgravi fiscali sulle voci retri-butive erogate a livello aziendale. E successo in occasione dellasottoscrizione dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011el’orientamento e stato ribadito con l’accordo omologo del 24 aprile2013 che, in attuazione della legge di stabilita in vigore, genera-lizza la detassazione di tutte le retribuzioni erogate in azienda, acominciare dal lavoro straordinario. Il commento piu tenero e chela metabolizzazione dei valori costituzionali (dall’eguaglianza allasolidarieta) e un processo incompiuto e che la speranza di ‘‘pro-vare a reagire alla crescente frammentazione del sistema lavori-stico utilizzando il collante delle fonti superiori’’ (19) e diventatoil banco di prova della vitalita della cultura giuridica. Sara rifor-mismo, ma il suo situarsi nel solco della costituzione e la garanziache non procedera allo sbando e sapra mantenere la direzione disenso del tratto dell’itinerario percorribile dal diritto del lavoro

(18) V. BAVARO, Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, Bari, 2012.

(19) R. DEL PUNTA, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema,

in RIDL, 2012, I, p. 472.

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che, col passare del tempo e diventato un ‘‘diritto di attuazionecostituzionale’’ (20).

Il percorso che gli resta da compiere e traducibile grafica-mente in un contro-movimento. Se l’inizio fu segnato dal passag-gio dallo status al contratto, benche non potesse superare la provadei fatti il dogma dottrinale che vede nel contratto — quello dilavoro incluso — una promessa di liberta, il futuro potrebbe es-sere segnato da un ritorno allo status; uno status che non coincidepiu con quello occupazionale o professionale e nemmeno ne di-pende: e lo status di cittadinanza protetto da una democrazia co-stituzionale.

(20) Come insegna Riccardo Del Punta nel suo bel manuale (Diritto del lavoro, Giuf-

fre, Milano, 2012).

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LE ISTITUZIONI DEL LAVOROLE ISTITUZIONI DEL LAVORO

NELL’EUROPA DELLA CRISINELL’EUROPA DELLA CRISI

di TIZIANO TREU

SOMMARIO: Sezione I. Convergenze e asimmetrie nelle regole europee. — 1. Diritto del la-

voro e salute dell’economia. — 2. Il cambiamento del ‘‘campo di gioco’’ e la crisi:

il diritto del lavoro alla prova della competitivita. — 3. La rilevanza dello ‘‘spa-

zio’’ europeo e il dibattito sulle varieta di capitalismo. — 4. Le asimmetrie delle

istituzioni europee: le debolezze della regolazione legale e collettiva. — 5. L’in-

fluenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali: divergenze e difficolta di valuta-

zione. — 6. Principi e politiche sociali europee: una economia sociale di mercato?

— Sezione II. Flexicurity e oltre. — 7. Il ‘‘wake up call’’ della crisi? — 8. Principi

e politiche della flexicurity. — 9. Resilience dei modelli europei di flexicurity:

quanto puo durare? — 10. I difficili equilibri fra flessibilita e sicurezza e i limiti

delle politiche attive nella crisi. — 11. Le politiche del lavoro europee oltre la fle-

xicurity: condizioni di efficacia. — 12. La diseguale influenza europea nelle politi-

che del lavoro italiane. — Sezione III. Relazioni industriali deboli. — 13. Tensioni

nelle relazioni industriali nazionali e vuoto di regole europee. — 14. Il debole eu-

ropeismo delle relazioni industriali e il peso dell’austerita. — 15. La contrattazione

collettiva dei CAE e il difficile controllo del decentramento. — 16. L’incerto sta-

tuto giuridico europeo dello sciopero. — 17. Oltre la supplenza dei giudici. — 18.

Mutual learning e le specificita delle relazioni industriali italiane. — Sezione IV. Ilwelfare europeo nell’austerita. — 19. Cambiamenti nei welfare europei. — 20. Con-

vergenze contingenti: normative, gestionali e amministrative. — 21. Ricalibrare il

welfare: le politiche di ‘‘social investment’’. — 22. Social investment e inclusione

sociale. — Sezione V. Considerazioni conclusive: l’europeizzazione alla prova dellacrisi. — 23. Il cambiamento nelle istituzioni del lavoro europee. — 24. Progressi e

fragilita dell’europeizzazione. — 25. Lo stress test della crisi e il peso delle politi-

che di austerita. — 26. Ripensare strategie e strumenti: limiti del coordinamento.

— 27. Modificare lo statuto dell’Agenda sociale. — 28. Nuovi orientamenti econo-

mici e di welfare. — 29. Standard sociali di base. — 30. Un quadro europeo per

le relazioni industriali. — 31. Prospettive istituzionali e politiche.

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Sezione I

Convergenze e asimmetrie nelle regole europee

1. Diritto del lavoro e salute dell’economia.

Gia Sinzheimer nel 1933 sottolineava lo stretto legame fra di-ritto del lavoro e salute dell’economia; e osservava come la tempe-sta mondiale di quel periodo, con un ‘‘cimitero economico di di-soccupazione strutturale’’, investisse il diritto del lavoro in ma-niera piu violenta rispetto alle altre branche del diritto (1).

Negli anni recenti la piu grave crisi del dopoguerra induceosservatori attenti e preoccupati a domandarsi se sia in pericolola sopravvivenza dei sistemi di diritto del lavoro e di protezionesociale sviluppatisi in Europa dal 1945 (2). Il legame fra dirittodel lavoro e salute del sistema economico e strutturale, anche se‘‘denegato’’ dallo statuto della nostra materia, perche il dirittodel lavoro si preoccupa tradizionalmente di proteggere i lavora-tori, non di garantire la salute dell’economia e neppure di pro-muovere l’occupazione. Questo stretto rapporto e carico di po-tenziali contraddizioni. Si e potuto sostenere a lungo nel secoloscorso perche i sistemi economici avanzati hanno alimentato leaspettative che il capitalismo avrebbe potuto garantire un conti-nuo miglioramento delle condizioni dei lavoratori (occupazione,salari, protezione sociale e sicurezza) e dei diritti di cittadinanzasociale (Marshall) in modo da permettere ai lavoratori di parteci-pare in posizione centrale ai benefici del welfare State democra-tico (3). Per questo i periodi di crisi economica hanno rappresen-tato momenti non solo di trasformazione, ma di vera e propria

(1) Lo ricorda B. HEPPLE, all’inizio del suo saggio su questo tema, Diritto del lavoroe crisi economica: lezioni dalla storia europea, in GDLRI, 2009, p. 392; H. SINZHEIMER, DieKrisis des Arbeitsrechts, ristampato in H. SINZHEIMER, Arbeitsrechts und Rechtsoziologie, II,

Frankfurt, 1976, p. 135-145.

(2) B. HEPPLE, Diritto del lavoro, cit., p. 392; M.R. PINERO, La grave crisi del dirittodel lavoro, in LD, 2012, p. 3 ss.; C. BARNARD, The financial crisis and the Euro plus pact: alabour lawyer’s perspective, in Ind. Law Journal, n. 1, 2012, p. 98 ss. (che conclude per una

‘‘prognosi infausta’’).

(3) W. STREECK, Le relazioni industriali oggi, in DRI, 2009, p. 255 ss.; e in generale

ID., Re-forming capitalism, OUP, 2009, cap. I.

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minaccia agli assetti del diritto del lavoro e al suo stesso statutofondativo.

E in questi periodi che i cultori delle nostre materie si interro-gano, non solo in Italia, sulla loro capacita di resistere alle mi-nacce della crisi e dalla colonizzazione da parte di un’economia indifficolta. In questa analisi considero insieme il sistema del dirittodel lavoro e del welfare pubblico in stretta relazione con le rela-zioni industriali, perche nel nostro ordinamento, come nella mag-gior parte di quelli europei, questi sistemi di regolazione dei rap-porti di lavoro si sono sviluppati parallelamente. Il primo, di ori-gine statale, ha fornito il quadro di sostegno o di controllo entro ilquale le relazioni industriali si sono svolte. La rete di rapporti edi accordi fra le parti collettive ha completato e spesso precedutola formazione del diritto legale.

Sulle sorti di questi due sistemi si interrogano anche i socio-logi e i politologi, perche, dato il ruolo chiave delle istituzioni dellavoro e delle relazioni industriali nel compromesso sociale che haretto per un secolo il capitalismo e le socialdemocrazie moderne,l’esito della sfida tra economia e lavoro ha assunto una rilevanzaaltrettanto importante nelle vicende delle istituzioni democrati-che e pluraliste e nelle ‘‘varieta del capitalismo’’.

L’illusione che sotto il ‘‘capitalismo democratizzato’’ i dirittisociali potessero essere estesi in maniera indefinita, ancorche gra-duale, con il sostegno dello Stato e con l’accettazione delle im-prese, anch’esse appoggiate da risorse pubbliche (4), comincio adiradarsi gia nella seconda meta degli anni ’70, a seguito della cd.crisi del petrolio del 1973; perche questa mise in dubbio la capa-cita del sistema pubblico e privato di garantire stabilmente unacrescita elevata e quindi una spartizione concordata, ritenutaequa e sostenibile, delle sue risorse (5).

(4) Cosı ancora W. STREECK, Le relazioni industriali oggi, cit., p. 256, che ricorda le

aspettative di allora di una ‘‘irreversibile addizione di diritti sociali’’.

(5) L’esperienza dei patti sociali, dei loro meriti e demeriti, diffusa specie nei paesi

europei, e uno degli argomenti piu discussi non solo dai giuristi, ma dai cultori delle Rela-

zioni Industriali, sociologi ed economisti, a riprova della loro importanza come parte del

modello sociale europeo e piu in generale delle varieta di capitalismo organizzato e delle

aspettative in essi riposte da molti dei suoi sostenitori: nella vastissima letteratura in argo-

mento rinvio, per tutti, anche per prospettive diverse, M. REGINI, L’Europa fra deregola-zione e patti sociali, in SM, 1999, p. 3 ss. e T. TREU, Concertazione, in Diritto del lavoro, a

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I patti sociali reiteratisi negli anni successivi all’insegna delcorporativismo democratico, specie in momenti di crisi, costitui-scono uno strumento variamente utilizzato nei paesi europei perridefinire i termini del compromesso e per stabilizzarlo nellenuove e difficili condizioni economiche. Non a caso quasi tuttiquesti patti hanno introdotto importanti modifiche negli assiportanti degli ordinamenti del lavoro e delle Relazioni Indu-striali: in primis il superamento degli automatismi salariali, di-venuti insostenibili senza una crescita economica continua; poila introduzione delle flessibilita, variamente regolate, dei rap-porti e del mercato del lavoro; e ancora la revisione della con-trattazione collettiva nazionale, propria delle relazioni indu-striali piu consolidate, in direzione di un decentramento sia purcontrollato.

Il successo relativo di questi patti e delle politiche di mode-razione salariale doveva avere come prezzo il riconoscimento aisindacati ‘‘concertativi’’ di contropartite, specie di partecipa-zione alle istituzioni, e la attribuzione ai lavoratori (quelli sta-bili) di benefici di welfare variamente diffusi a seconda delletradizioni del paese. Il che comportava la crescita dei costi acarico delle finanze pubbliche e in parte anche dei datori di la-voro e dei lavoratori occupati. Tali esperienze di stabilizzazionedovevano rivelarsi di breve durata e incapaci di evitare il ri-torno di crisi periodiche, perche i loro costi indebolivano le pos-sibilita dello Stato di finanziare la crescita e lo scambio corpora-tivo, e perche la concertazione non riusciva a incidere sui mo-tivi strutturali delle crisi interni alle dinamiche dell’economiacapitalista.

D’altra parte le esperienze e la stessa idea di compromessoneo corporativo dovevano perdere terreno a fronte dell’offensivaideale e politica dei governi liberisti insediatisi in alcune econo-mie avanzate, che si sono impegnati in un processo di ridimen-sionamento, se non di smantellamento delle istituzioni del lavororicevute dalla tradizione socialdemocratica. Le politiche di libe-ralizzazione hanno inciso sia sugli ordinamenti nazionali del la-voro, con diversa intensita a seconda della ‘‘resistenza’’ delle

cura di P. Lambertucci, Giuffre, Milano, 2010, p. 75-90; G. GIUGNI, La lunga marcia dellaconcertazione, Mulino, Bologna, 2003.

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loro istituzioni, sia sulle politiche sociali della Comunita europea.Proprio allora, a partire dalla fine del secolo, l’armonizzazionenel progresso, sostenuta in Europa dal forte protagonismo nor-mativo delle direttive dei ‘‘Trenta gloriosi’’, doveva cedere ilpasso a interventi meno precettivi, destinati ad approdare allostrumento, tuttora prevalente, del metodo aperto di coordina-mento (6).

2. Il cambiamento del ‘‘campo di gioco’’ e la crisi: il diritto del la-voro alla prova della competitivita.

Nello stesso periodo dovevano intervenire altri fattori decisivinel determinare il rapporto fra diritto del lavoro ed economia:l’accelerarsi delle innovazioni tecnologiche dotate di un impattopervasivo sulle strutture produttive come sulla quantita e qualitadei lavori; l’apertura progressiva del mercato globale, che dovevaallargare il ‘‘campo di gioco’’ dove si decidevano le politiche e sistabilivano le regole dell’economia, della finanza e quindi del la-voro. L’operare di questi due fattori, fra loro connessi, e pene-trato cosı in profondita nelle strutture economiche e sociali deinostri paesi da non essere ancora completamente percepita dagliattori nazionali, pubblici e privati, ed invero da non aver ancoraespresso tutte le sue implicazioni.

Anche i piu attenti di questi attori, abituati alle regole del la-voro elaborate nel contesto fordista basato su logiche lineari euniformi, trovano difficolta a ripensare tali regole in funzione dellavoro diversificato e volatile e dell’impresa rete che sono caratte-ristici delle economie terziarie informatizzate. Queste difficolta siacuiscono quando la ricerca di regole adatte alla nuova realta eco-nomica non si puo piu svolgere nei tradizionali confini nazionali,tenendo conto delle dinamiche degli attori, privati e pubblici, deisingoli Stati, ma deve confrontarsi con uno spazio sovranazionalesempre piu invasivo e ignaro delle regole storiche dei paesi avan-zati.

(6) Su queste vicende, anche per ulteriori informazioni, rinvio a M. ROCCELLA, T.

TREU, Diritto del lavoro nell’Unione Europea, 6a ed., Padova, Cedam, 2012, p. 22 ss.

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Questo cambiamento del campo di gioco e il fattore di mag-giore discontinuita con la tradizione degli ordinamenti del lavoro,piu legati di altre aree del diritto ai confini nazionali.

Tale discontinuita e le criticita conseguenti si rivelano scon-volgenti per gli equilibri della nostra materia. Gli istituti fonda-mentali del diritto del lavoro e delle relazioni industriali — dallalegge ai contratti collettivi — costruiti per regolare la concorrenzanei mercati nazionali e proteggerne i protagonisti, sono progressi-vamente spiazzati per il fatto che la concorrenza supera le bar-riere dei singoli Stati.

Tale spiazzamento e visibile gia al torno del secolo, quandole economie europee sono rallentate, ma ancora in crescita. Lacrisi aggrava ma non causa le difficolta. Ed e altrettanto rile-vante che le difficolta cominciano a crescere prima dell’entratain vigore del sistema monetario europeo, quando gli ordina-menti nazionali godono ancora di una relativa autonomia deci-sionale e quindi di una qualche protezione dagli shock esterni.Infatti la pressione competitiva esterna opera comunque sulleeconomie europee, acuendo la concorrenza di costi e di produtti-vita fra i sistemi dei diversi paesi della comunita, di cui le rela-zioni industriali, il diritto del lavoro e il welfare sono parte inte-grante.

Il superamento della dimensione nazionale della nostra ma-teria non solo ne indebolisce le strutture regolative, ma nemette in discussione le stesse funzioni. Spinge il diritto del la-voro e le relazioni industriali a occuparsi della competitivita e amisurare la convergenza fra regole del lavoro e parametri di effi-cienza dei singoli sistemi nazionali nei confronti di quelli concor-renti (7).

La rottura dei confini dello Stato nazione pesa analogamentesull’equilibrio delle relazioni industriali, in quanto impedisce‘‘quel gioco di scambi e concessioni (che) riusciva quasi sempre a

(7) M.R. PINERO, La grave crisi del diritto del lavoro, cit., p. 3 ss.; cosı anche W.

STREECK, Le Relazioni Industriali oggi, cit., p. 261. Il problema della ‘‘compatibilita’’

non e assente nelle elaborazioni teoriche, ma se non e eluso come nelle posizioni estreme

del ‘‘salario variabile indipendente’’, e ritenuto risolvibile all’interno dell’ipotesi della

crescita continua, senza quei traumi resi palesi dalla crisi scoppiata alla fine dell’eta del-

l’oro.

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garantire risultati virtuosi e (ove) gli attori collettivi, specie quellidi tipo encompassing riuscivano a ritrovare soddisfazione ai pro-pri ordini di preferenze o di aspettative’’ (8).

Le implicazioni sono piu vaste, perche possono incidere sul-l’insieme degli equilibri della democrazia pluralista, se e vero cheforti organizzazioni sociali autonome ‘‘sono necessarie per il fun-zionamento del processo democratico stesso, e per la riduzione delpotere coercitivo del governo’’ e che i loro ‘‘processi di negozia-zione e di compromesso sono il meccanismo che ha quasi sempreimpedito la frammentazione del sistema pluralista da parte deigruppi in competizione e l’insorgere di conflitti generalizzati e de-vastanti’’ (9).

Anche gli effetti della crisi economica sono enfatizzati dainuovi contesti della competitivita globale, che permettono alle lo-giche di mercato di operare slegate dalle istituzioni politiche e so-ciali che le hanno finora regolate (embedded). La gravita e il pro-pagarsi, tuttora senza esiti prevedibili, della crisi attuale ne sonouna conferma drammatica.

Il rilievo dell’allargamento del campo di gioco oltre i confininazionali, dove il diritto del lavoro e le relazioni industriali sonostati costruiti, e riconosciuto da tempo, come pure la conseguenzache le risorse per affrontare la crisi in atto, non solo delle regoledel lavoro, ma dell’economia e della societa nel suo complesso,sono sempre piu bisognose di ‘‘ossigeno sovranazionale’’ (10).

Ma le interpretazioni di questo ampliamento dei confini sui si-stemi nazionali di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, eper altro verso sull’intera costruzione sociale europea, sono ancorastraordinariamente incerte.

Le incertezze riguardano non solo l’impatto della globaliz-zazione su singoli aspetti della regolazione, sui vari settori delsistema produttivo e sulle aree sociali piu esposte alla crisi, male sorti complessive delle istituzioni del lavoro negli ordina-

(8) G.P. CELLA, Mercato senza pluralismo. Relazioni Industriali ed assetti liberal-de-mocratici, relazione al convegno nazionale AIS.ELO, Universita della Calabria, 27/28 set-

tembre 2012.

(9) G.P. CELLA, Mercato senza pluralismo, cit.

(10) M. CARRIERI, T. TREU, Introduzione, in M. CARRIERI, T. TREU (a cura), Versonuove relazioni industriali, Mulino, ASTRID, 2013, in corso di pubblicazione.

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menti capitalistici e quindi la caratterizzazione essenziale diquesti (11).

3. La rilevanza dello ‘‘spazio’’ europeo e il dibattito sulle varieta dicapitalismo.

La questione si pone in una dimensione mondiale, come sonoi fattori che l’hanno determinata, ma assume caratteri specificinei paesi europei, sia per la rilevanza centrale che il diritto del la-voro e le relazioni industriali e, in generale, i sistemi di welfare,hanno assunto nel modello sociale europeo rispetto ad altre va-rieta di capitalismo, sia perche la soluzione deve tener conto, oltreche delle capacita di resistenza dei singoli paesi, della rete di isti-tuzioni sviluppate in oltre sessanta anni dalla Comunita e dall’U-nione.

La costruzione sociale e istituzionale attivata in Europa confi-gura il primo ordinamento sovranazionale, sia pure parziale, ela-borato in uno spazio intermedio fra gli Stati nazione e il lontanoorizzonte globale: un ordinamento che presenta tratti comuni, fa-voriti da una relativa somiglianza delle istituzioni del diritto dellavoro e delle relazioni industriali dei paesi fondatori della comu-nita. Si tratta quindi di un test di resistenza/adattamento di que-ste istituzioni alla crisi senza riscontro in altre aree del mercatoglobale. Le macroregioni non europee, anche quando sono interes-sate a patti e regole comuni, non hanno ancora esteso tali regolealle istituzioni e ai rapporti del lavoro, i quali dunque si misuranodirettamente con il mercato globale, con il solo fragile diaframmadelle convenzioni dell’ILO (12).

Il dibattito sulle tendenze dei sistemi di diritto del lavoro edelle relazioni industriali in un contesto di globalizzazione e ora

(11) Le implicazioni di tale ampliamento dei confine per l’equilibrio e il funziona-

mento dei sistemi pluralisti e della stessa democrazia, sono ben illustrate in G.P. CELLA,

Mercato senza pluralismo, cit.

(12) Su questi aspetti cfr. B. HEPPLE, Diritto del lavoro, diseguaglianze e commercioglobale, in GDLRI, 2003, p. 27 ss.; v. A. PERULLI, Diritto del lavoro e globalizzazione, Pa-

dova, Cedam, 1999; F. ONIDA, 2009, Standard sociali e del lavoro nella rule of law internazio-nale, in G. AMATO (a cura), Governare l’economia globale nella crisi e oltre la crisi, Roma,

Passigli, p. 215 ss.

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di crisi, si collega a quello generale sulle varieta del capitalismoe sulla convergenza o divergenza fra i modelli istituzionali edeconomici dei diversi paesi. Le tendenze riscontrate negli ordina-menti nazionali del lavoro costituiscono un elemento crucialeper valutare gli andamenti delle varieta di capitalismo, a con-ferma delle centralita delle istituzioni del lavoro, non solo inEuropa.

Le valutazioni tradizionali, prevalentemente improntate a uncerto ottimismo circa la specificita dei sistemi nazionali e circa laloro convergenza nel progresso, stanno cedendo il passo a posi-zioni alquanto diversificate. Come si e detto, gli osservatori oscil-lano fra un moderato ottimismo e un moderato pessimismo (13).Non mancano autori che segnalano la perdita di rilevanza se nonla dissoluzione dei modelli nazionali, sotto la pressione della con-correnza e della crisi globale.

Dal che si traggono conseguenze non univoche: il prodursi didualismi fra i sistemi dotati di diversa capacita di resistenza/rea-zione a tali pressioni, ovvero il profilarsi di una convergenza delleistituzioni e dei capitalismi nazionali in senso neoliberale (14).

Un cenno va fatto alla questione generale riguardante le di-namiche di trasformazione delle istituzioni nelle economie avan-zate, questione anch’essa controversa, la cui attualita e acutiz-zata dalle pressioni esercitate dalla crisi sui vari modelli di capita-lismo, compresa la variante delle ‘‘economie coordinate di mer-cato’’.

Ricerche recenti hanno fornito indicazioni per individuare ledirezioni di cambiamento delle istituzioni prodotte non solo dashock esterni, ma anche da sollecitazioni interne e per verificarele condizioni alle quali i cambiamenti interni si producono e pos-sono diventare ‘‘cumulativamente trasformativi’’, anche se non

(13) M. FERRERA, From neoliberism to liberal neo welfarism?, Centro Einaudi, Wor-

king Paper, LPF, 2, 2012.

(14) L. BACCARO, C. HOWELL, Il cambiamento delle relazioni industriali nel capitali-smo avanzato: una traiettoria comune in direzione neoliberista, in M. CARRIERI, T. TREU,

Verso nuove relazioni industriali, cit., in corso di pubblicazione; cfr. per un’analisi scettica

sulla capacita dell’Europa di controllare le spinte divaricanti indotte dalla concorrenza, W.

STREECK, Il modello sociale europeo: dalla redistribuzione alla solidarieta competitiva, in SM,

2000, p. 3 ss.; v. anche F. SCHARPF, The European social model: coping with the challenge ofdiversity, in JCMS, 2002, p. 663.

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espressi in discontinuita improvvise. Tali indicazioni intendonocorreggere alcuni aspetti, ritenuti troppo ‘‘statici’’, delle tesi tra-dizionali sulle varieta di capitalismo (15).

Anche coloro che continuano a confidare nella capacita delleistituzioni e degli attori nazionali di determinare le regole del la-voro e i modelli sociali, pur a fronte degli accresciuti vincoliesterni, riconoscono che l’autonomia dei sistemi nazionali e sotto-posta a una forte erosione dalla pressione dagli stessi fattoriesterni. Ne traggono la conseguenza che tale pressione puo con-durre al declino delle relazioni industriali, come le abbiamo cono-sciute, all’indebolimento degli istituti di tutela del lavoro e alla ri-duzione del welfare costruito nel secolo scorso; a meno che le isti-tuzioni e gli attori nazionali non siano sostenuti, o in prospettivasostituiti, da forti sponde sociali e istituzionali collocate allo stessolivello sovranazionale (16).

Queste valutazioni, applicate agli ordinamenti dei paesi euro-pei, presentano connotazioni particolari per il fatto che l’impattodella globalizzazione e della crisi sui singoli sistemi nazionali, in-contra, o dovrebbe incontrare, lo schermo dell’ordinamento co-munitario.

La rilevanza di questo schermo ordinamentale e legata alle vi-cende della costruzione sociale europea e risente quindi della suacontrastata evoluzione. I vincoli indotti dai fattori citati — glo-balizzazione e crisi — hanno cambiato in radice la funzione del-l’acquis communautaire e delle istituzioni europee del lavoro in

(15) Cfr. W. STREECK e K. THELEN, Introduction, in Institutional change in advancedpolitical economies, in W. STREECK, K. THELEN Ed., Beyond Continuity: Institutional changein advanced political economies, OUP, 2005, p. 1-39; piu di recente K. THELEN, Institutionalchange in advanced political economies, BJIR, 2009, p. 471 ss.; C. HOWELL-R. KOLINS GI-

VAN, Rethinking institutions and institutional change in European Ind. Rel., BJIR, 2011,

p. 231-255; nonche W. STREECK, Reforming capitalism, 2010, p. 9 ss.; il quale sulla base di

premesse simili ritiene fuorvianti o limitative le impostazioni correnti sulla convergenza/di-

vergenza fra modelli, in particolare fra sistemi europei del lavoro e delle Relazioni Indu-

striali. A queste posizioni si riferisce anche M. HEIDENREICH, The open method of coordina-tion, in M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN (eds.), Changing European employment and welfare regi-mes. The influence of the open method of coordination on National reforms, Routledge, Lon-

don, N.Y., 2009, nella sua analisi dell’impatto dell’OMC sul cambiamento istituzionale (p.

10 ss.)

(16) Cfr. ad es. BRYSON-EBBINGHAUS-VISSER, Introduction: causes, conseguences andcures of Union decline, in European Journal of Rel. Ind., 2011, 17 (2), p. 171-187.

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questa materia. Non e piu in gioco tanto o solo la capacita di ar-monizzare sistemi nazionali fra loro relativamente autonomi in di-rezione di comuni buone pratiche, ma la capacita di mantenereorientamenti propri in un confronto inedito con modelli econo-mico/sociali diversi, e con la pressione della concorrenza globale.

L’ipotesi sottesa alla costruzione europea fin dall’inizio, e raf-forzata dopo l’avvio del mercato unico e dell’Euro, era che la cre-scente integrazione economica avrebbe permesso all’area comuni-taria di mantenere alta la sua capacita competitiva nell’arena in-ternazionale e per questa via di sostenere il proprio sistema di di-ritto del lavoro e di welfare e di proteggerlo dagli shockesterni (17). Senonche l’ipotesi che fidava nelle ricadute anche so-cialmente positive dell’integrazione economica, quale che ne fosseil fondamento originario, e stata sottoposta allo stesso test di resi-stenza cui sono soggetti i singoli sistemi nazionali. E, come si ve-dra subito, l’andamento del test a livello europeo, presenta ele-menti di incertezza non minori di quelli che circondano le vicendenazionali.

Un punto rilevante per il nostro discorso sta nella specificitadell’ordinamento sociale europeo: per un verso a motivo della in-completezza delle istituzioni del lavoro del welfare e delle relazioniindustriali, che presentano diversi gradi di integrazione e sovrap-posizione rispetto ai diritti nazionali; per altro verso per la asim-metria originaria fra la dimensione sociale e la dimensione econo-mica dell’Unione, che fanno capo a ordini diversi di competenze edi politiche.

4. Le asimmetrie delle istituzioni europee: le debolezze della regola-zione legale e collettiva.

Questa asimmetria rispecchia com’e noto la distinzione fraautonomia regolatrice degli Stati in materia sociale e competenzeeuropee per l’integrazione nella sfera del mercato. Tale distinzioneche e stata ritenuta utile, con largo consenso, dalle posizioni ‘‘eu-

(17) Il rilievo e comune e l’ipotesi si fonda su indicazioni degli stessi trattati fonda-

tivi europei; v. da ultimo A. HEMERIJCK, Changing welfare States, 2012, OUP, p. 74 ss.; e

W. STREECK, Le relazioni industriali oggi, cit., p. 255 ss., ID., Neovoluntarism: a new Euro-pean social policy regime?, in European law journal, 1995, p. 31 ss.

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ropeiste’’, non ha impedito il riprodursi e di influenze reciprochesecondo la peculiarita dell’ordinamento plurilivello. Da una partele politiche comunitarie si sono orientate con vari strumenti al-l’armonizzazione (nel progresso) dei sistemi sociali nazionali, dal-l’altra le politiche di liberalizzazione perseguite dalle istituzionidell’Unione e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia hannoinciso in senso variamente restrittivo sugli assetti sociali dei sin-goli paesi.

La rilevanza e il segno di questi influssi reciproci sono oggettodi valutazioni diverse che corrispondono a contrastanti giudizicomplessivi della costruzione europea. L’indebolirsi della spintacomunitaria all’armonizzazione sociale, con la crescente influenzadelle logiche di mercato, ha portato secondo alcuni a una ‘‘inva-denza’’ di queste, con effetti limitativi nell’autonomia dei sistemisociali: ha condotto questi autori se non a rimpiangere la vecchialogica della separazione, certo a sottolinearne piu i rischi che gliaspetti virtuosi.

In realta la costruzione risente di spinte contrastanti, che agi-scono a livello sia comunitario sia nazionale con esiti diversi, cherisentono dei variabili equilibri, politici e sociali, interni edesterni, della Unione e che dipendono dalle strutture dei campinazionali. Una valutazione complessiva della costruzione europea,che non assolutizzi singoli elementi anche importanti, come fannogli autori piu critici, o ‘‘pessimisti’’ (18), sul futuro dell’Europa so-

(18) Cfr. S. GIUBBONI, Cittadinanza, lavoro, e diritti sociali nella crisi europea, ver-

sione italiana della relazione al convegno European Citirenship, twenty years on, Uppsala,

21-22 marzo 2013; L’A. da un rilievo decisivo al ‘‘quartetto’’ di decisioni della Corte di giu-

stizia sui diritti collettivi, che avrebbe capovolto l’equilibrio originario dei rapporti fra uni-

ficazione dei mercati e autonomia dei sistemi sociali nazionali; anzi che avrebbe segnato il

passaggio da una concezione orto liberale a una visione neoclassica del mercato interno, (ci-

tando in proposito S. DEAKIN, The Lisbon Treaty, the Viking and Laval judgement and thefinancial crisis: in the search of New Foundations for Europe’s social market economy, in N.

BRUUN et al. (eds.), The Lisbon Treaty and social Europe, Oxford-Portland (Oregon), Hart

Publ., 2012, p. 19-21 ss.; e vedi anche S. GIUBBONI, A. LO FARO, Crisi finanziaria, gover-nance economica europea e riforme nazionali del lavoro: quale connessione?, in Nuove regoledopo la legge 92/102 di riforma del mercato del lavoro, competizione versus - garanzie?, Giappi-

chelli, 2013, p. 44. In realta, come si dira oltre, tali decisioni non hanno un impatto cosı

drastico sull’autonomia decisionale degli Stati; inoltre ad esse gli autori attribuiscono una

rilevanza eccessiva che fa perdere di vista l’equilibrio complessivo del sistema comunitario

e la resilience dei suoi assetti sociali; tanto piu di quelli caratteristici dei paesi del contro-

nord Europa, dove l’economia sociale di mercato e piu radicata.

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ciale non avvalora la conclusione di un inevitabile prevalere dellelogiche di mercato, tollerate se non avallate, dalle istituzioni del-l’Unione, con la marginalizzazione dell’agenda sociale. Segnalanopiuttosto come le diverse politiche europee non siano state privedi incidenza sui modelli sociali nazionali, portando a forme diffusedi ibridazione positiva fra gli stessi, ancorche con esiti alterni, indipendenza di fattori sempre provvisori, in quanto oggetto dicontesa politica e sociale.

Nonostante la variabilita dei rapporti fra questi diversiaspetti dell’integrazione europea e un fatto che la richiamataasimmetria (19) non e stata formalmente superata, perche, anchedopo le modifiche recenti dei Trattati, le competenze dell’unionein materia sociale sono rimaste limitate ed espresse per lo piu tra-mite le varie forme di coordinamento. Si tratta di un assetto isti-tuzionale che ha influito non poco — anche a non volerlo soprav-valutare — sugli assetti sociali degli stati membri e sulle loro ten-denze alla convergenza/divergenza. Tanto piu che l’effettivita de-gli interventi e stata affidata ai variabili equilibri realizzabiliall’interno delle istituzioni comunitarie e spesso al margine di que-ste. La variabilita, come vedremo, e evidente in molti aspetti

(19) Per un’analisi fortemente critica sull’andamento e sugli esiti di questa asimme-

tria e dell’integrazione europea ‘‘through law’’, vedi in particolare F. SCHARPF, The asim-metry of European integration, or why the EU cannot be a ‘‘social market economy’’, in SocioEconomic Review, 2010, 8, p. 211 ss. L’A., in risposta alle critiche rivoltegli di determini-

smo, precisa che il suo intendimento e di rendere gli attori impegnati per l’europeizzazione

piu consapevoli degli ostacoli strutturali da superare se vogliono creare una economia so-

ciale di mercato a livello europeo, e di dare argomenti per difendere i sistemi dei paesi cen-

tro-nord europei dove questa economia si e affermata, dalle tendenze liberalizzatrici in-

dotte soprattutto dalle tendenze della Corte di giustizia. L’A. sottolinea anche il ruolo delle

Corti Cost. nazionali, specie quella tedesca, nel difendere gi elementi centrali dell’identita

costituzionale del proprio paese (p. 242), ma denuncia il rischio che simili difese nazionali

portino a forme di integrazione differenziate all’interno dell’Unione fino a possibili ‘‘unila-

teral National opt-outs’’. Scharpf ritiene che tale rischio possa contrastarsi con procedure

atte a facilitare ‘‘the mutual accomodation of European and National concern’’, basata

sulla possibilita dei governi dell’Unione di appellarsi ai loro pari nel Consiglio europeo,

qualora il diritto comunitario possa pregiudicare ‘‘politically salient National concerns’’.

Egli propone giustamente una procedura intergovernativa piuttosto che giudiziaria, come

ipotizzato da altri, ma mentre e pessimista sulla possibilita di intese volte a promuovere

una economia sociale di mercato a livello europeo, ritiene piu plausibili accordi limitati a

iniziativa degli Stati interessati a difendere il nucleo di un simile sistema a livello nazio-

nale.

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della nostra materia; ad es. il processo di integrazione dell’ordina-mento europeo ha registrato progressi maggiori in alcune aree deldiritto individuale del lavoro, investendo poco o nulla l’area deidiritti collettivi e del welfare (20).

Inoltre la trama e l’efficacia regolativa delle regole comunita-rie sono diverse da quelle dei diritti nazionali con cui le analisicomparate sono avvezze a misurarsi. I limiti, o l’autolimitazione,delle competenze comunitarie in materia sociale e del lavoro,scritte nei Trattati e tuttora presenti, hanno privato l’ordina-mento europeo di quell’efficacia diretta e inderogabile che carat-terizza i diritti del lavoro nazionali.

Anche lo strumento della direttiva, piu vicino alla nostrahard law, richiede di essere trasposto negli ordinamenti nazionalicon margini di adattabilita piu o meno ampi, lasciati alle sceltedei vari legislatori, solo parzialmente controllate dalla controversaportata delle clausole di non regresso. Talora le maglie normativesono state lasciate volutamente larghe, specie nelle direttive piurecenti, che risentono delle difficolta delle mediazioni intergover-native e della spinta verso forme di regolazione leggera, che nonrisparmia la costruzione sociale europea (21).

Lo si sta verificando negli ultimi anni, anche prima della crisiattuale, in cui, come vedremo, la pressione proveniente dall’e-sterno e per cosı dire internalizzata nelle decisioni europee. Il cheavviene specie nelle materie economico-finanziarie per il tramitedi atti intergovernativi, quasi al margine delle procedure comuni-

(20) Cfr. per specificazioni e commenti: M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavorodella Comunita Europea, cit., p. 22 ss.

(21) M. BARBERA, Diritti sociali e crisi del costituzionalismo europeo, in WPCSDLEM. D’Antona, int. 95/2012, p. 4, rileva peraltro che ‘‘quando sono in opera norme di carat-

tere hard, sia pure nella forma di principi generali e diritti fondamentali, i vincoli alle deci-

sioni pubbliche e private sono stringenti’’. La fiducia nell’efficacia di un catalogo dei diritti

fondamentali, ancorche riconosciuti a livello di Trattato, come e oggi sull’ordinamento eu-

ropeo, va peraltro sottoposta a verifica. In particolare circa la possibilita che essa serva a

stabilire una garanzia minima ai diritti sociali nazionali, o in prospettiva diritti sociali co-

muni, di cui parla M. BARBERA (op. ult. cit.). La verifica e ad esito incerto, tanto piu per-

che, in mancanza di politiche specifiche ai livelli nazionali e comunitari che diano corpo a

tali diritti, la loro effettivita resta affidata ai soli giudici, con tutte le indeterminatezze

della mediazione giudiziaria, di cui soprattutto il diritto europeo collettivo sta soffrendo

(v. oltre); v. S. SCIARRA, Trusting judges to deliver changes: the EU and Labor Law, Jean

Monnet Work. Papers, n. 1/08.

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tarie, che incidono indirettamente ma pesantemente sulle deci-sioni degli Stati nazionali anche in materie come quelle del lavoroformalmente al di fuori delle competenze dell’Unione: su questotorneremo.

La rilevanza dell’ordinamento europeo per i diritti nazionali edi apprezzamento ancora piu incerto, quando l’intervento siesprime non in atti normativi in senso proprio, sia pure a maglielarghe, come le direttive di ultima generazione, bensı nella formadel metodo di coordinamento per obiettivi, che si concreta nelleforme tipiche della soft law, ossia nell’adozione di atti non vinco-lanti variamente configurati: linee guida, individuazione dibenchmark per la misurazione delle performance nazionali, pro-mozione e trasferimento di buone pratiche, con la sorveglianzamultilaterale dei governi nazionali (peer review); nonche, come sista riscontrando di recente soprattutto nelle materie finanziarie edi bilancio, attraverso azioni dissuasive verso gli Stati che si di-scostino dagli orientamenti comunitari.

L’efficacia del MAC e stata fin dall’inizio ed e tuttora contro-versa (22). Su questo tornero per vari aspetti specifici. La applica-

(22) Questo strumento comunitario, originariamente riferito alle politiche dell’occu-

pazione (nel Trattato di Amsterdam del 1997), e stato esteso nel Consiglio Europeo di Li-

sbona del 2000, dove ha ricevuto il nome di metodo aperto di coordinamento (MAC) e ha

acquisito il carattere di strumento generale per attuare l’impegnativa Agenda sociale ivi

varata, comprensiva non solo di materie tipiche del diritto di lavoro ma anche delle mag-

giori aree di politica sociale, dalla sicurezza sociale alla lotta all’esclusione e alla poverta,

all’istruzione, sanita e immigrazione. Per diversi orientamenti v. gli scritti raccolti in M.

BARBERA (a cura), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politi-che sociali, Milano, Giuffre, 2006; M. PALLINI e B. VENEZIANI in AA.VV., Costituzione euro-pea: quale futuro? cit.; A. HEMERIJCK, Come cambia il modello sociale europeo, in SM, 2002,

p. 225 ss.; nonche B. CARUSO, Il diritto del lavoro fra hard e soft law: nuove funzioni e nuovetecniche normative, in WP.C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, INT - 39/2005; C. KILPATRICK,

New EU Employment governance and constitutionalism, in G. DE BURCA e J. SCOTT (eds.),

Law and New Governance in the Eu and the US, Oxford, Hart Publ., 2006, p. 121 ss.; J. VIS-

SER, Recent trends and persistent variations in Europe’s industrial relations, ww.ser.nl.,Dutch social and economic council, 2004; S. SCIARRA, Is flexicurity a European policy?, in

G. BRONZINI et al. (a cura), Le scommesse dell’Europa. Diritti, istituzioni, politiche, Roma,

Ediesse, 2009, p. 293 ss.; M. HEIDENREICH, J. ZETLIN ed., Changing European employmentand welfare regimes. The influence of the open method of coordination on National reforms,

Routledge, London, N.Y., 2009, e ivi specialmente i contributi di J. Zeitlin, p. 214 ss. e di

M. Heidenreich, p. 10 ss.; A. HEMERIJCK, Changing welfare States, OUP, Oxford, 2012,

p. 312 ss., 329 ss.

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zione, via via estesa e piu volte adattata, del MAC riflette la diffi-colta dell’Europa sociale di concordare regole comuni; tali diffi-colta sono enfatizzate dalle pressioni esterne, che operano diversa-mente e in modo mutevole sui singoli sistemi nazionali.

Ma per cio stesso l’uso del MAC puo indebolire le difese versotali pressioni, che una vera ‘‘europeizzazione’’ delle regole e dellepolitiche sociali avrebbe potuto fornire ai singoli Stati; e facilitala adozione di forme di ‘‘regime competition’’ fra gli Stati utiliz-zate da queste come difesa dalla concorrenza internazionale edalla crisi (23).

Anche per questo le valutazioni sopra ricordate circa le granditendenze dei sistemi sociali nei paesi avanzati, attribuisconospesso scarsa o nulla rilevanza alla incidenza correttiva di tali ten-denze da parte dell’ordinamento europeo, specie nelle ricostru-zioni che enfatizzano la convergenza di questi sistemi in senso neoliberale.

Anche gli autori convinti che l’Unione Europea possa offriresoluzioni ottimali allo spazio sociale oltre che a quello economico,segnalano la urgenza di un maggiore impegno delle istituzioni perdare corpo a tali opportunita. Dopo cinque anni di crisi non e suf-ficiente rilevare l’inefficacia delle politiche liberiste nel proteggerei cittadini europei dagli effetti della stessa, per riconquistare laloro fiducia, se tale denuncia non si accompagna con il rinnova-mento dei sistemi di welfare e con visioni positive sul futuro del-l’Europa sociale.

Prima di passare oltre, va rilevato che l’indebolirsi degli inter-venti dell’Unione Europea nel passaggio dalle direttive cogenti al

(23) Cfr. M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavoro, cit., p. 25, ove si rileva che il ri-

schio e tanto piu grave in quanto la fragile trama del MAC non e aperta a verifiche demo-

cratiche e poco esposta anche a confronti fra le parti sociali, ne e sostenuta da orienta-

menti condivisi sulle priorita delle politiche sociali ed economiche europee. Cosı M. BAR-

BERA, Introduzione, a M. BARBERA (a cura), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto dicoordinamento delle politiche sociali, Giuffre, Milano, 2006, p. 6. Tale rischio e aggravato

dalla mancanza di orientamenti europei di integrazione positiva e dal forte rilievo del prin-

cipio di concorrenza. In mancanza di armonizzazione positiva, e con il forte rilievo precet-

tivo del principio di concorrenza, il mercato aperto induce un federalismo competitivo: cfr.

M. PALLINI, Il Trattato costituzionale europeo fra valenza simbolica ed efficacia giuridica, in

AA.VV., Costituzione europea: quale futuro? Roma, Ediesse, 2006, p. 126; S. GIUBBONI, Di-ritti sociali e mercato. La dimensione sociale dell’integrazione europea, Bologna, il Mulino,

2003, p. 281 ss.

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MAC e la difficolta complessiva della costruzione sociale europea,hanno inciso non solo sulla evoluzione del diritto del lavoro maanche sul sistema delle relazioni industriali.

Nonostante i limiti della armonizzazione per direttive e laventata liberista intervenuti in Europa negli anni ’80, il proto-collo sociale di Maastricht, decidendo di riconoscere la contratta-zione collettiva come strumento di regolazione dei rapporti di la-voro, dotato di rilevanza paritaria rispetto all’intervento delleautorita comunitarie, ha dotato l’ordinamento europeo di unostrumento capace di integrare le tutele legali del lavoro con laforza delle organizzazioni sociali: una soluzione istituzionale ine-dita che rappresenta a tutt’oggi la maggiore forma di sostegno co-munitario all’attivita principale delle Relazioni Industriali, ap-punto la contrattazione collettiva (24).

Il fatto e che lo sviluppo della contrattazione collettiva, ap-poggiata sulle coordinate di Maastricht, e stato esso stesso frenatodal mutato quadro legale europeo; nel senso che l’allontanarsidella minaccia di interventi normativi comunitari ha fatto veniremeno un incentivo a negoziare per le associazioni imprenditoriali,le quali avevano accettato il metodo contrattuale con le contro-parti sindacali come second best rispetto al possibile interventodelle direttive cogenti.

In questo relativo vuoto istituzionale e politico si sono potutesviluppare forme di contrattazione cd. autonoma, segno di perdu-rante vitalita degli attori collettivi specie sindacali, ma dotate diconnotazione giuridica incerta e con ricadute deboli sulla disci-plina dei rapporti di lavoro nei vari paesi (25). Cosicche l’ordina-

(24) Anche la contrattazione di diritto europeo partecipa dell’efficacia indiretta de-

gli strumenti comunitari sugli ordinamenti statali, sia che i contratti siano recepiti in diret-

tive, per cui valgono i caratteri sopra rilevati, sia che operino per forza propria, nel qual

caso la loro efficacia e affidata ai rapporti interni delle associazioni sindacali e imprendito-

riali europee, entrambe debolmente rappresentative delle costituencies nazionali. In questa

ipotesi l’efficacia e resa precaria dal diverso statuto giuridico dei contratti collettivi nei

vari paesi che la Unione non ha potuto, ne voluto, armonizzare.Cfr. da ultimo per tutti, M.

PERUZZI, L’autonomia nel dialogo sociale europeo, Bologna, Mulino, 2011; B. CARUSO, A.

ALAIMO, Il contratto collettivo nell’ordinamento dell’Unione Europea, in WPCSDLE ‘‘Mas-simo D’Antona’’, INT. 87/2011; ora in Dialogo sociale e negoziazione collettiva nell’ordine eu-ropeo, ADL, 6, 2012, 1123.

(25) Cfr. M. PERUZZI, L’autonomia, cit., p. 234 ss.; B. CARUSO, A. ALAIMO, Il contrattocollettivo, cit., p. 42 ss.; e ADL, p. 1153; S. SCIARRA, Transnational and European way for-

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mento comunitario e risultato privo di una fonte regolativa chenegli ordinamenti nazionali e stata importante, spesso decisiva,per definire le tutele e le politiche del lavoro (26). Per tale motivo‘‘il diritto comunitario e stato un diritto statalista’’, perche perlungo tempo sono mancati i presupposti materiali dell’autoregola-mentazione sociale: gli attori e gli obiettivi negoziabili in primoluogo’’. E anche lo schermo comunitario di origine contrattuale erisultato poco in grado di proteggere i sistemi nazionali, legali ecollettivi, dalle pressioni esterne della globalizzazione. Queste os-servazioni vanno tenute presenti nel valutare gli orientamenti ela-borati dall’Unione Europea nelle nostre materie, nei loro conte-nuti programmatici e nel loro impatto sugli ordinamenti nazio-nali.

5. L’influenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali: diver-genze e difficolta di valutazione.

Analisi sistematiche di questo impatto sono appena avviate esollevano questioni di metodo, ampiamente dibattute ma con esitinon conclusivi. Alcune difficolta sono comuni a ogni indaginecomparata che non si limiti a giustapporre testi normativi, mavoglia considerare la law in action. Nel caso nostro si pongonoquestioni e difficolta specifiche derivanti dal fatto che l’indagineriguarda un sistema normativo multilivello, ove l’interpretazionee applicazione dei singoli istituti comunitari deve passare per ilfiltro di ordinamenti nazionali dotati di strutture istituzionali e

ward for collective bargaining, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, INT - 73/2009, p. 20

ss.; S. GIUBBONI, M. PERUZZI, La contrattazione collettiva di livello europeo, in M. CARRIERI,

T. TREU (a cura), Astrid, cit., 2013, secondo cui queste forme di contrattazione e dialogo

sociale autonomi costituiscono un percorso parallelo al MAC. A. ALES et al., Transnationalcollective bargaining. La contrattazione collettiva transnazionale: prove di ripresa del dialogosociale in Europa, in DLRI, 2007, p. 556; A. LO FARO, La contrattazione collettiva transna-zionale: prove di ripresa del dialogo sociale in Europa, in DLRI, 2007, p. 556; S. SCIARRA,

L’Europa e il lavoro, Laterza, Bari, 2013, p. 45 ss., che peraltro valorizza le potenzialita di

queste forme di negoziazione sovranazionale per la definizione di standard comuni (v. ol-

tre), specie nel caso di mobilita transnazionale di imprese e lavoratori; e le segnala come

espressione di una ‘‘giuridificazione transnazionale’’ (p. 48).

(26) M. BARBERA, Diritti sociali e crisi del costituzionalismo europeo, in WPCSDLEM. D’Antona, Int., 35/2012, p. 2.

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normative diverse, come sono ancora quelli europei. Per di piu gliistituti del lavoro sono immersi in un contesto non solo normativoma socio-economico politico che ne influenza l’effettivita piu diquanto avvenga per altri settori del sistema giuridico (27).

Inoltre la difficolta dell’analisi e accentuata dal carattere fles-sibile e aperto, delle regole, spesso collocate a mezza via fra lenorme inderogabili e le semplici linee guida. Per altro verso, taliregole devono confrontarsi con indicazioni comunitarie di difficilelettura, sovente oscurate dalla incertezza delle competenze delleistituzioni europee, da mediazioni anche piu complesse di quellenazionali e da un non risolto intreccio fra politiche economiche epolitiche sociali.

La complessita non si e ridotta, ma al contrario accresciuta,negli ultimi anni. Alcune indicazioni comunitarie sono prese almargine se non fuori dei percorsi istituzionali, a seguito di pro-cessi decisionali intergovernativi, specie su materie finanziarie edi bilancio ma incidenti direttamente sulle vicende del lavoro.

In generale si deve rilevare che una ricerca attenta all’effetti-vita e al complesso di tali fattori richiede la disponibilita di infor-mazioni riguardanti non solo le condizioni generali del mercatodel lavoro — occupazione, disoccupazione, dinamiche del PIL edel reddito — cui si limitano di solito le analisi, ma elementi spe-cifici delle condizioni del lavoro e del welfare, di piu difficile repe-rimento.

In realta anche la conoscenza di tali fattori non risolve unaquestione metodologica di fondo, nota ai comparatisti: quella percui il riscontro di tendenze fattuali simili in diversi contesti nazio-nali non e di per se una prova che tali tendenze si producano pereffetto di un coordinamento transnazionale — in ipotesi europeo— o di qualche forma di ‘‘imitazione’’ fra pratiche di paesi di-versi, piuttosto che per reazioni convergenti dei singoli paesi allapressione di fattori esterni (28), quali ad es. il contesto economico

(27) C. BARBIER, La strategie de Lisbonne: les promesses sociales non fermes, CES WP

CNRS, Univ. Paris I, in versione italiana Riv. Polit. Soc., 2010, p. 11 ss., che esprime giu-

dizi critici sulle comunicazioni e sui bilanci della Commissione, ritenuti ‘‘fittizi’’ (p. 5) e su

molte analisi di esperti, definiti ‘‘esercizi di auto soddisfazione’’ legati a illusioni dell’au-

tore.

(28) Il punto e ben sviluppato da M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN, Introduction in Chan-ging European Employment and welfare regimes, Routledge, London-NewYork, 2009, p. 3

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e competitivo generale, che ha evidente incidenza sulle tendenzedell’occupazione e del mercato del lavoro (se ne dara conto piu ol-tre).

Inoltre la trasposizione nei sistemi nazionali di singole misure,normative o politiche, prese in ipotesi per impulso europeo, operadiversamente a seconda dei contesti istituzionali e sociali in cui lemisure operano (29). Tanto piu che nella materia del lavoro e delwelfare la circolazione delle pratiche e dei modelli nazionali o so-vranazionali non avviene per il solo tramite delle istituzioni pub-bliche e di atti normativi, ma per l’intervento di attori collettivi— sindacati e imprese — il cui ruolo nella configurazione delle re-gole e delle prassi nazionali e in Europa rilevante e spesso deci-sivo.

Anzi si e sostenuto che l’influsso piu evidente del MAC sulleriforme nazionali del lavoro si e realizzato tramite l’appropria-zione delle indicazioni europee da parte degli attori sociali dei varipaesi, non solo dentro ma oltre i relativi governi (30). Non sor-prende dunque che le analisi e i dibattiti sulla influenza del MACin ordine alle trasformazioni dei sistemi nazionali del lavoro e delwelfare diano indicazioni provvisorie e contrastanti.

ss.; M. HEIDENREICH, The open method of coordination, in M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN,

Changing european, cit., p. 135.

(29) Anche questa e una questione nota ai comparatisti. Cfr. T. TREU, Compara-zione e circolazione dei modelli nel diritto del lavoro italiano, in Studi di diritto comparato, di-

retto da M. Cappelletti, Giuffre, 1980, p. 125 ss.

(30) M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN, Introduction, cit., p. 7, gli autori ritengono anzi

che questa appropriazione sia condizione necessaria dell’efficacia del MAC; vedi anche D.

ASHIAGBOR, L’armonizzazione soft: il metodo aperto di coordinamento nella strategia europea,per l’occupazione, in M. BARBERA (a cura), Nuove forme di regolazione, cit., p. 129: l’A. ri-

leva che gli (eventuali) effetti di policy transfer del MAC hanno non solo carattere corret-

tivo cioe indotto dall’alto, ma presentano anche tratti volontari, (p. 130) e che il MAC co-

stituirebbe una ‘‘via di mezzo fra competenze regolative e piena armonizzazione; un com-

promesso fra integrazione positiva e negativa (p. 126). La connotazione del MAC come

‘‘terza via’’ e sostenuta in diverse varianti: RADAELLI, 2003, The open method of coordina-tion: a new governance architecture for the European Union?, SIEPS, www.epin.org.pdf/Ra-daelli SIEPS, Rep., 1, p. 62, la ritiene una via di mezzo fra l’armonizzazione e la coopera-

zione intergovernativa. Sulla caratterizzazione generale del MAC come forma di armoniz-

zazione riflessiva cfr. M. BARBERA, Introduzione, cit. p. 12 ss. e ID., Diritti sociali e crisi delcostituzionalismo europeo, cit., che vi vede un caso di ‘‘denormativizzazione’’ delle politiche

europee, p. 4; D. ASHIAGBOR, L’armonizzazione soft, cit., p. 123.

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Le indagini piu equilibrate propongono conclusioni ‘‘sfu-mate’’, segnalando come le prove di ‘‘direct policy tranfer’’ neivari paesi europei a seguito delle indicazioni comunitarie — coneffetti di convergenza — siano deboli, mentre risulta piu agevoleidentificare forme di collective learning (31) nonche di scambio diconoscenze e di stimoli che favoriscono forme di ‘‘ibridazione’’ re-ciproca (32).

Per altro verso si rileva sovente la presenza nei vari paesi diobiettivi e di indicazioni di policy comuni, ma che sono imple-mentati con strumenti istituzionali e collettivi diversi (33). E an-che comune l’osservazione che la diffusione e lo scambio di buonepratiche europee sono piu frequenti e hanno maggiore successo incontesti ordinamentali caratterizzati da tradizioni istituzionali esociali simili. Se ne daranno esempi significativi nella applicazionedella flexicurity e degli istituti di welfare nei diversi contesti deipaesi del centro-nord europei e in quelli mediterranei (34).

Un altro fattore rilevante riguarda la efficienza e la capacitadi innovazione delle pubbliche amministrazioni competenti a ge-stire le politiche del lavoro. La debolezza delle strutture del no-

(31) J. ZEITLIN, The OMC and reform of national social and employment policies, in

HEIDENREICH, ZEITLIN, Changing European, cit., p. 216 ss.; J. VISSER, Neither convergencenor frozen paths: bounded learning., international diffusion of reforms and the open method ofcoordination, in HEIDENREICH-ZEITLIN, Changing European, cit., p. 41; e anche M. BARBERA,

Introduzione, op. ult. cit., p. 18, che ricorda peraltro il problema della capacita di appren-

dere delle istituzioni e della ‘‘direzione’’ dell’apprendimento.

(32) J. VISSER, Neither convergence nor frozen paths: bounded learning internationaldiffusion of reforms and the OMC, in M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN, Changing European, cit.,

p. 41.

(33) A. HEMERIJCK, Changing welfare, cit., p. 40 ss., 86 ss., sottolinea che gli ordina-

menti sociali, per la loro struttura e complessita, non possono essere cambiati direttamente

per impulsi esterni e che e sempre importante la struttura dei campi nazionali. Per altro

verso, il mutual learning modifica non solo gli strumenti ma anche gli obiettivi, sulla base

di un processo interattivo: M. BARBERA, Introduzione, cit., p. 17. Secondo F. GUARRIELLO,

Le lezioni apprese dal MAC, in Lavoro, welfare e democrazia deliberativa, cit., p. 714, a cura

di E. Ales, M. Barbera, F. Guarriello, Milano, Giuffre, 2011, il MAC si e rivelato piu effi-

cace di quanto il suo grado di vincolativita facesse supporre, specie in settori politicamente

sensibili, dove le differenze nazionali precludono l’armonizzazione ma l’inazione appare

inaccettabile.

(34) V. per esemplificazioni J. ZEITLIN, The OMC, cit., p. 215 ss. Anche questa e

un’avvertenza comune rilevata dai comparatisti, v. T. TREU, Comparazione e circolazionedei modelli, cit. p. 332 ss.; e nella materia specifica, D. ASHIAGBOR, L’armonizzazione soft,cit., p. 113.

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stro paese e menzionata fra i motivi della scarsa capacita di im-plementare le indicazioni del MAC (35).

Peraltro va ricordato come la evoluzione del diritto del lavoroitaliano, in particolare di quello sindacale, nel dopoguerra abbiadato prova di una certa capacita di apprendimento da modelli edesperienze europee e anglosassoni, pur distanti dalle nostre tradi-zioni, per il tramite prevalente di una attiva mediazione culturaledei giuristi del lavoro, accolta, sia pure con fatica, dal sistema sin-dacale e politico. L’apprendimento e stato selettivo e facilitato dauna regolazione debole o carente della materia. Da questo puntodi vista si e rilevato che il carattere flessibile delle guidelines co-munitarie puo rivelarsi una condizione favorevole per la circola-zione e per l’apprendimento di pratiche simili in contesti diversi,proprio perche non impone indicazioni rigide ma permette adatta-menti flessibili e reattivi ai contesti, ai diversi social fields (36).

Resta una critica di fondo al MAC, riguardante la direzionestrategica con esso perseguibile, cioe gli obiettivi cui si ispira, chesono lungi dall’essere condivisi dagli attori sociali e istituzionalieuropei; cosicche c’e il rischio che in mancanza di chiari bench-mark sociali la convergenza perseguita dal MAC sia orientata evalutata solo alla stregua di criteri economici (37). Per lo stessomotivo il Parlamento Europeo, pur favorevole all’effetto innova-tivo del MAC, ha piu volte segnalato il rischio che esso possa ero-dere il modello sociale europeo, (Parlamento Europeo, Report onthe Commission Social Policy Agenda, A 50295/2000 final).

Queste indicazioni generali, troveranno qualche esemplifica-zione nel seguito dell’analisi. E bene sottolineare che esse vannosempre tenute presenti per valutare limiti e successi della costru-zione sociale comunitaria.

Per lo stesso motivo e opportuno il monito che la evoluzionedelle istituzioni del lavoro e le trasformazioni registrate nell’in-treccio fra impulsi comunitari e politiche nazionali tuttora deci-sive, vanno considerate nella loro complessita, senza arbitrarieimplicazioni ne nostalgie di un ‘‘paradiso perduto’’, che alcuni

(35) Cfr. J. PREUNKERT, S. ZIRRA, European ratio of domestic employment and welfareregimes: the German, French and Italian experiences, in M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN, Chan-ging European, cit., p. 204 ss.

(36) M. HEIDENREICH, The OMC, cit., p. 17 ss.

(37) D. ASHIAGBOR, L’armonizzazione soft, p. 133.

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tendono a contrapporre alla attuale ‘‘globalizzazione senzacuore’’ (38).

6. Principi e politiche sociali europee: una economia sociale dimercato?

Come vedremo, i caratteri assunti da queste istituzioni a se-guito delle riforme intervenute nel recente passato, sono rilevantianche nell’affrontare la crisi scoppiata alla fine del decennio. Que-sto e un assunto centrale nel nostro discorso; lo sosterremo, puressendo avvertiti che la novita delle sfide non garantisce che le ri-forme passate siano sufficienti ad affrontare il futuro ne ad assi-curare la tenuta delle acquisizioni sociali e civili.

Le politiche sociali europee rappresentano ormai un corpusimportante di orientamenti di varia natura — corredate di diffuseanalisi e di bilanci periodici — che e stato piu volte ridefinito:dalle indicazioni del capitolo sociale di Amsterdam del 1997 finoalle strategie di Lisbona del 2000 rivisitate nel 2004, e da ultimoalle proposte del documento Europa 2020.

Questi continui aggiustamenti rispondono a sollecitazioni di-verse, non solo al mutamento dello scenario competitivo esterno,provocato dalla globalizzazione e dalla crisi economico-finanziaria,ma anche a modifiche interne al sistema comunitario, cioe alla ac-cresciuta competizione fra i diversi ordinamenti nazionali; in par-ticolare a quella proveniente dai paesi dell’Est, le cui economie,caratterizzate da costi e condizioni di lavoro piu bassi di quelli deicomponenti storici della Comunita, sottopongono a pressioni con-tinue l’acquis comunitario. Un cambio di orientamento significa-tivo nelle politiche sociali — prima della crisi — e da molti rile-vato nella revisione della strategia di Lisbona del 2004, revisionerivelatasi sensibile a forme aggressive di flessibilita (39). Non epossibile dare conto di tutte queste evoluzioni, peraltro non an-

(38) A. Hemerijk, Changing welfare States, cit., p. 11 ss.

(39) Cfr. J.C. BARBIER, La strategie de Lisbonne, cit., p. 8 ss., che vi riscontra una

marginalizzazione delle strategie innovative degli anni ’90. Cfr. per una analisi degli indica-

tori economico-sociali europei nei primi cinque anni del processo di Lisbona, A. ATKINSON,

Le politiche sociali nella Unione Europea, L’Agenda di Lisbona, in Poverta e benessere, nuovageografia delle diseguaglianze in Italia, Ist. Cattaneo, Bologna, Mulino, 2007, p. 541 cit.

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cora esaurientemente esplorate, dato l’oggetto specifico della pre-sente analisi.

Si puo rilevare pero che tali evoluzioni delle politiche socialipresentano un quadro meno coerente delle misure europee nellospazio economico, a conferma della asimmetria tra sociale ed eco-nomico richiamata all’inizio (40).

Ma le innovazioni introdotte rispetto all’assetto tradizionaledegli ordinamenti nazionali di diritto del lavoro e anche all’acquisdella prima fase della comunita, sono indubbie, ancorche espostea verifiche e critiche. Forse e eccessivo concludere che gli ordina-menti nazionali del welfare e del lavoro sono cosı pervasi dagli in-terventi comunitari da non essere piu sovrani, ma ‘‘semi-sove-reing welfare States’’. Tuttavia si puo convenire che, nonostante ilimiti della sua competenza, l’Unione Europea e diventata un ‘‘ef-fective agent of welfare reform’’ (41).

Sezione II

Flexicurity e oltre

Qui di seguito daro conto delle innovazioni introdotte in trearee di rilievo centrali per il modello sociale europeo: gli intreccifra disciplina dei rapporti di lavoro e regolazione del mercato dellavoro, esaminati all’insegna della cd. flexicurity; le vicende dellacontrattazione collettiva e del conflitto; gli ambiti e le condizionidel welfare. Sottolineo subito come queste tre aree siano fra lorostrettamente connesse nei fatti e anche nella visione europea.Anzi proprio gli orientamenti europei e lo scambio delle buonepratiche promosso dall’Unione hanno reso visibili tali nessi. Nellamedesima direzione hanno contribuito le innovazioni introdottenell’ordinamento europeo fino a quelle sancite nel Trattato di Li-sbona.

Di queste vanno colte anzitutto le indicazioni circa gli obiet-tivi e i valori dell’Unione in materia sociale. La novita piu rile-vante sul piano dei principi, segnalata da molti, consiste nel rico-noscimento del pieno valore giuridico dei fondamentali diritti so-

(40) W. STREECK, Le relazioni industriali oggi, cit., p. 270 ss.

(41) A. HEMERIJCK, Changing welfare States, cit., p. 13.

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ciali stabiliti dalla Carta di Nizza fino ad allora provvisti di statusgiuridico incerto.

Quanto agli obiettivi, il Trattato si richiama alla formula‘‘dell’economia sociale di mercato fortemente competitiva chemira alla piena occupazione e al progresso sociale’’. La formula,che contiene un riferimento indiretto al modello tedesco, presentanon pochi margini di ambiguita, ma e rilevante in quanto sosti-tuisce il richiamo delle origini ‘‘all’economia di mercato aperto ein libera concorrenza’’; e la rafforza menzionando come principicostituzionali ‘‘la giustizia sociale, la eguaglianza fra uomini edonne, la solidarieta far generazioni e la protezione del diritto delbambino’’ (art. 3 TUE). Per altro verso si e notato che l’art. 3non contiene piu il riferimento alla ‘‘protezione contro la distor-sione della concorrenza’’ (42).

La formula dell’art. 3 riflette un dibattito intenso e tensionituttora aperte all’interno dell’Unione fra principio della concor-renza e diritti sociali (43). La norma interviene sancendo la neces-sita di un costante equilibrio fra questi due principi, come basedel sistema costituzionale dell’Unione, e sottolineando il ruolo deidiritti fondamentali per garantire tale equilibrio.

L’effettivo significato dell’art. 3 — come delle norme passate— e affidato al complesso delle regole e delle politiche sia comuni-tarie sia degli Stati membri: quelle riguardanti i limiti alla concor-renza e quelle relative alla strumentazione dei diritti sociali.

Ancora a monte sono rilevanti a tal fine i caratteri della eco-nomia europea e della qualita dello sviluppo. Anche qui le indica-zioni del Trattato, sviluppate dal documento strategico Europa

(42) M. FERRERA, The South European countries, in F. CASTLES, S. LIEBFRIED, J. LE-

WIS, H. OBINGER, C. PERSON (eds), The Oxford handbook of the welfare states, OUP, 2010 (an-

che se il riferimento e ripreso nel Protocollo 27).

(43) Cfr. per diversi apprezzamenti G. BRONZINI, Il modello sociale euroepo, in F.

BASSANINI, G. TIBERI (a cura), Le nuove isitituzioni europee, Bologna, Mulino, 2008, p. 109,

che parla di valore ‘‘estetico’’ della formula ma ammette che essa potrebbe orientare la

Corte verso un riequilibrio nella gerarchia fra principi e diritti di diversa natura; G. VET-

TORI, Fundamental and social rights. A discussion between two crisis, in EJSL, 2011, p. 240

ss.; e S. GIUBBONI, Social Europe after the Lisbon treaty: some sceptical remarks, ivi, 2011,

p. 247, secondo i quali la concorrenza sarebbe declassata da valore e principio fondamen-

tale a strumento ancillare; D. GOTTARDI, Tutela del lavoro e concorrenza fra imprese nell’or-dinamento dell’Unione Europea, in DLRI, 2010, p. 509 ss., che rileva come il principio di

concorrenza ritorni all’interno della formula ‘‘economia di mercato aperta’’.

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2000, prendono posizione rispetto a orientamenti diversi e spessoantitetici che si sono contesi il campo nelle vicende europee e na-zionali.

L’enfasi, reiterata nei documenti europei, sulla necessita difondare sulla conoscenza la competitivita dell’economia europea edi garantire la sostenibilita della crescita segnala la volonta diprendere le distanze da una competizione basata sulla compres-sione dei costi e delle condizioni di lavoro. Altrettanto significa-tivo e l’obiettivo assegnato alla crescita di essere non solo ‘‘smarte sustainable ma anche inclusive’’, come recita la formula di Eu-ropa 2000, cioe capace di promuovere un elevato livello di occupa-zione, di contrastare l’esclusione sociale e di garantire una ade-guata protezione sociale, un livello elevato di istruzione, forma-zione e tutela della salute umana.

Queste indicazioni, ripetute in molti documenti successivi,traggono origine e sanzione dalla clausola cd. sociale introdottadall’art. 9 del TFUE, che intende dare corpo alla dimensione so-ciale dell’economia di mercato, stabilendo che l’Unione deve te-nere conto nella definizione e nella attuazione delle sue politiche,delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello dioccupazione, la garanzia di una adeguata protezione sociale, lalotta all’estensione sociale, e un livello elevato di istruzione, for-mazione e tutela della salute umana. La clausola puo leggersicome una sorta di ‘‘costitutional immunity - from the opening logicof the integrative process and in particular from the competition re-gime that pervades the EU economic space’’ e puo agire come frenocritico verso le tendenze della Corte di giustizia a leggere ‘‘toomuch undistorted competition in the Treaty’’ (44).

7. Il ‘‘wake up call’’ della crisi?

La forza del modello proposto e piu che mai esposta alle veri-fiche dell’effettivita; perche le novita introdotte dai Trattati sonoritenute limitate anche dagli osservatori meno prevenuti. Il va-lore direttivo della clausola sociale resta incerto e l’art. 156 del

(44) A. HEMERIJCKH, The OMC, cit., p. 15; v. anche P. VESAN, From Lisbon to Eu-rope 2020 Strategy, Paper presented at the ESPA net, Italia Conference, Innovare il wel-fare, Milan, 29 settembre-1o ottobre 2011. Ma e incerto se la clausola abbia.

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TFUE, pur rafforzando il ruolo attivo della Commissione per ilcoordinamento e la promozione delle politiche sociali, precisa chel’obiettivo e di incoraggiare la cooperazione fra gli stati membri enon di armonizzare i sistemi nazionali.

Inoltre, secondo le interpretazioni piu convincenti, questescelte del Trattato puntano a rafforzare la dimensione sociale, malasciano irrisolti non pochi elementi decisivi per il raggiungimentodell’obiettivo. Pesa al riguardo la permanenza del deficit di com-petenze dell’Unione nelle aree critiche del welfare e dei rapportidi lavoro, oltre all’incertezza degli strumenti attuativi, a comin-ciare da quelli necessari per rafforzare il coordinamento delle poli-tiche multilivello, e per equilibrare i rapporti fra diritti fonda-mentali e liberta economiche, che sono lasciati alla oscillante giu-risprudenza della Corte di Giustizia (v. oltre).

Per altro verso tali indicazioni normative devono fare i conticon un contesto economico sempre meno favorevole. Il docu-mento Europa 2020, approvato alle prime avvisaglie della grandecrisi, appare, come altri, non del tutto consapevole della sua in-combente gravita.

Il precipitare della crisi, con intensita e durata imprevistenon solo dalle istituzioni e dagli osservatori europei, ha alteratogli elementi su cui si erano basate le politiche economiche e socialieuropee, a cominciare dalla stabilita dal circolo virtuoso fra cre-scita e protezione sociale. E mentre cresce la dipendenza dei si-stemi nazionali dal contesto globale e dalle istituzioni finanziariesovranazionali, aumentano le divisioni fra gli Stati dell’Unione ele spinte nazionaliste per il conseguimento di migliori posiziona-menti competitivi dei singoli paesi.

Nonostante i documenti europei piu recenti riconoscano chela gravita della crisi deve servire come un ‘‘wake up call’’ per atti-vare politiche economiche e sociali comuni (45), le tensioni inter-governative hanno impedito finora decisioni efficaci per dare se-guito alle indicazioni dei Trattati e per fronteggiare la crisi, anchenegli aspetti piu minacciosi per la tenuta del disegno europeo. Loconferma l’andamento esitante degli interventi dei governi euro-

(45) Cfr. il contributo richiesto dal Consiglio Europeo a un Reflection Group di

esperti, Renewing Europe’s economic and social model, Project Europe 2030, Challenges andopportunities, May 2010.

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pei succedutisi negli ultimi anni. Quindici summit in quattro annidi crisi non sono stati sufficienti per uscire dall’emergenza finan-ziaria e dalle strette delle misure di austerita, al fine di riorientarele politiche economiche comuni oltre le secche della stagnazionenella direzione del ‘‘patto per la crescita e per l’occupazione’’, san-cito nel vertice del 28-29 giugno 2012 (Growth compact) ma tut-tora dotato di scarsa strumentazione (46).

La ridefinizione delle politiche sociali, annunciata nel docu-mento Europa 2020 per rispondere alla ‘‘sveglia’’ della crisi, entrain tensione con la durezza degli eventi e con le perduranti politi-che restrittive di austerita. La tensione e tanto piu rilevante inquanto le scelte finanziarie sono determinate dai governi forti del-l’Unione, Germania in primis; il che contrasta con il processo tra-dizionale di formazione delle decisioni comunitarie, non solo inmateria sociale, segnalando se non una rottura del sistema di go-vernance europea, certo una sua ‘‘torsione in senso intergoverna-tivo’’ (47).

Il senso degli orientamenti comunitari e la loro tenuta difronte alla crisi sono diversi per i vari capitoli del diritto del la-voro e delle politiche sociali, perche diverse sono le declinazioniche essi hanno ricevuto nell’acquis comunitario e negli ordina-menti nazionali. Una valutazione al riguardo non puo che essereparziale, perche i pur pregevoli rapporti delle istituzioni comuni-tarie sullo stato di queste politiche non sono sempre accompa-gnate da indagini esaustive, mentre abbondano le analisi estem-poranee influenzate da forti connotazioni ideologiche. Inoltre, esoprattutto, le indagini retrospettive hanno di per se scarsa rile-vanza a fronte di una crisi che non ha precedenti nel passato. Loconfermano su scala piu ampia i rapporti dell’OCSE, che riesami-nando periodicamente il bilancio delle riforme del lavoro nei paesisviluppati, segnalano la diffusione di queste riforme, ma anche laincertezza o la contraddittorieta dei risultati (48).

(46) Come riconosce anche il documento della Commissione 28.11.2012, Analisi an-nuale della crescita, 2013.

(47) S. FABRINI, Le implicazioni istituzionali della crisi dell’Euro, Mulino, 2012,

p. 105.

(48) OCSE, Employment outlook, 2012, p. 74.

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Un’area tradizionale di intervento comunitario riguarda,come e noto, la regolazione dei rapporti e del mercato del lavoro,nonche le politiche occupazionali.

Queste ultime, pur presenti da tempo negli obiettivi della Co-munita, hanno assunto una rilevanza propria, con la legittima-zione dell’Unione a intervenire in un’area storicamente di esclu-siva competenza degli Stati membri, solo col Trattato di Amster-dam (1997). Il Trattato del 1997 riconosce la promozione dell’oc-cupazione come questione di interesse comune, in cui l’Unionepuo dispiegare la propria attivita di coordinamento finalizzata al-l’obiettivo di un elevato livello di occupazione: nell’art. 3 delTUE si parla addirittura di piena occupazione. L’attivita dell’U-nione in tale ambito si e arricchita di guidelines orientative, distrumenti procedurali complessi, nonche di misure incentivantidirette a promuovere la cooperazione fra Stati e a sostenere i lorointerventi a favore dell’occupazione, concentrando in tale dire-zione l’impiego dei Fondi strutturali.

Non si tratta solo di una revisione sugli strumenti, ma di uncambio di ottica, che sposta l’obiettivo dal controllo della disoccu-pazione alla promozione della occupazione (49).

La normativa del Trattato di Lisbona sembra rafforzare lecompetenze dell’Unione in materia, implicando che gli interventicomunitari siano doverosi e non opzionali e siano dunque piu effi-cacemente attuabili sul piano europeo piuttosto che a livello na-zionale.

Ma il cambio e netto piu per l’indicazione dell’obiettivo cheper le politiche concrete. Anche gli obiettivi per l’occupazione sisono dovuti misurare con le crescenti preoccupazioni degli Stati edelle istituzioni europee per la stabilita monetaria, imposta primadai parametri di Maastricht e poi dalle politiche di austerita in-trodotte nella crisi. Il che ha indebolito l’efficacia del sostegno alla

(49) G. BRONZINI, S. GIUBBONI, La nuova agenda europea in materia sociale e il me-todo aperto di coordinamento, in AREL, aprile 2010, p. 27; G. BRONZINI, Le politiche europee,

in C. PINELLI (a cura), Esclusione sociale, Astrid, Passigli ed., Roma, cit., p. 345 ss. F. PIZ-

ZETTI, G. TIBERI, Le competenze dell’Unione e il principio di sussidiarieta, in F. BASSANINI,

G. TIBERI, (a cura), Le nuove istituzioni europee, Commento al trattato di Lisbona, Bologna,

Il Mulino, 2008, p. 133 ss.; ove si prospetta che le competenze in materia non siano concor-

renti ma costituiscano una forma di competenza separata e distinta; A. HEMERIJCK, Chan-ging welfare States, cit., p. 38.

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domanda di occupazione rispetto alle politiche dell’offerta, quelleda tempo incentrate sull’impiegabilita e sulla flessibilita.

8. Principi e politiche della flexicurity.

Su questo lato la strategia europea si e sviluppata nella defi-nizione di una serie di principi all’insegna della cd. flexicurity. Leindicazioni sulla flexicurity non nascono dalla elaborazione euro-pea, ma traggono ispirazione, come altre guidelines comunitarie,dalle buone pratiche di alcuni paesi, in primis quelli scandinavi,che hanno sperimentato fin dal primo dopoguerra una regolazionedel mercato del lavoro basata appunto sulla flessibilita regolatanello svolgimento e nella cessazione del rapporto di lavoro, com-pensata da strumenti attivi di tutela universale per i lavoratoricolpiti da crisi e da disoccupazione.

In quella accezione l’ordinamento del mercato del lavoro siregge sul triangolo ‘‘mercati del lavoro flessibili, generosi sussididi disoccupazione, politiche attive del lavoro’’ finalizzate non soloa promuovere l’efficacia del mercato del lavoro, ma a correggerelo squilibrio, gia allora evidente, fra protezioni rigide per i lavora-tori centrali (‘‘core’’) del sistema e lavori precari di una crescenteforza lavoro marginale. Nel tempo il mix delle misure di flexicu-rity e stato applicato diversamente nei vari paesi europei e si enotevolmente arricchito (50).

Gia i principi comuni individuati dalla Commissione nel 2007(ampiamente emendati dal Parlamento Europeo) mostrano che laformula comprende tutte le principali politiche costitutive deimoderni mercati del lavoro: politiche attive in senso stretto, di-rette all’inserimento e reinserimento dei lavoratori e a gestire letransizioni, forme sistematiche di life long learning, sistemi di wel-fare e sicurezza sociale atti a gestire la mobilita del lavoro, formee tipi contrattuali che devono essere ‘‘flessibili e affidabili’’. Ulte-riori precisazioni, derivanti dalle buone pratiche nazionali, hannospecificato la importanza delle forme di flessibilita non soloesterna ma interna, per proteggere i lavoratori occupati dall’im-patto della crisi (riduzione di orario, contratti di solidarieta nelle

(50) Cfr. il rapporto Flexicurity and Industrial Relations, European Foundation forthe improvement of living and working conditons, Eurofound, curato da A. Pedersini, 2009.

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varie forme). E fra le pratiche rilevanti si e talora inclusa anchela flessibilita salariale, affidata sempre piu spesso alla regolazionedelle parti sociali.

Questa varieta di misure ha accentuato la ampiezza della for-mula, sostanzialmente avallata dalle istituzioni comunitarie, chene hanno allargato via via la definizione. Talche la formula nellesue varianti ha assunto il senso di un parametro fondamentaleper misurare il funzionamento complessivo dei mercati del lavoro.

Se l’allargamento della formula ha aumentato l’ambiguita delconcetto, d’altra parte e stato ritenuto necessario per risponderealla diversita, delle pratiche nazionali, che caratterizza il pano-rama europeo. Non a caso i documenti europei, e gli esperti che vihanno lavorato, hanno sempre sostenuto che, proprio per tali di-versita, il concetto di flexicurity non puo comportare soluzioni ri-gide ‘‘buone per tutti’’, ma piuttosto indici variabili a secondadelle possibilita, delle priorita della ‘‘path dependancy’’, di ognisingolo paese (51).

Questi caratteri della formula spiegano come essa abbia rice-vuto un ampio consenso fra i governi e fra le parti sociali, ma peraltro verso abbia sollevato diffidenze e critiche, specie fra le orga-nizzazioni sindacali, per la ambiguita delle sue implicazioni con-crete e per il rischio che essa rappresenti un ‘‘cavallo di Troia’’per la deregolazione dei mercati del lavoro.

Le riserve sono motivate ulteriormente dal rilievo che il sensodella flexicurity dipende molto dal contesto in cui si colloca. Nelleversioni originarie dei paesi nordici essa e sostenuta da condizionidi base sia economico-sociali, sia culturali, non riproducibili facil-mente altrove: un forte consenso economico-sociale, relazioni in-dustriali partecipative e basate sulla fiducia, efficienza del si-stema dei servizi all’impiego. Sono tali condizioni che hanno fattoritenere difficile il trasferimento di queste pratiche in Italia e inaltri paesi europei.

Ed e in queste condizioni di contesto che si verifica la effet-tiva portata della formula in ordine al funzionamento dei vari

(51) T. WILTHAGEN, Flexibility practices in the Europe. Which way is up?, August

2012, Paper presented at ERA Conference on European Labor Law, 2012, TRIER, 22/23,

March 2012, Reflect Research paper, 12/204, p. 2.

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mercati del lavoro, e la sua capacita di influenzare le politiche na-zionali.

I fatti stilizzati presentati dalle ricerche, mettono in luce sia ildiverso modo di operare delle misure comprese nel concetto, sia lavariabile combinazione delle stesse nei singoli Stati membri, a co-minciare da quello che e il punto centrale del concetto, cioe l’equi-librio che tali misure riescano a realizzare fra i due termini in essocompresi, protezione e flessibilita.

Le differenze piu significative riproducono quelle riscontrabilinei vari tipi di welfare presenti all’interno dell’Europa: da unaparte i paesi nordici, accomunati da una presenza significativa erelativamente alta delle varie dimensioni della formula, flessibilitainterna ed esterna, sostegno al reddito nei periodi di transizione,politiche attive, formazione continua; all’estremo opposto l’areaanglosassone ove i livelli di flessibilita, interna ed esterna, com-presa quella dei salari, risultano piu accentuati delle componentidella sicurezza; mentre i paesi continentali presentano gradi inter-medi di flessibilita, con prevalenza di quella interna, e un buonfunzionamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche at-tive. I paesi mediterranei registrano variazioni al loro interno, masono caratterizzati da marcate forme di flessibilita e di dualismodel mercato del lavoro, diseguali meccanismi di protezione sulmercato e delle politiche attive, e peggiori performance occupazio-nali (52).

Queste divergenze fra le applicazioni nazionali della flexicu-rity, specie fra i sistemi piu distanti, non sembrano essersi modifi-cate in misura apprezzabile nel tempo. Tale riscontro sembra con-fermare come il MAC abbia avuto efficacia limitata nel modificarele strutture portanti dei vari sistemi nazionali (53). Ma per verifi-

(52) Cfr. le indicazioni e le esemplificazioni riportate da T. WILTHAGEN, Flexibilitypractices, cit., p. 4 ss.; A. TANGIAN, 2006, Six families of flexicurity, WSI, Discussion paper

168, e da noi il numero monografico n. 3/2007 di DLM, La flexicurity in Europa; L. ZOP-

POLI, M. DELFINO (a cura), Flexicurity e tutele, Il lavoro tipico e atipico in Italia e Germania,

Ediesse, Roma, 2008; L. ZOPPOLI, Flex/insecurity. La riforma Fornero, ESI, 2011, cap. I.

Una configurazione in parte diversa dei vari tipi e presentata da H.P. BLOSSFELD, S. BUC-

KHOLZ, D. HOFACKER, S. BERTOLINI, Selective flexibilization and deregulation of the labor mar-ket. The answer of continental and southern Europe, in SM, 2012, p. 363, ss., che considera

anche gli effetti sulla natalita e sulle diseguaglianze sociali.

(53) J.C. BARBIER, La strategie de Lisbonne: les promesses sociales, cit., CES Work

Papers, CNRS, Univ. Paris I, in versione italiana su Riv. Politiche Sociali, 2010, p. 18; mi

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care meglio tale efficacia occorrerebbe disporre di evidenze, allostato non disponibili, riguardanti non solo le macro variabili so-ciali usualmente considerate, ma l’andamento nel tempo di indi-catori specifici rilevanti per i diversi equilibri del mercato del la-voro (tipi di contratti, tempi di transizione, etc.). In ogni caso,come ammettono le stesse indagini, resta difficile apprezzare l’in-cidenza delle misure di flessibilita, isolandole dal complesso dellepolitiche economiche e sociali di ogni sistema (54).

Peraltro e largamente riconosciuto che un elemento comune,secondo alcuni un presupposto, del buon funzionamento dei si-stemi di flexicurity, e la presenza di relazioni industriali costrut-tive ai vari livelli centrali e decentrati, raccordate con le politichepubbliche (55).

Il ruolo delle relazioni industriali e variabile a seconda deicontesti nazionali, ma e ritenuto significativo in gran parte deipaesi europei. Un crescente rilievo sta rivestendo la contratta-zione collettiva decentrata per regolare la flessibilita funzionale,specie sui temi della flessibilita salariale e degli orari di lavoro.D’altra parte le indagini condotte sulle tendenze europee dellacontrattazione segnalano atteggiamenti di diffusa resistenza senon di opposizione all’applicazione delle linee guida in materia diflexicurity; il che contribuisce a limitare l’ambito delle conver-genze fra sistemi e a privilegiare evoluzioni incrementali degli as-setti nazionali preesistenti.

9. Resilience dei modelli europei di flexicurity: quanto puo durare?

Indicazioni piu significative si possono trarre da una compa-razione condotta gia nel pieno della crisi sugli interventi nel mer-cato del lavoro in due paesi, Danimarca e Germania, centrali peril modello europeo, e caratterizzate da tipi diversi di flexicu-

sembra peraltro eccessiva la conclusione che il MAC avrebbe assunto solo un valore di ‘‘ac-

compagnamento simbolico’’ di tendenze gia in atto.

(54) Cfr. R. BERTON, M. RICHIARDI, S. SACCHI, The political economy of work securityand flexibility, Policy Press, University of Bristol, 2012, p. 3; cfr. anche J.C. BARBIER, Lastrategie de Lisbonne, cit., p. 13, 54.

(55) Cfr. Industrial Relations in Europe, 2010, cit., p. 13, 18 ss.; T. WILTHAGEN, Fle-xicurity practices, cit., p. 7-54.

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rity (56). La ricerca ne analizza le performance, misurate su indi-catori critici, quali la occupazione e la disoccupazione, piu specifi-camente disoccupazione giovanile, la riduzione della segmenta-zione del mercato del lavoro. Risulta che il sistema danese, carat-terizzato da alta flessibilita esterna, combinata con diffuse prati-che di tutela e di attivazione sul mercato del lavoro, ha dato esitopositivo in passato, ma appare in difficolta a fronte dell’allargarsidella crisi e delle ristrutturazioni economiche e alla crescente de-bolezza del mercato del lavoro.

Il sistema tedesco, che prevede una protezione piu forte, le-gale e collettiva, dei licenziamenti, specie collettivi, combinatacon misure di flessibilita interna e di riassestamento dell’organiz-zazione del lavoro, economicamente incentivato, rivela una mag-giore capacita di tenuta quanto all’andamento dell’occupazione,della disoccupazione e all’eguaglianza dei redditi.

Indicazioni ulteriori vengono da un’analisi dell’OCSE, tuttadedicata alla ‘‘resistenza’’ alla crisi dei vari mercati del lavoro na-zionali (57). L’indagine offre indicazioni rilevanti in generale circala ‘‘resilience’’ delle istituzioni e delle regole del lavoro e circa laloro capacita di controllare l’impatto della crisi sul funzionamentodel mercato del lavoro, sull’andamento della occupazione e disoc-cupazione e sulla distribuzione dei redditi da lavoro. In partico-lare l’OCSE conferma l’importanza di politiche universali di tu-

(56) P. AUER, La flexicurity nel tempo di crisi, cit., p. 49 ss., il quale si rifa alle teorie

della transizione fra i mercati del lavoro (TLM) e dello stesso a., Security in labour markets:combining flexibility with security for decent work, in Economic and labor market papers,

2007, p. 12; cfr. anche da noi B. AMOROSO, Il modello sociale danese, in DLM, 2010, p. 227

ss.; B. GLAZER, La Strategia europea per l’occupazione nella tempesta: il ripristino di unaprospettiva a lungo termine, in DRI, 2011, p. 59 ss., che rileva come il sistema di flexicurity

ignori il carattere personale del bene scambiato e richiamando la prospettiva delle capabili-

ties sottolinea l’accento delle TLM sulla necessita di sviluppare le capacita del mercato del

lavoro p. 66. Una valutazione diversa in P.K. MADSEN, Reagire alla tempesta. La flexicuritydanese e la crisi, ivi, 2011, p. 78 ss., secondo cui il modello danese e in grado non solo di

fornire un rifugio contro la tempesta della crisi, ma anche di proteggere il sistema di inter-

venti pubblici spesso ancora piu disastrosi, vedi anche l’analisi comparata dei sistemi da-

nese e olandese in J.C. BARBIER, La strategie de Lisbonne, cit., p. 19 ss., il primo ispirato a

una flessibilita universale il secondo a una flessibilita ‘‘sexue’’ o graduata a seconda dei tipi

di contratti.

(57) OECD, Employment out look, 2012, cap. II spec. p. 28 ss.; di resilience si parla

per indicare la possibilita di resistenza alla crisi, piuttosto che di riforme in grado di ri-

spondere positivamente alla crisi.

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tela dei lavoratori contro gli ‘‘economic downturns’’, appoggiateda efficaci politiche di attivazione. D’altra parte segnala le con-troindicazioni di una regolazione troppo favorevole all’uso deicontratti temporanei, che ha effetti negativi sulla qualita del la-voro, accentua la risposta della disoccupazione agli shock produt-tivi e rafforza l’aumento ciclico delle diseguaglianze di reddito.

L’indagine OCSE ribadisce la inopportunita di protezionitroppo rigide del rapporto di lavoro, ma ridimensiona la rilevanzadi queste regole di protezione, in quanto esse — a parte influiresulla incidenza dei contratti a termine — non avrebbero grandeimpatto sul funzionamento complessivo del mercato del lavoro esulla sua resistenza alla crisi.

Le posizioni dell’OCSE, dopo gli ultimi aggiornamenti, si sonoavvicinate alle posizioni europee (58), preoccupate di bilanciareprotezione e sicurezza del lavoro, anche se con oscillazioni neltempo e margini di ambiguita.

Gli orientamenti comunitari hanno sempre sostenuto che leforme contrattuali flessibili sono necessarie per permettere alleimprese di adattare piu facilmente la manodopera alle nuoveforme di produzione. D’altra parte ne hanno predisposto una re-golazione, sia pure per aspetti specifici, in particolare con le diret-tive, sul lavoro a tempo parziale e a tempo indeterminato, nonchesul lavoro tramite agenzia interinale. Hanno sottolineato l’impor-tanza della parita di trattamento con il lavoro standard e la ne-cessita di rafforzare le tutele del lavoro allo scopo di correggere lasegmentazione del mercato del lavoro, di frenare l’eccessivo ri-corso a contratti atipici e l’abuso del falso lavoro autonomo. Maquesto non ha impedito di sottolineare l’importanza di interveniresui costi del licenziamento, che sono piu elevati nel caso di con-tratti a tempo indeterminato e costituiscono un motivo del favoredelle imprese per le forme atipiche.

D’altra parte questi testi europei riconoscono che tutti i tipidi contratti dovrebbero garantire ai lavoratori un insieme di di-ritti di base, dall’accesso all’apprendimento nel corso della vita,alla protezione economica in caso di perdita di lavoro senza colpa

(58) Il coordinamento fra le analisi dell’OCSE dei Job Studies e le indicazioni euro-

pee e stato ricercato innanzitutto per iniziativa dell’OCSE, preoccupata dell’andamento

delle economie e dei mercati del lavoro europei; J. VISSER, Neither convergence, cit., p. 38.

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del lavoratore, al diritto alla pensione, fino alla generalizzazionedi un reddito minimo di base (gia presente in molti paesi).

Si tratta di indicazioni impegnative, nient’affatto acquisitenelle prassi nazionali, ancora una volta per la debolezza delle gui-delines comunitarie, ma anche per la diversa urgenza politica adesse attribuita sotto la pressione della crisi. Tanto piu che tali in-dicazioni sono oscurate dalle richieste, che riecheggiano nei sum-mit europei, di maggiore flessibilita del mercato del lavoro.

L’andamento della crisi rende prematuro esprimere giudizisui vantaggi e a svantaggi delle varie alternative e sulle loroprospettive (59). Nel complesso la rete delle istituzioni europeedel mercato del lavoro ha mostrato fin qui una significativa ca-pacita di resistenza, come si rileva dal fatto che i livelli di occu-pazione sono stati colpiti dalla crisi meno di quanto verificatosiin altri periodi e la disoccupazione e cresciuta meno di quantopoteva prevedersi data la caduta della produzione e dei redditiche ha colpito in varia misura tutti i paesi (60). I livelli di pro-tezione dell’occupazione non sono complessivamente diminuitiper i lavoratori ‘‘tipici’’, ancorche con un diverso peso della pro-tezione nel rapporto e nel mercato del lavoro nei vari si-stemi (61).

10. I difficili equilibri fra flessibilita e sicurezza e i limiti delle po-litiche attive nella crisi.

Un punto debole, rilevato anche dagli operatori meno criticidel sistema, e che le forme e il peso delle flessibilita stanno cre-scendo di piu delle misure di sicurezza, specie per gli outsider, ac-crescendo la segmentazione del mercato del lavoro. Detto altri-menti, queste misure faticano a compensare le pressioni per unamaggiore flessibilita, cosicche si rischia di alterare l’equilibrio delmodello europeo con pericoli per la coesione sociale, senza evi-

(59) Non a caso le divergenze di opinione su queste politiche non sono diminuite nel

tempo, come risulta dagli autori gia citati.

(60) Employment in Europe, cit. 2010, p. 15.

(61) 60 H. PETER BLOSSFELD, S. BUCHOLZ, D. HOFACKER, S. BERTOLONI, Selective fle-xibilization and deregulation of the labor market, in SM, 2012, cit., p. 373.

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denze che l’aumento della flessibilita esterna produca effetti posi-tivi sulle performance del mercato del lavoro (62).

Infatti, le stesse indicazioni dell’OCSE, segnalano con preoc-cupazione i rischi di segmentazione del mercato del lavoro, e ilfatto che la flessibilita si manifesta soprattutto nell’uso massicciodi contratti di lavoro precari, aggravando cosı la sfasatura fraobiettivi dichiarati e pratiche della flexicurity. Un fattore rile-vante e che la scarsita delle risorse pubbliche e private pesa sullaefficacia degli ammortizzatori sociali, che costituiscono la rete dibase delle sicurezze ipotizzate dai sistemi di flexicurity (63).

La debolezza dei bilanci nazionali non e adeguatamente cor-retta dalle risorse dei fondi comunitari, che, pur cresciute neltempo, non sono sufficienti ad adeguare gli interventi alle situa-zioni di crisi, come sarebbe necessario per sostenere le politiche diflessicurezza. Da tempo — fino all’ultimo bilancio 2014-2020 — laCommissione ha indicato la necessita di concentrare l’uso deifondi sugli obiettivi di Europa 2020, proprio per massimizzarnel’efficacia (64), Ma resta la sfasatura fra obiettivi dichiarati e mec-canismi di tutela nel mercato nel lavoro, tanto piu preoccupantein quanto la debolezza del contesto economico sta allungando i

(62) Lo riconoscono anche autori inclini a valutare positivamente le politiche di fle-

xibility, F. WILTHAGEN, Flexicurity practices in the EU, cit., p. 9; A. HEMERIJCK, Changingwelfare States, p. 5, p. 256 ss. Un dato comune a gran parte dei paesi europei e che le tutele

del reddito in caso di inattivita sono state ridotte, in varia misura, mentre sono cresciuti

gli interventi di politica attiva del lavoro e le spese relative, cfr. G. BONOLI, Active labormarket policy in a changing economic context, in J. CLASEN, D. CLEGG (eds), Regulating therisck of unemployment, OUP, 2011, p. 318 ss.; ID., Active labor market policy and social in-vestment: a chianging relation ship, in N. MOREL, B. PALIER, J. PALME (eds.), Toward a so-cial investment welfare state?, Bristol Policy Press, 2012, p. 181 ss.; cfr. le recenti analisi di

Eurofound, The second phase of flexicurity Dublin, 2013. La flessibilita e la sua crescente

diffusione costituiscono un fattore critico per l’equilibrio dei tradizionali modelli sociali,

talche si e potuto affermare, con qualche enfasi che ‘‘la contaminazione del diritto del la-

voro da parte del mutante virus della flessibilita puo avere esiti estremi per le sorti del si-

stema, dissolvere o rafforzare l’organismo’’. B. CARUSO, Flexibility in labour law: the italiancase, in CARUSO-FUCHS, Labor law and flexibility in Europe, Giuffre, 2004, p. 39 ss.

(63) Cfr. A. SAPIR, Europe’s economic priorities 2010-2015. Memo to the new Commis-sion, Bruegel, Brussel, 2009, p. 76.

(64) Commissione Europea, Proposta di regolamento, Com (2011) 615 def, 6 ottobre

2011; e nello stesso senso il Patto per la crescita e l’occupazione, varato dal Consiglio Euro-

peo del 28-29 giugno 2012. Ma l’ultima decisione del Consiglio del dicembre 2012 ha ridotto

complessivamente il bilancio dell’Unione.

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tempi di permanenza dei lavoratori e delle imprese in stato di to-tale o parziale inattivita e diminuendo le possibilita della lororeintegrazione nel mercato del lavoro.

Questa situazione influisce sull’efficacia delle misure di attiva-zione, che costituiscono la ‘‘parte attiva’’ del sistema, non soloperche mette a dura prova la loro capacita di garantire transizionirapide per i soggetti coinvolti nei processi di crisi e di riorganizza-zione aziendale, ma perche rende critico un altro punto centraledi tali politiche di attivazione, come delle politiche di welfare, cioeil rapporto fra diritti e obblighi dei soggetti coinvolti in questiprocessi. Le condizioni di crisi, riducono la capacita dei servizi al-l’impiego di offrire i lavori adeguati che i lavoratori disoccupatisono tenuti ad accettare come condizione per mantenere le inden-nita (65). Inoltre possono avere effetti ambivalenti sui criteri diselettivita delle condizioni poste all’accesso ai benefici di welfare.Per un verso tali condizioni possono essere cosı rigide da operarenon solo per contenere comportamenti opportunistici dei benefi-ciari, ma per ridurre i costi del sistema fino al punto da mettere arischio la effettivita degli interventi anche in casi di reale biso-gno (66). D’altra parte — come provano le esperienze non solo ita-liane — le amministrazioni competenti per il controllo del sistematrovano crescente difficolta, in situazioni di crisi e disagio sociale,ad applicare le sanzioni previste nel caso di rifiuto dei lavoratoridi rispondere alle offerte di lavoro e di formazione, per cui atti-varsi (67).

L’esperienza italiana e emblematica di questa difficolta, per-che la condizionalita dei sussidi di disoccupazione all’accettazionedi offerte congrue di lavoro e di formazione si e rivelata imprati-cabile, nonostante le direttive di legge da tempo introdotte nelnostro ordinamento. Le difficolta sono aggravate dalla grandeeterogeneita delle condizioni del mercato del lavoro nelle varie

(65) In realta le politiche di attivazione hanno la funzione di facilitare l’accesso al

lavoro degli inattivi, nella misura in cui il lavoro e disponibile. La qualita e quantita di

questo dipendono da altro, cioe dalle politiche economiche e sociali complessive. Per que-

sto non sembrano del tutto pertinenti le critiche sul punto di J.C. BARBIER, La strategie deLisbonne, cit.

(66) B. CANTILLON, The paradox, cit., p. 444; A.B. ATKINSON, Poverty and the EU: thenew decade, Univ. of Macerata, Working Paper, n. 24, 2010.

(67) J.C. BARBIER, La strategie de Lisbonne, p. 14, con riferimento al caso francese.

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aree del nostro paese, dalla diseguale efficienza delle strutture diservizio all’impiego oltre che dalla scarsa coesione e spirito civico.La nostra scarsa ‘‘civicness’’ ha fatto ritenere inapplicabile nelnostro paese il principio di condizionalita e in particolare gli isti-tuti di welfare assistenziale come il reddito minimo; la prima esperimentale applicazione in Italia del reddito minimo ha confer-mato tale difficolta (68).

Questi limiti delle politiche di attivazione sono particolar-mente gravi proprio nelle situazioni dove maggiore e il bisogno disostegno, cioe per le aree meno sviluppate per i gruppi di lavora-tori di bassa istruzione e qualifica e in genere di condizioni svan-taggiate: con la conseguenza che tali politiche rischiano di noncontribuire a ridurre gli aspetti di diseguaglianza e di segmenta-zione del mercato del lavoro.

11. Le politiche del lavoro europee oltre la flexicurity: condizioni diefficacia.

Le criticita rilevate segnalano un limite di fondo delle politi-che di flexicurity, che va oltre il funzionamento delle singole mi-sure messe in atto per implementarla, e che non puo correggersisolo rendendo piu coerente il mix di misure. Indicano che un mer-cato di lavoro in equilibrio fra flessibilita e sicurezza non garanti-sce di per se il raggiungimento di buoni livelli quantitativi e qua-litativi di occupazione. Di qui si e affermata la necessita di supe-rare l’approccio della flexicurity per perseguire un obiettivo piuampio: quello di promuovere un elevato grado di occupazione sta-bile e di qualita (‘‘decent’’, dignitoso, secondo l’espressione OIL),che deve essere sostenuto da interventi utili a migliorare le per-formance complessive del sistema e a facilitare transizioni di suc-

(68) Cfr. in generale Y. ALGAR and P. CAHUC, Civic attitudes and the design of labourmarket institutions: which countries can implement the Danish flexicurity model?, 2006,

CEPR, Discussion paper n. 5489; e da noi C. DELL’ARINGA, Welfare e mercato del lavoro, in

AA.VV., Globalizazzione, specializzazione produttiva e mercato del lavoro: verso un nuovo wel-fare, Savena Monicelli, Fondazione Masi, Rubettino, p. 69-93; E. RANCI ORTIGOSA, Il red-dito minimo di inserimento, in L. GUERZONI (a cura di), La riforma del welfare, Mulino, Bo-

logna, 2008, p. 441 ss.

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cesso fra lavori quali realizzati dai modelli virtuosi del Nord Eu-ropa (69).

Tali criticita sono ammesse dalla stessa Commissione Euro-pea, che riconosce come in un panorama caratterizzato da limita-zioni di bilancio, confermate in tutti gli ultimi orientamenti delConsiglio (70) i progressi verso una maggiore flessibilita e sicu-rezza sono stati modesti e diseguali (71). Nonostante questo, l’o-rientamento verso la flexicurity continua a essere appoggiatodalla Commissione e dal Consiglio, sia pure con alcune sottolinea-ture significative (72).

A fronte dei ridotti spazi finanziari, disponibili per rafforzarela rete di protezione sul mercato del lavoro, si e rilevato che laCommissione puo essere indotta ad appoggiare una piu rigida pro-tezione del lavoro esistente, per mantenere gli stessi livelli com-plessivi di flexicurity, oltre che per non alienarsi del tutto l’ap-poggio dei sindacati (73). Un segnale in tal senso sembra prove-nire gia dal Consiglio Europeo del 2009, dedicato al tema, che sot-

(69) P. AUER, Flexicurity in tempo di crisi, cit., p. 49; rilievi simili sono presenti

nella introduzione del Commissario Andor alla Conferenza di alto livello sulla flexicurity

promossa dalla Commissione europea il 14 novembre 2011, che segnala la necessita di ri-

pensare la struttura della flexicurity ponendo maggiore accento su altri strumenti di policy

come la flessibilita interna, la tassazione e la mobilita del lavoro, e inserendo la flexicurity

in una piu ampia agenda di politiche del lavoro; cfr. anche L. ZOPPOLI, Flex-insecurity, cit.

p. 20 ss.

(70) Il peso di queste restrizioni e oggetto di critiche crescenti non solo di esperti

ma anche di documenti di vari governi, compresi il nostro: cfr. i commenti di G. NAPOLI-

TANO, La crisi del debito sovrano e il rafforzamento della governance economica europea, in

ID., Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, Mulino, Bologna,

2012, p. 413-416; C. BARNARD, The financial crisis, cit., European Law Journal, 2012,

p. 106 ss.; A. VITERBO, R. CISOTTA, La crisi del debito sovrano e gli interventi della UE, in Ildiritto dell’Unione Europea, 2012, p. 335 ss.; P. GUERRIERI, Due scenari per l’area euro, Ita-

liani Europei, 12 febbraio 2013, che indica l’urgenza di dar seguito ai timidi segnali emersi

dal summit europeo del dic. 2012. Su questi orientamenti cfr. le analisi nel volume a cura

di G. AMATO e R. GUALTIERI, Prove di Europa Unita. Le istituzioni europee di fronte allacrisi, ASTRID, Passigli, 2013, in particolare la introduzione di G. Amato e R. Gualtieri,

p. 9 ss., e i saggi di G.L. TOSATO, Il fiscal compact, p. 27 ss.; di S. MICOSSI e M. PERASSI,

L’Esm e i debiti sovrani dei paesi dell’Eurozona, p. 55 ss.; di M.T. Salvemini, p. 99 ss.

(71) Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, Al Consiglio, al Co-

mitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, 18.4.2012, Comm. 2012,

Verso una ripresa fonte di occupazione, 173 Fine.

(72) European Council Resolution, Flexicurity in tempo di crisi, Luxembourg, 2009.

(73) F. AUER, La flexicurity nel tempo della crisi, cit., p. 54.

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tolinea la necessita di mantenere l’occupazione ove possibile, peres. attraverso lo sviluppo delle imprese che forniscono alternativeal licenziamento quali modelli di lavoro flessibile, adeguati tempo-ranei dell’orario di lavoro e altre forme di flessibilita interna fra leimprese. E significativo l’accento sempre piu frequente che sipone sulla flessibilita interna, non solo per rispondere a sistemi or-ganizzativi e produttivi variabili, ma anche, come strumento effi-cace per mantenere l’occupazione e ridurre i costi, di adegua-mento (74). Tale indicazione e avallata dalle buone pratiche dei si-stemi, come quello tedesco, dimostratesi piu capaci di resisterealla crisi, riducendo l’impatto sociale e prevenendo la perdita dicapitale umano specializzato delle imprese, con varie forme diflessibilita dell’orario di lavoro e nell’impiego delle risorse umane.

Altre indicazioni significative sollecitate dal nuovo quadro deimercati del lavoro, sono quelle che richiamano la necessita dicommisurare le misure di flexicurity e le politiche dell’occupa-zione all’andamento della crisi, con una modulazione degli inter-venti di tutela, di promozione del lavoro e di formazione. L’imple-mentazione di tali orientamenti richiede un fine tuning degli in-terventi in rapporto alle varie fasi del ciclo, per massimizzarnel’efficacia entro le perduranti costrizioni dei costi (75).

Inoltre i testi ufficiali piu recenti riconoscono l’urgenza di raf-forzare le politiche dell’occupazione come parte di quegli investi-menti sociali che sono indispensabili per impedire il prodursi alungo termine di costi sociali e di bilancio piu elevati (76). In par-ticolare i documenti riguardanti le iniziative per la crescita, sinte-tizzati nel Growth Pact del 2012, si richiamano alle migliori prati-che europee negli anni della stabilita, che si ritengono utili a mi-

(74) Comunicazione della Commissione, 18.4.2012, cit., p. 10, e vedi al riguardo dati

e analisi presentati nel rapporto Industrial Relations in Europe, cit., 2010, p. 7 ss.

(75) V. Comunicazione della Commissione, 18.4.2012, cit., p. 175.

(76) Cfr. in particolare Comunicazione della Commissione, Atto per il mercato unico,Dodici leve per stimolare la crescita e rafforzare la fiducia, Com (2011) 206 def. 13 aprile

2011; Comunicazione della Commissione, Towards a job rich recovery, COM (2012) 173, 18

aprile 2012; il Consiglio europeo del 30 gennaio 2012, Verso un risanamento favorevole allacrescita di posti di lavoro e il Consiglio europeo 28-29 giugno 2012, Patto per la crescita e l’oc-cupazione, Growth compact, Euco, 76/12, p. 29 ss. e 8 ss.; da ultimo il cd Social investmentpackage, Commissione, Towards social investement for growth and cohesion, 2012-2013. COM

(2013), 83 final, che sottolinea la complementarieta fra politiche dell’occupazione, politiche

sociali e di inclusione. Cfr. i rilievi di S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro, cit., p. VII.

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gliorare la performance dell’occupazione anche nella crisi. Sono ri-badite le tradizionali misure a livello dell’offerta, quali il potenzia-mento dei servizi all’impiego per favorire le transizioni nel mer-cato del lavoro e per favorire una rapida reintegrazione nel mer-cato del lavoro dei dipendenti delle imprese in crisi. Si enfatizzala promozione della mobilita transnazionale del mercato europeo,estendendo il riconoscimento delle qualifiche nei paesi dell’Unionee la trasferibilita delle posizioni assicurative e di welfare, e raffor-zando una base comune di diritti nel caso di mobilita transnazio-nale delle imprese (peraltro con i limiti posti dalla giurisprudenzadella Corte di giustizia). Si tratta di strumenti indiretti di inter-vento, ma che rispondono all’ipotesi, del tutto realistica, che lamobilita del lavoro e delle imprese fra paesi dell’Unione sia desti-nata a crescere e che possa quindi costruire un mercato comunedell’occupazione contribuendo, anche per questo verso, alla ‘‘de-territorializzazione del diritto del lavoro’’ (77).

Le stesse indicazioni comunitarie attribuiscono maggiore im-portanza al sostegno alla domanda di lavoro con varie misure: in-terventi nei settori con potenziale elevato di stimolare una cre-scita foriera di occupazione (dai servizi alle persone all’economiaverde); riduzione del cuneo fiscale sul lavoro per favorire occa-sioni di impiego, sostegno al lavoro autonomo, alle imprese socialie alla creazione di nuove imprese; mobilitazione dei fondi europeiper la creazione di nuovi posti di lavoro, promozione di salari piuallineati alla produttivita e alle condizioni del mercato del lavoro,e sostegno dei bassi salari. Programmi specifici sono dedicati alsostegno dell’occupazione di gruppi svantaggiati quali le donne,ancora sottorappresentate nel mercato del lavoro, specie in alcunipaesi, i giovani e gli anziani (78).

Da ultimo l’impegno europeo si e diretto a fronteggiare quellache lo stesso presidente dell’Unione ha definito ‘‘la inaccettabilerealta delle disoccupazione giovanile di massa’’ (79).

(77) Cfr. su diversi aspetti di queste tendenze S. SCIARRA, La contrattazione collettivadella crisi. Aspetti nazionali e transnazionali, in Studi in onore di Tiziano Treu, I, Jovene,

2011, p. 613 ss.; S. GIUBBONI, Diritti e solidarieta in Europa, Mulino, Bologna, 2012,

p. 18 ss.

(78) Per questi aspetti rinvio a trattazioni specifiche e ai programmi dedicati dal-

l’Unione alle politiche del lavoro riguardanti tali gruppi: cfr. in generale, Employment inEurope, 2010, cit.

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Il principale intervento, definito ‘‘youth guarantee’’, noncomprende solo le tradizionali misure di promozione della forma-zione di base e professionale, ma le accompagna con strategie sullato della domanda, riprese ancora una volta dalle esperienze deipaesi nordici, dirette a offrire ai giovani, entro pochi mesi dall’u-scita dalla scuola, un ventaglio di occasioni, di apprendistato,stage, lavoro autonomo e dipendente (80). Tale iniziativa europeaha avuto eco anche in Italia, per ora solo nel dibattito giornali-stico e politico (81).

In conclusione si puo confermare che la incidenza delle guide-lines europee sulle politiche nazionali del lavoro resta indiretta,ma si puo poggiare sul rafforzamento di alcuni strumenti comuni-tari. Inoltre le indicazioni dell’Unione, alla luce delle migliori pra-tiche nazionali, segnalano le condizioni per un uso efficace dellaflexicurity, anche nella crisi, cosicche possono costituire un puntodi riferimento per i mercati del lavoro nazionali, purche le istitu-zioni e gli attori che vi operano si adoperino per costruire e man-tenere tali condizioni. La criticita maggiore consiste nel fatto chela realizzazione di queste condizioni e messa in forse dalle indica-zioni restrittive di politica finanziaria sancite dai recenti verticieuropei, dal Patto Europlus al Six Pack, ai Memorandum of un-derstanding essere sottoscritti dai paesi che chiedono assistenza, eche si riflettono sulle scelte di politica economica e sociale dei sin-goli Stati, come ha sperimentato anche il nostro Paese. Ancorauna volta le prospettive delle politiche e delle istituzioni del la-voro dipendono da scelte economiche limitative e sempre piu og-getto di critica dalle opinioni pubbliche di molti paesi.

(79) Statement by President Barroso, Memo 12/33, 23 gennaio 2012, Bruxelles, e

European Council 2012 Towards growthriendly consolidation and job friendly growth, Bruxel-

les, 30 gennaio 2012.

(80) Cfr. di recente il documento della Commissione Analisi annuale della crescita,

28.11.2012; sul punto il commento di Chung et al. in Transfer 2012, 18 (3), Young peopleand the post recession labor market in the context of Europe 2020, p. 312 ss.; il Consiglio Euro-

peo in data 28 febbraio 2013 ha approvato una specifica raccomandazione a sostegno di

questo programma, cui e dedicato uno stanziamento di 6 MLD di Euro per il periodo

2014-2020.

(81) Cfr. D. DI VICO, Corriere della Sera, 27 dicembre 2013.

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12. La diseguale influenza europea nelle politiche del lavoro ita-liane.

Tali indicazioni e lo stimolo che ne deriva, valgono in partico-lare per un ordinamento come il nostro che presenta non pochisquilibri rispetto alle best practices di quei paesi che hanno mo-strato di reggere meglio dell’Italia al deteriorarsi della situazioneeconomica e finanziaria. Gli squilibri dell’Italia in vari aspettidella legislazione del lavoro e del welfare, oltre che nelle politichefiscali ed economiche, sono denunciati nelle segnalazioni europee,gia prima della crisi. La nota lettera della BCE al governo italianodell’agosto 2011 ha reso piu espliciti e tassativi i richiami.

Una analisi dettagliata condotta sulla prima fase applicativadella strategia di Lisbona segnala come le indicazioni europeesulle due aree dell’occupazione e dell’inclusione sociale abbianoavuto un effetto positivo sia sulla capacita istituzionale e di ap-prendimento del nostro paese, sia sulle politiche vere e proprie;ma in misura diversa (82).

L’impatto e stato piu significativo nella prima di queste aree.Gli autori dell’indagine ricordano in particolare l’attenzione,nuova nel nostro paese, per le politiche attive del lavoro; anche sequeste sono ancora deboli per vari motivi, fra cui la incerta ripar-tizione di competenze fra Stato e autonomie locali e la scarsa ca-pacita di queste di affrontare tali problemi. Analogamente signifi-cativo e il riferimento alle indicazioni europee operato dalla legi-slazione del lavoro degli anni 2000-2006, sia pure con una enfasiprevalente sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro.

L’influsso del MAC sulle politiche italiane di inclusione socialesembra invece essere stato quasi irrilevante, per l’attenzione nonprioritaria dedicata a questi temi dalle forze politico-sindacale equindi per il minore impegno organizzativo e di risorse. Del restouna simile debolezza e rilevabile — come si vedra oltre — anche

(82) M. FERRERA, S. SACCHI, Il metodo aperto di coordinamento e le capacita istituzio-nali nazionali: l’esperienza italiana, in M. BARBERA (a cura di), Nuove forme di regolazione,

cit., p. 205 ss. Gli Autori riferiscono l’operato del ‘‘gruppo di monitoraggio’’ istituito nel

2000 per seguire l’andamento delle politiche sociali e dell’occupazione anche al fine della

redazione dei piani di azione nazionali richiesti da Bruxelles; cfr. anche E. ALES, La lottaall’esclusione sociale attraverso l’open method of coordination: prime riflessioni (2000-2002),

in M. BARBERA (a cura di), Nuove forme di regolazione, cit., p. 173 ss.

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nella configurazione delle direttive europee in materia e nei rela-tivi processi implementativi. Non e un caso che la legge 328 del2000, la quale perseguiva obiettivi sostanziali e processuali con-vergenti con quelli del MAC, abbia incontrato subito ostacoli isti-tuzionali e politici destinati a svuotarla largamente di effica-cia (83).

Per venire alle evoluzioni piu recenti della nostra legislazione,ho sostenuto altrove come la normativa della legge 92/2012 siispiri alle guidelines europee sulla flexicurity, a conferma dellaloro capacita di influenza. E ho anche rilevato la corrispondenzasolo parziale con le varianti delle politiche praticate in paesi dimaggiore successo, in particolare quella tedesca (84). La crisi incorso, che colpisce con particolare gravita, ancorche con qualcheritardo, l’occupazione italiana si radica in debolezze strutturalidella nostra economia e del mercato del lavoro, ampiamente di-battute ma non univocamente riconosciute.

Resto convinto che tali debolezze non riguardano tanto la re-golazione della flessibilita interna ed esterna, che e stata riformu-lata dalla recente normativa, ancorche secondo modalita perfezio-nabili, e che viene ritenuta allineata in media con gli standard eu-ropei. La distanza maggiore dell’Italia dai modelli europei, solo inparte corretta dalla legge 92, riguarda gli aspetti critici della flexi-curity: cioe il sistema degli ammortizzatori, che sono ancora squi-librati e non universali, e le politiche di attivazione, che sono tut-tora diseguali nel paese e inadeguate a governare le transizioniproduttive, le quali sono destinate a persistere anche in una pro-spettiva di stabilizzazione economica.

Lo squilibrio delle tutele e la debolezza delle politiche attivepesano sugli altri aspetti della regolazione del lavoro, pregiudi-cano l’efficacia delle norme di contrasto alla precarieta e aggra-vano i dualismi del mercato del lavoro. Questo perche la prote-zione dei diversi ammortizzatori e carente proprio per i lavori pre-cari piu bisognosi di sostegno, mentre la tutela dei lavoratori sta-bili e talora alquanto ampia e finalizzata alla conservazione di

(83) M. FERRERA, S. SACCHI, Il metodo, cit., p. 225 ss. e il recente bilancio di E.

RANCI ORTIGOSA, V. GHETTI, A dodici anni dalla 328/2000: eredita, dispersioni e tempiaperti, Riv. Pol. Soc., 2012, p. 91 ss.

(84) T. TREU, Flessibilita e tutele nella riforma del lavoro, in GDLRI, 2013, p. 1-53.

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posti di lavoro gia soppressi, con un uso anomalo della CIG cheprolunga oltre misura, le tutele pregiudicando la necessaria mobi-lita e riconversione del lavoro.

E su questi punti che il nostro diritto del lavoro deve riorien-tarsi, facendo tesoro delle migliori pratiche europee, quindi predi-sponendo efficaci strumenti universali di tutela, rafforzando glistrumenti di politica attiva e modulando entrambi gli interventi aseconda dell’andamento della crisi.

Sezione III

Relazioni industriali deboli

13. Tensioni nelle relazioni industriali nazionali e vuoto di regoleeuropee.

I rapporti collettivi di lavoro hanno sempre costituito unamateria resistente all’influenza del diritto comunitario, perchefortemente radicati nei contesti nazionali dove sono nati. I varisistemi nazionali presentano tuttora marcate diversita nei loro ca-ratteri fondamentali, dalle strutture di rappresentanza e dellacontrattazione collettiva, alla regolazione e alla prassi del con-flitto collettivo (85). Queste diversita nella realta e nella regola-zione delle Relazioni Industriali, indicano le difficolta dell’Europasociale anche in questo ambito.

Gli interventi di regolazione e promozione dell’Unione sono ri-masti circoscritti a questioni specifiche, quelle meno controverse,gia regolate largamente dai diritti nazionali: a cominciare dai di-ritti di informazione e consultazione dei lavoratori, specie nei casidi criticita dei rapporti di lavoro, crisi e ristrutturazioni azien-dali (86).

(85) Non a caso i principali modelli di relazioni industriali discussi dai teorici e le

loro combinazioni sono tutti rappresentati in Europa, G.P. CELLA, T. TREU, National TradeUnion Movements, in R. BLANPAIN (ed.), Comparative labor law and Industrial Relations. in

Industrialized market economics, Kluwer, 2010, cap. 17o.

(86) Cfr. in generale M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavoro nell’Unione Europea,

cit., cap. XIII-XIV.

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Interventi piu incisivi e lungimiranti, come quelli sui ConsigliAziendali Europei (CAE) e sulla SE Societa Europea (SE), si sonodiretti alle relazioni industriali nelle imprese multinazionali, un’a-rea ben definita e poco incidente sugli ordinamenti nazionali, an-che se di crescente importanza. E significativo che, nonostante lacontrattazione collettiva sia stata oggetto di intervento promozio-nale con le direttive anticipatorie del protocollo sociale di Maa-stricht e poi sia stata riconosciuta dall’ordinamento europeo comediritto di rango costituzionale, essa non ha mai ricevuto regola-zione nella normativa secondaria dell’Unione, a differenza diquanto avvenuto per i diritti di informazione e consultazione,certo significativi per le Relazioni Industriali ma solo strumentalirispetto alla contrattazione. Nei fatti la contrattazione e le altreazioni collettive di ampiezza sovranazionale ed europea hannoavuto sviluppi diseguali, non in grado di svolgere un ruolo signifi-cativo nel nuovo campo di gioco. Per di piu, come si diceva sopra,le attivita piu o meno istituzionalizzate di contrattazione collet-tiva, hanno prodotto risultati di rilievo giuridico incerto e di im-patto solo indiretto sulle relazioni industriali nazionali.

In questo vuoto di regolazione comunitaria le diversita fra lerelazioni industriali non sono diminuite, anzi sono cresciute nel-l’ultimo ventennio. I tratti dell’acquis communitaire non sonoriusciti a frenare le spinte distintive ne, nonostante i rituali tri-buti alla solidarieta, la competizione fra sistemi nazionali nelle at-tivita collettiva. Infatti, sono state diverse le reazioni dei sisteminazionali alle pressioni competitive e ora alla crisi, in dipendenzadella resistenza delle loro istituzioni.

Si puo peraltro rilevare che il mutato contesto globale ed eco-nomico sta sottoponendo a tensioni inedite anche le relazioni i in-dustriali, per certi versi piu di quanto avvenga in altri aspetti delsistema e sta modificando il segno dei rapporti fra gli ordinamentinazionali e quello comunitario, con l’affievolirsi delle spinte all’ar-monizzazione e con l’emergere di tendenze, specie giurispruden-ziali, restrittive degli spazi della contrattazione e dello scio-pero (87).

(87) Cfr. fra i tanti i contributi nel numero speciale di SM, 2012, L. BORDOGNA, Laregolazione del lavoro nel capitalismo che cambia, p. 15 ss.; G.P. CELLA, Difficolta crescentiper le Relazioni Industriali europee e italiane, p. 29; C. CROUCH, Il declino delle relazioni in-

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Il fatto e che il parziale riconoscimento comunitario alle atti-vita collettive — come tutte le grandi direttive degli anni ’70 e’80 — e stato propiziato soprattutto dalla pressione delle organiz-zazioni sindacali nazionali. Queste organizzazioni, pur rimanendoprive di proiezioni europee rappresentative, potevano raggiungereil livello europeo su singole questioni, anche perche erano soste-nute da governi amici e perche potevano sfruttare sia la scarsacompattezza delle associazioni imprenditoriali allo stesso livello,sia la cedevolezza, se non il favore, delle istituzioni comunitarieimpegnate in una difficile opera di riconfigurazione dei loro obiet-tivi (sotto la guida di J. Delors).

Le modifiche del contesto intervenute negli anni piu recentihanno alterato le condizioni di operativita delle relazioni indu-striali con l’indebolimento del movimento sindacale in quasi tuttii paesi, sia pure in misura diversa, e con la crescita del potere ‘‘diricatto’’ economico da parte datoriale.

Nel nuovo contesto la maggiore mobilita del capitale rispettoal lavoro si rivela un fattore non transitorio dello squilibrio di po-tere fra le parti collettive. Un ulteriore fattore rilevante, an-ch’esso non transitorio, che opera nella stessa direzione, consistenello spostamento degli skills richiesti dalle innovazioni tecnologi-che e organizzative, verso livelli piu elevati, che attribuiscono ainuovi lavoratori caratteristiche diverse da quelle su cui si sono co-struiti i sindacati nazionali nel secolo scorso, favorendo piu omeno diffuse istanze di individualizzazione delle relazioni di la-voro. Questi fattori convergono nello spiazzare le tradizionaliforme di attivita collettiva, non solo a causa degli sfavorevoli rap-porti di forza, ma anche perche i condizionamenti che le attivitasindacali storiche possono esercitare sulle scelte aziendali sono di-ventate per molti versi anacronistiche, in quanto disallineate ri-spetto alle nuove realta organizzative e agli stessi interessi dei la-voratori da rappresentare (88).

D’altra parte le difficolta economiche di molte imprese e le ri-strettezze dei conti pubblici, entrambi particolarmente gravi in paesi

dustriali nell’odierno capitalismo, p. 554 ss.; M. REGINI, Tre fasi, due modelli e una crisi ge-neralizzata, p. 77; P. SESTITO, Alcuni commenti su tendenze generali e specificato italiane,

p. 91 ss.

(88) P. SESTITO, Alcuni commenti, cit., SM, 2012, p. 97 ss.

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come il nostro ad economia debole, riducono i margini per trovare ac-cordi e compensazioni secondo le pratiche tradizionali. Sono signifi-cative le vicende delle clausole di deroga e dei contratti di conces-sione, che hanno previsto forme di regolazione — specie a livello diimpresa — basati su scambi difficili tra moderazione o rinunce sala-riali e promesse di difesa/promozione dell’occupazione (89).

Tale sperimentazione contrattuale, di cui mi sono occupato al-trove (90), si e rivelata particolarmente travagliata e di esiti incertianche nei paesi economicamente e sindacalmente forti della comu-nita come la Germania, nonostante sia stata praticata secondo moda-lita controllate dalle organizzazioni sindacali e datoriali nazionali.

Altrettanto incerte sono le possibilita del movimento sinda-cale di reagire efficacemente a questo contesto ostile e di recupe-rare la capacita di rappresentare il mondo del lavoro negli scenarinazionali e internazionali. Le analisi che si stanno moltiplicandosul futuro delle relazioni industriali da vecchi e nuovi cultori dellamateria, riflettono questa incertezza di prospettiva presentandoforti oscillazioni interpretative, in ogni caso lontane dalle sicu-rezze del passato e segnate da evidenti preoccupazioni per le sortidelle relazioni collettive e della disciplina che le studia (91).

14. Il debole europeismo delle relazioni industriali e il peso dell’au-sterita.

Anche qui, come per il diritto del lavoro, la dimensione comu-nitaria e spesso evocata come una condizione importante se non

(89) Non a caso tali vicende sono oggetto di dibattiti intensi, fra tutti gli esperti e

gli operatori delle relazioni industriali specie europei: vedi i contributi sopra ricordati dai

SM 2012; gli scritti di M. CARRIERI, I. REGALIA, T. TREU, T. GUALTIERI, R. ERME, in Qua-derni di Rassegna Sindacale, 2011, n. 1, e da ultimo M. CARRIERI, T. TREU, Verso nuove re-lazioni industriali, 2013, cit.

(90) T. TREU, Gli accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali, in

Quad. Rass. Sind., 2011, p. 51 ss.

(91) Le diverse interpretazioni sono ben rappresentate dagli scritti citati sul numero

monografico di SM 2012, cit., e quelli riportati nel volume a cura di M. CARRIERI e T.

TREU, Verso nuove relazioni industriali, cit. V. anche le posizioni preoccupate della confede-

razione dei sindacati e del ETUI, European Trade Union Institute: i numeri monografici

di Transfer, su Trade Union Cultures, n. 17, 2012, 3, Collective bargaining, Trade Unionsand the crisis, n. 18, 2012.

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decisiva per riconfigurare il quadro delle relazioni industriali e so-stenerne nuove prospettive (92).

Il riassetto costituzionale del diritto dell’Unione conseguenteal Trattato di Lisbona e in particolare le nuove norme sul dialogosociale (§ 152 e 154 TFUE) possono segnare una innovazione dipercorso. Tali norme, se considerate in sinergia con la immissionenel diritto primario dell’Unione dei diritti sociali fondamentali,compresi quelli di contrattazione e di azione collettiva, postule-rebbero nuovi interventi di sostegno alla contrattazione collettivatransnazionale, come fonte regolatrice dei rapporti di lavoro, enon solo come sistema di azione e di costruzione sociale (93).

Questa peraltro e una ipotesi incerta sul piano interpretativoche richiederebbe espliciti avalli dalle autorita comunitarie, perora non presenti, e che dovrebbe essere sostenuta con convinzionedagli operatori giuridici; mentre invece e diffusa una interpreta-zione di queste norme in chiave difensiva, cioe come limite all’in-terventismo delle istituzioni comunitarie nelle dinamiche collet-tive (94). Si tratta di una posizione comprensibile alla luce deglisviluppi recenti del diritto specie di fonte giudiziaria, ma che e de-bole sul piano politico e forse anche su quello argomentativo. Ilfatto e che la prospettiva di una forte azione collettiva transna-zionale non trova riscontro univoco ne fra le parti sociali di livelloeuropeo, ne nei rapporti di queste con i propri affiliati nazionali.Le associazioni imprenditoriali sono contrarie, come e prevedibile,a qualsiasi rafforzamento del quadro normativo relativo ai pre-supposti dell’azione collettiva, in primis a ogni riconoscimentodello sciopero come diritto di dimensione europea. Tale posizione,lungi dall’essere contrastata dal recente riassetto costituzionale

(92) Cfr. per tutti R. ERNE, Le relazioni industriali dopo la crisi. Verso un interventi-smo regolativo post democratico?, in Quaderni di Rass. Sind., 2012, p. 168 ss.

(93) B. VENEZIANI, L’art. 152 del Trattato di Lisbona. Quale futuro per i social part-ners?, in RGL, 2011, p. 258, come esempio di intervento istituzionale di sostegno, l’A. cita

la promozione di un accordo quadro sulla rappresentativita degli attori e/o sulle regole del

conflitto e sulle retribuzioni. Veneziani ritiene che secondo la stessa normativa tale fun-

zione di sostegno non puo ritenersi circoscritta alla sfera della politica sociale o a quella in-

dicata nell’art. 153; lo sviluppo della contrattazione trarrebbe un sostegno indiretto, ma

decisivo, da un’azione delle istituzioni comunitarie di promozione dei diritti sociali, oltre

che da politiche pubbliche dirette alla promozione dell’occupazione e della crescita.

(94) S. GIUBBONI, M. PERUZZI, La contrattazione collettiva di livello europeo, cit. in M.

CARRIERI, T. TREU (a cura), Verso nuove relazioni industriali, cit.

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dell’Unione, puo avvalersi del sostegno di recenti orientamentidella Corte europea di giustizia.

Ma neppure le organizzazioni sindacali europee hanno presoposizioni univoche sulla necessita di superare gli attuali limiti dicompetenza dell’Unione nelle materie di rilevanza collettiva, (con-fermati dall’art. 153 del TFUE).

Le incertezze e le resistenze al riguardo sono di vecchia data.Corrispondono a opinioni autorevoli (95), che invitano a non so-pravvalutare la importanza di una redistribuzione delle compe-tenze per il funzionamento concreto dei rapporti comunitari. Piuspecificamente riflettono l’impostazione autonomistica prevalentein molti sindacati nazionali e nei relativi orientamenti normativi,a cominciare da quelli italiano e inglese. Tale impostazione e ac-cettata anche dai sindacati di paesi dove le Relazioni Industrialisono regolate per legge, ma le cui parti condividono la riluttanzaa delegare poteri di intervento ad autorita sovranazionali lontanee comunque non sperimentate, perche temono di subire ingerenzenon arginabili.

E significativa l’accoglienza tiepida se non ostile alle propostedi una commissione di esperti di predisporre un quadro istituzio-nale leggero alle intese genericamente indicate come transnationaltexts.

Si tratta di orientamenti alimentati dalle fasi di sindacalismoin ascesa, ma che si rivelano di scarso realismo e di ridotta effica-cia con l’indebolirsi delle Relazioni Industriali negli stessi ambitinazionali. Tanto piu che gli sviluppi della politica e dell’economiaindotti dalla crisi finanziaria si sono incaricati di sfondare i con-fini delle competenze istituzionali e delle relative fonti su piu ver-santi.

Basti pensare a come i vincoli europei relativi ai limiti di defi-cit di bilancio e di debito hanno influito sugli orientamenti in ma-teria pensionistica di molti Stati, non tramite decisioni prese se-condo il principio di unanimita che presidia l’esercizio delle com-petenze formali dell’Unione in tali materie, bensı per il peso che ildebito pensionistico esercita sugli equilibri dei conti pubblici na-zionali.

(95) J. WEILER, Il sistema comunitario europeo, Mulino, Bologna, 1985, p. 115 ss.

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Inoltre i patti fiscali che costellano le recenti prese di posi-zione europee — delle istituzioni finanziarie piu che del Parla-mento — con le conseguenti politiche di austerita, sono in gradodi condizionare direttamente le politiche salariali nazionali, comedenuncia l’ETUC, aggirando il limite di competenza dell’Unionein materia retributiva e incidendo sull’autonomia delle parti so-ciali nell’esercizio della loro funzione fondamentale di autorita sa-lariale.

I documenti sindacali europei segnalano con preoccupazionela necessita di contrastare blocchi salariali generalizzati che porte-rebbero a sostituire le tradizionali politiche nazionali di svaluta-zione monetaria con forme di svalutazione della retribuzione.D’altra parte riconoscono che le pratiche di concession bargainingche scambiano moderazione o tagli salariali con garanzie di occu-pazione e di investimenti sono una realta praticata da molti sin-dacati. Tali pratiche vanno peraltro regolate strettamente perevitare forme di ‘‘competitive wage moderation’’, forse compren-sibili in passato da parte di singoli sindacati deboli, ma che nelmomento attuale di crisi generalizzata avrebbero effetti depres-sivi per tutti sulla domanda e sull’occupazione.

Gli stessi documenti sottolineano la necessita di adeguare alcontesto della crisi le tradizionali linee guida della confederazioneeuropea che hanno sostenuto l’utilita di legare le retribuzioni al-l’andamento della produttivita. Queste linee guida sono state va-riamente riflesse nelle pratiche nazionali, comprese quelle sanciteda vari accordi interconfederali italiani, da ultimo quello del 21novembre 2012 e sostenute anche da incentivi pubblici. I testidella confederazione europea precisano che il legame dei salaricon la produttivita non deve escludere quello con l’inflazione cheserve a mantenere la tutela del potere d’acquisto; e per altroverso che il legame va posto con la produttivita a medio terminedel sistema e non con gli andamenti a breve, per evitare che nellacrisi attuale tale nesso giustifichi un blocco salariale generaliz-zato (96).

(96) Cfr in generale sulle tendenze europee B. BECHTER, Changing collective bargai-ning Pay flexibility and the search for a fair model, in M. BAGLIONI, B. BRANDL (eds.), Chan-ging labour relations, P. Lang, Frankfurt 2011, p. 111 ss.

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D’altra parte i tentativi del movimento sindacale di reagire alcontesto negativo, che sono incerti e di dubbio esito all’internodei vari paesi, non si sono estesi al di la delle constituencies nazio-nali. La resistenza del sindacato a rafforzare le proprie struttureeuropee riflette una sindrome nazionalistica che e contraddittoriacon i dichiarati impegni europei, tanto piu che si accompagna conla gia ricordata riluttanza a puntare sul rafforzamento del quadroistituzionale della contrattazione europea. La debolezza dei rac-cordi fra i vari livelli delle organizzazioni sindacali riduce l’in-fluenza delle loro rappresentanze europee nella fase di formazionedelle decisioni comunitarie. Ma indebolisce anche la rilevanza de-gli accordi europei nella fase implementativa, che dovrebbe ope-rare tramite le vie endoassociative, essendo difficile configurare inquesta materia un’efficacia diretta delle regole europee sui sinda-cati nazionali. Il fatto e che gli stessi firmatari dei vari accordi in-tercategoriali autonomi hanno escluso la possibilita di un loro ef-fetto diretto, rinviandone le modalita di attuazione alle proceduree alle prassi proprie delle parti sociali nazionali. Si tratta di unavera e propria delega « a rovescio » dal livello sovranazionale aquello nazionale, con la rinuncia a utilizzare strumenti sovrana-zionali per dar seguito ad accordi negoziati a questo livello. Que-sta situazione, si e giustamente rilevato, rischia di innescare uncircolo vizioso, perche l’indebolimento della dimensione associa-tiva inibisce la capacita della Confederazione Sindacale Europeadi far leva sulla pressione associativa per sostenere lo sviluppo diun regime regolativo europeo, con conseguente necessita per ilsindacato europeo di ricorrere in modo ancor reponderante alla lo-gica di influenza, con ulteriore scollamento dai propri mem-bri (97). La specificita dei mandati a negoziare e particolarmenteimportante oggi per le difficili scelte richieste ai contraenti chia-mati a fronteggiare la crisi e a distribuire sacrifici. L’ambito ditale mandato e incerto oltre che nelle sue basi associative anchenella normativa europea, proprio per la mancanza di norme speci-fiche sulla contrattazione transnazionale (98).

(97) S. GIUBBONI, M. PERUZZI, La contrattazione collettiva di livello europeo al tempodella crisi, in M. CARRIERI, T. TREU, Verso nuove relazioni industriali, cit.

(98) S. SCIARRA, Notions of solidarity, cit., p. 229.

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Nonostante questo contesto istituzionale ambiguo e il preva-lere di politiche economiche restrittive, non mancano segnali divitalita sul piano delle relazioni industriali (anche) transnazionali.Lo testimoniano le esperienze contrattuali gia ricordate — ma an-cora poco monitorate — che forniscono un materiale collettivo diindubbia ricchezza, nonostante mantengano uno status giuridicodebole per volonta delle parti sociali e per indicazione esplicitadella Commissione di privilegiare strumenti soft quali i quadri d’a-zione e le raccomandazioni (99).

In questa prospettiva i risultati del dialogo sociale autonomopossono essere valutate almeno in parte positivamente, ma taledialogo resta sempre una « travesty of the real thing » (100), per imotivi visti sopra, ben al di sotto di quanto necessario affinche lacontrattazione collettiva contribuisca a far progredire i livelli ditutela del lavoro in Europa, come ha fatto in passato negli ordi-namenti degli Stati membri (101).

Non mancano neppure tentativi dei sindacati europei, purcon le ambivalenze rilevate, di riprendere la strada delle direttivenegoziate: in particolare con la richiesta di rivedere la direttivasull’orario di lavoro, che si sta rivelando uno dei punti piu espostialle richieste di flessibilita delle imprese e piu critici per la con-trattazione decentrata.

Ma prevalgono nel complesso atteggiamenti difensivi, o di cri-tica negativa, piu che di stimolo verso nuove politiche istituzio-nali dell’Unione.

15. La contrattazione collettiva dei CAE e il difficile controllo deldecentramento.

Uno sviluppo piu consistente di attivita negoziale a livello eu-ropeo si e registrato nelle aziende multinazionale per il tramite

(99) Oltre agli scritti citati, v. M.R. PINERO, Patterns of European labour law in thecrisis, cit.

(100) S. GIUBBONI, M. PERUZZI, La contrattazione collettiva, cit., riportando l’espres-

sione di P. MARGINSON, K. SISSON, European integration and Industrial relations, Multilivelgovernance in the making, Basingstoke, Palgrave Macmillian, 2004, p. 103.

(101) Cfr. in generale A. ALAIMO, La nuova direttiva sui CAE, in WPL S.D.L.E., M.D’Antona, INT 69/2009, e Bollettino ADAPT, 21.1.2009, curato da ALIAS, I quattordicianni della direttiva CAE e la sua rifusione.

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dei CAE. Tale attivita e andata oltre i compiti consultivi loro at-tribuiti dalla direttiva europea originaria e confermate nella suarecente revisione, assumendo molti temi della contrattazioneaziendale propria dei sistemi nazionali di relazioni indu-striali (102). Nelle fasi positive del ciclo questi accordi hanno por-tato risultati spesso innovativi e di miglioramento degli standardeconomici rispetto ai contratti nazionali delle categorie interes-sate, potendo godere delle condizioni economiche di tali aziende,spesso superiori alle medie. Per questo sono stati generalmenteconsiderati con apprezzamento sia dai sindacati sia dalle istitu-zioni nazionali; un apprezzamento peraltro che non credo possaenfatizzarsi fino a prospettare il formarsi di una partnership fragrandi imprese multinazionali e governi nazionali) (103).

Questa contrattazione di impresa presenta non pochi limitiper le prospettive delle relazioni industriali nazionali ed europee.La sua diffusione alimenta spinte al decentramento contrattualedifficili da controllare per il sindacato, anche quando operano al-l’interno dei sistemi nazionali di relazioni industriali, e che sonoancora meno controllabili quando sono attivate da imprese chehanno un’alta capacita di regime shopping. Quando la contratta-zione con i Cae ha dovuto fare i conti con la crisi economica, leaziende hanno usato tale loro capacita per ottenere concessioni,senza rinunciare a delocalizzazioni e trasferimenti di produzioneall’interno e fuori della Comunita. Talora le scelte di queste multi-nazionali, negoziate o imposte, sono state altamente controverse,hanno sollevato reazioni dei governi nazionali e trovato eco anchenelle direttive comunitarie: in particolare hanno influito sulla re-visione della Direttiva relativa ai diritti di informazione e consul-tazione (2002/14) (104). Gli stessi Cae, che sono attori principalinella conduzione e gestione di questi accordi transnazionali, ten-dono ad agire con margini di autonomia maggiori di quelli

(102) Come ipotizza C. CROUCH, Il declino delle relazioni industriali, in SM, 2012,

cit., p. 65 ss.

(103) Il riferimento e in particolare alla chiusura dello stabilimento belga di Vil-

voorde della Renault nel 1997 per cui la direttiva e nota anche come direttiva Vilvoorde.

Cfr. in generale M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavoro, cit., p. 537 ss.

(104) Non mancano peraltro casi in cui gli accordi sono firmati dai CAE insieme

con i sindacati nazionali e internazionali per segnalare la convergenza di interessi, S.

SCIARRA, Notions of solidarity, cit.

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espressi dai consigli aziendali nei confronti dei sindacati nazionali,accentuando i profili di ambiguita del loro ruolo (105).

Questi sviluppi rappresentano in modo emblematico uno deiproblemi critici delle relazioni industriali europee, che subisconoforti pressioni per il decentramento della contrattazione collet-tiva, indotte gia prima della crisi economica dalle trasformazionidel contesto produttivo e sociale. La reazione dei sindacati euro-pei e stata di contenere le pressioni verso il decentramento, nonpotendo neutralizzarle, ricorrendo a varie forme di regolazione edi controllo: dalle clausole di rinvio intese a definire gli oggettidella contrattazione aziendale, alle piu recenti clausole di aper-tura configurate nelle ipotesi in cui tale contrattazione ha assuntocontenuti non piu solo acquisitivi ma di gestione delle crisi e diconcessione. Si tratta di una reazione di esito incerto, motivataperaltro dalla necessita di mantenere quel coordinamento centraledelle negoziazioni aziendali che costituisce un tratto caratteristicodel modello europeo nel contesto delle varieta di capitalismo, madi incerta efficacia (106).

Queste forme di controllo del decentramento sono ritenute,non solo dal sindacato, uno strumento necessario per contempe-rare le spinte alla diversita delle condizioni produttive e di lavorocon le esigenze di mantenere una base di regole e condizioni co-muni per le varie categorie di lavoratori, (almeno) nell’ambito na-zionale.

Esse sono apprezzate anche per gli effetti di stabilizzazioneeconomico-sociale che possono produrre. Lo confermano le analisiOCSE gia ricordate, secondo cui sistemi di contrattazione coordi-nata (anzitutto) dei salari, contribuiscono positivamente sia alfunzionamento dei mercati del lavoro in termini di occupazione-

(105) Cfr. i documenti delle Confederazioni europee citati sopra e anche per una va-

lutazione equilibrata di tale contrattazione T.M. PEPE, Il sistema tedesco fra globalizzazionee Mitbestimmung, in Quad. Rass. Sind., 2011, p. 199 ss.

(106) Lo confermano le posizioni assunte non solo dai protagonisti ma dagli esperti:

cfr. le diverse tesi di T. Treu, I. Regalia, T. Gualtieri, R. Erne, riportate nel numero mono-

grafico di Quad. Rass. Sindac., 2011, cit.; e V. GLASSNER, M. KEUNE, Negotiating the crisisCollective bargaining in Europe during the Economic Downturn, Working paper 10, Ginevra

ILO, 2010; T. HAIPETER, Derogation Clauses in German Metal working Industry, Internatio-

nal working party in Labour Market Segmentation, Conference Porto, 2008; A. HASSEL,

Twenty Years After German unification, in German Politics and society, 7, 2010, p. 106 ss.

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disoccupazione, sia alla loro resistenza alla crisi, facilitando l’adat-tamento dei salari e degli orari di lavoro (OCSE, 2012, p. 55).

Ma non mancano valutazioni pessimistiche su questa strate-gia sindacale e sulle implicazioni di medio periodo, da chi ritieneche tali clausole rappresentino un segno della progressiva erosionedella struttura contrattuale, anche nei paesi — come la Germania— dove questa e piu consolidata (107).

In realta la questione e rilevante per caratterizzare la fun-zione dei sistemi nazionali di relazioni industriali e riflette quindila criticita della loro esposizione alla crisi globale (108). Per questonon e risolvibile all’interno dei singoli ordinamenti. Postulerebberisposte sovranazionali da parte delle istituzioni europee, e daparte dei sindacati che sono stati i protagonisti della contratta-zione collettiva nazionale e che ne reggono ora il peso. Non a casosi moltiplicano le proposte di esperti e dei sindacati di una qual-che forma di legislazione che sostenga gli effetti della contratta-zione transnazionale e la legittimita degli attori. I sindacati sonosollecitati a una piu decisa opzione europeista delle loro organiz-zazioni, con una effettiva devoluzione di poteri negoziali alle pro-prie rappresentanze europee, o per lo meno a livelli decisionali in-termedi di gruppi di stati o di regioni esposti a problemi simili, inparticolare quelli interessati da intensa mobilita transazio-nale (109). Questa, come si e detto, non e ancora una scelta preva-lente nel sindacalismo europeo, ma la sua praticabilita con possi-bilita di successo e testimoniato da esperienze come quelle degli

(107) Cfr. soprattutto W. STREECK, Re-forming capitalism, cit., secondo cui queste

scelte sindacali e imprenditoriali sarebbero manifestazioni di un cedimento del modello te-

desco.

(108) E interessante segnalare in proposito le conclusioni di una recente ricerca con-

dotta sulle tendenze delle relazioni industriali di tre diversi paesi europei, Francia, Svezia

e Regno Unito, che, richiamandosi alle tesi sviluppate soprattutto da W. Streeck e I. The-

len, mostrano l’emergere se non propriamente di tendenze alla convergenza, certo di orien-

tamenti in direzioni simili verso relazioni industriali decentrate, a livello di azienda e indi-

vidualizzate. Inoltre rilevano come tratto comune il ruolo centrale, in certi casi decisa-

mente interventista, degli Stati nel cambiamento istituzionale. Si tratta di indicazioni che

mostrano un significativo grado di plasticita istituzionale delle relazioni industriali nazio-

nali e di una capacita di adattamento delle loro strutture e funzioni maggiore di quanto

l’analisi comparata segnali di solito (C. HOWELL, R. KOLINS GIVAN, Rethinking institutions,

cit., 232 ss.).

(109) S. SCIARRA, Notions of solidarity, cit., 2010, p. 229-242.

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accordi conclusi sotto la pressione delle note decisioni della CGELaval e Viking fra le parti sociali nei paesi baltici piu diretta-mente toccati da tali decisioni.

16. L’incerto statuto giuridico europeo dello sciopero.

La debolezza delle dinamiche associative del sindacato sulpiano transnazionale e amplificata da un’altra criticita, forse lapiu grave, nella costruzione di relazioni industriali europee, cioedalla incertezza dello statuto giuridico europeo dello sciopero.Tanto piu grave oggi, a fronte della incombenza dei principi co-munitari di liberta economica, oltre che della pressione della con-correnza globale. La questione e rimasta irrisolta come si e visto,anche dopo il riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentalidel ‘‘diritto di intraprendere un’azione collettiva’’ (art. 28) e si eacutizzata in seguito agli orientamenti della giurisprudenza apertidal caso Viking, riguardante la legittimita di scioperi nazionali in-detti per imporre gli standard contrattuali vigenti nel paese degliscioperanti nei confronti di lavoratori stranieri impiegati in unaprestazione transnazionale di servizi.

Le sentenze hanno sollevato reazioni preoccupate dai sinda-cati europei e da molti commentatori (110) perche al di la dellemotivazioni, talora ambivalenti, tendono a limitare la legittimitadel conflitto e quindi la praticabilita della contrattazione nei rap-porti di lavoro transnazionali, che sono destinati a moltiplicarsicon la crescita della mobilita delle imprese e dei loro dipendentiall’interno della comunita. Le preoccupazioni sono accresciute dalfatto che intervengono in un contesto sfavorevole all’azione col-

(110) Cfr. fra i moltissimi interventi in materia M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del la-voro, cit., 2012, p. 174 e ss.; G. ORLANDINI, Diritto di sciopero, azioni collettive transnazionalie mercato interno dei servizi: nuovi diritti e nuovi scenari per il diritto sociale europeo, in Eu-ropa e Diritto privato, 2006, p. 965 ss.; S. GIUBBONI, Diritti e solidarieta in Europa, 2012,

cit., p. 66 ss.; S. SCIARRA, Notions of solidarity, 2010, cit., p. 235; M.V. BALLESTRERO, Lesentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia ‘‘bilancia’’ il diritto di sciopero, in LD, 2008,

p. 371 ss.; S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro, cit., p. 67 ss.; B. CARUSO, Diritti sociali e libertaeconomiche sono compatibili nello spazio europeo?, in A. ANDREONI, B. VENEZIANI (a cura),

Liberta economiche e diritti sociali nell’unione Europea, Ediesse, Roma, 2009, p. 101 ss. e gli

scritti di Brunn, De Witte, Lo Faro, Malmberg, Orlandini, Sciarra, Zahn, in Il dopo Laval.Uno sguardo comparato, in GDLRI, 2011, 3, p. 363 ss.

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lettiva, come dimostrano sia il declino ormai ultradecennale degliscioperi sia la difficolta di trasferire le forme tradizionali di con-flitto oltre i confini nazionali (111). Le implicazioni di queste deci-sioni sono ancora incerte; esse forniscono un’interpretazione di-storta delle direttive 96/71, laddove attribuiscono agli standardda esse fissati il valore di limiti massimi all’azione collettiva. Macio non implica un divieto generale di elevare gli standard di tu-tela al di sopra di quelli fissati, come si e voluto sostenere (112). Ein effetti non sono mancate in tal senso iniziative, sia dei sinda-cati nazionali sia delle istituzioni pubbliche, specie dei paesi piudirettamente coinvolti nella mobilita transnazionale. Vanno men-zionate in particolare le iniziative dei governi svedese, danese, te-desco in risposta alla giurisprudenza della Corte di giustizia di-rette a riformulare la normativa sul conflitto e sulla contratta-zione collettiva nelle prestazioni di servizi transnazionali.

Le indicazioni risultanti sono convergenti nel ribadire che l’a-zione collettiva contro providers stranieri, e legittima se mira a ga-rantire trattamenti, in particolare salariali, equivalenti a quellinazionali; in tal modo rifiutano le opzioni protezionistiche e in-sieme il social dumping in quanto non funzionale a una crescitaequilibrata e quindi da contrastare con l’azione congiunta delleparti sociali (113).

Non sono mancate neppure iniziative comunitarie su pres-sione sindacale, come il tentativo di modificare la direttiva sul di-stacco dei lavoratori e la proposta di regolamento sull’eserciziodel diritto di sciopero nel contesto della liberta di stabilimento edella liberta di prestare servizi (il cd. Monti II, Proposta di rego-lazione del Consiglio sull’esercizio del diritto di promuovere azionicollettive nel quadro della libera prestazione di servizi; Comm.2012, 13 def. e Proposta di direttiva del Parlamento Europeo edel Consiglio concernente l’applicazione della dir. 96/71 relativa al

(111) Cfr. la rassegna di L. BORDOGNA, Strikes in Europe. Still a decade of decline orthe eve of a new upsurge?, in Indian Journal of Ind. Rel., 2010, p. 45, p. 659 ss., che con-

ferma la tendenza ormai decennale al declino degli scioperi e segnala il diffondersi di altre

forme di protesta non tradizionale, rilevando peraltro la difficolta che esse possano assu-

mere dimensioni transnazionali.

(112) S. GIUBBONI, Cittadinanza, lavoro e diritti sociali, cit., p. 12.

(113) S. SCIARRA, Notions of solidarity, cit., p. 237, e ID., L’Europa e il lavoro, cit.,

p. 83 ss.

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distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi,Comm. 2012, def. 21 marzo 2012).

La proposta di regolamento, pur riaffermando che non sussi-ste alcun conflitto intrinseco fra l’esercizio del diritto d’azione col-lettiva e le liberta di stabilimento e di prestazione di servizi, rico-nosce che possono presentarsi situazioni di contrasto, che spettaai tribunali nazionali di trovare il giusto equilibrio fra questi di-ritti e queste liberta fondamentali, e che l’esercizio dello scioperodovrebbe avvenire nel rispetto del principio di proporzionalita edelle leggi nazionali. In aggiunta istituisce un meccanismo di al-lerta e di informazione reciproca fra gli Stati membri circa le si-tuazioni in grado di creare turbamenti al mercato unico o di cau-sare gravi tensioni sociali affidando alle parti la ricerca di orienta-menti comuni per le modalita della mediazione e conciliazione, inpresenza di controversie transnazionali. La proposta ha incon-trato resistenze che non fanno presagire un esito positivo ed estata criticata come ‘‘un’occasione persa’’ per colmare lacune cheoggi privano la contrattazione nazionale di una minima base giu-ridica nell’ordinamento dell’UE (114).

Per correggere le implicazioni della giurisprudenza della Cortedi Lussemburgo restrittive dell’azione collettiva nelle questionisollevate dalla mobilita intraeuropea, servirebbero prese di posi-zione delle autorita comunitarie piu chiare dell’ambigua propostadi regolamento.

Si e sottolineato che una soluzione non transitoria di questoproblema puo essere ricercata con strategie negoziali che indivi-duino a livello transazionale gli standard di tutela applicabili neicasi di mobilita delle imprese e dei lavoratori. Ma le iniziative con-trattuali dei sindacati sono ora alquanto circoscritte e andrebberoquindi sostenute con iniziative specifiche dell’Unione (115).

(114) G. ORLANDINI, La proposta di regolamento Monti e il diritto di sciopero nell’Eu-ropa post Lisbona, nel volume a cura di S. BORELLI, A. GUAZZAROTTI, S. LORENZON, I dirittidei lavoratori nelle Carte Europee dei Diritti fondamentali, Jovene, 2012, p. 157-181; v. an-

che i rilievi sull’ambiguita del regolamento in A. OJEDA AVILES, Diritti fondamentali, con-correnza, competitivita e nuove regole per il lavoro in una prospettiva di diritto comparato, in

Nuove regole dopo la legge 92 del 2012 di riforma del mercato del lavoro, competizione vs ga-ranzie?, Giappichelli, Torino, 2012, p. 2-3 ss.

(115) S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro, cit., p. 89.

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17. Oltre la supplenza dei giudici.

Una regolazione organica per direttiva non e praticabile,tanto piu in assenza di accordi fra le parti sociali, anche se non epreclusa dai trattati; ma servirebbe almeno la definizione dellecondizioni generali di esercizio delle attivita collettive a livello so-vranazionale. E quanto si e verificato in tutti i sistemi nazionalidi relazioni industriali o per legge, come la maggior parte deipaesi, o in via giurisprudenziale entro un quadro statuale defi-nito, nel caso italiano fino a livello della Corte Costituzionale.

Il riconoscimento e la regolazione del conflitto sono crucialiper le prospettive delle relazioni industriali europee, e per le dina-miche collettive nazionali, che invece di essere sostenute, come estato in passato, rischiano di essere frenate dalle regole comunita-rie.

Per invertire questa tendenza non bastano riaffermazioni diprincipio, ma servono esplicite prese di posizione delle autoritacomunitarie sull’esercizio di sciopero piu chiare dell’ambigua pro-posta di regolamento.

In mancanza di indicazioni in tal senso, oggi non prevedibili,puo essere utile il rinvio ad accordi di settore; il che del resto cor-risponde a una prassi avviata con qualche risultato positivo insettori come i trasporti e in aree geografiche a forte mobilita tran-snazionale (116).

In senso parallelo e significativa la opinione di molti studiosi,che, in reazione alla giurisprudenza della Corte, propongono di ri-cercare negli ordinamenti nazionali forme di conciliazione obbliga-toria, e anche misure di sostegno, combinate con limiti all’eserci-zio del diritto, specie nei settori terziari e dei trasporti, dove ilconflitto trova ostacoli nuovi, ma produce effetti controprodu-centi (117). Non e un caso che simili proposte difensive, favorevoliad accordi di prevenzione e delimitazione dello sciopero, anchecon la individuazione di servizi minimi garantiti, per evitare con-seguenze peggiori, sono presenti nelle esperienze nazionali, come

(116) S. SCIARRA, Notions of solidarity in times of economic uncertainty, cit., p. 237

ss. e ID., L’Europa e il lavoro, cit., p. 103 ss.; G. ORLANDINI, op. ult. cit.; N. LILLIE, Unionnetwork and global unionism in maritime shipping, RI/IR, 2005, p. 88.

(117) B. HEPPLE, Rethinking laws against strikes, in KERR (ed.), The industrial rela-tions, Act. 1990: 20 years on, Dublin Thompson Reuters, 2010, p. 148.

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mostra, non solo nel nostro paese, la legislazione sugli scioperi neiservizi pubblici. Tali proposte peraltro oggi si ripropongono in uncontesto inedito (118).

Su un piano generale vanno segnalate le recenti prese di posi-zione della Corte di Strasburgo in dialogo a distanza con la Cortedi Lussemburgo (119). Anche queste discussioni sono di letturanon univoca; ma secondo una lettura positiva possono sollecitareun ripensamento delle conclusioni affermate nei casi come Laval eViking; o comunque provocare una ‘‘intelligente contaminazione’’di principi fra diverse fonti del diritto sovranazionale e una circo-lazione di standard di tutela all’interno di organismi a vario titolodotati di potere per la soluzione di controversie (120). Si tratte-rebbe di un ‘‘segnale di avanzamento dell’ordinamento globale’’nel suo complesso, indicativo di vitalita normativa su una dimen-sione piu ampia di quella comunitaria, che e da piu tempo prati-cata ma che risulta ora frenata. Il segnale e oggi affidato a posi-zioni isolate della giurisprudenza oltre che alle guidelines di isti-tuti sovranazionali come l’ILO e ai codici di condotta delle im-prese multinazionali.

Questa contaminazione di principi e utile, ma attende di sal-darsi con misure convergenti in un insieme coerente di regole, na-zionali e sovranazionali, sviluppati su spinta volontaria, ma chedovrebbero ricevere forza e conferma istituzionale (121).

In assenza di un quadro generale dotato dell’autorevolezzadella politica comunitaria, gli interventi di supplenza della Cortenon sono sufficienti, anche se venissero modificate le piu recentidecisioni. Come si e osservato, la funzione del conflitto collettivo

(118) M.R. PINERO, Patterns of European labour law, cit., e vedi anche Report of theTask force on Maritime Employment and competitiweness and policy reccomandations to theEuropean Commission, 9 June 2011.

(119) Demir and Baykara, v. Turkey, Enerij-Yapi Yol Sen, v. Turkey; e commento

in M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavoro, cit. p. 466; S. SCIARRA, Notions of solidarity,

cit.e ID., L’Europa e il lavoro, cit., p. 92 ss.; B. CARUSO, M. MILITELLO (a cura), I diritti so-ciali tra ordinamento comunitario e costituzione - italiana: il contributo della giurisprudenzamultilivello, Working Paper CSDLI M. D’Antona, Coll. Volumes 1/24, 2011, Univ. Catania.

(120) S. SCIARRA, Confronto a distanza, cit., p. 486; G. BRONZINI, Diritto alla contrat-tazione collettiva e diritto di sciopero nell’alveo protettivo della CEDU: una nuova frontieraper il garantismo sociale in Europa?, in RIDL, 2009, I, p. 4 ss.

(121) M. CARRIERI, T. TREU, Introduzione, in M. CARRIERI, T. TREU, Verso nuove re-lazioni industriali, cit.

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deve essere garantita anche sul piano giudiziario, ma il socialdumping sotteso ai casi in questione, non puo che essere contra-stato dalla politica (122).

Del resto, le esperienze storiche del diritto del lavoro, non soloitaliano indicano che la supplenza dei giudici puo essere preziosaper il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona anchein materia sociale, a cominciare dal principio di non discrimina-zione e di parita di trattamento; ma e meno affidabile, se noncontroproducente, nelle materie dei diritti collettivi e dell’autono-mia sindacale.

Interventi in queste materie attengono agli equilibri fonda-mentali dell’Europa. Essi andrebbero in controtendenza rispettoalla tendenza ad accentuare l’asimmetria tra dimensione econo-mica e sociale dell’integrazione europea; ma servirebbero a soste-nere le relazioni industriali nel compito di contribuire al supera-mento di tale asimmetria, come era nelle indicazioni di Maa-stricht, e ad evitare che le stesse relazioni industriali ne siano vit-tima.

Il tema non e certo nell’agenda dell’Europa della Troika (123)e, come si e visto, e oggetto di esitazioni all’interno degli stessisindacati. Non a caso l’attivita di negoziazione collettiva auto-noma sopra descritta si svolge prescindendo dalla prospettiva diun cambiamento di quadro e ipotizzando, invero con piu fiduciache realismo, che la sua capacita di sviluppo sia utile alla promo-zione di buone pratiche e in grado di frenare le implicazioni nega-tive della concorrenza fra ordinamenti.

(122) L’ampio spazio per l’intervento dei giudici e un tratto generale dell’ordina-

mento europeo che dipende dalla debolezza delle decisioni politiche, e che lo distingue da

altri ordinamenti democratici. Il che e parte del problema di legittimita della costruzione

europea anche nei suoi rapporti con gli Stati membri; tanto piu che le decisioni della Corte

possono solo ‘‘correggere o censurare’’ le scelte nazionali senza poter fornire rimedi a livello

europeo; cfr. i rilievi critici di F. SCHARPF, Legitimacy in the multilivel European polity, in

European Political Science Review, 2009, p. 173 ss., spec. p. 183 ss. e ID., The asimmetry ofEuropean integration, or why the EU cannot be a social market economy, in Soc. Econ. Re-view, 2010, cit., p. 2111 ss.

(123) I suoi interventi sono esempi di ‘‘operato irrispettoso degli assetti tradizionali

delle relazioni industriali’’, G.P. CELLA, Difficolta crescenti per le relazioni industriali euro-pee e italiane, in Stato e Mercato, cit., p. 38.

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18. Mutual learning e le specificita delle relazioni industriali ita-liane.

Le reazioni degli attori sociali alle difficolta delle relazioni in-dustriali nella crisi si stanno manifestando essenzialmente a livellonazionale, salvo gli esempi di accordi transnazionali sopra ricor-dati. Si e gia rilevato che queste esperienze transnazionali nonsono sostenute da interventi comunitari di tipo normativo, aparte la originaria direttiva di Maastricht. Ma va aggiunto chenon lo sono neppure dalle linee guida del MAC, perche questo me-todo non si e esteso alle relazioni industriali, a conferma della resi-stenza dei rapporti collettivi di lavoro a interventi esterni e dellarinuncia delle istituzioni europee a forzare tale resistenza.

Il mutual learning e lo scambio di buone pratiche fra i diversisistemi di relazioni industriali sono quindi affidati alla volonta diapprendimento degli attori nazionali, aiutati dalle iniziative di co-municazione e di moral suasion esperite dalle rappresentanze eu-ropee degli stessi attori in realta soprattutto dai sindacati, nonchedalla ‘imitazione’ di singole pratiche di successo da parte di sinda-cati operanti in paesi vicini, di cui abbiamo dato conto.

Si e visto come convergenze significative siano riscontrabilisoprattutto nelle adozione di strutture contrattuali a decentra-mento controllato, da tempo vigenti nei paesi centrali dell’Europae ritenute importanti per la resistenza delle relazioni industrialinella crisi; mentre per altri aspetti dei rapporti collettivi le ten-denze all’avvicinamento fra le prassi nazionali convivono con per-sistenti variazioni (124).

Il sistema italiano di relazioni industriali presenta tratti soloin parte coincidenti con le tendenze europee e nel complesso ma-nifesta una capacita di apprendimento piuttosto limitata. La no-stra struttura contrattuale e considerata a media centralizza-zione, in quanto provvista di una regolazione centrale, di catego-ria e confederale, ma non cosi stretta come quella operante neipaesi nord europei. D’altra parte il decentramento contrattuale e

(124) Rinvio alle analisi in particolare di J. VISSER, Recent Trends and persistent va-riations in Europe’s industrial relations, in www.ser.nl, Dutch social and economic council,2004, e di C. HOWELL-R. GIVAN, Rethinking institutions, cit.

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stato (finora) parzialmente controllato dal peso del contratto dicategoria.

La crisi scoppiata nel 2008 ha proposto anche il tema del de-centramento in termini nuovi, ponendo in primo piano la negozia-zione difensiva dell’esistente, con gli accordi di concessioni e delleclausole di deroga. Il contratto di categoria e rimasto centrale, macon un ruolo diverso, quello di controllo delle deroghe a livello de-centrato e di limitazione dei danni della negoziazione di conces-sione.

L’apparente stabilita della struttura contrattuale italiana co-pre dunque una realta diversa. Anzitutto non nasconde il ridottopeso delle dinamiche negoziali, che hanno portato al blocco so-stanziale della contrattazione negli ultimi anni. Inoltre la gestionedi questo assetto si e rivelata controversa sia sul versante sinda-cale, come mostrano le difficili mediazioni fra le confederazioninel periodo 2009-2012, sia fra le associazioni imprenditoriali. Eproprio sul versante datoriale che si consuma una rottura senzaprecedenti in tema di strategie contrattuali, provocata dalla ini-ziativa della Fiat, ma con implicazioni piu ampie non ancora pre-vedibili.

Inoltre la nostra struttura contrattuale si distingue da quelleprevalenti in Europa perche manca di strumenti legali e contrat-tuali che garantiscano la compattezza della struttura, come leclausole di rinvio e di tregua sindacale. Nei rari casi in cui le partihanno concordato di adottare simili clausole le hanno private diun efficace sistema sanzionatorio condannandole cosı all’ineffi-cienza (125).

I sindacati italiani, pur partecipando della tendenza depres-siva della sindacalizzazione comune a tutti i paesi occidentali, di-mostrano una tenuta comparativamente migliore di quella di altripaesi, compresa la Germania, sia per numero assoluto di iscrittisia per densita associativa. Inoltre tale dato sembra essersi stabi-lizzato negli anni piu recenti, che riportano anzi un aumento delnumero assoluto degli iscritti attivi; anche se cio non ha frenatola diminuzione del tasso di sindacalizzazione. In Italia, come al-trove, questi dati medi nascondono forti divergenze a seconda di

(125) Su questi punti rinvio al contributo di M. CARRIERI, T. TREU, Introduzione, in

M. CARRIERI, T. TREU (a cura), Versonuove relazioni industriali, cit.

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diverse variabili, in specie del settore economico e delle dimen-sioni di impresa. E da rilevare che i settori manifatturieri presen-tano un tasso di sindacalizzazione tendenzialmente piu elevatoche le categorie dei servizi di mercato, cioe non protetti. Questatendenza si lega alla variabile eta, perche la propensione ad ade-rire al sindacato e maggiore per i lavoratori maturi, largamentepresenti nei settori industriali, che fra i giovani. Analogamentemarcate sono le differenze nella sindacalizzazione a seconda deitipi di contratti di lavoro. La propensione ad iscriversi e minore,per ragioni evidenti, fra i lavoratori part time che fra quelli atempo pieno e ancora piu nettamente fra i lavoratori atipici e pre-cari; il che e una delle ragioni del minore tasso di sindacalizza-zione dei giovani (126).

Piu difficile e il calcolo del grado di copertura dei contratticollettivi, per la mancanza di rilevazioni attendibili; ma quelle esi-stenti segnalano che il tasso di copertura dei contratti nazionali erimasto alto fino a tempi recenti (127). Tale ampiezza della coper-tura si spiega in larga parte perche il contratto nazionale benefi-cia di un sostegno politico indiretto, realizzato in vari modi, so-prattutto per il tramite della giurisprudenza consolidata che haindividuato nei minimi contrattuali al salario garantito dall’art.36 Cost. e quindi applicabile a tutti i lavoratori e a tutte le im-prese anche non associate.

Analogo riferimento ai minimi contrattuali, e quindi analogosostegno alla contrattazione, e ora previsto dalla legge 92 del 2012per la definizione di un salario di base per i lavoratori con con-tratti a progetto, a sostegno della debole rappresentativita delsindacato di tali lavoratori.

(126) Cfr. in generale C. CROUCH, Il declino delle relazioni industriali, cit., p. 55 ss.;

L. BORDOGNA Tendenze delle rappresentativita sindacali in Italia e in Europa, in G. BA-

GLIONI, D. PAPARELLA (a cura), Il futuro del sindacato, EL, Roma, 2007, p. 227 ss.; 2005, P.

FELTRIN, Gli iscritti ai sindacati negli ultimi vent’anni: un bilancio in chiaro-scuro, Italiani

Europei, 2008, p. 219 ss.; T. TREU, Il sindacato nel mondo che cambia: dalla forza del secoloscorso alle criticita odierne, in Potere, Riv. Arel, I, 2011, p. 153 ss.

(127) I dati riportati da Crouch, 2012, cit., p. 63, segnalano un grado di copertura

dell’80%, stabile dal 2000 al 2010, con un leggero calo dell’indice di coordinamento dal

38% al 34%, mal’autore precisa che tale alta copertura si accompagna con un indeboli-

mento delle dimensioni e dei contenuti. V. anche T. BOERI, A. BRUGIAVINI, L. CALMFORS (a

cura), Il ruolo del sindacato in Europa, Egea, Milano, 2002.

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Un’anomalia del nostro sistema rispetto alle tendenze europeee il suo basso tasso di istituzionalizzazione sia legislativa, per l’as-senza di una legislazione sulla rappresentativita sindacale e sullecondizioni di efficacia generale dei contratti collettivi solo parzial-mente corretta da controverso art. 8 della legge 148/2011, sia con-trattuale, per la mancanza di clausole istituzionali e obbligatoriedei contratti collettivi, accettate ed esigibili.

Le condizioni per superare questa anomalia nelle direzioni in-dicate dalla migliori pratiche europee sono state da tempo ricono-sciute, con proposte che sono entrate anche nell’agenda parlamen-tare recente. Ma nessuna di queste proposte ha avuto seguito perl’operare di veti incrociati fra le parti sociali e per la insufficienteconvinzione e compattezza dei governi.

In particolare la prospettiva di estendere la presenza sinda-cale nelle aziende oltre l’ambito della sindacalizzazione esistente,che costituisce un punto fondamentale della legislazione di soste-gno del sindacato nella maggior parte dei paesi europei, anche senon sempre nella versione forte del sistema partecipativo tedescoresta lontana, per la contrarieta delle associazioni imprenditoriali.

D’altra parte i sindacati hanno sempre rifiutato di accettare ildoppio canale di rappresentanza che e prevalente nei paesi euro-pei continentali. Questa soluzione ha rafforzato il sindacato diquei paesi e ha favorito interventi legislativi relativi alla genera-lizzazione del canale elettivo dei consigli di azienda, piu accetta-bile agli imprenditori di una imposizione legislativa della presenzasindacale in azienda (128).

Il sindacato italiano ha in comune con altri sindacati europeiuna significativa presenza nelle istituzioni pubbliche, che in partecompensa la mancata sanzione legislativa della rappresentanzasindacale, dell’attivita contrattuale e della partecipazione dei la-voratori nelle imprese. Ma la compensazione e parziale, perche leistituzioni pubbliche a partecipazione sindacale in Italia hannocompiti piu circoscritti di quelli che hanno costituito un punto diforza per il sindacato e per le relazioni industriali nei paesi delcentro nord Europa. Non si puo ritenere che le presenza del sin-dacato nelle istituzioni delle previdenza e del mercato del lavoro,

(128) Cfr. piu ampiamente la Introduzione di M. Carrieri, T. Treu, in M. CARRIERI,

T. TREU (a cura), Verso nuove relazioni industriali, cit.

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ne per altro verso negli enti bilaterali, costituiscano un equiva-lente funzionale italico del sistema cd. di Ghent proprio di queipaesi (129).

Ne va sopravvalutata la capacita di tali veicoli partecipatividi supplire alle debolezze delle relazioni industriali sul terreno loroproprio della contrattazione e della rappresentanza collettiva.

Sezione IV

Il welfare europeo nell’austerita

19. Cambiamenti nei welfare europei.

Le istituzioni del welfare, nei loro vari ambiti — dalle pen-sioni agli ammortizzatori sociali, all’assistenza — sono al centrodel modello sociale europeo (130). Anche in questo caso, come inaltri aspetti della costruzione europea, le competenze e le radici diqueste istituzioni sono rimaste nazionali. L’evoluzione delle politi-che di welfare nei paesi europei partecipa dell’incerto equilibriofra tendenze convergenti e diversita resistenti, gia rilevato per al-tri tratti del diritto del lavoro e delle relazioni industriali.

Ciononostante, a conferma del ‘‘paradosso’’ comunitario, leautorita comunitarie si sono impegnate nella configurazione delleprincipali istituzioni del welfare, cosicche, l’intervento dell’Unioneeuropea in quest’area non puo definirsi secondo un semplice testdi sussidiarieta, ma tende ad assumere rilevanza crescente, anche

(129) Del resto anche le forme tradizionali di Ghent sono soggette alle sfide della

crisi e delle trasformazioni del contesto. Il loro impianto storico costruito per proteggere la

manodopera stabile, tende a non offrire adeguate tutele ai lavoratori piu esposti ai rischi

di disoccupazione ovvero a condizionare tali tutele a costi di contribuzione crescenti. E

quanto si sta riscontrando nei paesi nordici dopo le recenti riforme, con la conseguenza che

il sistema tende a perdere la sua efficacia di incentivo alla sindacalizzazione dei nuovi lavo-

ratori. Una significativa correzione di tale tendenza e rappresentata all’esperienza belga,

ove si e evitato di imporre piu alti costi di assicurazione ai lavoratori con maggiore rischio

di disoccupazione; e proprio questa correzione contribuirebbe a spiegare non solo il persi-

stente alto tasso di sindacalizzazione di quel paese, ma anche una composizione dei sinda-

calizzati meno concentrati su lavoratori maturi e pubblici impiegati.

(130) In questa sede concentro l’attenzione sulle istituzioni direttamente rilevanti

per le dinamiche del mercato del lavoro.

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se indiretta, per lo piu affidata a strumenti non normativi, in par-ticolare all’impiego delle risorse dei Fondi strutturali (131).

Le disposizioni del Trattato di Lisbona sopra commentaterafforzano la legittimita di tali interventi. Anche se resta veroquanto rilevato sopra, che gli interventi comunitari sono comple-mentari alle politiche sociali nazionali, che sono molto meno di-stributivi e piu regolatori, con limitate capacita finanziarie e diimplementazione.

Tale complementarieta di interventi corrisponde al caratteremultilivello assunto dal sistema europeo nel quale interagisconoattori e politiche nazionali e sovranazionali, con una divisione eparziale sovrapposizione di ruoli.

Le istituzioni nazionali del welfare risentono forse piu di altrisettori della nostra materia, delle trasformazioni indotte dal con-testo globale e ora dalla crisi, perche sono direttamente investitedalla pressione competitiva sui costi e della crisi fiscale, che ha ri-dotto le risorse pubbliche su cui si regge gran parte di questi in-terventi. Non a caso sul presente e soprattutto sul futuro di que-ste istituzioni sono forti le preoccupazioni per gli effetti indottidall’apertura dei mercati a paesi lontani dalle nostre tradizioni diwelfare e dalle politiche di austerita prevalenti nei paesi europeicome nelle decisioni comunitarie.

Per altro verso, tali preoccupazioni sono accresciute dalle dif-ficolta di rispondere a questi fattori costrittivi, adattando le isti-tuzioni del welfare al nuovo contesto, ma senza distruggerne icontenuti essenziali, che sono profondamente radicati nelle aspet-tative e nel costume dei cittadini europei.

Le analisi recenti indicano un quadro delle tendenze europeepiu articolato e meno oscuro di quanto non appaia dalle ricostru-zioni allarmistiche di chi contrappone nostalgicamente la GoldenAge di un welfare in continua espansione alla prospettiva dellosmantellamento progressivo. Le spese pubbliche per il welfare apartire dagli anni ’90 si sono rivelate sostanzialmente stabili, con-trariamente alle previsioni da tempo annunciate da molti osserva-tori, pur con le diversita fra i livelli di spesa nei vari paesi.

(131) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 330 ss. Sulla importanza degli

strumenti non legislativi K. ARMSTRONG, EU social policy and the governance architecture ofEurope 2020, Transfer, 2012, 18, p. 292 ss.

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Di questa stabilita delle spese per welfare va tenuto conto —come si e visto per altri settori del diritto del lavoro — anche afronte dello ‘‘stress test’’ della crisi.

Va segnalato (132) che le risorse del Fondo sociale sono statepiu volte incrementate, fino alle recenti proposte della Commis-sione di alzare al 25% la sua quota sul totale del budget di coe-sione, e di dedicare il 20% del Fondo a sostenere misure di socialinclusion.

Dagli inizi degli anni 90 fino alla meta degli anni 2000 il totaledella spesa sociale — variamente configurata — ha rappresentatofra il 25 e il 30% del PIL nazionale, con i paesi nord europei ai li-velli piu alti e l’Italia a quelli medio bassi (133).

Questa stabilita non sembra intaccata neppure negli anni re-centi della crisi, come risulta dai dati della spesa calcolata in va-lore assoluto a parita di potere d’acquisto. La valutazione in pro-porzione al PIL e meno significativa, in quanto e influenzata dal-l’andamento di questo indicatore, che ha registrato oscillazionimarcate e in molti casi negative, specie nei paesi come il nostropiu colpiti dalla stagnazione dell’economia e della produtti-vita (134).

(132) Cfr. ARMSTRONG, EU social policy and the governance architecture of Europe2020, Transfer, 2012, 18, p. 291 ss.

(133) ll’analisi dettagliata di queste tendenze, tenendo conto delle diverse misura-

zioni della composizione dei vari capitoli di spesa (anche privata), e dedicato l’intero cap. 7

del testo di A. HEMERIJCK, Changing welfare states, p. 225 ss.; vedi anche il quadro fornito

dall’OCSE Employment outlook 2008 e per l’Italia le indicazioni della commissione Onofri:

Commissione per l’analisi delle compatibilita macroeconomiche della spesa sociale 1997, in

particolare il documento di base La spesa sociale italiana in prospettiva comparata a cura

di M. Ferrera. Com’e noto, la nostra anomalia non riguarda la quota di spesa totale sul

PIL, ma la distribuzione di questa fra le grandi funzioni del welfare, e in particolare la pre-

valenza assoluta della spesa pensionistica Per i dati piu recenti: cfr. M. JESSOULA, Reportfor the. Op. cit., Research on Gender, Aspects of the financial crisis and economic downturnon welfare system, Italy, che rileva non tanto una riduzione quanto una diseguale composi-

zione delle spese del welfare italiano: fra il 1990 e il 2006 quella per le pensioni e salita dal

55,1% al 58,3% del totale; mentre le altre voci comprensive di spese per famiglia, social

exclusion, disoccupazione, casa, sono rimaste sostanzialmente stabili dal 6.9% del 1990 al

6,5% del 2006.

(134) Dai dati di EUROSTAT, (on line data base) risulta che la spesa sociale com-

plessiva in unita comuni usate nell’Unione come standard di potere di acquisto (DPS) e sa-

lita per l’aerea euro dal livello 5500 del 2000 a livello 7800 nel 2011; per l’Italia da livello

4000 a livello 7800 nello stesso periodo. Andamenti diversi si registrano, ma sempre in cre-

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Tale stabilita peraltro non avalla la tesi, diffusa, che in questoperiodo gli istituti di welfare abbiano mostrato una sostanzialeinerzia. Le analisi piu documentate indicano come tutti i sisteminazionali abbiano sperimentato profondi cambiamenti, in rispostaalle trasformazioni economiche e sociali del periodo; cambiamentiper molti versi paralleli a quelli rilevati negli altri capitoli so-ciali (135).

Il welfare italiano e considerato una parziale eccezione a que-ste tendenze. Esso e caratterizzato da una inerzia riformatrice at-tribuita ingiustamente all’influenza europea, e invece dovuta alleresistenze a modificare l’assetto fortemente squilibrato ricevutodalla tradizione: resistenze che sono state superate con ritardo ein misura diseguale solo negli anni recenti (136).

20. Convergenze contingenti: normative, gestionali e amministra-tive.

Al di la delle variazioni fra paesi, alcune tendenze comunisono state rilevate. Nell’area delle tutele al reddito in caso di inat-tivita, la riduzione della loro quantita e della loro durata e il re-stringimento delle condizioni di accesso ai benefici si sono accom-pagnati al rafforzamento delle politiche di attivazione. La restri-zione di queste tutele e delle condizioni di accesso alle stesse costi-tuisce una delle manifestazioni piu significative dell’impatto dellacrisi sul welfare pubblico. Ma qui come per altri aspetti tale pres-

scita, per gli altri capitoli della spesa sociale, con l’Italia ai livelli medio bassi, salvo la

spesa pensionistica.

(135) La contestazione delle posizioni che sostengono l’inerzia e l’immodificabilita

dei sistemi del welfare europeo e stata sviluppata con analisi e riflessioni da un gruppo di

studiosi di varia nazionalita (per l’Italia Maurizio Ferrera) che hanno lavorato insieme per

oltre dieci anni: vedi in particolare, anche per i richiami a questo lavoro comune, il volume,

piu volte citato, di A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., spec. cap. 2, p. 24 ss., ove si

trovano ampi dati empirici a sostegno delle capacita di adattamento e di apprendimento

dei vari settori del welfare, oltre che indicazioni teoriche sulle implicazioni e sulle condi-

zioni istituzionali delle riforme intervenute in questi anni. Fra le tante analisi al riguardo

rinvio ai testi di M. FERRERA, Le politiche sociali, Mulino, Bologna, 2006 e U. ASCOLI (a

cura), Il welfare in Italia, Mulino, Bologna, 2011.

(136) Fra le tante analisi al riguardo rinvio ai testi di M. FERRERA, Le politiche so-ciali, Mulino, Bologna, 2006 e U. ASCOLI (a cura), Il welfare in Italia, Mulino, Bologna,

2011.

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sione ha colpito in misura diversa i vari sistemi, in dipendenzadella loro capacita di resistenza politica ed economica. Anche inquesto caso si tratta di convergenze non assolute ma ‘‘contin-genti’’, cioe condizionate dalle specifiche condizioni nazio-nali (137). Anche dopo le riduzioni intervenute in questi anni il li-vello dei benefici garantiti dai paesi nordici e centro europei ri-mane comunque consistente.

La regolazione delle pensioni si e dimostrata la piu resistentealle riforme e la piu controversa, per il radicamento storico deivari regimi, oltre che per la loro connessione con gli assetti socialied economici complessivi: dalle strutture del mercato del lavoroal rapporto fra le generazioni. Talche in tale settore si e rilevatala maggiore difficolta di rompere gli schemi nazionali e la forzadella ‘path dependency’.

Tuttavia anche in quest’area si e registrata negli ultimi quin-dici anni una intensa attivita di riforme che ha perseguito obiet-tivi comuni (138). Anzitutto si sono progressivamente abbando-nate le politiche di prepensionamento, con la tendenza all’innalza-mento dell’eta pensionabile; in entrambi i casi con la previsione diperiodi di transizione spesso prolungati per ridurre l’impatto e lavisibilita dei cambiamenti e per smorzare le opposizioni. Inoltre sie perseguita la ‘‘individualizzazione’’ dei diritti e dei benefici, conla sanzione di un piu stretto legame fra pensione, storia contribu-tiva e livelli di reddito dei singoli, per lo piu realizzato tramite l’a-dozione del metodo contributivo (139); con il superamento dei si-stemi pensionistici privilegiati e con la riduzione delle sperequa-

(137) Cosı A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 154 ss.

(138) Un’indagine comparata esauriente cui rinvio e quella di C. ARZA-M. KHOLI,

Pension reforms in Europe, Routledge, 2008; cfr. anche G. BONOLI, The politics of pensionsreform. Institution and policy change in Western Europe, Cambridge Univ. Press, 2000; D.

NATOLI, EU coordination of pension policy: policy content and influence on national reforms,

in B. CHANTILLON, H. VERSCHUEREN, P. PLOSCAR ed., Social Inclusion and social protectionin the EU, Interactions between law and policy, Intersetia, Cambridge, Antwerp, Portland,

2012, p. 131.

(139) In questo la riforma italiana del 1995 — insieme a quella parallela approvata

in Svezia — e stata eccezionalmente anticipatrice rispetto a tendenze destinate ad esten-

dersi negli anni successivi. Per queste vicende cfr. per tutti D. NATALI, Le politiche pensio-nistiche, in U. ASCOLI (a cura), Il welfare in Italia, cit., p. 57 ss.; G. GRONCHI, Il ruolo deicoefficienti dei sistemi NDC, in S. PIRRONE, Flessibilita e sicurezze, cit., p. 71 ss.; M. JES-

SOULA, La politica pensionistica, Mulino, Bologna, 2009; il numero monografico di Econo-

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zioni fra diversi gruppi di beneficiari. Si e inoltre chiarita la di-stinzione delle prestazioni previdenziali di tipo assicurativo dalleprestazioni assistenziali e dalle misure di contrasto alla poverta.La struttura dei sistemi pensionistici si e articolata su due o trepilastri con lo sviluppo di forme di previdenza privata fiscalmenteagevolate, anche in paesi come quelli nordici con piu forti tradi-zioni di universalismo pubblico.

Tali riforme sono state sollecitate dalla necessita di contenerei costi del sistema specie in prospettiva, ma sono state attente acombinare le esigenze di sostenibilita finanziaria con la soddisfa-zione della domanda sociale di adeguatezza delle prestazioni.L’importanza di tale equilibrio e sostenuta nei piu recenti docu-menti europei, con qualche ambivalenza, che riflette non solo ladifficolta di mantenerlo, ma le diverse valutazioni circa i terminidell’equilibrio. La diversita e ben visibile nelle riforme approvatedai vari paesi sotto la pressione della crisi.

L’Agenda for adequate, safe and sustainable pensions, del 2012,presenta un insieme di misure piu attente del precedente Greenpaper del 2010 all’equilibrio fra sostenibilita e adeguatezza dellepensioni e sottolinea la importanza dell’active ageing come stru-mento per permettere la sostenibilita del sistema pensionistico fa-vorendo opportunita di impiego agli anziani. I commenti criticisegnalano peraltro come tali indicazioni siano contraddette da al-tri documenti europei, che ritengono prioritaria la riduzione dellaspesa pubblica e per altro verso non considerino gli effetti distri-butivi negativi della riduzione dei futuri benefici pensioni-stici (140).

Infine e significativo che le riforme unilaterali sono un’ecce-zione: gran parte delle riforme sono state preparate e sostenuteda processi di contrattazione/concertazione sociale o di scambiopolitico fra Stati e parti sociali, che hanno ottenuto o mantenutoun ruolo rilevante nella gestione anche della previdenza integra-tiva (141).

mia e Lavoro, n. 3, 2012, Retribuzioni, lavoro pensioni in Italia, e in generale B. EBBIN-

GHAUS, The varieties of pension governance: pension privatization in Europe, OUP, 2011.

(140) D. NATALI, The white paper of pensions: a critical reading, in Transfer 2012, 18

(3), p. 356 ss.; e anche A. ZAIDI, Sustainability and adequacy of pensions in EU countries:across-national perspective, European papers on the new Welfare, n. 15, Risk Institute Ge-

neva, 2010.

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L’analisi comparata di queste tendenze indica che i sistemipensionistici europei hanno manifestato convergenze su aspettiimportanti — quelli ricordati — e nello stesso tempo sono diven-tati piu complessi nelle strutture pubbliche e private, differen-ziandosi dai modelli tipici catalogati nel recente passato (142). Percui si e potuto concludere che la maggior parte dei paesi europei,in particolare quelli del nucleo originario (143), possono essereclassificati come ibridi rispetto a tali modelli: una conclusionequesta applicabile ad altri settori dei sistemi sociali europei (144).

Tendenze comuni si rilevano anche nella vasta area dei servizisociali, che si sono sviluppati considerevolmente.

Secondo le rilevazioni dell’OECD (Babies and bosses, reconci-ling work and family life, 2007-Doing better for families, 2011) tuttii settori del welfare di servizio hanno registrato incrementi dispesa nella generalita dei paesi europei, a differenza delle spesepensionistiche. Tale tendenza e particolarmente significativa nel-l’area dei servizi a favore della famiglia, comprendenti cura dei fi-gli, congedi parentali, misure di conciliazione fra lavoro e vita fa-miliare posti in essere con l’obiettivo prevalente di promuoverel’occupazione femminile. Tale obiettivo occupazionale e stato fra iprimi ad essere oggetto di attenzione da parte delle istituzioni eu-ropee, che hanno sollecitato le autorita nazionali ad adeguarsi an-che con direttive specifiche, in primis quelle riguardanti la paritafra i sessi. Le politiche dirette a redistribuire in modo piu equili-

(141) Cfr. il rapporto del Social Partecipative Committee, Adeguate and sustainablepensions, DG 8792/2001, e il recente Withe Paper, Agenda for adeguate, safe and sustainablepensions, 16 febb.2012, COM (2012), 55 final.

(142) Cfr. specialmente la nota classificazione di G. ESPING, ANDERSEN, The threeworlds of welfare capitalism, Cambridge Polity, 1990, e ID., Towards the good society: onceagain?, in G. Esping Andersen (ed.), Why we need a new welfare state, OUP, 2002, p. 1-25.

(143) Le tendenze dei paesi dell’Est presentano, non solo in questa materia, conte-

nuti e andamenti diversi da quelli comuni al nucleo originario della Comunita; infatti sono

quasi sempre oggetto di analisi separate, che tengono conto dei diversi punti di partenza e

dei percorsi specifici, a partire dal crollo del muro di Berlino. Cfr. in riferimento al caso

della Polonia, M. MAILAND, North South Est West in M. HEINDENREICH, J. ZEITLIN, Changingeuropean, cit., p. 164.

(144) B. PALIER ed., A long goodbye to Bismarck?, Amsterdam, Amsterdam Univer-

sity Press, e ivi spec. p. 73-100; G. BONOLI, Active labour market policy in a changing econo-nomic context, in J. CLASEN, D. CLEGG (eds.), Regulating the risks of unemployment, OUP,

2011, p. 318 ss.

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brato fra i sessi ruoli e responsabilita nella famiglia sono statepromosse in epoca piu recente, e con minore incisivita (145). Glisviluppi delle politiche europee anche in questa area si sono po-tuti appoggiare sulle prassi anticipatrici dei paesi nordici; mentrenei sistemi mediterranei, fra cui l’Italia, hanno incontrato non po-che resistenze, anche negli aspetti fondamentali della parita, chesono radicate nelle tradizioni e nella cultura nazionali (146).

In generale le tendenze ad adottare sistemi di welfare attivo,diffuse in Europa, e in parte anche nel nostro paese, sono statefavorite, dai cambiamenti avvenuti non solo nelle strutture eco-nomiche ma nei costumi riguardanti i rapporti familiari e sociali eintergenerazionali, sollecitati a loro volta dalle mutate tendenzedemografiche (invecchiamento della popolazione, denatalita, etc.)

Va altresı ricordato che sono cambiati i sistemi di finanzia-mento dei vari istituti, facendo partecipare in varia misura al lorocosto i beneficiari per ridurre il peso sulle finanze pubbliche e glioneri indiretti in capo a imprese e lavoro, mentre sono rimastemarginali nella maggior parte dei paesi le pratiche di privatizza-zione dei rischi sociali.

Un’altra serie di misure rilevanti insieme per il welfare e per ilmercato del lavoro che si sono diffuse in gran parte delle nostreeconomie sotto l’impulso della Unione europea e dell’OCSE, sonoi cd in-work benefits, incentivi fiscali e contributivi per rendereconveniente la partecipazione al lavoro, specie da parte di sog-getti percettori di indennita di disoccupazione. Si tratta di misureorientate a stimolare la competitivita dei sistemi economici, ridu-cendo il peso di interventi assistenziali che hanno gravato in pas-sato sul welfare, ma nello stesso tempo dirette a rompere il circolovizioso del welfare senza lavoro (147). Misure simili sono state pro-

(145) Cfr. anche J. JENSEN, The european social model. Gender and generational equa-lity, in A. GIDDENS, P. DIAMOND, R. LIDLE (eds.), Global Europe Social. Social Europe, Cam-

bridge polity, 2006, p. 151 ss. Peraltro la valutazione di queste tendenze presenta non po-

che difficolta dato il carattere discrezionale e la condizionalita di molte pratiche di assi-

stenza: cfr. i confronti fra i vari dati in B. CANTILLON, The Paradox, cit., p. 442.

(146) U. ASCOLI, E. PAVOLINI, Ombre rosse. Il sistema di welfare italiano dopo 20 annidi riforma, in SM, 2012, p. 439 ss. Cfr. la Direttiva 96/94 sui congedi parentali ora sosti-

tuita dalla 2010/18 che recepiscono entrambe accordi fra le parti sociali europee. F. TO-

RELLI, La difficile condizione del lavoro di cura, in LD, 2010, p. 463.

(147) S. PIRRONE, Il sistema di politiche attive del lavoro, in Flessibilita e sicurezza, a

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poste anche nell’ordinamento italiano, ma non sono stati assuntiin provvedimenti organici.

Le indagini comparate sottolineano l’importanza delle riformegestionali e amministrative del welfare: da una parte l’affida-mento a provider privati di servizi finanziati dal pubblico e peruna amministrazione piu market oriented; d’altra parte le innova-zioni nel governo e nel funzionamento delle amministrazioni pub-bliche in direzione di un decentramento delle strutture di servizio,motivato da esigenze sia di efficienza sia di vicinanza agliutenti (148).

E da sottolineare altresı, dato il suo rilievo esemplare per ilnostro paese, la efficacia delle tecniche di new public managementnella amministrazione di molti servizi, compresi in particolare iservizi di sostegno all’occupazione. Le sollecitazioni dell’Europa arendere piu efficienti i servizi all’impiego e gli strumenti di poli-tica attiva del lavoro, sono state continue, fin dalle prime guideli-nes per l’occupazione; ma con scarso esito; tant’e che proprio suquesto punto l’Italia ha ricevuto le valutazioni piu esplicitamentenegative nelle review europee. La grande importanza attribuita aiservizi all’impiego si inserisce in un orientamento tradizionaledelle guidelines europee sull’occupazione, che sono state criticate,anche da chi scrive (149), per una enfasi eccessiva sulle politichedell’offerta. Queste sono insufficienti a promuovere l’occupazionespecie in aree di sottosviluppo ove si richiedono sostegni alla do-manda e alla creazione di impresa e di lavoro (al riguardo si e rile-vato qualche recente mutamento di indirizzo: vedi retro).

Resta il fatto che la scarsa capacita di implementazione, le-gata alla debolezza amministrativa e istituzionale delle nostrestrutture pubbliche e talora anche private, competenti per i ser-vizi all’impiego e per la formazione professionale, ha ridotto nonpoco l’efficacia di riforme, comprese quelle reiteratesi negli anni

cura di S. Pirrone, 2008, cit., p. 135 ss.; S. PIRRONE, P. SESTITO, Disoccupati in Italia, Mu-

lino, Bologna, 2006.

(148) Cfr. In particolare J.T. WEISHAUPT, A silent devolution? New management ideasand the Reinvention of European public employment services, Socio economic review, 2010,

p. 461 ss.

(149) T. TREU, Politiche del lavoro, Insegnamenti di un decennio, Mulino, Bologna,

2001, cap. I.

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su questo tema, approvate con largo consenso, fino alla riformacd. Fornero (legge 92/2012) (150).

Non posso dilungarmi oltre, ma sottolineo la importanza diqueste riforme del welfare che hanno riguardato anche i paesicome la Germania piu resistenti ai cambiamenti, a motivo dellastessa compattezza del loro sistema. L’influenza dell’Unione comeagente di riforma del welfare si e esercitata in via indiretta e condiversa efficacia. Ma un indicatore della sua rilevanza consiste nelfatto che la diffusione e l’impatto delle riforme citate sono statimaggiori nei quindici paesi dell’Unione rispetto a quanto verifica-tosi in altri paesi OCSE. Anzi, ricerche basate su diversi indicatoririlevano una forte accelerazione delle riforme nella medesime dire-zione nel periodo successivo all’entrata in vigore dell’EMU (151).

21. Ricalibrare il welfare: le politiche di ‘‘social investment’’.

Come si vede, le pressioni dei fattori piu volte rilevati hannoindotto i sistemi di welfare a ‘‘ricalibrarsi’’ (152), ridefinendo lepriorita e quindi ridistribuendo le spese. Ma l’evidenza empiricanon conferma la tendenza — paventata da molti — di una ‘‘raceto the bottom’’ in queste aree come nelle condizioni dei rapportidi lavoro, motivata da tagli competitivi alle spese sul welfare.

Piuttosto si e rilevata una modifica qualitativa nell’imposta-zione di vari istituti, con il passaggio da un welfare centrato daitradizionali trasferimenti a uno orientato sui servizi e con una pa-

(150) Cfr. le rassegne e le proposte di S. Pirrone e P. Sestito. Ai disoccupati ci pensa

un’agenzia con sussidi e politiche attive, in C. DELL’ARINGA e T. TREU (a cura), Le riformeche mancano, Arel, Mulino, Bologna, 2009, p. 95 ss. La debolezza della nostra burocrazia

del lavoro e sottolineata da J. PREUNKERT-S. ZIRRA, Europeanization of domestic employ-ment and welfare regimes: the German, French and Italian experiences, in M. HEINDENREICH,

J. ZEITLIN, Changing european, cit., p. 204, come motivo della poca capacita di cogliere le

opportunita del MAC e in genere delle risorse comunitarie.

(151) T. BOERI, P. GARIBALDI, Beyond Eurosclerosis, Econ. Policy, 2009, p. 409 ss.

(152) L’espressione, ormai largamente utilizzata, ha un significato multidimensio-

nale (con quattro profili diversi) sviluppato anzitutto nelle opere di M. FERRERA, A. HEME-

RIJCK, M. RHODES, The future of social Europe: recasting work and welfare in the new eco-nomy, Paper prepared for the Portuguese presidency of the EU, OEIRAS, Celta ed., 2000;

e M. FERRERA, A. HEMERIJCK, Recalibrating European welfare regimes, ID., in J. ZEITLIN, D.

TRUBECK (eds.), Governing work and welfare in the new economy: European and Americanexperience, OUP, 2003, p. 88 ss.

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rallela modifica della funzione da quella prevalente di protezionesociale a quella di social investment (153). Questa modifica diobiettivi e di strumenti e stata stimolata verso la fine degli anni’90 dalla reazione manifestatasi alle politiche neoliberali che do-veva portare al successo elettorale di coalizioni di centro-sinistrain vari paesi europei. La nuova impostazione e stata avallata dal-l’OCSE a seguito di una correzione delle precedenti impostazionidei suoi Job Studies e poi sviluppata dalla Commissione Europea,a cominciare dalla presidenza olandese del 1997 (in una confe-renza presieduta da Delors dal titolo significativo ‘‘Social policyas a productive factor’’) e poi dalla presidenza portoghese del2000 (154).

L’idea centrale di queste posizioni e che, contrariamente alletesi neoliberali secondo cui esiste un inevitabile trade off fra effi-cienza e socialita, un welfare concepito come investimento socialee in grado di potenziare sia le capacita produttive del sistema siale esigenze di protezione sociale delle persone.

Questa nuova impostazione del welfare, avallata nella strate-gia di Lisbona, ha comportato trasformazioni significative, ancor-che in varia misura, nei contenuti e nelle modalita di funziona-mento: una maggiore enfasi sulla partecipazione delle persone esulla attivazione delle loro capacita; in parallelo una accresciutaattenzione alla personalizzazione dei servizi e insieme alla dimen-sione familiare dei bisogni, nonche, per altro verso, alle loro varia-zioni nei cicli di vita dei singoli e della famiglia.

Gli istituti di welfare riconducibili al social investment si pos-sono presentare in diverse forme ispirate a varie teorie sociali epolitiche. Le due piu significative sono la variante socio liberaleproposta dalla terza via laburista e la variante socialdemocraticadiffusa soprattutto nei paesi nordici, entrambe non prive di in-

(153) Anzi, come si e detto con qualche enfasi, da ‘‘freedom from want to freedom

to act’’, A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 39.

(154) Cfr. la ricostruzione di questi eventi, oltre che l’analisi delle implicazioni di

questo ‘‘social investment turn’’ in A. HEMERIJCK, Changing welfare state, cit., p. 133 ss.; C.

PINELLI, I rapporti economico-sociali, cit., p. 38, sottolinea come il riorientamento del wel-

fare sancito a Lisbona, doveva comportare una riallocazione della spesa pubblica dalle

classiche politiche redistributive, dove il consenso elettorale e noto e quantificabile, all’in-

vestimento in settori (formazione, ricerca, innovazione tecnologica) che aumentano la cre-

scita sostenibile, ma con effetti meno misurabili in termini di tale consenso.

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fluenza sulle scelte operate in altri paesi, fra cui Francia e Ita-lia (155). La ricerca di una sintesi ideale fra queste diverse tradi-zioni del welfare europeo, tuttora in corso, costituisce una dellesfide centrali per la ridefinizione delle future politiche so-ciali (156).

La evoluzione dei sistemi nazionali di welfare all’insegna delsocial investement, accompagnata dall’influenza indiretta ma evi-dente dell’Unione, e resa esplicita dai recenti documenti europei.Le indicazioni ivi contenute sottolineano non solo la efficacia de-gli stabilizzatori automatici ‘‘embedded’’ nei sistemi europei diwelfare nel contenere gli effetti sociali ed economici della peggiorecrisi degli ultimi decenni (157), ma anche la capacita di combinareil perseguimento dei diversi obiettivi di protezione e di inclusionesociale mantenendo la sostenibilita della spesa (158).

Questa impostazione avrebbe riscontri positivi nell’anda-mento dell’occupazione sia maschile sia femminile nell’intero ciclo

(155) Cfr. M. FERRERA, From neoliberism to neowelfarism, cit., p. 21 ss.

(156) La questione e oggetto di analisi critica da varie parti. In particolare sul tema

e tornato piu volte W. Streeck. Nei testi citati egli sottolinea la centralita del bisogno di si-

curezza per una economia e uno sviluppo umano e quindi la necessita di contrastare l’idea

che l’occupazione instabile debba essere considerata normale, predisponendo le necessarie

protezioni. Questa in effetti e una sfida centrale per tutti i sistemi sociali moderni che si

devono confrontare con un contesto economico altamente instabile. Ed e anche vero che

tale sfida non puo essere affrontata solo sul piano del diritto del lavoro e del welfare, ma

presuppone mutamenti nelle logiche produttive e di sviluppo, con politiche che non si pre-

occupino solo di adattare le regole e forme di lavoro alle logiche dei mercati, bensı di orien-

tare queste in vista delle esigenze delle persone che lavorano. Su tale obiettivo va verifi-

cata anche l’adeguatezza delle strutture tradizionali del diritto del lavoro e del welfare. La

loro qualita essenziale resta quella di garantire ‘‘una vita protetta dalle pressioni del mer-

cato attraverso diritti garantiti collettivamente’’; di qui la critica dell’A. a una concezione

solo funzionalista del welfare. Ma una sfida difficile che si e da sempre proposta alle politi-

che del lavoro e del welfare e come tale funzione sia perseguibile senza pregiudicare l’effi-

cienza del sistema necessaria ad alimentare reddito ed occupazione o anzi se siano ipotizza-

bili politiche di welfare in grado di migliorare la qualita dello sviluppo.

(157) Cfr. Joint report on social protection and Social Inclusion, 2010, DG, G.2B,

6500/10.

(158) L’equilibrio fra esigenze di protezione e obiettivi di efficienza produttiva e

una delle questioni nient’affatto risolte: vedo gia i rilievi di G. ESPING ANDERSEN, Why weneed, cit., p. 46; e A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 137, i quali sottolineano

che l’investimento sociale non puo essere un sostituto degli istituti di protezione sociale e

che anzi una tutela di reddito minimo e una precondizione per una efficace strategia di in-

vestimento sociale.

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di vita, e in un aumento della produttivita accompagnato dabassa inflazione senza comportare necessariamente aumento dellediseguaglianze, come invece ritengono i sostenitori del ‘‘trilemmaof the social service economy’’ (159). Il verificarsi di questi effettipositivi e soggetto a condizioni che sono lungi dall’essere acqui-site, a cominciare dalla necessita di risorse sufficienti a sostenereun welfare cosı concepito; ma costituisce un test importante per ilfuturo e per il senso stesso del welfare, in particolare per avvalo-rare la sua funzione non solo di protezione ma di elemento stimo-latore di sviluppo sia economico sia personale (160).

La Commissione ha sempre sottolineato il nesso fra occupa-zione, protezione sociale e inclusione, precisando peraltro che l’in-serimento nel mercato del lavoro e un elemento necessario manon sufficiente per realizzare l’obiettivo della piena occupa-zione (161).

L’operare di questo nesso costituisce un punto critico non ri-solto delle politiche del welfare europeo, soprattutto in questianni di crisi (162). La criticita e particolarmente evidente neipaesi come il nostro che presentano debolezze storiche su en-trambi i versanti delle politiche attive del lavoro, poco sviluppatee diseguali sul territorio, e della struttura del welfare, ancorapriva di adeguate reti universali di sicurezza.

La rilevanza di queste politiche del welfare e confermata daiconfronti fra i paesi europei e dall’OCSE, i quali forniscono ele-menti per ritenere che istituzioni ispirate a un welfare attivo uni-versale e ‘‘service oriented’’, lungi dall’appesantire l’efficienza

(159) In particolare Iversen e Wren, 1998, Equality employment and budgetary re-straint: the trilemma of the service economy, World Politics, p. 5007 ss., questa tesi e ampia-

mente discussa dagli autori citati; D. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 221 ss.; G.

Esping Andersen (ed.), Social foundation of industrial economies, OUP, 1999.

(160) Cfr. M. FERRERA, From neo liberism, cit. e anche M. CERUTI, T. TREU, Organiz-zare l’altruismo. Globalizzazione e welfare, Laterza, Roma, 2011.

(161) Cfr. in particolare la ‘‘Renewed social agenda’’, Opportunities access and soli-darity in the 21st century Europe, (European Commission, COM 2008, 412 final), con una

specifica accentuazione sulla necessita di un welfare legato al ciclo di vita e di una promo-

zione del lavoro femminile.

(162) V. i rilievi di B. CANTILLON, The paradox, cit., p. 432 ss. Anche qui le prove

piu convincenti della capacita di coniugare equita con efficienza economica provengono

dai paesi nordici: v. A. Sapir, Globalization and the reform of the European social model, in

JCMS, 2006, p. 369 ss.

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economica, rispondono meglio alle sfide del cambiamento socialeed economico, con risultati migliori in termini sia di occupazionemaschile e femminile, sia di performance del sistema econo-mico (163). Inoltre si e rilevato che proprio l’insieme di queste isti-tuzioni ‘‘possiede il maggior potenziale di legittimazione per l’U-nione europea’’ (164).

Questi risultati sono particolarmente significativi nei paesinordici, dove tale linea di riforme e stata praticata con maggiorrigore e sostenuta da politiche economiche parimenti innovative;ma sono presenti anche in altri paesi dell’Europa continentale, enello stesso Regno Unito, che hanno riorientato in tutto o inparte le loro istituzioni nella medesima direzione.

Le medesime indagini segnalano come eccezione a queste ten-denze convergenti una minoranza di paesi caratterizzati ancorada un welfare settoriale, passivo e resistente al cambiamento, fracui si fa rientrare anche l’Italia. Le riforme degli ultimi anni,come si e visto, hanno in parte corretto il ritardo del nostro paeserispetto alle migliori pratiche europee, peraltro in misura carentesoprattutto nell’adeguamento delle reti di sicurezza sul mercatodel lavoro e dei servizi relativi (165).

22. Social investment e inclusione sociale.

Indicazioni meno univoche e piu critiche emergono da alcuneanalisi in ordine alla capacita di queste politiche di welfare di ope-rare efficacemente in senso redistributivo. Nonostante la stabilitadella spesa sociale e gli effetti positivi sull’occupazione, i sistemidi welfare hanno per lo piu comportato pochi miglioramenti nella

(163) Cosı da ultimo il cd. Social Investment Package, COM (2013), 83 final, cit.; e

l’ampia rassegna sulle performance dei vari istituti di welfare e il raffronto fra i vari mo-

delli europei in A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., l’intero cap. 7, che fornisce am-

pia documentazione dell’impatto, particolarmente positivo sulle variabili economiche e so-

ciali dei sistemi nordici e al contrario dei risultati deludenti dei paesi mediterranei — a

conferma che non esiste contraddizione fra ‘‘welfare generosi’’ ed efficienza economica.

(164) M. FERRERA, Amici o nemici? Integrazione europea e modelli sociali nazionali,

in Riv. It. Sc. Pol., 2006, p. 20.

(165) Per questi aspetti rinvio alle trattazioni generali di U. ASCOLI (a cura), Il wel-fare in Italia, cit., spec. p. 147 ss.; M. FERRERA, Le politiche sociali, cit., spec. p. 113 ss. e ai

contributi raccolti da GUERZONI (a cura), La riforma del welfare, cit.

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riduzione dei livelli relativi di poverta, anche fra la popolazioneattiva, che sono rimasti stabili e anzi sono talora aumentati. Que-sta tendenza e confermata dalle rilevazioni dell’OCSE (166), purbasate su dati eterogenei, secondo cui il tasso di poverta dallameta degli anni 80 alla meta del 2000 e cresciuto in due terzi deipaesi considerati. Tale paradosso dipenderebbe da vari fattori:dal fatto che gli effetti positivi sull’occupazione e sul reddito sisono manifestati in modo diseguale nei vari gruppi di popola-zione, beneficiando in misura ridotta proprio le fasce di personecon meno opportunita di lavoro, per situazioni personali e fami-liari (di educazione, etc.) e piu a rischio di marginalita sociale;inoltre perche le tutele del reddito della popolazione attiva si sonoridotte e le politiche sociali sono diventate in generale meno gene-rose. Senza dire che la crescita dell’occupazione ha incluso un nu-mero eccessivo di lavori di bassa qualita e precari. Questi esitimetterebbero in forse uno degli impegni centrali assunti dall’Eu-ropa sociale, quello di far partecipare l’intera popolazione ai bene-fici della crescita e del benessere (European Commission, RenewedSocial Agenda, 2008).

Tali indicazioni suggerirebbero di valutare con piu attenzionel’impatto redistributivo delle politiche di welfare in relazione allanatura socialmente stratificata dei nuovi bisogni, evitando di as-solutizzare gli orientamenti sopra descritti di welfare dei servizi,in quanto meno efficaci nel rispondere a tali bisogni e rinforzandoinvece le capacita redistributive dei programmi sociali.

Questi rilievi critici non escludono la necessita che gli attualisistemi di welfare comprendano politiche dirette a promuovere lainclusione sociale tramite una piu ampia partecipazione al lavoro,maggiori opportunita di formazione e di accesso ai servizi di qua-lita (167).

(166) Growing unequal 2008, p. 129. V. I rilievi critici di B. CANTILLON, The paradoxof social investement State: growth employment and poverty in the Lisbon era, in Journal ofEuropean social policy, 2011, p. 432 ss.; E.B. CANTILLON, H. VERSCHUEREN, P. PLOSCAR, So-cial protection and and social protection in the EU: any interaction between law and policy?,

in B. CANTILLON, H. VERSCHUEREN, P. PLOSCAR, (eds), Social inclusion, cit., p. 1 ss.; e anche

M. DAWSON, B. DE WITTE, The EU legal framework of social inclusion and social protection,

nello stesso volume, cit., p. 129.

(167) Cfr. le conclusioni del contributo di B. CANTILLON, The paradox, cit., p. 445, e

le sottolineature di M. FERRERA, From neo liberalism, cit p. 19, circa l’importanza di ac-

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Tanto e vero che i migliori risultati dei paesi nordici nellalotta alla poverta, peraltro anche qui con qualche rallenta-mento, dipendono dalla maggiore efficacia delle politiche occu-pazionali e degli investimenti formativi. Ma le osservazioni diquesti autori segnalano la necessita di ricalibrare interventi diredistribuzione e azioni positive di social investment, tenendoconto della nuova stratificazione dei rischi sociali oltre che delleristrettezze budgetarie. La capacita di riforme manifestata daisistemi europei e stata indubbia e ha dato prova (finora) di po-ter fronteggiare la crisi mantenendo controllata, ma non ridu-cendo, la spesa sociale e garantendo dinamiche salariali equili-brate. Non altrettanto puo dirsi della capacita di promuoverel’occupazione specie dei gruppi meno rappresentati nel mercatodel lavoro ne di garantire adeguate protezioni per le personeescluse dal lavoro (168).

L’urgenza di rafforzare le misure di contrasto alla poverta eall’esclusione sociale e sollecitata dal fatto che la crisi colpisce par-ticolarmente le persone e i gruppi piu deboli, a cominciare daibambini e dalle famiglie monoreddito, ma sempre piu anche fasceampie di working poors (169).

Le risposte di policy, alla gravita delle situazioni sociali e per-sonali, sono fortemente differenziate fra paesi, come si vede dalfatto che le persone a rischio di poverta oscillano dal 9 al 26%,mentre le spese relative oscillano da meno dell’1% a oltre il 3,5%.

Una delle misure privilegiate negli orientamenti comunitari,che hanno avuto piu seguito e la introduzione di schemi di red-dito minimo per persone e famiglie con redditi inferiori alla sogliaritenuta necessaria per far fronte alle esigenze basilari di vita.Questi schemi si sono diffusi, in quasi tutti i paesi, sia pure convarianti. Fa eccezione l’Italia dove questo strumento, com’e noto,

compagnare le tutele monetarie del reddito con formazione politiche attive del lavoro, per-

che ‘la controparte’ dell’inclusione e l’attivazione.

(168) B. CANTILLON, The paradox cit., p. 444, ipotizza che questo sia stato il prezzo

per la stabilita del sistema e che per altro verso possa essere una ‘‘soluzione’’ del trilemma

di Iversen e Wren, sopra citato.

(169) Per l’altro verso l’invecchiamento della popolazione ha drammatizzato una se-

rie di bisogni nuovi inediti, in particolare di sostegno alla non autosufficienza. Vedi ampia

comparazione e discussione sul punto in A. Hemerijck.

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e stato sperimentato per un breve periodo su scala nazionale e poiripreso da alcune legislazioni regionali (170).

Queste forme di reddito minimo hanno contribuito a ridurrele aree di poverta. Ma il Consiglio europeo, che ha dedicato unospecifico approfondimento al tema nel 2010 (Anno dedicato allalotta alla poverta), ha riconosciuto la necessita di aumentarnel’efficacia e il grado di diffusione, combinando la tutela del red-dito con misure positive di inclusione (politiche attive e forma-zione continua).

L’implementazione di tali orientamenti e affidata allo stru-mento tradizionale del MAC. Nonostante esso sia stato integratoda sistemi di monitoraggio, partecipato da governi e parti sociali,diretti a verificare le misure piu adatte a rafforzare questo stru-mento di fronte alla crisi, la sua efficacia nel sostenere gli obiettiviproposti presenta gli stessi limiti ricordati in generale. Tanto piuche le forme di reddito minimo richiedono risorse finanziarie e or-ganizzative considerevoli, cui dovrebbe contribuire il bilancio eu-ropeo, in particolare con un rafforzamento dei fondi strutturali; ilche non si sta verificando.

Un recente provvedimento del Consiglio Europeo ha intro-dotto una misura specifica per fronteggiare le situazioni personalidi grave indigenza, che si stanno moltiplicando in questi anni inmolti Stati europei (171). L’incidenza della decisone e ancora unavolta condizionata dalle risorse limitate destinate all’obiettivo.

Per altro verso e significativo che il processo di mutual lear-ning europeo abbia contributo a diffondere nei vari paesi stru-menti simili per l’accertamento dei mezzi a cui condizionare l’ac-cesso alle varie prestazioni assistenziali, nonche la eventuale par-tecipazione dei beneficiari ai costi dei servizi. Tale orientamentocomunitario e stato ripreso in Italia a seguito delle proposte dellaCommissione Onofri, con la introduzione nel 1998 dell’indicatoredella situazione economica equivalente ISEE (172), in seguito va-

(170) Cfr. E. RANCI ORTIGOSA, Il reddito minimo di inserimento, in L. GUERZONI, Lariforma del welfare, cit. p. 441 ss.; E. RANCI ORTIGOSA, D. MESINI, Le politiche di contrastoall’esclusione sociale, in Esclusione sociale, cit., p. 2012, p. 367 ss.

(171) Cfr. la proposta di regolamento del parlamento e del Consiglio relativo al

Fondo di aiuti europei agli indigenti, (24.10.2012, SWD 2012, 350 final).

(172) Cfr. D. MESINI, L’ISEE; applicazione e auspicabili correttivi a un decennio dal-

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riamente aggiornato, fino alla recente riforma elaborata (ma nonapprovata) dal governo Monti.

Anche qui i giudizi sulla capacita di tenuta e sulle prospettivedi tali politiche sono prematuri. Questi aspetti del welfare subi-scono al pari e piu direttamente di altri le ristrettezze finanziarieindotte dalle politiche di austerita, oltre che la concorrenza da co-sti, senza poter beneficiare della messa in comune di risorse comu-nitarie ne del sostegno di strategie univoche.

Sezione V

Considerazioni conclusive: l’europeizzazione alla prova della crisi

23. Il cambiamento nelle istituzioni del lavoro europee.

I sistemi sociali dei paesi europei confrontati con le granditrasformazioni della globalizzazione e poi della crisi, l’abbiamopiu volte ricordato, hanno seguito negli ultimi anni traiettorie se-gnate da scelte ambivalenti, non senza discontinuita e momentidi regresso: in ogni caso lontane dalle prospettive di progresso li-neare, insieme economico e sociale, su cui si erano appoggiate nelsecolo scorso.

L’ordinamento sociale comunitario presenta una evoluzionenon meno diseguale, caratterizzata da marcate oscillazioni, chesono accentuate dai suoi caratteri di incompletezza e di dipen-denza dagli ordinamenti nazionali, ancora dominanti nelle areecruciali della nostra materia, e per altro verso soggetta, gia primadella crisi, a stimoli deboli o contraddittori delle istituzioni pub-bliche e delle organizzazioni sociali sovranazionali.

Il panorama europeo del diritto del lavoro e delle relazioni in-dustriali resta dunque percorso da tratti di diversita, piu o menoaccentuati a seconda delle aree tematiche in cui tali materie sonostrutturate, come si e visto dalle analisi ad esse dedicate. Comepure diversamente si sono articolate le influenze reciproche fra lo-giche nazionali e guidelines europee. Anche se le sfide esterne ai

l’introduzione, in Prospettive sociali e sanitarie, 2011, p. 16-18; R. TANGORRA, L’ISEE, unariforma incompiuta, in GUERZONI, La riforma del welfare, cit., p. 137 ss.

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sistemi nazionali sono comuni, e spingono secondo alcuni versoassetti neoliberali, esse continuano a manifestarsi con profili pro-blematici distinti, talora divergenti, a seconda dei caratteri concui i vari sistemi si sono configurati; e trovano in questi reazionipiu o meno efficaci. In tal senso la costruzione europea continua acaratterizzarsi come governo delle differenze (173).

La complessita del sistema multilivello come delle sue fontinormative e la sua accentuata variabilita nel tempo danno ra-gione della incompletezza delle analisi fin qui condotte: tanto piuche esse sono spesso influenzate da elementi valutativi e ideologicidi cui e intrisa la nostra materia, anche quando la si osserva at-traverso il filtro comunitario.

Ancora piu incerto e l’impatto che la crisi globale puo averein prospettiva, perche essa costituisce uno ‘‘stress test’’ senza pre-cedenti per l’integrazione economica come per gli istituti di wel-fare (174), portando anche i sistemi sociali piu robusti in territorisconosciuti (175). Non e un caso che su questo aspetto quasi tuttele indagini qui riferite tendono ad arrestarsi o si limitano ad avan-zare ipotesi incerte.

In questo contesto di incertezza gli elementi raccolti rivelanotuttavia un quadro di significativa trasformazione delle principaliistituzioni del lavoro (176). Il cambiamento e verificabile non solonegli ordinamenti nazionali, colpiti dagli shock esterni, ma anchenegli orientamenti della Comunita. Lo si e visto sia nelle diverseimpostazioni strategiche, da quelle di Lisbona 2010, ridefinite nel2004, fino al documento Europa 2020, sia al massimo livello costi-tuzionale con le innovazioni introdotte dal trattato di Lisbonanelle competenze e negli obiettivi dell’Unione e prima ancora nelriconoscimento del pieno valore giuridico dei diritti fondamen-tali (177).

(173) S. GIUBBONI, Diritti e solidarieta in Europa, cit., p. 31 ss.

(174) A.B. ATKINSON, A stress test for the welfare states, in A. HEMERIJCK, B. KNAPEN,

E. VAN DOOYNE (eds), Aftershocks, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2009, p. 207

ss.

(175) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 5.

(176) Cfr. da ultimo in generale S. NEGRELLI, Le trasformazioni del lavoro, Laterza,

Bari, 2013.

(177) Il quadro delle vicende comunitarie sarebbe ancor piu complesso se si seguisse

anche la traccia della giurisprudenza della Corte Europea di giustizia — qui tralasciata —

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L’analisi qui sviluppata ha segnalato, sia pure con le cautelenecessarie, alcuni caratteri delle migliori pratiche sociali diffusenel continente, che le hanno dotate, specie nei paesi centrali euro-pei, di una significativa capacita di resistenza agli shock della glo-balizzazione e della crisi (178). Ricordo in particolare: il bilancia-mento tra le varie forme di flessibilita interna ed esterna e i sistemidi sicurezza, adottati specie nei paesi centro-europei, al fine di cor-reggere i dualismi del mercato del lavoro; la ricalibratura del wel-fare con il passaggio, variamente configurato, da un welfare cen-trato sui trasferimenti monetari a uno orientato sui servizi, e conla parallela modifica della funzione da quella prevalente di prote-zione sociale a quella di social investment; la presenza di un si-stema coordinato di contrattazione collettiva, in grado di control-lare le spinte centrifughe del decentramento. E significativo chequeste pratiche siano state avallate dalle guidelines europee, conqualche accentuazione negli ultimi documenti, nonche in partedall’OCSE.

Meno univoche sono le risultanze empiriche circa la misura incui la evoluzione di queste pratiche nazionali e stata influenzatadalle guidelines europee. Se e vero che le distanze fra i modelli na-zionali persistono, specie fra quelli piu distanti fra loro, va peraltrorilevato come la diffusione di queste riforme e delle buone pratichesia stata piu accentuata nei paesi dell’Unione, specie nei quindicioriginari, di quanto non sia per la generalita dei paesi OCSE (179).

che ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo del sistema comunitario del lavoro, al punto

di configurare intere sezioni del diritto del lavoro europeo come diritto giudiziario: una let-

tura ancora illuminante e quella di G.F. MANCINI, La Corte di giustizia: uno strumento perla democrazia nella Comunita Europea, Mulino, Bologna, 1993; cfr. la recente ampia analisi

di F. SCHARPF, The asymmetry of European integration, cit., che attribuisce alla giurispru-

denza della Corte, con enfasi forse eccessiva, un ruolo decisivo nella spinta all’allargamento

del processo di integrazione, anche di quella per via legislativa, e nella riduzione dell’auto-

nomia degli Stati. Tale giurisprudenza dedita alla rimozione degli ostacoli all’espandersi

dei mercati e delle liberta economiche, avrebbe effetti fortemente limitativi sui diritti so-

ciali specie collettivi, tali da mettere a rischio la tenuta dei modelli di economia sociale di

mercato, avvantaggiando il prevalere dei modelli liberisti.

(178) Tale capacita e stata sostenuta dalle riforme adottate negli anni soprattutto

in questi paesi da coalizioni politiche di vario segno ‘‘progressista’’: v. oltre alle indicazioni

comparate riportate nei paragrafi precedenti, il commento di C. TRIGILIA, Sulla politicaleconomy di Germania e Italia, Il Mulino, 2012, p. 1082.

(179) J. VISSER, in HEIDENREICH, ZEITLIN, Changing welfare states, cit., p. 49.

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Inoltre molti aspetti dei sistemi nazionali di diritto del lavoroe delle relazioni industriali hanno mantenuto una identita comunedistinta dai modelli anglosassoni e una resistenza alle spinte dere-golative affermatesi in quei modelli (180). Nelle varianti nordichei sistemi di flexicurity e di welfare universale hanno saputo nonsolo ridurre l’impatto sociale della crisi, ma rispondere alle sfidedel cambiamento sociale, con risultati positivi in termini di occu-pazione e di condizioni di vita.

24. Progressi e fragilita dell’europeizzazione.

Per altro verso, nonostante le difficolta finanziarie e le spintederegolative manifestatesi in molti ordinamenti nazionali e nel-l’ordinamento comunitario abbiano indotto restrizioni nel welfare,i dati empirici gia ricordati non confermano le ipotesi di una ‘‘raceto the bottom’’ che si temeva fosse una conseguenza inevitabiledella globalizzazione e della competizione fiscale fra i sistemi euro-pei, magari con l’avallo delle autorita comunitarie.

Inoltre la influenza europea esercitata tramite i diversi stru-menti disponibili, sempre piu non legislativi, ha portato a formediffuse di ibridazione fra i vari modelli nazionali europei di di-ritto del lavoro e di welfare, che li hanno allontanati dalle confi-gurazioni originarie descritte nelle analisi di qualche decenniofa. Il che e una prova dell’efficacia di questi strumenti e del pro-cedere, sia pure graduale dell’europeizzazione dei nostri si-stemi (181).

Senza dire che non ci sono evidenze univoche che il ruolo de-gli attori pubblici e del settore pubblico in molti paesi sia in de-clino. L’intervento pubblico in economia resta piu che mai deci-sivo nei paesi emergenti e viene sollecitato dalla crisi anche in al-cuni Stati forti dell’Europa (182).

(180) In alcuni settori le convergenze nelle pratiche effettive sono piu nette che

nella legislazione, M.P. HAMEL, B. VANHERCKE, The OMC and domestic social policy makingin Belgium and France: window dressing, one way impact or reciprocal influence?, in M. HEI-

DENREICH, J. ZEITLIN, Changing european, cit., p. 105.

(181) J. VISSER, Neither convergence, in M. HEIDENREICH, J. ZEITLIN, Changing Euro-pean, cit., p. 51; S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro, cit., p. 46 ss., sottolinea l’aspetto partico-

lare della ‘‘permanente ibridazione fra le fonti’’ e la ‘‘marginalizzazione del metodo giuri-

dico, a favore di scelte operative sottratte alla competenza dei parlamenti nazionali.

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Va rilevato inoltre che l’avanzare dai processi di social lear-ning in genere e nel welfare in particolare, si fonda sull’accumula-zione di cambiamenti incrementali che richiedono tempo; tantopiu perche la costruzione europea non riguarda solo spazi norma-tivi e istituzionali comuni, ma un nucleo di valori, simboli e trattidi identita condivisi da tutti i cittadini dell’UE: tale nucleo do-vrebbe ‘‘puntellare’’ gli altri spazi, ma richiede ‘‘l’aumento gra-duale della fiducia fra le varie comunita nazionali’’ (183).

Le trasformazioni del welfare nel contesto europeo sono unterreno significativo per verificare i meccanismi di social learninge di policy transfer e il potere trasformativo delle idee nei processidi cambiamento istituzionale (184).

Detto questo, le debolezze del governo europeo hanno ridottola coerenza delle politiche economiche e l’incidenza delle guideli-nes sociali, soprattutto di quelle orientate a obiettivi piu innova-tivi. Inoltre hanno reso meno agevole anche quella forma di euro-peizzazione ‘‘orizzontale’’ realizzabile attraverso la comunicazionee la contaminazione fra le pratiche di diversi paesi (185).

Per gli stessi motivi si sono andate accentuando le sfasaturefra gli obiettivi dichiarati e la loro traduzione in pratiche coerentisul piano sia nazionale sia comunitario. Gli aspetti piu innovativie rassicuranti delle politiche di flexicurity e di welfare sono stati

(182) Cfr. l’editoriale di F. RAMELLA, in SM, 2012, p. 12, riportando recenti analisi

dell’Economist, 21 gennaio 2012, A. Wooldridge.

(183) M. FERRERA, Amici o nemici? Integrazione europea e modelli sociali nazionali,

Riv. It. Scient. Pol., 2006, n. 1, p. 19; Anche B. CANTILLON, H. VERSCHUEREN, P. PLOSCAR,

Social protection, cit., p. 14 ss., che sottolinea come la diversita delle situazioni sociali ed

economiche, le contrastanti pressioni degli interessi e la necessita di ricercare consenso con-

corrano nel suggerire approcci incrementali e politiche per ‘‘piccoli passi’’.

(184) Cfr. il dibattito e le diverse tesi di vari autori gia richiamati. Cfr. anche per

applicazioni specifiche J. VISSER, A. HEMERIJCK, A dutch miracle job growth, welfare reformand corporatism in the Netherlands, Amsterdam, Amsterdam University press, 1997; B. EB-

BINGHAUS, A. ASSEL, Striking deals: concertation in the reform of the continental Europeanwelfare states, in Journal of European Public Policy, 2000, 7, p. 44-62; e in generale A. HE-

MERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 94 ss., che sottolinea come il policy learning si basi

su un processo di trial and error nel quale i ‘‘policy makers draw lessons from policy expe-

rience’’, e che critica la tesi di Streeck e Thelen, perche sottovaluterebbero l’importanza

delle componenti ideali e delle motivazioni nelle trasformazioni istituzionali, nonche delle

stesse ambiguita istituzionali nel processo di apprendimento sociale (p. 97 ss.).

(185) J. VISSER, Neither convergence, cit., p. 44 ss. e ID., Recent trends and persistentvariation in Europe’s Industrial relations, cit., 2004.

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oscurati dalla pressione dei mercati e dalla ‘‘path dependancy’’ dimolti ordinamenti nazionali, entrambe non abbastanza correttedalle istituzioni comunitarie, specie negli ultimi anni in cui questesi sono concentrate sul tema della stabilita finanziaria.

La riduzione della portata sociale delle politiche ha contri-buito a indebolire la credibilita delle istituzioni europee di frontealle constituencies nazionali, incrinando la fiducia dei cittadininella capacita dell’Europa di curare i disagi e le ansie originatidalla crisi. Gli eventi piu recenti segnalano drammaticamentecome l’inadeguatezza di queste risposte rischi di indebolire lastessa legittimazione democratica della costruzione comunitaria edi alimentare reazioni antieuropee e populiste all’interno di moltiStati membri (186).

Le tendenze rilevate non avallano peraltro le posizioni ricor-date all’inizio dagli autori che tendono a marginalizzare la rile-vanza delle pratiche comuni sviluppatesi in questi anni e il pesodell’agenda sociale comunitaria. Non mancano le prove — come sie visto — che le trasformazioni degli istituti di welfare sviluppa-tisi negli anni, secondo le guidelines europee, combinando investi-menti sociali con tutele e protezioni di base, hanno contribuito aridurre l’impatto delle difficolta economiche sull’occupazione esulle diseguaglianze, e in certi paesi hanno portato a risultati posi-tivi. Si e anzi sostenuto, in controtendenza con le opinioni cor-renti, che lo spazio sociale europeo, in quanto risultante da uncontinuo bilanciamento fra interessi diversi e fra orientamenti co-munitari e autonomie nazionali, presenta piu ‘‘resistenze istituzio-nali’’, nel senso di maggiore adattabilita, dello spazio economico,la cui architettura rigidamente regolata rende molto difficile con-trastare il contagio della crisi del debito (187). Questa tesi e avan-zata nonostante i suoi sostenitori riconoscano che ogni spazio so-ciale efficace e criticamente dipendente da un efficace spazio eco-nomico (188).

(186) Tutte le indagini recenti, segnalano con preoccupazione questi rischi, proprio

partendo dalle debolezze e dalle delusioni dell’Europa sociale: C. CROUCH, Il potere dei gi-ganti. Perche la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, 2012, e piu speficamente G.P.

CELLA, Mercato senza pluralismo, cit. Tali rischi sono alimentati dalle tendenze di non po-

chi leaders politici nazionali a imputare all’Europa misure impopolari di riforma.

(187) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 330 ss.

(188) Cfr. in generale sui rapporti fra le diverse aree sociali ed economiche nel pro-

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25. Lo stress test della crisi e il peso delle politiche di austerita.

Pur accettando queste impostazioni cautamente ottimistiche,ritengo pertinente la domanda sollevata da tempo e resa piu pres-sante dalla crisi, se e quanto l’insieme delle acquisizioni comunita-rie in materia sociale possa resistere alla continua pressione deimercati, e ancora piu se sia in grado di dare risposte ai bisogni disicurezza di lavoro e di benessere dei cittadini, come era nelle pro-messe della comunita.

Questa domanda e presente, senza risposte definite, nelle ana-lisi piu lucide dell’attuale condizione dell’Europa e dei suoi Statimembri. Gli accenni alla possibilita che proprio la profondita dellacrisi rappresenti un ‘‘momento di verita e uno stimolo’’ per ricer-care soluzioni nuove, sono ricorrenti, ma hanno il sapore di auspi-cio o di rassicurazione, piu che di orientamento verso tali solu-zioni. Anche perche gli eventi piu recenti, dalle politiche di auste-rita che hanno bloccato i mercati e le condizioni delle persone, allereazioni di populismo e nazionalismo presenti in molti paesi e alparallelo calo di sostegno popolare all’Europa, non facilitano unripensamento ordinato delle strade da seguire d’ora in avanti.

Tale ripensamento puo partire dalle esperienze che hanno sa-puto meglio combinare misure di austerita e di crescita, accompa-gnate da politiche e welfare innovativi e avallate nelle piu matureelaborazioni europee. La fiducia nel valore positivo della costru-zione sociale europea non va abbandonata per il fatto di essereoppressi dal peso della crisi. Si puo ritenere altresı che il supera-mento delle politiche unilaterali di austerita e dell’oppressioneche esse hanno esercitato sull’assetto sociale europeo possa rimet-tere in moto il meglio dell’acquis comunitario, anzitutto nelle areedel welfare che hanno piu sofferto e possa stimolare un rafforza-mento dei punti tuttora deboli dell’‘‘edificio del social invest-ment’’ (189). Questa e una possibilita non infondata specie perchi, io fra questi, ha seguito con attenzione e con fiducia le vi-cende della costruzione europea e riconosce la ricchezza delle ri-

cesso di integrazione europea M. FERRERA, The boundaries of welfare: European integrationand the spatial politics of social protection, OUP, 2005.

(189) L’espressione e di A. HEMERIJCK, Changing social states, cit., p. 375 che

esprime fiducia in tale prospettiva.

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flessioni politico-culturali, delle proposte e delle sperimentazionidi policy che l’hanno accompagnata.

Ma il superamento delle politiche di austerita, pur necessario,non e sufficiente a rafforzare la fiducia nell’Europa sociale e a de-lineare soluzioni capaci di reggere alla crisi e di rilanciare una in-tegrazione positiva della Comunita.

Restano da risolvere le contraddizioni piu volte richiamatenella costruzione comunitaria, a cominciare dall’asimmetria origi-naria fra obiettivi di integrazione economica e politiche sociali. Amonte resta da superare l’incompiutezza del un sistema istituzio-nale e politico europeo, perche le contraddizioni rilevate sono cosıprofonde da poter essere risolte con successo solo da un sistema digovernance a pieno titolo comunitario. A valle di una tale pro-spettiva, che e politica tout court, si deve riconoscere che la stessarevisione delle politiche sociali richiede piu che una manutenzionedell’esistente, anche nelle migliori esperienze nazionali.

26. Ripensare strategie e strumenti: limiti del coordinamento.

Infatti le domande poste dalla crisi interrogano non solo i sin-goli contenuti delle politiche, ma il futuro del modello sociale equindi il senso stesso della costruzione europea. Le riflessioni finqui sviluppate non forniscono risposte univoche, ma segnalanopunti critici e sollecitano un ripensamento complessivo delle stra-tegie europee che qui si puo solo accennare.

Tale ripensamento deve riguardare l’insieme degli istituti edelle regole analizzati, visti nella loro interdipendenza. L’interdi-pendenza fra i vari istituti delle politiche sociali, a cominciare daquelli del diritto del lavoro in senso stretto e del welfare (190) si eresa sempre piu visibile nelle vicende europee: e questo un inse-gnamento politico-culturale e delle esperienze europee di bench-marking e dell’applicazione, pur faticosa, del MAC.

(190) Il rafforzarsi di questi nessi e sottolineato da molti. Cfr. B. HEPPLE, B. VENE-

ZIANI, Introduction, in B. HEPPLE, B. VENEZIANI, The transformation of labor law in Europe,

Hart Publ. 2009, p. 20 ss. e N. BRUUN, B. HEPPLE, Economic policy and labor law, in B.

HEPPLE, B. VENEZIANI, op. cit., p. 49 ss.; M. HEIDENREICH, The open method, in M. HEIDEN-

REICH, J. ZEITLIN, Changing European, cit., p. 25.

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Un ripensamento sia pure iniziale e in corso circa gli stru-menti di implementazione delle guidelines sociali europee e delMAC che ne e il meccanismo principale. Esso si e tradotto in varieproposte, avallate dalle istituzioni comunitarie, intese a raffor-zarne la capacita di incidere sugli ordinamenti nazionali del la-voro e del welfare. Ad es. si sono progressivamente resi piu selet-tivi e precisi i target da raggiungere: non solo quelli generali —tassi di occupazione e disoccupazione — come si e fatto per ilConsiglio di Lisbona del 2000 e poi con le indicazioni della Strate-gia Lisbona 2020, ma anche quelli specifici e strumentali al rag-giungimento dei primi, come si e fatto solo in parte. Inoltre pos-sono essere costruite forme di raccordo fra il coordinamentoaperto e i diritti sociali fondamentali. L’aggancio della ‘‘fragilezattera’’ dell’OMC al solido approdo dei diritti fondamentali (191)e stato sostenuto per la sua capacita di evitare che gli spazi apertidal coordinamento permettano agli Stati di imboccare una regula-tory competition in direzione deregolativa. Secondo altre variantitale aggancio potrebbe agire non solo come correttivo ex post, maanche come quadro di riferimento ex ante, in grado di condizio-nare la stessa impostazione dell’OMC (192).

Alla peer review dei risultati del MAC e stata attribuita cre-scente rilevanza, elevandola da strumento di controllo da partedelle burocrazie di Bruxelles a una revisione periodica al massimolivello istituzionale nei cd. vertici sociali triennali. Questi dovreb-bero essere preparati con la predisposizione di sintesi tecnico-poli-tiche dei risultati raggiunti dai vari Stati, ai quali e fatto obbligo,anche per questo, di redigere i piani di azione nazionale.

(191) L’espressione e di A. ANDRONICO-A. LO FARO, 2004, Implementing solutions ordefining problems?, in Social Rights and market forces: the implementation of foundamentalsocial rights in the European simple market.

(192) Cfr. le diverse posizioni: fra i primi F. SCHARPF, The European Social model: co-ping with the challenge of diversity, in JCMS, 2002, p. 662; e i commenti di A. LO FARO,

Coordinamento aperto e diritti fondamentali: un rapporto difficile, in M. BARBERA ed., Nuoveforme di regolazione, cit., p. 358 ss., che solleva dubbi sulla possibilita di usare i diritti fon-

damentali come correttivo del MAC, e, in senso piu possibilista: S. GIUBBONI, La costituzio-nalizzazione asimmetrica dell’Europa sociale, ivi, p. 367 ss.; nonche M. BARBERA, Nuovi pro-cessi deliberativi e principio di legalita nell’ordinamento europeo, ivi, p. 306 ss.; D. ASHAG-

BOR, L’armonizzazione soft, ivi, cit., p. 118; C. PINELLI, I rapporti economico-sociali fra Co-stituzione e Trattati europei, in C. PINELLI, T. TREU (a cura), La costituzione economica:Italia, Europa, Bologna, Il Mulino, 2010.

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L’efficacia di questi strumenti richiederebbe di essere megliosostenuta con adeguati strumenti di monitoraggio e di controllodell’Unione sull’implementazione delle guidelines, e prima ancoracon la definizione di indicatori affidabili per misurare gli adempi-menti richiesti, nella loro qualita e quantita. Tali rafforzamentistrumentali, essenziali per l’efficacia del coordinamento, sareb-bero utili per tutte le aree della politica sociale: dalle politiche dioccupazione — dove il metodo del coordinamento e piu sperimen-tato — a quelle della protezione sociale, alla gestione dei Fondistrutturali.

Un’altra strada per rafforzare la strategia Europa 2020 estata la previsione di un piu stretto coordinamento fra le proce-dure per la implementazione delle politiche dell’occupazione e glistrumenti per l’attuazione dello Stability and growth pact (SGP).E previsto che tale coordinamento debba riflettersi nei pro-grammi nazionali di riforma ed essere verificato al piu alto livelloistituzionale in occasione dello Spring European Council.

Questo nuovo quadro di ‘‘governance coordinata’’ puo favo-rire un maggior ruolo delle politiche sociali nel contesto delle poli-tiche europee, superando una sfasatura piu volte denunciatacome fonte di marginalita delle prime alle seconde. Si e peraltrorilevato il rischio che viceversa questa nuova struttura di coordi-namento riduca la voce delle istanze sociali, a cominciare daquelle provenienti dai piani nazionali, in quanto inserite in uncontesto istituzionale — il semestre europeo — dominato da pre-occupazioni economiche o finanziarie (193).

Procedere a verifiche politiche dell’andamento del MAC e coe-rente con la sua logica, perche il successo di uno strumento cosıdelicato e legato alla sua credibilita non solo tecnica ma politica:ma e esposto al rischio di essere inficiato proprio su questo piano.Lo si e verificato persino nell’operare dei criteri di bilancio fissatia Maastricht, che, pur essendo provvisti di sanzioni ben piu strin-genti di quelli del MAC, sono stati sospesi, in realta violati,quando lo hanno richiesto le ragioni avanzate dagli Stati forti del-l’Unione, Francia e Germania.

Tale vicenda conferma come le criticita dell’ordinamento so-ciale europeo non sono procedurali, ma dipendono da debolezze

(193) K. ARMSTRONG, EU social policy, cit., p. 290 ss.

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dell’impianto istituzionale dell’Unione e dalla qualita della inte-grazione sociale e politica, non solo economica, da realizzarsi nellaComunita.

27. Modificare lo statuto dell’Agenda sociale.

Per questo si ripropone la domanda su quanto possa durarela resistenza fin qui manifestatesi dall’acquis communautaire, eancora a monte se sia sufficiente rafforzare il sistema di coordina-mento comunitario o se invece sia necessario modificare lo Sta-tuto dell’Agenda sociale nell’assetto costituzionale europeo, met-tendo in discussione la asimmetria rilevata all’inizio fra dimen-sione economica, sociale e politica dell’Unione.

La soluzione del collegamento debole — loose-coupling se nonde-coupling — fra politiche economiche, su cui interviene la Co-munita, con gli orientamenti restrittivi piu volte ricordati, e poli-tiche sociali, di competenza nazionale si rileva sempre piu inade-guata a promuovere l’integrazione sociale ed economica e ha con-traccolpi sull’intero assetto sociale e sulla stessa stabilita politicadell’Unione (194).

La gravita di tale impostazione si e riscontrata gia primadella crisi attuale, con i terremoti politici avvenuti in Francia e inOlanda nella primavera del 2005, con le minacce e i rifiuti referen-dari che si susseguono, che sono segnali allarmanti di tendenzenazionalistiche e centrifughe (195).

Affrontare queste criticita implica riconsiderare l’ipotesi as-sunta all’origine della Comunita che la integrazione realizzabilecon la creazione del mercato unico, con i conseguenti guadagni diefficienza possa sostenere anche il progresso sociale, meglio di

(194) Non a caso tale valutazione e prospettata da autori di diversa estrazione disci-

plinare e culturale. Cfr. P. PIERSON, The welfare state over the very long run, ZeS Working

paper, 02/2011, si domanda se l’impatto della crisi finanziaria globale non ecceda la capa-

cita di trasformazione e adattamento dei sistemi di welfare europeo. Lo stesso A. HEME-

RIJCK, Changing welfare states, cit., p. 373 ss., solleva questo dubbio nelle ultime preoccu-

pate pagine della sua opera; C. BARNARD, The context, in European law Journal, 2012, p. 41,

p. 113, prospetta una situazione in cui sistemi di diritto del lavoro nazionali; cfr. anche,

con altri argomenti, W. SCHARPF, The asymmetry, cit.

(195) M. FERRERA, Amici o nemici?, cit., p. 19.

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quanto possano fare i sistemi nazionali e garantirne la capacita diadattamento e di autoriforma.

Infatti proprio la unilateralita del processo di integrazione hainficiato l’ipotesi iniziale, provocando squilibri crescenti fra i dueassi comunitari della integrazione dei mercati e della convergenzanel progresso dei sistemi sociali.

I singoli ordinamenti di diritto del lavoro e i welfare nazionalesi sono trovati in una situazione impossibile, del tipo ‘‘Catch 22’’,in quanto con il procedere dell’integrazione monetaria, hanno vi-sto restringersi la loro autonomia e le loro risorse, mentre nonhanno potuto beneficiare della messa in comune delle risorse co-munitarie, oltre quanto disponibile dai deboli fondi struttu-rali (196).

Si e visto come i paesi piu esposti agli shock competitivi e fi-nanziari esterni, non potendo ricevere aiuti dall’Unione, sono so-spinti a praticare politiche economiche restrittive, di varia entita,che convergono nel produrre forme di vera e propria ‘‘internal de-valuation’’.

Per altro verso la crescente competizione fra i sistemi nazio-nali, indotta dalle pressioni globali non e stata sufficientementecorretta da un governo europeo debole e di recente dominato daorientamenti se non liberisti, certo ‘‘austerity minded’’. Con laconseguenza che la pressione della concorrenza e dell’austerita si escaricata sugli ordinamenti statali mettendone a rischio la tenuta.

E questa situazione di asimmetria e di integrazione ‘‘solo fun-zionalista e negativa’’, che rende precarie le acquisizioni europeenelle materie sociali e del lavoro, perche queste sono le piu espostealla competizione globale e alla crisi e sono sostenute nellaAgenda comunitaria con minore convinzione politica e con stru-mentale piu debole di quanto non siano le questioni economiche.

Per questi motivi di fondo, anche al di la delle difficolta con-tingenti, e del peso delle attuali politiche di austerita, il percorsodell’Europa sociale si e arrestato e rischia di entrare in una fase diregresso. La speranza che la crisi e la prova negativa delle politi-che liberiste fin qui attuate in vari paesi non solo europei, pos-sano generare una pressione verso una maggiore integrazione eu-ropea, non sembra finora materializzarsi. Al contrario le difficolta

(196) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 292 ss., ma il rilievo e comune.

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degli Stati hanno generato reazioni nazionalistiche nei sistemi na-zionali, da cui non sono esenti neppure gli attori sociali come leorganizzazioni sindacali, che dovrebbero essere i piu interessati auna integrazione positiva (197).

28. Nuovi orientamenti economici e di welfare.

Se e vero, come si riconosce largamente, che la crisi segnalaun’impasse non solo economico-finanziaria ma politica del pro-cesso europeo, la risposta non puo riguardare solo le istituzionidel lavoro, ma coinvolge la intera configurazione dei rapporti poli-tici e civili negli Stati e nella comunita. Richiede un mutamentodegli orientamenti fin qui dominanti per cui i cittadini europei ele loro istituzioni non sono finora stati pronti a rinunciare alle loroidentita nazionali — politiche e sociali — in favore di un piu fortespazio sociale e politico europeo (198).

Ma per tornare al nostro tema piu limitato, un rafforzamentodel ruolo dell’Europa nelle materie del lavoro e del welfare pre-suppone, come si e detto, una ‘‘appropriata riconciliazione’’ fra ilmercato unico e le politiche sociali europee (199). Vanno peraltroprecisati gli obiettivi su cui tale riconciliazione deve realizzarsi,perche sia ‘‘appropriata’’, nonche quali siano gli attori istituzio-nali e sociali capaci di promuoverla. Il che rinvia alla questionegenerale gia menzionata della qualita dell’integrazione europea.

Le coordinate di politica economica su cui orientare tale ri-conciliazione sono al centro del dibattito europeo, ma sono al-quanto controverse, come risulta dalle tormentate e tuttora pococonclusive vicende dei summit di governo succedutisi in questianni di crisi.

Alcune recenti prese di posizione sopra ricordate — da ultimoai Consigli europei del giugno e del dicembre 2012 — contengono

(197) C. CROUCH, The financial crisis, a New chance for the labour movement? Not yet,in Socio Econ. Review, 2010, 8, p. 353 ss.

(198) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., p. 81 e p. 378; S. BERGER, Trou-bleshooting economic narratives, in A. HEMERIJCK, B. KNAPEN, E. VAN DOORN (eds), Afters-hocks, cit., p. 93 ss., 2009; e in generale S. BERGER, R. DORE (eds), National diversity andglobal capitalism, Ithaca, NY Cornell University Press, 1996.

(199) L’urgenza di questa riconciliazione e sottolineata nel rapporto Monti al presi-

dente BARROSO, A new strategy for the single market, 2010.

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timidi segnali positivi, laddove propongono politiche di sostegnoalla domanda e alla occupazione e misure in direzione di una piustretta integrazione fiscale e politica dell’Unione. Inoltre dise-gnano una nuova strumentazione per rafforzare il coordinamentoe la convergenza nelle politiche economiche fra gli Stati membri;in particolare prevedendo accordi contrattuali (contractual arran-gement) associati a un meccanismo di solidarieta e di sostegno fi-nanziario per le riforme strutturali a favore della competitivita edella crescita, accordi che dovranno essere avviati dal Consigliogenerale previsto per il giugno 2013. Ma i continui rinvii dei pro-positi annunciati segnalano la difficolta di questi indirizzi a pre-valere sugli orientamenti restrittivi di politica finanziaria chesono tuttora dominanti.

Le linee di politica sociale sono altrettanto contrastate. Anchequi alcuni indirizzi comunitari indicano piste promettenti, che an-drebbero rafforzate e sostenute nella loro implementazione, specienelle aree deboli della Comunita. Il persistere della crisi enfatizzai bisogni di sicurezza dei lavoratori e dei cittadini europei; raf-forza quindi l’esigenza che le politiche di flexicurity e quelle di at-tivazione non siano indebolite nella capacita di rispondere a talibisogni, dalle pressioni per una maggiore flessibilita, non solo la-vorativa ma sociale (200), quella che traspare spesso nei docu-menti nazionali ed europei.

Ancora piu pressante e la necessita di ricalibrare le politichedi welfare per fronteggiare la nuova emergenza della poverta frafasce crescenti di lavoratori, oltre che fra i disoccupati e le per-sone sole. L’impegno a rilanciare le politiche di contrasto alla po-verta e per l’inclusione sociale, a fronte della minaccia della crisi,sarebbe in grado di attivare ‘‘il maggior potenziale di legittima-zione per la UE’’ (201).

In realta le urgenze della crisi sollecitano non solo una revi-sione delle politiche sociali degli Stati, ma interventi diretti delleistituzioni comunitarie, specie nelle aree dove la loro azione estata finora piu debole e dove e drammaticamente sollecitatadalla crisi, a cominciare dal welfare e dal sostegno all’occupazione.

(200) W. STREECK, Le relazioni industriali oggi, cit., p. 265.

(201) M. FERRERA, Amici o nemici?, cit., p. 20.

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Le sollecitazioni in questo senso hanno trovato ostacolo nei li-miti delle competenze comunitarie, nonche nella resistenza dimolti Stati e talora nella tiepidezza degli stessi attori sociali. Mache il limite delle competenze non sia insuperabile e comprovatodai molteplici interventi comunitari condotti al margine di talicompetenze e dai provvedimenti di carattere finanziario presi inquesti anni di crisi, pure al margine delle procedure comunitarie,che hanno inciso profondamente sulle decisioni dei governi nazio-nali in materie di loro competenza. Si tratta di esempi moltiplica-tisi proprio in questi anni di crisi, che confermano la incisivitadelle iniziative dei governi europei, specie con decisioni intergo-vernative, al di la della asserita debolezza delle istituzioni comu-nitarie.

29. Standard sociali di base.

D’altra parte gli strumenti di influenza dell’Unione non consi-stono necessariamente nella imposizione di standard comuni sullecondizioni di lavoro e di welfare per via legale, come era nelle tra-dizionali forme di armonizzazione. Altre soluzioni sono state pro-poste e in parte sperimentate. In particolare il rafforzamento deimeccanismi del MAC puo essere diretto a promuovere la imple-mentazione dei diritti sociali fondamentali negli ordinamenti na-zionali. A tal fine si e proposto di combinare l’uso del MAC con ilricorso a direttive quadro contenenti alcuni standard comuni, dif-ferenziati in relazione al grado di sviluppo dei diversi sistemi diwelfare (202). Inoltre la promozione di standard sociali minimi,auspicata anche dalla Commissione, puo essere realizzata in modoprogressivo, cominciando dagli standard piu diffusi, attraversoaccordi fra i singoli Stati membri, a partire da quelli dove si sonomanifestate divergenze applicative piu acute e che sono esposti apiu dirette forme di integrazione/concorrenza economica: vedi gliesempi ricordati di intese transnazionali sulle condizioni di lavoronel settore dei trasporti marittimi conclusi per rispondere alle de-cisioni della Corte di giustizia in materia di sciopero e di contrat-tazione collettiva.

(202) T. WILTHAGEN ed., Flexicurity and path ways: report by the expert group on fle-xicurity, Bruxelles, 2006.

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Accordi del genere possono essere sostenuti dall’Unione, senzaesorbitare dalle sue competenze, con appositi incentivi e con ri-sorse finanziarie, anche collegati a clausole commerciali. Le partisociali, nazionali ed europee, possono contribuire al medesimoobiettivo, concludendo accordi a livello transnazionale o comuni-tario, diretti a rafforzare le pratiche sociali in vigore, ad es. mi-gliorando il trade off fra flessibilita, tutele del reddito e dell’occu-pazione (203).

Queste sperimentazioni potrebbero porre le basi per azionipiu incisive delle istituzioni comunitarie per la diffusione deglistandard sociali di base, anche con sanzioni normative, che sa-rebbe sostenuta da un consenso largo o unanime (nelle materie incui l’unanimita e richiesta dal Trattato).

Un simile processo di diffusione progressiva degli standard sa-rebbe in linea con altre forme di ‘‘incremental social transnationa-lism /supranationalism’’ o di ‘‘solidarity across the borders’’ (204),che si stanno sperimentando in altri casi di integrazione regionalee che sono conformi alle indicazioni dell’OIL sui ‘‘core labourstandards’’. Sarebbe un segnale politico che permetterebbe di ri-lanciare il potenziale simbolico del MAC e di valorizzare i tantiaspetti positivi dell’acquis comunitario tradizionale (205).

Un’area critica per l’intervento diretto dell’Unione, sollecitatodall’emergenza della crisi, e quella delle tutele in caso di disoccu-pazione/inoccupazione. Simili istituti di tutela, fino a forme direddito minimo garantito sono presenti in quasi tutti i paesi euro-pei.

E non e neppure impossibile identificare una base giuridicaper un intervento dell’Unione in materia. Si e ritenuto infatti chel’art. 153 TFUE lett. 4, relativo al settore dell’integrazione dellepersone escluse dal mercato del lavoro e sufficientemente vago, o

(203) F. SCHARPF, The European social model: coping with the challenge of diversity,

in JCMS, 2002, p. 663; S. SCIARRA, Transnational and European ways forward for collectivebargaining, in WP C.S.D.L.E. ‘‘Massimo D’Antona’’, INT-73/2009; E. ALES, La contratta-zione collettiva transnazionale fra passato, presente e futuro, in DLRI, 2007, cit., p. 541 ss.

(204) M. FERRERA, Solidarity beyond the nation state? Reflections on the European ex-perience, in URGE WP, n. 2/2008; inoltre sosterrebbe la prospettiva di ‘‘federalismo soli-

daristico’’ che e insieme presupposto e orizzonte della costituzionalizzazione dei diritti so-

ciali fondamentali nell’ordine legale europeo: S. GIUBBONI, Social rights, cit., p. 18.

(205) M. FERRERA, Amici o nemici?, cit., p. 21.

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ampio, per coprire sia il caso dei disoccupati che quello dei sog-getti in cerca di prima occupazione (206).

In ogni caso e significativo che in questi ultimi mesi si stianomoltiplicando le voci di osservatori e di politici di vario orienta-mento a favore della introduzione di un qualche istituto di red-dito minimo a livello europeo, pagato con fondi comunitari. Sa-rebbe una manifestazione concreta di solidarieta comunitaria cheseguirebbe e ‘‘compenserebbe’’ quelle realizzate con gli interventidi salvataggio delle banche in difficolta. Servirebbe a correggere,anche di fronte all’opinione dei cittadini colpiti dalla crisi, l’asim-metria fra interventi finanziari e sociali dell’Unione. Aiuterebbead ammortizzare i costi sociali della crisi specie nei paesi del sudEuropa, fra cui il nostro, senza alimentare meccanismi perversiche premiano i governi meno rigorosi inclini a spendere di piu.

Un’altra emergenza riguarda la drammatica situazione del-l’occupazione: una vera ‘‘job catastrophe’’, denunciata anche inpaesi, come gli USA, meno colpiti dei nostri dalla disoccupazione.Si e gia rilevato come i recenti testi della Commissione conten-gano indicazioni innovative non solo a favore di interventi dallato dell’offerta — fin qui prevalente nelle prassi europee — maanche per il sostegno alla domanda e per azioni di politica indu-striale e fiscale, labour friendly, finora largamente sottovalutati.Gli interventi comunitari in questa materia si sono concretati so-prattutto nell’utilizzo e nel rafforzamento dei fondi strutturali, acominciare dal fondo europeo di adeguamento alla globalizza-zione, lanciato nel 2006 (ma a scadenza nel 2013), per sostenerelavoratori e imprese colpiti dalle crisi internazionali, e dal FSE,meglio finalizzato a sostenere le politiche di flexicurity.

Il bilancio europeo, in particolare tramite i vari fondi struttu-rali, e uno strumento importante per sostenere le riforme nazio-nali, in particolare le politiche del lavoro e dell’occupazione maanche, piu latamente, le politiche di coesione. Fin dal 2007 — efino al bilancio 2014-2020 — si e si e deciso di concentrare l’uso ditali fondi sugli obiettivi di Lisbona e sulle politiche di coesione, in

(206) G. BRONZINI, Le politiche europee, cit., p. 345. Una analisi delle esperienze e

dei costi delle forme di reddito minimo in Europa si trova in B. CANTILLON, VAN MERSCHE-

LEN, On antipoverty policy, minimum income protection and the European social model, in B.

CANTILLON, H. VERSCHUEREN, P. PLOSCAR, eds., Social Inclusion, cit., p. 173 ss.

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particolare per la loro implementazione nei paesi piu deboli del-l’Unione, fra cui l’Italia (207).

La finalizzazione a tali obiettivi ha richiesto nel tempo adat-tamenti e modifiche per ottimizzare l’impiego delle risorse di talifondi e del bilancio europeo. Ne da conto il cd. rapportoBarca (208) che contiene un ambizioso progetto di riforma dellestrategie e degli strumenti per aggiungere i nuovi obiettivi. Inparticolare il rapporto propone di dare priorita al rafforzamentodella produzione di beni pubblici e alla costruzione di una Agendasociale territoriale come parte delle politiche di coesione, che per-segua insieme finalita di sviluppo economico e sociale.

L’efficacia degli incentivi finanziari cosı mobilitati sulle con-dizioni economiche e sociali, dei vari paesi e peraltro oggetto divalutazioni incerte (209); inoltre le decisioni piu recenti del Consi-glio che hanno comportato una riduzione complessiva del bilanciodell’Unione indeboliscono le possibilita di utilizzare risorse euro-pee per la crescita e per l’occupazione.

La implementazione delle indicazioni ricordate nei contestinazionali richiederebbe interventi e finanziamenti piu consistentidi carattere non settoriale, che indicassero una convergenza dellepolitiche economiche e sociali verso l’obiettivo prioritario dell’oc-cupazione, e che fossero adeguate agli ambiziosi obiettivi fissatida Europa 2020 della crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.Non a caso si richiamano come parametri di riferimento, che sa-rebbero necessari, esperienze storiche quali il New Deal e le ipo-tesi (incompiute) del patto per la competitivita, la crescita e l’oc-cupazione di Delors. Il perseguimento di questi obiettivi impliche-rebbe una discontinuita con le impostazioni restrittive sostenutedai vertici europei e con le traiettorie economiche prevalenti in

(207) Cfr. la guida per l’uso dei Fondi 2014-2020 nel cd. Social investment package,

comunicazione della Commissione, Brussel, 20.2.2012, CO (2013), 83 final; e Armstrong,

EU social policy, cit., p. 291; M. HEIDENREICH, The open method of coordination, cit., p. 22,

ricorda che nel periodo 2007-2013 lo stanziamento di tali fondi ammontano a 347 MLD di

Euro.

(208) An Agenda for a reformed cohesion policy. A palace based approach to meetingEuropean Union challenges and expectation, April 2009.

(209) Cfr. il caso italiano nel contesto europeo nella ricerca AREL, F. BOCCIA, R.

LEONARDI, E. LETTA, T. TREU, I mezzogiorni d’Europa. Verso la riforma dei fondi strutturali,

Mulino, Bologna, 2003.

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molti paesi, a cominciare dai partner forti della Comunita (210).La difficolta del percorso e confermata dalle resistenze manifesta-tesi nei summit europei ad adottare proposte, sia pure parziali, intale direzione, come gli Eurobond.

Il maggior impegno, anche finanziario, richiesto da politichesociali e dell’occupazione innovative implica una rigorosa seletti-vita degli interventi; ma in ogni caso un quadro di politiche co-muni piu orientate alla crescita.

30. Un quadro europeo per le relazioni industriali.

Il riorientamento degli istituti di welfare sopra indicato, pre-suppone una revisione delle relative priorita. Mi limito a ricordareche le esperienze, specie dei paesi a prevalente orientamento so-cialdemocratico, segnalano la possibilita di ridimensionare senzatraumi sociali le componenti piu costose del welfare assistenzialeadottate nell’epoca della crescita continua, al fine sia di preci-sarne le condizioni di attivazione sia di selezionarne gli obiettivi,riducendo le sperequazioni che sopravvivono anche nei sistemi diwelfare universalistico.

Per altro verso riforme diffuse in vari paesi hanno provvistoa spostare parte delle risorse (scarse) da impieghi tradizionalicome quelli per le pensioni precoci e per interventi assistenziali,alle nuove priorita della politica sociale: sostegno all’occupazionedei gruppi piu esposti ai rischi di mancanza di lavoro; interventidi riqualificazione professionale continua dei lavoratori e di riposi-zionamento del sistema produttivo per adeguare entrambi alle ri-chieste della societa della conoscenza; misure di ‘‘active ageing’’per rispondere in modo positivo all’accelerato processo di invec-chiamento della popolazione; politiche della famiglia dirette acontrastare il fenomeno della denatalita e a promuovere un wel-fare del ciclo di vita e della conciliazione; infine consistenti inve-stimenti in educazione e ricerca per stimolare un nuovo canone dicompetitivita e posti di lavoro a maggiore contenuto di cono-scenza.

(210) L’impegno europeo in questa direzione non puo essere isolato da quello delle

istituzioni e delle forze politiche e sociali degli Stati membri, che sono ancora le forze deci-

sive per la costruzione comunitaria.

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La ripresa di iniziativa dell’Europa nelle direzioni indicatenon puo non coinvolgere i rapporti collettivi di lavoro, se si ri-tiene, come prefigurato a Maastricht, che relazioni industriali ri-conosciute e autorevoli sono parte integrante del modello sociale edecisive per la stessa configurazione delle politiche pubbliche inquesta materia. Viceversa si e visto che le componenti principalidelle relazioni Industriali fondate nei decenni passati sono statefortemente indebolite dalle pressioni della concorrenza internazio-nale e appaiono a rischio di declino.

Non a caso e soprattutto su queste tendenze delle RelazioniIndustriali che si fondano le tesi sopra ricordate che sostengonol’affermarsi in Europa di una convergenza in direzione neoliberi-sta caratterizzata da una crescente discrezionalita delle impresenella gestione dei rapporti produttivi e di lavoro e dall’affermarsidelle spinte deregolative dei mercati. Peraltro le tesi di questiautori, pur sottolineando la pluralita di segnali che indicano unaconvergenza al declino delle forme di regolazione collettiva del la-voro, non negano il permanere di differenze significative istituzio-nalmente e culturalmente condizionate e segnalano la incertezzadei punti d’arrivo di queste traiettorie neoliberali (211).

(211) Cfr. gli scritti gia citati di L. BACCARO-HOWELL, Il cambiamento delle relazioniindustriali, in CARRIERI-TREU, Verso nuove Relazioni Industriali, cit., e W. STREECK, Refor-ming capitalism, op. loc. cit. Anche secondo S. GIUBBONI e A. LO FARO, Crisi finanziaria,governance economica europea e riforme nazionali del lavoro: quale connessione?, in Nuove re-gole dopo la legge 92/2012 competizione versus garanzie?, Giappichelli, 2013, p. 40 ss., la stri-

sciante de-collettivizzazione del diritto del lavoro e la tendenza piu preoccupante indivi-

duabile nelle recenti vicende europee, mentre sul piano delle tutele individuali il nocciolo

duro del modello sociale europeo ancora resiste. Tali tendenze sono facilitate dagli orienta-

menti della Corte di Giustizia europea, che e incline a valorizzare i diritti e le tutele indivi-

duali, mentre rivela scarsa sensibilita, se non posizioni limitative, nei confronti delle azioni

collettive; cfr. A. OJEDA, Diritti fondamentali, concorrenza, competitivita e nuove regole per illavoro in una prospettiva di diritto comparato, ivi, p. 9-40. Lo stesso F. SCHARPF, The asym-metry, cit., p. 227, quando indica il ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nel

promuovere orientamenti ‘‘liberisti’’ nell’ordinamento europeo si richiama alle note deci-

sioni Laval e Viking che hanno contribuito a depotenziare i diritti collettivi e l’azione sin-

dacale. Vedi gli equilibrati rilievi di L. BORDOGNA, La regolazione del lavoro, cit., p. 24, se-

condo cui mai come in questa fase le due tendenze alla convergenza e alla differenziazione

convivono e si intrecciano; e in generale A. BRYSON, B. EBBINGHAUS, J. VISSER, Introduc-tion, causes, consequences and cures of Union decline, cit. Vedi gli equilibrati rilievi di L.

BORDOGNA, La regolazione del lavoro, cit., p. 24, secondo cui mai come in questa fase le due

tendenze alla convergenza e alla differenziazione convivono e si intrecciano; e in generale

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Le politiche europee sperimentate finora, compresi il sostegnoalla contrattazione collettiva di vertice sancito al Maastricht e ilriconoscimento dei CAE e della Societa Europea, sono risultateinsufficienti a invertire queste tendenze. Lo sviluppo di nuove re-lazioni industriali europee e il contrasto ai rischi di declino pas-sano da una rinnovata iniziativa delle parti sindacali e da unaloro piu decisa opzione europeista, ma presuppongono un soste-gno da parte delle autorita comunitarie del metodo contrattuale eun rafforzamento delle sue basi giuridiche nell’ordinamento del-l’Unione; orientamento che, come si e visto, non e privo di fonda-mento nelle norme del Trattato dell’Unione.

Inoltre, il sostegno della normativa comunitaria non puo rima-nere limitato alle relazioni industriali delle grandi imprese e trascu-rare le aree, sempre piu deserte di collettivo, che sono le piccolis-sime imprese e i lavori atipici. Qui condizioni di contesto favorevolialla formazione di aggregazioni collettive tradizionali possono fa-vorirsi solo in via indiretta: estendendo a queste aree alcune tutelefondamentali, con forme di welfare diffuso, e sostenendo la parte-cipazione delle parti sociali, in specie dei sindacati, nelle istituzionipubbliche che amministrano il welfare e i servizi all’impiego. Sitratta di strumenti che possono affiancare l’attivita tradizionaledel sindacato sui posti di lavoro nell’attivare l’interesse dei lavora-tori: una strada che ha registrato effetti positivi nei Paesi del NordEuropa, ove si e da tempo sperimentata. La loro estensione suscala europea richiederebbe l’acquisizione da parte dell’Unione dicompetenze in queste materie, che finora non si profila.

Anche per rafforzare le relazioni industriali si conferma la ne-cessita di iniziative convergenti delle istituzioni e delle parti so-ciali, come e stato nella costruzione dei sistemi nazionali di con-trattazione collettiva sviluppatisi nel secolo scorso.

Le debolezze del governo istituzionale dell’Unione, e poi le po-litiche monetarie restrittive seguite di recente hanno influito ne-gativamente anche sui comportamenti dei sindacati. Li hanno co-stretti nell’alternativa fra gestione delle emergenze e accordi diconcessione o di ‘‘pain sharing’’ (212). I sindacati sono stati spesso

A. BRYSON, B. EBBINGHAUS, J. VISSER, Introduction, causes, consequences and cures of Uniondecline, cit.

(212) Cosı L. BORDOGNA, La regolazione del lavoro, cit., SM 2012, p. 25, citando l’effi-

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attratti ‘‘nelle trappole della competitivita nazionale’’ (213) ehanno rinunciato all’integrazione delle loro strutture e delle loropolitiche, adeguandosi anch’esse alla logica minimalista del coor-dinamento fra attori nazionali. D’altra parte queste scelte sinda-cali deboli non hanno trovato (ancora) risposte compensative ininiziative ‘‘dal basso’’ ne da altre forme di reazione sociale invo-cate da molti teorici dell’‘‘Union renewal’’ (214).

31. Prospettive istituzionali e politiche.

Le riflessioni qui sviluppate sulle politiche sociali rinviano,come si e rilevato piu volte, a problemi che coinvolgono l’interoprocesso di costruzione dell’Europa e le sue idee ispiratrici. Lacrisi attuale segnala, solo con maggiore evidenza, la insufficienzadelle strade seguite finora dei miglioramenti incrementali delleistituzioni e delle politiche. Questa strada ha evitato scelteestreme, ma ha prodotto politiche ambivalenti. Non ha evitatol’allontanamento dagli obiettivi di progresso sociale, ne il bloccodella crescita che indebolisce il peso dell’Europa nell’economiamondiale e l’aumento del disagio e delle diseguaglianze sociali, chesta minando la fiducia nella casa comune. Talche anche gli osser-vatori piu europeisti rilevano che l’intera costruzione comunitariarischia di essere non protagonista ma vittima della globalizza-zione.

Le radici della crisi — lo si sta ormai riconoscendo — nonsono solo finanziarie ne economiche, ma riguardano i caratteri del

cace espressione di P. MARGINSON, New forms of cooperation new forms of conflict, Socio.

Econ. Review, 2010, p. 360 ss. e V. GLASSNER, M. KEUNE, P. MARGINSON, Collective bargai-ning in a time of crisis, Transfer 17, 2011, p. 303-321.

(213) L. GALLINO, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Ber-

gen, Laterza, Bari, 2012.

(214) Cfr. S. GIUBBONI, M. PERUZZI, La contrattazione collettiva a livello europeo, in T.

TREU, M. CARRIERI (a cura), Verso nuove relazioni industriali, cit., in corso di pubblica-

zione. Le prospettive di rinascita avanzate in tale direzione sono fondate su varie ipotesi e

fanno leva sulla spinta di gruppi sociali diversi; cfr. diversamente G.P. CELLA, The repre-sentation of non standard workers through collective bargaining, Back to the past, Paper pre-

sentend to the Manchester Congress of the European IRA, 2007, che pensa ai sindacati di

mestiere; M. REGINI, Tre fasi, due modelli, cit., p. 87, che sottolinea l’importanza di far leva

sui knowledge workers.

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modello economico e sociale sviluppati dal capitalismo moderno,anche nella variante europea dell’economia sociale di mercato.Per questo si acutizza la necessita di definire quale modello eco-nomico-sociale si vuole perseguire e di ridiscutere gli obiettivi e lestesse categorie su cui i sistemi del passato sono stati costruiti.

Sul piano delle strategie politiche il vizio originario, si e rile-vato con una riflessione da tempo trascurata, e stato di aver ab-bandonato l’ambizione di costruire istanze di governo europeenella prospettiva di una unita politica (215), ripiegando su formevarie di coordinamento intergovernativo delle politiche nazionali,insufficienti comunque e particolarmente deboli nelle materie so-ciali.

Per questo gli osservatori e i protagonisti piu interessati al fu-turo dell’Europa richiedono una revisione politica costituente,prima di ulteriori inconsistenti assemblee e Trattati, e un social‘‘growth compact’’ da affiancare al ‘‘fiscal compact’’. Esso an-drebbe ricercato con quel metodo concertativo che e stato prati-cato, pur con alterni successi, in molti paesi membri negli ultimitrent’anni e che in ambito comunitario ha avuto il precedente piusignificativo nel patto per la competitivita e per la crescita di De-lors, non a caso da molti oggi richiamato.

Il ruolo politico dell’Unione non puo limitarsi alla ricerca diuna piu stretta disciplina fiscale, ora sancita nelle stesse Costitu-zioni nazionali, compresa da ultimo l’Italia. Ne il rilancio dell’Eu-ropa sociale puo poggiarsi solo sulla constatazione degli effetti de-leteri delle politiche liberiste. Servono iniziative politiche corag-giose e azioni nei terreni critici dell’occupazione e del welfare, ca-

(215) Affinche l’Europa non si accontenti di essere un grande mercato, ora neppure

piu tanto prospero, ma diventi ‘‘uno spazio democratico nuovo a scala continentale’’, come

non si stancava di ripetere J. DELORS, Dall’integrazione economica all’unione politica del-l’Europa. Lezioni del passato, prospettive del futuro, in SM 1998, p. 11 ss.; e ora G. AMATO,

Prima che sia tardi: il coraggio di una nuova Europa, Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2012; G.

AMATO, R. GUALTIERI, Introduzione, in G. AMATO, R. GUALTIERI, Prove di Europa Unita,

cit., p. 23 ss., che rileggendo i cambiamenti graduali introdotti in questi anni nell’assetto

istituzionale dell’Europa, in particolare dell’area Euro, indicano come gia un bilancio euro-

peo irrobustito da una effettiva ‘‘fiscal capacity’’ starebbe oltre il confine dei cambiamenti

graduali e prospetterebbe un orizzonte di governo politico di tipo federale e una nuova di

legittimazione democratica; ma aggiungono che la trasformazione in chiave univocamente

federale della costruzione europea esige una modifica non solo dei Trattati, ma delle stesse

costituzioni nazionali e, forse, una diretta consultazione elettorale (p. 23).

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paci di ridare legittimita e fiducia alla comunita, fornendo alter-native credibili alle soluzioni offerte dai mercati e dalle politichepassate.

Le migliori pratiche piu volte ricordate sono segnali timidi,ma utili per muoversi in questa ricerca. Non mancano riflessionipolitico-culturali sviluppate in questi anni da varie scuole di pen-siero (216), penetrate anche nel tessuto politico tormentato delleistituzioni e delle politiche europee, che propongono sintesi nuoveper le prospettive del welfare, combinando i valori centrali delletradizioni socialdemocratiche e liberal democratiche e riconcet-tualizzandoli nella realta attuale.

Tali prospettive politiche e il potere ‘‘trasformativo’’ di que-ste concezioni soffrono della debolezza della dimensione sociale epolitica europea, e di un’Europa economica troppo preoccupatadi austerita. Resta da vedere se le prossime vicende della Comu-nita, delle sue scelte istituzionali e politiche, sosterranno diversiparadigmi economici e un nuovo equilibrio sociale in grado di dif-fondere le migliori pratiche sperimentate finora per dare spazio auna visione positiva di Europa orientata alla crescita e piu at-tenta alla ‘‘cura’’ dei suoi cittadini (217).

Le analisi piu attente riconoscono le necessita di far procederequesto percorso, con pragmatismo sociale lungimirante, su en-trambi i piani del rafforzamento della costruzione economica eistituzionale dell’Europa e delle innovazioni dei sistemi nazionalidi diritto del lavoro e del welfare. Tali operazioni possono averetempi diversi, piu di breve impatto quelle di consolidamento eco-nomico e fiscale a livello europeo, e piu a lungo periodo le misuredi social investement a livello nazionale (218).

Nell’incerto procedere dell’integrazione economica dell’Unioneva raccolto l’appello realistico, se non a moderare le ‘‘ambizionifederali esplicite’’, certo a salvare quello che e diventato non soloun elemento fondamentale degli Stati nazione, ma uno dei fattoriidentitari che tiene insieme la comunita, e che ‘‘distingue la me-

(216) M. FERRERA, From neoliberism, cit., p. 22-25.

(217) A. HEMERIJCK, Changing welfare states, cit., spec. p. 22, p. 396.

(218) F. VANDENBROUCKE, A. HEMERIJCK, B. PALIER, The EU needs a social invest-ment pact, OSE, Paper series, Opinion Paper 5, 2011.

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moria collettiva dei cittadini europei’’ da quella di cittadiniUSA (219), vale a dire i sistemi di protezione sociale (220).

Proprio perche la sfida e insieme politica, istituzionale e cul-turale, le nostre discipline del diritto del lavoro e delle relazioniindustriali sono chiamate a contribuire con gli strumenti loro pro-pri, a partire dall’analisi delle esperienze e della loro trasforma-zione, ma ‘‘alimentando quel carattere di reflexive critical thin-king, comune alla piu vasta area delle scienze sociali, che serve amantenere viva la cultura dei diritti e la centralita della questionedel lavoro ancora nelle societa contemporanee, decisiva per la co-struzione democratica’’ (221).

(219) C. JOERGES, Will the welfare state survive European Integration, in EuropeanJournal of Social Law, 2011, I, p. 4 ss.

(220) M. FERRERA, Amici o nemici?, cit., p. 21.

(221) G.P. CELLA, T. TREU, Per una difesa delle Relazioni Industriali, in GDLRI,

2009, p. 538.

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Giovedı 16 maggio 2013 - pomeriggio

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CRISI ECONOMICA E CRISI DEL WELFARE STATECRISI ECONOMICA E CRISI DEL WELFARE STATE

di MATTIA PERSIANI

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Precisazione terminologica. — 3. La dimensione temporale

del diritto previdenziale. — 4. Il diritto nel futuro. — 5. Previdenza sociale e genera-

zioni future. — 6. Le incertezze del tema. — 7. L’opportunita di partire dal passato.

— 8. Le origini della tutela pensionistica. — 9. Le origini della tutela contro le malat-

tie. — 10. Tecniche di finanziamento del sistema pensionistico e possibilita di crisi.

— 11. L’assenza, nel dopoguerra, di un disegno politico complessivo. — 12. L’evolu-

zione della legislazione ordinaria verso la solidarieta. — 13. I principi in materia di

previdenza recepiti dalla Costituzione repubblicana. — 14. L’improvvida riforma

della fine degli anni ’80. — 15. Differenti esigenze di tutela previdenziale per i dipen-

denti pubblici e dei privati. — 16. L’equiparazione del sistema pensionistico dei lavo-

ratori privati a quello proprio dei dipendenti pubblici. — 17. La crisi del sistema pen-

sionistico. — 18. La tutela della salute. — 19. La crisi della tutela della salute. — 20.

La progressiva riduzione di effettivita della tutela previdenziale pubblica. — 21. Il

tentativo della previdenza complementare. — 22. La riduzione della tutela pensioni-

stica: a) in genere. — 23. Segue: b) in particolare: i requisiti di accesso alle pensioni.

— 24. Segue: c) in particolare: i criteri di calcolo delle pensioni. — 25. La gravita delle

conseguenze. — 26. Le incertezze del futuro. — 27. Le conseguenze delle incertezze.

— 28. L’irrilevanza, ai nostri fini, del privato sociale. — 29. Dalla solidarieta alla mu-

tualita. — 30. L’eventuale necessita di nuovi interventi. — 31. Eventuali ulteriori ri-

duzioni della tutela della salute. — 32. Eventuali ulteriori riduzioni della tutela pen-

sionistica. — 33. I limiti alle riduzioni della tutela pensionistica. — 34. Riduzioni

della tutela e diritti delle generazioni future. — 35. La necessaria tutela dei diritti

delle generazioni future. — 36. Solidarieta e reciprocita.

1. Premessa.

E questa la quarta volta, in quasi quarant’anni, che ho l’o-nore di tenere una relazione ai nostri convegni (Milano 1975, Ri-mini 1983, Ferrara 2000 e ora Bologna).

Tutte le mie relazioni hanno avuto ad oggetto temi relativialla previdenza sociale e lo stesso avviene anche per questa, seb-

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bene nel titolo della relazione non compaia l’espressione previ-denza sociale.

Una precisazione terminologica si rende, quindi, necessaria.

2. Precisazione terminologica.

Quando si parla di Welfare State il riferimento viene fatto, disolito, ai modi in cui lo Stato garantisce il benessere a tutti i citta-dini.

Orbene, il complesso degli interventi pubblici descritto con itermini tradizionali di previdenza e assistenza sociale puo essereconsiderato: o come l’embrione di quello che, con l’ampliamento el’arricchimento delle tutele gia previste, potrebbe diventare unWelfare State ovvero, utilizzando la figura retorica per cui unaparte assume il nome del tutto, viene considerato esso stesso comerealizzazione, ancorche parziale, di un Welfare State.

I limiti naturali della mia relazione escludono sia questa lasede per affrontare la complessa problematica che si incontre-rebbe a voler individuare le ragioni di questa pluralita di signifi-cati e, soprattutto, l’ancor piu ampia e complessa problematicache si incontrerebbe a voler individuare cosa si intenda, poi, conl’espressione Welfare State e a voler individuare quali sarebbero leriforme necessarie per realizzarlo.

Oltretutto, dal momento che il tema della relazione riguardala ‘‘crisi’’, questa non puo riguardare altro che il Welfare State esi-stente e, quindi, il complesso degli interventi pubblici riconduci-bili alla previdenza e all’assistenza sociale.

Fatta questa precisazione, resta, pero, l’esigenza di semplifi-care ulteriormente il discorso limitando la considerazione alla pre-videnza sociale. Certo anche la tutela assistenziale potrebbe esserericompresa nella nozione di Welfare State sia perche realizzatadallo Stato, sia perche destinata alla protezione di valori umanicostituzionalmente protetti (art. 38, primo comma, Cost.) e, so-prattutto dopo la riforma introdotta con la legge n. 328 del 2000,perche costituisce un’ineliminabile espressione di civilta. Senon-che, e da dire che l’assistenza sociale e sempre stata, a ben vedere,afflitta da una crisi se per questa si intende anche quella determi-nata dalla scarsezza delle risorse che possono essere destinate allasua realizzazione.

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Pertanto, la crisi dell’assistenza sociale, anche perche incidesoltanto in minima parte su posizioni giuridiche protette, poneprevalentemente, se non esclusivamente, problemi politici onde,sia pure con la consapevolezze del limite derivante dalla mancataconsiderazione dell’assistenza sociale, il discorso che segue riguar-dera esclusivamente la crisi della tutela previdenziale.

Il tema della mia relazione, pero, prende soltanto lo spuntodal nostro sistema della previdenza sociale, ma lo supera.

A ben vedere, infatti, com’era nelle intenzioni degli organizza-tori, quel tema impone di affrontare prospettive incerte in quantoinevitabilmente proiettata nel futuro, come sono le prospettive incui e possibile tentare di comprendere quale sara l’influenza dellaperdurante crisi economica sulla tutela previdenziale e, quindi,sulle funzioni sociali dello Stato.

Orbene, chi, come me, si ritiene un giurista esperto nell’inter-pretazione della legge qual e, ma che non si ritiene competente adire quale legge sara o dovrebbe essere, se pure e in grado di per-cepire l’esistenza del problema, da dire poco o nulla sul modo dirisolverlo.

3. La dimensione temporale del diritto previdenziale.

Del resto, gia la percezione di una dimensione proiettata alfuturo e per qualche verso difficile posto che il complesso di inter-venti pubblici che va sotto il nome di previdenza sociale e, per ilgiurista tradizionale, declinato necessariamente al presente ed ha,quindi, riguardo soltanto alla disciplina vigente.

Senonche, la tutela previdenziale, almeno quando e realizzatamediante l’erogazione di pensioni, e cioe di prestazioni periodiche,da luogo a rapporti giuridici che, essendo di durata, travalicano ilpresente in quanto sono destinati a durare nel tempo.

Ed e questa la ragione per cui il legislatore ha finito per av-vertire anche l’esigenza di un costante adeguamento dell’importodelle pensioni e ha provveduto istituendo la perequazione auto-matica ritenuta dai giudici costituzionali essenziale a realizzare,appunto nel tempo, la garanzia costituzionale di mezzi adeguatialle esigenze di vita (art. 38, secondo comma, Cost.).

Ma v’e di piu. A ragione delle tecniche di finanziamento chesono state adottate (e in particolare del sistema a ripartizione), la

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realizzazione della tutela previdenziale finisce per presupporre l’e-sistenza di una relazione anch’essa proiettata nel futuro ed inter-corrente, da un lato, tra il lavoratore che percepisce la pensione e,d’altro lato, dal lavoratore che finanzia quella pensione percheversa, o fa versare dal suo datore di lavoro, una contribuzioneprevidenziale.

Eppure chi sta lavorando non sa se, a suo tempo, ci sara, ono, un altro lavoratore in grado di finanziare, lavorando, la pen-sione alla quale avra diritto.

4. Il diritto nel futuro.

Ed e questa la ragione per cui, soprattutto quando deve es-sere constatata l’esistenza di una crisi economica, sempre piuestesa e sempre piu profonda come quella che stiamo vivendo, an-che il giurista, una volta percepito il fenomeno, deve avvertire l’e-sigenza di estendere anche alla tutela previdenziale un modo dipensare che gia ha trovato applicazione ad altri settori.

Trattasi del modo di pensare che, soprattutto con riguardo al-l’ambiente e alle risorse naturali, ha gia fatto sentire la preoccu-pazione, se non il dovere, di lasciare ai figli e ai nipoti un pianetaabitabile e, di conseguenza, ha aperto le porte anche ad unanuova cultura giuridica che vuole che sia l’umanita e, sia il di-ritto, il diritto siano protetti anche nel succedersi del tempo edelle generazioni.

5. Previdenza sociale e generazioni future.

Anche il giurista che si occupa di previdenza sociale, quindi,non puo restare insensibile a questa nuova dimensione di civiltae, quindi, non puo interamente demandare ad altre competenze ilcompito sia di ragionare sulle conseguenze che la crisi economicaattuale puo avere sull’evoluzione della tutela previdenziale sia diinterrogarsi su come deve trovare soddisfazione l’esigenza di ga-rantire una tutela previdenziale adeguata anche alle generazionifuture.

Del resto, il giurista che si occupa di previdenza sociale e ne-cessariamente condizionato anche, se non soprattutto, dal ri-

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spetto dei principi accolti in materia di previdenza sociale dallaCostituzione repubblicana.

Principi ai quali la Corte costituzionale, quando la situazionefinanziaria delle gestioni pensionistiche e diventata preoccupante,ha dato applicazione proprio avendo riguardo al futuro.

Ed infatti, la Corte costituzionale ha superato i sospetti di le-gittimita costituzionale formulati nei riguardi di disposizioni dellalegge che riducevano la tutela previdenziale in atto per far fronte‘‘all’insorgenza di notevoli difficolta finanziarie che avrebbero potutoriflettersi sulla capacita stessa di effettuare in futuro le prestazionipensionistiche a tutti gli aventi diritto’’ e, quindi, soddisfacevanol’esigenza di ‘‘dare sicurezza ai pensionati attuali e futuri sulla te-nuta finanziaria del sistema stesso’’ (sentenza n. 99 e n. 390 del1995).

Orientamento dei giudici costituzionali che trova, a sua volta,conforto anche nella considerazione che concetti come quelli di‘‘sicurezza, liberta e dignita umana’’ rispetto ai quali, peraltro, illegislatore costituente ha configurato il limite della ‘‘utilita so-ciale’’, superano, a ragione del contenuto etico in essi racchiuso,l’immediatezza del presente e ricomprendono valori che devonoessere salvaguardati anche per le generazioni future.

Pertanto, la salvaguardia delle generazioni future diventa cri-terio della ‘‘razionalita costituzionale’’ ed impone un bilanciamentotra gli interessi della generazione presente con quelli delle genera-zioni future. Cio se non altro perche l’irragionevole utilizzazionedelle risorse di oggi, e quindi anche quello delle risorse destinate arealizzare la tutela previdenziale, fa dubitare residueranno risorseper realizzare la tutela delle generazioni future.

6. Le incertezze del tema.

Per assolvere a questi compiti, quindi, anche il giurista che sioccupa di tutela previdenziale deve tentare di proiettare le sue ar-gomentazioni nel futuro.

Tentativo difficile perche quella del diritto e una scienza so-ciale che, cosı come e stata studiata e continua ad essere percepitadalla generazione alla quale appartengo, e tenacemente legata altempo storico e, cioe, al tempo presente.

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Il diritto, cioe, e stato sempre considerato come disciplina disituazioni in atto che sono, oltretutto, riferite a uomini attual-mente esistenti onde, nelle sue categorie, e arduo trovar posto siaper diritti dei quali sarebbero titolari eventuali e, non meglio indi-viduate, generazioni future che per eventuali corrispondenti do-veri che dovrebbero, per converso, essere imposti alle generazionipresenti.

Del resto, nemmeno e dato conoscere quali saranno i bisognidelle generazioni future e quali saranno i modi per dare ad essisoddisfazione che saranno approntati dalle leggi del tempo. Diconseguenza, nemmeno e dato di sapere se gli eventuali sacrificiimposti alle generazioni di oggi determineranno, o no, effettivivantaggi per le generazioni future.

Certo, pero, e che, quando si discorre di previdenza sociale, legenerazioni future possono essere, e sono, meno lontane rispetto aquelle prese in considerazione quando si discute di ambiente o dirisorse naturali.

Ed infatti, quando si tratti di tutela previdenziale, oltre cheuna successione v’e anche una sovrapposizione di generazioni inquanto il discorso riguarda anche generazioni che gia esistonocome quella che, si potrebbe dire, sta attualmente lavorando perpagare le pensioni di chi ha smesso di lavorare.

Senonche, tra chi lavora e chi e pensionato, c’e, comunque,uno iato temporale, onde i problemi si pongono pur sempre in ter-mini spersonalizzati ed incerti perche non e dato di sapere se, ecome, i sacrifici imposti a quelli che oggi sono i soggetti protettirenderanno, a suo tempo, piu agevole la vita delle generazioni fu-ture e anche la vita di chi sta ora lavorando.

Fatto e che la mia relazione dovrebbe affrontare questioniche, quando sono state proposte in altri settori, sono state defi-nite questioni ‘‘scivolose e inafferrabili’’. Pertanto, mi limitero afornire — come forse dovrebbero fare tutti i relatori — soltantoun’impostazione del problema che potra servire come introdu-zione al dibattito.

Dibattito nel quale quanti di voi hanno l’abitudine di ragio-nare anche dei sistemi politici e, magari, gia hanno riflettuto sullepossibili prospettive future del Welfare State concorreranno ad in-dividuare quelle conclusioni che, lo dico fin d’ora, non sono ingrado di formulare con precisione.

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7. L’opportunita di partire dal passato.

Come spesso accade, per comprendere l’attuale, e a maggiorragione per discutere sul futuro, e necessario prendere le mossedal passato.

Orbene, senza andare troppo indietro nel tempo, il discorsopuo prendere le mosse dalla constatazione che, nell’immediato se-condo dopoguerra, lo Stato repubblicano eredito dal regime cor-porativo un sistema previdenziale rigorosamente ispirato alla mu-tualita e che, quindi, operava, come un circuito chiuso: benefici ecosti erano distribuiti tra i soggetti esposti allo stesso rischio o,meglio, ogni lavoratore finanziava la sua pensione.

Del resto, al modello della mutualita continua ad essere ispi-rata anche l’assicurazione, posto che anche questa opera una redi-stribuzione del rischio tra quanti ad esso sono esposti ancorchequella redistribuzione sia mediata dall’assicuratore che redistri-buisce quel rischio tra gli assicurati.

8. Le origini della tutela pensionistica.

Orbene, il sistema di assicurazioni sociali realizzato durante ilperiodo corporativo, cosı come quello istituito da Bismark allafine dell’ ’800, aveva due caratteristiche: si limitava a tutelare i la-voratori subordinati ed era ispirato esclusivamente al modellodella mutualita.

Per la tutela per l’invalidita, vecchiaia e superstiti la strut-tura propria della mutualita assicurativa e l’adozione del metododetto della capitalizzazione consentivano di finanziare le presta-zioni esclusivamente con i contributi versati dagli esposti al ri-schio e, per contro, di erogare prestazioni quantificate esclusiva-mente sulla base dei contributi versati, peraltro senza che fosseavvertita una qualsiasi preoccupazione per l’idoneita delle presta-zioni erogate a realizzare una tutela effettiva.

Se mai, nel sistema cosı descritto si annidava un equivoco de-rivante da cio che la legge poneva una parte dei contributi previ-denziali — e nel sistema corporativo la meta — a carico dei datoridi lavoro, onde l’impressione era che, all’apparenza, anche questi

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concorrevano alla realizzazione della tutela previdenziale dei pro-pri dipendenti.

Ma che si trattasse soltanto di un’apparenza risulta da cioche il datore di lavoro e sempre in grado di trasferire agevol-mente l’onere della contribuzione previdenziale sul lavoratore,se non sui consumatori, in quanto, a ben vedere, eroga una re-tribuzione inferiore a quella che erogherebbe se quell’onere nonci fosse. Del resto, i conti delle imprese non tengono conto delleretribuzioni erogate ai dipendenti, ma del costo complessivo dellavoro, come tale comprensivo anche degli oneri previdenziali.

9. Le origini della tutela contro le malattie.

Analogo discorso vale per quella che, allora, era tutela controle malattie.

All’inizio la legge si limito a tutelare un interesse pubblicoprevedendo una tutela contro le malattie della tubercolosi e a pre-vedere un’assistenza per particolari categorie di lavoratori, comela gente del mare e dell’aria.

La tutela obbligatoria di malattia, per quasi la generalita deilavoratori e per i loro familiari, venne realizzata successivamentedalla contrattazione collettiva corporativa alla quale la dichiara-zione XXVIII della Carta del Lavoro aveva demandato la costi-tuzione e la disciplina, per ogni singola categoria, di casse mutuedi malattia.

Le casse mutue di malattia istituite dalla contrattazione col-lettiva, da un lato, adottarono, come dice il nome, la tecnica mu-tualistica e, cioe, redistribuirono il rischio tra gli stessi lavoratoriiscritti e, d’altro lato, erano regolate da discipline diverse.

E soltanto nel 1943, e quando le forze alleate erano gia sbar-cate in Sicilia, che le casse mutue sindacali vennero unificate e as-sorbite nell’Ente mutualita. Istituto per l’assistenza di malattia ailavoratori che, presto, diventera Istituto nazionale per l’assicura-zione contro le malattie (INAM).

Quest’ultimo ente continuo a redistribuire il rischio dellamalattia tra quanto ad esso erano esposti, lavoratori e loro fa-miliari, e ad intervenire, operando secondo le tecniche dell’assi-curazione, soltanto quando la malattia, e cioe il rischio, si eraverificata.

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10. Tecniche di finanziamento del sistema pensionistico e possibi-lita di crisi.

Orbene, fin quando continuo ad essere adottata con rigore latecnica assicurativa sarebbe stato difficile avvertire qualche pre-occupazione per le generazioni future, perche il sistema previden-ziale, cosı come era organizzato, non temeva crisi finanziarie.

Si potrebbe, quindi, ritenere che, se il sistema previdenzialefosse rimasto fedele alla mutualita corporativa, forse nonavremmo dovuto, oggi, parlare di crisi delle gestioni pensionisti-che ne preoccuparci dei problemi delle generazioni future.

Ciascun lavoratore, infatti, avrebbe accumulato, con i con-tributi previdenziali da lui, o per lui, gia versati, il capitale ne-cessario a finanziare la sua pensione. Ond’e che, non ci sareb-bero stati problemi ad erogare le pensioni in godimento proprioperche era gia stato accantonato il capitale necessario alla loroerogazione.

11. L’assenza, nel dopoguerra, di un disegno politico complessivo.

Peraltro, la mutualita che caratterizzava i regimi pensionisticiereditati dal sistema previdenziale corporativo si e venuta atte-nuando a partire dal dopo guerra.

Va, pero, detto che cio non e avvenuto in conseguenza del-l’applicazione dei principi che, con riguardo alla tutela previden-ziale, erano stati accolti dalla Costituzione repubblicana e ai qualifaremo cenno tra poco.

Ed infatti, mancava allora, e forse non c’e mai stata, una con-creta volonta politica di dare attuazione a quei principi secondoun programma organico.

Assenza di volonta politica che era determinata da cio che, aragione dell’ambiguita del testo dell’art. 38 Cost. che si conside-rava come l’unica disposizione costituzionale a riguardare la tu-tela previdenziale, i politici o ritennero che, per realizzare i prin-cipi costituzionali, non era, tutto sommato, necessaria una vera epropria riforma del sistema previdenziale corporativo o, al contra-rio, prospettarono obiettivi di riforma cosı ambiziosi da risultare,gia a prima vista, irraggiungibili.

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12. L’evoluzione della legislazione ordinaria verso la solidarieta.

E, pero, accaduto che, nel tempo, il legislatore ha intro-dotto misure volte ad attenuare sempre di piu il rigore del prin-cipio mutualistico: il minimo di pensione (1952); la parziale ap-plicazione del principio della automaticita delle prestazioni dellepensioni (1962); la perequazione automatica delle pensioni(1965).

Gli istituti ai quali e stato fatto cenno, sono incompatibili conla mutualita perche ispirati ad una logica diversa come, a ben ve-dere, risulta da cio che, ancora una volta, ne godono quanti giasono pensionati, onde sono finanziati con i contributi previden-ziali posti a carico di chi sta lavorando.

Si consideri, infatti, che la perequazione automatica, inquanto ha la funzione di mantenere costante il potere di acqui-sto delle pensioni inevitabilmente erose dalla svalutazione, rea-lizza, per definizione, la tutela di chi e gia pensionato, mentree necessariamente finanziata con i contributi previdenziali ver-sati da, o per, i dipendenti in servizio. Lo stesso dicasi per iminimi di pensione e per l’applicazione, sia pure parziale, delprincipio dell’automaticita delle prestazioni in quanto anchequesti istituti consentono di erogare pensioni di importo mag-giore rispetto a quello che, nella logica della mutualita, sarebbespettato in base ai contributi previdenziali effettivamente ver-sati.

Al tempo stesso, il legislatore andava estendendo sempre piula tutela pensionistica oltre l’ambito del lavoro subordinato e finoal punto da ricomprendervi non solo quasi tutti i lavoratori auto-nomi, ma tutti i cittadini ultrasessantacinquenni e provvisti deimezzi necessari per vivere.

Peraltro, a fronte di tali innovazioni, si rese necessario ancheun sempre piu intenso intervento dello Stato nel finanziamentodelle gestioni pensionistiche.

Di conseguenza, all’originaria mutualita si venne sostituendola solidarieta che, a differenza di quella, si caratterizza con cioche l’interesse perseguito e un interesse superiore all’interesse diquanti sono esposti al rischio e concorrono al finanziamento delleprestazioni.

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13. I principi in materia di previdenza recepiti dalla Costituzionerepubblicana.

Del resto, i principi accolti dalla Costituzione repubblicana inmateria di tutela previdenziale sono ispirati alla solidarieta e,quindi, superano quella mutualita che, invece, ispirava la Cartadel lavoro corporativa.

Superamento che non risulta tanto dal testo dell’art. 38 Cost.,la cui equivoca formulazione risente ancora, per tante ragioni,della mentalita corporativa, quanto dall’art. 2 Cost. che non soloprevede, ma considera inderogabile, il dovere di solidarieta poli-tica, economica e sociale.

Soprattutto, pero, il necessario riferimento al principio di soli-darieta risulta dal secondo comma dell’art. 3 Cost. che, affer-mando il principio dell’uguaglianza sostanziale, accoglie l’idea po-litica della sicurezza sociale in quanto considera compito delloStato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limi-tano di fatto la liberta e l’uguaglianza dei cittadini e impedisconoil pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazionedei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale delPaese.

Peraltro, la formulazione del secondo comma dell’art. 3 Cost.riproduce il contenuto del concetto di sicurezza sociale in quantopone a carico dello Stato l’obbligo di realizzare la liberazione dalbisogno di tutti i cittadini.

In un’economia di mercato, quale quella voluta dal legislatorecostituente, e lo Stato, dunque, a dover garantire la liberazionedal bisogno dei cittadini modificando la distribuzione dei redditiche deriverebbero dal mercato e riducendo le disuguaglianze so-ciali anche nella fruizione dei servizi fondamentali, quali l’istru-zione e la sanita.

14. L’improvvida riforma della fine degli anni ’80.

Senonche, il legislatore, verso la fine degli anni ’80 del secoloscorso, ha adottato scelte contrastanti con i principi costituzio-nali. Ed e singolare che cio non sia avvenuto per effetto di una di-versa lettura di quei principi ne sia stato conseguenza dell’esi-

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genza di superare inconvenienti che fossero derivati dal regime vi-gente.

Ed infatti, quella che puo essere considerata la piu significa-tiva riforma dei regimi pensionistici del dopoguerra e stata deter-minata dalle pressioni dei sindacati che, intervenendo per laprima volta in quella materia, aveva perseguito l’obiettivo diequiparare la tutela pensionistica dei dipendenti da datori di la-voro privati a quella tradizionale dei pubblici dipendenti.

E poiche la tutela previdenziale dei pubblici dipendenti si ca-ratterizzava per essere le pensioni calcolate sull’ultima retribu-zione, il movimento sindacale, per estendere questa regola, fecepropria l’idea che, come avveniva durante l’ordinamento corpora-tivo, i contributi versati da ogni singolo lavoratore fossero desti-nati a finanziare esclusivamente la sua pensione, onde questa sa-rebbe stata un diritto da considerare corrispettivo dei contributiversati.

Senonche, quell’idea era contraddittoria: se i contributi ver-sati fossero stati di competenza dei lavoratori questi avrebberoavuto diritto, come accadeva durante l’ordinamento corporativo,ad una pensione ad essi proporzionata e non gia a una pensioneproporzionata all’ultima retribuzione. Oltretutto, quell’idea nonteneva conto di cio che il sistema pensionistico aveva superato,da tempo, i limiti derivanti dalla rigorosa applicazione del mo-dello mutualistico posto che, sempre piu spesso, la contribuzioneversata da, o per, un dipendente non era destinata a finanziare lasua pensione, ma le pensioni in godimento.

15. Differenti esigenze di tutela previdenziale per i dipendenti pub-blici e dei privati.

Ma anche l’aspirazione ad equiparare la tutela previdenzialedei dipendenti da privati a quella dei pubblici dipendenti, era ir-razionale.

Ed infatti, le situazioni dell’uno e dell’altro non erano, pertante ragioni e soprattutto a quei tempi, equiparabili se non altroperche le caratteristiche del regime pensionistico dei pubblici di-pendenti si giustificava con cio che il rapporto di pubblico im-piego, a differenza del rapporto di lavoro alle dipendenze di unprivato, costituiva un vero e proprio status destinato a rimanere

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tale anche quando l’impiego cessa. Cosı il rapporto di impiegopubblico, a ben vedere, non si estingueva per effetto di un licen-ziamento, ma veniva soltanto modificato dal provvedimento conil quale il dipendente veniva ‘‘messo a riposo’’ onde, per questo, lapensione altro non era che la continuazione della retribuzione ilcui importo era ridotto proprio perche il ‘‘riposo’’ comportava‘‘l’esonero dalla prestazione’’.

Oltretutto, il regime previdenziale dei pubblici dipendenti ri-guardava un insieme limitato di soggetti caratterizzato da un’oc-cupazione stabile e da retribuzioni pressoche costanti, onde le va-riabili che incidono sull’onere delle pensioni erano, se non gover-nabili, prevedibili.

Non cosı accadeva, e accade, nel settore dell’impiego privatoil cui andamento risente di variazioni piu intense e frequenti conla conseguenza che, non essendo stata prevista a fronte deglioneri finanziari derivanti dalla riforma la necessaria provvista neessendo stata adottata di nuovo la tecnica della capitalizzazione,la riforma finı per determinare una delle cause della grave crisi fi-nanziaria che, di lı a poco, avrebbe colpito i regimi pensionistici eche si sarebbe aggravata per effetto del sopraggiungere della crisieconomica mondiale.

Peraltro, deve essere appena ricordato come, allo stesso modoin cui il legislatore ha esteso al rapporto di lavoro dei dipendentipubblici la disciplina dettata per il rapporto di lavoro privato, ladisciplina previdenziale di quest’ultimo e stata estesa al pubblicoimpiego.

16. L’equiparazione del sistema pensionistico dei lavoratori privatia quello proprio dei dipendenti pubblici.

A ben vedere, infatti, il legislatore si illuse che le condizioni dibenessere economico registrate negli anni ’60 del secolo scorso sa-rebbero rimaste inalterate, se non altro in termini di occupazionee di livelli retributivi e, quindi, in termini di gettito contributivo,onde sarebbe stato consentito prendere anche impegni nel lungoperiodo come e inevitabile che sia quando si tratti di prevederepiu favorevoli trattamenti pensionistici.

Orbene, in questa situazione, il legislatore introdusse per i di-pendenti da privati, da un lato, la cosiddetta pensione retributiva

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calcolata, come accadeva per i pubblici dipendenti, sulla base del-l’ultima retribuzione e, d’altro lato, istituı la pensione di anzianitaerogata non gia quando il raggiungimento di una certa eta facevapresumere sopravvenisse l’incapacita di produrre reddito da la-voro, ma quando fosse stata soltanto maturata, indipendente-mente dall’anzianita anagrafica, una certa anzianita contributiva.

Pensione di anzianita, dunque, che non trovava piu il suofondamento nella situazione di bisogno derivante dalla vecchiaia,ma soltanto in cio che sarebbe stata il corrispettivo dei contributiversati.

17. La crisi del sistema pensionistico.

Senonche, il legislatore non aveva previsto la possibilita che sisarebbero potuti modificare i presupposti demografici e di mer-cato in base ai quali aveva ritenuto possibile introdurre la pen-sione retributiva e quella di anzianita, ne, a maggior ragione,aveva previsto la copertura dei maggiori oneri finanziari che daquelle modifiche sarebbero potuti derivare.

Cosı, quando si modifico non solo la situazione del mercatodel lavoro, ma anche l’andamento demografico, la crisi finanziariadelle gestioni pensionistiche divenne inevitabile.

Ed infatti, quelle modifiche fecero aumentare inevitabilmenteil costo dell’erogazione delle prestazioni pensionistiche anche per-che ad esse si aggiunse, poco dopo, l’aumento del numero dei pen-sionati e, soprattutto, l’aumento della speranza di vita con conse-guente necessaria erogazione di pensioni per un tempo piu lungo.Al tempo stesso, pero, diminuiva di molto il gettito contributivoa ragione del costante aumento della disoccupazione unito alla di-minuzione della popolazione in eta di lavoro e alla frammenta-rieta della contribuzione dei lavoratori atipici.

Crisi finanziaria delle gestioni pensionistiche che divento irre-versibile quando, soprattutto dopo il 2008, la crisi economicamondiale aggravo definitivamente la situazione economica del no-stro paese.

E va appena ricordato come, essendo le gestioni pensionisti-che ‘‘integrate’’ dallo Stato (quarto comma dell’art. 38 Cost.) e,pertanto, ammesse al cosiddetto ‘‘tiraggio di tesoreria’’ dellaBanca d’Italia, la loro crisi finanziaria ha inevitabilmente messo

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in crisi lo stesso bilancio dello Stato, posto non sarebbe stata con-sentita una qualsiasi interruzione nell’erogazione dei trattamentipensionistici.

18. La tutela della salute.

A distanza, piu o meno, di un decennio dalla riforma dellepensioni della quale ora e stato fatto cenno, il legislatore ha rifor-mato in modo radicale, e questa volta in perfetta coerenza con iprincipi costituzionali, anche quella che era stata la tutela di ma-lattia.

Ed infatti, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, avve-nuta nel 1978, ha modificato profondamente quella che era la tra-dizionale tutela previdenziale contro la malattia ed ha dato pienaattuazione del principio costituzionale secondo il quale la Repub-blica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e,al tempo stesso, come interesse della collettivita (art. 32 Cost.).

Orbene, prima di questa riforma, la tutela della malattia eralimitata ai lavoratori e ai loro familiari e, essendo realizzata me-diante un’assicurazione, comportava l’erogazione di prestazionisoltanto quando la malattia era insorta e, cioe, il rischio assicu-rato si era verificato.

Con la riforma che realizza l’art. 32 Cost., la tutela di malattiadei lavoratori subordinati e dei loro familiari diventa tutela dellasalute estesa a tutti i cittadini, e anzi a tutti i residenti, ed hacome obiettivo, appunto, la conservazione e l’accrescimento dellasalute in quanto non si limita alla cura della malattia gia insorta,ma e comprensiva anche della prevenzione e della riabilitazione.

19. La crisi della tutela della salute.

Orbene, e accaduto che, anche se per motivi diversi da quelliche hanno determinato la crisi delle gestioni pensionistiche, anchela gestione finanziaria del Servizio sanitario nazionale e andata incrisi.

Cio, da un lato, perche la perdurante assenza di una coerentee efficace programmazione e la conseguente carenza di coordina-menti hanno, di fatto, determinato costi sempre crescenti ai quali,peraltro, ha finito inevitabilmente per corrispondere, troppo

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spesso, una tutela della salute sempre piu inadeguata e incom-pleta.

A cio si aggiungono gli sperperi di gestione, la mancanza dieducazione sanitaria e conseguentemente gli abusi degli stessi sog-getti protetti e, non da ultimo, il costante saccheggio dovuto aduna corruzione estesa quanto persistente.

Peraltro, cosı come e avvenuto per le gestioni pensionistiche,anche la crisi finanziaria del Servizio sanitario nazionale, enfatiz-zata dalla crisi economica mondiale, ha ulteriormente aggravatola crisi della finanza pubblica, statale e degli enti territoriali, pro-prio perche la tutela sanitaria non poteva essere sospesa essendoposta a presidio di interessi pubblici.

Del resto, il legislatore ha voluto che il Servizio sanitario do-vesse, almeno in tendenza, potesse operare sulla base di un finan-ziamento pubblico ond’e che la sua crisi finanziaria aggrava il de-bito pubblico anche perche il gettito contributivo risentiva, a suavolta, delle condizioni del mercato.

20. La progressiva riduzione di effettivita della tutela previdenzialepubblica.

Sono queste, in sintesi, le ragioni per cui, da oltre venti anni,il legislatore e dovuto intervenire piu volte, e in vari modi, per ar-ginare le conseguenze della crisi finanziaria piu soltanto dei regimipensionistici, ma oramai anche del bilancio dello Stato.

Interventi che, se pure hanno anche aumentato, nel limite delpossibile, la percussione contributiva, hanno, soprattutto, tentatodi ridurre i costi delle prestazioni e, quindi, hanno ridotto l’effet-tivita della tutela previdenziale; riduzioni che, quando la situa-zione e stata ulteriormente aggravata dal sopravvenire della crisieconomica mondiale, si sono fatte ancor piu gravi per effetto del-l’ulteriore inasprimento dei requisiti per accedere alle prestazioni,dell’adozione di meno favorevoli criteri di calcolo dell’ammontaredi queste ultime e delle riduzioni dei meccanismi di perequazione.

E, poi, avvenuto che e stata ridotta anche l’effettivita dellatutela della salute per effetto sia della diminuzione delle strutturesanitarie sia dell’imposizione di maggiori tasse a carico degliutenti dei servizi sanitari.

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21. Il tentativo della previdenza complementare.

Se mai, e da dire che il legislatore ha tentato di attenuare leconseguenze della riduzione sia della tutela pensionistica pubblicache della tutela della salute con una soluzione politica e, cioe, ten-tando di favorire il ricorso a forme di previdenza o di assistenzaintegrative realizzate con il ricorso alla mutualita tra quanti vo-lontariamente avessero aderito e con l’eventuale concorso dei da-tori di lavoro.

Senonche, e avvenuto che il tentativo non ha avuto risultatiapprezzabili a ragione della crisi che ha ulteriormente limitato ingenere le disponibilita economiche dei lavoratori e, per la tutelapensionistica, ha ridotto i rendimenti dei contributi volontaria-mente versati e, non da ultimo, dell’estrema timidezza degli in-centivi.

22. La riduzione della tutela pensionistica: a) in genere.

A molti di voi e noto di quanto, negli ultimi venticinque anni,sia stata ridotta l’effettivita della tutela previdenziale che si rea-lizza mediante l’erogazione di pensioni.

Tuttavia, un cenno al riguardo deve essere fatto, se non altroperche quella dolorosa riduzione costituisce la premessa della con-clusione che offro al dibattito.

Certo, la riduzione di cui trattasi ha colpito anche altre formedi tutela previdenziale che comportano l’erogazione di prestazionieconomiche e, soprattutto, ha colpito anche la tutela della salute.

Senonche, ai fini del nostro discorso, la riduzione dei tratta-menti pensionistici e stata determinante proprio perche incidesulla solidarieta tra generazioni a ragione di cio che l’erogazionedelle prestazioni dura nel tempo e, quindi, si determina un’inevi-tabile scissione tra chi percepisce le pensioni e chi le finanzia.

Un’ulteriore precisazione e, pero, opportuna. I brevi cenniche seguono sono limitati al regime generale gestito dall’INPS,ancorche sia noto che esistono, o sono esistiti, altri regimi pensio-nistici sicuramente piu favorevoli di quello dell’INPS. Certo,molto di questi regimi sono stati aboliti ma, comunque, sopravvi-vono i loro pensionati che continuano a godere di trattamenti li-

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quidati sulla base della piu favorevole disciplina vigente quandole loro pensioni furono liquidate.

Orbene, anche per non appesantire inutilmente l’esposizione,le considerazioni che seguono saranno limitate al regime generalegestito dall’INPS, ma la precisazione ora fatta rende avvertitiche, molto probabilmente, le riflessioni da fare sarebbero ancorpiu rigorose se il discorso fosse stato fatto per gli altri regimi.

23. Segue: b) in particolare: i requisiti di accesso alle pensioni.

Prendendo come punto di riferimento la disciplina vigente ne-gli anni ’80 del secondo scorso i lavoratori potevano aver dirittoalla ‘‘pensione di vecchiaia’’ al compimento di 60 anni di eta, seuomini, e 55, se donne, avendo maturato quindici anni di contri-buzione. Potevano, inoltre, aver diritto alla ‘‘pensione di anzia-nita’’, indipendentemente dall’eta fisica, quando avessero matu-rato trentacinque anni di contribuzione.

Per contro, dopo una serie di riforme e, infine, per effettodella cosiddetta ‘‘riforma Fornero’’ (legge n. 214 del 2011) l’etapensionabile che condiziona il diritto della ‘‘pensione di vecchiaia’’e stata portata per gli uomini a 66 anni e per le donne a 62 mache sara di 66 anni nel 2018 mentre, a partire dal 2021, non potraessere inferiore a 67 anni, mentre con la promessa conservazionedella garanzia di stabilita del rapporto di lavoro, e per effetto delcoefficiente di trasformazione, dal 2019 il diritto a pensione si ma-turera con un’anzianita di 70 anni di eta e, quindi, dieci anni piutardi di come era prima della crisi.

Peraltro, tali requisiti sono ‘‘mobili’’ in quanto, anno peranno, sono modificati, con un provvedimento amministrativo, pertener conto delle variazioni della speranza di vita. E si noti che,con un decreto del 2011 l’eta pensionabile e stata gia aumentatadi 3 mesi.

Per contro, sempre la riforma Fornero ha, nei fatti, eliminatola pensione di anzianita sostituita dalla ‘‘pensione anticipata’’ chespetta, con una riduzione rispetto a quella che sarebbe stato l’im-porto della pensione di vecchiaia, quando gli uomini maturanoquarantadue anni e un mese di contribuzione.

Requisiti che saranno aumentati di un mese nel 2013 e di unaltro mese nel 2014 e, comunque, negli stessi termini e con la

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stessa procedura previsti per la ‘‘pensione di vecchiaia’’, sarannoulteriormente aumentati per tener conto delle speranze di vita,onde anch’essi gia da quest’anno sono quarantadue anni e cinquemesi.

Orbene, l’aumento dei requisiti di eta e di contribuzione estato disposto per tener conto di cio che anche l’andamento de-mografico ha inciso gravemente sulla spesa delle pensioni. Queste,infatti, devono essere erogate finche il pensionato vive e, quindi,l’onere che ne deriva e condizionato dalla speranza di vita.

24. Segue: c) in particolare: i criteri di calcolo delle pensioni.

Il quadro fin qui descritto ai aggrava ulteriormente se alle ri-duzioni relative al momento in cui matura il diritto a pensione, siaggiungono quelle subite dai livelli dei trattamenti pensionistici.

Peraltro, e noto come, anche indipendentemente determinatederivante dalle modifiche della disciplina che ne detta i criteri dicalcolo, i livelli dei trattamenti pensionistici sono degradati pereffetto delle diminuzione del valore di acquisto delle retribuzionidal quale, direttamente o indirettamente, quei livelli sono condi-zionati. Allo stesso tempo, una diminuzione e stata determinatada costante raffreddamento, specialmente per le pensioni medioalte, dalla perequazione automatica.

Ma v’e di piu. I livelli dei trattamenti pensionistici erogati,via via, ai nuovi pensionati e costantemente diminuito.

Ed infatti, gia ad iniziare dalla legge n. 335 del 1995 il sistemadi calcolo delle pensioni basato sulle retribuzioni percepite e statosempre piu spesso sostituito con quello detto contributivo genera-lizzato, infine, con la riforma Fornero.

A mio avviso, la sostituzione non ha, come pure e stato auto-revolmente sostenuto, il significato di un ritorno alle concezioniche avevano caratterizzato la corrispettivita corporativa. Ed in-fatti, anche l’applicazione del sistema di calcolo retributivo, cosıcome quella del sistema contributivo, prende le mosse da unastessa base e, cioe, la retribuzione. La differenza e che nell’un casola retribuzione e presa direttamente in considerazione, mentrequando si adotta il sistema contributivo, la retribuzione continua,sia pure in modo indiretto, a costituire la base di calcolo, proprio

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perche la contribuzione previdenziale e calcolata in percentualesulla retribuzione.

La verita e che il calcolo della pensione non ha mai diretto ri-ferimento alla retribuzione alla pensione contribuzione. Questevengono, comunque, considerate per la parte che deriva dai coef-ficienti di calcolo. Per le pensioni retributive: il 20% per ognianno di anzianita contributiva nei limiti del massimale retribu-tivo stabilito dalla legge n. 513 del 1969 e, dopo la legge n. 297 del1982, aliquote decrescenti per le retribuzioni eccedenti quel massi-male. Per le pensioni contributive, all’ammontare delle contribu-zioni versate viene, dapprima confrontata l’aliquota di computoe, poi, rivalutato applicando un tasso annuo di capitalizzazioneche tiene conto della media del PIL, vengono applicati coeffi-cienti di trasformazione che tengono conto dell’eta del soggettoprotetto stabiliti dalla legge e congegnati in modo tale da dimi-nuire il ‘‘tasso di sostituzione della pensione’’ rispetto alla retribu-zione molto di piu di quanto non sarebbe stato applicando a que-st’ultima i criteri previgenti.

I contributi versati, quindi, costituiscono soltanto un ele-mento del calcolo della pensione, ma non costituiscono il capitaledestinato a finanziare la pensione.

Questa, infatti, continua ad essere finanziata con il sistemadella ripartizione e, cioe, con i contributi versati da, o per, quantistanno lavorando.

Resta, poi, che, nel calcolo della pensione con il sistema con-tributivo comporta l’erogazione di previsioni di importo meno ele-vato di quanto non sarebbe stato con il sistema retributivo.

E questa la ragione per cui, utilizzando una tecnica gia adot-tata nel 1992, il legislatore del 1995, quando ha introdotto il cal-colo contributivo delle pensioni ha fatto una scelta politica a fa-vore di chi gia aveva lavorato e a danno dei lavoratori piu gio-vani.

Ha, cioe, introdotto il criterio del pro rata per effetto delquale, per i periodi di contribuzione gia effettuati, si sarebbe con-tinuato ad applicare il nuovo e meno favorevole sistema di cal-colo.

Ne e derivata non solo una discriminazione a favore di quantierano andati in pensione con i criteri piu favorevoli e quanti con-tinuando a lavorare avrebbero finanziato le loro pensioni per poipercepire pensioni di importo minore, ma anche tra lavoratori in

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servizio nella misura in cui i piu anziani avrebbero mantenuto, al-meno in parte, una quota della pensione calcolata con i piu favo-revoli criteri preesistenti, pur dovendo, con la contribuzione da, oper loro, versata finanziare le pensioni dei piu anziani.

25. La gravita delle conseguenze.

Senonche, se puo essere in qualche modo tollerata la logicache in astratto presiede a queste riduzioni, orientata com’e esclu-sivamente dalla fredda considerazione dei costi e dell’esigenza disalvaguardare il sistema, merita una qualche valutazione positiva,non cosı e quando si passa alla considerazione delle conseguenzeche ne deriva.

Ed infatti, quelle conseguenze incidono su persone che, dopouna vita di lavoro, si vedono posticipato, e non di poco, il mo-mento del meritato riposo specialmente quando la modificazionedell’eta pensionabile interviene quanto si sta per andare in pen-sione ovvero ridotto, rispetto alle aspettative, il livello delle pen-sioni.

Oltretutto, il continuo slittamento dell’eta pensionabile nontiene conto, come invece sarebbe stato necessario, delle condizionipsicofisiche dei lavoratori anziani che non sempre consentonovengano prolungato, anche per anni, la fatica del lavoro. Faticache, tuttavia, deve continuare ad essere affrontata perche la retri-buzione, almeno quando e possibile, costituisce l’unica alternativaalla pensione come mezzo di sostentamento.

26. Le incertezze del futuro.

Ma v’e di piu. Il problema e che al momento, non e dato disapere quale sara, nel futuro, l’andamento della crisi economicamondiale e, a maggior ragione, l’andamento della crisi che affliggeil nostro Paese.

Fatto e, pero, che, anche quando gli indicatori attesterannoche la crisi e stata definitivamente superata, si dovra tener contodi cio che, per quanto a noi interessa, la crisi ha influito sulla tu-tela previdenziale soprattutto a ragione delle limitazioni imposteall’indispensabile concorso della finanza pubblica.

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Pertanto, prima ancora che saranno destinate nuove risorseal ripristino dell’effettivita della tutela previdenziale, e da temereche la preoccupazione principale sara ancora, e forse per lungotempo, quella di risanare, o di ridurre, l’enorme debito nel frat-tempo accumulato da Stato, enti pubblici territoriali e gestionipubbliche.

In questa situazione, a voler essere pessimisti, o se si vuoleprudenti, non e dato di sapere quando la tutela previdenziale, nelsuo complesso, potra interamente recuperare la sua effettivita e,soprattutto, non e dato di sapere se, almeno nel breve e medio pe-riodo, non saranno necessarie ulteriori riduzioni di quella effetti-vita.

Ed infatti, se pure e vero che, a questo momento, dovremmoessere rassicurati in ordine a cio che i regimi pensionistici sareb-bero stati ‘‘messi in sicurezza’’, resta l’incognita di sapere se nuoviinterventi non saranno resi necessari dalle imprevedibili varia-zioni dei presupposti di fatto dai quali derivano sia il gettito con-tributivo che le spese per prestazioni, presupposti condizionati,com’e noto, dall’andamento demografico e dalle vicende del mer-cato del lavoro.

Possibilita di nuovi interventi che non puo essere esclusanemmeno per quanto attiene alla tutela della salute in quantonon e dato di sapere come lo Stato, e soprattutto gli enti territo-riali, riusciranno a sanare la crisi finanziaria che affligge le rispet-tive gestioni.

27. Le conseguenze delle incertezze.

Tanto basta, a mio avviso, per rendersi conto di come, in que-sta situazione e almeno per il momento, non ha piu senso conti-nuare a formulare quelle prospettive che fino a poco tempo fa an-che io avevo immaginato fossero possibili.

Ed infatti, nonostante qualcuno ancora evochi un ‘‘salario dicittadinanza’’, e da ritenere che, a prescindere dalla condivisionedelle idee politiche che ne costituiscono il presupposto, non esiste-ranno a lungo le condizioni per realizzare un vero e proprio Wel-fare State e, cioe, quella concezione dello Stato che, facendo ri-corso alla solidarieta generale, dovrebbe garantire tutti i mezzi disussistenza e tutti i servizi indispensabili per la realizzazione della

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liberazione dal bisogno come condizione perche tutti possano ef-fettivamente esercitare i loro diritti civili e politici. Garanzia,quindi, non piu limitata ai lavoratori, ma estesa a tutti i cittadinie in particolare alle ‘‘nuove poverta’’ (l’infanzia, l’adolescenza, glianziani, i portatori di handicap, i tossicodipendenti).

Ed infatti, la realizzazione di un Welfare State di questo tipopresuppone uno Stato che abbia non solo l’autorita di imporreuna solidarieta tra tutti i cittadini, ma che abbia anche le risorsenecessarie per realizzare quella solidarieta.

Ed invece, sembra che lo Stato sia, oramai, sopraffatto dallafinanza per cui, occupato com’e a cercar di curare le ferite causatedalla crisi, non abbia piu l’autorita, e soprattutto, non abbia le ri-sorse, per eliminare i limiti esistenti alla realizzazione della auspi-cata solidarieta generale.

28. L’irrilevanza, ai nostri fini, del privato sociale.

Se mai, e da dire che gli obiettivi di solidarieta che erano statiprefigurati nelle concezioni del Welfare State sono stati, piu recen-temente, riproposti con le iniziative riconducibili al cosiddettoterzo settore — detto anche del privato sociale — e, cioe, con quel-l’insieme variegato di iniziative che, utilizzando strutture diffe-renziate, si pongono in alternativa sia a quelle gestite dallo Stato,che sarebbe il primo settore, che a quelle gestite dal mercato, chesarebbe il secondo settore.

In questa sede, pero, interessa soltanto ricordare che il nuovoWelfare si distingue da quello tradizionalmente affidato alloStato, per un verso, perche non e, a differenza di quest’ultimo,imposto e, cioe, non e regolato dall’alto e, per altro verso, perchela sua realizzazione non e affidata, comunque, ad una burocrazia.Ed infatti, il nuovo Welfare si realizza attraverso una pluralita dimodelli che, come elemento comune, hanno l’idea secondo laquale l’individuazione e la realizzazione della tutela devono essereaffidati alla sussidiarieta e, cioe, all’autonoma capacita di inizia-tiva e di giudizio di chi e destinatario di quelle tutele.

Orbene, non sono in grado di riferire, nemmeno per l’Italia,quali siano l’effettivita e la consistenza di queste iniziative, ma, aifini del nostro discorso, non interessano le prospettive del nuovoWelfare, allo stesso modo in cui non interessa la loro diffusione.

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Cio perche le funzioni che il nuovo Welfare ha scelto di realiz-zare sono, per definizione, diverse dalle funzioni tradizionali delloStato sociale.

Ne consegue che, quando si discorre dei modi in cui puo es-sere sanata la crisi della tutela previdenziale pubblica, la cui rea-lizzazione e, ai sensi del secondo comma dell’art. 3 Cost., ‘‘compitodella Repubblica’’, sono del tutto indifferenti le realizzazioni delterzo settore sia perche, essendo volontarie non sono idonee a ga-rantire una tutela che, invece, e necessaria, sia perche, se pure af-fiancandosi a quella statale, concorrono, comunque, al bene co-mune.

29. Dalla solidarieta alla mutualita.

Del resto, e con riguardo alla nostra situazione, e da dire che,oramai, il sistema pensionistico non ha nemmeno piu l’attitudinea realizzare una solidarieta generale tra tutti i cittadini organiz-zati nello Stato.

Nei fatti, quel sistema realizza in modo sempre piu intensouna solidarieta tra generazioni nel senso che sono i giovani lavora-tori a sostenere l’onere delle pensioni in corso di erogazione.

Ed infatti, prestazioni pensionistiche di un certo livello, nonsolo, costituiscono sempre piu un privilegio limitato a chi ha lavo-rato, ma nemmeno sono piu espressione di una mutualita perchesono, oramai, prevalentemente finanziate dallo Stato e dai contri-buti previdenziali versati da, e per, chi sta lavorando.

Il problema, dunque, sta in cio che le condizioni attuali dell’e-conomia del nostro paese non garantiscono affatto che quel gio-vane lavoratore che finanzia, oggi, la pensione del lavoratore an-ziano, trovera ancora, quando avra maturato i requisiti per averdiritto a pensione, un lavoratore in grado di finanziare la sua pen-sione, cosı come non garantiscono che questa avra l’attitudine aliberarlo dal bisogno nello stesso modo in cui le pensioni da lui fi-nanziate liberavano dal bisogno i pensionati che le hanno perce-pite.

Simile situazione ricorre, a ben vedere, anche per la tuteladella salute posto che, una volta ridotto, se non venuto meno, ilfinanziamento pubblico, le prestazioni sanitarie sono finanziate,in parte a carico degli enti pubblici locali e con la tassa della sa-

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lute, ma in gran parte anche con la contribuzione degli assistitiche godono di un certo reddito, e che, quindi, sono nella maggiorparte dei casi, lavoratori.

Contribuzione, quest’ultima, che condiziona, sempre piuspesso, l’erogazione delle prestazioni sanitarie, onde anche per leprestazioni sanitarie non e dato di sapere se, nel futuro, ci sa-ranno ancora tanti lavoratori che, con le contribuzioni da loro, oper loro, versate, finanzieranno quelle prestazioni.

30. L’eventuale necessita di nuovi interventi.

Ma v’e di piu. Con un po’ di spirito di adattamento e, soprat-tutto con un po’ di ottimismo, si potrebbe ancora ritenere la si-tuazione attuale sia, comunque e in qualche modo, soddisfacente.

Cio se non altro perche, alla fine delle fini, quello che ancorasi potrebbe ritenere e che chi ha lavorato godra, comunque, diuna pensione che lo aiutera a far fronte almeno ai bisogni essen-ziali della vecchiaia.

Allo stesso modo, e indifferente quale sia il titolo che presiedeall’erogazione di quella pensione allo stesso modo in cui e indiffe-rente sia che il finanziamento gravi su chi lavora sia l’incognita disapere se ci saranno risorse per continuare, nel futuro, ad erogarea chi oggi lavora la stessa pensione erogata a chi, oggi, e pensio-nato.

Il problema che si pone, allora, e quello di sapere in che modosi dovra intervenire se la crisi economica dovesse insistere con laconseguenza che occorreranno ulteriori interventi almeno permantenere le tutele previdenziali attuali.

31. Eventuali ulteriori riduzioni della tutela della salute.

La tutela della salute si realizza mediante l’erogazione di pre-stazioni in natura, quali sono le cure mediche, onde, per questenon e consentita alcuna graduazione; una cura medica o e erogatao non e erogata.

Orbene, fatta questa constatazione, deve esser tenuto contodi un costante orientamento dei giudici di legittimita (iniziato ne-gli anni ’60 [Cass. n. 570 del 1960] e tutt’ora impartito [Cass.n. 17541 del 2011]) secondo il quale gli assistiti, prima dell’INAM

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e ora del Sistema Sanitario Nazionale, hanno, in ogni caso, dirittoad un’assistenza adeguata ed efficace onde quel diritto e leso ogniqual volta non siano erogate tutte le prestazioni sanitarie necessa-rie a garantirne la realizzazione.

Ne consegue che, da un lato, le prestazioni sanitarie non siprestano ad una riduzione quantitativa, ma possono essere ri-dotte soltanto per effetto dell’esclusione di alcune di esse.

Ne consegue, d’altro lato, che una volta dovesse essere solle-vata questione di legittimita costituzionale di un provvedimentoriduttivo delle prestazioni destinate a realizzare la tutela della sa-lute, perche ritenute in violazione dell’art. 32 Cost., i giudici costi-tuzionali quasi sicuramente terrebbero conto dell’orientamentodei giudici di legittimita ora riferito, anche perche lo considere-rebbero, come in altre occasioni hanno fatto, ‘‘diritto vivente’’.

Vero e che la tecnica fin qui seguita dal legislatore per ridurrei costi, e quindi, inevitabilmente l’effettivita, delle prestazioni sa-nitarie, e stata quella di risparmiare sulle strutture e di condizio-nare, per gli assistiti non indigenti, l’erogazione delle prestazionisanitarie al pagamento di una tassa (ticket).

Ma, a parte la considerazione che il limite di questa tecnicasta nella necessita di evitare reazioni nell’elettorato, resta che,come avviene per ogni percussione fiscale, il gettito della tassaper ottenere cure mediche non puo essere aumentato all’infinito.Oltretutto, e stato denunciato come l’incremento di quella percus-sione gia avrebbe disincantato l’afflusso alle strutture pubbliche afavore di quelle private e, con cio, contraddetto al principio costi-tuzionale che considera la tutela della salute interesse della collet-tivita (art. 32 Cost.).

32. Eventuali ulteriori riduzioni della tutela pensionistica.

Orbene, numerosi fattori conducono ad escludere che il man-tenimento dell’attuale sistema pensionistico, perdurando la crisieconomica e i bassi livelli di occupazione, possa essere garantitocon interventi che aumentino il gettito contributivo per effetto diun incremento della contribuzione previdenziale.

Cio perche un ulteriore aumento della percussione contribu-tiva, determinando un ulteriore aumento del gia pesante costo dellavoro, finirebbe per aggravare ulteriormente la crisi occupazio-

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nale e, al tempo stesso, per far andare fuori mercato tutte le im-prese che, per continuare a produrre, non sarebbero in grado disostenere costi ulteriori.

Di conseguenza, eventuali nuovi interventi del legislatore,non potendo incrementare le entrate, non potrebbero che ridurrele spese e, cioe, ridurre le prestazioni.

Anche questa operazione, pero, incontra limiti insuperabilinella funzione stessa delle prestazioni previdenziali. Limiti, pero,che devono essere individuati in termini diversi a seconda che sitratti di prestazioni erogate per realizzare il diritto alla salute ov-vero di prestazioni pensionistiche.

33. I limiti alle riduzioni della tutela pensionistica.

Per quanto riguarda i trattamenti pensionistici e da tenerpresente che essi, a differenza per quanto avviene per le presta-zioni sanitarie, consistono nell’erogazione di prestazioni economi-che e, cioe, nell’erogazione di una somma di denaro ond’e che, peresse, la graduazione e la regola.

Il loro importo, infatti, varia, e puo variare, in funzione ditanti elementi e, comunque, per effetto delle scelte politiche chepresiedono alla individuazione dei criteri adottati dal legislatoreper garantire ‘‘mezzi adeguati alle esigenze di vita’’ (art. 38, se-condo comma, Cost.).

Senonche, la Corte costituzionale ha gia prospettato l’esi-stenza, come limite alla discrezionalita del legislatore, di una no-zione minimale di tutela costituita dalla ‘‘garanzia irrinunciabiledelle esigenze minime di protezione della persona’’ (Corte costituzio-nale, sentenza n. 30 del 2004).

Ma v’e di piu. La Corte costituzionale quando ‘‘l’appresta-mento dei mezzi adeguati alle esigenze di vita’’ consiste ‘‘nella corre-sponsione di una somma di denaro’’ ha gia affermato un rimedio,all’incidenza della svalutazione monetaria costituisce mezzo ne-cessario per la realizzazione della garanzia costituzionale (CorteCost. sentenze n. 409 del 1995, n. 96 del 1991, n. 497 e n. 501 del1988).

Ne consegue che non sarebbe consentita, perche contrastantecon la garanzia prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost.,un’ulteriore riduzione dei trattamenti pensionistici, comunque de-

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terminata, in quanto finirebbe per non garantire piu i ‘‘mezzi ade-guati alle esigenze di vita’’.

Allo stesso modo non sarebbe consentita, perche irrazionale, equindi in contrasto anche con l’art. 3 Cost., un’ulteriore attenua-zione dell’effettivita della tutela pensionistica che venga realiz-zata con l’ulteriore elevamento dell’eta pensionabile indipenden-temente dall’accertato venir meno di una effettiva capacita di la-voro.

E vero che, a volte, la Corte costituzionale ha escluso l’illegit-timita costituzionale di leggi che riducevano l’importo dei tratta-menti pensionistici o ne impedivano l’adeguamento alle variazionidel costo della vita (vedi, ad esempio: Corte costituzionale, ordi-nanza n. 256 del 2001 e sentenza n. 316 del 2010).

A ben vedere, pero, quell’esclusione e stata motivata esclusi-vamente a ragione di cio che, nonostante le riduzioni, i tratta-menti goduti dai pensionati che erano parti del giudizio erano, co-munque, idonei, a ragione della consistenza dei loro importi, arealizzare una tutela adeguata.

34. Riduzioni della tutela e diritti delle generazioni future.

Questi, dunque, i limiti tecnici che incontrerebbe il legislatorenel caso in cui la situazione economica e finanziaria dovesse ri-chiedere l’emanazione di provvedimenti destinati a determinare,per il futuro, un’ulteriore riduzione di effettivita della tutela pre-videnziale pubblica e, soprattutto, di quella che si realizza me-diante l’erogazione di prestazioni pensionistiche.

Senonche, le considerazioni svolte fin dall’inizio, rendono av-vertiti di come, a ben vedere, quei provvedimenti incontrerebberoun limite, assai piu intenso e, al tempo stesso, insuperabile, per ef-fetto della necessaria considerazione delle generazioni future.

E cio non solo perche, come e stato all’inizio accennato, anchela nostra Costituzione esprime l’esigenza di tutelare l’umanita nelsuccedersi nel tempo e delle generazioni.

Le ragioni della cogenza di quei limiti derivano, infatti, anchedalla considerazione che i lavoratori di oggi, per i quali si fini-rebbe per apprestare una tutela previdenziale ancora piu atte-nuata, se non ridotta, sono quelli che hanno finanziato e conti-

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nuano a finanziare le pensioni in godimento e che non sarebberoridotte per effetto dei nuovi provvedimenti.

In altri termini, i lavoratori di oggi seppure continuano a fi-nanziare le pensioni in godimento il cui importo continua ad es-sere quello che era stato determinato secondo i criteri vigentiquando il sistema non era in crisi, non solo, per aver diritto allaloro pensione, dovrebbero maturare piu rigorosi requisiti, ma per-cepirebbero anche una pensione di importo assai piu ridotto e, co-munque, inferiore a quello che sarebbe stato se si fosse continuatoad adottare i criteri di calcolo di una volta.

E questa la ragione fondamentale per cui, a mio avviso, sa-rebbe ingiusto ed irrazionale che, nel caso in cui, per la conserva-zione del sistema, si dovessero rendere eventuali provvedimentiche comportino ulteriori riduzioni della tutela pensionistica pub-blica, questi si limitino ad operare sulle pensioni non ancora liqui-date lasciando esenti i trattamenti in atto.

35. La necessaria tutela dei diritti delle generazioni future.

Contro questa prospettazione, la prima obiezione che puo es-sere mossa e che non si possono ledere diritti acquisiti come sono,appunto, i diritti di quanti gia hanno visto liquidate le loro pen-sioni.

Senonche, questa obiezione non ha senso se non altro perche,i diritti acquisiti altro non sono che diritti soggettivi perfetti enon ha senso perpetuare il tabu di una loro sacralita quando de-vono essere soddisfatti facendo ricorso alla solidarieta pubblica e,cioe, al finanziamento dello Stato e mancano le risorse.

Del resto, proprio in materia di diritti a prestazioni pensioni-stiche, la Corte Costituzionale ha gia avuto modo di affermare che‘‘non e interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali mo-difichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anchese il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti’’ quandoquelle disposizioni siano giustificate dalla ‘‘necessita economico-so-ciale di evitare in un momento di grave crisi economica notevoli di-sparita fra le diverse categorie di pensionati’’ (Corte costituzionale,sentenza n. 349 del 1985) e, quindi, a maggior ragione se le dispa-rita sono ravvisabili tra chi gode la pensione e chi, con il suo la-voro, l’ha finanziata.

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Del resto, la Corte costituzionale ha anche affermato che,quando, come sarebbe nel nostro caso, e ravvisabile un’‘‘inderoga-bile esigenza’’, e consentito disporre ‘‘una modificazione legislativache ... peggiorasse in misura notevole e in maniera definitiva untrattamento pensionistico in precedenza spettante’’ (Corte costituzio-nale, sentenza n. 822 del 1988) e, anzi, che si ‘‘possa addiritturaeliminare retroattivamente una prestazione gia conseguita’’ (Cortecostituzionale, sentenza n. 211 del 1997).

Peraltro, trattasi di affermazioni tutt’altro che isolate perchesi inscrivono in un piu generale orientamento della giurisprudenzacostituzionale in materie in cui sono in giuoco diritti riconducibilia tutti i rapporti di durata. Orientamento che consente una sfa-vorevole modificazione anche retroattiva di diritti soggettivi per-fetti, alla sola condizione che trovi adeguata giustificazione sulpiano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altrivalori ed interessi costituzionalmente protetti (Corte costituzio-nale, sentenze n. 525 del 2000; n. 374 del 2002; n. 409 del 2005;n. 11 del 2007; n. 74 del 2008; n. 162 del 2008; n. 236 del 2009).

Anzi, la Corte costituzionale, anche di recente, ha superato isospetti di legittimita prospettati con riguardo a una disposizionedella legge che aveva abolito retroattivamente diritti gia maturatiin quanto giustificata dalla esigenza ‘‘di tutelare principi, diritti ebeni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi im-perativi di interesse generale’’ (Corte costituzionale, sentenza n. 78del 2012).

36. Solidarieta e reciprocita.

Orbene, nella prospettiva segnata da questo orientamentopiuttosto che salvaguardare il sistema riducendo ulteriormente latutela pensionistica di quanti stanno ancora lavorando, occorre-rebbe, se mai ce ne fosse bisogno, ridurre i trattamenti pensioni-stici in corso di erogazione, almeno quando sono di importo ele-vato.

Se sorgesse l’esigenza di ridurre ulteriormente l’effettivitadella tutela pensionistica, occorrerebbe, cioe, ridurre i trattamentiin atto il cui importo non abbia la funzione di garantire mezzo ne-cessari alle esigenze di vita, ma soltanto quella di soddisfare l’in-

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teresse privato a mantenere il livello di vita raggiunto durante losvolgimento dell’attivita lavorativa.

In altri termini, le riduzioni che dovessero rendersi necessariesi dovrebbero applicare ai trattamenti pensionistici gia in atto enon gia, come sempre avviene, a quelli che spetteranno in futuroa chi oggi sta lavorando e, con il suo lavoro, finanzia le pensioniin godimento.

In tal modo, si eviterebbero anche violazioni del principio co-stituzionale della uguaglianza, posto che si garantirebbe, nel fu-turo, a chi oggi lavora il godimento di una tutela previdenzialenon eccessivamente sproporzionata rispetto a quella di cui godonogli attuali pensionati.

Ma v’e di piu. Se gli eventuali interventi che si rendessero ne-cessari per la salvaguardia del sistema pensionistico riducesserogli importi delle pensioni gia in atto anziche ridurre il regime dellepensioni future, la solidarieta generazionale acquisterebbe, se nonaltro, il valore della reciprocita.

Ed infatti, allo stesso modo in cui i lavoratori attuali finan-ziano, con il loro lavoro, le pensioni di quanto oramai non lavo-rano piu, questi ultimi, subendo una riduzione dei loro tratta-menti pensionistici, concorrerebbero a garantire che anche i lavo-ratori attuali, quando saranno pensionati, possano godere di unatutela previdenziale meno effettiva, ma non di tanto, di quella dicui loro godono oggi.

Nota bibliografica.

Non sono in grado di fornire l’ampia bibliografia che, come e tradizione, ar-ricchisce le relazioni dell’AIDLASS.

Cio si spiega con cio che, per sviluppare il tema trattato, a differenza diquanto mi e accaduto tante volte, non ho avuto bisogno di consultare la dot-trina essendo state sufficienti la riconsiderazione di qualche orientamento deigiudici di legittimita e di quelli costituzionali e quella di alcuni testi legislativi.

L’idea di fondo, infatti, era stata suggerita dalle motivazioni delle sentenzedella Corte costituzionale che, dalla fine del secolo scorso, avendo superato i so-spetti di legittimita costituzionale delle leggi, per sanare il deficit finanziariodelle gestioni previdenziali, avevano ridotto l’effettivita delle tutela previden-ziale pubblica argomentando anche con la preoccupazione di garantire alle gene-razioni future una tutela adeguata. Motivazioni che avevo utilizzato per argo-mentare alcuni passaggi del mio saggio ‘‘Aspettative e diritti nella previdenza pri-

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vata e nella previdenza pubblica’’, onde ad esso rinvio per la bibliografia (Arg.Dir. Lav., 1998, pag. 311 e segg.).

Peraltro, non mi sembra che quelle argomentazioni abbiano suscitato un di-battito.

Ho poi ripreso e sviluppato quelle argomentazioni nelle relazione tenuta il24 maggio 2006 al Convengo organizzato dall’Accademia dei Lincei e dalla Cortecostituzionale per celebrare il cinquantenario di quest’ultima. La relazione, in-fatti, aveva un titolo indicativo ‘‘Conflitto industriale e conflitto generazionale(cinquant’anni di giurisprudenza della Corte costituzionale’’ (e venne pubblicatasu Arg. Dir. Lav., 2006, pag. 1032 e segg.). A quella relazione, per quanto mi ri-sulta, ha fatto riscontro un’analoga intuizione di Michel Martone che, nellostesso torno di tempo, aveva affrontato, in termini piu generali, la stessa proble-matica e che aveva coniato la formula ‘‘egoismo generazionale’’ (M. MARTONE,‘‘Governo dell’economia e azione sindacale’’, Padova, 2006, pag. 307).

Qualche lettura e stata, invece, necessaria per avvicinarmi alla problema-tica, per me del tutto nuova, suscitata, in termini generali e quindi ben oltre l’o-rizzonte dei regimi pensionistici, dalla preoccupazione di non ledere i diritti dellegenerazioni future in tema di ambiente e risorse naturali.

Al riguardo, pero, mi e stato sufficiente, anche a ragione della completezzae della ricchezza dei contributi, i risultati della ricerca svolta, nell’ambito di unprogetto PIN, dalle Universita di Napoli ‘‘Parthenope’’ e ‘‘Federico II’’, Parma eLecce. Indagine pubblicata, a cura di Raffaele Bifulco e Antonio D’Aloia, con iltitolo Un diritto per il futuro, teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della re-sponsabilita intergenerazionale, Napoli, 2008.

Infine, per i brevi cenni al terzo settore, e stata essenziale la lettura deisaggi che mi sono stati offerti in lettura dal prof. Stefano Zamagni dell’Univer-sita di Bologna e quella delle relazioni agli incontri che gli studiosi dell’economiasociale tengono a Bertinoro, come per tanto tempo hanno fatto anche alcuni dinoi, e che, poi, sono state pubblicate con il titolo Il terzo settore del nuovo Welfare.Dieci anni di Giornate di Bertinoro per l’economia civile, Reggio Emilia, 2010.

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ALICE NON ABITA PIU QUIALICE NON ABITA PIU QUI

(A PROPOSITO E A SPROPOSITO(A PROPOSITO E A SPROPOSITO

DEL ‘‘NOSTRO’’ DIRITTO SINDACALE)DEL ‘‘NOSTRO’’ DIRITTO SINDACALE) (*)

di FRANCO CARINCI

SOMMARIO: 1. Per spiegare un titolo. — 2. Costituzione e legge elettorale proporzionale:

un Parlamento forte e un Governo debole. — 3. C.d. seconda Repubblica e legge

elettorale maggioritaria, in vista di un’alternanza all’insegna di un Governo forte

scelto direttamente dai cittadini... ma interpretazione riduttiva da parte dell’abi-

tante del Colle con il consolidarsi di un presidenzialismo ‘‘di fatto’’. — 4. La per-

dita della sovranita monetaria e finanziaria nazionale a favore di una UE ad ege-

monia tedesca. — 5. La ricaduta sulla concertazione: sua progressiva marginalizza-

zione fino ad esaurirsi in una pressione difensiva nei confronti della politica della

lesina praticata a livello governativo con contestuale presa a carico diretta delle

parti sociali della rivisitazione del sistema contrattuale. — 6. La consultazione re-

ferendaria del 1995: la ‘‘morte giuridica’’ della politica promozionale dello Statuto

per via della cancellazione dell’art. 19 lett. a). — 7. (Segue) La giurisprudenza co-

stituzionale a difesa dell’art. 19 st. lav. lett. b) cosı come sopravvissuta. — 8. La

sostituzione nella legislazione di delega alla contrattazione collettiva della nozione

di ‘‘maggiormente rappresentativa’’ con quella di ‘‘comparativamente piu rappre-

sentativa’’. — 9. La vicenda tragi-comica della incentivazione delle voci retributive

collegate alla produttivita. — 10. La disciplina interconfederale della titolarita

della legittimazione negoziale, di cui all’Accordo del 28 giugno 2011 e al Protocollo

d’intesa del 31 maggio 2013: le oo.ss. ‘‘rappresentative’’ e le rsu. — 11. L’‘‘ac-

cordo’’... anzi il ‘‘disaccordo’’ fra l’ordinamento intersindacale e l’ordinamento sta-

tale.

(*) Questo scritto costituisce la traduzione aggiornata dell’intervento, tenuto alle

Giornate di Studio Aidlass, con il titolo « Dal sistema costituzionale al sistema sindacale:

una crisi contagiosa ». Nel redigerlo ho tenuto conto di due miei scritti precedenti « Adelante

Pedro, con juicio: dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011 al Protocollo d’intesa 31

maggio 2013 (passando per la riformulazione ‘‘costituzionale’’ dell’art. 19, lett. b) St.) » e « Il

buio oltre la siepe: Corte cost. 23 luglio 2013, n. 231 », peraltro non riprendendoli mai alla

lettera e sempre e solo nella misura in cui si rivelassero utili rispetto all’economia del testo.

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1. Per spiegare un titolo.

Secondo uno stile che mi e ormai abituale ho scelto come ti-tolo quello di un famoso film del 1974, dove la protagonista AliceHyatt fugge di luogo in luogo col figlio Tommy, alla ricerca di unposto in cui stare tranquilla: il titolo, se azzeccato, e spesso l’unicacosa che resta impigliata nella memoria.

Alice e il ‘‘nostro’’ diritto sindacale, dove con l’aggettivo pos-sessivo voglio indicare un diritto collocato non solo nello spazio,ma anche nel tempo: quel diritto italiano che la generazione cui,per la cruda legge dell’anagrafe, appartengo ha visto nascere nelvuoto creato dall’astensionismo legislativo e divenire adulto conlo Statuto dei lavoratori. E dove con ‘‘non abita piu qui’’ intendofar riferimento al classico manuale — cui pure io, con altri avven-turosi colleghi, ho messo mano a partire dall’ormai remoto 1980— che s’illude di poter riassorbire il flusso continuo di macro emicro traumi in un impianto sostanzialmente immodificato, cosıda restituire al giovane neofita destinato a studiarlo l’immaginedi un sistema ancora sufficientemente compatto e coerente.

Il titolo qui dato non corrisponde a quello offerto dal pro-gramma delle Giornata di studio Aidlass, « Dal sistema costituzio-nale al sistema sindacale: una crisi contagiosa », troppo serioso peresercitare un minimo richiamo al di fuori di un appuntamento apartecipazione coatta come le Giornate. Ma proprio quel titoloscelto allora anticipava cio che ritengo essere il vero perche delprogressivo sfarinamento del nostro diritto sindacale ‘‘classico’’,cioe il deficit di governance manifestatosi ed aggravatosi a livelloistituzionale nel corso dell’ultimo venticinquennio.

2. Costituzione e legge elettorale proporzionale: un Parlamento fortee un Governo debole.

Solo con qualche passo indietro e possibile far rientrare nelcampo dell’obbiettivo l’intero scenario, sı da offrirne uno scattocompleto, se pur a costo di perderne piu di un dettaglio. Fino al-l’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, il nostro Testo costi-tuzionale aveva trovato un progressivo completamento del mo-dello organizzativo di Repubblica delineato nella sua SecondaParte: parlamentarista bicamerale, tale da garantire la partecipa-

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zione condizionante di forze politiche gia in rotta di collisione,con a fare da guardiano un Presidente della Repubblica confinatonel ruolo di super partes.

Del tutto coerente rispetto ad un siffatto modello di parla-mento forte e di governo debole sembrava essere una legge eletto-rale proporzionale, tanto che, predisposta per la consultazione po-litica del 1948, era destinata a sopravvivere per piu di un quaran-tennio, finendo per essere considerata quasi parte non formale masostanziale della carta fondamentale, sı da condizionarne la stessainterpretazione.

Un tale modello consentira la convivenza armata di una mag-gioranza e di una opposizione condannate a perpetuarsi nellestesse parti, senza alternanza alcuna. Ma proprio tale precaria si-tuazione armistiziale impedira la realizzazione di quel sistema dipluralismo istituzionalizzato prefigurato dagli artt. 39, 40, 46, 99Cost., col tramandare un vuoto destinato ad essere riempito dallosviluppo autoctono di un fenomeno sindacale, lasciato prima a sestesso da un astensionismo legislativo solo interrotto dal tempora-neo recepimento erga omnes del trattamento minimo consolidatoa livello negoziale; e favorito, poi, dall’interventismo attivato conlo Statuto dei lavoratori.

Il salto operato con lo Statuto sara netto, dal sistema di rego-lazione senza promozione di cui al Testo costituzionale ad uno dipromozione senza regolazione di cui al Titolo III St.; ma debita-mente accompagnato dal necessario nulla osta da parte di un Giu-dice delle leggi ben consapevole del ruolo di mediatore responsa-bile che il parlamento intendeva assegnare al sindacalismo inter-confederale in un tempo di conflittualita permanente.

C. Cost. n. 54/1974 offrira dell’art. 39, c. 1, Cost. una letturaprima ‘‘scorporata’’, per la quale doveva essere visto come sepa-rato e distinto rispetto al c. 2 ss.; poi ‘‘a scalare’’, per cui andavaguardato come comprensivo sia di un regime garantista minimo,esteso a tutti, sia di un trattamento promozionale ulteriore, riser-vato di fatto alle tre grandi Confederazioni. A sua volta, C. Cost.n. 290/1974 presentera dell’art. 40 Cost. una interpretazione‘‘estensiva’’, a’ sensi della quale era elevato a diritto lo sciopero diimposizione politico-economica, sı da legittimare lo stesso sindaca-lismo confederale come protagonista della concertazione col go-verno.

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3. C.d. seconda Repubblica e legge elettorale maggioritaria, in vistadi un’alternanza all’insegna di un Governo forte scelto diretta-mente dai cittadini... ma interpretazione riduttiva da parte del-l’abitante del Colle con il consolidarsi di un presidenzialismo‘‘di fatto’’.

Il modello organizzativo di Repubblica definito nella SecondaParte della Costituzione aveva gia rivelato come suo difetto prin-cipale quello che agli occhi dei padri costituenti ne rappresentavail costo inevitabile: il sacrificio della governabilita derivante daun governo debole a favore della reciproca garanzia assicurata daun parlamento forte. Di tale difetto si era mostrato avvertito lostesso parlamento, col varare la Commissione Bozzi, che lavoroper l’intero biennio 1983-85, con l’occhio concentrato proprio sul-l’esecutivo, da rafforzare tramite l’introduzione del Premierato;ma non senza guardare anche altrove, tanto da suggerire una mo-difica dell’art. 39 Cost., cosı da rinviare la procedura di estensionedell’efficacia della contrattazione collettiva alla legislazione ordi-naria.

Non se ne fece nulla di nulla, ma il crollo del muro di Berlinonel 1989 costituı il segno emblematico di un profondo mutamentodel clima internazionale, non senza un impatto determinante suquello interno, a cominciare dal cambio di nome del Pci in Pdsnel 1991. Cio fu solo l’inizio di quel rimescolamento di carte avve-nuto nel sistema dei partiti all’inizio del decennio ’90, per un pro-cesso di esaurimento del loro patrimonio originario, accelerato,fino al collasso per Dc e Psi, dalla incursione giudiziaria passataalla storia come Tangentopoli.

Il lascito istituzionale consegnato al ventennio successivo fucostituito da un primo significativo esperimento dei c.d. Governitecnici, formula di per se espressiva della presenza di una maggio-ranza anomala, tenuta insieme dalla necessita di salvare al tempostesso il Paese e ... la propria poltrona; e da un paio di c.d. ri-forme, passate a furore di popolo, ma senza piena consapevolezzadel loro impatto sull’assetto costituzionale complessivo.

Dopo il segnale di stanchezza emerso col referendum del 1991nei confronti di quel meccanismo delle preferenze tornate oggi dimoda, il sistema elettorale proporzionale del Senato verra trasfor-mato in maggioritario dal referendum del 1993, aprendo la via allell. 4 agosto 1993, nn. 276 e 277, con l’introduzione del c.d. ‘‘Mat-

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tarellum’’. Di lı a qualche mese, un Parlamento frastornato pas-sera la l. c. 29 ottobre 1993, n. 3, destinata ad eliminare la previaautorizzazione della Camera interessata per sottoporre un suomembro a procedimento penale o per arrestarlo anche in esecu-zione di una sentenza irrevocabile di condanna.

La c.d. seconda Repubblica nasce con la legge maggioritaria,che coltiva l’esplicita finalita di assicurare una fisiologica alter-nanza fra destra e sinistra, sı che la maggioranza uscita dalle urnesia espressione diretta di una volonta popolare non modificabilein corso d’opera e sia dotata di una effettiva capacita di governo.Solo che tale legge verra presto vista come una discontinuita darecuperare e ammortizzare all’interno di quella interpretazionedella Carta consolidatasi in costanza della legge proporzionale,cioe di una preferenza per la convergenza fra le grandi forze au-trici del ‘‘compromesso costituzionale’’, cui lasciare liberta di ma-novra nel dar vita a maggioranze licenziate non dalle urne madalle dinamiche parlamentari; peraltro, senza tener conto che perla stessa involuzione o addirittura fisica sparizione di quelle forze,con una radicalizzazione della lotta politica spinta fino alla nega-zione del reciproco riconoscimento, tale liberta di manovra sa-rebbe stata progressivamente ridotta, sı da aprire la via ad unasupplenza impropria dell’inquilino del Colle.

E sempre questa c.d. seconda Repubblica nasce con una com-promissione di quella equilibrata formula di convivenza fra Parla-mento e magistratura, tradotta dal prudente padre costituentenell’art. 68, per assicurare che la tanto conclamata, quanto abu-sata, teoria della divisione dei poteri non degenerasse in un tre-spass a senso unico da parte della magistratura, trasformata pertentazione propria o per sollecitazione altrui in protagonista inprima persona della battaglia politica.

L’effetto destabilizzante dell’introduzione della legge maggio-ritaria e della soppressione dell’immunita parlamentare si riveleraappieno all’indomani dell’imprevista vittoria del centro-destraalle elezioni politiche del 1994, con a regista quell’outsider sottova-lutato fino al limite del dileggio, ma destinato a segnare nel benee nel male tutto il ventennio successivo, dal nome di Silvio Berlu-sconi.

Il Presidente della Repubblica in carica, Oscar Luigi Scalfaro,boicottera la legge maggioritaria sino a svuotarla completamente,col farsi esplicito promotore di una maggioranza numerica alter-

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nativa rispetto a quella politica espressa da una chiara ed inequi-vocabile volonta popolare, utilizzando all’uopo il potere negativodi non sciogliere il parlamento. Dara cosı avvio ad una trasforma-zione strisciante di una costituzione parlamentare in una presi-denziale occulta, affetta dalla plateale patologia di un Presidenteeletto da una maggioranza del parlamento e totalmente irrespon-sabile a fronte dello stesso parlamento; nonche di un corpo eletto-rale espropriato di qualsiasi voce in proposito.

Il che trovera, poi, piena conferma nell’attivismo di GiorgioNapolitano, nel dar vita a ‘‘Governi del Presidente’’, che arriverafino a precostituire il futuro destinatario dell’incarico di formareun governo, nominando Mario Monti senatore a vita e predeter-minando intorno a questo presunto salvatore della Patria un con-senso parlamentare allestito alla buona. E, una volta rieletto con-trovoglia, per uscire da uno stallo provocato proprio dal partitobeneficiario del tanto deprecato ‘‘Porcellum’’, il Pd ci riproveracon Enrico Letta, altro ‘‘salvatore della patria’’, costretto a distri-carsi giorno dietro giorno col marasma interno al suo stesso Pdancor prima che con il conflitto acerrimo fra Pd e Pdl.

A sua volta, all’insegna di una divisione dei poteri a sensounico, l’Associazione nazionale magistrati si rivelera iperattiva nelbloccare qualsiasi riforma legislativa della giustizia, a cominciareda quella sulla responsabilita dei giudici, richiesta a gran voce daun’apposita consultazione referendaria nonche sollecitata dallastessa UE, che ha di recente aperto al riguardo una procedura diinfrazione; ed a finire con quella separazione fra magistratura in-quirente e giudicante intrinseca alla stessa nozione di Stato di di-ritto.

E qualche Procura si fara pubblicita con inchieste ‘‘esem-plari’’ condotte fino ad entrare in piena collisione col potere legi-slativo e con lo stesso Presidente della Repubblica, rassegnandosisolo a fatica al chiaro e netto decisum del Giudice delle leggi.

4. La perdita della sovranita monetaria e finanziaria nazionale afavore di una UE ad egemonia tedesca.

Il decennio ’90 trascorrera con un duplice tentativo di met-tere mano alla Costituzione, che, pero, sara limitato solo alla Se-conda Parte, piu per la paura che anche la Parte Prima potesse

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essere rimessa in discussione che per la convinzione che non meri-tasse di essere aggiornata. Ci fu la Commissione De Mita-Iotti,1992-1994, che torno a puntare sul Premierato; poi la Commis-sione D’Alema, 1997-1998, che provo a varare il semi-presidenzia-lismo. Ma l’unica riforma ‘‘organica’’ a vedere la luce a strettis-sima maggioranza e ad entrare in vigore sara quella della ParteSeconda, Titolo V, con l. c. n. 3/2001, costretta a forza dentro ilvecchio corpo preesistente, senza farsi carico del necessario rac-cordo, quale dato dal superamento del bicameralismo perfetto apro di un Senato federale.

Il decennio ’90 vedra qualcosa di piu di un progressivo svuo-tamento di quel che il passaggio alla seconda Repubblica avrebbevoluto significare, con a suo contro-effetto un esecutivo non piuforte, ma piu debole, ostaggio di un Presidente della Repubblicaesondato dal suo ruolo costituzionale. Vedra l’esproprio di qual-siasi significativo margine di manovra a livello nazionale, con iltrasferimento di ogni potere effettivo formalmente a Bruxelles,ma sostanzialmente al dominus economico dell’intero continenteeuropeo, la Germania, con la Francia a fare al piu il controcanto.

Il 1o novembre 1993 entra in vigore il Trattato dell’UnioneEuropea, con i c.d. criteri di convergenza in vista della monetaunica, subito recepito automaticamente con un ruolo prioritariodentro il nostro testo costituzionale. Diversamente da quanto ac-caduto oltre Alpi, a cominciare dal Paese dei Nibelunghi, dove sie ritenuto di adattare il testo fondamentale, conservando peraltroun potere di controllo circa il quantum di diritto comunitario as-sorbibile senza tradire quel testo, qui da noi il corso seguito estato di supino adeguamento.

Succube di quel falso slancio europeista, caratteristico di unPaese illuso di scaricare su una Unione ‘‘solidarista’’ ogni sua ma-gagna, la Corte costituzionale ha fatto propria una interpreta-zione sempre piu rinunciataria dell’art. 11 Cost., scritto a tutt’al-tro scopo e con tutt’altro limite, per far entrare d’emblee il dirittocomunitario, senza ritener necessario alcun aggiornamento del te-sto fondamentale confortato dal consenso popolare. Certo essa hacontinuato a difendere una concezione dualista per cui l’ordina-mento comunitario si sovrappone ma non si sostituisce all’ordina-mento interno, come, invece, sostenuto dalla Corte di GiustiziaEuropea; ma ha riconosciuto come unico limite invalicabile posto

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a difesa dell’ordinamento interno quello dei diritti inviolabili dellapersona che nessuno mettera mai in discussione a Bruxelles.

Una volta privata, con l’instaurazione dell’Euro, qualsiasipossibilita di manovra monetaria, rimessa in toto alla gestionedella BCE, la stretta sulla politica finanziaria ed economica in-terna dei Paesi ad elevato debito e deficit si e fatta asfissiante,fino a tradursi nel ‘‘Trattato di stabilita, sul coordinamento esulla governance dell’Unione economica e monetaria’’, un accordointergovernativo sottoscritto nel marzo 2012 da 25 Paesi dellaUE. Vi si prescrive la costituzione di una procedura ex ante insede europea con ad oggetto i bilanci e i patti di stabilita dei sin-goli Paesi, sı che per adeguarvisi l’Italia ha modificato la sua pre-cedente disciplina in materia; e vi si prevede l’adozione di unnuovo patto, il c.d. fiscal compact, per obbligare gli Stati a perse-guire il pareggio nei loro bilanci in forza di articoli appositamenteintrodotti nei rispettivi testi costituzionali, sı che per conformar-visi l’Italia ha integrato l’art. 81 Cost. nel 2012.

5. La ricaduta sulla concertazione: sua progressiva marginalizza-zione fino ad esaurirsi in una pressione difensiva nei confrontidella politica della lesina praticata a livello governativo con con-testuale presa a carico diretta delle parti sociali della rivisita-zione del sistema contrattuale.

Questa duplice involuzione della scena istituzionale non po-teva che avere una ricaduta su quella concertazione teorizzatafino a farne una caratteristica peculiare della nostra Costituzionemateriale; ma senza trovare conferma nella ricostruzione storicadell’ultimo trentennio, che ce la ritorna sprovvista di alcuna pro-cedura consolidata, caratterizzata da un’andatura carsica, in-fluenzata dalla situazione politica, condizionata dall’emergenzaoccupazionale e sociale. Come tale, essa restava e resta ben diffi-cilmente riconducibile alla modellistica teorica importata dall’e-stero, come quella neo-corporativa, o elaborata in loco, come loscambio politico, pur presentando volta a volta alcuni tratti enfa-tizzati dalla dottrina politologica.

D’altronde la concertazione era decollata con la Federazioneunitaria Cgil, Cisl, Uil, tramite l’accordo interconfederale del 26gennaio 1977, che nel clima del compromesso storico aveva tra-

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dotto la linea dell’Eur, poi recepita dalla legislazione sul costo dellavoro del 1977 (ll. nn. 91 e 675); ed era proseguita col ProtocolloScotti del 22 gennaio 1983. Subito dopo, pero, provocando lastessa dissoluzione della Federazione unitaria, si era arenata sulloscoglio del mancato accordo di San Valentino del 14 febbraio1984, con a suo seguito il continuum traumatico costituito dal re-cepimento di quel testo da parte di un decreto legge, dal referen-dum confermativo, dall’imprimatur di C. Cost. n. 34/1985. Ed eratornata in auge solo di lı a qualche anno — ai tempi dei Governitecnici che traghetteranno il Paese in un momento di forte stressistituzionale e finanziario dalla prima alla seconda Repubblica —prima col Protocollo Amato del 31 luglio 1992, poi, col ProtocolloCiampi del 23 luglio 1993, destinato a passare alla storia come lacostituzione delle nostre relazioni collettive.

Gia questi Protocolli risentivano pesantemente dei condizio-namenti esterni provenienti dai parametri necessari per conti-nuare ad essere accettati come coprotagonisti in un club europeoproiettato verso la moneta unica; e gli accordi triangolari succes-sivi ne risentiranno ancor piu, costretti bon gre mal gre a scontaregli strettissimi margini di manovra lasciati ad un Governo tenutosotto controllo dagli gnomi di Bruxelles, per il suo risultare peri-colosamente iperteso riguardo al debito e cronicamente borderlinerispetto al deficit.

Se questo e il filo rosso della concertazione condotta nella se-conda Repubblica, c’e anche dell’altro, a cominciare dalla piu cheprevedibile ricaduta di un’alternanza di Governo, continua se nonaddirittura frenetica, sulla stessa unita sindacale. La netta echiara pregiudiziale negativa per il centrodestra della Cgil, benlungi dall’essere spiegata e giustificata tutta dalla diversita dellapolitica seguita, trovera a sua contropartita una interessata di-sponibilita della Cisl e della Uil a dialogare anche con Silvio Ber-lusconi.

Certo e che il primo Governo Berlusconi sara costretto a pren-dere atto col verbale d’intesa del 2 dicembre 1994 del fallimentodel tentativo di metter mano alle pensioni, che, poi, riuscira alGoverno Dini, un precursore dell’attuale esecutivo delle ‘‘largheintese’’, incardinato di peso da Oscar Luigi Scalfaro; mentre il Go-verno Prodi/D’Alema/Amato portera in porto l’Accordo per il la-voro 24 dicembre 1996 ed il Patto sociale 22 dicembre 1998.

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E, a sua volta, il secondo Governo Berlusconi dovra acconten-tarsi del Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, firmato solo da Cisled Uil, soprattutto perche osava introdurre un ritocco limitato esperimentale di quell’art. 18 St. che, un decennio dopo, imperanteil ‘‘tecnico’’ Mario Monti, insediato a forza da Giorgio Napolitano,verra pesantemente riscritto nel silenzio assordante della stessaCgil; mentre il secondo Governo Prodi annoverera a suo favore ilProtocollo welfare del 23 luglio 2007.

Se si riconsidera come punto piu alto della concertazione pro-prio il Protocollo del luglio ’93, si deve prendere atto che il mo-dello, ivi consacrato fino al punto di essere assunto a tipo ideale,e rimasto solo un pallido ricordo, per lo stesso venire meno delsuo elemento di tenuta complessiva: una politica dei redditi at-tuata attraverso la previsione di un’inflazione programmata da ri-spettare da parte di una contrattazione collettiva fortemente cen-tralizzata, cui avrebbe dovuto fare da contropartita una decisapolitica occupazionale.

La procedimentalizzazione della concertazione, una volta por-tata all’estremo dal Patto sociale del 22 dicembre 1998, con lanon troppo sottesa ambizione di trasformarla in prassi costituzio-nale, si rivelera subito come una mera ricerca d’immagine: ba-rocca fino ad una gestione impraticabile nella previsione della du-plice variante, ‘‘forte’’ e ‘‘debole’’; e aperta fino ad una ammuc-chiata irresponsabile nell’estensione della partecipazione lippis ettonsoribus. Di contro la formalizzazione della contrattazione arti-colata si presentera sı come una sostanziale conferma di unastruttura gia consolidata e destinata a durare nel tempo, costruitasu un doppio livello e coordinata con raccordi oggettivi (clausoledi rinvio) e oggettivi (co-legittimazione negoziale delle organizza-zioni sindacali territoriali e delle rappresentanze sindacali unitariecol terzo riservato); ma non per questo sottratta all’usura delcambiamento nel passaggio da un secolo all’altro.

Tenendo un occhio puntato su quell’accordo del luglio ’93, edoveroso prendere atto che, a prescindere dalla cancellazionedalla memoria della surreale procedimentalizzazione della concer-tazione poi completata nel ’98, la stessa ripresa in forma ristretta,irregolare, episodica della trattativa triangolare Governo/Confede-razioni si sia andata esaurendo per lo stesso venir meno della ma-teria disponibile e negoziabile. Non se ne puo trovare confermamigliore del Documento Confindustria, Cgil, Cisl, Uil, ‘‘Una legge

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di stabilita per l’occupazione e la crescita’’, sottoscritto a Genova il2 settembre 2013, una qual sorta di patetico memento ad un Go-verno costretto a far tornare i conti fra le opposte pretese delleforze politiche componenti la sua maggioranza, sotto l’occhiutasorveglianza di Bruxelles.

Mentre, d’altro canto, le stesse Confederazioni hanno ritenutodi rimetter mano senza bisogno di alcun terzo incomodo ad un si-stema contrattuale divenuto obsoleto, ritrovando un discorso co-mune negli accordi interconfederali del 28 giugno 2011 e del 31maggio 2013; tant’e che non vi si rinviene neppure alcun appelloper un intervento legislativo destinato alla « generalizzazione del-l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che sianoespressione della maggioranza dei lavoratori » come invece nel-l’Accordo del luglio 1993.

Di fatto le Confederazioni sindacali dei lavoratori sono statecostrette sulla difensiva da una crisi ormai diventata cronica, conla caduta inarrestabile di tutti gli indicatori macro-economici, dalPil al tasso di occupazione, sı da costringere il Governo a stringerei cordoni della borsa, con riforme come quella pensionistica equella della cassa integrazione. Entrambe ‘‘targate’’ Elsa For-nero, cui, con tutte le possibili riserve critiche, va riconosciuto diaver avuto una dote rarissima per la classe politica nostrana,quella del coraggio di prendere e portare in porto decisioni impo-polari per le stesse drammatiche ricadute.

Basti qui menzionare le questioni, a tutt’oggi ancora aperte,conosciute anche dal largo pubblico. La piu famosa e quella degliex-dipendenti ‘‘esodati’’, cioe di quelli che, avendo cessato dal la-voro prima del 31 dicembre 2011 senza maturare i requisiti pen-sionistici entro quel fatidico giorno, sono stati lasciati senza la-voro e senza pensione.

Ma la piu rilevante, perche destinata a perpetuarsi, e quelladegli ex-dipendenti ‘‘privi di ammortizzatori sociali’’, cioe diquelli che, non potendo godere dell’integrazione salariale previstadalla normativa vigente in materia, perche esclusi fin dall’inizio oestromessi in seguito per aver esaurito i previsti tempi massimi,sono rimasti senza alcuna prospettiva occupazionale e senza al-cuna indennita.

La pressione esercitata dalle Confederazioni e stata nel casodegli ex-dipendenti ‘‘esodati’’ a pro di una legislazione di ‘‘recu-pero’’; e nel caso dei ex-dipendenti ‘‘privi di ammortizzatori so-

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ciali’’ a favore di una decretazione ministeriale ‘‘derogatoria’’ ri-spetto ai campi ed ai tempi di applicazione dell’integrazione sala-riale, autorizzata dalla legge fin dal 2001, con in vista la crisi oc-cupazionale che avrebbe dovuto essere prodotta dalla sindromedella ‘‘mucca pazza’’, poi di recente delegata alle regioni, divenuteco-finanziatrici.

Solo che la spesa si e rivelata sempre piu elevata col cresceredei numeri, sı da rivelarsi oltre il limite della sostenibilita per unGoverno costretto a fare i conti con il Fiscal Compact. Il che e giadi per se produttivo di un grave disagio sociale, che peraltro costi-tuisce solo la punta di un iceberg, dato che la concorrente azionedell’anticipazione dell’eta pensionabile e della de-industrializza-zione e destinata ad incrementare la massa degli ultra-cinquanta-cinquenni privi di qualsiasi forma di reddito, retribuzione, pen-sione o integrazione salariale che dir si voglia.

6. La consultazione referendaria del 1995: la ‘‘morte giuridica’’della politica promozionale dello Statuto per via della cancella-zione dell’art. 19 lett. a).

A mezzo di quello stesso decennio ’90, C. Cost. n. 1/1994 davia libera alla consultazione referendaria sull’art. 19 st. lav. chenel 1995 avrebbe portato alla cancellazione della lett. a) ed all’am-putazione della lett. b), cosı da estenderla a ricomprendere anchela contrattazione aziendale. Col che veniva decretata la fine dellapolitica promozionale perseguita dal legislatore col Tit. III e costi-tuzionalizzata dallo stesso Giudice delle leggi in C. Cost. n. 54/1974 e n. 334/1988, cioe di assicurare la presenza delle grandi Con-federazioni nei luoghi di lavoro tramite la costituzione di proprierappresentanze sindacali, per permettere loro di contenere, razio-nalizzare, sintetizzare la intensa mobilitazione di base in vista ein funzione di finalita solidali.

Tale politica trovava la sua piena espressione nella lett. a), lacui chiusura selettiva a favore delle Confederazioni identificate difatto, se pur non di diritto, in Cgil, Cisl, Uil, veniva corretta nellalett. b), per offrire una qualche apertura alle organizzazioni sinda-cali autonome gia presenti in certe realta. Era questa lett. b) unalettera del tutto residuale, ambigua ed ipocrita fin dalla sua origi-naria formulazione: ambigua, perche parlava di sottoscrizione a

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contratti collettivi nazionali o provinciali, senza far capire se fossenecessaria una partecipazione alla trattativa o bastasse anche unamera e semplice adesione successiva; ipocrita, perche se fossestata necessaria una partecipazione alla trattativa questa sarebbedipesa dalla stessa tolleranza delle Federazioni aderenti alle tregrandi Confederazioni, ancor prima e piu che dalla disponibilitadella controparte datoriale, costituita da una associazione nazio-nale o provinciale.

La politica promozionale iscritta nella lett. a) aveva avutouna sua forza espansiva. Ne era stata influenzata la Corte costitu-zionale, quando con la sent. n. 290/1974 aveva riconosciuto comediritto coperto dall’art. 40 Cost. lo sciopero d’imposizione politico-economica, il c.d. sciopero per le riforme, in quanto finalizzato aquella uguaglianza sostanziale consacrata dall’art. 3, c. 2, Cost.,che solo le grandi Confederazioni avrebbero potuto perseguire. Ene era stato condizionato il legislatore, quando con la prima espe-rienza della c.d. contrattazione delegata funzionale a quella flessi-bilizzazione della disciplina del lavoro caratterizzante la legisla-zione dell’emergenza del decennio ’80, aveva riservato la delegaproprio alle associazioni sindacali individuate in base alla lett. a),cioe aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative(d.l. n. 726/1984, artt. 1, cc. 1 e 2, c. 1; l. n. 56/1987, art. 23, c. 1;l. n. 428/1990, art. 47; l. n. 223/1991, art. 4, c. 2).

7. (Segue) La giurisprudenza costituzionale a difesa dell’art. 19 st.lav. lett. b) cosı come sopravvissuta.

La stessa Corte costituzionale cerchera di far dimenticare diessere stata responsabile in prima persona della demolizione diquella politica promozionale da essa stessa costituzionalizzata,per avere dato semaforo verde ad una consultazione referendariatale da poter creare un vuoto anarchico (quesito massimale) o unresiduo incomprensibile ancor prima che irragionevole (quesitominimale). Ed eccola affannarsi a ridimensionare se non addirit-tura ad escludere la ricaduta negativa conseguente all’elimina-zione della lett. a), col sostenere esplicitamente che la nozione di‘‘maggior rappresentativita’’, cosı come definita dalla precedenteelaborazione, era sı sparita dallo Statuto, ma rimasta nell’ordina-mento, laddove esplicitamente richiamata dalla legge (C. Cost.

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n. 492/1995); e col dar per scontato implicitamente che chi avevatitolo a costituire rappresentanze sindacali aziendali in base allalett. a), lo conservava di fatto in forza della lett. b).

La sua principale preoccupazione sara quella di blindare lalett. b) dalla duplice accusa di permettere una rappresentativitaoctotroyee, quale sarebbe stata se considerata rimessa alla buonavolonta della controparte datoriale (C. Cost. n. 244/1996, che re-cupera e riadatta C. Cost. n. 30/1990); e di prefigurare una rap-presentativita ‘‘coatta’’, quale sarebbe risultata se giudicata sot-toposta alla condizione dall’accettazione di una disciplina collet-tiva non condivisa, secondo la secca e cruda alternativa firmare erestare o non firmare ed uscire dall’azienda.

Certo la Corte si rivelera consapevole della insufficienza dellasupplenza svolta, coll’invitare il legislatore ad intervenire. Ma simostrera via via piu convinta della superiorita rispetto a quellarappresentativita presunta tenuta a battesimo dalla lett. a) diuna effettiva che credera di poter ravvisare de iure condito nellastessa lett. b), interpretata nel senso di richiedere una partecipa-zione attiva alla trattativa come premessa alla sottoscrizione; e deiure condendo nell’adozione della regola aurea della conta effet-tuata fra gli stessi dipendenti.

Col che la Corte finira per recitare non solo la parte di demoli-trice di quella politica promozionale statutaria top-down, da essastessa benedetta all’insegna di una solidarieta che a suo tempo leaveva fatto includere nella lett. a) solo Confederazioni pluricate-goriali (C. Cost. n. 334/1988); ma quella di sollecitatrice autore-vole di una politica completamente opposta solo down, nella lo-gica di una grassroot democracy, tutta risolta in sede aziendale.

8. La sostituzione nella legislazione di delega alla contrattazionecollettiva della nozione di ‘‘maggiormente rappresentativa’’ conquella di ‘‘comparativamente piu rappresentativa’’.

Il primo a prender atto che la nozione di ‘‘maggiormente rap-presentativa’’ era strettamente legata alla lett. a) dell’art. 19 St.lav., tanto da vivere e morire con essa, sara proprio il Parla-mento, il quale la verra sostituendo con quella di ‘‘comparativa-mente piu rappresentativa’’, nella legislazione successiva.

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Il fatto e che la nozione di ‘‘maggior rappresentativita’’ eradeclinata con riguardo alle Confederazioni, che la possedevano invia originaria e la trasmettevano alle Federazioni aderenti in viaderivata. Sicche, per quanto tale nozione fosse stata dilatata dallagiurisprudenza, conservava pur sempre una notevole capacita se-lettiva, idonea a giustificare l’attribuzione ad esse e alle loro Fe-derazioni di una delega ad integrare, derogare, disciplinare proparte od in toto la normativa statale. Una volta espulsa quella no-zione dallo Statuto a seguito di una consultazione referendariache la trovava verticistica e burocratica, non era politicamentepiu spendibile con riguardo alla c.d. contrattazione delegata desti-nata ad espandersi enormemente proprio nella stagione post-refe-rendaria. Stagione, questa, aperta al termine dell’ultimo decenniodel secolo precedente e proseguita nel corso del primo decenniodell’attuale, tutta all’insegna di una flessibilita attuata secondouna ricetta volta a volta diversa nel quantum di riduzione dellaprecedente dote garantista, operato direttamente dalla legge e ri-spettivamente affidato alla negoziazione.

Il legislatore non trovera di meglio che far ricorso alla nozionedi ‘‘comparativamente piu rappresentativa’’, declinata con ri-spetto ad associazioni sindacali nazionali e/o territoriali, che laconseguivano in via originaria. Gia fin dalla stessa denominazionela nozione non solo si distaccava, ma si contrapponeva a quellaprecedente, perche comportava una valutazione comparativa chela Corte aveva assolutamente escluso poter venire in rilevanzacon riguardo all’art. 19, lett. a) st. lav.

Nel vuoto creato dalla cancellazione della lett. a), la nozionein parola non doveva servire ad includere ‘‘i soliti noti’’, che siconsideravano interessati ad utilizzare il potere concesso dallalegge in modo coerente rispetto ad un sistema di cui erano copro-tagonisti; ma ad escludere ‘‘gli insoliti ignoti’’, che si temevano di-sposti ad usare tale potere in modo destabilizzante riguardo adun ordine contrattuale del quale non erano partecipi.

Ma cosı la rappresentativita risultava generica, perche, unavolta declinata a favore di associazioni sindacali nazionali o terri-toriali, rimaneva priva della serie di indici presuntivi elaborata amisura delle Confederazioni con riguardo alla lett. a), senza chene venisse fornita alcuna altra condivisa. E, al di la di qualsiasiintenzione, riusciva a-selettiva, perche, una volta tradotta in ter-mini di comparazione, poteva dar vita solo ad una graduatoria di

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piu e di meno, senza che ne derivasse di per se alcuna regola circala soglia di ammissione/esclusione.

Eppure sara proprio questa nozione di ‘‘comparativamentepiu rappresentativa’’ ad accompagnare la crescita accelerata dellac.d. contrattazione delegata, peraltro senza alcuna sistematicita ocoerenza, tanto da dar luogo ad un’autentica giungla degli ambititerritoriali in cui calcolarla, dei livelli contrattuali rispetto a cuiconsiderarla rilevante, degli effetti riguardo a cui ritenerla fonteproduttiva.

Senza alcuna pretesa che non sia quella di offrire una tipolo-gia approssimata, quale resa possibile da questa panoramica suc-cinta, sembra possibile individuare una triplice variante, distintae graduata in ragione della ampiezza ed incisivita della delega le-gislativa effettuata a favore della contrattazione collettiva.

La prima che costituisce la regola — tanto da ritrovarla nelpacchetto Treu, nella legge Biagi, nella legge Fornero, dal 1997 al2011 — e definibile come soft, per essere la delega limitata a casispecifici e ad interventi limitati con riguardo ai regimi di singolicontratti, rapporti, istituti. La seconda, che vuole apparire comeun’eccezione giustificata dal particolare carattere del suo oggetto,cioe di un apprendistato professionalizzante convertito ormai inuno strumento occupazionale col momento formativo rimesso didiritto e di fatto nelle mani del datore di lavoro, e individuabilecome hard, per essere la stessa delega estesa a’ sensi del t.u. n. 167del 2011 all’intera disciplina generale, se pur nell’osservanza diprincipi e criteri fissati dalla legge.

La terza variante introdotta da quell’art. 8 l. n. 148/2011 co-stituisce un’improvvida forzatura da parte del legislatore dell’ac-cordo interconfederale del giugno 2011, tanto da essere esorciz-zato formalmente dalle stesse Confederazioni, con l’aggiunta diuna postilla al testo definitivo del settembre dello stesso anno; eda essere passato sotto silenzio dal legislatore successivo, eccezionfatta per un tentativo di restituirgli un minimo di visibilita com-piuto dal d.l. n. 76/2013, subito respinto al mittente in sede diconversione.

Quell’articolo rimane non solo scritto nell’ordinamento, ma, aquanto si dice, viene anche utilizzato, specie nel meridione, se purin modo non esplicito, contando sul complice consenso di quantine traggono comunque beneficio, contrabbandando un peggiora-mento, peraltro non di rado solo formale, del loro trattamento

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normativo ex lege ed ex contractu con il mantenimento del posto dilavoro.

A dire il vero piu che introdurre una terza variante, quell’art.8 testimonia un tentativo, politicamente rozzo e tecnicamente ap-prossimativo, di conservare una capacita di proposta ad associa-zioni legittimate da una rappresentativita extra-aziendale presun-tiva, con la conferma ‘‘democratica’’ aziendale rimessa nelle manidelle rappresentanze sindacali costituite da quelle stesse associa-zioni.

Da un lato, si continua nel ricorso alla nozione generica edaselettiva di « associazioni dei lavoratori comparativamente piurappresentative sul piano nazionale e territoriale » per attribuire aqueste la facolta di concludere contratti territoriali e aziendalicontenenti intese derogatorie a tutto campo alla disciplina collet-tiva di categoria e alla stessa normativa di legge; dall’altro si fa ri-ferimento a « loro rappresentanze sindacali operanti in azienda aisensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vi-genti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 »che, peraltro, « loro » non possono essere di per se stesse, ma solose ed in quanto realizzino la condizione di cui all’art. 19, lett. b),cioe di poter gia contare, ieri, sulla partecipazione attiva piu lasottoscrizione, oggi, sulla sola partecipazione attiva alla conclu-sione di un contratto collettivo applicabile nell’unita produttivadi riferimento.

A quanto e dato intendere, le intese derogatorie se sotto-scritte da quelle stesse rappresentanze sindacali « sulla base di uncriterio maggioritario » hanno « efficacia nei confronti di tutti i la-voratori interessati ». Ma, una volta dato per scontato che sidebba far riferimento alle rappresentanze sindacali aziendali del-l’art. 19, lett. b) st. lav., risulta poco comprensibile il riferimentoall’accordo interconfederale del giugno 2011, che privilegia le rap-presentanze sindacali unitarie, se pur senza escludere quelleaziendali; ma soprattutto non e affatto chiaro quale debba esseree come debba operare un siffatto criterio democratico, per poterlegittimare, anche politicamente, un’efficacia derogatoria erga om-nes potenzialmente estendibile a gran parte della normativa assi-stita fino a ieri da una ferrea inderogabilita.

Tutto questo a prescindere da un duplice annoso problemaben lungi dall’essere risolto se si tiene fermo l’indirizzo interpreta-tivo formulato dal Giudice delle leggi. In primis, e tutto da ve-

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dere se l’art. 39, cc. 2 ss., Cost. valga solo per la contrattazione dicategoria, essendone la ratio totalmente estendibile a quella terri-toriale o aziendale, senza trovare ostacolo in una lettera formu-lata in assenza della stessa idea di una contrattazione decentrata.E, poi, e tutto da verificare se il patrimonio garantista costruito amisura del rapporto di lavoro subordinato possa essere smobili-tato con la solo generica salvaguardia costituita dalla formulaanodina « Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonche ivincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioniinternazionali del lavoro » senza esporsi al rischio di alterarne lostesso tipo costituzionalmente eletto a fondamento privilegiatodel sistema costituzionale; e ancor di piu, se tale patrimonio possaessere compromesso tramite un meccanismo privatistico, poco af-fidabile nel suo svolgimento, perche soggetto al rischio di un ne-goziato condotto ‘‘sotto ricatto’’ e molto preoccupante nel suo ri-sultato, perche esposto al pericolo di un diritto del lavoro ‘‘spez-zatino’’.

9. La vicenda tragi-comica della incentivazione delle voci retribu-tive collegate alla produttivita.

Meglio di qualsiasi argomentare, con la spendita di ragiona-menti astratti, e la stessa realta, con la spietata lezione dei fatti aparlare dell’estrema spregiudicatezza raggiunta in tema di utiliz-zazione della rappresentativita comparativamente piu rappresen-tativa per concedere una delega derogatoria alla normativa dilegge per via... amministrativa. Mi riferisco alla recente vicendatragi-comica della ‘‘produttivita’’ che trova una sua prima tappanell’accordo interconfederale 21 novembre 2012, sottoscritto soloda una Cisl e da una Uil, dopotutto nostalgiche dell’art. 8, da lorostesse ibernato con la postilla al testo definitivo dell’accordo in-terconfederale del giugno 2011, sottoscritta nel settembre dellostesso anno. Del che c’e una precisa e puntuale testimonianza nelpunto 7, laddove si dice che « Le parti ritengono necessario che lacontrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamentepiu rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eser-citi, con piena autonomia, su materie oggi regolate in manieraprevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indiretta-mente, incidono sul tema della produttivita del lavoro ». Anche

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se, poi, le materie ritenute piu importanti, sia pure solo in viaesemplificativa, sono solo quelle relative « all’equivalenza dellemansioni, all’integrazione delle competenze... », alla « razionalizza-zione dei sistemi di orari e della loro distribuzione anche con si-stemi flessibili... », « alle modalita attraverso cui rendere compati-bile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fonda-mentali dei lavoratori... »; e se, ancora, si dia implicitamente perscontata l’inutilizzabilita politica assai prima che giuridica del-l’art. 8, col sollecitare che siano assunti « a livello legislativo, an-che sulla base di rinvii, provvedimenti coerenti con le intese inter-corse e con la presente intesa ».

Tutto quello che il legislatore fa risulta scritto nell’art. 1, c.481, l. 24 dicembre 2012, n. 228, laddove prevede che « Per la pro-roga [...] di misure sperimentali per l’incremento della produtti-vita del lavoro e introdotta una speciale agevolazione », fissandogli oneri finanziari e rinviando ad una decreto del Presidente delConsiglio dei Ministri la determinazione delle « modalita di attua-zione ». Ma a fargli dire qualcosa di piu ci pensa il provvido Go-verno, col D.P.C.M. 22 gennaio 2013, che apre richiamando nonsolo l’art. 1, c. 481 e 482 l. n. 228/2012, ma anche l’accordo inter-confederale separato del novembre 2012, elevandolo a testo cheavrebbe provocato e giustificato l’intervento legislativo « Vistol’accordo in data 21 novembre 2012, recante ‘‘Linee programmati-che per la crescita della produttivita in Italia’’ e in particolare lepremesse in cui le Parti stipulanti ‘‘chiedono al Governo e al Par-lamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposi-zioni di legge per applicare, sui redditi di lavoro dipendente fino a40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produtti-vita, attraverso la determinazione di un’imposta sostitutiva del-l’IRPEF e delle addizionali al 10%’’, nonche le previsioni di cuial punto 7 in tema di contrattazione collettiva di produttivita ».

C’e di piu, pero, perche nel decreto si percepisce chiaramentel’eco dell’art. 8 l. n. 148/2011, che gia risuonava nell’accordo in-terconfederale separato richiamato in premessa. Esso emergechiaro e distinto all’orecchio dell’addetto ai lavori nella formulautilizzata nell’art. 2 per individuare le associazioni sindacali legit-timate alla gestione della contrattazione collettiva territoriale oaziendale in materia di retribuzione di produttivita incentivata,cioe le « associazioni dei lavoratori comparativamente piu rappre-sentative sul piano nazionale ovvero dalle loro rappresentanze

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aziendali ». Ma a complicare ulteriormente la faccenda, c’e che lagestione di tale contrattazione territoriale o aziendale deve essereeffettuata « ai sensi della normativa di legge e degli accordi inter-confederali vigenti », cosı da pretendere l’osservanza di una proce-dura negoziale non prevista da alcuna norma di legge e previstada una disciplina interconfederale a tutt’oggi in fase formativa,ma comunque non estendibile ex lege.

In cauda venenum. Nell’art. 2 si precisa che la retribuzione diproduttivita deve essere collegata « ad indicatori quantitativi diproduttivita/redditivita/qualita/efficienza/innovazione », ma conl’aggiunta che « in alternativa » puo anche venire correlata all’« at-tivazione di almeno una misura in almeno tre delle aree di seguitoindicate »: a) la « ridefinizione dei sistemi di orari e della loro di-stribuzione con modelli flessibili... »; b) l’« introduzione di una di-stribuzione flessibile delle ferie... »; c) l’« adozione di misure volte arendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tuteladei diritti fondamentali dei lavoratori... »; d) l’« attivazione di in-terventi in materia di fungibilita delle mansioni e di integrazionedelle competenze... ».

Ora l’aggiunta sembrerebbe del tutto neutra se non suscitasseil sospetto di celare la riserva mentale per cui l’attivazione dellemisure previste potrebbe essere effettuata anche avvalendosidella facolta di deroga alla stessa legge di cui all’art. 8 l. n. 148/2011. Del che c’e una precisa conferma nella ‘‘istruzione’’ del Mi-nistero del lavoro 3 aprile 2013, n. 15, intervenuta a dettare la li-nea nel segno di quella progressiva amministrativizzazione del di-ritto del lavoro, che accompagna la politica normativa di incenti-vazione normativa e finanziaria, con la sua interpretazione ed ap-plicazione affidata alle circolari del Ministero del lavoro edell’Inps, debitamente assistite dall’attivita di vigilanza e repres-sione dei rispettivi servizi ispettivi... anche se, poi, tali circolari ri-sultano piu o meno ‘‘contrattate’’.

Nel riprendere la formulazione del D.P.C.M. del gennaio 2013,c’e una qual sorta di combinazione pasticciata fra la vecchia no-zione di ‘‘maggiormente rappresentative’’ e la nuova di ‘‘compa-rativamente piu rappresentative’’, che la dice lunga sulla scarsa onessuna rilevanza data alla rappresentativita come regola selet-tiva effettiva, tanto a tener banco sono sempre i ‘‘soliti noti’’... ‘‘aprescindere’’ come avrebbe detto Toto; ma c’e, altresı, un’aper-tura, nel senso di equiparare alle rappresentanze sindacali azien-

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dali le rappresentanze sindacali unitarie. Cosı le « associazioni deilavoratori comparativamente piu rappresentative sul piano nazio-nale » di cui al decreto divengono nella circolare le organizzazioni« in possesso del requisito della maggior rappresentativita compa-rata sul piano nazionale »; e le « loro rappresentanze sindacali ope-ranti ‘‘in azienda’’ » vengono lette come riguardanti tanto « le Rsache le Rsu ».

L’aspetto su cui si intendeva richiamare l’attento lettore e co-stituito dal come la circolare riprende dal decreto la possibilita diattivare in alternativa « almeno una misura in almeno 3 delle areedi intervento di seguito elencate », perche le lett. c) e d) presen-tano un limite non esplicitato nel decreto stesso: l’adozione dellemisure di cui sub c) deve avvenire « nel rispetto dell’art. 4 della l.n. 300/1970 »; ed, a sua volta, l’attivazione degli interventi di cuisub d) deve aver luogo « nel rispetto dell’art. 13 della l. n. 300/1970 ».

Solo cosı tranquillizzata la Cgil dara la sua firma all’accordointerconfederale 24 aprile 2013, tanto che in premessa si affermaesplicitamente che « le parti anche in considerazione dei contenutidella circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Socialin. 15 del 3 aprile 2013, ritengono opportuno favorire il migliorperseguimento degli obbiettivi definiti dall’art. 1, c. 481, della l.24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilita 2013), e dal successivoDPCM 22 gennaio 2013... ». Non solo, perche poi si esplicita che« Nel definire il presente accordo, le parti intendono confermare ilmodello e la funzione dei due livelli di contrattazione, cosı comeesplicitato nell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, anchecon riferimento alle procedure per l’efficacia delle intese modifica-tive », con l’evidente intenzione di escludere non le deroghe allacontrattazione di categoria, data la natura cedevole della disci-plina prevista « rispetto ad eventuali e specifiche intese aziendalio pluriaziendali », ma quelle alla normativa di legge.

L’accordo interconfederale dell’aprile 2013 e un accordo qua-dro nazionale che licenzia in allegato un accordo quadro territo-riale, che tanto per far capire la totale irrilevanza della tormen-tata e tormentosa messa a punto della nozione di rappresentati-vita, porta in apertura l’individuazione come parti delle istanzeterritoriali delle Confederazioni firmatarie dello stesso accordo in-terconfederale, cioe l’Associazione territoriale di Confindustria, laCgil territoriale, la Cisl territoriale, la Uil territoriale.

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Il che, pero, ripropone il problema dell’efficacia dell’accordoquadro territoriale, che con riguardo alle « imprese aderenti al Si-stema di rappresentanza di Confindustria nella provincia o nelterritorio..., prive di rappresentanze sindacali operanti inazienda » viene risolto dal punto 1 dell’accordo medesimo, col pre-vedere che tali imprese « possono — con l’assistenza delle associa-zioni aderenti al Sistema di rappresentanza di Confindustria,aventi competenza sindacale — stipulare accordi aziendali — chesi applicano a tutti i dipendenti dell’impresa — con le organizza-zioni territoriali di categoria delle organizzazioni sindacali stipu-lanti il presente accordo ».

Dio salvi il ‘‘Sistema di rappresentanza di Confindustria’’,rendendolo sempre piu diffuso ed incisivo... come peraltro e benlungi dal succedere. Ma dove il Sistema non arriva... beh bastaaderirvi o adeguarvisi in un modo o nell’altro.

10. La disciplina interconfederale della titolarita della legittima-zione negoziale, di cui all’Accordo del 28 giugno 2011 e al Pro-tocollo d’intesa del 31 maggio 2013: le oo.ss. ‘‘rappresentative’’e le rsu.

Come ben sa chiunque abbia avuto occasione di bazzicare ilnostro diritto sindacale, l’autentico macigno posto sul suo cam-mino e stato l’art. 39, cc. 2, ss. Cost., benedetto o maledetto a se-conda della scelta di politica del diritto o della convenienza; marimasto pur sempre fermo lı ad ostruirlo, sı da permettere soloqualche aggiramento laterale. Del che e stato garante lo stessoGiudice delle leggi, che fin da C. Cost. n. 10/1957 anticipo che« l’efficacia obbligatoria dei contratti collettivi erga omnes [...] eoggi espressamente riconosciuta dalla Costituzione (art. 39), manei riguardi dei contratti collettivi registrati e con la proceduraivi indicata » per, poi, aggiungere che, in carenza di una legge at-tuativa, « possono essere stipulati soltanto contratti collettivi didiritto privato »; e consolido questa sua interpretazione con le bennote C. Cost. n. 106/1962 e n. 70/1963, salvando, prima, la l.n. 741/1959, c.d. Vigorelli con la formula di una « costituzionalitaprovvisoria ed eccezionale » e bocciando, poi, la l. n. 1027/1960 diproroga.

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Cio, pero, non ha trattenuto lo stesso Giudice delle leggi dalrigettare piu volte le eccezioni di costituzionalita sollevate perviolazione dell’art. 39, c. 4, Cost. perche, una volta ribadito chesolo la sua attuazione potrebbe legittimare una contrattazionecollettiva con efficacia erga omnes, ha sempre trovato una qualcheescamotage idoneo ad escludere l’illegittimita delle norme impu-gnate. Per limitarsi qui ai casi piu significativi, c’e da ricordare lasequenza costituita da C. Cost. n. 268/1994, n. 344/1996, n. 309/1997, a riprova di una raffinata capacita manipolativa, dettatada un comprensibile self-restraint rispetto a scelte parlamentariqualificanti.

C. Cost. n. 268/1994 vede il rinvio operato dall’art. 5, c. 1, l.n. 223/1991 ai contratti collettivi sui criteri di scelta dei lavoratorida collocare in mobilita, sottoscritti in primis dalle Rsa costituitea norma dell’art. 19 st. lav., nei termini di un potere datoriale ori-ginariamente libero, ma poi regolato negozialmente, sı da essereesercitato con un atto unilaterale vincolato nel contenuto, ma pursempre quello cui ricondurre in toto l’effetto obbligatorio nei ri-guardi di tutto il personale. C. Cost. n. 344/1996, seguendo unpercorso simile, legge il ricorso effettuato dall’art. 2, c. 2, l.n. 146/1990 agli accordi aziendali in tema di prestazioni essenziali,conclusi con le rappresentanze aziendali o le rappresentanze delpersonale per dare attuazione ai contratti di categoria o ai con-tratti di comparto, nei termini di mero presupposto di un poteredatoriale esercitabile tramite un regolamento che, se pur con-forme nel contenuto agli accordi attuativi, rimane di per se soloproduttivo dell’effetto vincolante nei confronti dell’intero orga-nico. C. Cost. n. 309/1997 riconduce l’effetto generalizzato deicontratti di comparto e di area dirigenziale di cui agli artt. 45, cc.2, 7, 9, e 49, c. 2, d.lgs. n. 29/1993 all’esistenza ad un obbligo exlege per le amministrazioni pubbliche ed ex contractu per i dipen-denti, in forza del rinvio ai testi collettivi vigenti contenuto nelleloro lettere di assunzione.

Non c’e niente, pero, nella giurisprudenza costituzionale in-terpretabile nel senso di ritenere legittima una legge ordinarianon rispettosa della procedura prevista nell’art. 39, cc. 2, ss. Cost.che conferisse alla contrattazione collettiva efficacia erga omnes,senza possibilita alcuna di distinguere in relazione al livello. Cosa,questa, che pur ha cercato di fare una certa dottrina, coll’ignoraredell’art. 39, c. 4, Cost. la ratio, di una legittimazione a varare una

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disciplina applicabile all’intera area coperta riconosciuta in basealla regola di una rappresentanza proporzionale; e sopravvalutaredi quello stesso comma la lettera, oltre il limite dell’assurdo, per-che se fosse riferibile solo alla contrattazione di ‘‘categoria’’ intesacome nazionale, non lo sarebbe anzitutto per quella territoriale oprovinciale ancor prima che per quella aziendale.

Tant’e che la dottrina maggioritaria ha o negato o ammessocon l’efficacia generalizzata della c.d. contrattazione delegata; eha considerato l’art. 8, l. n. 148/2011 un qual sorta di monstrumcostituzionale, per quel suo prevedere una possibilita di una de-roga a tutto campo alla disciplina legislativa affidata ad una con-fusa e macchinosa procedurale negoziale con efficacia estesa all’in-tera forza lavoro occupata.

Certo e che a prescindere dalle ipotesi esplicitamente previstee disciplinate dalla legge, c’e stata qualche tesi portata a ricono-scere alla contrattazione collettiva di diritto comune condotta econclusa dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresen-tative una efficacia ultra partes; ma una siffatta tesi elaborata altermine della stagione di maggior forza di tali confederazioni, eradestinata a rimanere costretta fra le pagine della bella ed originalemonografia che l’aveva ospitata. Bon gre, mal gre anche la dot-trina piu coriacea ha dovuto rassegnarsi alla lezione giurispruden-ziale che la contrattazione collettiva c.d. di diritto comune ha diper se forza intra partes. Una lezione, questa, impartita senza se esenza ma, a livello categoriale, come ha confermato da ultimo ilflusso di ricorsi ex art. 28 st. lav. favorevoli alla Fiom nei con-fronti di datori che intendevano applicare il c.c.n.l. separato del-l’aprile 2009 al posto di quello unitario del gennaio 2008, peraltronon ancora scaduto; con qualche eccezione a livello aziendale.

Nel Protocollo del luglio 1993 le parti sociali avevano, comegia detto, auspicato « un intervento legislativo finalizzato ad unageneralizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettiviaziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori »;ma, a sua volta, il Governo aveva assunto l’impegno « ad emanareun apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’effica-cia ‘‘erga omnes’’ nei settori produttivi dove essa appaia necessa-ria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delleaziende ».

Parole scritte nell’acqua, come avrebbe ampiamente dimo-strato quasi un ventennio trascorso invano, non senza motivo,

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perche all’ostacolo legale costituito dall’art. 39, cc. 2, ss. Cost. siaggiungeva l’ostacolo politico-sindacale costituito da un ampiofronte comprensivo anche di una Confederazione geneticamentecontraria quale la Cisl che pur quel testo del luglio 1993 avevasottoscritto.

Si trattava per le Confederazioni di farsene carico in primapersona. Peraltro, un problema come quello dell’efficacia genera-lizzata della contrattazione c.d. di diritto comune, di per se vinco-lante solo le parti, risultava affrontabile esclusivamente in terminidi effettivita, la quale poggiava su una duplice condizione: l’ado-zione di una regolazione unitaria che eliminasse la stessa possibi-lita di accordi separati; la opzione per una rappresentativita coe-rente e trasparente, che legittimasse la disciplina collettiva agliocchi dei lavoratori.

Non si intende qui ricostruire la lunga gestazione dell’accordo‘‘unitario’’ del 28 giugno 2011 e del Protocollo d’intesa 31 maggio2013 attuativo del precedente, se non per sottolineare la partegiocatavi dagli accordi ‘‘separati’’ del 22 gennaio e del 15 aprile2009; e neppure offrire una dettagliata ricostruzione della disci-plina contenutavi, peraltro destinata a venir completata dallacontrattazione di categoria. Si vuole solo richiamare quanto servea sottoporre a verifica la coerenza interna ed esterna di quella chesi appalesa come un’ambiziosa scommessa di realizzazione di unanuova costituzione delle relazioni collettive, autosufficiente per-che omni-inclusiva.

Va sottolineato, in prima battuta, come l’accordo del giugno2011 dia affatto per scontato il sistema contrattuale articolato suun doppio livello, secondo il ben noto riparto di ruoli: per il punto2 « il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di ga-rantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuniper tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati sul territorionazionale »; e per il punto 3 « la contrattazione collettiva aziendalesi esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal con-tratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge ».

L’accordo da per scontato tale sistema, se pur con un riequili-brio a favore del livello aziendale, anticipato in premessa, laddovesi dice « fermo restando il ruolo del contratto collettivo nazionale,e comune l’obbiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione dellacontrattazione collettiva di secondo livello... »; e poi sviluppatonei punti 7 e 8. Nel punto 7 e prevista una possibilita di deroga

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della disciplina categoriale da parte della contrattazione azien-dale, peraltro tradotta con una formula di estrema prudenza, per-che « anche in via sperimentale e temporanea » e sempre « nei li-miti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi na-zionali di lavoro »; mentre nel punto 8 e contenuta una sollecita-zione al Governo a varare « tutte le misure ... volte adincentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la con-trattazione di secondo livello » in materia di retribuzione di pro-duttivita.

Esso dichiara in premessa quel che ne rappresenta la ragione,cioe « definire pattiziamente le regole in materia di rappresentati-vita delle organizzazioni sindacali dei lavoratori », con riguardoalla titolarita della contrattazione collettiva nazionale o aziendale.Con rispetto alla prima, si mutua la formula in uso nel pubblicoimpiego privatizzato per l’ammissione di una organizzazione sin-dacale alla contrattazione di comparto, che, nel Protocollo d’in-tesa del maggio 2013, risulta essere definita sub « Misurazionedella rappresentativita », punto 5, come « una rappresentativitanon inferiore al 5%, considerando a tal fine la media tra il datoassociativo (iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentualevoti ottenuti su voti espressi »; e completata sub « Titolarita ed ef-ficacia della contrattazione », punto 3, con la previsione che « Icontratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmentedalle Organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza come sopra determinata previa consulta-zione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranzasemplice — le cui modalita saranno stabilite dalle categorie perogni singolo contratto — saranno efficaci ed esigibili. La sottoscri-zione formale dell’accordo [...] costituira l’atto vincolante per en-trambe le parti ».

A dire il vero quando si passa alla titolarita della contratta-zione aziendale, a venire in questione non e la ‘‘rappresentativitarichiesta’’, perche essa e gia data per scontata dall’accordo inter-confederale del giugno 2011, ai punti 4 e 5, a capo delle rsu elettesecondo le regole interconfederali vigenti e delle rsa costituite exart. 19 l. n. 300/1970 se ed in quanto esistenti; bensı le maggio-ranze richieste per conferire efficacia generale alla disciplina con-venuta. Per le rsu e richiesta quella dei componenti; per le rsaquella delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dailavoratori ad una o piu di esse, fermo restando che anche in tale

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eventualita e possibile ottenere a certe condizioni una consulta-zione dei lavoratori.

Il Protocollo d’intesa del maggio 2013 punta a rendere esclu-siva la scelta delle rsu, col confermare sub « Misurazione della rap-presentativita » punto 6 che la partecipazione alla procedura dielezione delle rsu e comunque la presenza o la costituzione di rsuimplica la rinuncia a dar vita a rsa. Anche se, poi, lo fa con tuttala prudenza suggeritagli da una realta in cui le rsa sono ben radi-cate, sı da preoccuparsi di precisare subito che « ... il passaggio alleelezioni delle RSU potra avvenire solo se definito unitariamentedalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie del pre-sente accordo ».

Subito dopo si affronta il problema della formazione delle rsu,affermandone l’elezione « con voto proporzionale », sı da bandirela tanto criticata regola del ‘terzo riservato’, di per se tale da assi-curare in partenza almeno di massima una maggioranza alle Fede-razioni aderenti a Cgil, Cisl, Uil. Ma si cerca di contenerne la rica-duta destabilizzante coll’introdurre una qual sorta di ‘mandatoimperativo’: « Il cambiamento di appartenenza sindacale da partedi un componente la RSU ne determina la decadenza dalla caricae la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originariaappartenenza del sostituito ».

11. L’‘‘accordo’’... anzi il ‘‘disaccordo’’ fra l’ordinamento intersin-dacale e l’ordinamento statale.

Si e parlato di una scommessa ambiziosa, peraltro ancora affi-data ad accordi interconfederali limitati ai soli settori industriali eanche rispetto a questi bisognosi di essere implementati dai neces-sari regolamenti categoriali. Ma essa risulta gia tale da prospet-tarsi come auto-sufficiente perche omni-inclusiva: non bisognosadi alcuna legge per giustificare quell’efficacia generalizzata dellacontrattazione cui aspira in termini di effettivita proprio percheaperta ed accessibile a livello di categoria a chi raggiunga la sogliadel 5% richiesta per garantirgli una partecipazione alla ‘‘delega-zione trattante’’ e a livello di azienda a chi consegua la cifra elet-torale necessaria ad assicurargli una presenza nella rsu.

Solo che le parti costituenti — garanti, prime e maggiori be-neficiarie — sono e restano le grandi Confederazioni dei lavora-

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tori, cioe Cgil, Cisl, Uil, sı che la tenuta di una tale costruzione di-pende da una condizione quale quella della loro unita largamenterimessa alla congiuntura politico sindacale; e la non potenziale maeffettiva estensione della stessa dipende dalla disponibilita ad en-trarvi in una posizione minoritaria delle altre organizzazioni sin-dacali.

Ma una scommessa e tale perche consegnata all’incertezza diun futuro qui dipendente in larga misura dagli stessi giocatori.Solo che la spinta inclusiva sembra tale da mettere a rischio lastessa funzionalita di quel sistema articolato su un doppio livelloche si intende conservare: la richiesta della sottoscrizione del con-tratto di categoria da parte di almeno il 50% + 1 rischia di met-tere di fronte all’alternativa di una situazione di stallo o di unauscita dal sistema; la previsione della firma del contratto azien-dale da parte della maggioranza di una rsu eletta proporzional-mente rischia di far saltare qualsiasi raccordo ‘‘soggettivo’’ (intermini di soggetti stipulanti) con un contratto di categoria an-cora costruito tutto su un raccordo ‘‘oggettivo’’(in termini di ma-terie delegate).

Nella prospettiva qui privilegiata interessa in particolare l’im-patto con l’ordinamento in cui tale sistema deve collocarsi, cioe ilnostro diritto sindacale quale scritto nei codici e interpretato daigiudici. A dar per scontato anche per il futuro prossimo venturol’indirizzo consolidato del Giudice delle leggi, pare del tutto sbar-rata la via ad una ricezione legislativa della procedura prescrittaper conferire alla contrattazione di categoria efficacia erga omnes;mentre potrebbe restare perlomeno semi-aperta quella di una tra-duzione legislativa prevista per attribuire alla contrattazioneaziendale efficacia generalizzata, se correlata ad una riscritturadell’art. 19, lett. b in conseguenza di C. Cost. n. 231/2013. Certoquella giurisprudenza ordinaria gia incline a riconoscere alla con-trattazione aziendale tale efficacia, potrebbe trovare proprio nel-l’osservanza della procedura in parola un’argomentazione ulte-riore a favore della sua tesi.

Un problema non da poco e costituito dal raccordo con la c.d.contrattazione delegata, che lo stesso accordo interconfederale delgiugno 2011 inserisce a pieno titolo nel sistema, laddove, come ri-cordato, al punto 2, parla di una contrattazione collettiva azien-dale che « si esercita per le materie delegate, in tutto o in partedal contratto nazionale di lavoro di categoria o dalla legge ». Non

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v’e dubbio alcuno che la nozione di ‘‘comparativamente piu rap-presentativa’’ di cui alla legislazione in materia, comunque la sidefinisca rimanga legata ad indici presuntivi e costruita in ter-mini comparativi da verificare ai previsti livelli non solo nazionalima anche territoriali; mentre la nozione di ‘‘rappresentativita’’ dicui all’accordo sia correlata a criteri effettivi e configurata in ter-mini assoluti da accertare ai soli livelli categoriali. C’e, pero, dachiedersi, se la giurisprudenza ordinaria non sara tentata di leg-gere la nozione presuntiva legislativa alla luce di quella effettivacontrattuale, almeno laddove la ricaduta di una siffatta sostitu-zione non sia chiaramente contrastante con la ratio della norma.

Comunque e del tutto evidente e percepibile l’effetto destabi-lizzante esercitato su un sistema di contrattazione articolato, chebon gre mal gre vede il contratto di categoria come cardine su cuiruota quello aziendale, di un flusso legislativo cresciuto ormai finoa divenire imponente il quale investe autonomamente lo stessocontratto aziendale di competenze integrative, derogatorie, sup-pletive rispetto alla normativa in vigore. Cio con una duplice ag-gravante, che le associazioni di volta in volta qualificabili comecomparativamente piu rappresentative non e per nulla dettosiano al tempo stesso firmatarie del relativo contratto di categoriae, comunque, procedano di comune accordo con riguardo al con-tratto aziendale; e che le materie delegate ex lege non e per nullascritto non siano gia state considerate e disciplinate diversamentedal relativo contratto di categoria.

Tutto questo e esemplificato al limite dell’assurdo propriodall’accordo 8 della l. n. 148/2011, su cui e d’obbligo rinviare aquanto gia osservato in precedenza.

Giunto a questo punto, il paziente lettore, per quanto affati-cato, sentira affiorare al suo labbro quella che e la domanda cor-rente: ‘‘E ora, dopo C. Cost. 231/2013?’’. Avendone scritto adabundantiam altrove mi limitero a segnalare come ad applicarealla disciplina interconfederale qui considerata questa sentenzapresa alla lettera, cioe come tale da ritenere sufficiente la parteci-pazione attiva a’ sensi dell’art. 19, lett. b) st. lav., ne dovrebbe se-guire che tutte le organizzazioni di categoria ammesse alla conclu-sione di un contratto di categoria applicato nell’unita produttivadi riferimento, per avere raggiunto la fatidica soglia del 5%,avrebbero titolo ex lege a costituire proprie rsa. Solo che, poi,

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nulla impedirebbe loro, di chiamarsi fuori dall’obbligo ex contractucirca la rinuncia alle proprie rsa a favore delle rsu.

Meno semplice si presenta la problematica relativa alla disci-plina interconfederale dettata per la contrattazione aziendale,perche qui la legittimazione a negoziare e attribuita in via prefe-renziale dall’accordo interconfederale del giugno 2011, punto 4,alle rsu « elette secondo le regole interconfederali vigenti », cioe aregime, « con voto proporzionale » come recita il Protocollo d’in-tesa del maggio 2013, sub « Misurazione della rappresentativita »,punto 6. Ora le organizzazioni sindacali firmatarie del contrattocollettivo di categoria, pur se prive di una qualsiasi presenza nellarsu potranno sempre far valere ex lege il diritto di costituire rsa,mentre quelle non firmatarie, se pur presenti o addirittura mag-gioritarie nelle stesse rsu, non lo potranno far valere mai.

Chi scrive si sente di adattare alla bisogna il celebre grido cheAnton Cechov strappa alle ‘‘Tre sorelle’’: « Alla legge! Alla legge!Alla legge! », con l’auspicio che non rimanga un appello senza eco.Ma quale debba essere questa legge e altra storia, che mi piace-rebbe raccontare in compagnia di qualche collega.

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IL CONTRATTO DI LAVORO OGGI:IL CONTRATTO DI LAVORO OGGI:

FLESSIBILITA E CRISI ECONOMICAFLESSIBILITA E CRISI ECONOMICA (*)

di EDOARDO GHERA

SOMMARIO: 1. Diritto del lavoro e crisi economica. Un po’ di ordine nei concetti. — 1.1. Crisi

economica e diritto del lavoro della crisi. — 1.2. Una prospettiva storica. — 1.3. De-

clinazioni della flessibilita del (diritto del) lavoro. — 2. La flessibilita in entrata. La

stretta sul lavoro autonomo. — 2.1. Contratto e domanda di lavoro flessibile. — 2.2.

La flessibilita del rapporto di lavoro nel tempo. — 2.3. Il contratto a tempo determi-

nato. — 2.4. Il lavoro autonomo a progetto. — 2.5. Il lavoro autonomo economica-

mente dipendente. — 2.6. L’associazione in partecipazione. — 3. La flessibilita in

uscita. Verso la flexicurity. — 3.1. Luci ed ombre della riforma. — 3.2. L’alternativa

sanzionatoria: reintegrazione o indennita. — 3.3. Il ruolo del giudice. — 3.4. Licenzia-

mento disciplinare e licenziamento economico. — 4. Crisi della subordinazione e fun-

zione protettiva del contratto. — 5. Verso la flessibilita delle fonti. — 5.1. Inderoga-

bilita delle tutele e contratto individuale. — 5.2. Il decentramento della funzione nor-

mativa del contratto collettivo. — 6. Osservazioni finali.

1. Diritto del lavoro e crisi economica. Un po’ di ordine nei con-cetti.

1.1. Crisi economica e diritto del lavoro della crisi.

Il binomio crisi economica e diritto del lavoro assume unadoppia valenza nel nostro dibattito: crisi dell’economia (cadutadell’occupazione, caduta dei consumi, caduta degli investimenti)e crisi del diritto del lavoro; a sua volta intesa come deficit di effet-tivita o adeguatezza dell’ordinamento o sistema delle norme; maanche crisi del diritto del lavoro come cultura o scienza giuridica(da intendere in senso ampio, comprensivo non solo della dottrinama anche della giurisprudenza).

(*) Testo aggiornato a maggio 2014.

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1.2. Una prospettiva storica.

Il tema della crisi non e nuovo nel diritto del lavoro. Anzi-tutto vanno ricordati gli studi degli anni ’70 sul diritto del lavorodell’emergenza (1). Resta pero fondamentale il contributo di G.Giugni (Il diritto del lavoro degli anni ’80, in G.D.L.R.I., 1982,p. 373 ss.): un approccio realista (antiformalista) ed un quadrostorico-critico nel quale viene ricostruita, nei tratti essenziali, laformazione, per fasi successive (alluvionale) e per effetto dellaconfluenza di fattori sociali e culturali eterogenei, del diritto dellavoro italiano. Viene sottolineato il passaggio dell’ordinamentolavoristico postcostituzionale dall’‘‘emergenza’’, per definizionetransitoria, ad un processo di trasformazione definita ‘‘strisciante’’perche si sviluppa in assenza di un progetto globale di politica deldiritto. Viene in primo piano, ma resta inappagata, l’esigenza diun riassetto delle tutele dei diritti individuali proprie del ‘‘garan-tismo lavoristico’’ e, a monte, l’esigenza di ‘‘un superamento deigravi contenuti di irrazionalita economica presenti in un sistema po-sitivo caratterizzato da un livello di protezione individuale e collettivamolto elevato’’.

La diagnosi e tuttora valida. In effetti dopo lo statuto dei la-voratori si consuma il distacco dal modello tradizionale di un di-ritto del lavoro unidirezionale, costruito sul favor per la parte de-bole del rapporto e sulla (sostanziale) separazione tra la tutela in-dividuale e l’attivita del sindacato. Nel modello poststatutatarioil sindacato conquista un ruolo preponderante nella gestione del-l’organizzazione del lavoro e nella cultura giuridica oltre che nellalegislazione, si assiste (sono ancora parole di Giugni) alla ‘‘esalta-zione’’ del rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminatocome ‘‘ideale giuridico’’ (noi diremmo: garanzia di status sociale dellavoratore). Il rapporto individuale viene quindi ricostruito inchiave non collaborativa o fidelizzatrice e sottoposto ad una demi-stificazione (ideologia del c.d. contrattualismo conflittuale). Neconsegue, certo, la riaffermazione della sua natura di contratto di(mero) scambio del lavoro verso retribuzione; ma ad essa si ac-compagna l’emersione dell’asimmetria di potere tra i contraenti e

(1) Da ricordare l’opera di R. DE LUCA TAMAJO e L. VENTURA, Il diritto del lavoronell’emergenza, Jovene, Napoli, 1979.

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quindi la sua parziale ma necessaria correzione da parte del legi-slatore: si arriva cosı all’affermazione — nello statuto dei lavora-tori — del binomio subordinazione-stabilita (avvicinamento allajob ownership: cfr. art. 18, l. n. 300/1970).

Il consolidamento legislativo e giurisprudenziale di questomodello ipergarantista dei diritti individuali ma, nello stessotempo, intrinsecamente diseguale e — nella visione realistica del‘‘padre dello statuto’’ — la causa prima della segmentazione delmercato del lavoro e della separazione dei lavoratori in tregruppi (2): — garantiti, semigarantiti, non garantiti — che costi-tuisce tuttora la distorsione piu grave del nostro sistema giuridicodel lavoro.

Negli anni successivi, segnati dal radicale cambiamento dell’e-conomia e del sistema politico italiano e, da ultimo dalla gravecrisi in atto, il nostro diritto del lavoro e caratterizzato da unaproduzione legislativa abbondante e persino frenetica (spesso diorigine comunitaria) che puo essere ricondotta sotto l’etichettadella flessibilita delle condizioni del lavoro e dell’occupazione. Ineffetti la crescita senza nuova occupazione (jobless growth) daglianni ’70 in poi (un fenomeno ricorrente nel medio-lungo periodo,tipico delle economie industrializzate) ha determinato profondetrasformazioni nell’organizzazione del lavoro e, di riflesso, nel con-tratto individuale: i mutamenti organizzativi modificano sia icontenuti della prestazione sia la tipologia dell’occupazione equindi dei rapporti di lavoro ed influiscono sulla stessa linea didemarcazione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (3). Letrasformazioni dell’impresa come organizzazione produttiva sonoall’origine della diffusione delle forme di lavoro flessibile. Caratte-ristico di questo arco temporale e l’atteggiamento del legislatore(e delle stesse parti sociali) di favore (o almeno non piu di accen-tuato sfavore) verso la domanda di lavoro flessibile provenientedalle imprese. Si e osservato autorevolmente che ‘‘la flessibilitadei modi di impiego del lavoro, anche al di la della subordinazione e

(2) G. GIUGNI, op. cit., p. 390-391.

(3) E. GHERA, Prospettive del contratto individuale di lavoro, in Studi sul Lavoro.Scritti in onore di Gino Giugni, Cacucci, Bari, 1999, I, p. 477 ss. (ripubblicato in E. GHERA,

Il nuovo diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2006, p. 167 ss. da cui si cita).

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il punto focale del (nuovo) diritto del lavoro (L. MENGONI, Il con-tratto di lavoro nel secolo XX , D.R.L.I, p. 17).

1.3. Declinazioni della flessibilita del (diritto del) lavoro.

Ma che cosa e la flessibilita? Con questa parola, molto diffusanell’economia e nel diritto del lavoro, si intende — secondo i casi— un paradigma descrittivo delle tecniche di attenuazione e/o de-rogabilita delle tutele del lavoratore nel rapporto e nel mercatodel lavoro (da non confondersi quindi con la mera deregolamenta-zione). Oppure un progetto di politica del diritto —— in risposta alletrasformazioni dell’economia e dei processi produttivi — miratoall’obiettivo di adattare la quantita e la qualita delle prestazionidi lavoro alla dimensione organizzativa dell’impresa e del mercatoattraverso: a) l’articolazione delle tutele del lavoratore all’internodel rapporto e nel mercato del lavoro in funzione delle esigenzedell’impresa e alle caratteristiche dell’occupazione; b) il coordina-mento delle fonti regolatrici del rapporto di lavoro e, in specie,l’integrazione funzionale tra legge e contratto collettivo (rinvio;deroga: cfr. E. GHERA, Prospettive del contratto individuale di la-voro, p. 191 ss.; devoluzione o prevalenza della fonte collettiva:cfr. art. 8, l. n. 148/2011).

In sintesi: flessibilita vuol dire diversificazione della disciplinae percio delle tutele all’interno dello statuto protettivo del lavorosia dipendente sia autonomo, in contemperamento con le esigenzedella produzione e dell’impresa (4).

Resta estranea al diritto positivo la questione assiologica edunque la discussione, condizionata dalle ideologie, intorno allaflessibilita come valore oppure disvalore etico e sociale (5) (si vedaL. GALLINO, Il lavoro non e una merce. Contro la flessibilita, La-terza, Roma-Bari, 2008). Da un punto di vista giuridico-positivobasti constatare la presenza delle ideologie e la loro capacita di in-fluenzare gli attori sociali e la stessa cultura giuridica. Al di la deiprogrammi di riforma, di solito avanzato nella prospettiva di con-

(4) Sia consentito il rinvio a E. GHERA, La flessibilita: variazioni sul tema, in Riv.giur. Lav., 1996, I, p. 123 ss., ivi, p. 128.

(5) In questa prospettiva si legga U. ROMAGNOLI, La transizione infinita verso la fles-sibilita ‘‘buona’’, in Lav. Dir., 2013, p. 155 ss.

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ciliare la flessibilita delle regole con la tutela dei diritti del lavora-tore, si deve constatare lo sviluppo nel corso degli anni piu re-centi (6) della c.d. legislazione della flessibilita: questa si e concen-trata sul rapporto di lavoro e in particolare sulla c.d. flessibilitain entrata (e cioe le tipologie di contratto e la loro disciplina) esolo nell’ultimo periodo con la riforma M.F. e intervenuta nell’a-rea della c.d. flessibilita in uscita (licenziamento e dimissioni). Illegislatore si e invece astenuto dall’intervenire nell’area della c.d.flessibilita interna o organizzativa (mobilita, orario, salario). Que-sta flessibilita — che non e certo la meno importante, perche efunzionale alla produttivita del lavoro e quindi essenziale allacompetitivita delle imprese — ha continuato ad essere dominioquasi esclusivo della contrattazione collettiva.

2. La flessibilita in entrata. La stretta sul lavoro autonomo.

2.1. Contratto e domanda di lavoro flessibile.

Il controllo della domanda di lavoro flessibile provenientedalle imprese e una caratteristica costante del nostro sistema po-sitivo. Tale caratteristica si e evoluta nel tempo: prendendo gra-dualmente (dagli anni ’70 in poi) le distanze dal modello garanti-sta confezionato dal legislatore (e caratterizzato dall’imposizionedi limiti inderogabili all’autonomia delle parti), con la flessibilitain entrata il controllo e divenuto selettivo e cioe affidato alla pre-visione di un certo numero di rapporti di lavoro o modelli con-trattuali c. d. atipici (o non standard) la cui caratteristica e lo sco-stamento dal tipo normativo socialmente prevalente — ed eredi-tato dal codice civile — del contratto di lavoro subordinato atempo pieno e indeterminato. Nella nuova prospettiva, la previ-sione dei rapporti atipici e lo strumento per adeguare la forza-la-voro nella disponibilita dell’impresa alle esigenze variabili dell’at-tivita produttiva ed e politicamente giustificata dall’obiettivo dipromuovere la crescita o quanto meno la difesa dell’occupazione.

Con una enunciazione sintetica, si puo affermare che la flessi-bilita in entrata segna il passaggio del sistema legislativo dal con-

(6) Il dies a quo puo essere convenzionalmente riferito alla l. 24 giugno 1991 n. 196

— Norme in materia di promozione dell’occupazione (c.d. pacchetto Treu).

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tratto ai contratti di lavoro. In virtu di questo passaggio evolutivosi instaura nel sistema un pluralismo contrattuale con una siapure parziale rivalutazione dell’autonomia individuale: questa in-fatti viene esplicitamente abilitata, per altro nei limiti fissati dallalegge e/o — su delega di questa — dai contratti collettivi, alla se-lezione dei modelli flessibili e quindi alla scelta tra le tutele comepredisposte dal legislatore.

Nel quadro legislativo attuale alla flessibilita in entrata —che, non a caso, si trova al centro di entrambe le leggi di riformadel mercato del lavoro emanate nel decennio dal d.lgs. n. 276/2003 (Legge Biagi) alla l. n. 92/2013 (la riforma M.F.) — possonoessere ricondotte tre tipologie (nel senso di fattispecie normative)di modelli contrattuali: 1) i contratti di lavoro subordinato flessi-bili nel tempo del rapporto oppure della prestazione; 2) i contrattidi lavoro autonomo continuativo collegato all’impresa; 3) i con-tratti di lavoro autonomo qualificati dalla dipendenza economicadel prestatore.

2.2. La flessibilita del rapporto di lavoro nel tempo.

In questa categoria di contratti l’elemento temporale (duratadel rapporto oppure della prestazione, da identificarsi quest’ul-tima con la articolazione o variabilita dell’orario di lavoro (equindi della quantita della prestazione) non e un elemento acci-dentale del contratto ma entra stabilmente nel sinallagma tra leprestazioni (e quindi nella causa tipica del contratto), determi-nando la specializzazione funzionale in base al tipo di occupazioneofferta al (oppure ricercata dal) lavoratore (E. GHERA, op. cit.,p. 193-195). Vi sono compresi: a) i rapporti di lavoro a tempo de-terminato o altrimenti temporanei (ad esempio: la somministra-zione di lavoro, la cui funzione tipica si realizza attraverso la mis-sione (o periodo di messa a disposizione) presso l’impresa utilizza-trice di uno o piu lavoratori assunti, anche a tempo indetermi-nato, alle dipendenze dell’agenzia intermediatrice autorizzata(cfr. art. 20 d.lgs. n. 24/2012); b) i rapporti ad orario ridotto o va-riabile (in primo luogo il contratto di lavoro a tempo parziale siaorizzontale sia verticale; ed ancora i contratti di lavoro intermit-tente e di lavoro ripartito, di lavoro occasionale accessorio, neiquali la flessibilita organizzativa (del tempo della prestazione) si

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combina con la flessibilita in entrata dell’occupazione o della do-manda di lavoro.

Nella stessa categoria possono essere classificati anche i con-tratti con finalita formativa oppure semplicemente promozionaledell’ingresso nel mercato del lavoro: anche qui la durata limitatanel tempo, essendo connaturata alla finalita propria (ad esempio:obblighi formativi) del contratto, entra nell’elemento causale. E ilcaso, in particolare, dell’apprendistato — che la riforma M.F. in-dica come canale preferenziale ed incentivante dell’occupazionedei giovani (ad esempio: l’assunzione di nuovi apprendisti e su-bordinata alla stabilizzazione, nella misura del 50%, delle unitaassunte in precedenza) — e che il (di poco) precedente d.lgs. n167/2011 (T.U. sull’apprendistato) configura come rapporto atempo indeterminato solo potenzialmente, per altro, che il compi-mento del periodo di formazione previsto funge da condizione ri-solutiva legale.

Senza entrare in una analisi dei diversi modelli flessibili in en-trata si puo dire che, con la riforma M.F., dalla tendenza espan-siva della Legge Biagi si passa ad una tendenza (moderatamente)restrittiva non tanto del numero quanto delle modalita di utilizzodi tali modelli. Cio e quanto avvenuto per il lavoro a tempo par-ziale, per il lavoro intermittente (o a chiamata) e per il lavoro ac-cessorio tutti oggetto di significative innovazioni in senso restrit-tivo.

Per il contratto a tempo parziale l’art. 1 c. 22, l. n. 92/2012 eintervenuto — in controtendenza al precedente indirizzo liberista(l. n. 183/2011, art. 22 c. 4 e in precedenza art. 46 d.lgs. n. 276/2003) — per riportare sotto il controllo dell’autonomia collettivala gestione delle clausole c.d. elastiche e c.d. flessibili le quali al-l’interno del contratto individuale, regolano il potere datoriale divariazione dell’orario di lavoro. Per il lavoro intermittente il legi-slatore (cfr. art. 1 c. 21 l. n. 92/2012) e intervenuto in senso re-strittivo sia sui requisiti soggettivi sia sulle ragioni giustificatrici:queste ormai possono essere previste soltanto dai contratti collet-tivi, eccetto le prestazioni di lavoro discontinuo o di semplice at-tesa o custodia individuate preventivamente dalla legge (art. 40d.lgs. n. 276/2003 e d.m. 23 ottobre 2004) (7).

(7) Un’ulteriore stretta si e avuta col d.l. n. 76/2013 conv, in l. n. 99/2013 (art. 7, c.

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In senso ancora piu restrittivo, infine, per le prestazioni di la-voro accessorio (cfr. art. 70 ss. d.lgs. n. 276/2033 e succ. mod.) illegislatore — dopo avere eliminato (cfr. art. 22 c. 4 d.lgs. n. 112/2008 conv. in l. n. 133/2008 che ha abrogato l’art. 71 d.lgs. n. 276/2003) l’originario riferimento ad una predeterminata tipologiadelle attivita e delle categorie di persone disponibili alla presta-zione — con l’art. 1, c. 32, l. n. 92/2012 e intervenuto per sosti-tuire l’art. 70 d.lgs. n. 276/2003 prevedendo che le prestazioni de-vono essere meramente occasionali (8) e possono essere rese inqualsiasi tipo di attivita purche di ridotto valore economico: icompensi annualmente erogati al lavoratore non possono esseresuperiori ad una determinata ‘‘soglia’’ (E 5000 da piu commit-tenti, E 3000 da un solo committente). E stato inoltre fissato, conevidente intento antielusivo degli obblighi previdenziali, un limitemassimo al ricorso alle prestazioni di tipo accessorio presso le im-prese.

2.3. Il contratto a tempo determinato.

Un ruolo centrale tra i rapporti atipici ha il contratto di la-voro a tempo determinato (si v. il d.lgs. n. 368/2001 e successivemodificazioni), riconosciuto ormai dalla legge come strumento or-dinario della flessibilita del rapporto, in alternativa alle forme dilavoro (pseudo) autonomo. La riforma M.F. riafferma in positivo(‘‘Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituiscela forma comune di rapporto di lavoro’’ recita, riscrivendo il c. 01d.lgs. n. 368/2001, il c. 9 lett. a) art. 1 l. n. 92/2012; ma si v. ancheil c. 1 lett. a)) il tradizionale principio della eccezionalita dell’ap-posizione del termine che deve essere giustificata (‘‘consentita’’dice l’art. 1 c. 1 d.lgs. n. 368/2001) da una delle ragioni previste(per altro, genericamente) dalla legge (9).

2, lett. a)) che ha introdotto un ‘‘tetto’’ di 400 giornate di lavoro effettivo nell’arco di 3

anni solari rese al medesimo datore, oltre il quale il rapporto si considera di lavoro subordi-

nato a tempo pieno e indeterminato.

(8) Anche qui il d.lgs. n. 79/2013 conv. in l. n. 99/2013 e intervenuto (art. 7 c. 2 lett.

c) per ampliare l’ambito applicativo escludendo che le prestazioni debbano avere carattere

meramente occasionale e ripristinando la competenza ministeriale a stabilire specifiche re-

gole per determinate categorie di lavoratori.

(9) L’art. 1 c. 1 recita: E consentita l’apposizione di un termine alla durata del con-

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A questa esigenza di giustificazione oltre che di trasparenza, ecollegata la previsione a pena di inefficacia-nullita (art. 1 c. 2)della forma scritta per l’apposizione del termine nonche per laspecificazione e quindi la immodificabilita delle ragioni addottedal datore.

La riforma M.F. ha sostanzialmente modificato questoschema rigido di giustificazione introducendo una importante no-vita: la c. d. acausalita o liberta (in pratica, assenza di giustifica-zione) dell’apposizione del termine sino ad un massimo di 12 mesi(cfr. art. 1 c. 1-bis d.lgs. n. 368/2001 nel testo modificato dal c. 9lett. d) l. n. 92/2012) non prorogabili (cfr. c. 2-bis art. 4 d.lgs.n. 368/2001) (10) nel primo contratto a tempo indeterminato sti-pulato tra le parti; (la disposizione vale anche per la somministra-zione a tempo determinato e cioe per la prima missione dei lavo-ratori presso lo stesso utilizzatore).

Altre innovazioni rilevanti sono: a) l’innalzamento dei periodidi c.d. tolleranza in caso di prosecuzione (c.d. proroga tacita) delrapporto e dei periodi di intervallo obbligatorio tra un contrattoa termine e il seguente in caso di successione o reiterazioni tra leparti; b) l’espansione della competenza a normativa delegata aicontratti collettivi anche a livello decentrato, autorizzati a modi-ficare e derogare la disciplina legale introducendo elementi di fles-sibilita ulteriore sia causale sia temporale ivi compresa la duratamassima del rapporto acausale (per quest’ultimo il limite dei 12mesi puo essere superato ma su autorizzazione dei contratti col-lettivi e per non piu del 6% degli occupati nell’unita produttiva,e soltanto nel caso in cui l’assunzione avvenga nell’ambito di unprocesso organizzativo avviato in una delle ipotesi previste dal-l’art. 5 c. 3 d.lgs. n. 368/2001). A parte sta la introduzione (art. 2c. 28-30 l. n. 92/2012) di una sanzione economica a disincentivodel ricorso al lavoro a tempo determinato: tale e l’imposizione diuna aliquota contributiva aggiuntiva (1,4%); la legge prevede larestituzione in caso di trasformazione in rapporto a tempo inde-terminato.

tratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo esostitutivo anche se riferibili alla ordinaria attivita del datore di lavoro.

(10) La norma e stata abrogata dall’art. 7 c. 1 lett. b) d.lgs. n. 76/2013 conv. in l.

n. 99/2013 che ha inserito nel testo dell’art. 1, c. 1-bis, d.lgs. n. 368/2001 l’inciso compren-siva di ulteriore proroga’’ non ha in realta introdotto alcuna modifica.

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Mentre queste ultime disposizioni non si distaccano dal conso-lidato indirizzo restrittivo, ben diverso e il valore da attribuirealla acausalita, chiaramente finalizzata favorire — in funzione diuna maggiore occupazione — la domanda di lavoro flessibile. Lac.d. acausalita modifica radicalmente la disciplina del contratto atempo determinato. Infatti, la liberta delle parti essendo ormai laregola per la prima assunzione (eccetto l’ipotesi, presumibilmenterara, dell’apposizione iniziale di un termine superiore ai 12 mesi),il vincolo della giustificazione del termine vede restringersi la suavalenza di principio (o regola generale) restando operativo sol-tanto nel caso di reiterazione (o rinnovo a catena) dei rapporti atempo determinato, la cui repressione — sanzionata con la tra-sformazione in rapporto a tempo indeterminato dal secondo con-tratto in poi (e dunque ex nunc) oppure, quando non vi sia statasoluzione di continuita, ex tunc (cfr. art. 5 c. 3 e c. 4) — diventacosı il cardine della nuova disciplina dell’istituto (in conformita,del resto, alla Direttiva 99/70 CE e alla giurisprudenza della Cortedi giustizia secondo la quale e illegittima la normativa interna chenon imponga la giustificazione obiettiva oppure un ‘‘tetto’’ mas-simo ai rinnovi).

Vi e stata quindi una liberalizzazione controllata del con-tratto a termine la cui apposizione, non essendo piu necessaria-mente collegata all’obiettiva temporaneita dell’occupazione, vienerestituita all’autonomia individuale anche se conserva il suo ca-rattere eccezionale, come ribadito dalla stessa legge di riforma ecome conferma la previsione di un limite di durata massima di 36mesi comprensivi di proroghe e rinnovi oltre il quale il rapporto dilavoro si considera a tempo indeterminato (art. 5 c. 4-bis d.lgs.n. 368/2003): una vera e propria norma di chiusura a presidio delfavor legislativo per il rapporto a tempo indeterminato.

E da notare, infine, che quest’ultima disposizione non si ap-plica alla somministrazione di lavoro a tempo determinato chedunque puo essere reiterata senza alcun limite massimo (‘‘tetto’’),Per il resto si conferma la fungibilita tra i due istituti: infatti ladisciplina legale del contratto a tempo determinato si applica di-rettamente, in quanto compatibile — ma con espressa esclusionedelle disposizioni (c. 3 e ss. art. 5 d.lgs. n. 368/2001) relative allasuccessone dei contratti — al rapporto instaurato tra l’agenzia eil lavoratore che sia stato da questa assunto a tempo determinato(cfr. art. 22 c. 2 d.lgs. n. 276/2003); mentre per il contratto di for-

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nitura stipulato tra l’agenzia e il soggetto utilizzatore trova appli-cazione una disciplina solo in parte simile (in particolare le ragionigiustificatrici sono identiche: cfr. art. 20 d.lgs. n. 276/2003).

2.4. Il lavoro autonomo a progetto.

Il lavoro autonomo a progetto e stato sottoposto ad una so-stanziale revisione che, mentre ne conferma la fisionomia di con-tratto di lavoro autonomo continuativo e coordinato (cfr. art. 61e ss. d.lgs. n. 276/2003), restringe notevolmente la fattispecie equindi le condizioni d’uso di questo modello contrattuale.

La rigidita della fattispecie dipende non tanto dalla ridefini-zione dell’oggetto della prestazione — l’esecuzione di uno o piuprogetti (e non piu anche di uno o piu programmi di lavoro o fasidi esso) specifici, individuati dal committente, cui l’art. 61 c. 1(nel testo sostituito dal c. 23 art. 1 l. n. 92/2012) continua ad asse-gnare la funzione di determinare la prestazione del collaboratore,— quanto dalla restrizione dei requisiti per la sua individuazione(oltre che specifico, il progetto deve essere gestito autonoma-mente dal collaboratore e funzionalmente collegato ad un risul-tato finale da valutare indipendentemente dal tempo impiegatoper la sua esecuzione). Da cio un evidente rafforzamento del vin-colo della riconduzione a progetto del rapporto concretamente in-staurato tra le parti.

In funzione antielusiva e stata inoltre rafforzata la qualifica-zione inderogabile (c.d. presunzione assoluta) di subordinazioneper i rapporti di collaborazione instaurati senza l’individuazione diuno specifico progetto (cosı il nuovo art. 69 c. 1) ed e stata intro-dotta (c. 24 art. 1 l. n. 92/2012) una norma — definita di interpre-tazione autentica dello stesso art. 69 c. 1 ma in realta innovativa— che qualifica esplicitamente il progetto come elemento essenzialedi validita del rapporto (meglio: del contratto). L’assenza o la ge-nericita del progetto, pertanto, determina ex tunc e quindi dalladata della sua costituzione, la natura subordinata e la durata in-determinata del rapporto di lavoro.

Sulla medesima linea antielusiva sono state poi introdotti nel-l’art. 61 (si v. ancora il c. 23 lett. a) art. 1) ulteriori requisiti tipiz-zanti della subordinazione e che la legge ricava da determinatecircostanze valutate come essenziali per l’esclusione della natura

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autonoma della collaborazione: tra queste la coincidenza del pro-getto con l’oggetto sociale (meglio: con l’attivita ordinaria) delcommittente; lo svolgimento di compiti esecutivi o ripetitivi (11),eventualmente individuati dai contratti collettivi oppure con mo-dalita (mansioni) analoghe a quelle svolte dai dipendenti del com-mittente (in questa seconda ipotesi, sono pero eccettuate le pre-stazioni individuate dai contratti collettivi come di elevata pro-fessionalita ed e comunque fatta salva la prova contraria cfr. art.69 c. 2).

Queste restrizioni — le quali mirano a riportare le pseudocol-laborazioni nell’alveo del lavoro subordinato e a circoscrivere l’a-rea professionale e sociale delle collaborazioni genuine — configu-rano altrettante presunzioni legali (per le quali e ammessa laprova contraria: art. 2727 c.c.) e sono in misura piu o meno ampiaderogabili dai contratti collettivi. In ogni caso la loro previsione esintomatica non solo della funzione antielusiva assegnata dal legi-slatore alla disciplina del lavoro a progetto ma ancor piu dell’in-tenzione di delimitarne con rigore (e forse a scoraggiarne l’im-piego) la fattispecie, la cui identita sembra ormai doversi ricavaredal contenuto tecnico-professionale e, in definitiva, dalla qualitadella prestazione del collaboratore. Rilevante non e piu tantol’autonomia come modalita esecutiva della prestazione (12) equindi l’assenza del vincolo della subordinazione (come richiestodall’art. 2222 c.c.), quanto la tipicita sociale del progetto o meglio,dell’attivita necessaria per la sua esecuzione.

Si ha dunque un evidente scostamento dal modello del con-tratto d’opera e un avvicinamento alle caratteristiche e alle tuteletipiche del lavoro subordinato. Cio trova conferma nello specialestatuto protettivo disegnato dagli art. 63 ss. d.lgs. n. 276/2003 perla figura del collaboratore e consistente in un apparato di tutele— tra le quali il compenso minimo garantito dai contratti collet-tivi; la sospensione del rapporto, benche ridotta nel tempo, incaso di malattia, infortunio o gravidanza del collaboratore; la pre-

(11) Il d.lgs. n. 76/2013 (art. 7 c. 2 lett. c) ha sostituito queste parole con quelle ese-cutivi e ripetitivi.

(12) E nello stesso tempo come effetto della imputazione al collaboratore del rischio

della quantita di lavoro e quindi del tempo necessario alla produzione del servizio o risul-

tato finale (richiamo il mio Dai rapporti di collaborazione al lavoro a progetto in E. GHERA,

Il nuovo diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2006, p. 46 ss. e p. 51 ss.

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visione del recesso per giusta causa in favore di entrambe le parti— simili, anche se assai meno gravose per il committente — ai di-ritti riconosciuti al lavoratore subordinato ed ugualmente assistitedalla forza della norma inderogabile: arg. art. 61 c. 4).

Tutto questo non basta pero a superare l’equivoco che si an-nida nella previsione di un modello contrattuale concepito — nel-l’intenzione del legislatore del 2003 — come intermedio tra il la-voro subordinato e il lavoro autonomo. Un tertium genus di im-possibile costruzione in un sistema, come e il nostro, nato dall’ap-plicazione alle prestazioni di lavoro personale dello schema dellalocazione delle opere; e, di conseguenza, impostato sulla biparti-zione tra subordinazione ed autonomia.

All’interno del sistema bipartito la Legge Biagi ha introdottouna variante (sottotipo) del contratto d’opera qualificata da unelemento — il progetto — meramente descrittivo della presta-zione richiesta al collaboratore e percio inidoneo a distinguerladalla prestazione del lavoratore subordinato (13). Ed invero l’ese-cuzione del progetto, per un verso, si presenta come una tipicaprestazione di lavoro autonomo e quindi di risultato (nel senso dirisultato de lavoro); ma, per altro verso, si inserisce in un rapportodi collaborazione non solo continuativa ma altresı coordinata conl’organizzazione del committente: si ha dunque una obbligazionedi risultato e insieme di durata (ad esecuzione continuata) nondissimile, per questo aspetto, dall’obbligazione tipica del presta-tore di lavoro subordinato (rinvio al mio: Dai rapporti di collabo-razione coordinata e continuativa al lavoro a progetto in E. GHERA,Il nuovo diritto del lavoro, cit., p. 24 ss. e p. 37 ss.).

Ne deriva un elemento di ambiguita se non di aperta contrad-dizione, che e all’origine, nel diritto vivente di formazione giuri-sprudenziale, della riluttanza dei giudici a prendere atto che ilconcetto positivo (legislativo) di collaborazione ha nel lavoro aprogetto una valenza del tutto simile a quella che ha nel lavorosubordinato Ed infatti come nell’art. 2094 c.c. la collaborazione ela qualificazione funzionale della subordinazione (da intendersiquesta, a sua volta, in senso comprensivo non solo della eterodire-zione ma altresı del coordinamento del lavoro prestato dal dipen-

(13) A sostegno di questa e delle altre affermazioni che seguono rinvio al mio Dairapporti di collaborazione..., p. 32 ss.

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dente) cosı nel lavoro autonomo a progetto la collaborazione qua-lifica la funzione dell’attivita necessaria per la realizzazione delprogetto: di tal che la collaborazione autonoma, al pari di quellasubordinata, e finalizzata ad integrare il risultato prodotto nel-l’impresa del committente.

Il legislatore del 2012 non ha risolto la contraddizione ma anzila ha aggravata, sovraccaricando la fattispecie di elementi rite-nuti aprioristicamente presuntivi della subordinazione (14). La ri-luttanza degli interpreti (e in specie, la contrarieta della giuri-sprudenza) a prendere atto di questa ambivalenza e stata e conti-nua ad essere la causa dei numerosi contenziosi generati dallaLegge Biagi prima e ora — e da presumere — nella riforma M.F.— e che, a loro volta, sono anche la conferma della scarsa utilitadi un modello contrattuale che si dimostrato nella realta tutt’al-tro che flessibile e la cui collocazione nell’universo del mercato dellavoro resta marginale.

2.5. Il lavoro autonomo economicamente dipendente.

Ancora piu evidente e l’obiettivo antielusivo della disciplina(art. 69-bis d.lgs. n. 276/2003 aggiunto dal c. 26 art. 1 l. n. 92/2012) del lavoro autonomo economicamente dipendente, la cui previ-sione costituisce una novita assoluta della riforma M.F.. Si trattadi una fattispecie di lavoro prestato senza vincolo di subordina-zione e quindi effettivamente autonomo (diversamente, la fatti-specie ricadrebbe in quella del lavoro subordinato); ma tuttaviaconsiderata dal legislatore negativamente, come via di fuga dal la-voro subordinato.

La norma stabilisce una presunzione — con espressa salvezzadella prova contraria e quindi relativa — della natura continua-tiva e coordinata della prestazione d’opera quando sia resa da unsoggetto titolare di posizione fiscale IVA e siano altresı presentialmeno due su tre dei presupposti (temporale, reddituale, logi-stico) (15) ritenuti indicatori, salvo prova contraria, dell’esistenza

(14) Per analoghe osservazioni cfr. G. FERRARO, La flessibilita in entrata: nuovi evecchi modelli di lavoro flessibile, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, p. 567 ss. e, ivi, p. 575 ss.

(15) Tali presupposti sono: a) durata complessiva (anche non continuativa) della

prestazione o del rapporto (almeno 8 mesi annui nell’arco di un biennio solare consecutivo;

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di un rapporto di inferiorita o debolezza contrattuale e quindi dellaposizione di dipendenza economica del professionista-lavoratoreverso il proprio (unico o prevalente) committente.

La presunzione di parasubordinazione cosı stabilita, oltre cherelativa, e selettiva. Essa infatti non opera in presenza di almenouno dei tre seguenti requisiti o presupposti impeditivi: che la pre-stazione richieda elevate competenze teoriche o capacita tecnico-pratiche; che il prestatore sia titolare di un reddito di lavoro auto-nomo non inferiore ad una determinata ‘‘soglia’’ minima (16); chela prestazione rientri nell’esercizio di una attivita per la quale siarichiesta l’iscrizione ad un albo, elenco o registro professionale.

La natura economico-sociale (e l’ampiezza) dei requisiti previ-sti ai fini sia dell’inclusione sia dell’esclusione della concreta pre-stazione d’opera dal meccanismo presuntivo-qualificatorio stabi-lito dall’art. 69-bis, denota la volonta del legislatore di collegaregli effetti conseguenti alla qualificazione del rapporto all’accerta-mento, in concreto, di una situazione o posizione di dipendenzaeconomica del lavoratore autonomo; e percio di estendere l’appli-cazione del modello della collaborazione a progetto e della relativadisciplina protettiva, ai rapporti di lavoro autonomo instauraticon i titolari di partita IVA i quali, essendo legati in via continua-tiva ad un committente unico o prevalente, si trovano in condi-zione di debolezza all’interno del rapporto contrattuale. Una fat-tispecie normativa (a monte, un modello socialtipico) — quellacosı prevista — qualificata dalla natura autonoma della presta-zione di lavoro (altrimenti troverebbe diretta applicazione, suistanza in giudizio del lavoratore, lo statuto protettivo della su-bordinazione) e, simultaneamente, dalla estensione nel tempo(non necessariamente della durata di un rapporto contrattuale)delle prestazioni e, in definitiva, del rapporto economico col com-mittente.

b) corresponsione nello stesso biennio e dal medesimo committente di un importo non in-

feriore all’80% dei corrispettivi dovuti per prestazioni di lavoro autonomo o collabora-

zione coordinata; c) disponibilita di una postazione di lavoro fissa in una sede del com-

mittente. Affinche la c.d. presunzione sia operativa e sufficiente la presenza di due su trepresupposti.

(16) Tale ‘‘soglia’’ e stabilita nella misura dell’1,25% del minimo imponibile contri-

butivo per le gestioni artigiani e commercianti INPS.

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Pertanto la fattispecie cosı individuata non puo essere con-fusa con quella della collaborazione coordinata e continuativa (ingenerale prevista dall’art. 409 n. 3 c.p.c.) ne puo essere assimilataalla mera precarieta o temporaneita dell’occupazione. Non si e inpresenza di una posizione (o situazione) di sottoprotezione socialepreesistente al rapporto di lavoro autonomo ma, al contrario, diuna relazione o condizione di inferiorita economica derivantedalla posizione dominante del committente, che il legislatore indi-vidua e considera rilevante esclusivamente nell’area del lavoroautonomo, come antidoto alla elusione della disciplina del lavorosubordinato.

Cosı definita, la dipendenza economica entra nell’ordinamentonon come categoria generale comprensiva delle diverse forme didebolezza o asimmetria di potere contrattuale che si riscontranoin diversi tipi di contratto (a cominciare dal lavoro subordinato);ne come surrogato della c.d. subordinazione socioeconomica dellavoratore: una nozione, quest’ultima, utilizzata da una correntedottrinale per integrare o sostituire la nozione della subordina-zione tecnico-funzionale tipizzata dall’art. 2094 c.c.. Piuttostonella fattispecie introdotta dalla riforma M.F. e determinata inbase a criteri — come si e visto — economici, va ravvisata una fi-gura alternativa alla subordinazione tipica del lavoratore (anchenella sua versione socioeconomica) e specificamente rivolta ad in-dividuare non un tipo o sottotipo di contratto ma una categoriadi rapporti di lavoro autonomo caratterizzati dalla condizione diinferiorita e/o ridotto potere contrattuale del prestatore d’operaverso il committente unico o prevalente. In definitiva la dipen-denza economica e una situazione (o posizione) di inferiorita dellavoratore non come persona ma come soggetto contrattuale; e ri-levante esclusivamente all’interno del rapporto e nello spazio va-riegato del lavoro autonomo.

La tecnica adoperata dal legislatore, distaccandosi dal con-sueto modello della sostituzione di diritto (art. 1419 c. 2 c.c.), equella della estensione della disciplina degli artt. 61 ss. d.lgs.n. 276/2003 ad un rapporto che resta di natura autonoma. Non siha infatti una sostituzione ope legis di un contratto pseudoauto-nomo ma equiparazione del lavoro autonomo economicamente di-pendente al modello contrattuale della collaborazione a progetto.Si noti che tale equiparazione non e limitata alla disciplina delrapporto (e quindi allo statuto protettivo attenuato previsto per

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il collaboratore) ma include — per espressa disposizione del c. 4art. 69-bis — l’applicazione della presunzione assoluta di subordi-nazione stabilita nel c. 1 dell’art. 69 per i rapporti di collabora-zione instaurati senza uno specifico progetto (17). Di tal che ovel’incarico professionale o la prestazione d’opera, anche reiterata,si protragga nel tempo e sia stata pattuita o eseguita senza la pre-visione o comunque l’attuazione di un progetto specifico, la riqua-lificazione come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeter-minato sara inevitabile.

L’effetto ultimo (e cumulativo) del doppio meccanismo pre-suntivo-qualificatorio e quindi l’estensione dello statuto protet-tivo della subordinazione alle diverse forme di lavoro autonomocontinuativo anche se non coordinato, che sia prestato da un sog-getto in posizione di dipendenza economica. Una conseguenza ve-ramente eccessiva dal punto di vista non solo della compressionedella liberta contrattuale delle parti, la cui volonta viene cancel-lata, ma anche della ragionevolezza dell’intervento effettuato dallegislatore: soprattutto per i possibili effetti negativi sull’occupa-zione. Anziche creare posti di lavoro, la stretta sulle partite IVAspinge verso il lavoro irregolare e avra il presumibile effetto di in-durre i contraenti ad espedienti finalizzati a mascherare la veranatura del rapporto (ad esempio formalizzando progetti piu omeno fittizi a copertura dell’esecuzione, piu o meno prolungatanel tempo, di un’opera o di un servizio continuativo ma senzavincolo di subordinazione).

2.6. L’associazione in partecipazione.

La stessa finalita antielusiva e alla base della nuova disciplinadel contratto di associazione in partecipazione con apporto di la-voro (art. 2549 c. 2 c.c.). Anche qui la ratio della norma aggiuntadalla riforma M.F. (art. 1 c. 28 l. n. 92/2012) alla originaria dispo-sizione del Codice e evidente: il legislatore si propone di impedireche, mediante l’apporto di una prestazione di lavoro da parte del-l’associato, questo contratto la cui natura associativa oppure si-nallagmatica e discussa — nella dottrina — sia utilizzato in luogo

(17) Una interpretazione correttiva — ma dichiaratamente extratestuale e dunque

alternativa — e proposta da G. FERRARO, op. cit., p. 12 ss.

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del rapporto di lavoro subordinato e allo scopo di sottrarsi alla di-sciplina protettiva.

La soluzione adottata e drastica: l’impiego di piu di tre asso-ciati-lavoratori nella medesima attivita dell’associante determina— per una sorta di effetto transitivo che sembra derogare il prin-cipio della efficacia relativa al contratto (art. 1372 c.c.) — la tra-sformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indetermi-nato non di un singolo contratto di associazione ma di tutti i con-tratti in essere con gli associati-lavoratori presenti nell’unita pro-duttiva (18).

3. La flessibilita in uscita. Verso la flexicurity.

La riforma M.F. e intervenuta sulla flessibilita in uscita modi-ficando sostanzialmente l’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Unanorma-simbolo, emblematica di una stagione di conquiste sociali eun indispensabile strumento di tutela, per gli uni (sindacati e sini-stra politica); per gli altri (imprese e centrodestra) una norma di-venuta inattuale — ed un vincolo da rimuovere — a causa dellasua incompatibilita con un mercato del lavoro efficiente ed un si-stema produttivo aperto alla competizione su scala planetaria. Illegislatore ha dovuto quindi muoversi in una contesto politica-mente difficile e di conflitto ideologico, spesso aspro, nel quale si eproposto l’obiettivo di allentare la correlazione necessaria tra li-cenziamento illegittimo e reintegrazione.

Il risultato e stato un compromesso: la riscrittura dell’art. 18l. n. 300/1970, con la quale e stata introdotta la previsione di unaindennita risarcitoria da 12 a 24 mensilita della retribuzione glo-bale di fatto come alternativa economica alla reintegrazione dellavoratore ingiustamente licenziato.

La nuova legge non interviene sulle fattispecie normative —giustificato motivo e giusta causa — che permettono al datore l’e-sercizio del diritto di recesso unilaterale del contratto di lavoro.

(18) Il d.l. n. 76/2013 conv. in l. n. 99/2013 (art. 7 c. 5 lett. a) n. 2 bis) ha ritenuto

necessario integrare l’art. 2549 c. 2 c.c. per introdurre due ristrette eccezioni all’effetto san-

zionatorio della trasformazione del rapporto: sono esclusi gli associati individuati dall’as-

semblea nelle imprese mutualistiche e gli associati nel settore delle registrazioni audiovi-

sive.

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Sia le cause di giustificazione sia, a monte, il diritto alla stabilitadel lavoratore nel rapporto a tempo indeterminato restano inalte-rati. La riforma ha invece modificato radicalmente il sistema san-zionatorio previsto come reazione al licenziamento ingiustificato ocomunque illegittimo (fin qui caratterizzato dalla tutela della sta-bilita attraverso il rimedio della reintegrazione nel posto di la-voro). La novella dell’art. 18 riguarda dunque l’area della tutelac.d. reale e cioe il cui campo di applicazione resta invariato nei re-quisiti oggettivi e soggettivi: cfr. c. 8 art. 18 l. n. 92/2012). Nulla(o quasi: si pensi al motivo illecito) quindi cambia nell’area dellatutela obbligatoria e quindi per i piccoli datori di lavoro e i loro di-pendenti (cfr. art. 8 l. n. 604/1966).

3.1. Luci ed ombre della riforma.

Se si tiene conto di questi precedenti l’esito finale della ri-forma puo dirsi criticabile ma non inaccettabile. Nel nuovo art.18 non mancano infatti gli aspetti positivi: a) la fissazione di un‘‘tetto’’ (12 mensilita della retribuzione di fatto) al risarcimentodovuto per l’intervallo tra licenziamento e la sentenza di annulla-mento (c.d. medio tempore) e fermo restando l’importo minimodelle 5 mensilita di indennita a sanzione del recesso illecito; b) larimodulazione dell’indennita risarcitoria in caso di inottempe-ranza all’ordine di reintegrazione (detrazione di quanto percepitodal lavoratore per altre attivita: aliunde perceptum; nonche in de-terminate ipotesi, di quanto il lavoratore avrebbe potuto perce-pire usando la ordinaria diligenza nella ricerca di una occupa-zione: aliunde percipiendum); c) la sanzione solo risarcitoria (max12 mensilita) per i vizi di forma e di procedimento.

Nel loro insieme queste innovazioni sono giustificate dall’esi-genza, largamente avvertita dagli interpreti, di integrare talunelacune del vecchio art. 18 e soprattutto di assicurare un riequili-brio tra gli opposti interessi fissando entro limiti certi l’importodel risarcimento dovuto al lavoratore nel caso in cui il datore siarimasto soccombente nel giudizio di impugnazione del licenzia-mento. E stato cosı sostanzialmente ridimensionato il rischio delprolungamento dei tempi del processo che, in caso di soccom-benza del datore, lo aggravava di oneri risarcitori eccessivi ed im-prevedibili a beneficio del dipendente reintegrato.

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Un’altra innovazione e costituita (cfr. art. 1 c. 40-41 l. n. 92/2012, che ha novellato l’art. 7 l. n. 604/1966) dalla procedura ob-bligatoria di conciliazione da espletarsi in sede amministrativaprima della comunicazione al lavoratore del licenziamento pergiustificato motivo oggettivo. La procedura preventiva costitui-sce un ‘‘filtro’’ la cui utilita e indubbia per verificare le effettiveragioni dell’azienda e spingere verso un accordo di risoluzioneconsensuale incentivata economicamente. Averla prevista e resaobbligatoria va nella giusta direzione di prevenire un successivocontenzioso e permette altresı di distinguere, gia nella fase stra-giudiziale, la trattazione del licenziamento per ragioni economichedalla trattazione del licenziamento disciplinare.

Quanto agli aspetti negativi o comunque problematici vienesubito da criticare l’introduzione di un rito speciale per la do-manda di impugnazione del licenziamento (art. 1 c. 47-69) model-lato sul procedimento di repressione della condotta antisindacaleed articolato in ben quattro fasi di cui le prime due di primogrado (una sommaria e l’altra di cognizione piena). Giustificatodall’esigenza di assicurare una corsia preferenziale all’impugna-zione del licenziamento illegittimo (e percio caratterizzata dallaprevisione di termini abbreviati nel procedimento), il nuovo rito— del tutto non coordinato con le recenti riforme del processo ci-vile (d.lgs. n. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei proce-dimenti di cognizione) — e un duplicato del normale procedi-mento d’urgenza (art. 700 c.p.c.); e rischia di essere una inutilecomplicazione, se non altro nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente,di proposizione di una pluralita di domande da parte del lavora-tore che, oltre ad impugnare il licenziamento, chieda il soddisfaci-mento di altre pretese connesse al rapporto: l’effetto di siffattocumulo potrebbe essere la duplicazione dei giudizi e in ogni casoun allungamento dei tempi della giustizia.

Anche l’alternativa tra reintegrazione e indennita — che co-stituisce il cuore della riforma — presenta non pochi aspetti nega-tivi. Le perplessita nascono non dalla alternativa di per se — in-novazione sicuramente utile e da approvare — ma dal modo ag-grovigliato ed atecnico tenuto dal legislatore per la sua attua-zione. Sarebbe stato preferibile demandare la scelta tra rimedioripristinatorio e rimedio risarcitorio alla discrezionalita del giu-dice, eventualmente enunciando alcuni criteri di massima: adesempio l’effettiva difficolta o impossibilita nel caso concreto

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della riammissione in servizio (si pensi al caso, non infrequente,della soppressione di un reparto o della cessazione di una attivitao perfino di tutte le attivita dell’azienda); oppure in relazione allacondotta del lavoratore: si pensi alla difficolta di ripristinare unaeffettiva collaborazione tra le parti. Viceversa, nel timore diaprire la strada alla valutazione soggettiva del giudice, e stato co-struito un congegno inedito: un sistema misto tra reintegrazione eindennita, collegato ad una graduazione della infondatezza delmotivo addotto per giustificare il licenziamento.

3.2. L’alternativa sanzionatoria: reintegrazione o indennita.

Il legislatore ha voluto distinguere due ipotesi nelle quali il li-cenziamento illegittimo continua ad essere sanzionato con la rein-tegrazione. Per il licenziamento per motivo soggettivo (c.d. disci-plinare) la insussistenza del fatto contestato al lavoratore (come ina-dempimento notevole ai sensi dell’art. 3 l. n. 604/1966), cui eequiparata l’ipotesi che il fatto contestato sia previsto dal con-tratto collettivo o dal codice disciplinare aziendale soltanto ai finidell’irrogazione di una sanzione conservativa. Oppure, per il licen-ziamento per motivo oggettivo (ed e la seconda ipotesi), la mani-festa insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. Tale fattodeve avere natura aziendale (cfr. art. 3 l. n. 604/1966) sia esso ditipo gestionale e cioe riconducibile all’esigenza di sopprimere unadeterminata posizione (posto) di lavoro; oppure di natura perso-nale e cioe attinente alla incapacita o alla impossibilita del lavora-tore di rendere la prestazione, tra cui l’espressa previsione del su-peramento del comporto di malattia (cfr. c. 1 art. 4 l. n. 92/2012che ha novellato l’art. 18: si veda in specie il c. 5). Nelle restantiipotesi si applichera la sanzione indennitaria.

Va detto che la nuova disciplina dell’apparato sanzionatorio,ormai quadripartito, e affetta da un evidente sovraccarico di con-cetti. Ed infatti nel nuovo art. 18 si distingue tra reintegrazionepiena (c. 1: licenziamento discriminatorio o altrimenti nullo: mo-tivo illecito) e reintegrazione attenuata (c. 4 e c. 7: licenziamentoingiustificato per insussistenza o manifesta insussistenza del(fatto costitutivo del) motivo addotto); tra indennita risarcitoriain misura piena (c. 5: licenziamento ingiustificato non qualificatodalla insussistenza del fatto) e indennita risarcitoria in misura ri-

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dotta (c. 6: licenziamento invalido o inefficace per vizi di forma odi procedimento del (negozio di) recesso unilaterale, eccetto peroil caso del licenziamento orale sanzionato con la reintegrazionepiena, in quanto nullo).

Tale sovraccarico rifluisce non sulla tipologia delle fattispeciecausali (o di giustificazione) del licenziamento — che non sonostate toccate dalla riforma — ma sulle modalita del loro accerta-mento. Ed invero poiche nel nostro ordinamento il licenziamentoe — eccetto alcune ipotesi marginali — vincolato al presupposto(giustificato motivo o giusta causa: cfr. art. 1 l. n. 604/1966) ido-neo a giustificare il recesso dell’imprenditore, cio che si deve ac-certare in giudizio — oggi come ieri (e cioe prima della riformaM.F.) — e l’esistenza non solo materiale ma giuridicamente rile-vante di tale presupposto e cioe del fatto previsto dalla legge (art.3 l. n. 604/1966; art. 2119 c.c.) — come causa giustificatrice del li-cenziamento.

Per altro oggi ai sensi del nuovo art. 18 il procedimento lo-gico-giuridico da seguire si presenta articolato in due fasi distinte:la prima, nell’ipotesi di licenziamento per motivo soggettivo, rela-tiva alla rilevanza disciplinare della condotta del lavoratore (inparticolare come inadempimento notevole ai sensi dell’art. 3 ogiusta causa ex art. 2119 c.c.); la seconda — necessaria evidente-mente solo nel caso di esito affermativo della precedente — di va-lutazione della entita (o gravita) della condotta e quindi della pro-porzionalita (cfr. art. 2106 c.c.) della sanzione espulsiva all’infra-zione, a meno che questa sia punita dal contratto collettivo o dalcodice disciplinare con una sanzione conservativa (nel qual casola seconda fase e superflua). Analogamente nell’ipotesi di licenzia-mento per motivo oggettivo (o economico): qui l’accertamentogiudiziale avra ad oggetto — nella prima fase — non la scelta eco-nomica in se (insindacabile ai sensi dell’art. 30 c. 1 l. n. 183/2010),ma la rilevanza o ricaduta in concreto sull’attivita produttiva el’organizzazione del lavoro (in genere: nell’ economia dell’azienda),del fatto gestionale addotto come motivo del licenziamento; nellaseconda fase (anche qui eventuale), oggetto dell’accertamentosara il rapporto di causalita finale (e cioe di mezzo al fine, libera-mente valutato dall’imprenditore) tra il fatto gestionale stesso,ove provato ed accertato, e la soppressione di una determinataposizione o posto di lavoro.

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Si noti che, in entrambe le ipotesi, il giudizio sulla sussistenza(semplice o manifesta) del fatto non e un giudizio di realta, ricon-ducibile all’elementare distinzione tra l’essere e il non essere (19),ma un giudizio di valore e cioe di qualificazione giuridica dellarealta sociale. Pertanto nel nuovo art. 18 sussistenza del fatto (c.4) o manifesta insussistenza del fatto (c. 7) equivale a rilevanza oqualificazione del fatto — a stregua delle norme di legge e delledefinizioni ivi contenute — quale presupposto causale del licen-ziamento per motivo, secondo il caso, soggettivo oppure ogget-tivo. Se questo e vero, si coglie tutta l’equivocita — e l’ambiguitainterpretativa — delle parole usate dal legislatore: volendo stabi-lire i presupposti in base ai quali il giudice e chiamato a scioglierel’alternativa tra reintegrazione e indennita, non ha tenuto contoche la distinzione tra sussistenza e insussistenza del fatto, logica-mente chiara se riferita alla realta o verita materiale, da un puntodi vista necessariamente valutativo, come e quello giuridico di-venta difficile e persino inafferrabile.

3.3. Il ruolo del giudice.

Da quanto detto sembra da escludere che la riscrittura del-l’art. 18 abbia introdotto nel nostro ordinamento, e sia pure sol-tanto agli effetti sanzionatori, una fattispecie (intermedia?) digiustificazione insufficiente del licenziamento il cui accertamentovincolerebbe il giudice ad applicare il rimedio risarcitorio. Piutto-sto e da ritenere che la norma si sia limitata a disporre una gra-duazione delle sanzioni come reazione ad una fattispecie unitaria eben determinata come rimane il licenziamento ingiustificato. Per-tanto solo se il fatto contestato non ha alcuna rilevanza discipli-nare il giudice dovra annullare il licenziamento ed ordinare la rein-tegrazione; se invece l’inadempimento sussiste ma non e cosıgrave da giustificare il licenziamento, il giudice dovra condannareall’indennita, dichiarando la risoluzione del rapporto. Simile l’al-ternativa nell’ipotesi di motivo oggettivo: se la ragione economicaaddotta non e concretamente riscontrabile nell’andamento azien-dale il giudice potra ordinare la reintegrazione; se invece il sud-

(19) Cosı invece A. MARESCA, Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: lemodifiche dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, II, p. 415 ss.

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detto riscontro e affermativo, sara da valutare il nesso o rapportodi causalita, in concreto, tra la ragione addotta e la soppressionedi un determinato posto di lavoro: un nesso quindi da accertarecon particolare rigore (ad esempio, l’impossibilita del c.d. ripe-scaggio o repechage) ma che, ove sia accertato, non lascia alterna-tiva: il giudice dovra disporre l’indennita e dichiarare la risolu-zione del rapporto.

Resta quindi confermato che — almeno nel disegno del legi-slatore — la regola (20) per sanzionare il licenziamento ingiustifi-cato e la tutela indennitaria; mentre la tutela ripristinatoria el’eccezione (tra le eccezioni e compreso il caso in cui il licenzia-mento sia stato motivato da un fatto o da una situazione (adesempio il superamento del comporto di malattia) attinente alla per-sona del lavoratore: il cui accertamento negativo e sanzionato, inogni caso con la reintegrazione cfr. c. 7 art. 18). All’inverso lareintegrazione e la regola, che non conosce eccezioni, per il licen-ziamento discriminatorio o altrimenti determinato da motivo ille-cito.

Nel nuovo art. 18 accanto alla tutela indennitaria viene cosı aconfigurarsi una ipotesi di difetto di giustificazione aggravato esanzionato con la reintegrazione che il legislatore sembra collegaread una presunta malafede o, se si vuole, colpa grave del datorenell’esercizio del diritto di recesso (si potrebbe dire — ed e statodetto (21) — di abuso di questo diritto, per avere intimato un li-cenziamento manifestamente ingiustificato). Senonche questa opi-nione — ed altre simili (il ‘‘torto marcio’’ (22) del datore di lavoro)— non convincono. Ed infatti se manca la giustificazione, e as-sente il presupposto causale del licenziamento legittimo: dunqueil datore non abusa ma, essendo privo del potere (meglio: dirittopotestativo) di recesso, agisce al di fuori del proprio diritto,creando un negozio invalido e violando immediatamente il con-trapposto diritto soggettivo del lavoratore alla stabilita del postodi lavoro.

(20) Cosı anche T. TREU, Flessibilita e tutele nelle riforma del lavoro, in G.D.L.R.I.,2013, p. 1 ss., qui p. 36 ss.

(21) A. VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012.

(22) E questa l’opinione accolta, tra gli altri, da M. PERSIANI, Il fatto rilevante per lareintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in Arg. Dir. Lav., I, 2012, p. 1 ss.: iviuna rassegna ragionata delle diverse opinioni.

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Come dire che la previsione del nuovo art. 18 configura la c.d.insussistenza del fatto (o difetto aggravato di giustificazione) comeuna fattispecie (negoziale) di recesso doppiamente illecito inquanto lesivo non solo del diritto soggettivo del lavoratore allastabilita del rapporto a tempo indeterminato ma anche dell’ob-bligo di correttezza (cfr. art. 1175 c.c.) o — meglio ancora — deldovere di solidarieta imposto (art. 2 e art. 4 Cost.) nell’eserciziodel potere di recesso ad ogni datore di lavoro. Questo, tanto piuse imprenditore e quindi titolare della liberta di iniziativa econo-mica (art. 41 Cost.) con i limiti che vii afferiscono, e obbligato aproteggere l’interesse alla conservazione del posto e a rispettare ildiritto al lavoro e la dignita del lavoratore come persona. Si com-prende allora come, attraverso l’ordine di reintegrazione, il giu-dice tutela il posto di lavoro in forma specifica soltanto nei casi incui il difetto di giustificazione del licenziamento presenta mag-giore gravita perche l’esercizio del potere di recesso lascia traspa-rire un intento se non discriminatorio, lesivo della dignita del la-voratore e, al di la di questa, in contrasto con il principio dell’uti-lita sociale.

Insomma il difetto di giustificazione aggravato dalla insussi-stenza del fatto avvicina, e di molto, il licenziamento ingiustifi-cato alle ipotesi (c. 1 art. 18) di licenziamento nullo, anche essesanzionate con la reintegrazione.

La ricostruzione proposta, al di la degli argomenti letterali esistematici che la sorreggono, non basta pero a risolvere le nonpoche ambiguita presenti in una norma la cui origine e la cui re-dazione e stata chiaramente compromissoria: distinguere tra di-fetto di giustificazione semplice oppure aggravato rimanda, inevi-tabilmente, ad un giudizio di valore e quindi, nella sostanza, alladiscrezionalita del giudice. Ancora una volta sara la giurispru-denza a decidere del successo o dell’insuccesso del nuovo art. 18.

Puo essere ragionevole ipotizzare che il giudice, una volta ac-certato il difetto di giustificazione, optera per la tutela indennita-ria tutte le volte che il motivo addotto, benche sorretto da qual-che elemento circostanziale o indiziario, sia ritenuto insufficientea giustificare il licenziamento, mentre utilizzera la tutela ripristi-natoria nei casi in cui la prova sia stata ritenuta del tutto carente.Un simile orientamento, se adottato per il licenziamento econo-mico, potrebbe indurre il giudice ad una applicazione espansivadella tutela indennitaria: e quindi a riconoscere l’indennita in al-

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cuni casi, come risarcimento della perdita del posto di lavoro esenza badare troppo agli elementi di prova dedotti a sostegnodelle ragioni aziendali.

In ogni caso la discrezionalita del giudice sara molto ampia.Anche per questo aspetto viene in luce la irrazionalita della sceltaopportunistica del legislatore il quale — non avendo potuto, acausa dei condizionamenti politici, realizzare chiaramente l’obiet-tivo di introdurre la regola della tutela obbligatoria, relegando alrango di eccezione la tutela reale — ha finito col nascondere lasua intenzione dietro l’alternativa tra rimedio risarcitorio e rime-dio ripristinatorio. Se questo e vero, la complicazione di cui e por-tatrice tale alternativa non e un incidente di percorso, un erroretecnico del legislatore, ma e il frutto di una scelta deliberata, in-tesa a guidare anche se in termini non tassativi, la discrezionalitadel giudice; ed altresı finalizzata ad influire sull’atteggiamento deidatori di lavoro, se non altro perche la graduazione delle sanzioniha un effetto condizionante sull’esercizio in concreto del potere direcesso (detto altrimenti: anche se non e piu automatico, il ‘‘ri-schio’’ della reintegrazione continua a fungere da deterrente).

3.4. Licenziamento disciplinare e licenziamento economico.

Queste considerazioni confermano come la vera criticita delladisciplina del licenziamento sia la tutela del lavoratore di frontealle ragioni economiche dell’azienda (23). L’alternativa tra risarci-mento e reintegrazione si adatta al giustificato motivo soggettivoe quindi al licenziamento disciplinare, ma non al licenziamentoper motivo oggettivo, la cui giustificazione, dipendendo nellamaggior parte dei casi da una valutazione-previsione dell’impren-ditore, presenta un margine alquanto largo di oscillazione che siriflette, poi, sull’accertamento. Di cio sembra avere tenuto contoil legislatore quando ha previsto (c. 7 art. 18) che, nel caso di mo-tivo oggettivo l’insussistenza del fatto costitutivo deve essere ma-nifesta, da un lato; e, dall’altro, che la sanzione ripristinatoria siarimessa alla discrezionalita del giudice (il quale ha la facolta —

(23) Cosı T. TREU, op. cit., p. 8 ss.

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‘‘puo’’ recita la norma — e non il dovere di ordinare la reintegra-zione.

Nonostante questa attenuazione, la rigidita dell’alternativasanzionatoria contemplata nel nuovo art. 18 non puo essere consi-derata favorevolmente. Sarebbe stato infatti opportuno riservareil rimedio ripristinatorio (reintegrazione + annullamento) al licen-ziamento disciplinare, mentre per il licenziamento economico sa-rebbe stato preferibile impiegare esclusivamente il rimedio risarci-torio, eventualmente aumentando la misura dell’indennita equindi il costo a carico dell’azienda. Cosı da scoraggiare l’eccessivoricorso al licenziamento ancorche giustificato e, ad un tempo, ri-sarcire la perdita dell’occupazione. Di piu: sarebbe stato oppor-tuno raccordare la disciplina del licenziamento individuale c. d.economico alla disciplina degli esuberi di personale (licenziamentocollettivo; mobilita; ASPI e tutela contro la disoccupazione) fa-cendo carico alle aziende degli oneri di ricollocazione del lavora-tore e riconoscendo a quest’ultimo — in aggiunta al risarcimentodel danno conseguente al licenziamento immotivato — una inden-nita di ricollocazione integrativa del trattamento di disoccupa-zione. Si avrebbe cosı il risultato non solo di disincentivare il li-cenziamento economico ingiustificato ma anche di tutelare la si-curezza del lavoratore nel mercato del lavoro.

L’obiettivo, insomma, deve essere quello di individuare unadeguato costo di separazione tra l’azienda e il lavoratore (firingcost; in italiano costo del licenziamento: si veda P. ICHINO, Il la-voro e il mercato, Mondadori, Milano, 1996, p. 120 ss.), facendonecarico all’imprenditore, in ogni caso di licenziamento economicoanche giustificato. Di tal che l’indennita risarcitoria, del (solo) di-fetto di giustificazione, avrebbe soltanto la funzione di accrescereil costo del licenziamento che ha colpito il lavoratore.

Sebbene la riforma M.F. — nella parte relativa alle tutele delreddito nel mercato del lavoro (art. 2-3 l. n. 92/2012) — contengaalcuni importanti spunti in questa direzione, la materia resta bi-sognosa di ulteriori interventi riformatori (anche se non ci si puonascondere come e quanto cio sia reso difficile dalla attuale crisieconomica).

La via da percorrere, muovendo dalla distinzione causale (erilevante gia nella realta sociale) tra licenziamento disciplinare elicenziamento economico, dovrebbe arrivare ad armonizzare la di-sciplina del licenziamento economico — sia individuale sia collet-

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tivo — nella prospettiva della flexicurity: come dire la compensa-zione tra flessibilita — in uscita ma anche in entrata — del rap-porto e la (sicurezza o) tutela nel mercato del lavoro. In un simileorizzonte la tutela del posto di lavoro (meglio: dell’occupazione)dovrebbe essere realizzata in un quadro coordinato di misure siadi tipo indennitario sia di sostegno del reddito sia, infine, di av-viamento all’occupazione (o ricollocazione) e quindi attraverso unpercorso mirato alla concreta soddisfazione del diritto soggettivoal lavoro (art. 4 cost.).

4. Crisi della subordinazione e funzione protettiva del contratto.

La legislazione degli anni 2000, oltre ad avere mantenutofermo (al di la di taluni conati di segno contrario: ad esempio iltentativo di aprire, nelle controversie di lavoro, all’arbitrato diequita: cfr. art. 31 c. 7 l. n. 183/2010)) il fondamentale principiodella giustificazione necessaria del licenziamento, ha inteso realiz-zare una convergenza virtuosa tra flessibilita in entrata e flessibi-lita in uscita. In questo modo si e mantenuta fedele al paradigmavaloriale e normativo della flessibilita regolata o comunque con-trollata, in particolare, dal sindacato (altra cosa, evidentemente, estata la divisione sindacale intervenuta negli stessi anni, i cui ef-fetti hanno sicuramente inciso sulla qualita dei risultati e quindisull’esercizio del potere sindacale).

Nell’ambito di questo paradigma il contratto (rapporto) di la-voro resta, come e naturale, la forma giuridica tipica dello scam-bio tra il lavoro e la retribuzione. Da cio, almeno nell’intenzionedel legislatore, la riaffermazione esplicita (art. 1 c. 1 lett. a l.n. 92/2012) della centralita del contratto a tempo indeterminato equindi — implicitamente — della sua funzione economico-socialedi tutela dell’occupazione (o stabilita del rapporto) (24).

Ancora. Restano, ovviamente, inalterate le caratteristiche ela natura della subordinazione come definita dall’art. 2094 c.c..Questa e qualificata dalla dipendenza e quindi dalla continuitadella prestazione (o messa a disposizione del tempo del lavora-

(24) Si veda E. GHERA, Le finalia della riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero.Art. 1 comma 1 l. 28 giugno 2012, in P. CHIECO (a cura di), Flessibilita e tutele nel lavoro.Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, Cacucci, Bari, 2012, p. 21 ss.

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tore) e dalla variabilita delle forme o modalita di tale disponibi-lita. Ma all’invarianza della subordinazione-obbligazione si con-trappone, nel diritto vivente (quindi nella cultura giuridica), ilprocesso di detipicizzazione della subordinazione-situazione o fatti-specie rilevante come presupposto per l’imputazione soggettivadello statuto protettivo del lavoratore come persona e come con-traente debole. La figura del prestatore di lavoro eterodiretto al-l’interno dell’impresa taylorista-fordista non e piu l’unico tipo so-ciale-normativo valido per la interpretazione, anzitutto dei giu-dici, dell’art. 2094 c.c. e per la qualificazione del contratto di la-voro, ma lascia spazio ad una pluralita di figure sociali eprofessionali originate dalla diffusione crescente di nuovi tipi dilavoro e di nuove forme organizzative, degerarchizzate e flessibili,di collaborazione nell’impresa (E. GHERA, Subordinazione, statutoprotettivo e qualificazione del rapporto di lavoro, cit., p. 121 ss., ivip. 156-157).

Continua a manifestarsi cosı, ed anzi si aggrava, la crisi diidentita del contratto di lavoro (cfr. E. GHERA, Prospettive delcontratto individuale di lavoro, cit., p. 167 ss.) come istituto giuri-dico capace di incorporare (al suo interno e quindi nel rapporto)l’apparato delle tutele del lavoratore. La crisi e della funzione so-ciale del contratto e quindi della sua effettivita: della attitudinedel contratto a fungere da presupposto delle norme (o tutele) in-derogabili, prima; e poi, a fungere — nella realta effettuale — dastrumento di (relativa) stabilita dell’occupazione e sicurezza delreddito del lavoratore. Tale crisi — resa evidente dalla divarica-zione (o non corrispondenza) tra la fattispecie tutelata, anche alivello costituzionale, del lavoro subordinato e la subordinazioneecome obbligazione del lavoratore — e, a sua volta, il riflesso del-l’indebolimento della relazione funzionale che unisce la stessa su-bordinazione allo statuto protettivo incorporato nel contratto.Come dire che, per effetto delle trasformazioni del mercato dellavoro e della diffusione delle nuove forme flessibili di occupa-zione, la subordinazione e con essa il contratto di lavoro tipicoha visto entrare in crisi la funzione di protezione del lavoratore,necessariamente (e storicamente) connaturata all’incorporazionenel contratto dello statuto protettivo del prestatore di lavorocome persona e come contraente debole (cfr. E. GHERA, Subordi-nazione, statuto protettivo e qualificazione del rapporto di lavoro,cit., p. 126 ss.).

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Nel nostro ordinamento l’indebolimento della funzione protet-tiva — il cui essenziale connotato e costituito dalla soggezione del-l’autonomia privata, individuale e collettiva, alle norme inderoga-bili della legge e al vincolo della indisponibilita del tipo contrattualedel lavoro subordinato (cfr. ancora E. GHERA, op. cit., p. 146 ss.) —si e manifestato in forme diverse ma in vario modo tendenti adescludere o quanto meno attenuare il vincolo della stabilita delrapporto e/o il vincolo della indisponibilita del tipo. Con la previ-sione, in funzione della flessibilita in entrata, di una disciplina spe-ciale dei contratti non standard, il legislatore (almeno dal 1997) hapreso atto del processo di erosione della subordinazione come cate-goria (o modello tipologico) funzionale cosı all’identificazione delcontratto di lavoro organizzato nell’impresa come alla sua rile-vanza quale presupposto necessario ed esclusivo della imputazionedello statuto protettivo (in primo luogo il diritto alla stabilita delrapporto) incorporato nel contratto stesso (25).

Nel quadro istituzionale e normativo creato dalla legislazionedella flessibilita l’autonomia individuale e stata autorizzata (di re-gola mediante rinvio dai contratti collettivi) ad utilizzare i diversimodelli di lavoro non standard.. Non solo la somministrazione dilavoro tramite agenzia e le altre forme di utilizzazione indiretta(appalto o subappalto di servizi) della prestazione di lavoro; maanche il ricorso, sia pure regolato in senso restrittivo, ai rapportidi collaborazione autonoma continuativa hanno consentito alleimprese la possibilita di rendere flessibili, sul piano numerico equindi organizzativo, quote piu o meno importanti di personaleed hanno ristretto il ruolo del contratto a tempo indeterminato edella stessa subordinazione come strumento di continuita dell’oc-cupazione. La possibilita, cosı offerta alle parti, di scegliere tra letutele dell’uno o dell’altro modello contrattuale segnala la volontadel legislatore di ampliare lo spazio della liberta contrattuale, as-segnando anche all’autonomia individuale una funzione di sele-zione delle tutele.

(25) La bivalenza funzionale del concetto della subordinazione — come sintesi degli

effetti dell’obbligazione del prestatore di lavoro e come fattispecie e quindi come criterio diqualificazione del rapporto (del contratto) e percio di identificazione della fattispecie della

dipendenza (o accentramento della gestione del lavoro altrui: cfr. L. BARASSI, Il contratto dilavoro nel diritto positivo italiano, Societa editrice libraria, Milano, 1915, I, p. 615 ss.) e una

caratteristica originaria del diritto del lavoro.

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In conclusione, l’espansione della flessibilita in entrata haavuto come conseguenza il ridimensionamento del binomio stabi-lita-subordinazione tipico del contratto a tempo indeterminato,da un lato; e dall’altro, l’indebolimento della relazione funzionaletra la subordinazione e lo statuto protettivo del lavoratore. Lafunzione protettiva manifesta la sua inadeguatezza a fronteggiareil fenomeno della discontinuita dell’occupazione e della rarefa-zione della domanda di lavoro stabile. Essendo circoscritto allatutela dei diritti maturati all’interno del rapporto, lo statuto pro-tettivo non ha la capacita di assicurare al lavoratore la protezionenel mercato del lavoro, resa invece necessaria dalla crisi econo-mica, che non sia transitoria o eccezionale.

5. Verso la flessibilita delle fonti.

5.1. Inderogabilita delle tutele e contratto individuale.

E dunque evidente come il bilanciamento tra la promozionedelle forme flessibili (i rapporti atipici) di lavoro e l’estensione aldi la dell’area della subordinazione, dell’apparato delle tutele equindi della funzione protettiva sia il tratto caratteristico del pro-cesso di riregolazione flessibile del mercato e dei rapporti di lavoro.Tale processo — reso piu stringente dalla crisi economica — non estato lineare; ne avrebbe potuto esserlo, traendo origine dalla vo-lonta politica del legislatore, indirizzata a mediare tra l’esigenzadella flessibilita — proveniente sia dalle imprese sia, in diversa mi-sura, dai lavoratori — e l’obiettivo di contrastare il piu possibile —attraverso la previsione di un apparato di norme antielusive (a co-minciare dalla drastica sanzione della c. d. conversione in rapportoa tempo indeterminato) — la c.d. fuga dal lavoro subordinato.

Tutto questo ha determinato un eccesso di produzione norma-tiva intorno al contratto individuale, la cui figura si presenta av-volta da una complicata rete di norme di origine sia legislativache contrattuale. Gli anni 2000, nell’illusione di controllare le di-namiche sociali dettando regole spesso di tipo casistico (ed inoltremutevoli in tempi anche molto brevi), sono stati fortemente se-gnati da una vera e propria ipertrofia delle leggi (e delle norme at-tuative o collegate), che non ha certo giovato alla dinamica delmercato del lavoro e all’economia. Emerge quindi, ed e pressante,

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l’esigenza di una razionalizzazione e semplificazione delle normema anche di una flessibilita delle fonti di produzione delle stesse.

Nulla di nuovo, si potrebbe dire. In realta le riforme legisla-tive degli anni 2000 hanno inciso, oltre che sui contenuti e i pre-supposti delle tutele, sulla natura e la gerarchia delle fonti regola-trici del rapporto individuale e sulla loro capacita di assicurare edarticolare lo statuto protettivo del lavoro subordinato.

L’espansione della funzione normativa delegata dalla legge al-l’autonomia collettiva e il tratto caratteristico dell’attuale fase deldiritto del lavoro: un fenomeno costante e tuttora crescente, resoparticolarmente evidente dalla produzione legislativa degli ultimi(almeno tre) decenni (basti ricordare tra gli interventi legislativipiu recenti — accanto al d.lgs. n. 368/2001, e al d.lgs. n. 276/2003,piu volte richiamati — almeno il d.lgs. n. 66/2003 emanato per il re-cepimento della Direttiva 97/104 CE e della Direttiva 2000/14 CEsull’organizzazione dell’orario di lavoro). L’art. 17 del d.lgs. n. 66/2003 e esemplare della pressoche totale devoluzione della materiaalla contrattazione collettiva, investita di una potesta normativaesclusiva (c.d. derogatoria ma anche surrogatoria delle disposizionidi legge) e tale devoluzione puo a sua volta lasciare spazio all’auto-nomia delle parti e quindi al consenso del lavoratore — e cioe alcontratto individuale — nella gestione della estensione e della col-locazione temporale della prestazione lavorativa.

Si puo quindi ritenere che un potenziamento del ruolo del con-tratto individuale come fonte regolatrice del rapporto sia fruttodell’espansione dell’autonomia collettiva: questa infatti, nell’eser-cizio della funzione normativa delegata dalla legge, puo autolimi-tarsi instaurando un rapporto di concorrenza tra contratto collet-tivo e contratto individuale nel regolamento del rapporto di lavoro.I contratti collettivi nazionali oppure aziendali sono stabilmenteabilitati (attraverso il rinvio disposto dalla stessa legge) ad inte-grare e/o derogare le disposizioni di legge in senso non solo favore-vole ma anche (eccezionalmente) sfavorevole al lavoratore.

Si badi che il ricorso alla tecnica della norma semiimpera-tiva (26) e cioe derogabile dall’autonomia collettiva ma non dal-l’autonomia individuale, non ha modificato la natura eteronoma

(26) Sia consentito rinviare a E. GHERA, La flessibilita: variazioni sul tema, cit.,

p. 132-133 e ss.

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ed inderogabile delle tutele assicurate dallo statuto protettivo in-corporato nel contratto di lavoro subordinato. Ed infatti la devo-luzione, anche di intere materie o istituti alla disciplina collettivaavviene nel rispetto della gerarchia delle fonti e sotto il controllodel legislatore: senza intaccare la regola della prevalenza dellalegge sui contratti collettivi di lavoro (che la giurisprudenza, con-fortata in misura crescente, ormai dalla dottrina, ricava dall’art.2077 c.c.); e senza toccare il principio testualmente sancito nel-l’art. 2113 c.c. della inderogabilita unilaterale delle disposizionidella legge e dei contratti collettivi, in forza del quale il rapportodi lavoro e imperativamente regolato dalle fonti eteronome sta-tuali e sindacali (e dunque dallo statuto protettivo prodotto dallestesse).

5.2. Il decentramento della funzione normativa del contrattocollettivo.

Un discorso diverso sembra invece doversi fare per la normaintrodotta dall’art. 8 l. n. 148/2011 (di conversione del d.l. 13 ago-sto n. 138/2011). Questa norma — come si sa molto discussa e inodore di incostituzionalita (27) — ha previsto (c. 1) che ai contratticollettivi di prossimita (e cioe stipulati a livello aziendale o territo-riale) sottoscritti dai sindacati comparativamente piu rappresen-tativi sulla base di un criterio maggioritario (e per tale ragione do-tati di efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati) —sia attribuita la capacita (il potere) di produrre, mediante specifi-che intese finalizzate agli scopi indicati nello stesso c. 1, norme perregolare le materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produ-zione (c. 2). Le norme cosı prodotte, oltre ad essere efficaci ergaomnes, sono autorizzate a disciplinare, in pratica, tutti i contenutidel rapporto (si veda l’elenco analitico e sovrabbondante dellesubmaterie nello stesso c. 2 tra cui alla lett. c): ‘‘modalita di assun-zione e disciplina del rapporto di lavoro comprese le collaborazioni aprogetto e le partite IVA’’ (sic); eccezioni sono previste per i licen-

(27) La questione e ampiamente dibattuta in dottrina: si v. tra gli altri F. LISO, Os-servazioni sull’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e sulla legge in materia di contratta-zione collettiva di prossimita, in W.P. CSDLE M. D’Antona n. 157/2012, spec. p. 20 ss.

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ziamenti discriminatori o altrimenti colpiti da nullita ai sensi delnuovo art. 18).

Di particolare interesse, per le sue ricadute sul contratto indi-viduale, e il c. 2-bis in base al quale i contratti di prossimita sonoautorizzati (anzi — sembrerebbe — sollecitati dal legislatore) adisporre (‘‘operano’’ dice la legge) ‘‘anche in deroga alle disposi-zioni di legge’’ e alle ‘‘relative regolamentazioni contenute nei con-tratti collettivi nazionali di lavoro’’. Oltre a capovolgere la gerar-chia dei livelli di contrattazione stabilita dall’ordinamento inter-sindacale (a partire dal protocollo triangolare del 23 luglio 1993fino al piu recente accordo interconfederale del 28 giugno 2011),la norma attribuisce ai contratti cosı stipulati una forza norma-tiva prevalente sui contratti di categoria ed una efficacia deroga-toria non solo dei contratti di livello superiore ma anche nei con-fronti della legge. Tale forza normativa — pur essendo vincolataal rispetto dei limiti costituzionali, comunitari e internazionaliesplicitamente richiamati dallo stesso c. 2-bis — ha una portatacosı ampia (‘‘inusitata’’ secondo R. DE LUCA TAMAIO, Il problemadella inderogabilita delle regole a tutela del lavoro, ieri e oggi, p. 14del testo provvisorio) da mettere in discussione il principio dellainderogabilita delle tutele che, riferito testualmente dall’art. 2113c.c. alle disposizioni della legge e dei contratti e accordi collettivi,costituisce il fondamento dello statuto protettivo e della sua rela-zione necessaria e biunivoca con il contratto di lavoro subordi-nato.

Tale statuto, espressione della istanza ugualitaria ed univer-salistica della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applica-zioni (art. 35 c. 1 cost.), e incardinato sul principio della preva-lenza della legge che ne impone il collegamento necessario alla su-bordinazione e quindi al tipo legale del contratto di lavoro: da ciola c. d. rigidita del tipo e la inderogabilita dell’apparato delle tu-tele che lo accompagna. All’interno di tale apparato i contratticollettivi hanno avuto e continuano a svolgere la funzione di im-plementare ed articolare a livello di categoria e di azienda lo sta-tuto protettivo fissato dalla legge; ma — prima del c. 2-bis —hanno avuto la facolta di disporre delle tutele solo nelle ipotesiespressamente previste dalla legge.

Viceversa a stregua della nuova norma e per effetto dell’ap-plicazione dei contratti collettivi di prossimita, l’apparato delletutele diventa cedevole: puo essere non solo articolato ma fram-

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mentato (aziendalizzato) e persino, nei casi estremi, cancellato(per determinati istituti o trattamenti). Come dire che lo statutolegale protettivo del lavoratore subordinato e entrato — eccetto idiritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalle norme co-munitarie e internazionali — nella disponibilita dell’autonomiacollettiva. E che questa disponibilita puo avere come oggetto iltipo contrattuale che funge da contenitore necessario delle tuteleinderogabili del rapporto di lavoro subordinato.

Insomma la norma del c. 2-bis ha introdotto nel sistema ilprincipio della flessibilita — semiimperativita o derogabilita —totale e potenzialmente quasi illimitata — delle tutele ricono-sciute al lavoratore dalla legge e dai contratti collettivi di livellonazionale non solo determinando una rottura dell’ordinamentocontrattuale centralizzato (che qui non interessa) ma ancheaprendo la strada ad una profonda trasformazione della funzioneprotettiva del contratto di lavoro. Questa funzione — che, si e vi-sto, attiene all’identita del tipo legale — viene sottratta alla fontelegislativa e resa disponibile dall’autonomia collettiva di (sola)prossimita, perdendo cosı la sua natura eteronoma e la sua fun-zione egualizzante.

Lasciando in disparte le questioni di costituzionalita, occorreriflettere sulla effettiva portata della trasformazione cosı indotta.Pur ammettendo l’opportunita di privilegiare il contratto collet-tivo di prossimita quale strumento adatto alla gestione delle crisioccupazionali e dei processi di ristrutturazione aziendale, e diffi-cile negare che la scelta del legislatore si presenta radicale alpunto da abilitare l’autonomia collettiva di livello inferiore a di-sporre del vincolo del tipo contrattuale e dello statuto protettivo(o subordinazione-protezione).

La questione non e solo teorica. Anche se e probabile che laresistenza delle parti sociali (28) diffidenti o dichiaratamente con-trarie ad utilizzare la nuova norma ne ridimensionera l’impattoconcreto, il principio che vi e sotteso non puo essere taciuto. Sibadi: la flessibilita delle tutele non e di per se da rifiutare; piutto-sto e da coordinare e delimitare nell’ambito dei principi anzitutto

(28) Si veda l’interessante rassegna delle prime esperienze contrattuali di L. IM-

BERTI, A proposito dell’art. 8 della legge n. 148/2011: le deroghe si fanno ma non si dicono, in

DRLI, 2013, p. 255 ss.

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costituzionali che presiedono alla disciplina dei rapporti di lavoro(non puo bastare che l’armonizzazione con i principi, generica-mente richiamati dal c. 2-bis sia rimessa all’interprete, oltre tuttocon l’effetto di pregiudicare la certezza del diritto).

6. Osservazioni finali.

E difficile arrivare ad una conclusione che non sia provviso-ria. Il diritto del lavoro e investito da un processo di revisione deiprincipi e delle categorie concettuali tradizionali — l’inderogabi-lita delle norme, il favor verso il lavoratore — il cui esito non eprevedibile. La materia si e fatta sorprendere impreparata dallacrisi economica, le cui urgenze non sono pero propizie ad una si-mile revisione.

Quanto al contratto individuale la crisi non ha avuto effettiomogeneamente distribuiti. La riforma M.F. — si e visto — ha ri-tenuto di compensare lo ‘‘strappo’’ sull’art. 18 con una forte re-strizione della flessibilita in entrata. Tuttavia, mentre gli effettidella rimodulazione dei rimedi sanzionatori del licenziamento ille-gittimo restano tutti da verificare, l’intervento restrittivo sul la-voro autonomo ha un impatto drastico ed immediato, costrin-gendo una moltitudine di prestazioni e di rapporti di tipo conti-nuativo alla riqualificazione o, in alternativa, alla sparizione dalmercato del lavoro ufficiale. Sarebbe stato preferibile — e di granlunga — che il legislatore, abbandonando la prospettiva steril-mente antielusiva, si fosse collocato nella prospettiva della tutelae della promozione del lavoro autonomo genuino ed economica-mente dipendente.

E vero quindi che la disciplina in chiave antielusiva del la-voro autonomo ed associato economicamente dipendente costitui-sce la parte piu importante ed innovativa della riforma del 2012:questa sembra infatti rivolta decisamente a ricondurre la flessibi-lita nell’area del lavoro dipendente. Tuttavia e difficile immagi-nare che dalla crisi si possa uscire invertendo la tendenza versouna crescente flessibilita delle tutele e delle fonti normative, ca-ratteristica del diritto del lavoro negli ultimi decenni. Resta dachiedersi se la crisi sara un fattore di accelerazione oppure di ral-lentamento della tendenza in atto.

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Le trasformazioni del mercato del lavoro e le difficolta dell’oc-cupazione sono quindi alla base della crisi di identita del con-tratto di lavoro. Cio rende indifferibile l’esigenza di estendere ilraggio di azione della funzione protettiva dal rapporto al mercatodel lavoro e dalla subordinazione alla posizione sociale, contraddi-stinta dal bisogno di lavorare della persona. E questa una neces-sita o meglio un obbligo politico che richiede all’ordinamento giu-ridico nazionale ed europeo la progettazione di un apparato di tu-tele adeguato a fronteggiare le dinamiche del mercato del lavoro ele trasformazioni dell’economia. Tale apparato — diverso dal tra-dizionale statuto protettivo, essendo svincolato dal contratto-pre-supposto e dalle tecniche di tutela imperativa interna al rapportodi lavoro — dovrebbe essere composto da tutele funzionali alla si-curezza del reddito e alla promozione dell’occupazione; e pertantoconnesse almeno indirettamente allo stato di attivita o di cittadi-nanza sociale del lavoratore come persona o soggetto socialmentesottoprotetto.

Si apre cosı la via al riconoscimento della figura del lavoratorenon solo come parte debole di un contratto in essere ma come ti-tolare di una situazione soggettiva qualificata — prima ed indi-pendentemente dal rapporto di lavoro — dal diritto alla colloca-zione nel mercato del lavoro; e, in particolare, dalla offerta di (odisponibilita al) lavoro cui l’ordinamento attribuisce rilevanza infunzione della ricerca di occupazione e, in definitiva, del soddisfa-cimento del diritto al lavoro garantito dall’art. 4 cost. (si puo par-lare di un rapporto per il lavoro o di avviamento preliminare alcontratto di lavoro che si instaura — sulla base di determinatipresupposti legali — tra il singolo e la struttura (pubblica o pri-vata incaricata di promuovere l’occupazione (agenzia o servizioper l’impiego).

Dai nuovi scenari della globalizzazione dell’economia, delladelocalizzazione della produzione e della deconcentrazione dell’im-presa come organizzazione emerge ‘‘un sistema di sottoccupazionedestandardizzato frammentato e plurale, caratterizzato da modalita diimpiego del lavoro salariato altamente flessibili, deregolamentate ebasate su un forte decentramento per quanto riguarda l’orario e illuogo di svolgimento’’ (cosı U. BECK, Il lavoro nell’epoca della finedel lavoro, (trad. it.), Torino, 2000, p. 111) al cui interno dovrasvilupparsi la regolazione del rischio della discontinuita del lavoro edel reddito. In effetti l’alternanza tra periodi di lavoro e di non la-

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voro — e cioe di interruzioni di attivita all’interno di una se-quenza di contratti con uno o piu datori di lavoro — e una carat-teristica comune alle diverse forme di lavoro temporaneo sia su-bordinato che autonomo, nelle quali il lavoratore si trova natural-mente collocato nello stato di dipendenza economica generatadalla discontinuita dell’occupazione. Insomma nella nostra so-cieta, la sottoccupazione, a differenza della disoccupazione invo-lontaria, e un fenomeno (rischio sociale) di natura non eccezionalebensı permanente nella vita lavorativa e, in ogni caso, tale daconfigurare una situazione (e quindi un bisogno di) protezione so-ciale.

E un cambiamento profondo che richiede una sostanziale re-visione di modelli normativi fondamentali: non solo lo stato socialema anche il contratto di lavoro.

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IL PROBLEMA DELL’INDEROGABILITA DELLE REGOLEIL PROBLEMA DELL’INDEROGABILITA DELLE REGOLE

A TUTELA DEL LAVORO, IERI E OGGIA TUTELA DEL LAVORO, IERI E OGGI

di RAFFAELE DE LUCA TAMAJO

SOMMARIO: 1. La ‘‘inderogabilita’’ nella presente stagione del Diritto del lavoro. — 2. Il de-

clino dell’esclusivo primato della legge e della sua precettivita. — 3. Le proposte di

riduzione dell’area della inderogabilita. — 4. Il ‘‘segno’’ delle ricostruzioni selettive e

la necessita di espressa previsione normativa di derogabilita. — 5. L’inderogabilita

delle regole legali e contrattuali nei confronti dell’autonomia individuale: una con-

ferma. — 6. La flessibilita dei rapporti tra legge e contratto collettivo nazionale in un

quadro di permanente sovraordinazione della prima. — 7. La inusitata potenzialita

derogatoria delle norme legislative riconosciuta ai contratti collettivi di prossimita.

— 8. Il potere derogatorio riconosciuto ai contratti di prossimita nei confronti dei

contratti collettivi nazionali. — 8.1. La soluzione giurisprudenziale: la equiordina-

zione tra i livelli contrattuali collettivi. — 8.2. La soluzione dell’ordinamento inter-

sindacale: il governo ‘‘centrale’’ dell’articolazione contrattuale negli accordi intercon-

federali del 2009 e 2011. — 8.3. L’art. 8 della l. 148/2011: soluzione mediana tra la li-

beralizzazione dei livelli contrattuali di prossimita e il controllo centralistico. — 9. Le

‘‘ragioni’’ del contratto aziendale. — 10. Una breve conclusione.

1. La ‘‘inderogabilita’’ nella presente stagione del Diritto del la-voro (*).

Per quanto la inderogabilita della disciplina (legale e collet-tiva) del Diritto del lavoro trovi le proprie radici nella genesi enella ragione stessa della materia, connotandone sin dalle originila specialita rispetto al Diritto civile, il dibattito scientifico in-torno ad essa non puo certo dirsi obsoleto o tema di archeologiagiuridica, come potrebbe far pensare quel libro di 37 anni fa, invirtu del quale mi e stata affidata questa Relazione.

Ne fanno fede, se non altro, il rifiorire di studi al riguardo inquesto primo decennio del secolo, il forte rilancio della problema-

(*) I riferimenti agli Autori, presenti nel testo, sono del tutto precari e parziali.

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tica operato dall’art. 8 della l. n. 148 del 2011 e financo taluniConvegni organizzati dall’Aidlass negli ultimi 5 anni, alle cui si-gnificative relazioni, anche per esigenze di economia temporale, eopportuno rinviare per i numerosi profili, specie di ordine defini-torio e funzionale, che non potranno qui essere compiutamentetrattati.

La ragione di questa rinnovata attualita non risiede tantonella destinazione della inderogabilita al rafforzamento di unnuovo catalogo di diritti fondamentali della persona, al contrario,va rinvenuta nella pressione riduttiva alla quale essa si trova oggiesposta e che mette in discussione la sua storica inerenza al pro-filo identitario del Diritto del lavoro o addirittura al suo DNA.

Invero il nuovo secolo ci consegna una ulteriore ‘‘stagione’’del Diritto del lavoro, i cui fondamenti normativi e valoriali, ap-paiono incalzati e talora sfiancati dapprima dalla evoluzione tec-nologica e dalla ristrutturazione organizzativa della produzione,poi dalla dilatazione dell’arena competitiva nella direzione globalee, infine, dalla gravissima crisi economico-finanziaria e occupazio-nale.

Per restistere al conseguente inevitabile ‘‘controriformismo’’che, non soltanto in Italia, presenta tratti modificativi, quandonon ablativi del patrimonio garantistico dell’aureo trentennio difine secolo, la materia, in tutte le sue componenti, cerca sostegnonei (quasi si aggrappa ai) paletti posti dalla Costituzione, dallenormative unieuropee ed internazionali, dai c.d. vincoli di si-stema.

L’attuale vicenda ordinamentale non legittima, pero, la riaf-fiorante retorica della definitiva vulnerazione o, addirittura, dellamorte del Diritto del lavoro, piu che mai, anzi, confermato nellasua funzione ‘‘compromissoria’’ e di ‘‘resistenza’’. Essa e solo ilfrutto della spiccata storicita di questo ramo del diritto e dellasua ineludibile permeabilita ai mutamenti del contesto socio eco-nomico, che lo espongono a cangianti dosaggi dei contrapposti in-teressi in gioco e a rivisitazione delle sue tecniche.

Puo, dunque, dolersi, ma non dovrebbe meravigliarsi, dell’at-tuale assetto normativo chi, dotato di solida cultura marxista, sabene che le condizioni materiali non possono non influire in mododecisivo sugli equilibri normativi e di potere, sui modelli e financosulle tecniche regolative del Diritto del lavoro.

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Gia perche, come sopra accennato, la pressione in atto sulladisciplina lavoristica, alimentata dai richiamati fenomeni, finisceper propagarsi anche sul piano, piu sofisticato, ma non meno rile-vante, delle tecniche normative e dei rapporti tra le variegatefonti del Diritto del lavoro. E il vento della flessibilita delle regoledel lavoro che soffia su tutto il vecchio Continente, ora sotto leforme suadenti della flexicurity, ora mostrando un piu arcignovolto demolitorio, si riversa anche sull’attributo di inderogabilitadelle norme, promuovendo istanze di rivisitazione dei rapporti traeteronomia ed autonomia e tra i diversi livelli di contrattazionecollettiva.

Invero, per quanto dal punto di vista concettuale la spintaneo riformistica volta ad incidere sulle tutele del lavoro non com-porti di per se un ridimensionamento del dispositivo della indero-gabilita, ben potendo la prima esaurirsi in modificazioni dei soli‘‘contenuti’’ normativi, sta di fatto — e la storia ce lo insegna —che riforme in peius delle discipline del rapporto procedono in ge-nere di pari passo con l’attacco alla loro inderogabilita. Quasi aconfermare che l’inderogabilita delle norme e, sı, una ‘‘tecnica’’normativa, ma presenta, almeno in linea tendenziale, una precisaconnotazione assiologica, se non altro in quanto schermo nei con-fronti di alterazioni dei trattamenti normativi ed economici deisingoli lavoratori operate da fonti sottostanti rispetto a quelle chetali trattamenti attribuiscono.

Insomma, anche il diritto del lavoro e chiamato a gran voce afare la sua parte nella contingente emergenza, non soltanto conmediazioni sostanziali piu consapevoli, ma anche con una rielabo-razione dei rapporti tra le sue fonti. Tanto piu che il terremoto incorso nel sistema economico-finanziario e talmente minacciosoche soltanto una qualche flessibilizzazione delle strutture portantidella materia puo evitare il loro altrimenti possibile tracollo. Inpresenza di movimenti tellurici solo le strutture flessibili hannomaggiori possibilita di reggere. E soltanto una flessibilizzazionedei rapporti tra le fonti puo evitare interventi demolitori dei‘‘contenuti’’ di tutela ad opera delle spinte riformistiche.

Le istanze di rivisitazione della inderogabilita della norma le-gislativa, che pure espongono a deterioramento il patrimonio ga-rantistico del lavoratore, non vanno pero lette solo in questachiave. Esse trovano giustificazione e attualita anche nella neces-sita di implementare una dialettica negoziale collettiva destinata

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ad agevolare scambi, per cosı dire ‘‘virtuosi’’ e controllati a livellosindacale, tra poste altrimenti non compromettibili.

Consentire alla autonomia collettiva la difficile mediazione disimili vicende, sottraendole alle scure del neo riformismo legisla-tivo e risultato che forse autorizza la parziale demitizzazione delparadigma inderogabile, sia pur limitatamente al confronto conl’autonomia collettiva; fermo restando che un simile ineludibile pro-cesso di allentamento puo e deve essere governato esclusivamentedalla fonte legale, non potendo ipotizzarsi, come sara argomentato,un autonomo potere derogatorio della autonomia collettiva ovvero unasua totale liberalizzazione. Dunque: flessibilizzazione del rapportotra le fonti, sviluppo del decentramento normativo, ma governati dal-l’alto e non praticabili sul piano meramente interpretativo.

2. Il declino dell’esclusivo primato della legge e della sua precetti-vita.

I motivi della crisi dell’inderogabilita sono, peraltro, piu com-plessi rispetto all’allarmistico riferimento al portato ablativo dellacompetizione globale, della crisi economica e della minacciosa in-combenza dei mercati finanziari.

Non possono, infatti, ignorarsi i moderni postulati della teoriadelle fonti che, a partire dalla crisi della dimensione statuale deldiritto e dalla frammentazione del panorama giuridico della glo-balizzazione, registrano il declino dell’esclusivo primato dellalegge, un tempo incontrastata protagonista della scena giuridica.

Si afferma cosı un nuovo diritto, che si limita a creare rela-zioni flessibili tra i vari frammenti normativi e che rompe i mec-canismi Kelseniani (Teubner). In questo contesto i contratti col-lettivi e, in altri settori, i Principii Unidroit e la Lex mercatoria,espressioni di istanze normative provenienti dal basso, mandanoin crisi la esclusivita e la rigidita del diritto legislativo prodottodalla rappresentanza politica.

Il sistema giuridico perde cosı la sua rigidita a beneficio diuna nuova flessibilita, da piramide diventa rete (Ost e Van deKerchove), le cui maglie sotto il peso della societa civile si allar-gano e si lasciano pervadere da nuove istanze normative, danuove razionalita.

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E proprio questa flessibilita consente al diritto di conservarela sua normativita sostanziale e la sua effettivita; al diritto del la-voro, in particolare, di salvaguardare un nucleo duro di principiiinderogabili, al di sopra dei quali si amplia lo spazio per l’autono-mia privata collettiva (non per quella individuale, come si vedrain seguito).

La norma di legge, poi, non perde soltanto la propria rigidita,ma attenua altresı le proprie valenze strettamente precettive e iconnotati hard propri della tradizione statualistica-positivistica.Accanto a norme caratterizzate da alta vincolativita, tendono adampliare il proprio spazio strumenti giuridici soft, morbidi, fluidi(Pastore) e i meccanismi del comando e delle sanzioni vengono inparte sostituiti da altri modelli di carattere ‘‘promozionale’’ cheaiutano l’effettivita del diritto, offrono una cornice di protezioneindiretta dei diritti, di tipo consensuale anzicche coattivo, ridu-cendo conseguentemente la funzione della classica inderogabilita(Fontana).

* * *

In che misura l’istanza di recupero di una signoria regolatoriae derogatoria dell’autonomia privata (individuale e collettiva) ab-bia trovato ingresso nel nostro ordinamento lavoristico e ne costi-tuisca un irreversibile piano inclinato e quanto il dosaggio dellaflessibilita tra eteronomia e autonomia sia ancora nelle mani dellegislatore, sara oggetto prioritario della presente relazione.

Poiche peraltro ogni livello contrattuale gioca una propriapartita nei confronti dell’inderogabilita occorrera disaggregare l’a-nalisi lungo diverse direttrici prendendo partitamente in conside-raizone l’eventuale potesta derogatoria riconosciuta:

a) al contratto individuale;b) al contratto collettivo nazionale di lavoro;c) al contratto aziendale (nel duplice confronto con la legge e

con la contrattazione nazionale).Anticipando lo svolgimento, sara cosı possibile puntualizzare

lo spazio di derogabilita, concesso alle singole fonti; fare emergerela necessita che tale spazio sia conferito dalla fonte legale; eviden-ziare come sia sempre presente — sia pure per il tramite di di-stinti frammenti normativi — il limite alla deroga costituito daun nucleo duro di diritti intangibili.

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3. Le proposte di riduzione dell’area della inderogabilita.

Non potendo in questa occasione ripercorrere ne gli albori nela stagione aurea della inderogabilita, conviene prendere le mossedai primi limitati interventi normativi destinati ad intaccare ilmuro della inderogabilita, collocabili nella fase del c.d. Diritto dellavoro dell’emergenza.

Rispetto a quei prudenti moduli di derogabilita ad opera diqualificate espressioni di autonomia collettiva introdotti alla fineanni ’70, una ben piu forte istanza di destabilizzazione del tradi-zionale quadro di rapporti tra fonti eteronome ed autonome ap-parve nel c.d. libro Bianco, presentato nel 2001, sotto gli auspicidel Governo di centro-destra. Veniva, infatti, propugnata unafunzione paralegislativa della contrattazione collettiva e auspi-cata una ampia capacita derogatoria delle parti sociali nei con-fronti dei disposti di legge. La contrattazione aziendale era forte-mente sponsorizzata anche a scapito della signoria del contrattonazionale, onde stimolare accordi volti a realizzare assetti regola-tori piu confacenti alle singole realta aziendali. E un potere dero-gatorio veniva financo riconosciuto alla autonomia individuale se-condo un modello destinato ad alterare la funzione stessa del con-tratto collettivo, che, privato della inderogabilita, perde buonaparte della propria ragione di esistere. Al medesimo progetto an-dava ascritta altresı la previsione di un arbitrato che consentissedi decidere secondo equita e che delineava una ulteriore e sia purindiretta attenuazione della inderogabilita della normativa legale,stavolta per via di lodo.

Qualcuno, nella cultura giuslavoristica, paventandolo o, vice-versa, plaudendolo, credette davvero alla concreta e immediatarealizzabilita di un simile disegno. Non il quasi coevo legislatoredel 2003 che, a prescindere dai conati del meccanismo certificato-rio, ben poco spazio riconobbe alla proposta inversione di rotta intema di inderogabilita, privilegiando, piuttosto, la strada di unaampia flessibilita in entrata e di un marcato sventagliamento ti-pologico.

Negli anni successivi, pero, alcune teorizzazioni di stampo ri-duttivo dell’area o del meccanismo dell’inderogabilita furono og-getto di insistita elaborazione dottrinale (Novella). Quel caratteredi onnipervasiva intangibilita delle discipline di tutela, accredi-tato sin dai primordi, comincio ad essere investito da ipotesi di

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perimetrazione, dettate non tanto da intenti meramente restaura-tivi del potere del mercato, quanto, piu di frequente, dall’esigenzadi recuperare la funzionalita del meccanismo occupazionale o, inaltri casi, di ridurre la fuga verso il sommerso o, ancora, di raffor-zare l’effettivita della normativa inderogabile mediante una re-strizione del suo ambito applicativo.

A voler tentare una schematica tripartizione, puo collocarsinella prima prospettiva finalistica il c.d. Libro verde della Com-missione europea del 2006, nel quale l’istanza riduttiva dell’appa-rato garantista-inderogabile del Diritto del lavoro veniva ricolle-gata ad una presunta responsabilita nel cattivo funzionamento enella ritardata modernizzazione del mercato del lavoro. Piu in ge-nerale puo ascriversi a tale filone di pensiero la teorizzazione dot-trinale della correlazione tra rigidita delle regole e minore propen-sione occupazionale delle imprese, cosı come alcuni orientamentigiurisprudenziali volti ad attenuare il tradizionale paradigma del-l’inderogabilita in connessione al perseguimento di obiettivi occu-pazionali.

In una diversa ottica si e sostenuto che l’imposizione coattivadi una pervasiva disciplina inderogabile non giova alla effettivitadella tutela, generando diffusi fenomeni elusivi sia nella direzionedel lavoro nero che in quella dell’abuso dei contratti di parasu-bordinazione e che, quindi, la sua estesa presenza concorre a ri-durre il suo ambito di applicazione effettiva (Ichino).

Una prospettiva, per cosı dire, gradualistica viene, invece,praticata da chi muove dalla genuina preoccupazione di preser-vare almeno una fascia di diritti fondamentali dell’uomo che la-vora, onde opporsi al paventato rischio di rimonta delle esigenzedel mercato/autonomia, alimentata dalle minacce della grave crisieconomica. Viene cosı proposta una sorta di ridimensionamento‘‘per linee interne’’ dell’area della inderogabilita, basata su unaselezione degli interessi e dei valori sottesi alle norme di tutela.Questa linea di pensiero merita un’articolazione descrittiva, nonfoss’altro per la compiutezza delle argomentazioni addotte.

Riccardo Del Punta, ad esempio, alla ricerca di nuove fron-tiere del compromesso tra liberta ed eguaglianza, ritiene poco at-tuale l’idea secondo cui ‘‘tutti’’ i beni di cui il lavoratore subordi-nato e titolare debbano essere sottratti alla autonomia contrat-tuale: con molta cautela bisognerebbe ‘‘riavviare il lavoro subor-dinato sul terreno della riappropriazione della sua autonomia’’.

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Accentuando la divaricazione esistente entro la « ratio della inde-rogabilita (natura sovraindividuale degli interessi del lavoratoreimplicati nel rapporto — disparita di potere contrattuale tra leparti), egli propone che vadano sottratte al potere negoziale delsingolo soltanto le tutele normative di un nucleo essenziale di benifondamentali (piu ristretto di quello attualmente ‘‘protetto’’),mentre i restanti interessi dovrebbero essere restituiti alla sfera discelta e di responsabilita del titolare, fatta salva la ricorrenza incasi specifici di comprovate condizioni di inferiorita psicologica econtrattuale, che non possono, essere presunte indiscriminata-mente in riferimento a tutto l’arco del lavoro dipendente e che,magari possono essere neutralizzate per vie diverse (autonomiaindividuale ‘‘assisitita’’ a livello collettivo o amministrativo).

In un ordine di idee molto simile Carlo Cester delinea ‘‘un nu-cleo’’ irretrattabile di diritti fondamentali derivato dai principicostituzionali, integrato con l’ordinamento comunitario e arric-chito con una piu ampia serie di nuovi diritti legati alla persona:diritti che non possono essere oggetto ne di deroghe (alle normeche li prevedono) ne di disposizione da parte del titolare. Un am-mobidimento della inderogabilita si potrebbe realizzare, vice-versa, in riferimento alle norme indirizzate non al soddisfacimentodi istanze oggettivamente superiori, bensı al rimedio alla debo-lezza contrattuale o alla definizione di condizioni uniformi.

Nella stessa lunghezza d’onda — e dunque nel perseguimentodi obiettivi garantistici da porre al riparo dalle contingenze stori-che — anche Patrizia Tullini propone di individuare una serie didiritti fondamentali, inalienabili e indisponibili, in ragione dellospessore degli interessi protetti, conferendo solo alle norme attri-butive di tali diritti il connotato dell’inderogabilita. Di qui la pro-posta, intellettualmente suggestiva, di capovolgere la tradizionalesequenza concettuale che dalla norma inderogabile fa discendere ilimiti alla disponibilita dei diritti, in favore di una lettura che dalparticolare rilievo di taluni (e non di tutti i) diritti dei lavoratorifa derivare (in termini, pertanto, piu ristretti) la inderogabilitadella norma. Verrebbero cosı identificati taluni diritti intangibilidal potere dispositivo del sindacato e dei singoli, non compromet-tibili nel giudizio arbitrale, incomprimibili nei processi di certifica-zione.

Ben piu radicale, ma con scarso seguito, la proposta di chi, inpassato, ha postulato, sia pure nel contesto di una raffinata

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quanto ambiziosa ricostruzione giuridica, un rapporto di pari di-gnita e reciproca derogabilita tra legge e autonomia collettiva(Ferraro) o, ancora, l’auspicio di incrementare sensibilmente lanegoziabilita ‘‘assistita’’ di beni e diritti del lavoratore (Pessi) o discambiare il mantenimento di una efficace tutela reintegratoria intema di licenziamento con una dilatazione dei margini di disponi-bilita riconosciuti all’autonomia individuale (Hernandez).

4. Il ‘‘segno’’ delle proposte selettive e la necessita di una espressaprevisione normativa di derogabilita.

Va subito puntualizzato che le ipotesi ricostruttive sopra de-scritte assumono un ‘‘segno’’ ben diverso a seconda che riferi-scano la ‘‘selezione’’ al piano della inderogabilita, cioe a dire ai di-ritti (‘‘primari’’) non ancora entrati nel patrimonio del lavoratore(retribuzioni future, ferie, diritto alla persona etc.), o, invece, alpiano della disponibilita dei diritti gia maturati dal lavoratore (re-tribuzioni arretrate, ferie non godute, risarcimenti etc.).

Nella prima ipotesi l’esito sarebbe quello di ridurre il noverodelle norme inderogabili e di dilatare i margini di autonomia deisingoli.

Nella seconda, irrigidendosi il regime previsto per gli atti ab-dicativi dall’art. 2113, la conseguenza sarebbe, all’opposto, quelladi introdurre per alcuni diritti di maggior rilievo una ulteriorepreclusione del potere dispositivo del lavoratore, con conseguentepiu radicale nullita (magari ex art. 1966 c.c.) delle contrarie mani-festazioni dismissorie.

La verita e che, anche a prescindere dalle considerazioni in or-dine ai loro esiti, le cennate proposte ricostruttive (e la gradua-zione valoriale da esse presupposta) non sono condivisibili se rife-rite al piano interpretativo del sistema esistente. Nessun dato nor-mativo consente allo stato una simile selezione, che sarebbe percioaffidata a operazioni ardue e caratterizzate da ampio soggettivi-smo (anche ideologico).

La attenuazione della inderogabilita e plausibile solo ove siafrutto di una esplicita opzione/delega dell’ordinamento, in assenzadella quale non e possibile per l’interprete attribuire o sottrarre lapatente di intangibilita a talune norme legali o di contrattazione

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collettiva, sul presupposto di una diversa rilevanza degli interessitutelati.

Pur ammettendo che le norme di tutela del lavoro sottendanointeressi di diverso spessore, il regime di inderogabilita, in carenzadi espressa indicazione di segno contrario, tutte le riguarda.Tutte, infatti, sono in linea di principio protese a tutela di inte-ressi che non sono soltanto di rilievo individuale o collettivo, maanche di carattere generale (in quanto connessi alla tutela dellapersona del lavoratore) e tutte sono destinate a calarsi all’internodi un rapporto caratterizzato non solo da una piu o meno can-giante e talora discutibile debolezza socio-economica e contrat-tuale del lavoratore, ma anche da una subordinazione, immanentee istituzionalizzata, all’esercizio dei poteri datoriali.

Questo non significa affatto che — in un’ottica di flessibiliz-zazione dei rapporti tra le fonti — non sia ipotizzabile una dilata-zione anche ampia del dispositivo della derogabilita, sotto laspinta di contingenze economiche o politiche, con conseguente de-gradazione dell’interesse generale tutelato a interesse collettivo(ovvero con l’affidamento della cura dell’interesse generale a sog-getti collettivi). Significa solo che tale operazione deve necessaria-mente essere governata dalla legge. Questa e, almeno allo stato, larisultanza di una rilevazione sistematica dei vari indicatori del-l’ordinamento che saranno di seguito passati in rassegna.

Se, dunque, e lecito parlare di una gerarchia ‘‘liquida’’ dellefonti (Martelloni) per alludere alla perdita di un rigoroso ordinegerarchico e alla caotica confluenza di diversi materiali normatividi matrici diverse, e anche vero che il Diritto del lavoro, pur ca-ratterizzato da crescenti fenomeni di decentramento normativo,conserva ancora alla legge il governo della valvola della derogabi-lita.

Tornando alle cennate ipotesi gradualistiche assumono, sem-mai, rilievo solo lı ove il legislatore abbia liberalizzato le fontidi livello inferiore, sottraendole al vincolo di inderogabilita;dunque: a valle e non a monte della previsione di derogabilita.La delega/autorizzazione e, per converso, la potesta derogatoriatrovano, infatti, un limite nel rispetto di un nucleo duro e sele-zionato di diritti fondamentali di matrice costituzionale, unieu-ropea, internazionale o comunque di principii basici della mate-ria.

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5. L’inderogabilita delle regole nei confronti dell’autonomia indivi-duale: una conferma.

Se l’operazione di ripensamento della inderogabilita puo avereuna qualche ragionevole praticabilita, essa deve, dunque, affidarsinon gia alla diversita degli interessi tutelati, (delimitazione ‘‘perlinee interne’’ dell’area normativa caratterizzata da intangibilita),bensı ai differenti livelli di autonomia con i quali viene a confron-tarsi: individuale — collettiva, di rilievo nazionale o di prossi-mita.

Nei confronti della autonomia individuale, nonostante il conte-sto socio economico di riferimento sia cosı profondamente mutatorispetto a 37 anni fa, resto della originaria opinione che ogni atte-nuazione della forza inderogabile della legge o della contrattazionecollettiva sia improponibile, sia sul fronte interpretativo che deiure condendo, e costituisca attentato alla identita strutturaledella nostra materia.

E questo non perche la cd inferiorita socio-economica del la-voratore non risulti attenuata anche per effetto delle sopravve-nute garanzie normative e sindacali, quanto per la permanenza diuna soggezione ‘‘istituzionalizzata’’ del lavoratore subordinato aipoteri unilaterali del datore di lavoro insiti nella struttura stessadel rapporto e codificati dall’ordinamento. Dato, questo, ancoraoggi immutato malgrado le profonde trasformazioni dei rapportidi produzione e dei profili tecnico-organizzativi delle imprese.

Appare cosı mistificante l’idea di un lavoratore maturo, la cuiautonomia contrattuale non ha piu bisogno della protezione dellalegge o della contrattazione collettiva. Eventuali scambi negozialirealizzati a livello individuale, in ipotesi ‘‘liberati’’ da una atte-nuazione della inderogabilita risulterebbero, infatti, viziati dalpermanente stato di soggezione ‘‘istituzionalizzata’’ di una parterispetto all’altra, che costituisce elemento coessenziale ed identifi-cativo della stessa fattispecie ‘‘lavoro subordinato’’.

Sembra insomma ancora condivisibile l’osservazione secondocui il Diritto del lavoro negherebbe se stesso se ammettesse che‘‘si e realizzata una societa in cui gli individui sono divenuti real-mente liberi di negoziare le proprie condizioni di lavoro’’ (Ma-riucci); del resto: ‘‘a differenza di quanto accade nel Diritto civile,l’inderogabilita e intrinseca alla normazione, nel senso che le ra-gioni dell’inderogabilita sono le stesse che inducono il legislatore a

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intervenire’’ (Napoli), sicche potra decidersi di delegificare, ridu-cendo l’ambito della regolamentazione, ma non comprimere l’areadella inderogabilita nei confronti dell’autonomia individuale.

In effetti la liberalizzazione anche parziale dell’autonomia in-dividuale comporterebbe una destrutturazione del sistema lavori-stico e una alterazione funzionale delle fonti del rapporto di la-voro, tali da intaccare i principii di fondo intorno ai quali si e an-data sviluppando l’intera materia (Occhino).

L’inderogabilita nei confronti del contratto individuale, eparte integrante e coessenziale del corpo del diritto del lavoro edelle sue tecniche regolamentari e, come e stato detto, e quasi ilcolore della pelle di questo ramo del diritto, sicche il suo supera-mento comporterebbe i costi di un’operazione di trapianto dellapelle o addirittura di una manipolazione genetica (Voza).

A tutto concedere, sul terreno individuale qualche prudenteapertura puo ipotizzarsi solo in favore delle ipotesi di ‘‘disponibi-lita’’ individuale ‘‘assistita’’, ove appunto l’esercizio di autonomiaindividuale trova avallo e rassicurazione nella presenza (purcheeffettiva e non meramente formale, come sovente accade) di sog-getti sindacali, bilaterali o pubblici. Con la precisazione, peraltro,che il modello dell’autonomia individuale assistita puo operaresolo nella sfera della disponibilita dei diritti, allentando il vincolosanzionatorio dell’art. 2113 (mediante una neutralizzazione delminor potere contrattuale del lavoratore); non puo mai tradursiin ‘‘derogabilita’’ assistita, alterando il meccanismo sanzionatoriodella inderogabilita, che opera irrevocabilmente e senza possibilitadi ‘‘sanatorie sindacali’’ per i diritti non ancora maturati dal lavo-ratore. Il che significa che non vi sono margini per questa formulaneanche a ridosso dei problemi di qualificazione del rapporto.

6. La flessibilita dei rapporti tra legge e contratto collettivo nazio-nale in un quadro di permanente sovraordinazione della prima.

Ben diverso e il discorso per quel che concerne la derogabilitadella norma legislativa ad opera della autonomia collettiva, da decli-nare in modo differenziato rispetto alla contrattazione collettivanazionale e alla contrattazione di prossimita.

La teorizzazione delle norme semiimperative — tali cioe solonei confronti dell’autonomia individuale e non di quella collettiva

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— si ritrova, peraltro, gia agli albori delle ricostruzioni dell’inde-rogabilita (Greco, Barassi).

Per quanto concerne la delega, con facolta derogatoria, con-cessa alla contrattazione collettiva nazionale, il modello e gia ampia-mente noto e collaudato e quindi non merita particolari illustra-zioni. I processi di deregolamentazione del mercato e della disci-plina del rapporto di lavoro trovano realizzazione attraverso unasempre piu ampia devoluzione di funzioni normative e gestionalialla contrattazione collettiva, con relativa attribuzione della fa-colta di attenuare — modulare — rimuovere la garanzia postadalla norma inderogabile. Ipotesi, peraltro, sovente confuse conquelle di mera flessibilizzazione e articolazione della normativa dilegge o di semplice rinvio integrativo.

L’intensificarsi di simili formule normative, molto diffuse a li-vello comparato, rende particolarmente ‘‘trafficata’’ l’osmosi traordinamento statuale e ordinamento intersindacale, ponendo, an-che in ragione dei limiti di efficacia soggettiva dei contratti collet-tivi e delle problematiche indotte dagli accordi separati, inediteesigenze di disciplina. Tuttavia ne l’inadeguatezza soggettiva delsindacato ne il carattere privatistico dell’autonomia collettivaconsentono di ‘‘privarsi di una tecnica normativa oggi piu chemai indispensabile per affrontare il rapporto tra il sociale e l’eco-nomico (A. Zoppoli).

C’e da chiedersi se l’ampio sviluppo della potesta riconosciutaall’autonomia collettiva di livello nazionale possa assurgere a datosistematico sino a far supporre una generalizzazione di tale pote-sta, anche al di fuori di espresse previsioni di legge.

La risposta non puo che essere negativa.La capacita derogatoria del livello nazionale di contratta-

zione, per quanto ampiamente potenziata, deve ritenersi pur sem-pre rigorosamente octroyee, cioe da riconoscersi solo in presenza diespressa indicazione legislativa, non potendosi allo stato desumeredall’ordinamento — ne essendo auspicabile — un generale princi-pio di fungibilita ed alternativita con la fonte legale, che man-tiene quindi la sua formale supremazia e il suo tendenziale carat-tere inderogabile.

Del resto, la stessa legislazione nel momento in cui ammette ilcarattere derogabile di alcune regole, conferma, indirettamente, lanatura imperativa delle altre (Mariucci); ne l’ordinamento sembraallo stato consentire una cosı sconvolgente alterazione delle fonti

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a un sindacato nazionale ancora avvolto in una veste privatisticae sostanzialmente anomica.

7. La inusitata potenzialita derogatoria di norme legali ricono-sciuta ai contratti collettivi di prossimita.

Maggiore approfondimento merita la facolta di deroga anorme legislative riconosciuta alla contrattazione collettiva diprossimita, che ha trovato nel comma 2-bis dell’art. 8 della l. 148/2011 sostegno legislativo inusitato, nel segno di una imprevista di-scontinuita con assetti consolidati delle fonti della nostra materia.

La facolta di deroga e anche in questo caso frutto di unaautorizzazione della fonte superiore. Diversamente da quanto ac-cade per il contratto nazionale, di volta in volta legittimato a spe-cifiche deroghe, il riconoscimento ha, pero, qui carattere generale,anche se e condizionato sul piano finalistico e, in misura modesta,sul versante della materia e su quello soggettivo.

Percio il comma 2-bis dell’art. 8, prima ancora di essere espo-sto alla attenzione della Corte costituzionale, e stato oggetto dicondanna da parte della comunita dei giuslavoristi. La critica hasubito evidenziato come risulti minacciata dalla previsione inesame la stessa vocazione protettiva ed universalistica del dirittodel lavoro, con un evidente pericolo di balcanizzazione delle tutelee con il potenziale effetto di alterare financo il regolare svolgi-mento della relazione competitiva tra le imprese. Si tratta, inol-tre, della attribuzione a un soggetto privato endoaziendale del po-tere di disporre di interessi gia ritenuti, con il sugello legislativo,superindividuali; inoltre, diversamente da quanto previsto nelrapporto legge-contratto collettivo, qui la deroga diviene la regola(A. Zoppoli).

Chi piu di un teorico dell’inderogabilita puo essere sensibile inprincipio a simili preoccupazioni? Tuttavia, nell’attuale momentostorico si puo, forse, essere piu indulgenti, se non con il testo del-l’art. 8, insoddisfacente sotto il profilo letterale e sistematico,quantomeno con lo spirito che lo anima e con il modello cui siispira.

E opportuno, percio, superare antistoriche resistenze di cetonei confronti di un intervento che pure altera profondamente letradizionali categorie di riferimento dei giuslavoristi e conviene

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piuttosto verificare, con maggiore oggettivita e consapevolezza dicontesto, se la previsione normativa, depurata di taluni aspettidel tutto anomali, quali il riferimento bulimico e indifferenziato atroppe discipline del rapporto di lavoro, presenti valenze positive.

In particolare, va considerato che, di fronte agli imperatividelle autorita monetarie europee — che, a prescindere dalla lorolegittimita formale, sono dotati di significativa forza di persua-sione —, il legislatore non e intervenuto con la scure nei confrontidel patrimonio garantistico del nostro diritto del lavoro, ma hascelto la via piu soft e in qualche misura piu collaudata della fles-sibilita contrattata. Non ha posto in essere alcuna caducazioneautomatica di tutele per conferire alle imprese maggiori marginidi efficienza e competitivita, ma ha soltanto attribuito alla con-trattazione collettiva di prossimita la ‘‘facolta’’ di scambiare van-taggi occupazionali o normativi con dosi di quella flessibilita cheglobalizzazione e crisi richiedono in modo impietoso.

E perche non pensare che la norma possa dar luogo a scambivirtuosi, prima impraticabili, tra poste occupazionali, di stabiliz-zazione, di emersione, di welfare aziendale, da un lato, e l’allenta-mento magari temporaneo di alcune rigidita legislative nella ge-stione dei rapporti di lavoro?

Tali considerazioni di opportunita inducono a preservare lanorma dalle diffuse critiche dottrinarie (Liso), valorizzando il li-mite del necessario rispetto della Costituzione nonche dei vincoliderivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni inter-nazionali sul lavoro. Limite che, nella scia di suggestioni unieuro-pee, e in sintonia con l’orientamento selettivo sopra accennato,consente di salvaguardare da incursioni aziendalistiche un’ampiafascia di diritti sociali fondamentali.

Se l’architettura legislativa in esame non puo essere pregiudi-zialmente condannata, un inevitabile profilo di incostituzionalitadeve, invece, riscontrarsi nel segmento normativo che, nell’elen-care le materie nelle quali la contrattazione di prossimita puo in-tervenire in chiave derogatoria, allude alla ‘‘disciplina del lavoro’’,legittimando una serie pressoche illimitata di modifiche peggiora-tive. Qui la norma, nella sua genericita ed omnicomprensivita,urta se non altro con il principio di ragionevolezza delle scelte le-gislative. E, dunque, si espone ad un giudizio severo per contrastocon l’art. 3 Cost. (Carinici).

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Un ulteriore dubbio di costituzionalita e stato avanzato perl’ingiustificata differenziazione di trattamento tra contrattazionecollettiva nazionale e aziendale. Perche e con quale ragionevo-lezza solo al secondo e non al primo e stata riconosciuta la facoltaderogatoria?

A tale interrogativo e agevole rispondere che gli obiettivi fina-listici che legittimano la deroga (incrementi occupazionali, startup, stabilizzazione, investimenti, ecc.) sono perseguibili a livelloaziendale e non a quello nazionale: il che rende ragione della di-versita di trattamento. Inoltre, l’efficacia generale (erga omnes)del contratto collettivo, che e condizione essenziale perche questopossa operare in deroga a norme di legge, puo allo stato essereconcessa soltanto al contratto aziendale e non a quello nazionale,in ragione del vincolo che astringe quest’ultimo per effetto deicommi 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost..

In presenza della espressa correlazione tra l’attribuzione di unpotere derogatorio all’autonomia collettiva di livello aziendale e ilperseguimento di talune finalita ‘‘virtuose’’, indicate dal legisla-tore, quali l’incremento occupazionale, l’emersione dal lavoro irre-golare, la gestione di crisi aziendali e occupazionali, gli investi-menti etc.), si pone un problema specifico. Occorre, infatti, chie-dersi se il raggiungimento di un’intesa sindacale in deroga chesemplicemente alluda al perseguimento di tali finalita possa rite-nersi ex se satisfattiva del requisito legittimante la deroga o se, vi-ceversa, sia possibile sindacare in concreto la sussistenza (almenoa priori) dell’obiettivo finalistico dichiarato. Soluzione, quest’ul-tima che sembrerebbe piu consona per accompagnare e legitti-mare quella che, comunque, costituisce uno strappo agli ordinarirapporti tra le fonti e che appare giustificabile solo in presenza diun effettivo scambio compensativo; anche se apre uno scenarioinedito di controllo giudiziario di profili finalistici del contrattocollettivo (1).

(1) L’autonomia collettiva di prossimita — facendo propria l’avversione dei sinda-

cati di vertice — ha fatto ad oggi uso prudente della facolta concessa. I casi noti sono po-

chi e peraltro problematici. Come, ad esempio, gli accordi sottoscritti dall’Enaip e dalla

soc. tessile Golden Lady, la cui singolarita e, a tacer d’altro, la sospensione temporanea

della l. 92 del 2012 in materia di trasformazione di contratti di lavoro a progetto e di con-

tratti di associazioni in partecipazione in contratti standard di lavoro subordinato, nell’ot-

tica, peraltro, di un percorso di regolarizzazione scadenzato nel tempo. Gli accordi in esame

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8. Il potere derogatorio riconosciuto ai contratti di prossimita ri-spetto ai contratti collettivi nazionali.

Il potere derogatorio che il comma 2-bis dell’art. 8 riconoscealla contrattazione di prossimita nei riguardi dei contratti collet-tivi nazionali puo essere riguardato in una chiave diversa daquella che lo ritiene espressione di un oltranzismo derogatorio. Di-versamente da quanto a prima vista appare si puo, infatti, rite-nere che il modello proposto promuove un decentramento norma-tivo incisivo, sı, ma comunque condizionato e controllato piu diquanto non lo fosse in precedenza.

La dimostrazione di tale assunto passa per una contestualiz-zazione della norma in esame nel dibattito che si e sviluppato sultema dei rapporti tra livelli contrattuali diversi. Un tema che ne-gli ultimi anni ha contribuito a rilanciare una animata disputaideologica e dottrinale, ad ‘‘avvelenare’’ i rapporti tra le diverseorganizzazioni sindacali, a creare fratture anche all’interno del si-stema di rappresentanza datoriale. Le vicende delle relazioni in-dustriali dell’ultimo decennio appaiono, invero, segnate da unaparticolare tensione tra l’aspirazione a salvaguardare la centraliz-zazione del sistema contrattuale (e il connesso ruolo egemonico egarantistico del Contratto collettivo nazionale) e le spinte a dila-tare i margini di autonomia della contrattazione periferica e, se-gnatamente, di quella aziendale (Scognamiglio, Zoli).

Questa contrapposizione ha prodotto risultati del tutto anti-tetici tra il piano dell’ordinamento statuale, inverato in partico-lare dagli orientamenti giurisprudenziali, e quello del sistema in-tersindacale, arricchito da una sequenza di intese interconfederali.Divaricazione che, proprio per la sua radicalita, evidenzia unavolta di piu la compresenza e l’alterita di piu ordinamenti giuri-dici.

non producono, quindi, una deroga o una disciplina sostitutiva o adeguatrice, ma una ine-

dita sospensione di efficacia di una normativa statuale. Analoghe perplessita ha destato il

contratto aziendale dell’Ilva di Paderno Dugnano (stupulato il 27 settembre 2011) che ha

inteso derogare al regime di solidarieta tra appaltante e appaltatore in merito alle ritenute

fiscali e ai contributi previdenziali dei lavoratori del subappaltatore; accordo nullo perche

coinvolgente il dirittto di terzi estranei (Agenzia delle Entrate, Inps, Inail).

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8.1. La soluzione giurisprudenziale: la equiordinazione tra ilivelli contrattuali collettivi.

Sul primo versante e andato consolidandosi l’assunto di una so-stanziale autonomia della contrattazione aziendale, nel contestodella affermata equiordinazione tra le pattuizioni centrali e periferi-che: entrambe estrinsecazioni di autonomia privata collettiva, per lopiu caratterizzate da alterita soggettiva e, dunque, difficilmente in-quadrabili in aprioristiche gerarchizzazioni (Vallebona, Pessi).

In assenza di indicazioni normative di segno diverso (comequelle previste nel pubblico impiego) e, soprattutto, in dipen-denza della ricostruzione privatistica della contrattazione collet-tiva, e stata rifiutata dalla giurisprudenza e dalla dottrina mag-gioritaria l’idea di un governo vincolante della articolazione con-trattuale proveniente dal livello nazionale o interconfederale o,per lo meno, si e negato a tale governo una capacita invalidantedelle contrarie e ‘‘ribelli’’ manifestazioni contrattuali dei livelliaziendali o territoriali (Tosi, Magnani, Leccese).

Ad analoga soluzione e pervenuta piu volte la Corte di Cassa-zione allorquando, chiamata a scrutinare non gia il conflitto tra duediverse discipline contenute nei distinti livelli contrattuali, bensı laviolazione ad opera del contratto aziendale di clausole di altri livelliaventi ad oggetto la disciplina dei rispettivi ambiti di competenza,afferma che: ‘‘il carattere paritetico del contratto collettivo nazionale edel contratto aziendale, ripetutamente affermato in accordo con la dot-trina giuslavoristica, esclude che l’eventuale divieto, contenuto nell’unoe rivolto all’altro, di occuparsi di determinate materie, possa automatica-mente comportare l’inefficacia di una diversa regolamentazione succes-sivamente adottata da contratto collettivo incompetente’’.

L’impostazione giurisprudenziale produce, dunque, l’effettodi svuotare sensibilmente ogni tipo di articolazione o di gerarchiz-zazione disegnata a livello interconfederale e di consentire ampispazi derogatori all’autonomia collettiva decentrata.

8.2. La soluzione dell’ordinamento intersindacale: il governo‘‘centrale’’ dell’articolazione contrattuale negli Accordi In-terconfederali del 2009 e del 2011.

Ben diversi sono, invece, l’itinerario e i punti di approdo deltessuto regolamentare dei rapporti tra i diversi livelli di contrat-

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tazione, sviluppati sul piano intersindacale e, segnatamente, dagliAccordi interconfederali che si sono succeduti nel tempo, con lapalese ambizione di produrre un vero e proprio ‘‘sistema norma-tivo autonomo’’ (Rusciano).

La disciplina in questione, formalizzata nelle c.d. clausole dirinvio o di coordinamento, testimonia, infatti, malgrado conati disegno contrario, una costante vocazione centralistica e di governodelle pattuizioni periferiche, con aperture, molto condizionate,alla capacita derogatoria della contrattazione di secondo livello.

L’Accordo quadro del 22 gennaio 2009 e l’Accordo interconfe-derale di attuazione del 15 aprile 2009, pur all’interno di un riba-dito disegno di gerarchizzazione del sistema contrattuale (con sog-gezione dei livelli periferici), contenevano alcune aperture nei con-fronti della facolta ‘‘modificativa’’ della contrattazione di secondolivello (Bellardi, Ricci). Tuttavia la liberalizzazione della contrat-tazione di secondo livello, oltretutto formulata con clausole ambi-gue, veniva ampiamente svuotata dalla circostanza che le intesemodificative dovevano ‘‘essere preventivamente approvate dalleparti stipulanti i CCNL della categoria interessata’’ (punto 5, 3o ca-poverso), erano condizionate da vincoli finalistici (‘‘governare di-rettamente nel territorio situazioni di crisi aziendali o favorire lo svi-luppo economico ed occupazionale dell’area’’) e da parametri ogget-tivi individuati nel contratto nazionale (‘‘quali ad esempio, l’anda-mento del mercato del lavoro, i livelli di competenze e professionalitadisponibili, il tasso di produttivita, la necessita di determinare con-dizioni di attrattivita per nuovi investimenti’’). Senza contare che,gia in punto di principio, l’Accordo ribadiva formalmente il ruolodi centro regolatore del CCNL, chiamandolo a smistare le compe-tenze tra i livelli contrattuali, in una logica ancor piu nettamentegerarchica rispetto al passato (Bellardi).

L’Accordo, demonizzato dalla CGIL, fu visto da taluni comeuna prudente apertura al decentramento della contrattazione col-lettiva, da altri, di converso, come una falla ‘‘assai preoccupante’’nel principio di inderogabilita in peius del contratto collettivo na-zionale; da altri, ancora, nella consapevolezza del piu liberaliz-zante orientamento giurisprudenziale e dottrinale, come un inter-vento piu limitativo che promozionale della contrattazione azien-dale, come un episodio di ricentralizzazione del sistema contrat-tuale con una riattualizzazione del principio gerarchico. Vi fuanche chi espresse il netto giudizio secondo cui la difesa ad ol-

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tranza del CCNL da parte della CGIL, portata sino al rifiuto dideroghe nazionalmente validate e di un decentramento non srego-lato ma organizzato dal centro, fu un eccesso e ‘‘un colossale edideologico errore’’ (Del Punta) (2).

Senz’altro piu coraggioso sulla strada del decentramento ilsuccessivo Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 (Tosi,Persiani).

Piu ancora del punto 8 che, con clausola ormai di stile, con-ferma l’intenzione delle parti di ‘‘dare ulteriore sostegno allo svi-luppo della contrattazione collettiva aziendale’’ e auspica un inter-vento governativo di detassazione e decontribuzione degli incre-menti retributivi concordati a tale livello, il potenziamento e lalegittimazione del secondo livello trovano affermazione nel punto7 che, sia pur con un lessico molto pudico, stabilisce che ‘‘i con-tratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazionecontrattuale mirati ad assicurare la capacita di aderire alle esigenzedegli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali pos-sono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea,specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute neicontratti collettivi nazionali di lavoro’’. La facolta modificativaviene, pero, espressamente ricondotta ‘‘nei limiti e con le proce-dure previste dagli stessi CCNL’’, in linea, peraltro, con il dispo-sto del punto 3, secondo cui ‘‘la contrattazione collettiva aziendalesi esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal CCNL dicategoria’’.

Il potere autorizzatorio resta, insomma, pur sempre nellemani degli stipulanti i CCNL, la cui egemonia nel sistema contrat-tuale trova ulteriore sugello. Solo in assenza (e in attesa) di taliindicazioni provenienti dai CCNL i contratti aziendali possono in

(2) L’Accordo interconfederale del 2009 delegava ai contratti categoriali la disci-

plina della facolta derogatoria riconosciuta ai contratti aziendali. Tuttavia, il CCNL del

2009 per il settore metalmeccanico, concluso il 15 ottobre 2009, nella sua formulazione ori-

ginaria, non dava corso a tale disciplina e solo successivamente con l’art. 4-bis cerco di sa-

nare l’assenza di una traduzione a livello categoriale del punto 5 dell’Accordo interconfede-

rale dell’aprile 2009.

La complessita dell’iter da seguire e dei paletti da rispettare per legittimare, ai sensi

dell’art. 4-bis, le deroghe aziendali testimoniava, peraltro, la permanente diffidenza dei sin-

dacati nazionali nei confronti dei progetti di liberalizzazione dell’autonomia collettiva di se-

condo livello.

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via autonoma modificare talune previsioni del CCNL relativa-mente a materie ben circoscritte (disciplina della prestazione la-vorativa, degli orari e della organizzazione del lavoro) purche siapresente il consueto obiettivo finalistico (‘‘gestire situazioni dicrisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo svi-luppo economico ed occupazionale dell’impresa’’) e purche gli agenticontrattuali di impresa siano assistiti dalle organizzazioni territo-riali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firma-tarie dell’accordo interconfederale.

Malgrado tale ‘‘apertura’’ puo ben dirsi che anche l’Accordointerconfederale del 2011 si pone in linea di continuita con gli Ac-cordi del ’93 e del 2009: ‘‘la proceduralizzazione della futura atti-vita contrattuale derogatoria’’ (Lunardon) lascia saldamente alcentro del sistema il contratto collettivo nazionale (Treu, G. San-toro Passarelli, Ferrante).

Non maggiori risultati vengono raggiunti da due verbosi eambigui Accordi: l’uno intitolato ‘‘Linee programmatiche per lacrescita della produttivita e della competitivita in Italia’’, sotto-scritto in data 16 novembre 2012 dalle Confederazioni (ma nondalla CGIL) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; l’altroconcluso (stavolta anche con la CGIL) il 24 aprile 2013 in tema diagevolazioni fiscali per la retribuzione di produttivita convenutain sede aziendale. Ancora una volta le ‘‘aperture’’ alla contratta-zione di secondo livello sembrano piu di stile o strumentali aduna auspicata legislazione di vantaggio fiscale e contributivo chenon dettate da genuina e convinta opzione. La competenza del li-vello aziendale resta, infatti, condizionata da una precisa delegadei livelli superiori, anche relativamente agli istituti che hannocome obiettivo quello di favorire la crescita della produttivitaaziendale. Solo su un piano genericamente politico culturale l’Ac-cordo del 2012 sembra promuovere le intese aziendali derogatoriepresentandole come ‘‘alternativa a processi di delocalizzazione’’ ocome soluzioni gestionali ‘‘di situazioni di crisi per la salvaguardiadell’occupazione’’, oltre che come strumenti essenziali di competi-tivita, crescita territoriale e coesione sociale (Tosi); e l’Accordodel 2013 allude al ‘‘carattere cedevole’’ del contratto nazionale ri-spetto a specifiche intese aziendali, anche se, poi, si ribadiscono leprocedure ‘‘autorizzatorie’’ previste dal punto 7 dell’Accordo del28 giugno 2011.

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L’unico spunto davvero innovativo — anche dal punto di vi-sta sistematico — e quello che, nell’Accordo del 2012, affida aiCCNL la facolta di destinare ‘‘una quota degli aumenti economiciderivanti dai rinnovi contrattuali alla pattuizione di elementi retri-butivi da collegarsi ad incrementi di produttivita o redditivita defi-niti dalla contrattazione di secondo livello’’.

Nel solco tracciato dall’Accordo sulla competitivita il recenteCCNL dei metalmeccanici del 5 dicembre 2012 conferisce agli ac-cordi aziendali la facolta di differire fino a 12 mesi la decorrenzadella seconda e della terza tranche di aumento dei minimi salariali,cosı che quelli decorrenti a partire dal 1o gennaio 2014 possano es-sere concessi l’anno successivo e cosı per quelli previsti a partiredal 1o gennaio 2015.

8.3. L’art. 8 della legge 148/2011: soluzione mediana tra la li-beralizzazione dei livelli contrattuale di prossimita e ilcontrollo centralistico.

In presenza di una cosı evidente contrarieta della contratta-zione interconfederale a emancipare significatamente la contrat-tazione aziendale (o ad elaborare schemi davvero innovativi al ri-guardo), nell’estate del 2011, e quindi a poco piu di un mesedalla stipula dell’‘‘Accordo del 28 giugno 2011’’, il legislatore, in-terviene in modo traumatico sulla materia, con l’art. 2-bis del-l’art. 8 della legge 148/2011, spiazzando entrambe le parti sociali(Scarpelli).

La norma, come gia accennato, libera la facolta derogatoriadei contratti di secondo livello da ogni sudditanza o condiziona-mento dei CCNL.

Scompare, infatti, ogni vincolo autorizzatorio preventivo osuccessivo da parte del CCNL, che restava ancora incombente nelpunto 7 dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, e la de-roga viene condizionata soltanto dalla presenza di presuppostisoggettivi, oggettivi e finalistici.

Rispetto alla fattispecie derogatoria ipotizzata nella secondaparte del punto 7 dell’accordo del 28 giugno, operante in as-senza (e in attesa) di una disciplina ad hoc del CCNL, quella dicui al comma 2-bis dell’art. 8 della legge n. 148/2011 si distin-gue: a) sul piano oggettivo, perche dilata l’ambito tematico ben

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oltre la disciplina della prestazione lavorativa, degli orari e del-l’organizzazione del lavoro; b) sul piano soggettivo, perche lapresenza al tavolo delle OO.SS. piu rappresentative sul pianonazionale o territoriale e, nella legge, meramente eventuale,mentre nell’accordo del 28 giugno e necessitato il concerto tra leorganizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delleConfederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale e le rap-presentanze sindacali operanti in azienda; c) quanto ai profili fi-nalistici, la legge presenta una gamma piu vasta di situazioni le-gittimanti.

La risposta piccata delle parti sociali a questo ridisegno legi-slativo di un modello di rapporti tra contratti nazionali e con-tratti di prossimita, da poco disciplinato in sede intersindacale, siritrova nella Postilla acclusa in data 21 settembre 2011 all’intesadel 28 giugno 2011. Con essa i sottoscrittori rivendicano all’auto-noma determinazione delle parti sociali ogni intervento sulle ‘‘ma-terie delle relazioni industriali e della contrattazione’’ e ‘‘si impe-gnano ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno, appli-candone compiutamente le norme, e a far sı che le rispettive strut-ture, a tutti i livelli, si attengano a quanto concordato nel suddettoAccordo interconfederale’’: il che significa impegno di boicottare lapraticabilita del diverso percorso derogatorio delineato dalla leggen. 148 del 2011 e, quindi, a ‘‘sterilizzare’’ il piu ‘‘liberale’’ dispostolegislativo. Sul piano sistematico significa innescare un drasticoconfronto tra ordinamento intersindacale e ordinamento statualenel perseguimento di quella effettivita che nell’odierno disartico-lato e complesso sistema delle fonti non e a priori appannaggio dialcuno.

Insomma, la derogabilita del CCNL, che nell’ordinamento in-tersindacale e una eccezione sorvegliata dall’alto e nell’ordina-mento statuale e frutto di un principio giurisprudenziale genera-lizzato e consolidato, assurge con l’art. 8 ad ipotesi legislativa con-dizionata da presupposti eteronomi (soggettivi, oggettivi, finali-stici) (Carinci).

A ben vedere, allora, l’intervento legislativo viene a porsi a mezzastrada tra il centralismo del sistema intersindacale che solo faticosa-mente promuove spazi di liberalizzazione della contrattazione azien-dale, e l’orientamento giurisprudenziale, sopra richiamato, contrarioad ogni gerarchizzazione nei rapporti tra i livelli di contrattazione.Con la conseguenza — invero poco rilevata — che anche la giuri-

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sprudenza, in precedenza attestata sul riconoscimento della piuampia autonomia della contrattazione aziendale, deve oggi fare iconti con le condizioni e le limitazioni previste dall’art. 8 (Caruso-Alaimo). Il che significa che la deroga aziendale al CCNL non puopiu ritenersi legittimata se non e approvata dalla RSU o dallaRSA ‘‘sulla base di un criterio maggioritario’’ e se non e rispet-tosa degli altri vincoli previsti dall’art. 8. Un accordo aziendale‘‘derogatorio’’, non approvato su base maggioritaria o svincolatodagli altri presupposti dell’art. 8, non puo piu contare sul bene-volo atteggiamento legittimante che per decenni ha contradi-stinto la giurisprudenza e parte della dottrina, e, sia pure a con-trario, deve ormai ritenersi privato non soltanto della efficaciaerga omnes, ma anche della capacita derogatoria del contratto na-zionale, con conseguente nullita della clausola derogatoria. Una nul-lita che, stavolta, non viene postulata sulla base di previsionicontrattuali ‘‘superiori’’ in realta prive di efficacia reale, bensıper effetto del contrasto con una precisa disposizione legislativa,che subordina la derogabilita del CCNL alla presenza di multiplirequisiti (Tosi).

Quanto poi alla questione di legittimita costituzionale delcomma 2-bis dell’art. 8, sia pur con tutti i dubbi che derivanodalla necessita di preservare la libera esplicazione dell’autonomiacollettiva nell’articolazione dei livelli contrattuali (Carinci, Spe-ziale, Tosi), va rilevato che la norma, superando il dogma dell’in-derogabilita del contratto nazionale ed eliminando vincoli apriori-stici, si limita in realta a consentire a ciascun livello un’ampiaautonomia regolamentare, con un effetto ‘‘liberatorio’’ e non dicompressione. Di talche un successivo contratto collettivo nazio-nale (come ovviamente la legge) potra pur sempre, secondo la na-turale successione delle fonti nel tempo, modificare la deroga pre-vista dal contratto di prossimita (Occhino).

Per completezza di analisi, va ricordato che, in controten-denza rispetto all’impostazione dell’art. 8, si pone l’art. 1, comma9, lett. b, della l. 92 del 2012, che attribuisce la facolta di preve-dere una ulteriore ipotesi di acausalita del contratto a terminesolo ai contratti interconfederali o di categoria, mentre i livelli de-centrati sono a cio abilitati solo a seguito di espressa delega deiprimi.

La norma sancisce, cosı, anche sul piano dell’ordinamentostatuale, e sia pure in relazione ad una fattispecie ben delimitata,

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quella gerarchia tra i diversi livelli cui l’ordinamento intersinda-cale resta sostanzialmente ancorato.

9. Le ‘‘ragioni’’ del contratto aziendale.

Non puo dubitarsi — e sarebbe mistificante negarlo — che lasottrazione della contrattazione aziendale ai vincoli (specie auto-rizzatori, ma anche tematici) dettati dalla contrattazione nazio-nale o interconfederale comporta l’attenuazione della funzione so-lidaristica, perequativa e unificante della contrattazione di primolivello e, quindi, intacca uno storico baluardo del diritto sinda-cale.

Analogamente va rilevato che il potere di deroga riconosciutoalla contrattazione aziendale modifica un tratto originario dellaautonomia collettiva, nata per limitare la concorrenza tra i lavo-ratori sul mercato (e sui costi) del lavoro nonche per evitare feno-meni di dumping sociale tra i datori di lavoro, mediante il divietodi adottare trattamenti economici e normativi piu bassi di quellidelle aziende concorrenti (Rusciano, Nogler, Lassandari). La de-rogabilita del CCNL altera, insomma, una delle piu tipiche e stori-che funzioni dell’autonomia collettiva, se non forse il suo codicegenetico, con il rischio di trasformarla addirittura in strumento diconcorrenza tra le imprese.

E altrettanto vero, pero, che la pressione della globalizza-zione, che espone le singole imprese ad una incalzante competi-zione ‘‘allargata’’, la prolungata crisi economica e finanziaria chene minaccia la sopravvivenza, le esigenze di flessibilita della forzalavoro e dei processi produttivi, in una con l’imperativo di satura-zione degli impianti, richedono oggi discipline differenziate e piuconsapevoli degli specifici contesti organizzativi e produttivi,mettendo in mostra tutti i limiti delle discipline uniformi e di unrapporto rigorosamente gerarchico tra i diversi livelli di contrat-tazione.

Senza dimenticare, poi, che quel dumping ‘‘interno’’ che sivorrebbe evitare con una contrattazione nazionale inderogabile euniformante, riemerge in modo ben piu prepotente al livello dellacompetizione globale, penalizzando i sistemi di relazioni indu-striali troppo centralizzati; sicche le discipline ‘‘standardizzanti’’

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perdono ogni capacita di regolare la concorrenza perche questasupera le barriere dei singoli Stati.

Lo spostamento del baricentro della regolazione verso le fontic.d. di prossimita si inserisce, del resto, nel piu ampio fenomenodell’‘‘aziendalizzazione’’ del sistema giuridico del lavoro (e dellesue fonti), cioe a dire nella tendenza a sostituire ‘‘la tradizionalecomunita di riferimento’’ della disciplina giuridica del lavoro, co-stituita dallo Stato-nazione ovvero dalla categoria merceologicadi ambito nazionale con la singola azienda (Bavaro, Ales, Lec-cese).

Inoltre, l’uniformita regolativa del CCNL presenta, allo stato,intrinseci inconvenienti: a) in quanto, al di la del teorico riferi-mento all’impresa marginale, esso viene nei fatti tarato soventesulle esigenze e potenzialita delle imprese di grandi dimensioni esulla loro capacita economico-organizzativa (sia perche le impresepiu forti tendono ad egemonizzare gli andamenti della contratta-zione, sia perche anche i dirigenti dei sindacati nazionali sonoscelti in larga prevalenza dai lavoratori regolari delle aziende dimedie e grandi dimensioni del Centro-nord) (Ichino); b) perche so-vente entro un unico contratto nazionale vengono ‘‘massificate’’le discipline di piu settori merceologici (come avviene, ad esempio,per il CCNL delle imprese metalmeccaniche), con scarsa atten-zione addirittura per le peculiarita settoriali (Carinci); c) perche icontratti nazionali, ‘‘sovraccarichi di norme di dettaglio e rigide’’,sono di frequente frutto di stratificazioni disciplinari che si sonoaccumulate nel tempo, sicche perpetuano, quasi per inerzia, impo-stazioni tralatricie e poco consapevoli delle attuali caratteristichedei processi produttivi, talora difficultando anche le innovazioniorganizzative (Treu, Lassandari).

Ad assegnare alla contrattazione a livello di azienda unruolo primario e una facolta derogatoria in melius e in peiussganciata da ogni sudditanza gerarchica e, poi, la marcata diso-mogeneita della struttura produttiva italiana che, com’e noto,presenta, anche all’interno dello stesso settore merceologico,grandi differenze per aree geografiche, per dimensioni di im-prese, per caratteristiche tecnologiche, per modelli ed esigenzeorganizzative, per tipologie di prodotti (Giugni). Differenze chepossono essere apprezzate solo a un livello ‘‘di prossimita’’, na-turalmente a condizione della piena genuinita degli agenti con-

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trattuali e del rispetto del principio maggioritario, adeguata-mente tarato.

Milita, infine, a favore di una forte emancipazione della con-trattazione aziendale la considerazione che la tendenziale imper-meabilita o, comunque, la resistenza della contrattazione nazio-nale a modifiche ad opera delle sedi contrattuali periferiche ri-schia di provocare (e nei fatti ha gia provocato) un esodo delleaziende dalle organizzazioni di rappresentanza datoriale, alloscopo di sottrarsi ai vincoli del contratto nazionale e di rendere,cosı, l’accordo aziendale non piu derogatorio bensı l’unica disci-plina collettiva fruibile.

10. Una breve conclusione.

La disamina che precede ha fatto giustizia dei tentativi dismontare il dispositivo della inderogabilita per via interpretativa,confermando una presunzione di generalizzata inderogabilitadella normazione lavoristica (sia di matrice legale che convenzio-nale) (Novella), stante il carattere superindividuale degli interessiimplicati nel rapporto e la permanente, siccome dato di fattispe-cie, soggezione del lavoratore ai poteri unilaterali del datore di la-voro.

Solo in presenza di espressa previsione normativa l’allenta-mento della inderogabilita puo dirsi ammissibile. Anche in talcaso, pero, vari frammenti normativi depongono in favore dell’e-sistenza di limiti alla potesta derogatoria, fondati sul particolarerilievo di alcuni dei diritti tutelati.

Premesso che, per le ragioni sopra illustrate, deve ritenersiesclusa ogni capacita derogatoria della autonomia individuale, le-gittimo e ampiamente praticato risulta il conferimento di una po-testa derogatoria di norme legislative alla contrattazione collet-tiva nazionale. Quanto alla contrattazione di prossimita, ancheessa legittimata dall’art. 8 a modifche peggiorative della disciplinalegale, si e rilevato che l’autonomia collettiva ha fatto un usomolto prudente della facolta riconosciutale, invero ampliamentediscussa.

Ancora piu liberalizzati sono poi i rapporti tra i diversi livellidi contrattazione collettiva, alla stregua del comma 2-bis dell’art.8 della l. 148/2011, la cui architettura delinea una soluzione me-

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diana tra la piena equiparazione tra i livelli, fatta propria dallagiurisprudenza, e i tentativi di controllo centralistico, propostidall’ordinamento intersindacale e miranti a salvaguardare il mec-canismo della delega della fonte superiore.

Di fronte ai sempre maggiori spazi concessi all’autonomiacollettiva la necessaria difesa della inderogabilita (e della suaconnotazione assiologica) quale asse portante della nostra mate-ria, e l’insistito — anche in questa sede — richiamo alla neces-sita che il suo dosaggio sia governato dalla volonta legislativanon devono, pero, fare velo alla consapevolezza della sua relati-vita storica (quanto meno nel confronto con l’autonomia collet-tiva e nei rapporti tra i livelli di questa). Peccano, pertanto, diingenuita e massimalismo le tesi che, attribuendo a tutte lenorme del diritto del lavoro (e ai sottostanti interessi) valenzacostituzionale, deducono a priori (non gia l’inopportunita, ma)l’incostituzionalita di scelte legislative tese ad ampliare la pote-sta modificativa dell’autonomia collettiva, nazionale o di prossi-mita.

Invero se tutte le discipline legali del diritto del lavoro tro-vano ispirazione in valori di rango costituzionale, non per questopossono essere considerate intangibili le modalita o le misuredelle singole tutele che sono naturalmente esposte alle cangiantidinamiche sociali, politiche o dei rapporti di forza, senza rischiaredi essere automaticamente tacciate di incostituzionalita. Unacosa e dire che le norme del diritto del lavro hanno una voca-zione al perseguimento di interessi generali e alla conseguente in-derogabilita, altra e che il legislatore non sia libero di attenuare,in determinate circostanze e per determinate materie, tale carat-tere normativo in favore di qualsivoglia livello della contratta-zione collettiva, cioe a dire di trasformare norme inderogabili innorme semimperative, vincolanti la sola autonomia individuale.L’inderogabilita anche nei confronti della autonomia collettiva e,infatti, un tratto caratteristico e tendenziale della nostra materia,ma non rappresenta di per se un valore costitizionalizzato, insu-scettibile di eccezione.

Cio non toglie che l’apertura di varchi sempre piu ampi nelmuro della inderogabilita porta con se il rischio di crolli. La storiadei prossimi anni ci dira se il piano inclinato che si e delineatoprocedera a disegnare una materia del tutto nuova, caratterizzatada inediti principii e finalita o se, invece, come e auspicabile, pur

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scontando fenomeni di discontinuita, preservera, proprio me-diante una maggiore flessibilita tra le fonti, quella impostazioneideale — orientata alla protezione di chi lavora alle altrui dipen-denze — che fino ad oggi ha fatto sopravvivere la specialita e lavitalita del diritto del lavoro ad ogni temperie politica e cultu-rale.

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INTERVENTIINTERVENTI

PAOLO TOSI

Oggi ho visto succedersi quali relatori miei compagni distrada ed amici da quasi un cinquantennio; i quali mi perdone-ranno se saro costretto a fermare l’attenzione solo sulla relazionedi Tiziano Treu, meglio sulla sua attivita istituzionale. Egli infattiha avuto la ventura di partecipare da protagonista all’eserciziodella funzione legislativa nella seconda meta degli anni novantaponendo la sua impronta su interventi importanti finalizzati afronteggiare la perdurante crisi economico-produttiva ed occupa-zionale.

La legge c.d. Dini nel 1995, anzitutto: una riforma della previ-denza di base coraggiosa, pur nei confini consentiti dalle ‘‘compa-tibilita’’, ma anche una implementazione della riforma del 1993della previdenza complementare; il c.d. ‘‘pacchetto Treu’’ nel1997: un modello di flessibilita ragionevole, avvalorato dalla re-trostante concertazione con le parti sociali e che apre al loro ap-porto specie nel contesto della disciplina organica e tecnicamenteben congegnata del lavoro interinale con un suo specifico appa-rato sanzionatorio, purtroppo sostituita nel 2003 con la fattispeciedel lavoro somministrato (e letta poi dalla giurisprudenza nel pri-sma di quest’ultima). Da allora son dovuti passare quasi diecianni per aversi, anche grazie alla sollecitazione di una direttivaeuropea, un’ampia delega alla contrattazione collettiva con ri-guardo alla somministrazione.

Dicevo, un intervento di ragionevole flessibilita in un mo-mento in cui Tiziano si rende conto che l’abbandono degli auto-matismi salariali, ma a valle dell’esportazione dell’art. 18 dellostatuto sul terreno dei licenziamenti collettivi operata dalla legge223/1991, non e certo sufficiente a favorire la ripresa economico-produttiva ed occupazionale.

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Naturalmente, quando il legislatore si muove in una determi-nata direzione, anche l’ambiente tende a seguire, quello giurispru-denziale e dottrinale, salvo minoranze sempre coerenti, ieri comeoggi, nelle loro posizioni radicali.

Penso, ad esempio, alla giurisprudenza sulla collaborazionecoordinata e continuativa che supera la presunzione di subordina-zione e consacra tipologie di rapporti parasubordinati consolidatinella pratica sociale.

All’inizio di questo secolo matura l’illusione che il peggio siasuperato e che la normalizzazione della situazione economico-pro-duttiva ed occupazionale consenta iniziative promozionali del la-voro subordinato tipico, cioe stabile a tempo indeterminato. Siparla ancora di flessibilita, ma in realta la direzione e, almeno ri-spetto allo scenario degli anni novanta, di progressiva rigidita.

E la direzione in cui si muove la sequenza che va dal decretolegislativo del 2001 sul contratto a termine (quantomeno nelle in-terpretazioni ed applicazioni che il mutato clima favorisce) e dallalegge c.d. Biagi del 2003 (pure paradossalmente vuoi esaltata vuoiosteggiata come legislazione di flessibilita), sia pure con qualcheepisodico e marginale revirement, al T.U. del 2011 sull’apprendi-stato e alla legge c.d. Fornero del 2012.

Il nodo di fondo resta immutato: l’impresa, in un mercatonon dirigistico ma aperto e globale, tanto piu in un contesto dicrisi economico-produttiva, e indotta a cogliere eventuali segnalidi ripresa assumendo ed espandendosi solo se sa che non le saraprecluso il perseguimento in tempi ragionevolmente rapidi del-l’imprescindibile esigenza di congruita del personale in carico conquello di cui avra bisogno nell’eventualita di fluttuazioni negativedella domanda su quel mercato.

L’art. 8 della legge 148/2011 risponde all’obiettivo di scioglierequel nodo come pure gli risponde l’originario progetto governa-tivo poi sfociato nella legge 92/2012 allorche persegue il supera-mento dell’art. 18 in particolare sul terreno del licenziamento col-lettivo.

Tiziano sapeva che il percorso da lui avviato per collocarsi inuna strategia di lungo respiro avrebbe richiesto interventi impor-tanti, oltre che sul terreno degli ammortizzatori sociali, sul ter-reno della partecipazione.

Il Gruppo di Torino nella seconda meta degli anni ottanta co-mincio ad operare per favorire il dialogo tra esponenti di rilievo

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delle parti sociali verso l’obiettivo di un riordino delle relazioni in-dustriali e del sistema contrattuale. Una volta stipulato il Proto-collo del luglio 1993, ci si rese conto che bisognava andare avanti,verso un modello partecipativo.

Il Protocollo di luglio, oltre che essere rivisitato secondo le in-dicazioni della Commissione Giugni, avrebbe dovuto essere svi-luppato proprio sul terreno delle scelte partecipative, scelte indi-spensabili in vista di equilibri compromissori condivisi soprat-tutto nelle aziende. Gli esponenti delle parti sociali, tuttavia, nonsi mostrarono sensibili per esplorazioni siffatte preferendo rima-nere all’interno dello scenario allora in voga della concertazione.

La dottrina ne ha parlato un po’, poi sul tema e calato il si-lenzio. Oggi non ho sentito una parola al riguardo e credo che nonsia un buon segnale se si pensa a quanto siano complicati, fuoridalle illusioni, i problemi che affliggono il nostro sistema delle im-prese e del lavoro.

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MICHELE CERRETA

SOMMARIO: 1. La globalizzazione. — 2. (Segue) L’adesione all’Unione Europea e il ribalta-

mento della scala valoriale della Costituzione repubblicana. — 3. L’esigenza di razio-

nalizzazione del sistema previdenziale. — 4. La riforma della stabilita reale e il boo-

merang della decorrenza generalizzata della prescrizione alla data di cessazione del

rapporto di lavoro.

1. La globalizzazione.

Il prof. Umberto Romagnoli ci ha illustrato da par suo, conuna formidabile cifra letteraria che io non possiedo, come il capi-talismo ha ripreso le redini del sistema e che, tuttavia, la rispostadei giuslavoristi dovrebbe essere quella di richiamarsi in modo co-stante e fermo ai principi della Costituzione della nostra Repub-blica fondata sul lavoro.

Sennonche le pur dotte valutazioni formulate dall’autorevolestudioso sembrano per molteplici profili collocate al di fuori delladimensione storica attuale.

Innanzi tutto, la situazione odierna, secondo l’unanime valu-tazione degli economisti, e derivata dalla globalizzazione dei mer-cati (1). La piu recente vicenda della crisi mondiale, e dunquedella sopraffazione del capitale sul lavoro, e stata notoriamenteinnestata da quella dei mutui subprime, e quindi dalla c.d. infe-zione degli strumenti finanziari ‘‘derivati’’, strettamente connessicon quelli, nei paesi occidentali. E autorevoli studiosi comeGuido Rossi e Amartya Sen hanno illustrato, con studi seri e ap-profonditi e in larga parte affascinanti, che l’unica soluzione percontrastare i guasti derivanti dalla globalizzazione, potrebbe es-

(1) Mi sia consentito di rinviare a Globalizzazione dei mercati e gestione dei rapportidi lavoro nell’impresa - Profili generali, a cura di M. Cerreta con la collaborazione di M.

Arioti Branciforti, F. Pascucci e M. Sabba, Istituto per gli Studi economici e giuridici

‘‘Gioacchino Scaduto’’ — Spin off della Universita degli studi di Perugia, Perugia, 2011.

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sere solamente un governo mondiale dell’economia e della fi-nanza, quale finora non si e attuato. Anzi, lo Stiglitz ha formu-lato le piu gravi critiche a molte istituzioni che fanno capo al-l’Onu, soprattutto al GATT e alla Banca Mondiale degli Investi-menti, l’una per l’eccessiva liberalizzazione dei mercati che ha de-terminato stabilendo la quasi totale esclusione dei dazi doganaliprotettivi delle produzioni nazionali, e l’altra per avere favoritoinvestimenti in base a modelli standardizzati che non tengonoconto delle peculiarita dei paesi in via di sviluppo. Ma v’e di piu!L’ordinamento dell’OIL e ineffettivo, onde il decentramento pro-duttivo verso i paesi con livelli protettivi inadeguati della dignitadel lavoro non incontra in esso alcun limite, salvo casi assoluta-mente isolati, come quando, nel 1997, l’OIL seppe indurre parec-chie centinaia di Stati (quasi tutti) ad infliggere sanzioni di rap-presaglia commerciale contro il Myanmar (ex Birmania), facen-dolo desistere dalla pratica del lavoro forzato e pressoche schiavi-stico.

Dunque, si puo auspicare che le istituzioni internazionali vo-gliano avvalersi dei loro poteri nei confronti dei singoli Stati, mapure delle societa multinazionali, oramai persino piu potenti diquelli, allo scopo di ricostituire un assetto piu giusto ed equili-brato dei rapporti tra capitale e lavoro.

2. (Segue) L’adesione all’Unione Europea e il ribaltamento dellascala valoriale della Costituzione repubblicana.

Ma il problema piu importante e un altro: siamo certi cheattualmente possiamo fare riferimento soltanto ai principi costi-tuzionali? Parecchi costituzionalisti hanno sostenuto che la no-stra Carta e stata modificata dall’ordinamento dell’UE, in partein modo diretto mediante gli artt. 23 ss. del TCE sui diritti diliberta economica (prevalenti rispetto ai successivi art. 136-188sulla politica sociale), successivamente mediante le politiche co-munitarie (2), piu recentemente mediante la giurisprudenza cri-

(2) La dottrina sul tema e particolarmente vasta. Basti qui ricordare che secondo

molti studiosi l’art. 41, comma 2o, Cost sarebbe stato abrogato. Vedansi: F. MERUSI, Il so-gno di Diocleziano. Il diritto nelle crisi economiche, Torino, Giappichelli, 2009; La Costitu-

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ticabile della Corte di giustizia (3) Onde il bene primario sa-rebbe quello dell’efficienza dell’iniziativa economica privata,mentre la tutela del lavoro sarebbe soltanto il principio valo-riale secondario, rilevante non intrinsecamente, ma solamente inmodo indiretto, e cioe alla stregua del limite della coesione so-ciale che consente l’efficienza dell’impresa. Quindi avremmo su-bito il ribaltamento, in questa situazione, dei principi della Co-stituzione repubblicana. Inoltre abbiamo subito dei vincoli for-midabili: il divieto pressoche generalizzato degli aiuti di Stato(salvo il parere vincolante della Commissione europea), la per-dita del governo della moneta e quindi l’esclusione delle infla-zioni competitive, il patto di stabilita, regole vincolanti di bi-lancio. Tali vincoli condizionano fortemente la gestione finanzia-ria degli ammortizzatori della disoccupazione oramai non solopiu frizionale, ma strutturale.

3. L’esigenza di razionalizzazione del sistema previdenziale.

Per quanto riguarda la previdenza sociale, numerose sonole norme irragionevoli e le dissipazioni irragionevoli di risorseconseguenti, e, in un tempo di vacche magre, sarebbe necessa-rio eliminare quelle dissipazioni allo scopo di favorire una piu

zione economica: Italia, Europa - Atti del Convegno promosso dall’A.St. Ri. D. curati da C.

Pinelli e T. Treu; S. CASSESE, La nuova costituzione economica, ult. ed. (riveduta e aggior-

nata), Roma-Bari, Laterza, 2012.

(3) Il riferimento ovvio e alle sentenze Viking, Laval e Ruffert nelle quali La

Corte di giustizia, muovendo dal criterio asserito di contemperamento tra diritti di li-

berta economica e diritti sociali, ha riconosciuto prevalenza alle liberta economiche. Mi

limito qui a rinviare a Liberta economiche e diritti sociali nell’Unione Europea (Atti del

Convegno in memoria di Giorgio Ghezzi), a cura di A. Andreoni e B. Veneziani, Roma,

Ediesse, 2009; Il conflitto sbilanciato (Atti del workshop del giugno 2008 a Bari) a cura di

A. Vimercati, Bari, Cacucci, 2009 e a U. Carabelli, Europa dei mercati e conflitto sociale,

Bari, Cacucci, 2009. Ma per una rigorosa impostazione di metodo vedi gia prima: G.

SANTORO-PASSARELLI, La dialettica tra ragioni del lavoro e della concorrenza nell’orizzontedella normativa europea, in Dir. .lav., 2005, I, p. 13. Per una ricognizione piu ampia della

giurisprudenza comunitaria sul lavoro vedi anche M. ROCCELLA, Diritto comunitario e di-ritto del lavoro, in Trattato di diritto del lavoro diretto da M. Persiani e F,. Carinci, vol Io

- Le fonti del diritto del lavoro, Padova, Cedam, 2010, p. 291 ss., ma spec. p. 306 e nota

78.

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equa distribuzione delle risorse utilizzabili, muovendo sı dalprincipio della funzionalizzazione del sistema alla liberazionedalle situazioni di bisogno, ma pure dalle regole dell’adegua-mento dell’impiego delle risorse a sovvenire alle situazioni effet-tive di bisogno, dell’esclusione delle sacche di privilegio e dell’ar-monizzazione tra il valore della solidarieta sociale con quello dellameritocrazia in conformita al combinato disposto degli artt. 2,36 e 38 Cost.

In estrema sintesi denunzio: l’irragionevolezza della normasulla condizionalita della pensione di vecchiaia alla cessazionedell’attivita di lavoro in atto, salvo la successiva ripresa dellastessa attivita lavorativa persino sotto mentite spoglie (co.co.pro.anziche lavoro subordinato), poiche quella regola introdottadalla riforma Amato era ragionevole nel sistema anti-cumulotra retribuzione e pensione che oramai e pressoche eliminato(salvo, come e giusto, rispetto alla pensione di inabilita, e, par-zialmente, rispetto all’assegno di invalidita); l’irragionevolezzadella regola attuale della determinazione delle pensioni ai super-stiti in base al loro reddito, che li induce ad effettuare dona-zioni (per lo piu fittizie), onde sarebbe piu ragionevole che que-st’ultime dopo il pensionamento non venissero considerate; ilpassaggio troppo gradualistico dal sistema di calcolo retributivoa quello contributivo, che anzi la riforma Fornero, stabilendo ladeterminazione di tutte le pensioni col sistema contributivo dal1o gennaio 2012, non ha considerato che parecchi lavoratoriavevano gia raggiunto la massima anzianita valutabile di 40anni al fine della pensione retributiva a quella data, e in con-creto ha aggiunto ad essi, probabilmente senza averne pienaconsapevolezza, una quota ulteriore di pensione contributivaper gli anni ulteriori; l’irragionevolezza dell’attribuzione, senzaalcun limite ostativo reddituale, delle indennita di accompagna-mento per i ciechi civili assoluti e gli invalidi civili totali, del-l’indennita di comunicazione per i sordi, dell’indennita specialeper i ciechi civili ventesimisti, e dell’l’indennita per i lavoratoricon talassemia major; l’irragionevolezza delle norme sulla com-patibilita degli ammortizzatori sociali con il reddito da lavoroaccessorio entro il limite di 3000 euro all’anno e del lavoroautonomo entro un limite ulteriore, poiche sarebbe piu ragione-vole che le prestazioni previdenziali in argomento potessero in-

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tegrare quelle di lavoro a tempo parziale e di lavoro autonomoentro il limite del massimale di esse; l’irragionevolezza della re-gola che l’attivo di bilancio della CUAF sia utilizzato per il ri-pianamento del deficit di altre gestioni dell’Inps. La liberazionedelle risorse ora dissipate potrebbe consentire il finanziamentodel reddito minimo garantito di cittadinanza, con adeguati cri-teri di condizionalita, ai lavoratori che abbiano cessato la frui-zione degli ammortizzatori sociali, adeguando il nostro sistemaalle risoluzioni del Parlamento europeo (4) e, nel caso dellaCUAF, per incrementare le specifiche prestazioni alle famiglie apiu basso reddito.

4. La riforma della stabilita reale e il boomerang della decorrenzageneralizzata della prescrizione alla data di cessazione del rap-porto di lavoro.

Un’ultima battuta per dare un contributo di riflessione altema trattato splendidamente dal Prof. De Luca Tamajo, da parsuo. A me pare che attualmente, in considerazione della nota sen-tenza della Corte cost. n. 174/72, dal momento che la tutela dellastabilita reale del posto di lavoro e relegata a casi residuali (licen-ziamenti discriminatori dei quali non c’e piu quasi alcuna notizianei repertori; licenziamenti intimati in base a condotte di inadem-pimento insussistenti in assoluto e/o per le quali sia applicabileuna sanzione conservativa del rapporto; licenziamenti intimati inbase a un giustificato motivo oggettivo manifestamente insussi-stente), la prescrizione dei diritti del lavoratore decorra oramai inmodo generalizzato dalla data di cessazione del rapporto di la-voro. E osservo pure che, per un limite processuale, la sentenzadella Corte costituzionale riguardo solamente la decorrenza dellaprescrizione per i crediti retributivi. In base al criterio dell’inter-pretazione costituzionalmente adeguatrice, si dovrebbe invece va-lutare, muovendo dalla considerazione del metus del lavoratoreper la rappresaglia del licenziamento, che la regola della decor-renza della prescrizione alla data di cessazione del rapporto di la-

(4) Vedi per tutti sul tema generale: G. BRONZINI, Il reddito di cittadinanza, Torino,

Edizioni Gruppo Abele, 2011.

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voro debba riguardare tutti i crediti del lavoratore, ivi compresiquelli a titolo risarcitorio e persino del diritto all’integrita dellaposizione contributiva.

Potrei formulare ulteriori riflessioni utili per il dibattito, ma iltempo e tiranno.

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FELICE TESTA

Valore costitutivo del diritto e mercato del lavoro: a proposito di uti-lita della prestazione lavorativa e regole del suo svolgimento.

Crisi e fondamenti del diritto del lavoro sono un binomio sucui, in verita, la nostra Associazione si sta interrogando almenodagli ultimi tre appuntamenti annuali, quest’anno l’esplicitazionedel tema nel titolo del convengo rende autoevidente l’impegno.

Crisi e fondamenti e un binomio su cui si interrogano le piuesperte generazioni di studiosi della nostra Materia e sul quale sidevono (e si vogliono) confrontare anche quelle piu giovani: peralcuni (per le prime) quel binomio rappresenta probabilmente laverifica rispetto agli studi finora condotti, per altri (per le se-conde) rappresenta un momento di confronto per la ripartenzadella costruzione dei fondamenti di tutela del diritto del lavoro.

Ragionare sul diritto rispetto alla crisi riporta d’attualita iltema del rapporto fra diritto e mercato.

Cerchero di esprimere, in una necessaria sintesi che spero ri-sulti ai lavori, cio che, a mio sommesso avviso, e al fondo del con-fronto fra un diritto del lavoro costruito sugli schemi tradizionalidi un rapporto di lavoro che si muoveva in un mercato ciclica-mente ripetitivo ed un diritto del lavoro che ormai si vorrebbepensare come anticiclico rispetto ad un mercato peraltro no piustatico ma assai dinamico. E, in altri termini, il tema della ripar-tenza della costruzione di regole del lavoro fondanti la tutela; e,in altri ancora, riscoprire il valore costitutivo del diritto rispettoal mercato stesso.

In questa prospettiva, allora, puo constatarsi come lo stessomercato nella realta fattuale non esista ma sia costruzione (locusartificialis) del pensiero umano che individua quella razionale cal-colabilita del ricorrere dei fatti e che seleziona, cosı, propensioniuniversali rispetto alla realta fattuale.

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In tal senso il diritto, anche quello del lavoro che puo restarediritto di tutela, non perdera mai la sua funzione epistemologicaper essersi messo in discussione rispetto alle propensioni ‘‘di mer-cato’’, anzi, proprio per questa via potrebbe mantenere l’attualitadella sua utilita.

La norma di diritto, a ben vedere, infatti, non e mai ne verane falsa rispetto alla realta perche e altro da questa se la si consi-dera posta per regolarla e, quindi, prima ancora per (ri)conoscerla(in cio permane la funzione epistemologica).

Ed a proposito di letture dei fondamenti in chiave di ripar-tenza della loro costruzione, come pure a proposito di propen-sioni, le riforme del diritto del ‘‘mercato’’ del lavoro di questi ul-timi lustri pare si siano massimamente incentrate, sulla pretesa diregolare le dinamiche fra entrata ed uscita dal mercato portandosidietro l’interrogativo irrisolto se sia compito del diritto (o delle re-gole, in generale) anche quello di far rinascere l’economia.

Ma nessuna riforma del mercato del lavoro si e veramentepreoccupata di quello che sta in mezzo fra entrata ed uscita, cioedello stare nel mercato e, dunque, dello svolgersi dei rapporti dilavoro. Direi assolutamente probabile che la regolazione dellosvolgimento del rapporto di lavoro non risulti indifferente ri-spetto ai saldi fra entrata ed uscita dal mercato.

Oggi l’istanza di flessibilita, cioe l’istanza di attenzione all’uti-lita del rapporto di lavoro, con riguardo allo svolgimento dellostesso, se ci pensiamo, e tutta affidata alle soluzioni collettive exart. 8 della l. 148/2011 che, se visto da questo punto di vista, danorma surrettizia diviene norma addirittura sistematica.

Il punto, infatti, e che le regole dei rapporti di lavoro ogginon sono piu certo quelle che creavano (o imponevano) minimi ditutela; forse non sono piu nemmeno quelle che riescono ad unifor-mare i comportamenti delle parti dei rapporti di lavoro; oggi si at-teggiano piu come le regole che sollecitano, al piu indirizzano, tu-tele ‘‘possibili’’ cioe quelle che hanno come metro di misurazionedella possibilita quello dell’utilita del rapporto nell’impresa.

D’altra parte che questo sia il nuovo corso delle regole deirapporti di lavoro ce lo indicano le stesse parti sociali: se si rileggel’incipit dell’Accordo interconfederale del 28.6.2011, che non muta,anzi si rafforza sul punto, con la postilla del settembre 2011, le re-lazioni sindacali (che quantitativamente sono la maggiore fonte diproduzione delle regole del lavoro) devono ‘‘creare condizioni di

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competitivita e produttivita tali da rafforzare il sistema produt-tivo, l’occupazione e le retribuzioni’’ quasi che la tutela dei princi-pali interessi del lavoratore, cioe il reddito ed il posto di lavoro,abbia come strumento la produttivita del datore di lavoro. Insenso analogo, e piu recentemente, si sono espresse le parti socialiin Francia con l’Accord National Interprofessionnel dell’11 gennaio2013.

E molto probabile, in questo quadro, che risulti molto piu in-cisivo, rispetto alle variazioni del saggio di disoccupazione, un in-tervento normativo sullo svolgimento del rapporto di lavoro diquanto non lo sia uno sulle fattispecie di entrata ed uscita dalmercato.

Certo non c’e il tempo oggi per ampi interventi di sistemasullo svolgimento del rapporto, ma servono interventi rapidi econcreti seppure attenti, per quanto possibile, ad inserirsi conuna certa sistematicita; ma se la sistematicita del tempo che vi-viamo sembra essere quella che abbina tutela con l’utilita nell’im-presa, due sono gli ambiti di intervento immediato: ius variandi econtrollo della prestazione.

Ma, come detto, oggi la regolazione della flessibilita di questiambiti e tutta affidata all’art. 8, l. 148/2011.

Oggi, come ieri, le scelte imprenditoriali sulle possibilita/uti-lita aziendali passano anche da una valutazione dei costi e fraquesti, quello del lavoro rappresenta ancora in Italia la parte piuconsiderevole dei costi amministrativi di una impresa.

Questo dato deve indurci a considerare che, per quanto non sipossa attribuire al solo diritto del lavoro, o al solo diritto in gene-rale, la crescita della competitivita aziendale, questo vi deve sen-z’altro contribuire e deve farlo rapidamente.

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ANNA TROJSI

La crisi economica e i diritti fondamentali dei lavoratori.

1. Cogliendo le numerose sollecitazioni provenienti dalle Re-lazioni di oggi e parafrasando il bel titolo di queste Giornate distudio A.I.D.LA.S.S., vorrei soffermarmi, se pur brevemente, sultema de « La crisi economica e i diritti fondamentali dei lavoratori »(invece che, o — meglio! — nell’ambito dei, « fondamenti del di-ritto del lavoro »).

Proprio in periodi, come quello attuale — in cui, di fronte aiproblemi della crisi, ed in un contesto economico globalizzato e di-gitalizzato, ci si pone l’obiettivo primario dei livelli occupazionali,attraverso l’immissione di nuove dosi di flessibilita, sia in entratasia in uscita dal rapporto di lavoro — diventa, infatti, a maggiorragione necessario non mettere da parte l’aspetto della tutela deidiritti attinenti alla « persona » del lavoratore, inevitabilmente piua rischio di essere sacrificati (e forse i primi ad esserlo), quandoprevale il bisogno di trovare (o di mantenere) il lavoro, e quandoil prestatore non ha un lavoro « stabile ». Cio, in quanto l’incer-tezza e la provvisorieta dell’occupazione, e l’indebolimento com-plessivo della condizione giuridica del lavoratore, dal punto di vi-sta della garanzia, legale e contrattuale, della posizione lavora-tiva, accentuano la disparita di forza contrattuale tra le parti erendono il lavoratore (o aspirante tale) piu vulnerabile, e quindipiu disposto a rinunciare appunto ai diritti relativi alla « per-sona ».

Al riguardo, un riferimento va fatto alla prospettiva, digrande fascino e pero oggi minoritaria, del ripartire dai diritticome volano della crescita economica. Nel senso che una maggioreattenzione alla tutela dei diritti dei lavoratori puo costituire unfattore di miglioramento del quadro economico, non dimenti-cando che i lavoratori sono, al tempo stesso, anche consumatori eche, quindi, la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la contra-

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zione dei redditi determinano il crollo dei consumi, alimentando ilcircolo vizioso della crisi economica sempre in peggioramento. Epertanto, si propone, come ricetta per spezzare questo circolo vi-zioso, quella di cominciare dal tutelare le condizioni dei lavora-tori. Per non parlare, poi, della possibilita che la maturazionedella consapevolezza, nei lavoratori, del loro potere contrattualein veste di « consumatori » porti a nuove forme di manifestazionedel conflitto collettivo, quale ad esempio lo « sciopero dei con-sumi » (gia sperimentate in altri Paesi).

Senza voler arrivare a tanto, va, in ogni caso, rimarcata l’im-portanza, oggi, della protezione dei diritti della persona del lavo-ratore, e di quelli della personalita in particolar modo: tema, a mecaro per impostazione culturale e per studi effettuati, rilevanteper la funzionalita alla garanzia della dignita e della liberta del la-voratore, il perseguimento delle quali — da sempre uno degliobiettivi di fondo, tradizionalmente propri del diritto del lavoro— deve rimanere irrinunciabile, indipendentemente dalle con-giunture economiche di contesto.

Eppure, oggi si vive la situazione, per certi versi paradossale,per cui la tutela di questi beni, per il lavoratore, nell’ordinamentoitaliano, o deriva dall’influsso di fonti sovranazionali — in specialmodo, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,che offre uno dei pochi nuovi baluardi della « dignita » del lavora-tore (artt. 1 e 31, par. 1) — o, nel diritto interno, trova appigli ditutela « indiretta », cioe piu nella legislazione generale, che inquella speciale sul lavoro. Il riferimento e, ad esempio, al d.lgs.n. 196 del 2003 — il noto « Codice in materia di protezione deidati personali » — il cui apparato normativo, che si applica ancheal lavoratore (come ad ogni altro soggetto presente nel territoriodello Stato), e, per espressa previsione, appunto finalizzato allagaranzia « dei diritti e delle liberta fondamentali, nonche della di-gnita dell’interessato », con particolare riferimento ai diritti all’i-dentita personale e alla riservatezza, oltre che alla protezione deidati (art. 2, comma 1).

2. Per valorizzare il profilo della tutela della persona, dellaliberta e della dignita del lavoratore, al fine di scongiurarne unainevitabile compromissione, bisogna allora, in primo luogo, ritor-nare alla Costituzione: alla sua impostazione di fondo pro labour eal valore, da essa espresso nell’art. 36, del lavoro come strumento

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per la realizzazione di un’esistenza libera e dignitosa per il lavora-tore (e per la sua famiglia); nonche alla individuazione, nell’art.41, della sicurezza, della liberta e della dignita umana come limitiall’iniziativa economica privata. Da cio discende una precisa indi-cazione circa l’obiettivo che deve sempre caratterizzare l’ordina-mento del lavoro, in ogni periodo storico e indipendentementedalle fasi dell’economia: vale a dire, la ricerca di un giusto equili-brio — certo mutevole nel tempo e variamente graduabile — trala tutela della « persona » del lavoratore, da una parte, e l’interessedell’imprenditore, le esigenze dell’organizzazione produttiva e laconcorrenzialita dell’impresa nel mercato, dall’altra parte: delcontemperamento, cioe, espressione del compromesso costituzio-nale tra istanze « protettive » ed esigenze « produttive », che hadato vita appunto all’articolo 41 della Costituzione.

Ed inoltre, bisogna ripartire dallo Statuto dei lavoratori (ov-vero, la legge n. 300 del 1970), che ha tradotto in norma l’obiet-tivo della tutela della liberta e della dignita dei lavoratori, mi-rando a rendere cosı concretamente possibile l’esercizio nelle im-prese dei diritti fondamentali dei lavoratori, mediante l’intreccioe l’interazione tra diritti individuali e diritti collettivi. Sarebbecioe opportuno, proprio in una fase storica come quella odierna,far tesoro dell’insegnamento dello Statuto dei lavoratori, in que-sto addirittura precorritore dei tempi: nell’aver esteso molte tu-tele persino a quanti « lavoratori » ancora non sono, ma semplice-mente ambiscono ad un’occupazione, ponendo sullo stesso pianola tutela del cittadino che e parte di un rapporto di lavoro, equella di colui che ad un lavoro aspira, nella considerazione cheanche prima dell’instaurazione del rapporto e direttamente impli-cata la persona umana, e si pone la medesima (se non ancora piuforte) esigenza di tutela della liberta e dignita.

L’auspicio e, in definitiva, che, accanto alla predisposizione dimisure, legali o contrattuali, di flessibilizzazione dei rapporti edelle condizioni di lavoro, volte a rincorrere la crisi economicaadattandovi le regole del lavoro, anche mediante un affievoli-mento delle tradizionali garanzie del rapporto di lavoro, e comecontrappeso delle stesse, si provveda ad un’estensione dell’ambitodi applicazione dei valori di tutela ispiratori dello Statuto. Che,dunque, si riprenda (portandolo a compimento) il progetto di uno« Statuto dei lavori », piu volte invocato in particolare nell’ultimoquindicennio, ma mai realizzato, che appunto individui e disci-

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plini un nucleo duro e inderogabile (minimo) di diritti fondamen-tali validi nei confronti di tutti i lavoratori che svolgono (o inten-dono svolgere) prestazioni a favore di terzi, siano essi soggetti(datori di lavoro) privati o pubblici, e indipendentemente dallanatura, dalla tipologia contrattuale e dal regime giuridico o dallostato del rapporto di lavoro, soprattutto di specificazione del det-tato costituzionale [alla salute e sicurezza sul lavoro; alla liberta edignita; all’abolizione del lavoro minorile; all’eliminazione di ogniforma di discriminazione; alla tutela contro le molestie e il mob-bing sul lavoro; a un compenso equo; alla protezione dei dati per-sonali; alla riservatezza; all’identita personale; alla liberta sinda-cale].

Questo era, del resto, un auspicio espresso da Massimo D’An-tona nelle sue ultime riflessioni sulla crisi d’identita del diritto dellavoro di fine secolo: il quale individuava nell’ampliamento del-l’ambito dello Statuto dei diritti fondamentali del lavoro, il rime-dio nei confronti del profondo cambiamento dei rischi insiti nelcoinvolgimento della persona del lavoratore, celandosi le nuoveinsidie alla « dignita e sicurezza » del lavoratore [nell’illusoria auto-nomia, e] nel reale isolamento solipsistico dei lavoratori che, gra-zie ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro e alla maggioreflessibilita del lavoro, l’impresa postfordista controlla meglio diprima. Una autonomia che — secondo D’Antona — resta dura,insormontabile dipendenza personale dalle sorti e dalle conve-nienze economiche dell’impresa altrui, arbitra di un destino indi-viduale e di un intero progetto di vita, una dipendenza per certiaspetti perfino piu gravosa di quella della fabbrica tradizionale,in quanto vissuta al di fuori di ogni esperienza collettiva e di ognisolidarieta.

3. Ecco perche non puo essere, al contrario, salutata con fa-vore la disposizione di cui all’articolo 8 del d.l. n. 138 del 2011(convertito, con modificazioni, dalla l. n. 148 del 2011), in specialmodo nella parte in cui autorizza il contratto collettivo (c.d. « diprossimita », sottoscritto a livello aziendale o territoriale da asso-ciazioni dei lavoratori comparativamente piu rappresentative sulpiano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanzesindacali operanti in azienda, ed efficace nei confronti di tutti i la-voratori interessati: comma 1) ad operare anche in deroga anorme di legge a garanzia di diritti fondamentali della persona del

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lavoratore (comma 2-bis). Il riferimento e, tra i vari esempi possi-bili, rintracciabili tra le materie elencate (dal comma 2 dell’arti-colo) inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione, inparticolare, all’attribuzione al contratto collettivo del potere didisciplinare gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tec-nologie come strumenti di lavoro (e, dunque, anche l’uso dellestesse per finalita di controllo sui lavoratori) (comma 2, lett. a).

Occorre, in proposito, rammentare che l’attribuzione di com-petenze regolative in materia ad accordi sindacali aziendali, peral-tro « autonomi » nel senso di svincolati dalla contrattazione nazio-nale, non costituisce certo una novita per il nostro ordinamento,avendoci pensato per la prima volta (anche in questo, lungimi-rante) lo Statuto dei lavoratori: conferendo al contratto aziendalefunzione autorizzatoria dell’installazione di impianti audiovisivi edi apparecchiature di controllo a distanza (art. 4, comma 2), non-che dell’effettuazione di visite personali di controllo sui lavoratori(art. 6, comma 3).

In questa stessa direzione, ed anzi facendo un ulteriore passoin avanti in termini di modernita dell’esigenza di tutela soddi-sfatta, si era posto, poi, l’art. 20 del d.p.r. n. 13 del 1986, che rece-piva, ai sensi dell’art. 12 della legge quadro sul pubblico impiegon. 93 del 1983, l’accordo intercompartimentale del 18 dicembre1985 (relativo al triennio 1985-87), ma che ha ormai cessato diprodurre effetti, secondo quanto disposto dall’art. 69, comma 1,del d.lgs. n. 165 del 2001. Tale articolo 20 attribuiva, infatti, unruolo di partecipazione e di regolazione alle organizzazioni sinda-cali, in occasione di interventi di progettazione di nuovi sistemiinformativi a base informatica o di modifica dei sistemi preesi-stenti, specie nei casi in cui il sistema installato consentisse la rac-colta e l’utilizzo di dati sulla quantita e qualita delle prestazionilavorative dei singoli operatori e, piu in generale, il trattamentodei dati dei lavoratori pubblici.

E si potrebbe pure concordare sul fatto che, tra i livelli dellacontrattazione collettiva, piu che quello nazionale, maggiormenteidoneo a svolgere il ruolo di regolazione in materia sia il livelloaziendale (e/o integrativo, per il pubblico impiego) di contratta-zione, per la sua capacita di coniare regole rispondenti alle esi-genze delle diverse realta organizzative.

Il conferimento di funzione normativa al contratto collettivo,appunto di livello aziendale o territoriale, da parte dell’art. 8 del

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d.l. n. 138 del 2011 potrebbe, pertanto, da questo punto di vista,essere considerato non con particolare sospetto, se non fosse ap-punto per la finalita di apportare deroghe alle disposizioni dilegge che disciplinano la materia (e il riferimento non puo che es-sere fondamentalmente all’art. 4 St. lav.), nonche alle eventualirelative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazio-nali di lavoro (comma 2-bis).

Appare, infatti, piuttosto evidente la diversita di funzione at-tribuita all’accordo sindacale aziendale dagli artt. 4 e 6 St. lav., ri-spetto a quella dell’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011.

4. Secondo l’art. 4, comma 2 (ma, allo stesso modo, anchel’art. 6, comma 3), dello Statuto dei lavoratori il contratto collet-tivo costituisce, infatti, strumento di rafforzamento della tutelalegislativa, ponendosi nella stessa direzione impressa da questa:concorrendo il compito autorizzatorio dell’installazione degli im-pianti audiovisivi e delle altre apparecchiature di controllo a di-stanza alla garanzia del rispetto dei limiti di legge, ed anzi mi-rando ad incrementarla mediante la individuazione, ad integra-zione del dettato legislativo, delle modalita specifiche per l’uso de-gli stessi.

Questa disciplina dello Statuto dei lavoratori, in materia di li-miti al controllo datoriale sui lavoratori, ha attribuito un ruolo ri-levante agli organismi di rappresentanza sindacale in azienda,conferendo loro il potere di concordare col datore di lavoro le re-gole del predetto controllo (nonche quello di ricorrere contro glieventuali provvedimenti dell’Ispettorato-Direzione provincialedel lavoro in materia), qualificando cosı come interesse « collet-tivo » (oltre che, naturalmente, al tempo stesso « individuale » deisingoli lavoratori), quello a che i lavoratori non vengano lesi nellaloro liberta morale mediante apparecchiature idonee al controllo adistanza (o visite personali di controllo), secondo la tecnica di tu-tela bidirezionale propria dello Statuto, che intreccia tutele indi-viduali e tutele collettive, al fine del complessivo rafforzamentodella posizione del lavoratore.

Rimettendo obbligatoriamente agli accordi tra il datore di la-voro e le rappresentanze sindacali aziendali — e, solo in difettodegli stessi, alla determinazione dell’Ispettorato (Direzione pro-vinciale) del lavoro — la individuazione delle ipotesi e delle moda-lita tanto di legittima installazione degli impianti audiovisivi e

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delle altre apparecchiature di controllo a distanza, quanto di le-gittima effettuazione delle visite personali di controllo, il legisla-tore ha inteso sottrarre le materie in questione agli arbitrii piu omeno manifesti del datore di lavoro, affidando l’esercizio di que-sto eccezionale potere inquisitorio alla concorde volonta dei sog-getti del rapporto, assegnando a questi gruppi esponenziali dellacomunita dei lavoratori il compito di delineare, mediante l’ac-cordo con il datore di lavoro, i casi e le modalita del controllo, af-finche questo si svolga in modo non arbitrario, vessatorio e discri-minatorio dei diritti e delle posizioni giuridiche dei lavoratori nel-l’azienda. Da cio deriva, naturalmente, la impossibilita (configu-rabile in termini di vero e proprio divieto) che l’accordo sindacalelegittimi la lesione dei diritti personali del singolo lavoratore: essonon puo, infatti, derogare ai limiti e alle condizioni di legittimitadell’installazione degli impianti/apparecchiature e delle visite per-sonali di controllo, rispettivamente fissati dagli artt. 4, comma 1,e 6, commi 1 e 2, St. lav., a garanzia della indisponibilita, anchecollettiva, della liberta, della dignita e della riservatezza dell’indi-viduo, in quanto diritti primari inviolabili della persona umana,solennemente riconosciuti dall’art. 2 Cost.. Il legislatore ha, anzi,tutelato nel modo piu forte questi diritti, sancendone l’intangibi-lita, non solo da parte del singolo, ma anche ad opera degli ac-cordi sindacali o del provvedimento dell’Ispettorato (Direzioneprovinciale) del lavoro, ed affermando in tal modo che i valoridella personalita non spettano collettivamente alla comunita deilavoratori, ma soltanto singolarmente a ciascuno di essi, per dipiu qualificandone la violazione come fattispecie di reato, ai sensidell’art. 38 St. lav..

E cosı, all’accordo sindacale di cui all’art. 4 e, in particolare,affidato il compito di garantire in concreto il rispetto del divietodi controllo a distanza dei lavoratori — sancito inderogabilmentedallo Statuto e dunque insuperabile, anche da parte della contrat-tazione collettiva — e la operativita della connessa (e conse-guente) sanzione della inutilizzabilita (anche a fini probatori)delle informazioni raccolte dal datore in violazione di tale divieto(oltre che della sanzione penale di cui all’art. 38 St. lav., richia-mata dal d.lgs. n. 196/2003). Dall’applicazione, dunque, dell’art. 4St. lav. al computer, come — se pur faticosamente — effettuatadalla giurisprudenza, deriva, senza dubbio, l’assegnazione al con-tratto collettivo aziendale di un importante e opportuno ruolo di

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individuazione delle ipotesi e delle modalita di legittimo impiegodi tali strumenti in azienda, e dei limiti di utilizzabilita delle in-formazioni ricavabili dagli stessi, che devono essere rispettosi delprincipio di finalizzazione alla soddisfazione di esigenze organizza-tive e produttive ovvero di sicurezza del lavoro, ma non al con-trollo a distanza dei lavoratori (e tanto meno dell’adempimentodella prestazione lavorativa).

5. Nel caso dell’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011 al contrattocollettivo e, invece, assegnata una funzione opposta: vale a dire,quella di introdurre deroghe ai divieti e ai limiti di legge, conside-rati di ostacolo rispetto al perseguimento delle finalita, di tipo oc-cupazionale, assegnate dallo stesso legislatore a tali contratti. Chesi tratti di un intento derogatorio in senso peggiorativo, volto adescludere l’applicabilita di discipline a tutela del lavoratore primainderogabili, si deduce, infatti, chiaramente proprio dalla « funzio-nalizzazione » degli accordi ad obbiettivi di maggiore occupazione,qualita dei contratti di lavoro, adozione di forme di partecipa-zione dei lavoratori, emersione del lavoro irregolare, incrementi dicompetitivita e di salario, gestione delle crisi aziendali e occupa-zionali, investimenti e avvio di nuove attivita (comma 1).

La norma ha, cosı, nell’ambito qui oggetto di analisi, attri-buito al contratto collettivo il potere di privare il lavoratore dellaunica garanzia applicabile all’uso delle tecnologie informatiche etelematiche, e di videosorveglianza, in azienda, ricavabile dalla le-gislazione, consistente appunto nel divieto di controllo a distanzadi questi. Dall’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011 e, dunque, messa inpericolo l’inderogabilita dell’art. 4 St. lav.: e, con essa, la sua (an-cora oggi, fondamentale) funzione di garanzia della personalitadei lavoratori, pur non potendosi nascondere l’inadeguatezzadella norma in rapporto alle nuove esigenze di regolazione del-l’uso, sul lavoro, delle tecnologie informatiche e telematiche. Inparticolare, in base alla suddetta disposizione del 2011, un ac-cordo sindacale aziendale o territoriale potrebbe escludere l’appli-cazione, in una certa azienda o in un determinato territorio, deldivieto di controllo a distanza dell’attivita dei lavoratori, di cui alcomma 1 dell’art. 4 St. lav., consentendo ai datori di lavoro ivioperanti tali odiose forme di vigilanza sui lavoratori, persino aifini dell’esercizio del potere di verifica dell’adempimento dellaprestazione lavorativa, oltre che delle condotte dei lavoratori rile-

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vanti per esigenze organizzative e produttive, di tutela del patri-monio aziendale o di sicurezza del lavoro.

Proprio, poi, in considerazione della inesistenza, nel nostro or-dinamento, di una regolamentazione legislativa specifica in mate-ria di « introduzione di nuove tecnologie » nel lavoro, e, in ognicaso, dubbia l’opportunita di affidarne il compito di disciplina so-stanzialmente in via esclusiva ad una fonte contrattuale, peraltrodi livello non nazionale, con possibili disparita di tutele tra i lavo-ratori: cio, anche perche lo stesso limite, previsto per questa con-trattazione, consistente nel divieto di contenere disposizioni lesivedi diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati,nonche garantiti dal diritto dell’Unione europea o dalle Conven-zioni internazionali sul lavoro (art. 8, comma 2-bis, d.l. n. 138 del2011), ha scarsa pregnanza nel caso di specie, proprio data lamancanza di norme che declinino tali diritti con apposito riferi-mento alle tecnologie informatiche e telematiche.

Va da se che il compito derogatorio in peius della disciplinadi legge, attribuito al contratto collettivo, volto ad eliminarne e/oa superarne i profili ritenuti troppo vincolistici e, quindi, contro-producenti rispetto all’obiettivo di incentivare l’occupazione,come rilevato dalle numerose critiche rivolte alla disposizione daparte della dottrina giuslavoristica, susciti numerosi dubbi di le-gittimita costituzionale. Oltre a quelli, prevalentemente rilevati,per contrasto con l’art. 39 Cost. — peraltro, non escluso, in lineadi principio, neppure dalla Corte costituzionale nella sentenzan. 221 del 4 ottobre 2012 — la norma in oggetto puo ritenersi con-fliggente con gli artt. 2, 4, 35 e 41, comma 2, Cost.: poiche, accre-ditando la non dimostrata (e, per certi versi, mistificatoria) teoriadella contrapposizione tra la garanzia dei diritti fondamentali dellavoratore, da una parte, e il reperimento e la copertura di postidi lavoro, dall’altra parte — che, falsando il rapporto tra questidue obbiettivi perseguibili dall’ordinamento, li configura comeinevitabilmente alternativi, facendo passare la privazione di di-ritti personali dei lavoratori come l’unico modo per incentivarel’occupazione — reca un pericoloso tentativo di strumentalizza-zione della crisi occupazionale come viatico per cancellare, oquanto meno per mettere in discussione, diritti inviolabili dei la-voratori. Il contenuto della disposizione, infine, e suscettibile didar vita a violazioni del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3Cost., producendo, mediante la realizzazione di regimi contrat-

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tuali differenziati, ingiustificate disparita di trattamento tra i la-voratori, rispetto al godimento dei diritti fondamentali della per-sona, a seconda dell’azienda o del territorio in cui operano.

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Venerdı 17 maggio - mattina

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TAVOLA ROTONDATAVOLA ROTONDA

UNO SGUARDO SULL’EUROPAUNO SGUARDO SULL’EUROPA

MAXIMILIAN FUCHS

IL RUOLO DEL DIRITTO DEL LAVORO EDELLA SICUREZZA SOCIALE NELLA CRISI ECONOMICA.L’ESPERIENZA TEDESCA

SOMMARIO: I. Introduzione. — II. Riforme del diritto del lavoro. — II.1. La legislazione sul

contratto di lavoro a tempo determinato. — II.2. Somministrazione di lavoro. —

II.3. Modifiche alla disciplina dei licenziamenti. — II.4. L’estensione dell’ipotesi dei

cosiddetti lavori minori. — III. Riforme degli ammortizzatori sociali. — III.1. Il si-

stema previgente. — a) L’indennita di disoccupazione. — b) L’assegno ai disoccupati.

— III.2. Il nuovo sistema. — III.3. Kurzarbeit (orario ridotto del lavoro). — III.4.

Altre riforme della sicurezza sociale. — IV. Gli effetti delle riforme. — V. La valuta-

zione delle riforme. — V.1. La struttura del mercato del lavoro. — V.2. Il livello dei

salari. — V.3. L’introduzione di salari minimi. — VI. Conclusioni.

I. Introduzione.

Il filo conduttore di molti studi recenti dei giuslavoristi euro-pei consiste nell’instaurazione di un nesso causale fra la crisi fi-nanziaria globale e la necessita di adottare riforme del diritto dellavoro. Si afferma, infatti, frequentemente che, per risanare leeconomie in crisi, i governi ed i parlamenti sono obbligati ad adot-tare modifiche, anche rilevanti ed a scapito dei lavoratori, del di-ritto del lavoro del singolo paese preso di volta in volta in consi-derazione (1). Ora, se ci chiediamo se anche la Germania abbiaagito in tal direzione, la risposta e senza ombra di dubbio nega-tiva. Negli anni 2008-2011, l’Arbeitsrecht tedesco non ha cam-

(1) Clauwaert, Schomann, 2012.

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biato rotta. Anzi le poche riforme che sono state fatte — come ve-dremo — sono sostanzialmente favorevoli ai lavoratori. Se ci in-terroghiamo sul perche di questi sviluppi, che sono difformi dal-l’esperienza di altri paesi, la risposta e abbastanza semplice: ab-biamo fatto la riforma con dieci anni di anticipo, esattamente nel2002, elaborando dapprima l’impostazione teorica della riformastessa e poi realizzandola negli anni successivi. Perche la riformaproprio in quel periodo precedente alla crisi finanziaria? Due sonoi motivi che hanno determinato il cambio di rotta: il primo e dinatura economica, il secondo di natura politica.

Le analisi, direi unanimi, vedevano l’economia tedesca inpiena crisi: crescita economica in calo, deficit pubblico enorme,alto tasso di disoccupazione, costo del lavoro troppo alto, peggio-ramento della posizione tedesca nel quadro della concorrenza in-ternazionale (2).

Cosı e nata una forte pressione sulla politica, sul governo deisocialdemocratici e verdi sotto la presidenza del cancelliere Schro-der. In vista delle elezioni dell’autunno del 2002 Schroder sapevache senza una manovra decisiva i giorni del suo governo sareb-bero stati contati. Incarico cosı il capo personale della Volkswa-gen, Peter Hartz a presiedere una commissione che aveva il com-pito di predisporre un rapporto sui profili della politica sociale, edin particolare del mercato del lavoro (3). Che era necessario rifor-mare. Dopo meno di sei mesi, cioe ancora prima delle elezioni, lacommissione Hartz presento un ampio rapporto, intitolato ‘‘Ser-vizi moderni al mercato del lavoro’’. Questo documento non solosalvo il governo Schroder di fronte all’elettorato, ma e addiritturadiventato la ‘‘bibbia’’ della futura politica sociale del nostro paesee cio sostanzialmente fino ad oggi.

Sulla base di questo rapporto, Schroder, quando fu chiamatoa presiedere il nuovo governo il 14 marzo 2003, resa nota la cosid-detta Agenda 2010 (4), un termine che e diventato fino ai giorninostri, il punto di riferimento, attorno a cui girava, e gira ancoraoggi, la discussione politica in Germania. Guardando indietro, adieci anni di distanza a questa dichiarazione del governo del 14

(2) Zimmermann, 2008.

(3) Moderne Dienstleistungen am Arbeitsmarkt, 2002.

(4) V. Meinel, 2003.

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marzo 2003, in cui Schroder formulava, senza alcun timore, unappello al ‘‘coraggio per il cambiamento’’ ed annunciava inter-venti nell’ambito del welfare sociale tedesco, si puo condividere ilgiudizio di un settimanale economico secondo il quale si tratto diuna vera e propria rivoluzione, ‘‘in quanto Schroder revocavauna legge fondamentale non scritta secondo cui in Germania lacrescita economica deve andare in tandem con una espansione so-ciale. L’Agenda 2010, la riforma piu grande del dopoguerra vio-lava questa legge e chiedeva ai tedeschi sforzi straordinari’’ (5).

Nel proporvi ora una breve analisi della riforma (6), mi con-centrero sui pilastri centrali della nuova politica sociale formulatadalla commissione Hartz. Volendo individuare la direzione econo-mica che l’Agenda aveva di mira, si potrebbe dire che la riformaintendeva stimolare gli imprenditori ad aumentare l’occupazionea fronte una diminuzione significativa del costo del lavoro. Il co-sto del lavoro per gli imprenditori deriva dal diritto del lavoro,ma anche dal diritto della sicurezza sociale. Per questo motivo lacommissione Hartz tento anzitutto di capire quali fossero i puntistrategici di entrambe queste materie per raggiungere l’obiettivoeconomico prefissato.

II. Riforme del diritto del lavoro.

Il legislatore ha attuato le proposte del rapporto Hartz tra-mite quattro leggi (7), la prima delle quali risale all’anno 2002.Per documentare, che si volevano creare discipline che si ispira-vano alla lettera e allo spirito del rapporto Hartz, queste leggiportano tutte lo stesso titolo del rapporto Hartz stesso, cioe:‘‘Legge per servizi moderni sul mercato del lavoro’’.

(5) Die Wirtschaftswoche, 2013, fascicolo 11, p. 20.

(6) Per una dettagliata analisi della riforma in seguito della Agenda 2010 v. il con-

tributo recente di Nebe, 2013.

(7) Erstes, Zweites, Drittes und Viertes Gesetz fur moderne Dienstleistungen am

Arbeitsmarkt, Bundesgesetzblatt I 2002, p. 4607; I 2002, p. 4721, p. 2848; I 2003, p. 2954.

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II.1. La legislazione sul contratto di lavoro a tempo determi-nato.

Abbiamo attuato la direttiva Ce sui contratti a tempo deter-minato nel 2001. Fondamentalmente, la legge attuativa richiedeper la legittimita dell’apposizione di un termine al contratto di la-voro la sussistenza di una ragione oggettiva (8). La legge fa unelenco non tassativo di alcune di queste ragioni; prevede ad esem-pio che il termine e legittimo se il lavoratore viene impiegato insostituzione di un altro lavoratore con diritto alla conservazionedel posto. La legge ammette per altro la possibilita di apporre iltermine anche senza che sussista una ragione giustificatrice di ca-rattere oggettivo, purche il rapporto abbia una durata inferiore adue anni. Fino al raggiungimento di tale durata massima com-plessiva di due anni e ammissibile anche la proroga per un mas-simo di tre volte di un contratto di lavoro a tempo determinato.

La legislazione Hartz ha esteso questa disciplina del 2001 ag-giungendo altre due ipotesi in cui non e richiesta la sussistenza diuna causale. La prima ipotesi in cui pure non e necessaria la sussi-stenza di una ragione oggettiva riguarda il caso delle imprese dinuova costituzione: in questa ipotesi, l’apposizione del terminepuo raggiungere un massimo di quattro anni, in coincidenza con iprimi quattro anni di vita dell’impresa stessa (9). La seconda ipo-tesi concerne, invece, l’assunzione di persone di eta avanzata. Neltentativo di migliorare la situazione di questo gruppo di personeil legislatore ha sancito la possibilita di assumere a termine senzala necessita di una ragione oggettiva coloro che hanno compiuto i52 anni di eta (10). Sulla sorte di questa seconda ipotesi e a tuttinota la sentenza Mangold, in cui la Corte di Giustizia ha dichia-rato tale disposizione incompatibile con il diritto comunita-rio (11).

(8) § 14 Teilzeitbefristungsgesetz (la legge sul lavoro parziale ed a tempo determi-

nato).

(9) V. § 14 comma 2 a Teilzeitbefristungsgesetz.

(10) V. § 14 comma 3 Teilzeitbefristungsgesetz.

(11) Per una analisi della sentenza Mangold e la causa Mangold davanti al Bunde-

sverfassungsgericht v. Fuchs, 2011.

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II.2. Somministrazione di lavoro.

Il rapporto Hartz poneva particolarmente l’accento sulla ne-cessita di promuovere il lavoro somministrato. Tralasciando ilfatto che Hartz intendeva realizzare le sue idee facendo ricorso adimprese fornitrici specializzate tramite cosiddette agenzie di ser-vizi personali, cio che qui importa e che Hartz propose di ridurregli ostacoli esistenti per il ricorso al lavoro somministrato (12).

La nuova legge del 2003 abolisce tutte le restrizioni normativeprevigenti (con l’unica eccezione del settore edile in cui le ipotesidi lavoro somministrato rimangono molto ristrette) (13). Il con-tratto fra i lavoratori e l’Agenzia interinale puo essere di naturaindeterminata o determinata ed in questo secondo caso si applicala legge sul contratto a tempo determinato. In pratica, le agenziepreferiscono quasi sempre il contratto a tempo indeterminato. Sel’impresa utilizzatrice rimanda in-dietro il lavoratore, l’agenziapuo distaccarlo ad un’altra impresa, o, se non ne ha piu bisogno,puo licenziarlo senza rischio, in quanto i lavoratori somministratidi solito non godono della tutela contro i licenziamenti poichequesta nasce solo dopo sei mesi di durata del rapporto di lavoro.Inoltre, non viene considerata come somministrazione la fornituradi lavoro fra due imprese dello stesso gruppo. Sulla base di questaregola gruppi di imprese hanno creato imprese nel loro ambitocon l’unico scopo di assumere personale e di distaccarlo ad un’al-tra impresa dello stesso gruppo, ovviamente a condizioni piu fa-vorevoli di quelle valide nell’impresa utilizzatrice (14).

La nuova legge segue le linee tracciate da una proposta diret-tiva Ce sul lavoro interinale presentata nel 2003 (15). Ed in lineacon tale premessa prevede il principio della parita di trattamentoin favore dei lavoratori somministrati (16). Allo stesso tempo perola legge recepisce dalla proposta della direttiva la possibilita per icontratti collettivi di derogare a questo principio, peraltro, con-trariamente a quanto previsto all’articolo 5 della proposta di di-

(12) Cfr. Moderne Dienstleistungen (op. cit. n. 3), pp. 147-157.

(13) Kokemoor, 2003.

(14) In 2011 una modifica alla legge ha abolito questa ipotesi.

(15) COM(2002) 701 fin.

(16) § 3 comma 1 n. 3 Arbeitnehmeruberlassungsgesetz (legge sulla somministra-

zione di lavoro).

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rettiva, cio puo aver luogo senza limiti. Questa disposizione hadato avvio in Germania ad una storia, per cosı dire, ‘‘pietosa’’ dicontrattazione collettiva. Un sindacato, dal nome cristiano, cheperaltro non aveva assunto alcuna rilevanza fino ad allora, scoprıil settore del lavoro somministrato come proprio campo d’a-zione (17). Esso ha cosı concluso una serie di contratti collettivicon imprese fornitrici che derogavano al principio della parita ditrattamento prevedendo per di piu livelli molto bassi di salario edi condizioni di lavoro. Ovviamente le Agenzie interinali e le loroassociazioni erano ben disposte a concludere contratti collettivicon questi contenuti facendo inoltre ricorso ad una disposizionedella nuova legge che prevedeva l’incorporazione del contrattocollettivo, interamente o in parte, nel contratto individuale. Cioera previsto per evitare che il contratto collettivo non si appli-casse per la solita mancanza dell’iscrizione dei lavoratori sommini-strati ad un sindacato.

Ovviamente gli altri sindacati, quelli organizzati nella confe-derazione DGB, hanno guardato a questi sviluppi — per cui unsindacato privo di rappresentativita si era impadronito del settoreinterinale — con molta preoccupazione. Alla resa dei conti ancheloro sono stati pero costretti a concludere contratti collettivi chederogavano al principio della parita di trattamento, perche gli im-prenditori, facendo leva sulla possibilita prevista dalla legge, nonerano disposti ad accettare il rispetto di questo principio (18).

II.3. Modifiche alla disciplina dei licenziamenti.

Il rapporto Hartz non si occupava della disciplina dei licen-ziamenti. Tuttavia il legislatore attuava alcune modifiche che inparte portavano con se la reintroduzione di elementi di una legi-slazione previgente (19). In questo luogo va ricordato solo unaspetto della riforma. Si riteneva giustificate le critiche avanzatecontro l’ambito di applicazione in riguardo alle piccole imprese.Per questo motivo si restringeva l’ambito di applicazione della

(17) Per gli sviluppi della contrattazione collettiva nella somministrazione si rinvia

a Fuchs, Manske, 2010.

(18) Per approfondimenti, Fuchs, 2009, 60.

(19) A riguardo v. Nebe, 2013, 3 s.

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legge sui licenziamenti ordinari stabilendo la soglia quantitativaalle imprese con piu di 10 lavoratori in luogo di 5 lavoratori se-condo il diritto previgente (20).

II.4. L’estensione dell’ipotesi dei cosiddetti lavori minori.

Alcuni di voi forse si ricordano della sentenza Nolte dellaCorte di Giustizia (21). Una corte tedesca aveva rinviato una do-manda alla corte di Lussemburgo per far sindacare la compatibi-lita di una disposizione del codice della sicurezza sociale che pre-vedeva l’esenzione dall’assicurazione obbligatoria contro la malat-tia e contro la vecchiaia. La disposizione in questione riguardavalavoratori che svolgevano un lavoro minore, intendendo per taleun lavoro che, da un lato, viene regolarmente esercitato secondoun orario settimanale inferiore alle 15 ore e, dall’altro, in cui il sa-lario mensile non supera di norma un certo limite retributivo cheviene adeguato annualmente (22). Nel periodo in cui si sviluppo ilcaso Nolte, il limite ammontava a circa 500 DM (circa 250 euro).L’attrice reclamava una discriminazione sessuale, perche le per-sone occupate sulla base di questa tipologia contrattuale erano inmaggioranza donne. La Corte di Giustizia ha dichiarato la disposi-zione in oggetto compatibile con il diritto comunitario accettandola giustificazione sostenuta dal governo tedesco secondo cui la ti-pologia serviva a disincentivare il lavoro sommerso (23).

Quando il ricorso a questa tipologia contrattuale ha iniziato ariguardare la quota molto ragguardevole di 5 milioni di occupatialla fine degli anni Novanta, il nostro legislatore ha tentato di di-sincentivare l’uso di lavori minori chiedendo alle imprese il paga-mento di somme forfettarie alle casse per l’assicurazione sanitariae agli istituti pensionistici. La commissione Hartz voleva allargareulteriormente la possibilita ricorrere ai cosiddetti lavori mi-nori (24). Essa ha cosı proposto di elevare il limite retributivo a

(20) Per una documentazione ed analisi approfondita del sistema dei licenziamenti

tedesco v. Santagata, 2012; 2013.

(21) Causa 317/93, Nolte, in: Raccolta, 1995, p. 4650.

(22) L’ipotesi e contenuta oggi nel § 8 SGB IV (il quarto libro del Codice Sociale). Il

requisito temporale e stato eliminato.

(23) Causa 317/93, Nolte, in: Raccolta, 1995, par. 32/34.

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500 euro. La legge attuativa di questa proposta ha pero fissato illimite a 400 euro. Vedremo se questa tipologia contrattuale gio-chera un ruolo rilevante, sebbene ovviamente discutibile, nel mer-cato del lavoro tedesco.

III. Riforme degli ammortizzatori sociali.

III.1. Il sistema previgente.

Nel sistema tedesco il sistema della tutela contro la disoccu-pazione si basava, tradizionalmente, su due pilastri (25):

a) L’indennita di disoccupazione.

Il diritto all’indennita di disoccupazione era condizionato allamaturazione di una certa anzianita contributiva. Il diritto all’in-dennita di disoccupazione sorgeva in capo a chi e stato titolare diun rapporto di lavoro di dodici mesi nel biennio precedente algiorno in cui sussistevano tutti i requisiti necessari all’erogazionedell’indennita di disoccupazione stessa.

Il legislatore stabiliva poi che l’ammontare dell’indennita didisoccupazione fosse determinato in percentuale della retribu-zione da prendere come base di calcolo dell’indennita di disoccu-pazione stessa. Grosso modo si puo dire che questa retribuzioneera pari, piu o meno, alla retribuzione netta percepita dal disoccu-pato nel periodo precedente alla cessazione del rapporto di lavoro.L’ammontare dell’indennita di disoccupazione corrispondeva al60% della retribuzione cosı individuata, e veniva elevata al 67%di detta retribuzione per i familiari a carico del disoccupato.

Quanto alla durata dell’erogazione dell’indennita di disoccu-pazione erano decisivi due criteri:

— la durata dei rapporti di lavoro nel triennio precedente al-l’inizio della disoccupazione e

— l’eta del disoccupato al sorgere del diritto all’indennita.

(24) Moderne Dienstleistungen (op. cit., n. 3), p. 169.

(25) Per una descrizione del sistema v. Fuchs, 2010.

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b) L’assegno ai disoccupati.

Dopo la fine dell’erogazione dell’indennita di disoccupazionesorgeva il diritto ad un ulteriore trattamento di disoccupazione:l’assegno ai disoccupati (Arbeitslosenhilfe). Il livello di questa pre-stazione era molto piu basso dell’indennita di disoccupazione, am-montava al 53% del precedente reddito netto; esso aumentavafino al 57% qualora il disoccupato avesse avuto a carico almenoun figlio. Inoltre — e in questo consiste la differenza piu impor-tante rispetto all’indennita di disoccupazione — tale assegno ri-chiedeva che il disoccupato versasse in una comprovata situa-zione di bisogno. Il pagamento della prestazione si svolgeva senzalimite temporale.

III.2. Il nuovo sistema.

La filosofia che ha portato la commissione Hartz alla formula-zione delle proposte per la modifica allo schema attuale della pro-tezione contra la disoccupazione e stata battezzata con la parolad’ordine ‘‘fordern und fordern’’ (26). Un gioco di parole che tra-dotto in italiano suona in modo invero poco poetico: promuoveree chiedere. In realta, si tratta di una concezione che vuole, da unlato, offrire servizi effettivi di ritorno dei disoccupati allo stato dioccupazione e, dall’altro lato, richiede, rispetto al passato, unosforzo piu intenso alla persona disoccupata. Chi non segue questeregole del gioco e punito con sanzioni anche gravi, come la perditao il ritardato pagamento di una prestazione economica.

La realizzazione di questa nuova impostazione ha luogo sudue livelli. L’erogazione dell’indennita di disoccupazione e condi-zionata dalla disponibilita del richiedente o a svolgere ogni lavorodefinito dalla legge come ‘‘ragionevolmente accettabile’’ oppure apartecipare a misure di addestramento. L’agenzia del lavoro puoproporre al disoccupato un posto di lavoro che non deve necessa-riamente conformarsi alle attitudini del disoccupato stesso, op-pure alle attivita svolte dallo stesso precedentemente oppure an-cora alla formazione che egli ha acquisito.

(26) Fuchs, 2010.

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Accanto a questo aggravio dei requisiti dell’indennita di di-soccupazione, la novita piu rilevante della riforma consiste nell’a-bolizione dell’assegno ai disoccupati e nella creazione, in sua sosti-tuzione, di una nuova prestazione economica che e stata costruitasecondo i parametri dell’assistenza sociale (27). Questa riforma ri-sponde alle frequenti critiche secondo le quali molti disoccupatiprivilegiavano l’assegno di disoccupazione, sebbene esso fosse tut-t’altro che elevato, rispetto ad un lavoro caratterizzato da un sa-lario di basso livello. In altre parole, la riduzione ulteriore dellaprestazione ai disoccupati mira a costringere i disoccupati ad ac-cettare anche lavori a basso reddito. I requisiti della nuova pre-stazione denominata ‘‘indennita di disoccupazione II’’ sono:

— eta compresa tra i 50 e i 65 anni;— capacita di svolgere un’attivita lavorativa (minimo 3 ore

giornaliere);— uno stato di bisogno di un sostegno finanziario;quest’ultimo criterio e quello dell’assistenza sociale. Bisognoso

di tutela e chi non e capace di provvedere alle proprie fondamen-tali esigenze di vita mediante lo svolgimento di un lavoro accetta-bile o mediante l’utilizzo di altri redditi o mezzi patrimoniali o an-cora attraverso il sostegno di altri soggetti cui la legge impone unobbligo di mantenimento nei confronti della persona bisognosa.

L’ammontare della prestazione e al momento di 382 euro almese. A questa somma si aggiungono i costi dell’abitazione, con lariserva pero che questi non siano sproporzionati. Sull’impatto diquesto vero e proprio smantellamento del sistema precedente par-lero piu tardi.

III.3. Kurzarbeit (orario ridotto del lavoro).

Prima di concentrarmi sugli effetti delle riforme tedesche, eopportuno che mi soffermi su uno strumento molto importanteper fronteggiare la crisi o, meglio, per il management della crisi. Atal fine nel 2009 e stato rivitalizzata e flessibilizzata la cosiddettaKurzarbeit (il lavoro ad orario ridotto). Si tratta di uno strumentoche era gia stato introdotto nel 1957 ma che era poi stato utiliz-

(27) Faber, 2005; Fuchs, 2010.

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zato molto poco e che ha lo scopo di mitigare gli effetti che una si-tuazione economicamente difficile comporta per un’impresa conparticolare riguardo alle situazioni in cui sussiste la minaccia di ri-correre a licenziamenti collettivi per la mancanza di commesse al-l’impresa stessa. La Kurzarbeit rappresenta un istituto complessoche e composto da elementi: contrattuali, previdenziali e relativialla codeterminazione aziendale.

In estrema sintesi, lo schema funziona in questo modo (28): ildatore di lavoro conclude un accordo con il comitato aziendalestabilendo una riduzione dell’orario di lavoro in corrispondenzacon il livello delle commissioni. Nelle aziende senza comitatoaziendale il datore di lavoro effettua una modifica temporaneadell’orario di lavoro con il consenso dei lavoratori. Se non si rea-lizza una modifica consensuale, il datore di lavoro puo adottareun recesso modificativo. Di conseguenza, l’orario ridotto portacon se il pagamento di un salario ridotto. A rimediare alla ridu-zione del reddito interviene l’assicurazione di disoccupazione conla cosiddetta ‘‘indennita di orario ridotto’’. Questa prestazioneammonta al 67% (in caso di membri familiari mantenuti) e vice-versa al 60% della differenza fra il salario ridotto e il salario pa-gato previo all’entrata in vigore dell’orario ridotto. La durata dicorresponsione della prestazione e, di regola, di sei mesi. Nel 2009l’istituto e stato flessibilizzato prevedendo che il Ministero del La-voro possa autorizzare ad estendere l’erogazione dell’indennitafino a 24 mesi; il che e concretamente avvenuto nel 2009 nel pe-riodo piu acuto della crisi.

E opinione comune che l’istituto teste descritto si e mostratouno strumento miracoloso nel management della crisi. Come ve-dremo e stato un rimedio molto importante contro la minaccia didisoccupazione.

III.4. Altre riforme della sicurezza sociale.

Nel periodo di cui stiamo parlando sono stati realizzati tantealtre riforme previdenziali che hanno perseguito lo stesso obiet-tivo che le riforme gia menzionate: ridurre il cuneo fiscale. Qui

(28) Petrak, 2010.

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non e il luogo di andare nei dettagli. Forse una delle riforme siaricordata, quella pensionistica. L’accesso alle varie tipologie dipensioni e stato aggravato aumentando l’anzianita necessaria peracquisire il diritto alla pensione. Ed in un arco di 15 anni l’etapensionabile sara elevata da 65 a 67 anni. Con queste riforme erapossibile diminuire il tasso di contributi alle casse pensioni da19,9% a 18,9%, una enorme agevolazione per le imprese.

IV. Gli effetti delle riforme.

Nel 2005 (29), al momento dell’entrata in vigore della riformaHartz riguardante gli ammortizzatori sociali, in Germania si regi-stravano quasi 5 milioni di disoccupati. Nel 2006 il numero erasceso a 4,5 milioni, nel 2007 a 3,7 milioni; nel 2008 a 3,2 milioni;un leggero aumento si e registrato nel 2009 in cui si e arrivati allacifra di 3,4 milioni; e poi seguita una diminuzione nel 2010 fino a3,2 milioni; alla fine del 2011 si e giunti a 2,9 milioni. Nel periodotra il 2007 e il 2011 e anche aumentato — da 26 a 28 milioni — ilnumero degli occupati con obbligo di assicurazione sociale.

Se c’e stato nel 2009 un leggero aumento della disoccupazionedi circa 200.000 unita, cio e legato al fatto che, soprattutto nelsettore dell’industria automobilistica, sono stati licenziati moltemigliaia di lavoratori somministrati.

Allo stesso tempo pero sono stati evidenti gli effetti positividell’introduzione del lavoro ad orario ridotto (Kurzarbeit) che haimpedito l’aumento della disoccupazione. Mentre all’inizio del2007 solo poco piu di 16.000 lavoratori erano occupati con la for-mula della Kurzarbeit, nel 2008 pero il numero saliva fino a100.000 ed e poi esploso fino a 1,1 milioni nel 2009, nel 2010 esso esceso a 500.000; per arrivare, infine, nel 2011 a 150.000. Questinumeri misurano la grande efficacia di tale strumento compostoda elementi di diritto del lavoro e della sicurezza sociale.

(29) Per i numeri statistici forniti sotto IV si rinvia a Arbeitsmarktberichte der

Bundesagentur fur Arbeit 2000-bis 2011, http://statistik.arbeitsagentur.de/Navigation/

Statistik/Arbeitsmarktberichte/Jahresbericht-Arbeitsmarkt-Deutschland-Nav.html e Sta-

tista — Das Statistikportal, http://de.statista, com/statistik/daten/studie/38136/umfrage/

beitragsssaetze-zur-arbeitslosenversicherung-seit-2004.

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Cosı si spiega anche il perche il tasso di disoccupazione sia di-minuito, se si trascura un breve aumento nel 2009, persino du-rante la crisi finanziaria. Inoltre il meccanismo della Kurzarbeitha permesso alle imprese di mantenere l’organico, almeno la mag-gior parte di esso e, soprattutto, i lavoratori piu qualificati chesono risultati indispensabili al buon andamento dell’azienda nelmomento in cui la congiuntura e migliorata.

Questi numeri forniscono una prova evidente di come le ri-forme realizzate abbiano avuto un efficace risultato sul mercatodel lavoro. Il cambiamento dell’assicurazione contro la disoccupa-zione ha sicuramente condizionato il comportamento individualedelle persone coinvolte. Queste ultime sono state disposte anchead accettare posti di lavoro poco gradevoli pur di non ricevereprestazioni economiche secondo le regole dell’assistenza sociale.Dall’altra parte gli imprenditori hanno aumentato in modo consi-derevole l’offerta di posti di lavoro in vista di un favorevole svi-luppo del cuneo fiscale. Cosı i contributi per l’assicurazione controla disoccupazione, che vengono divisi tra datori di lavoro e lavo-ratori, si sono abbassati dal 6,8% nel 2005 al 3,9% nel 2007, pas-sando al 3,3% nel 2008 per arrivare alla fine al 2,8% nel 2009.Quindi anche per queste ragioni si spiegano gli sviluppi positiviregistrati nell’occupazione nel bel mezzo della generale crisi econo-mica globale.

V. La valutazione delle riforme.

Se si leggessero i discorsi che negli ultimi anni del primo de-cennio del nuovo millennio sono stati tenuti da parte dei datori dilavoro in onore dell’ex Cancelliere Schroder e si ascoltassero levoci dei rappresentanti delle associazioni industriali e dell’artigia-nato, in occasione della retrospettiva sui dieci anni dell’‘‘Agenda2010’’, si riconoscerebbe un’unanime e straordinaria lode a questariforma. Se invece, al contrario, si analizzassero le opinioni sinda-cali sullo stesso tema, il risultato sarebbe completamente diverso.

Per farsi un’idea di queste opinioni divergenti, e necessariauna breve analisi del mercato del lavoro, cosı come esso si e svi-luppato durante gli anni della crisi e anche dopo.

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V.1. La struttura del mercato del lavoro.

Per quanto riguarda le tipologie di lavoro precario, il mercatodel lavoro presente i seguenti dati (30).

Iniziando dal lavoro part-time, esso e aumentato dal 2007 al2011 da 4,5 milioni a 5,7 milioni. Gli esperti stimano una quotadel 25% di lavoro part-time involontario. Il numero degli occu-pati a tempo determinato e aumentato da 4,9 milioni a 5,1 milionidal 2007 al 2011. Ancora piu forte e stata la crescita del lavorosomministrato che nel 2003 era ancora fermo a 328.000 unita. Manel 2007 il numero di questi lavoratori ammontava gia a 721.000,con una leggera diminuzione nel 2008 a 674.000 e nel 2009 a632.000, per poi registrare un evidente aumento sul livello pre-crisi fino a 824.000 nel 2010 e a 872.000 nel 2011. A questi numeridell’occupazione precaria si deve aggiungere infine il numero deilavori minori che hanno superato, nel frattempo, la soglia dei 7milioni in modo che ora l’invocazione di una riforma di questa ti-pologia lavorativa e diventato abbastanza forte.

I precedenti dati mostrano in modo chiaro come il mercatodel lavoro risulti abbastanza frammentato.

V.2. Il livello dei salari.

Una valutazione dello sviluppo del mercato del lavoro deveprendere in considerazione anche il livello dei salari e qui si regi-strano chiari riscontri che lo sviluppo descritto ha creato tantisettori dell’economia chiamati ‘‘a basso livello retributivo’’ (31).

(30) V. di nuovo le fonti statistiche sopra menzionate (n. 29) ed inoltre http://stati-

stik.arbeitsagentur.de/nn_31950/SiteGlobals/Forms/Rubrikensuche/Rubrikensuche_-

Form.html?view=processForm&resourceId=210368&input_=&pageLocale=de&topicI-

D=17398&year_month=201112&year_month.GROUP=1&search=Suchen.

(31) Per gli sviluppi dei salari un’ottima fonte di informazione e Sozialversiche-

rungspflichtige Bruttoarbeitsentgelte — Entgeltstatistik der Bundesagentur fur Arbeit,

visionabile al sito http://statistik.arbeitsagentur.de/nn_300648/SiteGlobals/Forms/Rubri-

kensuche/Rubrikensuche_Form.html?view=processForm&resourceId=210368&input_=&-

pageLocale=de&topicID=300640&year_month=201012&year_month.GROUP=1&search=-

Suchen; v. anche Kalina T., Weinkopf C., Niedriglohnbeschaftigung 2010: Fast jede/r

Vierte arbeitet fur Niedriglohn, IAQ-Report 2012/01, visionabile al sito http://www.ia-

q.uni-due-de/iaq-report/.

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Questi settori sono caratterizzati da salari che ammontano ameno di 2/3 dello stipendio medio dei lavoratori che hanno l’ob-bligo dell’assicurazione sociale.

Esempi particolarmente significativi sono quelli dei salarimolto bassi, 400 euro, derivanti da lavori minori. Altrettanto ne-gativi appaiono i redditi dei lavoratori interinali. Da un totale di632.000 lavoratori interinali nel 2009, solo la meta aveva un la-voro a tempo pieno e di questi il 72% guadagnavano meno di 2/3dello stipendio medio garantito dalle imprese utilizzatrici.

Volendo riassumere il tutto, occorre sottolineare che un grannumero di lavoratori non riceve un salario sufficiente alle esigenzedi vita. Per questo motivo da molti anni circa 1,4 milioni di questilavoratori mal pagati riscuotono l’indennita di disoccupazione IIper integrare il reddito dal lavoro.

V.3. L’introduzione di salari minimi.

Data questa situazione si e sviluppata gia nel corso della crisifinanziaria, una discussione politica, in cui e stata espressa la vo-lonta, condivisa da una larga maggioranza parlamentare, di rime-diare a quello che e stato definito un problema di giustizia sociale.Si e discusso sul fatto se una retribuzione derivante da un lavoroa tempo pieno debba garantire o no quel minimo necessario a sod-disfare le esigenze di vita.

Sulla base di questo principio il legislatore ha creato duenuovi binari nel diritto del lavoro o meglio ha trasformato dueesistenti binari tronchi in due binari veri e propri. Nel 1996, at-tuando la direttiva relativa al distacco dei lavoratori e stato in-trodotto il salario minimo per il settore edile per le attivita dei la-voratori stranieri svolte nell’ambito di una prestazione di ser-vizi (32). La legge attuativa ha previsto una specifica tipologia dicontratto collettivo volta a disciplinare le retribuzioni minime ob-bligatorie per tutti i datori di lavoro, sia stranieri che nazionali, acondizione che il contratto collettivo sia munito dell’effetto ‘‘ergaomnes’’. Questo effetto dipende da una cosiddetta dichiarazioned’efficacia ‘‘erga omnes’’, pronunciata dal Ministero del Lavoro

(32) Hanau, 1996.

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Federale con il consenso di una commissione e su richiesta di unadelle parti stipulanti il contratto collettivo che puo aver luogoqualora i datori di lavoro vincolati dal contratto collettivo occu-pino non meno del 50% dei lavoratori che ricadono nell’ambitodel contratto preso in considerazione. Con questo principio lalegge ha voluto rispettare l’autonomia collettiva. Senza l’inizia-tiva e l’opera delle associazioni sindacali e datoriali non puo es-serci, infatti, un salario minimo.

Con una modifica alla legge nel 2009 (33) si e portata avantitale impostazione pur aggiungendovi qualche novita. La primanovita consiste nell’estensione significativa dei settori coinvolti.Al settore edile hanno fatto seguito i servizi di pulizia, quello deicopritetto, degli imbianchini e dei verniciatori, dei servizi di sicu-rezza, delle lavanderie, dei servizi postali, dell’assistenza e dellacura e anche della formazione professionale iniziale e due mesi fadei barbieri. Non sorprende affatto che la legge si concentri suquesti settori. Infatti sono tutti settori di servizi in cui — come enoto — i sindacati sono deboli per mancanza di un numero ade-guato di iscritti e, di conseguenza, il livello dei salari e moltobasso. La seconda novita concerne l’istituto del salario minimosul quale mi sono soffermato precedentemente. Nel momento incui non si raggiunge il sopra menzionato quorum del 50% dei la-voratori occupati, il Ministero del Lavoro e autorizzato ad ema-nare un decreto su richiesta delle parti stipulanti il contratto col-lettivo. Questa seconda alternativa e stata usata per tutti i set-tori. Per darvi un idea del livello dei salari minimi stabiliti se-condo tale procedura, la retribuzione oraria va da 7,50 a 12,50 E.

Il secondo binario posto nel 2009 e costituito dal ricorso aduna legge del 1952, relativa alla fissazione di condizioni minime dilavoro. Questa legge, e le disposizioni in essa contenute, non sonoperaltro mai state utilizzate. Solo le vicissitudini della crisi finan-ziaria hanno indotto il legislatore nel 2009 ad intervenire rivitaliz-zando questa legge (34).

Alla stregua di tale legge, possono essere determinati livellisalariali minimi anche in settori dell’economia in cui datori di la-voro siano vincolati da un contratto collettivo ed abbiano alle

(33) Lowisch, 2009.

(34) Sittard, 2009.

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proprie dipendenze meno del 50% dei lavoratori occupati nell’am-bito degli stessi contratti.

Requisito essenziale per la fissazione di tariffe minime e ilperseguimento di tre criteri. Le tariffe minime sono necessariesolo:

a) per la creazione di condizioni di lavoro adeguateb) per la garanzia di una leale concorrenzac) per il mantenimento di rapporti di lavoro coperti dalle as-

sicurazioni sociali.Commissioni speciali composte da rappresentanti dei sinda-

cati e associazioni datoriali decidono sulla sussistenza o meno diquesti criteri e propongono le tariffe minime che entrano in vigorenel momento in cui il Governo Federale, su richiesta del Ministerodel Lavoro, emana un decreto. Queste tariffe minime salarialisono valide per tutti i datori sia nazionali che stranieri.

VI. Conclusioni.

Gli sviluppi descritti in precedenza ci mostrano un’immagineambigua. E fuori dubbio che le misure prese nel campo del dirittodel lavoro e degli ammortizzatori sociali nel 2002 e negli anni suc-cessivi hanno avuto un successo. Queste hanno migliorato la cre-scita economica, la posizione nazionale ed internazionale delle im-prese. Hanno fornito anche un contributo significativo all’occupa-zione. Allo stesso tempo pero non si puo nemmeno negare che ilsuccesso economico e stato distribuito in senso unilaterale. Il fat-tore capitale e aumentato sostanzialmente di piu rispetto al fat-tore lavoro. I numeri parlano una lingua inequivocabile. Secondole statistiche nel periodo che va dal 2003 fino al 2012 i profitti e lerendite da valori patrimoniali sono saliti del 39% mentre i redditidal lavoro dipendente solo del 19% (35).

Nell’ultimo rapporto del governo sulla poverta/ricchezza,pubblicato nel marzo 2013, e stato scritto: ‘‘E evidente che laparte maggiore della crescita del reddito nazionale cadeva sui pro-

(35) Volkswirtschaftliche Gesamtrechnungen Inlandsproduktsberechnung, 2013, vi-

sionabile al sito https://www.destatis.de/DE/Publikationen/Thematisch/Volkswirtschaftli-

cheGesamtrechnungen/Inlandsprodukt/InlandsproduktsberechnungLangeRei-

henPDF_2180150.pdf?_blob=publicationFile.

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fitti e patrimoni, mentre i redditi dal lavoro dipendente restavanoindietro’’ (36).

Da questo fatto emergono due problemi che probabilmentevanno a definire le future discussioni politiche e anche l’immi-nente campagna elettorale. Il primo si riferisce alle conseguenzenegative per la domanda interna causate da un livello troppobasso dei salari. In un clamoroso discorso e — per quanto io nesappia — per la prima volta un ministro delle finanze lo scorsonovembre ha chiesto un aumento del livello salariale. Critichesono state avanzate anche a livello europeo. La Francia ed il Bel-gio si sono lamentati del dumping salariale tedesco. Ed il commis-sario per gli affari sociali, l’ungherese Andor, ha affermato che illivello salariale in Germania non e accettabile in vista delle ecce-denze dell’esportazione.

Il secondo problema e forse ancora piu grave. Si tratta delladisuguaglianza e della giustizia sociale, un problema che minacciala coesione sociale e la pace sociale, un problema che esiste nonsolo nel mio paese, ma in molti paesi industriali avanzati, soprat-tutto negli Stati Uniti come ci ha insegnato il premio Nobel Jo-seph Stiglitz con il suo libro ‘‘The price of inequality’’ (37).

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(36) BT-Drucks. 17/12650, p. 61 s.

(37) Stiglitz, 2012 e Stiglitz, 2013.

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ANTOINE JEAMMAUD

L’INCIDENZA DELLA CRISI ECONOMICASUI PRINCIPI BASILARI DEL DIRITTO DEL LAVORO.IL CASO FRANCESE (*)

SOMMARIO: 1. Concetti. — 2. I « principi basilari » del diritto del lavoro della Repubblica

francese. — 3. Gli impatti (piu) significativi della crisi.

1. Concetti.

1.1. « Principi basilari del diritto del lavoro »L’espressione non deve intendersi come denominazione di una

categoria di norme giuridiche — specie dei « principi » opposta aquale delle « regole » — ma invece come sinonimo di caratteristicheessenziali e tendenze sostanziali piu notevoli del complesso norma-tivo che disciplina le relazioni del lavoro dipendente (salariato).

1.2. « Incidenza della crisi economica su un sistema di dirittodel lavoro »

Conviene distinguere due direzioni (o livelli) d’incidenza.

1.2.1. Incidenze sulle relazioni tra le norme e le pratiche so-ciali

— In termini di effetivita di norme (punto di vista del gradodi conformita delle azioni degi attori sociali e delle situazioni em-piriche alle norme che li disciplinano)

— In termini di efficacia dei dispositivi normativi (punto divista del conseguimento dei risultati meta-giuridici perseguiti conl’emanazione di quelle norme).

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(*) Il testo e aggiornato a maggio 2013.

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1.2.2. Incidenze in forma di cambiamento normativo— Flessibilizzazione e riduzione dei costi dell’inquadramento

dell’assunzione e dell’utilizzo della manodopera— Introduzione d’incentivi piu diretti all’assunzione di lavo-

ratori.

2. I « principi basilari » del diritto del lavoro della Repubblicafrancese.

2.1. Una caratteristica delle fonti normative e della loro arti-colazione: la figura dell’« ordine pubblico sociale ».

2.2. Tendenze sostanziali:— regolazione del mercato del lavoro (servizio pubblico per

l’impiego: dispositivi di « politica attiva dell’impiego »)— protezione della salute e della sicurezza del lavoratore— limitazione del tempo di lavoro (istituto della « durata le-

gale del lavoro », con tendenza alla sua costante riduzione)— stabilizzazione del rapporto di lavoro (disciplina del trasfe-

rimento d’azienda / accrescimento delle cause di sospensione delcontratto / inquadramento del licenziamento e istituzione del con-tratto a tempo indeterminato e per un orario completo come con-tratto di lavoro di diritto comune / ecc.) e protezione dei redditidel lavoratore

— stabilizzazione delle condizioni d’impiego e di prestazionedel lavoro

— inquadramento legale e « procedimentalizzazione » dei po-teri imprenditoriali

— istituzione di mezzi d’espressione e difesa degli interessi epunti di vista dei lavoratori

— stimolazione della contrattazione collettiva.

3. Gli impatti (piu) significativi della crisi.

3.1. Sotto l’aspetto delle relazioni fra norme e fatti/dati so-ciali

— Banalizzazione di fenomeni d’ampia ineffettivita di alcunidispositivi d’inquadramento dell’assunzione di manodopera (so-

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prattutto: regime del contratto a tempo determinato o del lavorotemporaneo)

— Chiara limitazione o perdita d’efficacia della disciplina dellicenziamento per motivo economico e della procedimentalizza-zione del potere direttivo per quanto riguarda l’effettiva stabilitanellimpiego, la salvaguardia di posti di lavoro, la transizione pro-fessionale dei licenziati, ma anche e piu ampiamente l’influenzadei rappresentanti dei lavoratori sulle scelte imprenditoriali; unasempre piu dubbiosa efficacia del servizio pubblico per l’impiego.

3.2. Nel campo dei cambiamenti normativi

3.2.1. Sviluppo d’una retorica di reazione alla crisi fra richie-sta di « flessibilizzazione del diritto del lavoro » e ricerca di « flessi-curezza »; in particolare nel contesto di negoziazione, firma (peruna maggioranza di confederazioni sindacali) e « trasposizione le-gislativa » dei due accordi nazionali interprofessionali nei ultimianni:

— ANI « sulla modernizzaione del mercato del lavoro » (gen-naio 2008),

— ANI « per un nuovo modello economico e sociale al serviziodella competivita delle imprese e della rassicurazione del impiegoe dei percorsi professionali dei lavoratori », (gennaio 2013).

3.2.2. Bilancio: alcuni istituti illustrativi dei principi basilaridel diritto del lavoro francese hanno subito alterazioni:

— l’inderogabilita in pejus tra convenzioni o accordi collet-tivi di distinti livelli;

— la disciplina del licenziamento in quanto fattore di stabi-lizzazione del rapporto di lavoro (ammissione e inquadramentodella risoluzione convenzionale (con indennita di recesso e godi-mento dell’assicurazione-disoccupazione; possibilita nuova di alle-gerimento negoziato del regime del licenziamento collettivo permotivo economico; tendenza alla riduzione delle possibilita di con-testare giudiziariamente il licenziamento);

— la forza vincolante del contratto di lavoro come mezzo diresistenza al jus variandi collettivamente pattuito.

Modeste paiono le controparti ottenute dai lavoratori: princi-palmente la cosidetta « portabilita » di alcuni diritti in materia diprevidenza complementare e formazione professionale.

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In fin dei conti, sebbene l’odierno diritto francese rimangalontano dal tipo d’equilibrio che accenna la stessa parola « flessi-curezza », non si puo parlare del suo « crollo », neanche della sua« crisi ».

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ALAN NEAL

POST-RECESSIONARY LABOUR LAW:ANOTHER BRITISH PARADOX?

SOMMARIO: 1. Introduction. — 2. Employment Protection and the ‘‘Floor of Rights’’. — 3.

Post-Financial Crisis and the ‘‘Floor of Rights’’. — 3.1. The Challenge to Tripartism.

— 3.2. Lowering the ‘‘Floor of Rights’’? — 3.3. Limiting Access to Justice for ‘‘Floor

of Rights’’ Enforcement. — 4. Key Drivers for Post-Financial Crisis Labour Law in

the United Kingdom. — 5. A Pessimistic Postscript.

1. Introduction.

The background to the current state of the United Kingdomlabour market and its associated labour law protections has to besought, in common with so many of the countries of the Eur-opean Union, in the global financial crisis and its attendant reces-sion over the past half decade. Indeed, as one of the world’s ma-jor financial centres, the impact of that global financial crisis of2007/2008, culminating symbolically in the collapse of LehmanBrothers on 15 September 2008 (1), was felt particularly severelyin the City of London.

The immediate effects of that period of dramatic and unfore-seen recession have displayed many of the classic indicators of re-cession-hit labour markets. Thus, the United Kingdom has wit-nessed substantial wage freezing (in all but name) along with at-tempts to limit state pension provision (in relation to which therecessionary impact has been exacerbating the already-presentproblems posed by an ageing population enjoying greater longev-

(1) See inter alia the chapter by RICHARD SWEDBERG, The structure of confidence andthe collapse of Lehman Brothers, in M. LOUNSBURY & P. HIRSCH (eds), Markets on Trial: TheEconomic Sociology of the U.S. Financial Crisis: Part A (Research in the Sociology of Orga-

nizations, Volume 30) (Ithaca 2010), 71.

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ity calling for new and effective financial mechanisms for sustain-ing pension entitlements). There has also been a much broadercontraction in the provision of public services, whether in theprovision of health services, education services, or, where theseremain in public ownership, transport provision.

This having been said, however, it is generally acknowledgedthat the United Kingdom economy and its labour market appearto be displaying a number of ‘‘unexpected features’’ when com-pared with experience during past periods of recession. In parti-cular, there has been strong growth in private sector job creation(although, arguably, with a significant reliance upon a dramaticexpansion of ‘‘self-employed’’ activity), which has taken placeagainst the background of a steady increase in the size of the ac-tive labour force. At the same time, there has been an absence ofany dramatic rise in levels of open unemployment — a particularfeature which marks out this modern recession as unusual bycomparison with previous recessionary eras. Within those unem-ployed there has been a fall in the level of youth unemployment,as well as falls in relation to long-term unemployment — albeitthat both of those phenomena remain stubbornly high from a his-torical perspective. Thus, it remains the case that new entrantsto the job market — whether from school or from university —continue to find it extremely difficult to obtain job openings andeven more problematic to secure anything like permanent or ‘‘ca-reer’’ employment. Similarly, the problem of long-term unem-ployment has persisted notwithstanding the best efforts of pol-icy-makers from all parts of the political spectrum.

These features also have to be seen in conjunction with his-torically low levels of trade union membership density (2). This isparticularly the case in the private sector, where the level of un-ion membership has dropped to around 14% — and, indeed, it isonly the relatively buoyant trade union membership levels in thepublic sector (much of which is due to female trade union affilia-tion) which sustains an overall trade union membership densitylevel for the United Kingdom at anywhere above 25% of the ac-tive working population (3). A further indicator of retreat from

(2) See NIKKI BROWNLIE, Trade Union Membership 2011 (BIS, London 2012).

(3) Trade union membership in the United Kingdom has fallen from a peak of over

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areas in which trade unions had traditionally ‘‘strutted theirstuff’’ can be seen with the diminishing number of days lostthrough strikes over a historical perspective. Thus, a relativelylow number of 233,000 days were lost in the twelve months toJanuary 2013, from a total of 129 stoppages (4).

2. Employment Protection and the ‘‘Floor of Rights’’.

The provision of a statutory framework of employment protec-tions for workers active in the United Kingdom labour market hasoften been described in the words of the late Lord Wedderburn, asa ‘‘floor of rights’’ (5). That floor of rights has seen substantial ex-pansion since the 1960s, particularly as a wide range of employ-ment protection measures have been introduced in conformitywith social policy provisions enacted at the level of the EuropeanUnion. However, a number of commentators have expressed theview that the current post-recessionary climate has served to facil-itate a full-frontal attack on that floor of rights, with strategic re-moval or weakening of various ‘‘rights’’ included within it (6).

Certainly, since the early 1960s when Wedderburn developedhis notion of the floor of rights, there have been a number of de-velopments which have dramatically transformed the UnitedKingdom labour market and its associated labour relations. Thus,there has been a clear departure from the position described bythe Donovan Commission which analysed the position between1965 and 1968 (7). In particular, there has been an undeniable re-treat from ‘‘voluntarism’’, while, at the same time, there has beena formidable rise in normative regulation through labour laws (8).

13 million in 1979 to a level of around 6.5 million by 2012. This reflects a union density

across the labour market as a whole in the order of 26%.

(4) ONS, Labour Market Statistics, March 2013, Table 20. A significant proportion

of those days were attributable to a co-ordinated one-day strike on 30 May 2012 by public

sector workers over proposed changes to pension schemes.

(5) K.W. WEDDERBURN, The Worker and the Law (Harmondsworth 1965).

(6) See, for a flavour of this approach, ‘‘Employment law reforms are attack on

workers, unions claim’’, The Independent, 14 September 2012.

(7) Report of the Royal Commission on Trade Unions and Employers’ Associations,

1965-1968 (Chairman, Lord Donovan), (Cmnd. 3623, London 1968).

(8) See this author’s contribution to European Commission, The Evolution of La-

bour Law (1992-2003), Volume 2, National Report: United Kingdom (Luxembourg 2004).

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These have come essentially in the form of statutory interven-tions (whether through primary legislation or, increasingly, byway of secondary regulatory legislation) in a country where col-lective bargaining almost never gives rise to binding commit-ments between the social partners in the form of legally-enforce-able collective agreements (9).

The floor of rights for individual workers has been establishedto complement a structure of collective labour law which includesstatutory support for trade union ‘‘recognition’’ (10), althoughthere has also been a withdrawal of previous explicit statutoryduties to promote ‘‘free collective bargaining’’ (11). So, too, signif-icant limits have been placed upon the right (or, as it is consid-ered in that country, the ‘‘freedom’’) to strike in the UnitedKingdom, particularly in the wake of a series of statutory inter-ventions following the first government of Prime Minister Mar-garet Thatcher, elected in 1979. Thus, the permissible objects fora lawful strike have been steadily narrowed, while proceduralprovisions — including the holding of strike ballots and detailednotification duties owed by trade unions in relation to enterpriseswhich are intended to be subject to strike action — have servedfurther to reduce the incidence of industrial action in UnitedKingdom.

At the same time, however, the individual labour law rightsestablished to protect persons at work have seen the development

(9) See F. SCHMIDT & A. NEAL, Collective Agreements and Collective Bargaining, Inter-national Encyclopedia of Comparative Law, Volume XV, Chapter 12, (Mohr 1984) and ALAN

C. NEAL, The collective agreement as a public law instrument, in E.K. BANAKAS (ed), UnitedKingdom Law in the 1980s (Butterworths 1988), 205.

(10) Where enterprises and employers refuse to engage with trade unions in relation

to matters concerning terms and conditions of employment, pay, and other features of

working life. See, now, Trade Union and Labour Relations (Consolidation) Act 1992, Sche-

dule A1. The statutory arrangements in this regard have been criticised ever since their

introduction in 1999 as being over-complex and ineffective in the face of an intransigent

employer.

(11) This process found its most direct expression when the statutory duty intro-

duced by section 1(2) of the Employment Protection Act 1975 charging the Advisory Con-

ciliation and Arbitration Service (ACAS) with ‘‘...the general duty of promoting the im-

provement of industrial relations, and in particular of encouraging the extension of collec-

tive bargaining and the development and, where necessary, reform of collective bargaining

machinery’’ was repealed by the Trade Union and Labour Relations (Consolidation) Act

1992.

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of remedies for ‘‘unfair dismissal’’ (12), provisions to protect theright to full and timely payment of wages (13), a wide range ofhealth and safety protection (much of which owes its form andorigin to initiatives at the level of the European Union) (14), anda broad variety of anti-discrimination measures — the most re-cent framework for which also owes much to structures at the le-vel of the European Union (15). Those individual labour law pro-tections, therefore, can be seen to have their roots in a mix ofcontexts, so that not only are there rights inspired by establisheddomestic contract-based and other rights, but there is also an in-creasing range of rights deriving from European Union-inspiredregulation, while, particularly since the enactment and cominginto force of the Human Rights Act 1998, there has also been anincreasing emphasis upon ensuring conformity with the frame-work of ‘‘human rights’’ set down by the European Conventionon Human Rights 1950.

That ‘‘floor’’ of employment protection rights has been sus-ceptible to enforcement in a variety of complementary ways. Ameasure of ‘‘industrial justice’’ is accessed through the UnitedKingdom’s Advisory, Conciliation and Arbitration Service(ACAS), which operates both in relation to individual disputesand at the collective disputes level. Perhaps most significantly —given that traditional mechanisms of ‘‘collective bargaining’’have been in decline for the last 35 years (16) — there are also ar-

(12) Originally introduced by the Industrial Relations Act 1971, and now to be

found in Part X of the Employment Rights Act 1996.

(13) Introduced by the Wages Act 1986 (modernising and extending the scope of

protection of the old Truck Acts of 1831, 1887 and 1896).

(14) In particular, to Council Directive 89/391/EEC of 12 June 1989 on the intro-

duction of measures to encourage improvements in the safety and health of workers at

work, along with its ‘‘daughter’’ Directives.

(15) Now to be found in the Equality Act 2010. See, for the European Union fra-

mework, the two Directives introduced in 2000: Council Directive 2000/43/EC, of 29 June

2000, implementing the principle of equal treatment between persons irrespective of racial

or ethnic origin, and Council Directive 2000/78/EC, of 27 November 2000, establishing a

general framework for equal treatment in employment and occupation.

(16) For the ‘‘retreat from collective bargaining’’, see the most recent data pre-

sented in the Workplace Employment Relations Survey (WERS), and consider the respec-

tive analyses in W. BROWN, A. BRYSON, J. FORTH & K. WHITFIELD (eds), The Evolution ofthe Modern Workplace (Cambridge 2009) and the contribution of P. MARGINSON, (Re)asses-sing the shifting contours of Britain’s collective industrial relations, (2012) 43 Industrial Re-

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rangements for labour dispute settlement (almost exclusively forindividual rights issues) through a judicial structure comprisingEmployment Tribunals (a first instance judicial forum for the re-solution of disputes over matters such as unfair dismissal, pay-ment of wages, and discrimination issues) and a specialist Em-ployment Appeal Tribunal (EAT), which hears appeals on pointsof law from those Employment Tribunals (17).

There has also, to a limited extent, been access to ‘‘administra-tive justice’’ in respect of certain work-related statutory rights,while a narrow range of enforcement provisions make use of penal-ties under criminal (penal) law. An example of the former can beseen in relation to matters such as payments in the event of eco-nomic dismissals (what in the United Kingdom are referred to as‘‘redundancies’’) (18), while examples of the latter are to be seenmost prominently in relation to breaches in the field of health andsafety at work (19), as well as in relation to areas such as observanceof the ‘‘national minimum wage’’ (20), and enforcement of provisionsrelating to illegal employment within the United Kingdom (21).

3. Post-Financial Crisis and the ‘‘Floor of Rights’’.

During the period which has followed the financial crisis of2007/2008, and since the election to office of a coalition govern-

lations Journal 332. For a longer historical trajectory see the contributions to W. BROWN

(ed), the Changing Contours of British Industrial Relations (Oxford 1981), and, subse-

quently, W. BROWN, The Contraction of Collective Bargaining in Britain, (1993) 31 British

Journal of Industrial Relations 189.

(17) Further recourse to judicial reconsideration in cases which have progressed

from the Employment Tribunals through the EAT may be possible by way of appeals to

the Court of Appeal (the normal appeal level for civil litigation disputes) and, eventually,

the United Kingdom Supreme Court. All four levels of adjudication have the power to

make a reference for a preliminary ruling by the Court of Justice of the European Union,

under the provisions of Article 267 of the Treaty on the Functioning of the European Un-

ion.

(18) Originally introduced by the Redundancy Payments Act 1965.

(19) Under provisions set out in the Health and Safety at Work Act 1974.

(20) See the National Minimum Wage Act 1998.

(21) Now provided for in sections 15-25 of the Immigration, Asylum and National-

ity Act 2006, which replaced the original penalty regime under section 8 of the Asylum

and Immigration Act 1996.

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ment in 2010 (comprising an amalgam of Conservative and Lib-eral Democrat members of Parliament), there appears to have de-veloped a widely-held perception that the established ‘‘floor ofrights’’ has been subjected to a sustained and significant attack— and, in places, has been subject to wide-ranging replacementor repeal. However, when one begins to ‘‘scratch below the sur-face’’, by reference to recent legislative activity and considerationof current direct rights provision, it has to be acknowledged thatthere is only limited evidence of any ‘‘dismantling’’ of that estab-lished ‘‘floor of rights’’, and certainly little or nothing to supportthe proposition that there is, or has been, a systematic strategyto that effect. On the other hand, it may be suggested that thereis, at least, some evidence of a combination of ‘‘undermining fac-tors’’ impacting upon the ability of workers to rely upon effectivelabour law protection and to resort to accessible and effective me-chanisms for remedy where alleged breaches of the rights com-prising that ‘‘employment protection’’ are perceived. The positionmay be illustrated as follows.

3.1. The Challenge to Tripartism.

At an institutional level, there has been an ongoing structuralchallenge mounted to tripartism and to the existence and activ-ities of tripartite bodies. These tripartite bodies have historicallyplayed a significant role in the context of industrial relations ar-rangements for determining pay and conditions in agriculturaland various other (generally, low-pay) sectors, as well as in rela-tion to health and safety matters. They have also enjoyed a sig-nificant role in the context of judicial resolution of individual la-bour disputes by the Employment Tribunals (formerly known asIndustrial Tribunals), which were established with a tripartitecomposition, made up of a legally qualified chairperson sitting to-gether with a ‘‘lay’’-member drawn from the trade union move-ment (originally through the Trade Union Congress, TUC) andanother ‘‘lay’’-member with employer experience (originallythrough the Confederation of British Industry, CBI).

That position changed in the United Kingdom with a shiftaway from TUC and CBI representation, not least by reason ofthe stance adopted by the trade union movement towards the

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end of the first period of office of the government of MrsThatcher, when, at its ‘‘Wembley Congress’’ in 1982 (22), thatbody effectively chose to break off relations with the incumbentConservative government, in the fond belief that the Conserva-tive government of Mrs Thatcher would never win the pendinggeneral election to be held in the following year. That assump-tion, however, fell victim to a wave of popularity engendered bythe Prime Minister of the day in the context of a military conflictbetween the United Kingdom and Argentina over the FalklandIslands, and, to the consternation of the trade union movement,the government of Mrs Thatcher was re-elected to office in 1983.Thereafter, the newly re-elected government proceeded graduallyto exclude the trade union movement from its work in relation toregulation of the labour market, and effectively dismantled muchof the range of tripartite arrangements which had been carefullyset up over many years of ‘‘voluntarist’’ industrial relationswithin the United Kingdom.

That structural attack on tripartism gave rise to a rapidtransformation of formerly tripartite bodies — particularly in re-lation to areas concerning vocational training and in relation tohealth and safety matters — with a particular objective to reflectmore explicitly ‘‘the interests of business’’. At the same time, for-mal ‘‘as of right’’ CBI and TUC involvement in the appointmentof ‘‘lay’’-members to Employment Tribunals was done awaywith, and the process of appointment to those positions wasamended to what is now regarded as ‘‘open competition’’. The re-sult of that change in the appointment of ‘‘lay’’-members of theTribunals has given rise to a very different constituency withinthe make-up of Employment Tribunal membership (23).

(22) The TUC held a ‘‘Special Conference’’ on 5 April 1982, stimulated particularly

by the introduction of an Employment Act 1982, whose provisions included a variety of

restrictions upon the immunities from liability on the parts of trade unions engaged in the

organising of industrial action. A policy of general ‘‘non-co-operation’’ with the govern-

ment of the day and its industrial relations legislation (including, in certain circumstances,

non-participation in various tripartite bodies) was followed up by the adoption of a resolu-

tion at the TUC’s annual conference on 7 September 1982 calling for ‘‘militant resistance’’

(including industrial action) to the 1982 Act.

(23) Current work being undertaken by Corby & Latreille, through the University

of Greenwich, is looking at characteristics of ‘‘lay’’ membership within the Employment

Tribunals.

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There have also been a variety of (mainly Treasury inspired)proposals from time to time designed to limit the utilisation androle of ‘‘lay’’-members in the Employment Tribunals (24). Thishas primarily been done on the basis of arguments such as costand efficiency — although it has been interesting to note that agenerally resistant stance has been reported on the part of theemployment judiciary. However, an increasing allocation of tri-bunal cases to be heard before an Employment Judge sittingalone has confirmed this shift in the direction of professional ‘‘ju-dicial’’ predominance over the tripartite professional/’’lay’’ com-position. In consequence, it is now normal for cases before Em-ployment Tribunals (with the exception of ‘‘discrimination’’cases) to be heard by a judge alone — something which is nowbeing complemented by broadly equivalent arrangements in theEmployment Appeal Tribunal. Indeed, the most recent push inthis direction has been to include ‘‘unfair dismissal’’ cases (his-torically making up some 40% of the total work-load of the Em-ployment Tribunals) to be heard, in the normal event, by an Em-ployment Judge sitting alone (25).

This attack on tripartism in the United Kingdom, coupledwith the aftermath of what in hindsight appears to have been theill-judged stance adopted by the TUC in 1982, needs also to beseen in a broader international context. In particular, it is note-worthy that a similar ‘‘destabilising’’ tendency has been launchedat the level of the International Labour Organisation (ILO), withthe position adopted by the employer side at the ILO’s interna-tional labour conference of 2012 (26).

So, too, can one see that some of the direct impacts of reces-sionary fiscal policies in crisis areas within the ‘‘Eurozone’’ have

(24) See, for example, the 1994 Green Paper, Resolving Employment Rights Dis-

putes: Options for Reform (Cm 2707); a consultation document entitled Routes to resolu-

tion: improving dispute resolution in Britain, published in 2001; and various proposals

flowing out of debate surrounding the Report of the Review of Tribunals by Sir Andrew

Leggatt: Tribunals for Users - One System, One Service (published 16 August 2001).

(25) See the Employment Tribunals Act 1996 (Tribunal Composition) Order 2012

(S.I. 2012 No. 988).

(26) For an indication of what transpired at that time, see L. SWEPSTON, Crisis inthe ILO Supervisory System: Dispute over the Right to Strike, (2013) 29 International Jour-

nal of Comparative Labour Law and Industrial Relations 199.

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served to emphasise the challenge posed to established ‘‘employ-ment protection’’ arrangements and to collective bargaining ar-rangements more generally in Europe. In particular, the situationin Greece, as regards ‘‘conditionality’’ imposed by ‘‘the Troika’’of the IMF, the ECB and the European Commission as a pre-con-dition for financial bailout in the dire economic circumstances ex-perienced by that particular EU Member State, has given rise tomajor concern (27). An ILO evaluation of the impact of those‘‘conditionality’’ arrangements came to the clear and damningconclusion that direct interference with the availability and en-joyment of fundamental labour rights (including the right to free-dom of association and collective bargaining — matters subjectto the ‘‘core’’ ILO Conventions 87 and 98) was being witnessed asan immediate consequence of that supra-national financial andeconomic management intervention into the autonomy of the so-vereign state concerned (28).

3.2. Lowering the ‘‘Floor of Rights’’?

While the tripartite framework of what passes for ‘‘socialpartnership’’ in the United Kingdom has clearly been undergoinga long-term loosening and restriction, it is quite difficult to sub-stantiate any claim that there has been a ‘‘lowering’’ of the level

(27) See Greece: Memorandum of Understanding on Specific Economic Policy Con-

ditionality, May 2, 2010; Ireland: Memorandum of Understanding on Specific Economic

Policy Conditionality, November 28, 2010; Portugal: Memorandum of Understanding on

Specific Economic Policy Conditionality, 3 May 2011; and the Letter of 5 August 2011,

from Mario Draghi (at that time the Governor of the Bank of Italy) and Jean-Claude Tri-

chet (the then President of the European Central Bank) to the Italian Prime Minister, Sil-

vio Berlusconi.

(28) See ILO, Report on the High Level Mission to Greece (Athens, 19-23 Septem-

ber 2011). Even the anodyne language of formal ILO documents cannot disguise the ser-

iousness of the concern expressed in the concluding section of that report, to the effect

that: ‘‘...the High Level Mission echoes the concern expressed to it by many parties that

overall, the changes being introduced to the industrial relations system in the current cir-

cumstances are likely to have a spillover effect on collective bargaining as a whole, to the

detriment of social peace and society at large. The High Level Mission refers in this regard

to the obligation of Greece under ratified Conventions to promote the practice of collective

bargaining in general.’’ (Paragraph 307).

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of individual employment protection rights through direct legisla-tive intervention.

While it is certainly necessary to recognise that, for example,the thresholds for triggering an employer’s obligation of consulta-tion prior to the implementation of ‘‘collective dismissals’’ (amatter regulated, in essence, by provisions introduced at the levelof the Europe Union) have recently been adjusted downwards,this reflects part of a broader policy than a ‘‘mere attack’’ on theemployment protection ‘‘floor of rights’’. The underlying policyhere purports to be a removal of ‘‘gold-plated’’ implementationmeasures adopted by the United Kingdom in respect of EU socialpolicy directives as part of its duty as an addressee Member Stateto give effect to the provisions of those directives (29).

There has also been a narrowing of the scope for ‘‘whistle-blowing’’ protection in the United Kingdom, an area which hasbeen developed over a number of years on the basis of an area ofregulation known as ‘‘public interest disclosure’’ protection (30).This area of ‘‘employment protection’’ is particularly interestingsince the mechanism had been developing in such a way as effec-tively to deliver some degree of protection to workers who suf-fered bullying or personal harassment in the workplace (wherethe bullying or harassment was not motivated by or linked toone of the ‘‘protected characteristics’’ for which the framework ofanti-discrimination law protections has been established underwhat is now the Equality Act 2010) (31). The amended scope ofthe ‘‘whistleblowing’’ protection, however, has now been limited

(29) See, for example, the reports and initiatives flowing from the work of the Bet-

ter Regulation Taskforce, later renamed in 2006 as the Better Regulation Commission.

That body was established by the earlier Labour government. Deregulatory initiatives un-

der the post-2009 coalition government are now driven primarily by the so-called ‘‘Red

Tape Challenge’’, whose effects on employment-related matters (in addition to the reduc-

tion of the ‘‘collective dismissals’’ consultation thresholds) have included an increase in

the qualifying period before employees can enjoy protection against ‘‘unfair dismissal’’,

limiting of the financial remedies available to unfairly dismissed employees, amendments

to the scope of protection for workers in the event of transfers of undertakings, and an

overhaul of the rules of procedure for the Employment Tribunals.

(30) See the amendments to part IVA of the Employment Rights Act 1996, which

are to be introduced by the Enterprise and Regulatory Reform Act 2013 with effect from

25 June 2013.

(31) It should also be noted that the United Kingdom has not yet developed any

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only to situations in which the worker making the alleged ‘‘pro-tected disclosure’’ can establish that this was done in circum-stances where the disclosure was ‘‘in the public interest’’. This,arguably, marks no more than a return to the original intentionof the provisions which were initially introduced as a frameworkfor ‘‘public interest disclosure’’, and would be seen by many asdoing little more than curbing the impact of overly-creative case-law extending the scope of qualifying protected disclosures be-yond the original intention of the legislator (32).

Perhaps the strongest example to support the view of thosewho consider there to be an ongoing assault upon the ‘‘floor ofrights’’ has been an extension of the qualifying period for the en-joyment of ‘‘unfair dismissal’’ protection, from one year to 2years of service (33).

By contrast, however, it should also be noted that the ‘‘floorof rights’’ has on occasions actually been extended. This is thecase in relation to protection against detriments inflicted on thegrounds of political opinion or political affiliation (an adjustmentwhich was introduced in the wake of a finding against the UnitedKingdom by the European Court of Human Rights) (34). It canalso be seen in an extension of statutory anti-discrimination pro-tection to cover the ‘‘protected characteristic’’ of caste (35).

notion akin to the phenomenon of ‘‘mobbing’’ recognised in a number of Continental Eur-

opean systems.

(32) See the position following the decision of the Employment Appeal Tribunal in

Parkins v Sodexho Ltd, [2001] UKEAT 1239, which opened the way to the proposition

that a disclosure relating to an alleged breach by the employer of the employee’s own per-

sonal contract of employment could be encompassed within the notion of a ‘‘qualifying

disclosure’’.

(33) Introduced, with effect from 6 April 2012, by the Unfair dismissal and State-

ment of Reasons for Dismissal (Variation of Qualifying Period) Order 2012 (S.I. 2012 No.

989).

(34) See Case of Redfearn v The United Kingdom (Application no. 47335/06), judg-

ment delivered on 6 November 2012.

(35) See section 9 of the Equality Act 2010, amended with effect from 25 April

2013 by the Enterprise an Regulatory Reform Act 2013, which introduces a duty for the

relevant Minister to amend the statutory provision ‘‘so as to provide for caste to be an as-

pect of race’’. A consultation is expected to take place in advance of any amendment in-

troduced in accordance with section 9.

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3.3. Limiting Access to Justice for ‘‘Floor of Rights’’ Enforce-ment.

It is, however, when one looks at the procedural arrange-ments for accessing ‘‘industrial justice’’ in relation to the particu-lar rights ostensibly enjoyed upon the basis of the ‘‘floor ofrights’’ that one begins very quickly to see a dramatic and some-what alarming shift. What appears to have happened in recentyears is the creation of a number of new obstacles in the way ofopen and easy access to judicial dispute resolution relating to awide range of already-existing employment protection rights.

Thus, even before the coming into office of the current coali-tion government, there had been provisions in the rules relatingto the conduct of proceedings before the Employment Tribunalsproviding for powers to make deterrent ‘‘deposit orders’’, rela-tively wide powers to ‘‘strike out’’ claims for a variety of reasons,and the ability to make ‘‘costs awards’’ by way of penalties (in ajurisdiction where the normal rule is that each party bears his orher own costs) (36). These provisions have been said to have beennecessitated by an allegedly large number of ‘‘frivolous or hope-less’’ cases being launched with the Employment Tribunals —although the statistics over the years since the introduction ofthose powers hardly serve to substantiate the allegation thatthere was ever a large volume of such cases in any event (37).

Nevertheless, recent developments have seen a variety ofnew obstacles expressly designed to limit access to judicial dis-pute resolution — the most eye-catching of which involves, forthe first time, the charging of fees for workers to present claimsto the Employment Tribunals. That process, which will come intoforce later in 2013, requires a claimant who wishes to lodge aclaim before the Employment Tribunals to make payment of a

(36) Contained in the most recently revised version of those rules, the Employment

Tribunals (Constitution and Rules of Procedure) Regulations 2013, which are due to come

into force on 29 July 2013.

(37) Thus, by way of recent example, the Ministry of Justice’s Employment Tribu-

nals and EAT Statistics, 2010-11, covering the period from 1 April 2010 to 31 March 2011,

reveal that, in an annual case-load of 122,800 cases, a total of 132 costs awards were made

in favour of claimants and a further 355 costs awards were made in favour of respondents

— while in a further three cases an award of costs was made in favour of the Secretary of

State.

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fee (the amount of which varies depending upon the perceivedtransactional complexity of the matter) just for the privilege ofpresenting that claim. Once the claim has been successfullylodged and the ‘‘presentation fee’’ duly paid, in order for it toproceed to a hearing on its merits, an additional ‘‘hearing fee’’will be payable by the claimant. The scale of fees to be imposedhas been set at a remarkably high level when one considers thatthe bulk of cases (unfair dismissal and non-payment of wages)tend to be brought by employees who have either just lost theirjobs or who have found themselves in a situation where their em-ployer has failed to pay all or some of their wages due in a timelymanner. No wonder, therefore, that critics of these particularproposals have accused the government of launching an assaultupon the most vulnerable members of the working population ata time when they are probably at their most vulnerable in the la-bour market.

It is also to be noted that further provisions to be introducedin 2014 will require so-called ‘‘pre-claim conciliation’’ throughACAS before a claim can even be presented to an EmploymentTribunal (38). This will involve a mandatory period (of onemonth) during which the claimant must make application to theACAS for pre-claim conciliation, and, in the absence of agreementbeing reached with the employer during that period, obtain a cer-tificate from ACAS confirming that the procedure has duly beenfollowed. While the encouragement of conciliated or mediatedoutcomes without recourse to judicial dispute resolution mechan-isms is to be encouraged, there are perceived problems associatedwith this new ACAS scheme. In particular, the provisions asdrafted contain little or no incentive for an employer who is po-tentially facing a claim in the Employment Tribunals to engagein any form of mediation or conciliation as regards such a puta-tive claim, and it may therefore be that, at the end of the day,this new procedure does nothing more than create a month of de-lay before the claimant can proceed with his or her claim beforethe Employment Tribunals. In a litigation system where the‘‘starving out’’ of claimants who are already in jeopardy as re-gards their income maintenance is regarded as one of the legiti-

(38) Introduced by the Enterprise and Regulatory Reform Act 2013.

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mate weapons of pre-trial litigation, this can hardly be seen as amatter which affects the parties to a potential dispute in aneven-handed manner.

4. Key Drivers for Post-Financial Crisis Labour Law in the Uni-ted Kingdom.

One may question what are the key drivers for modern reces-sionary labour law in the United Kingdom. It may be suggestedthat these comprise a combination of political and ‘‘business’’ dri-vers, fuelled by the election result of 2010 which followed the dis-crediting of the previous Labour government’s economic manage-ment competence. Indeed, the inability of the opposition Conser-vative party under Mr David Cameron to achieve an overall gov-erning majority at that election has highlighted a number ofweaknesses within the Conservative party, and underlies a num-ber of public perceptions about the position adopted by thatparty in relation to inter alia labour law and labour market policyand practice.

Whatever the cause, however, the inability of any single poli-tical party to achieve a majority in the 2010 general election re-sulted in a coalition government, and it is interesting to note thattwo key ministers in relation to labour law and social policy havebeen drawn from the Liberal Democrat wing of the coalition gov-ernment — namely, Dr Vince Cable, the Secretary of State forBusiness, Innovation and Skills, and Ms Jo Swinson MP, theMinister for Employment Relations and Consumer Affairs. It willbe noted that these ministerial roles are carried on in the Depart-ment for ‘‘Business, Innovation and Skills’’ — there having beenno explicit ‘‘Ministry of Labour’’ or equivalent in the UnitedKingdom for the last decade and a half (39). Indeed, there is someargument for suggesting that the very circumstance of placing re-sponsibility for ‘‘employment protection’’ matters — includingpreservation and defence of the ‘‘floor of rights’’ — in the hands

(39) A point highlighted by M. Freedland & N. Kountouris, ‘‘The Institutional

Face at Ministerial Level: Not the Department of Employment’’, in L. Dickens & Alan C.

Neal (eds), The Changing Institutional Face of British Employment Relations (The Hague

2006).

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of a department whose primary concern is to champion ‘‘thevoice of business’’ in the United Kingdom gives rise to an inevita-ble conflict between the respective ‘‘economic’’ and ‘‘social’’ di-mensions at play within the world of work. In such a situation,indeed, there is no need even to allege any conscious ‘‘strategicconspiracy’’ to undermine the floor of employment protectionrights — since a continuing process of policy-making choices infavour of ‘‘the business case’’ over ‘‘the social protection case’’will, over time, deliver precisely the overall policy shift in favourof ‘‘business’’ that many members of the coalition governmenthave been calling for since their return to office in 2010.

At the same time, the marginalisation of collectivised tradeunion ‘‘voice’’, in what historically has been characterised as apredominantly ‘‘voluntarist’’ system of industrial relations, hasleft little opportunity for the trade union movement to make anyimpact upon the development of labour market and employmentprotection policies within the coalition government. It may besuggested that the coalition government has demonstrated a re-markable level of apparent sympathy for the ‘‘voice of business’’.Certainly, there is little doubt that, where the direct choice hasbeen between the ‘‘economic dimension’’ in the name of ‘‘growthcompetitiveness and employment’’ (40), and furtherance of the‘‘social dimension’’ for employment protection and rights atwork (41), the outcome has been a resounding preference for theeconomic dimension and the ‘‘voice of business’’.

It is also somewhat disconcerting to note the dominance ofwhat might be described as ‘‘opinion-based’’ (rather than ‘‘evi-dence-based’’) justifications for many of the policy interventions

(40) Note the resonance with the title of the European Commission’s 1993 White

Paper, Growth, competitiveness, employment: The challenges and ways forward into the

21st century, COM(93) 700, 5 December 1993, Bulletin of the European Communities,

Supplement 6/93, and see now the way in which those objectives have been integrated

within the current ‘‘Europe 2020’’ framework — see inter alia Communication from the

Commission, Europe 2020: a strategy for smart, sustainable and inclusive growth,

COM(2010) 2020 final, Brussels, 3 March 2010.

(41) In furtherance of the declaration by the European Council at its Madrid Sum-

mit, 26 & 27 June 1989, that ‘‘...in the course of the construction of the single European

market, social aspects should be given the same importance as economic aspects and

should accordingly be developed in a balanced fashion’’. See the Presidency Conclusions

from that meeting, at paragraph 1.1.8.

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adopted by the coalition government. Good examples of this canbe seen, in particular, with initiatives such as the ‘‘red tape chal-lenge’’ (42), and in the independent report produced by AdrianBeecroft (43), which contained a number of radical proposals todiminish areas of employment protection such as that against‘‘unfair dismissal’’. Nevertheless, despite the absence of evidence-based justification for many of the proposals emanating fromsuch quarters, there appears to be widespread adherence in Uni-ted Kingdom policy-making circles to the notion that a sufficientweight of opinion expressed by business is enough to make thecase without more (44).

Furthermore, there has been a clearly emerging, yet often un-challenged, antagonism towards broadly expressed notions of ‘‘so-cial rights’’ and ‘‘human rights’’. This can be seen in relation notonly to issues of labour law regulation but also in a much broadercontext, with, for example, shrill opposition to the activities andjudgments of the European Court of Human Rights (ECHR), re-sponsible for adjudicating in disputes arising out of the EuropeanConvention on Human Rights 1950. Here, though, one is con-fronted by a strange paradox, in that the United Kingdom has along historical tradition of accepting, and taking steps to complywith, the decisions of the ECHR, even where these have beenmet with raucous dissatisfaction in domestic political circles andin the popular press. Indeed, as has already been mentioned, oneof the most recent measures adopted by the United Kingdom’scoalition government to improve the ‘‘floor of rights’’ has been

(42) See supra.

(43) See on this, Matthew Taylor, ‘‘Beecroft is a glimpse into coalition future’’, Fi-

nancial Times, 22 May 2012. According to Taylor, ‘‘...reading his flimsy report makes clear

Mr Beecroft was merely following the brief given him by Steve Hilton, former strategy su-

premo in Downing Street. Namely, on the unproved assumption that removing workers’

rights increases employment, and without reference to any other public policy goals, to list

the regulations most employers would prefer to live without’’.

(44) Thus, especially in the context of the ‘‘red tape challenge’’, it is the number of

respondents to government consultations which is used to justify particular policy initia-

tives, rather than the quality of what any of those respondents may have to say. Indeed,

this approach might be compared with the oft-quoted proposition attributed to Joseph

Goebbels, Minister for Public Enlightenment and Propaganda in the German Third Reich

from 1933, to the effect that, ‘‘If you tell a lie big enough and keep repeating it, people

will eventually come to believe it’’.

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the enactment of specific protection against discrimination on theground of political opinion, in the wake of the 2012 ECHR deci-sion in Redfearn v The United Kingdom (45).

Various issues may be addressed against this background.— First, one may ask whether there is any identifiable strat-

egy or policy for the modernisation and reform of United King-dom labour law.

Some commentators have suggested that there may be dis-cerned some form of linear development (46), with a number ofgovernment critics claiming a ‘‘malicious intent’’ (broadly ex-pressed in terms of ‘‘anti-trade union’’ or ‘‘anti-employee rights’’character) underlying a series of policy initiatives or directed atthe same end (47). Such a crudely articulated proposition is, how-ever, difficult to substantiate — any more than it has been possi-ble to demonstrate conclusively that legislative policies pursuedduring the first and second Thatcher governments in the 1980scontemporaneously and consciously constituted some form of lin-ear development on a strategic level in relation to trade unionrights and freedoms (48). While it may be tempting, from the cur-rent-day perspective of the commentator, to describe develop-ments and, with the benefit of hindsight, to attribute particularpolicy motives to the politicians or policy-developers responsiblefor various interventions, it is quite another thing convincinglyto establish that such motives were established and operative insuch a strategic form at the time of those interventions. Thus, for

(45) The case involved, inter alia, a challenge to the current United Kingdom posi-

tion that an employee seeking protection against dismissal on the ground of his or her po-

litical opinion needs to have accumulated two years of service before being entitled to

bring such a claim before the Employment Tribunals. That service requirement is being

abolished, through a change to be made by section13 of the Enterprise and Regulatory

Reform Act 2013, and will take effect from 25 June 2013.

(46) See, for example, the retrospective analysis of P. Davies & M. Freedland, To-

wards a Flexible Labour Market (Oxford 2007), suggesting a typology of more or less in-

terventionist policies on the parts of United Kingdom governments over time.

(47) For a flavour of this, see, in particular, some of the thoughtful and provocative

contributions by commentators such as Keith Ewing, including, for example, ‘‘Resisting

Employer Attacks on Workers’ Rights’’, Morning Star, 31 January 2011, and ‘‘Osborne

and Cable stack tribunal odds against workers’’, Tribune, 21 October 2011.

(48) Consider, for example, the analysis and discussion in P. Davies & M. Freed-

land, Labour Legislation and Public Policy: A Contemporary History (Oxford 1993).

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example, it may be suggested that, rather than a ‘‘malign strat-egy’’ having been relentlessly pursued and inexorably implemen-ted in accordance with a ‘‘master plan’’ conceived at the outsetof a period of Conservative, Labour or coalition government,what has in fact been witnessed is simply a series of ad hoc reac-tions to situations arising from time to time and requiring policychoices to be made on the basis of what appears necessary at anygiven time. It has already been suggested that, in the UnitedKingdom, so far as social policy-making is concerned, ‘‘the voiceof business’’ trumps ‘‘the voice of employment protection’’ in thiscontext, such that the ‘‘economic dimension’’ clearly outweighsthe ‘‘social dimension’’ on almost every occasion. This leads tothe inevitable conclusion that, if it is, indeed, the case that deci-sions on an ad hoc basis are regularly taken in favour of ‘‘thevoice of business’’ or the ‘‘business case’’, rather than from astandpoint which prioritises employment protection along thelines of the ‘‘floor of rights’’ model, this is eventually bound to re-sult in a rebalancing of the relationship in favour of ‘‘the businessside’’.

— One may also question whether the clear departure fromtraditional (and in particular, trade union) channels for ‘‘em-ployee voice’’ which has been witnessed over the last three dec-ades, together with restrictions on access to justice for individualemployment disputes, might have the consequence of fuelling dis-content or frustration amongst workers unable to air their grie-vances.

The removal of a stage upon which one of the key actors inthe United Kingdom industrial relations scenario is entitled to‘‘strut its stuff’’ may well have a tendency to create frustration— if not anger — at the absence of that ‘‘employee voice’’. Atthe same time, it has to be recognised that the United Kingdomhas seen little by way of positive results from initiatives such asthe 2002 information and consultation Directive introduced atthe level of the European Union (49), or from mechanisms estab-lished within the framework of the European Company or simi-

(49) Directive 2002/14/EC of the Council and the European Parliament of 11 March

2002 establishing a general framework for informing and consulting employees in the Eur-

opean Community.

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larly-structured bodies within the business community (50). Inconsequence, one perhaps has to ask what result will flow from acontinuing restriction of access to dispute resolution mechanismssuch as the Employment Tribunals for dissatisfied employees.This, indeed, is clearly an area where a perception has developedthat the enforcement arrangements to ensure adherence to the‘‘floor of rights’’ is under direct attack. It is often noted that,while a case may be lost by an employee who appears as a clai-mant before the Employment Tribunals, nevertheless the failureto establish the technical legal basis upon which to win the casemay not disguise the existence of very genuine dissatisfactionwith the manner in which the employment relationship has beenconducted or the manner in which the respondent employer hasgone about its decision-making or communicating various deci-sions. That ‘‘safety valve’’ in itself, it is suggested, has shown it-self to be one of the great values of the system established sincethe early 1960s for the resolution of individual labour dis-putes (51). Yet, the increasingly exclusionary initiatives being in-troduced to restrict access to justice through the United King-dom’s Employment Tribunals is opening up the possibility thatthe kinds of disputes identified in the research produced for theDonovan Commission between 1965 and 1968 could begin to raisetheir heads again (52). Could it be, for example, that the exten-sion of the required period for qualifying service in respect of‘‘unfair dismissal’’ (from one year to 2 years), coupled with theimposition of a fee regime of such severity that its impact can

(50) See, for example, Council Directive 2001/86/EC of 8 October 2001 supplement-

ing the Statute for a European company with regard to the involvement of employees, to-

gether with subsequent instruments covering European Co-operative Societies, European

Economic Interest Groupings, and European Private Companies.

(51) Indeed, surveys of parties’ satisfaction in relation to the outcomes of Employ-

ment Tribunal proceedings have consistently suggested a remarkably high concurrence be-

tween the employer and the employee side in terms of overall satisfaction - something

which may tend to suggest that, whatever the final outcome on the juridical front, the

mere airing of the dispute has had some degree of beneficial consequence. See, for exam-

ple, F. Buscha, P. Urwin & P. Latreille, Representation in Employment Tribunals: analy-

sis of the 2003 and 2008 Survey of Employment Tribunal Applications (SETA), Final Re-

port, January 2012 (ACAS Research Paper 06/12).

(52) See the set of background research papers produced as part of the work of the

Donovan Commission between 1965-1968.

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only serve to dissuade genuine complainants from progressingwith their claims before the Tribunals, and the scheme of compul-sory pre-claim conciliation through ACAS, might give rise to‘‘other avenues’’ for the expression of employee dissatisfaction?It may, indeed, be arguable that the significant shift in the bal-ance between the ‘‘business case’’ and ‘‘protective social policy(including labour law)’’ which has taken place in the current eraof post-financial crisis and recession has not necessarily beenachieved by lowering or replacing the ‘‘floor of rights’’, but rathermore subtly (or, one might argue, perniciously) through a combi-nation of, in themselves, relatively minor ‘‘tweakings’’. However,this does not take anything away from the reality that what hasbeen taking place amounts to a potentially dramatic denial of ac-cess to ‘‘industrial justice’’ through the raising of procedural ob-stacles in the way of recourse to the established framework of ju-dicial dispute resolution mechanisms.

— This leads to the question of what role there might be forlabour law in establishing some new balance to ensure stable fu-ture industrial relationships.

A significant shift in favour of ‘‘the voice of business’’ hasbeen identified in what has already been said. So, too, has thereproved to be an absence of a clearly sustainable evidential basefor suggesting that this has been due to a strategic implementa-tion of ‘‘anti-employment protection’’ measures. Rather, it maybe that what has emerged has been the consequence of a sus-tained period during which there has been uni-directional adop-tion of ‘‘economic or social’’ choices under the unsympatheticumbrella of the Department for Business, Innovation and Skills.If this is truly the case, it may be that so much has been removedfrom the traditional balancing and dispute resolution mechanismsof ‘‘labour law’’ as we have come to know them over the lasthalf-century, that it is already too late to ‘‘turn back the clock’’,or, even, to resurrect the ethos of a ‘‘balance of power’’ betweenthe economic demands of enterprises and the social protection re-quirements of those who undertake work in and for those enter-prises. Certainly, there seems little likelihood that a return towidespread and influential ‘‘free collective bargaining’’ will fea-ture in future developments for this field. Indeed, it has to besaid that propositions to that effect appear remarkably naive inthe face of the current economic position and given the direction

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of travel of both the current coalition government and, perhapsmore surprisingly, recent Labour administrations as well. It mayalso be the case that the ‘‘tripartite legitimacy’’ which historicallymet with so much mutual approval from both sides of industryin the context of the Industrial Tribunals and the EmploymentTribunals has been destroyed to such an extent that it is now im-possible to re-establish the same level of trust as had been builtup over a period of some four decades. At the same time, it mayalso be the case that faith in the system of ‘‘industrial justice’’through judicial dispute resolution channels has been severelyundermined by a continuing ‘‘(legal) professionalisation’’ of thedispute resolution process — in particular, with the increasingtrend towards cases being heard by an Employment Judge sit-ting alone, and with the increasing complexity of the proceduresadopted by the Employment Tribunals themselves (53). If so, itmay be that the notion of access to ‘‘industrial justice’’ is nowperceived as more of an illusion than a reality.

5. A Pessimistic Postscript.

The sobering conclusion, therefore, has to be that the UnitedKingdom’s ‘‘drip-feed’’ approach to labour market and employ-ment-related policy and decision-making, on the basis of a choicebetween ‘‘the business case’’ and ‘‘the social protection case’’, al-most inevitably results in decisions being taken in favour of ‘‘thebusiness case’’. Arguably — and perhaps somewhat ironically —this has given rise to a more significant and enduring shift in theemployment relations balance than might even have beenachieved in the face of a full-frontal assault on the ‘‘floor ofrights’’ and a conscious strategic dismantling of some, or all, ofthat framework of protections.

Nor is this a process which it would be easy to reverse. Fun-damental damage has already been done to tripartite structures,

(53) Notwithstanding recent efforts (under the guidance of Mr Justice Underhill, a

former President of the Employment Appeal Tribunal) to re-draft the rules of procedure

for the Employment Tribunals in more clear, coherent, and simple terms. For the fruits of

that endeavour, see The Employment Tribunals (Constitution and Rules of Procedure)

Regulations 2013 (S.I. 2013 No. 1237).

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trust in the legislator and the Employment Tribunals system,and any sense that it continues to be possible to obtain access to‘‘industrial justice’’ for justifiable (if not always legally ‘‘win-nable’’) disputes and grievances. The process has arguably al-ready gone too far and gathered too much momentum to drawback from the brink of creating potential instability, mutual dis-trust between enterprises and workers, and equally strongly feltdistrust for the legislator.

Such is the post-financial crisis recessionary labour law pic-ture in the United Kingdom of today. It remains to be seenwhether the ‘‘green shoots’’ of economic recovery which appearto be manifesting themselves in relation to the United Kingdomeconomy will be sufficiently strong and swift to assuage some ofthe worst damage already caused to the established system ofemployment protection and the ‘‘floor of rights’’. At the sametime, it may be that even a change of administration (for exam-ple, if a Labour government were to replace the present coalitiongovernment at the end of the fixed period of government whichends in 2015) would be unable, or unwilling (54), to embark upona radically different direction from that currently being pursued.

Overall, therefore, one is left with a thoroughly pessimisticview of the current situation and prospects for post-crisis reces-sionary labour law in the United Kingdom. There has undoubt-edly been a marked shift in the labour relations balance of power,and one which may prove to be much more long-lasting thancould have been envisaged in even the worst fears of those whomight have been concerned with the damage that an anti-labouradministration could inflict. The additional realisation that thekey Ministers responsible for many of the undermining tendenciesidentified above are, in fact, from the Liberal Democrat wing of

(54) It should certainly be not assumed that the election to office of a Labour gov-

ernment would necessarily result in the fervent prayers of the trade union movement or

those who argue for stronger employment protection for workers being satisfied. One only

has to consider the record of the Labour governments under Prime Ministers Tony Blair

and Gordon Brown (between 1997 and 2010) to realise that a Labour government is cap-

able of being just as unwilling as Conservative governments to secure such matters as a

strong voice for trade union organisations in relation to enterprises, less restrictive regula-

tion of industrial disputes, or re-establishment of wide-ranging tripartite mechanisms for

the furtherance of social partnership.

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the coalition government may also serve to destroy any vestige offaith in that particular political party’s credibility as a party ofemployment protection. Rather, in the eyes of its critics, thismay merely serve to show up the coalition junior partners in thegovernment as naive cheer-leaders for ‘‘the voice of business’’.

Yet, the very success of that ‘‘voice of business’’ in achievinga significant shift in the ‘‘economic/social’’ balance may, in thelonger run, prove to be a stimulus for ‘‘other channels’’ of dissa-tisfaction on the parts of workers in relation to their terms andconditions of employment and to the observance of what remainsa rich, if difficult to access, ‘‘floor of rights’’. Were such ‘‘otherchannels’’ to embrace disruptive activity such as strikes or morelow-level disruptive tactics — and one should, perhaps, remindoneself that the Donovan Commission (55), reporting on the si-tuation between 1965-1968, revealed that amongst the primarycauses of days lost through strikes were dismissals and redun-dancy disputes, in an era before the introduction of protectionagainst ‘‘unfair dismissal’’ — then such a development could un-dermine and place at risk the success of those very businesseswhich have actively sought to limit the effect protective scope ofthe United Kingdom’s ‘‘floor of rights’’.

(55) See the Report of the Royal Commission on Trades Unions and Employers’

Associations (1965-1068), Chairman Lord Donovan (Cmnd. 3623).

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MIGUEL RODRIGUEZ-PINERO Y BRAVO-FERRER

LA CRISI ECONOMICA E I FONDAMENTIDEL DIRITTO DEL LAVORO IN SPAGNA

SOMMARIO: 1. La reazione europea di fronte alla crisi. — 2. L’impatto della crisi nel mercato

del lavoro in Spagna. — 3. La riforma del mercato del lavoro del governo socialista.

— 4. La riforma della contrattazione collettiva del governo socialista. — 5. La ‘‘ri-

forma globale del mercato del lavoro’’ del governo popolare. — 6. L’estensione dei

poteri di gestione aziendale. — 7. La flessibilizzazione del licenziamento. — 8. La

nuova disciplina della contrattazione collettiva.

1. La reazione europea di fronte alla crisi.

Il cinquantenario della nascita dell’Associazione italiana diDiritto del lavoro e della Sicurezza Sociale, che tanto lavoro hapreso e tanta influenza ha avuto nello sviluppo e il progresso deldiritto del lavoro in Italia e all’estero, coincide con un momentograve della crisi economica che ha profondamente influenzato,non solo in Italia, l’evoluzione e gli sviluppi futuri del diritto dellavoro all’interno di un processo di europeizzazione che genera ri-forme dei diritti del lavoro nazionali progettati seguendo la dire-zione e le indicazioni delle istituzioni dell’Unione Europea.

La crisi economica degli anni ’70 ha avuto una grande in-fluenza sulla costruzione del diritto sociale europeo. Le misure co-munitarie adottate allora per combattere la crisi hanno sistematoun quadro giuridico per la tutela dei lavoratori colpiti dalla crisi:l’adozione delle direttive sui licenziamenti collettivi, sul trasferi-mento d’azienda e sull’insolvenza del datore di lavoro, che sonouno dei nuclei fondanti del diritto sociale europeo.

La reazione europea alla crisi in atto, che ha generato comevittime fondamentali i lavoratori, non ha causato avanzamentinel diritto sociale europeo: la risposta non e stata la creazione dinuove regole sociali europee, ma, piuttosto misure, di tipo econo-

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mico per fare fronte alla crisi, ma che hanno influenzato in modoefficace la legislazione e la politica del lavoro degli Stati membri,in modo diverso ma con alcune linee d’azione comune. Queste po-litiche del lavoro hanno perseguito un nuovo equilibrio tra tuteladel lavoro e la ricerca di flessibilita e competitivita delle impreseattraverso riforme profonde della legislazione del lavoro e dellacontrattazione collettiva.

Nella disciplina giuridica del contratto di lavoro sono stateapprovate varie riforme legislative per ridurre tutele tradizionalidel lavoro e per ampliare i margini della liberta d’impresa e di ge-stione del lavoro, mediante una maggiore flessibilita, d’ingresso,interna e in uscita. Queste modifiche legali hanno generato nuoviapprocci dottrinali e giurisprudenziali, una nuova cultura azien-dale e cambiamenti nelle relazioni industriali, nelle pratiche nego-ziali e nella contrattazione collettiva, indotti o imposti dal legisla-tore statale come parte delle riforme del diritto del lavoro.

2. L’impatto della crisi nel mercato del lavoro in Spagna.

In Spagna, l’attuale crisi economica e finanziaria, che e statamolto profonda, e stata accompagnata dalla distruzione in massadi posti di lavoro che hanno generato un numero crescente edrammatico di disoccupati (sei milioni, piu del ventisette percento di disoccupazione). La situazione di crisi ha facilitato im-portanti riforme della disciplina giuridica del mercato del lavoro,del rapporto di lavoro e della contrattazione collettiva. Anche inSpagna, la crisi e stata utilizzata come giustificazione per unaflessibilizzazione del diritto del lavoro, non per difendere i lavora-tori dagli effetti sociali negativi della crisi ma a vantaggio delleimprese per assicurare la loro sopravivenza e competitivita.

La crisi aveva provocato, nel dialogo sociale e nel dibattitopolitico, un certo consenso sulla necessita di riforme del mercatodel lavoro ma non ha avuto consenso sul suo contenuto. Questodissenso ha portato, prima, il governo socialista e, dopo, il go-verno popolare a imporre unilateralmente por la via dei decreti le-gislativi d’urgenza, successive e profonde riforme della legisla-zione del lavoro, in particolare della legge dell’Estatuto de losTrabajadores. Si potrebbe parlare, come reazione alla crisi econo-mica e dell’occupazione e alla pressione internazionale, di un’u-

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nica riforma globale in fasi successive, con elementi di continuitama con rilevanti cambiamenti, paralleli al diverso segno politicodei governi. Il risultato e che il Diritto del lavoro spagnolo ha su-bito negli ultimi tre anni cambiamenti radicali che hanno colpitoalcuni dei suoi elementi piu caratteristici, e ancora oggi il governoe stato invitato da Bruxelles a compiere nuovi passi nella riformaliberista del mercato del lavoro.

3. La riforma del mercato del lavoro del governo socialista.

La prima fase della riforma del diritto del lavoro risale al Go-verno socialista attraverso il decreto legge 10/2010 convertitonella Legge 35/2010, in tema di contratto di lavoro e di mercatodel lavoro, e che si completa con il decreto legge 7/2011 sul regimegiuridico della contrattazione collettiva.

La legge 35/2010 aveva introdotto ‘‘misure volte a promuo-vere la flessibilita interna negoziata nelle aziende e per incorag-giare l’uso dell’orario ridotto come uno strumento di aggiusta-mento temporaneo di lavoro’’ e per facilitare i licenziamenti og-gettivi, e, indirettamente, abbassare l’indennita del licenziamentosenza giusta causa, con l’obiettivo di creare e migliorare l’occupa-zione, e favorire il miglioramento della produttivita e della com-petitivita delle imprese. La legge si e proposta, secondo il suopreambolo, di migliorare la produttivita, ‘‘il rinnovamento del no-stro modello di produzione’’, di ‘‘rendere le nostre economie piuresistenti agli shock esterni’’ e ‘‘migliorare la propria competiti-vita a medio e lungo termine’’. Essa mira a migliorare la situa-zione delle imprese e dell’economia in attesa che essa possa contri-buire a ridurre la disoccupazione.

La legge 35/2010 ha tentato di espandere ‘‘le possibilita diflessibilita interna all’impresa offerte dalla normativa vigente’’per facilitare i cambiamenti organizzativi e la ristrutturazionedelle imprese e aveva cercato di ‘‘rafforzare i meccanismi di adat-tamento delle condizioni di lavoro delle specifiche circostanze cheabbraccia l’impresa’’ come scelta al licenziamento, meccanismoprevalente in pratica per la ristrutturazione aziendale. L’allarga-mento dell’ambito di disponibilita del datore di lavoro e stato ac-compagnato da un maggiore o minore grado di coinvolgimentodella rappresentanza unitaria elettiva dei lavoratori in azienda,

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come condizione di legittimita della decisione sui licenziamenticollettivi e su modifiche sostanziali delle condizioni di lavoro, se-condo un meccanismo che la legge ha descritto come ‘‘flessibilitanegoziata’’, e che aveva previsto dei momenti di intervento dellarappresentanza dei lavoratori. La riforma del contratto di lavorodel 2010 aveva cercato, cosi, di rispondere alla segnalata rigiditadel nostro sistema normativo, che per gli imprenditori, le organiz-zazioni economiche internazionali e le autorita dell’Unione euro-pea impediscono una gestione dinamica delle imprese, e di rispon-dere alle sfide dell’elevata competitivita causata dalla globalizza-zione dei mercati e dalla grave crisi economica.

4. La riforma della contrattazione collettiva del governo socialista.

A sua volta, il decreto legge 7/2011 aveva cambiato la disci-plina giuridica della contrattazione collettiva affinche ci fossero‘‘piu e migliori contratti collettivi, piu ordinati in modo che pos-sano svolgere un ruolo piu utile ed efficace per la regolazione deirapporti di lavoro e condizioni di lavoro’’. La crisi e la disoccupa-zione hanno spinto verso una riforma profonda del quadro legaledella contrattazione collettiva in un senso piu flessibile, per favo-rire una gestione piu dinamica e flessibile del rapporto di lavoro edei salari, che tengano conto della situazione dell’azienda.

La riforma socialista della contrattazione collettiva e stataispirata nel senso indicato dall’Unione Europea. Il Patto EuroPlus del marzo 2011 aveva chiesto agli Stati di assicurare l’evolu-zione del costo del lavoro in linea con la produttivita, attraversola ‘‘revisione degli accordi di fissazione dei salari e, quando neces-sario, del livello di centralizzazione del processo di negoziazione edei meccanismi di indicizzazione, pur mantenendo l’autonomiadelle parti sociali nel processo di negoziazione’’.

Il decreto legge 7/2011 ha affrontato le disfunzioni esistentinel sistema contrattuale collettivo, e assume l’obiettivo di avere‘‘piu contrattazione collettiva e di migliore qualita, contratti col-lettivi piu ordinati e migliori, cosı che possano svolgere un ruolopiu utile ed efficace per la regolazione delle relazioni industriali edelle condizioni di lavoro’’. E stato proposto l’adattamento dellecondizioni di lavoro ai cambiamenti assicurando la vitalita delleimprese per contribuire, come indicato, ‘‘alla crescita economica

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spagnola, migliorando la competitivita e la produttivita delle im-prese spagnole, e di conseguenza, la crescita dell’occupazione e lariduzione della disoccupazione’’.

La nuova norma aveva cercato di correggere la frammenta-zione e la dispersione dei contratti collettivi, la mancanza di dina-mismo e l’efficacia prorogata indefinitamente degli accordi non ri-novati, inadeguata alle nuove condizioni economiche e industriali.Favorisce una regolazione collettiva piu ‘‘sensibile’’ alle richiestedi gestione flessibile dell’impresa e una contrattazione collettivapiu flessibile, piu vicina all’azienda e piu adattata ai cambia-menti, postulando ‘‘un (nuovo) equilibrio tra la flessibilita per leimprese e la sicurezza dei lavoratori’’. A tal fine aveva stabilitonuove regole per la riduzione della durata delle trattative e hacercato di facilitare l’estinzione rapida e flessibile del ‘‘vecchio’’contratto, ma conserva la regola della ultra-attivita, benche cer-chi di evitarne o ridurne la sua applicazione.

La legge socialista mantiene e rafforza il potere di autonomiacollettiva di progettare modelli di contrattazione collettiva artico-lata, ma introduce misure di incoraggiamento e di sviluppo dellacontrattazione collettiva su livelli o unita decentrate, dando pre-ferenza applicativa all’accordo aziendale rispetto ad alcune mate-rie ma se e autorizzato dal contratto collettivo esterno.

Il favore legislativo nei confronti della flessibilita ha riguar-dato anche l’attuazione e l’efficacia vincolante del contratto col-lettivo e la sua stabilita. Diverse misure appaiono volte a perse-guire la capacita di adattamento delle condizioni di lavoro alla si-tuazione aziendale, facilitando le modifiche sostanziali delle con-dizioni di lavoro, l’adattamento e la rinegoziazione del contrattocollettivo. Puo servire come esempio il nuovo regolamento sul‘‘descuelgue’’ che stabilisce una possibilita di modifica delle condi-zioni di lavoro regolate dai contratti collettivi e soprattuttoespandedo le cosiddette ‘‘opening clauses’’, che mirano a garantireuna maggiore flessibilita salariale e che permettono di eludere l’ef-ficacia collettiva di livelli salariali contrattuali riducendo i salari,in presenza di determinate condizioni e requisiti.

Con queste riforme socialiste 2010/2011 il legislatore avevacercato di aiutare le aziende ad adattare i salari e i livelli di forzadi lavoro alle loro condizioni economiche e produttive, ma anchecontribuire a ‘‘la crescita dell’economia spagnola, un migliora-mento della competitivita e produttivita delle aziende spagnole e

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quindi la crescita dell’occupazione e ridurre la disoccupazione’’.Inoltre, entrambe le riforme sono state una parte del programmadi riforme strutturali del nostro sistema economico e finanziariosuggerite dall’Unione Europea.

5. La ‘‘riforma globale del mercato del lavoro’’ del governo popo-lare.

La seconda fase delle riforme del diritto del lavoro spagnolo epromossa dal governo conservatore del Partito Popolare che, findall’inizio, aveva annunciato una ‘‘una riforma globale del mer-cato del lavoro... per garantire un quadro giuridico di lavoroequo, sicuro e flessibile’’, e colpisce sia il contratto individuale dilavoro che il contratto collettivo. Il nuovo Governo aveva dichia-rato il proposito di ottenere una maggiore flessibilita all’internodell’azienda e di riformare la struttura e il contenuto della con-trattazione collettiva, in modo che ogni materia sia trattata a li-vello territoriale o settoriale per garantire la competitivita econo-mica e l’occupazione sostenibile.

Inoltre la riforma popolare annunciata sembrava destinata acorreggere il regime delle modifiche sostanziali alle condizioni dilavoro in mancanza di accordo, consentendo al datore di lavoro diimporle unilateralmente, senza pregiudizio di un posteriore con-trollo giurisdizionale. Tuttavia il Governo aveva nascosto l’a-spetto piu sensibile della futura riforma, la liberalizzazione e l’ab-bassamento dei costi di licenziamenti.

La riforma e stata fatta dal Decreto legge 3/2012 del 10 feb-braio, su misure urgenti per riformare il mercato del lavoro, che estato convertito in legge, con cambiamenti significativi, dallalegge 3/2012, del 6 luglio. La legge si afferma essere stata richiestada parte delle istituzioni economiche mondiali ed europee e che‘‘mira a creare le condizioni necessarie per l’economia spagnolapuo ancora creare posti di lavoro e generare la necessaria sicu-rezza’’, non solo per i dipendenti e datori di lavoro, ma anche‘‘per i mercati e gli investitori’’. Il riferimento ai mercati e agli in-vestitori riflette una rottura con la precedente riforma socialista,ed ha portato a un certo spostamento dell’oggetto del diritto dellavoro della tutela del lavoro alla tutela dell’azienda, della ‘‘pro-duttivita’’ e dei mercati finanziari.

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La riforma popolare provoca un’efficace espansione del potereunilaterale del datore di lavoro, sia nella flessibilita interna, chenon e caratterizzata gia come ‘‘negoziata’’, sia nel facilitare i li-cenziamenti obiettivi, e la riduzione importante dei costi del licen-ziamento ingiustificato. Le riforme socialiste precedenti avevanoesteso il potere aziendale e avevano posto l’azienda in una posi-zione migliore per affrontare i rischi dei mercati, ma la nuova ri-forma popolare intensifica e approfondiscono tali riforme e accen-tua per i lavoratori i trasferimenti di rischio della situazione edello sviluppo dell’azienda.

I poteri del datore di lavoro sono ancora soggetti a limiti for-mali e causali, ma molto piu leggeri. L’eliminazione dei controllicollettivi e amministrativi alle aziende e della rigidita della regola-zione del lavoro, persegue un miglioramento dell’economia che sisuppone permettera alle aziende di creare e di mantenere l’occu-pazione. A rigor di termini, la legge 3/2012 non puo essere consi-derata come una misura di politica sociale, ma come una misurapolitica con uno scopo prevalentemente economico. Sono state at-traversate le ‘‘linee rosse’’ intoccabili che avevano rispettato tuttele riforme precedenti dello Statuto dei Lavoratori dal 1980: i costidi licenziamento senza giusta causa, l’autorizzazione amministra-tiva per i licenziamenti e le sospensioni collettive dei contratti dilavoro, l’eliminazione dell’ultra-attivita del contratto collettivo eil ripasso del principio d’unita del contratto collettivo per rag-giungere l’applicazione prioritaria su alcune questioni degli ac-cordi aziendali, tutto per garantire una maggiore flessibilita in-terna ed esterna al datore di lavoro.

La legge dichiara contenere ‘‘misure incisive e d’immediataattuazione al fine di stabilire un quadro chiaro che contribuiscealla gestione efficace dei rapporti di lavoro e a facilitare la crea-zione di posti di lavoro e la stabilita dell’occupazione’’. Include ri-forme in materia di collocamento e di formazione professionale;un nuovo contratto a tempo indeterminato per le imprese conmeno di cinquanta dipendenti, con licenziamento ad nutum ilprimo anno; ha abolito il divieto di lavoro straordinario nel con-tratto part-time; ha rimosso i limiti precedenti sui contratti diformazione e l’apprendimento e regola il telelavoro come una for-mula flessibile dell’organizzazione del lavoro. La legge comprendeanche misure per incoraggiare la flessibilita interna, compreso ilKurzarbeit e ha portato a cambiamenti radicali del regime dei li-

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cenziamenti, soprattutto del licenziamento nell’interesse dell’a-zienda, oltre ad accentuare la flessibilita e il decentramento dellacontrattazione collettiva. Di questa vasta riforma del rapporto dilavoro posso indicare solo le modifiche, piu rilevanti e di maggioreimportanza.

6. L’estensione dei poteri di gestione aziendale.

L’obiettivo di estensione dei poteri di gestione aziendale haispirato l’intera riforma, con riflessi sull’ampliamento della dispo-nibilita del lavoratore, sul trattamento di flessibilita interna, sulnuovo ruolo della contrattazione collettiva aziendale, e sul tratta-mento della flessibilita esterna, riducendo la protezione contro illicenziamento. L’ampliamento della flessibilita interna e giustifi-cato per promuovere scelte di licenziamenti, in modo da poterconsentire al datore di lavoro di far fronte alle fluttuazioni delladomanda o alla difficile situazione economica aziendale attraversomeccanismi diversi dal licenziamento. Per raggiungere quest’o-biettivo sono ora introdotte nuove disposizioni che riguardano l’e-sercizio ordinario del potere di direzione, dell’ius variandi e delpotere di modifica delle condizioni sostanziali del lavoro. Il si-stema di classificazione professionale e sostituito da gruppi pro-fessionali che possono comprendere, diversi ‘‘compiti, funzioni,specialita professionali o competenze assegnate al lavoratore’’ ede stata estesa la possibilita di cambiamento di mansioni diverseda quelle concordate, dalla mera esistenza di motivi tecnici o or-ganizzativi. In orari di lavoro il datore di lavoro puo procedereora direttamente a una distribuzione non uniforme annuale parial dieci per cento della giornata.

Piu importanti sono i cambiamenti sulla mobilita geografica, lemodifiche sostanziali delle condizioni di lavoro, la sospensione delcontratto e l’orario ridotto. Il legislatore ha progettato un modellounilaterale di flessibilita interna in contrasto con il sistema di fles-sibilita negoziata disegnato nella riforma socialista. I meccanismiper facilitare l’adattamento delle condizioni di lavoro e dell’orga-nizzazione del lavoro non sono generalmente intesi come formulenegoziate e l’attuazione di misure interne di adattabilita dipendein definitiva dalla volonta unilaterale del datore di lavoro. I cam-biamenti hanno colpito la definizione piu ampia delle cause che le-

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gittimano dei poteri esorbitanti di modifiche contrattuali, di mo-bilita geografica, e di sospensione del contratto o riduzione tem-poranea dell’orario di lavoro.

Continua a essere rilevante la ‘‘dimensione’’ individuale ocollettiva della misura da adottare, la dimensione collettiva ri-chiede comunque un processo di consultazione e di negoziazionee le modifiche individuali richiedono un semplice obbligo di noti-fica della decisione adottata al personale interessato e ai rappre-sentanti aziendali. La distinzione tra individuale o collettivo erabasata finora sull’origine o la fonte della condizione da modifi-care. Ora, la legge non prende in considerazione l’origine o lafonte della condizione (salvo il contratto collettivo ‘‘statutario’’),ma il numero di persone affette. Sono ammesse, cosı, modifichesostanziali dei salari e delle condizioni di lavoro con effetti plu-rali o collettivi quando il numero di persone colpite non rag-giunge il livello richiesto per l’apertura del periodo di consulta-zione e le modifiche possono riguardare anche il tasso di retribu-zione. Il lavoratore puo contestare sui motivi il provvedimentodavanti al giudice.

Se la rimozione o la modifica sostanziale ha una dimensionecollettiva, la legge prevede un periodo di consultazione o un pro-cesso di mediazione o di arbitrato, che, se ha portato a un ac-cordo, vincola i lavoratori e anche i giudici, perche la legge pre-suppone la ragionevolezza della decisione aziendale concordatacollettivamente. In mancanza di accordo, il datore di lavoro adot-tera le misure che ritiene appropriate soggette al controllo giuri-sdizionale sui motivi e sulla formalita.

Nella sospensione del contratto o nell’orario ridotto la proce-dura di consultazione si applica sempre. Il cambiamento princi-pale e stato l’eliminazione della necessita di autorizzazione ammi-nistrativa per la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro,da considerare in materia de licenziamenti collettivi. L’ultima pa-rola sulla legittimita della decisione del datore di lavoro l’hanno itribunali, impedendo l’uso abusivo o fraudolento del potere im-prenditoriale che rimane causale, ma l’intensita e razionalita ditale controllo e fortemente indebolita dato l’obiettivo di flessibi-lita perseguito dalla riforma attraverso una definizione ampia deimotivi oggettivi.

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7. La flessibilizzazione del licenziamento.

La piu grande ‘‘svolta’’ rispetto alla situazione precedentesono i cambiamenti nel regime di licenziamento. Queste riformehanno interessato il trattamento di licenziamento collettivo, che ediventato piu flessibile ridefinendo le sue cause e semplificando leprocedure, e anche il trattamento di licenziamento individuale oingiustificato, il cui status giuridico aveva occupato un ruolo cen-trale nelle dinamiche delle nostre relazioni industriali date le diffi-colta di procedere a licenziamenti obiettivi, giustificati sia indivi-duali e, soprattutto collettivi, per problemi economici o organiz-zativi.

Ora i licenziamenti collettivi, pur mantenendo un periodo diconsultazione, non richiedono l’accordo con i rappresentanti deilavoratori ne, in mancanza di accordo, di un’autorizzazione am-ministrativa. I licenziamenti individuali e collettivi individualihanno ora lo stesso status giuridico ma l’adozione e la portata deilicenziamenti collettivi si riferiscono a una procedura di consulta-zione. Ancora una volta la legge ha cambiato in senso estensivo ladefinizione dei motivi economici, tecnici, organizzativi o produt-tivi per limitare la portata del controllo giudiziario e stabilisceuna presunzione assoluta circa la configurazione della diminu-zione persistente del reddito o delle vendite per tre trimestri con-secutivi come una causa economica. Inoltre, e stato eliminato ilrequisito che l’azienda giustifica la ragionevolezza della decisioneper preservare la sua posizione competitiva sul mercato o preve-nire uno sviluppo negativo della societa o per migliorare la posi-zione competitiva. La legge ha cercato di definire in modo piuaperto e meno rigido la causa del licenziamento collettivo, ingrado di evitare un controllo giurisdizionale intenso.

Un cambiamento radicale e la soppressione della vecchia isti-tuzione dell’autorizzazione amministrativa dei licenziamenti col-lettivi stabilita nel franchismo. Il legislatore ha mantenuto la na-tura causale di questo licenziamento collettivo e ha mantenuto ilperiodo di consultazione ma i requisiti per la documentazione e lagiustificazione della misura da adottare sono ora ridotti e il con-trollo e trasferito direttamente ai tribunali.

Il periodo di consultazione puo terminare con un accordo e,in tal caso, il datore di lavoro adotta le misure concordate e i li-cenziamenti sono presunti giustificati. In mancanza di accordo,

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puo adottare le misure su cui ha fornito informazioni nel periododi consultazione. La decisione del datore di lavoro sui licenzia-menti collettivi puo essere contestata attraverso il procedimentocollettivo sulla base del fatto che la causa legale indicata sulla co-municazione scritta non sia vera o non sono state rispettate leprocedure di consultazione. E possibile anche un ricorso indivi-duale del singolo lavoratore sulla risoluzione del suo contratto dilavoro, sospendendo la risoluzione del singolo processo in attesadel processo avanzato dai rappresentanti dei lavoratori. Unavolta ferma, la sentenza collettiva vincola ai processi individualisulla giustificazione del licenziamento.

I giudici hanno il delicato compito di rivedere e adeguare allenuove regole il loro orientamento e le prime sentenze mostranouna certa riluttanza verso gli eccessi liberistici della riforma e leautorita europee hanno messo in guardia il governo circa la neces-sita di possibili nuove riforme, se questa tendenza giudiziale emantenuta.

Un’altra novita e che la riforma ha previsto l’applicazionedei licenziamenti collettivi al settore pubblico con riferimentoalle regole di stabilita di bilancio e la sostenibilita finanziariadel governo, e stabilito come causa economica ‘‘una situazionesopravvenuta di deficit di bilancio persistenti (per tre trimestriconsecutivi) per il finanziamento dei servizi pubblici’’. Cio facili-tera la riduzione del personale nel settore pubblico, molto diret-tamente colpiti dalle nuove regole di stabilita di bilancio.

La seconda area di riforma dei licenziamenti e il nuovo tratta-mento di licenziamento ingiustificato, che ha visto una significa-tiva riduzione del costo delle indennita di licenziamento inguistifi-cato. La legge prevede ora il versamento da parte di un datore dilavoro che non sceglie la riammissione, una somma non di qua-rantacinque ma di trentatre giorni per anno di servizio, e fino aventiquattro mensilita. E anche importante la rimozione dellacondanna dei cosiddetti ‘‘salari de tramitacion’’ o stipendi proce-durali.

Con tutti questi cambiamenti, il regime giuridico del licenzia-mento in Spagna ha conosciuto un vero e proprio ‘ribaltamento’ afavore dei datori di lavoro, per i quali il legislatore ha reso ancorapiu facili i licenziamenti collettivi e gli individuali con l’intento dipermettere di estinguere dei contratti di lavoro per esigenze o

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convenienze dell’azienda, ma anche di ridurre in modo efficace icosti dei licenziamenti ingiustificati.

La riforma sembra fiduciosa che questa espansione del poteredi licenziamento non sia un incentivo a licenziare indiscriminata-mente e che il licenziamento sia usato come ultima risorsa quandonon sia possible o sufficiente adottare le misure di flessibilita in-terna o ricorrere alla contrattazione collettiva. Almeno nel brevetermine, la riforma ha aggravato i livelli di disoccupazione, haprovocato un milione di disoccupati.

8. La nuova disciplina della contrattazione collettiva.

La riforma della contrattazione collettiva del governo sociali-sta e stata parzialmente sostituita dalla legge 3/2012 che ha ap-portato alcune modifiche non numerose ma molto rilevanti. Senzaalterare le linee sostanziali della riforma del 2011, e andato ben ol-tre, e ha introdotto alcuni nuovi elementi. La nuova riforma po-polare limita lo spazio di autonomia collettiva, ostacola i processidi articolazione dei contratti collettivi e apre nuove strade per lariduzione e il peggioramento delle condizioni salariali e di lavorocontrattuali collettive, riflettendo la sostanziale perdita di poteredel sindacato nella crisi.

L’obiettivo principale del legislatore nel 2012 e ‘‘che la contrat-tazione collettiva sia uno strumento, non un ostacolo per adeguarele condizioni di lavoro alle circostanze specifiche dell’impresa’’. Que-st’obiettivo si e cercato di raggiungerlo attraverso tre aree princi-pali: facilitare il ritiro o l’inapplicabilita (temporanea) nell’aziendadel contratto collettivo vigente, l’applicabilita prioritaria dell’ac-cordo aziendale in determinate materie, e l’eliminazione della ultra-attivita indefinita dei contratti collettivi la cui durata e stata esau-rita. Queste misure specifiche, ‘‘hanno distrutto’’ profondamente ilprecedente sistema delle relazioni industriali e della contrattazionecollettiva, nell’ampliare gli spazi di decisione collettiva a livelloaziendale e nel ridurre il ruolo dei sindacati e delle organizzazioni deidatori di lavoro a livello settoriale e intersettoriale.

Il primo oggetto dell’attuale riforma della contrattazione col-lettiva e stato quello di fornire al datore di lavoro la possibilita dicessare di applicare il contratto collettivo nell’azienda medianteun nuovo regime giuridico di deroga o modifica delle condizioni di

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lavoro stabilite nel contratto collettivo anche dei contratti azien-dali, estendendo le questioni che possono essere sottoposte a ‘‘de-scuelgues’’ alla giornata di lavoro, al tasso di retribuzione, allefunzioni svolte e ai miglioramenti volontari dell’azione protettivadella sicurezza sociale.

Il ‘‘descuelgue’’ rimane ‘‘causale’’, ed e soggetto all’esistenza diuno dei motivi previsti dalla legge (non solo, come prima, motivieconomici), ma, anche, motivi tecnici, organizzativi o di produzione.Il ‘‘descuelgue’’ richiede ancora l’accordo con la rappresentanza deilavoratori, ma la mancanza di accordo non blocca o impedisce la de-roga. La nuova legge prevede che, su richiesta di una parte, la que-stione sara deferita a un arbitrato obbligatorio vincolante con l’in-tervento dell’amministrazione pubblica, arbitrato che il legislatoreha giustificato per ‘‘la necessita per le autorita pubbliche di garan-tire la difesa della produttivita secondo l’art. 38 CE’’. Sorprese il ri-ferimento alla difesa della produttivita come unica base giuridicaper imporre un arbitrato vincolante che sospese l’applicazione e laforza vincolante di un contratto collettivo, in sacrificio di diritti deilavoratori. Complessivamente, e stata notevolmente agevolata la di-sapplicazione temporanea fino a scadenza di norme stabilite nei con-tratti collettivi aziendali o settoriali.

Una seconda modifica ha interessato la struttura della con-trattazione collettiva. Il legislatore ha ridotto le possibilita di arti-colare la contrattazione collettiva perche ha concesso preferenzaapplicativa al contratto collettivo aziendale in una serie d’impor-tanti materie: l’ammontare dello stipendio base, i supplementi sa-lariali, la compensazione del lavoro straordinario, il regime deturni, il tempo e il modo di orario di lavoro, la pianificazione divacanza, l’adattamento del sistema di classificazione delle man-sioni, le procedure di assunzione e le misure dirette a promuoverela conciliazione tra lavoro e famiglia. La priorita applicativa siestende anche ai contratti di gruppo di societa collegate. E statauna misura che il legislatore ha inteso essenziale per una gestioneflessibile delle condizioni di lavoro e per facilitare la ‘‘negoziazionedelle condizioni di lavoro al livello piu vicino e adeguato allarealta delle imprese e dei loro dipendenti’’.

I contratti e accordi collettivi a livello aziendale possono es-sere concordati direttamente dai comitati dei rappresentanti delpersonale, per questo la priorita applicativa implica uno sposta-mento dei sindacati che ancora possono negoziare quelle materie

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nel livello settoriale ma che non possono garantire la loro applica-zione nelle aziende. La priorita applicativa parziale dell’accordoaziendale implica la crisi del principio di unita del contratto col-lettivo, il convivere nello stesso ambito dei contratti diversi, e fa-vorisce una diffusione dei contratti collettivi aziendali ‘‘auto-nomi’’, in un paese con una struttura aziendale dominata da pic-cole imprese. In ogni caso, la riforma non risolve i problemi pen-denti della struttura di contrattazione collettiva.

La terza riforma riguarda l’applicazione del contratto collettivonel tempo. In mancanza d’accordo di rinegoziazione, il contrattoesaurito, non sara applicato indefinitamente (ultra-attivita), mafino a un anno. Allo stesso tempo la legge ha previsto la possibilitadi rivedere il contratto collettivo prima della fine della sua durata.

Il legislatore ha cercato di impedire la ‘‘cristallizzazione’’ dicontenuti convenzionali obsoleti, di promuovere l’assenza di bloc-chi in una negoziazione, e di facilitare l’adeguamento delle retri-buzioni e delle condizioni di lavoro, ma allo stesso tempo favoriscevuoti regolativi collettivi quando nessun contratto collettivo di-verso puo essere applicabile nell’azienda o nel settore. Una situa-zione che puo verificarsi facilmente.

Il nuovo quadro giuridico adottato per sostenere il migliora-mento del sistema economico e produttivo dell’economia spagnola,ha coinvolto una notevole riduzione dalla tutela del lavoro nellalegge e nell’autonomia collettiva. Una ‘‘modernizzazione’’ del dirittodel lavoro che e stata governata dalla razionalita economica e desti-nata a ridurre la sua socialita, dimenticando la sua propria essenza eignorando i mandati costituzionali. Il Governo promette effetti posi-tivi per l’economia e per l’occupazione, ma finora non e stato cosı. Ilicenziamenti piu facili e meno costosi non sono serviti per creare oc-cupazione e neppure a ridurre il dualismo nel mercato di lavoro. L’e-conomia spagnola ha incrementato la sua recessione, la disoccupa-zione e cresciuta di quattro punti e la maggior parte dei nuovi con-tratti di lavoro sono precari e sottopagati.

Addenda.

El proceso de reformas de la legislacion laboral en sentido fle-xibilizador emprendido por el Gobierno Popular en el ano 2012 hacontinuado en una segunda fase de reformas en 2013 y 2014.

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La ley 11/2013, ha tratado de favorecer el empleo de los jove-nes fomentando el autoempleo y estableciendo como causa justifi-cada de la temporalidad del contrato de trabajo el que sea pri-mera experiencia laboral. Ademas, permite, tras su terminacion,la conversion de contratos en practicas en contratos para la for-macion, y autoriza a las empresas de trabajo temporal el suminis-tro de trabajadores mediante contratos para la formacion. Lapreocupacion por el fomento de la contratacion de los jovenes hadado lugar, ademas, al Real Decreto-ley 3/2014, de medidas ur-gentes para el fomento del empleo y la contratacion temporal,que contiene una reduccion de las cotizaciones sociales para favo-recer el empleo estable mediante una formula de ‘‘tarifa plana’’para los jovenes durante un perıodo de dos o tres anos, con im-portantes bonificaciones en las cuotas a la Seguridad Social.

Tambien se han introducido diversas reformas para favorecery fomentar el trabajo a tiempo parcial. El Real Decreto-ley 11/2013, de 2 de agosto, convertido en Ley 1/2014, de 28 de febrero,mejora el regimen de proteccion social de los trabajadores atiempo parcial, aplicando la doctrina del Tribunal de Justicia dela Union Europea, modificando los perıodos de cotizacion necesa-rios para que estos trabajadores pueden tener derecho a pensionesde Seguridad Social. La Ley ha establecido requisitos mas riguro-sos para percibir esa prestacion, a la vez que se flexibiliza la sus-pension de la prestacion para casos de salidas ocasionales al ex-tranjero.

La reforma mas importante que introduce esa Ley afecta a laconsulta y negociacion con los representantes de los trabajadoresen los casos de reestructuracion de empresas (modificacion sus-tancial de condiciones de trabajo, suspension del contrato, reduc-cion de jornada y despidos colectivos), y de inaplicacion de lascondiciones de trabajo previstas en los convenios colectivos. Seimpone ahora que la consulta se haga a una unica comision nego-ciadora, que incluya a todos los puestos de trabajo afectados, sedetermina la composicion de esa comision negociadora y se esta-blece que la comision debe estar constituida con caracter previoal inicio del procedimiento de consultas.

Finalmente, para salir al paso de la doctrina judicial que de-claraba nulo el despido colectivo por falta de entrega de la docu-mentacion, se especifica la documentacion a presentar, todo conel proposito de facilitar esas reestructuraciones o, en su caso, la

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inaplicacion temporal del convenio colectivo, un cambio impor-tante en el ambito del proceso laboral es limitar los supuestos enque el despido colectivo puede ser declarado nulo.

Por otro lado, el Real Decreto-ley 16/2013, de 20 de diciem-bre, ‘‘de medidas para favorecer la contratacion estable y mejorarla empleabilidad de los trabajadores’’, ha ampliado la flexibilidaden la contratacion del trabajo con nuevas modificaciones del Es-tatuto de los Trabajadores en relacion con el tiempo de trabajo yel contrato de trabajo a tiempo parcial, apoyandose en la Direc-tiva 97/81/CE, de 15 de diciembre de 2007, en la lınea de suprimirobstaculos de naturaleza jurıdica o administrativa al uso del tra-bajo a tiempo parcial, considerando ese contrato como una impor-tante vıa de ingreso al mercado de trabajo. Para hacer mas atrac-tivo a los empresarios el contrato de trabajo a tiempo parcial, seincorporan nuevos elementos de flexibilidad en la gestion deltiempo de trabajo con vistas a que las empresas recurran en ma-yor medida al trabajo a tiempo parcial, convirtiendo a este enrealidad en una modalidad de organizacion flexible del tiempo detrabajo, medida que ha tenido considerable exito al haber au-mento considerablemente a lo largo de 2014 el numero de contra-tos a tiempo parcial. Este Real Decreto-ley facilita asimismo elregimen jurıdico del contrato en practicas y su apertura a las em-presas de trabajo temporal como una vıa de incorporacion de losjovenes al mercado de trabajo, y ha establecido nuevas medidaspara flexibilizar el tiempo de trabajo, y favorecer la distribucionirregular de la jornada.

Todas estas reformas complementan y acentuan la reformadel Gobierno Popular de 2012, tratando de asegurar los objetivosflexibilizadores perseguidos, aunque el conjunto de estas medidasno ha evitado la destruccion de empleo y que el levısimo creci-miento de empleo en 2014 no se ha acompanado de un aumentoproporcional sensible de la contratacion estable a tiempo com-pleto.

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INTERVENTIINTERVENTI

MARIELLA MAGNANI

Ringrazio il Presidente per avermi invitata a prendere la pa-rola dopo la Tavola rotonda che ci ha portato le esperienze stra-niere, da cui siamo sempre arricchiti. Ovviamente non interverrosugli argomenti che sono stati trattati nella Tavola rotonda, seb-bene essi formino un background sempre utile, anche ove si di-scuta del diritto nazionale.

Vorrei invece parlare di due profili di carattere generale e diuno piu specifico che attiene alla relazione del professor De LucaTamajo.

1. Il primo punto di carattere generale concerne i cinquan-t’anni dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicu-rezza sociale, che ci costringono ad interrogarci circa il ruolo chela nostra Associazione e i giuristi del lavoro hanno nel momentopresente. Innanzitutto, e importante interrogarsi sul ruolo del-l’Associazione rispetto al proliferare — lo accennava Carinci inapertura di questo convegno — di altre associazioni molto attivenello studio del diritto del lavoro e della sicurezza sociale (non sose cio si verifichi anche negli altri Paesi: mi pare che questo sia untratto molto peculiare dell’associazionismo culturale per quantoriguarda il diritto del lavoro in Italia).

In proposito, ritengo che l’A.I.D.La.S.S. sia, e debba conti-nuare ad essere, il luogo del dibattito ‘‘alto’’, del dibattito accade-mico in cui si profilano le linee culturali, per non dire costituzio-nali, della materia. E che non debba (e comunque non ci riusci-rebbe) inseguire le mille iniziative, spesso non disinteressate, dacui viene accerchiata.

Interrogarsi circa il ruolo del giurista del lavoro nel momentopresente, poi, comporta inevitabilmente di scandagliare lo stato

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attuale del diritto del lavoro, come abbiamo fatto in queste gior-nate: un diritto del lavoro che risulta ormai scomposto nei diversilivelli di normazione, frammentato ed eclettico, anche dal puntodi vista metodologico.

2. Ebbene, legando assieme — qui veniamo al secondopunto — i discorsi, certo molto diversi nelle premesse e nelle con-clusioni, di Romagnoli e Treu, mi pare di intravedere un elementocomune: la barra dritta si puo tenere se si ricomincia dai principicostituzionali (nazionali ed europei), per comprendere quale sia ilnucleo fondamentale dei diritti irretrattabili. Qui pero occorreprestare attenzione, poiche bisogna essere consapevoli che pernoi, che veniamo da una legislazione ipertrofica, tipica di una sta-gione inevitabilmente passata, per ragioni economico-sociali, deldiritto del lavoro, il tenere la barra verso i principi costituzionalinon significa solo operazioni di addizione (si pensi alle nuove po-verta di cui parlava ieri Persiani) ma anche di distruzione e/o dicostruzione in altro luogo. Si pensi al rapporto tra principi e re-gole e, ad esempio, a tutto il dibattito, alimentato dalla riformadell’art. 18 St. lav., su cio che costituisce il nucleo della protezionecostituzionale in materia di conservazione del posto di lavoro e sucio che, invece, e estraneo a quel nucleo.

3. Il terzo punto che vorrei toccare concerne il famoso, o fa-migerato, art. 8 della legge 148 del 2011 sempre incombente nel si-stema — e emerso anche nelle relazioni di ieri — ma non ancorametabolizzato nello stesso.

Giustamente diceva Rusciano che questo tema meriterebbeun convegno a se. Forse e perche e stato talmente esorcizzato da-gli studiosi che continuano ad esserci aporie nella stessa interpre-tazione della norma, le quali, a loro volta, ne rendono difficile lasistematizzazione: quali sono i soggetti abilitati a stipulare i con-tratti collettivi di prossimita? La contrattazione territoriale devetradursi in specifiche intese? Si tratta di autonomia collettivafunzionalizzata, tale per cui e ammesso un controllo giurisdizio-nale sulle finalita? Quale e la reale estensione delle materie su cuipossono incidere i contratti di prossimita? E cosı via.

Capisco che lo sforzo, a fronte della apparentemente scarsa (oforse sotterranea) utilizzazione della norma, possa sembrare inu-tile. Ma le conclusioni cui perveniva ieri De Luca Tamajo, in or-

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dine al fatto che puo trovarsi in questa norma la disciplina legi-slativa dei rapporti tra contratto collettivo nazionale e contrattoaziendale, nel senso che il secondo puo derogare al primo solo sericorrono i requisiti soggettivi, finalistici e di oggetto dalla mede-sima previsti (e se questo non accade vi e nullita della pattuizionedifforme) hanno un impatto sistematico dirompente rispetto agliesiti cui ci hanno condotti decenni di elaborazione giurispruden-ziale, con l’affermazione della derogabilita del contratto nazionaleda parte del contratto aziendale.

A me non pare che sia cosı: credo che l’art. 8 non faccia altroche confermare i risultati faticosamente raggiunti proprio in ma-teria di derogabilita del contratto nazionale da parte di quelloaziendale, attribuendogli, alle condizioni indicate, efficacia ergaomnes. Era quello l’obiettivo principale perseguito dal legislatore.Oltre tutto, se cosı non fosse, potremmo anche trovarci dinnanzia problemi di legittimita costituzionale. Invero, se un contrattoaziendale non potesse derogare, se non alle condizioni previste, alcontratto nazionale (naturalmente ferma restando la questionedell’efficacia soggettiva), si potrebbe fondatamente porre un pro-blema di costituzionalita per l’intrusione che cosı si verificherebbenell’autonomia sindacale. Un’‘‘intrusione’’ che, naturalmente, po-trebbe anche esserci, ma solo nell’ambito di una legge organica diattuazione dell’art. 39 Cost. e, dunque, di una complessiva archi-tettura, con pesi e contrappesi. Ma con l’art. 8 non ci si trova din-nanzi a nulla di tutto questo.

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GIULIO PROSPERETTI

Penso che l’attuale crisi non sia una crisi contingente, ma unacrisi di sistema. E come tutte le crisi, credo che il primo impattosia quello di obbligarci a cambiare le categorie di interpretazionedella realta. Noi non possiamo analizzare la realta attuale con lecategorie che abbiamo maturato in un altro contesto.

Eravamo abituati a considerare il lavoro come porta di tuttele tutele, la tutela del rapporto di lavoro come elemento per la tu-tela della persona, come strumento di sicurezza sociale, come si-stema base di ripartizione del reddito nell’ambito nazionale, comestrumento di realizzazione della propria personalita, del propriostatus anche di cittadinanza.

Si dice il lavoro non e una merce, ma tende sempre piu a di-ventare una merce, perche di fronte alla finanziarizzazione dell’e-conomia, alla globalizzazione dei mercati, ai problemi dati dalramo sociale dei paesi terzi, alla pratica delle delocalizzazioni, allasempre crescente, almeno nel nostro paese, importanza del lavoronero che viene oggi anche valutato ai fini del PIL, quindi ha unsuo accreditamento formale anche dal punto di vista economico.

Ecco, in questa situazione, si sta avverando quello che io inuna relazione che facemmo a un convegno del Centro Studi Napo-letano, quello in cui D’Antona, De Luca Tamajo e io, sostenemmoquesta tesi che era intitolata in una relazione ‘‘Dalla tutela delrapporto alla tutela della persona’’. Ecco, oggi stiamo avviandociin questo processo, naturalmente e un processo, quindi non si puodire: sı, e finito il diritto del lavoro, comincia la sicurezza sociale.Pero e importante cambiare le categorie con le quali noi vediamoil progresso di questo fenomeno.

Quindi, mentre si flessibilizza il rapporto di lavoro e quindiabbiamo contratti in peius, abbiamo lavoro precario, abbiamouna marcia indietro rispetto alla causalita dei contratti, d’altraparte crescono le tutele antidiscriminatorie, la tutela contro ilmobbing, il principio di parita, c’e molta piu attenzione sui pro-

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blemi della sicurezza, cioe si tende a tutelare la persona in quantotale, non nel rapporto, mentre invece una volta si ragionava nelsenso: irrigidiamo il rapporto, cosı le tutele andranno automatica-mente a seguire.

Oggi invece in questa situazione di flessibilita del rapporto,noi giustamente tuteliamo la persona. Ecco, allora, che vanno fi-scalizzati gli ammortizzatori sociali, infatti l’ammortizzatore so-ciale non puo essere piu visto soltanto come rimedio alla man-canza di lavoro; insomma non dobbiamo, a mio avviso, incenti-vare lo status di disoccupato (al fine dell’applicazione delle tu-tele), che una volta era e ancora e l’elemento base per averediritto agli ammortizzatori sociali, quanto invece dobbiamo incen-tivare il lavoro.

L’indennita di ‘‘disoccupazione due’’, che in Germania, si as-socia ad un lavoro precario o ad un lavoro molto part-time, com-pre non solo la disoccupazione ma piu complessivamente situa-zioni di disagio sociale.

A mio avviso dovremmo cominciare a pensare proprio allapossibilita di ammortizzatori sociali, non ad escludendum, nelsenso dell’incompatibilita anche di un modesto lavoro con gli am-mortizzatori sociali, perche il lavoro di per se non e piu in gradodi dare quella tutela che ci da il nostro articolo 36 della Costitu-zione.

D’altra parte l’articolo 36 della Costituzione non dice che ilsalario minimo deve essere garantito dalle imprese, si puo anchepensare di rispettare il dettato costituzionale attraverso un mixfra salario sociale e salario di scambio.

Quindi in una situazione dove la disoccupazione non e piu fri-zionale, come si diceva una volta, ma e una disoccupazione strut-turale, noi dobbiamo pensare in termini universalistici, e quindipensare a strumenti nuovi di ripartizione del reddito nazionale,quando appunto il salario di scambio per le ragioni che tutti cono-sciamo, non e piu idoneo a garantire questa funzione.

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FIORELLA LUNARDON

Il binomio crisi-flessibilita appartiene alla dimensione ‘‘clas-sica’’ del diritto del lavoro, con tale aggettivo intendendosi il di-ritto del lavoro nella sua impostazione puristica. La crisi per lanostra materia non e infatti una discontinuita, ma uno stato co-stante.

D’altro canto, la flessibilita generata dalla crisi ha caratteriz-zato le principali svolte evolutive della nostra materia. Basti ri-cordare a questo proposito i tre grandi provvedimenti legislativisu cui si sono innestate tutte le trasformazioni del sistema: lalegge n. 863 del 1984, la legge n. 196 del 1997 (c.d. PacchettoTreu) e il decreto legislativo n. 276 del 2003 (c.d. riforma Biagi).

Il percorso della flessibilita si e poi progressivamente compli-cato, specie da quando essa ha cominciato ad assumere moltepliciforme, ad avere articolazioni su di una pluralita di piani e ad es-sere ostaggio di opzioni ideologiche contrastanti.

Sul versante del diritto previdenziale, come ben emerso ierinella relazione di Mattia Persiani, la flessibilita si manifesta adesempio sotto forma di eterogeneita delle risposte fornite dal legi-slatore ai problemi indotti dalla crisi. Nel diritto del rapporto dilavoro la flessibilita si e rivelata poi addirittura in grado di retroa-gire sullo stesso DNA della materia, ovvero sui rapporti tra di-ritto del lavoro e diritto civile.

Ma anche a prescindere dal fatto che la flessibilita possa es-sere vissuta come valore antagonistico della rigidita (ovvero dellacategoria fondamentale dell’inderogabilita), resta da comprenderese tra la flessibilita ‘‘classica’’, conosciuta fin dall’inizio degli anniottanta e quella attuale, contrastata e tormentata, vi sia unareale discontinuita.

Mi permetto pertanto di indicare alcuni segni, oggi presentinell’ordinamento, che potrebbero indurre a parlare di una meta-morfosi della flessibilita, perche se e vero che la crisi si aggrava eche le sue conseguenze diventano sempre piu brutali (come ha

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detto ieri Romagnoli), allora e anche vero che l’ordinamento puoessere chiamato a reagire in modo diverso.

Innanzi tutto v’e la dilatazione dell’ambito della flessibilitarispetto ai suoi contenuti classici (come noto, l’articolazione deltipo, cioe la moltiplicazione delle tipologie di rapporto e la derego-lazione, ovvero la modificazione dei rapporti tra le fonti, essen-zialmente tra le fonti protagoniste quali la legge e il contratto col-lettivo). Come ieri ha ben ricordato De Luca Tamajo, la nostraflessibilita non e mai stata secca, bensı ‘‘controllata’’. Se non neimodi, e difficile tuttavia non intravedere una dilatazione dell’am-bito materiale della flessibilita sia nell’articolo 8 della legge n. 148del 2011 sia nella legge n. 92 del 2012 (c.d. Riforma Fornero).Quest’ultima in particolare, checche si dica degli esiti, e comun-que arrivata a lambire la flessibilita in uscita, cioe le conseguenzedel licenziamento illegittimo nell’area della tutela reale.

Si registrano poi tentativi, subito recuperati perche molto cri-ticati, di sfrangiamento della deregolazione sul versante del rap-porto legge e contratto individuale. Ricordo a questo propositol’intervento sulla c.d. doppia chiave di accesso al part-time ope-rato dall’articolo 46 del decreto legislativo n. 276/2003: durante ilperiodo transitorio di attuazione delle nuove disposizioni la norma(nella sua originaria formulazione) riteneva sufficiente il consensodel singolo lavoratore all’inserimento nel contratto individualedelle clausole flessibili o elastiche, cio a prescindere dalla presenzadi una disposizione di contratto collettivo che autorizzasse a suavolta il singolo a prestare il proprio consenso. Le modifiche legi-slative successive, e vero, hanno reintrodotto la necessita dell’au-torizzazione contrattuale collettiva preventiva; ma la piu recentelegislazione ospita nuovi tentativi di restituire agli estremi del si-stema piccoli spazi alla volonta individuale, valorizzata come tra-mite di ulteriore flessibilizzazione del rapporto. Ritengo in ognicaso che su questo versante non vi siano pericoli di cedimenti,perche a livello sistematico la deregulation non e mai ‘‘secca’’.

Il terzo segnale proviene dallo stesso, famoso o famigerato, ar-ticolo 8 della legge n. 148 del 2011 e riguarda quello che chiamereilo sviluppo di una flessibilita asimmetrica sul versante del rap-porto tra i livelli di contrattazione. Veicolo della flessibilita ‘‘con-trollata’’ e sempre stato il contratto collettivo, ma la legge finoranon aveva mai indicato un livello contrattuale come esclusivo o,qualora il livello fosse stato inegualmente indicato, si trattava

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sempre del livello nazionale. In altre parole, la disposizione legaleo non specificava, e in tal caso si ritenevano legittimati entrambiil livello nazionale e l’aziendale, o specificava richiedendo il livellonazionale; qualche volta specificava richiedendo espressamente illivello aziendale ma anche in tal caso senza escludere il nazionale.Mai v’e stata esclusione cosı netta, come quella operata dall’arti-colo 8 citato nei confronti del contratto nazionale. Certo siffatta‘‘esclusione’’, piu che voluta, puo essere stata indotta dal fattoche le ultime soluzioni fornite dal sistema sindacale in ordine al-l’efficacia soggettiva generalizzata sono soluzioni che coinvolgonosolo il contratto aziendale (e questo e ancora vero nonostante lastipulazione del Protocollo del 31 maggio 2013 e poi del TestoUnico sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014, perchetali Accordi devono essere tuttora attuati). C’e pero indubbia-mente una parte del sistema (anche sindacale), che aiuta questaconfigurazione asimmetrica.

D’altro canto non possono trascurarsi i tentativi di recuperoche provengono dal versante delle relazioni industriali, coinvoltoin primis proprio nella gestione della governabilita di questa me-tamorfosi della flessibilita. Si tratta tuttavia di un versante chepurtroppo e instabile e debole, perche sconta anch’esso al suo in-terno il problema della rottura dell’unita.

A questo proposito vorrei richiamare l’accordo sulla produtti-vita del 16 novembre 2012 che, pur essendo un accordo separato,tenta di recuperare la vecchia forma della flessibilita, cioe quellarealizzata dal contratto collettivo nazionale e non dall’aziendale.Tale accordo al punto 7 considera equivalenti alla retribuzione in-centivante le modifiche organizzative che vengono attuate attra-verso deroghe alle disposizioni di legge in materia di orario, man-sioni e controllo dei lavoratori. Ebbene, nel prevedere tali modifi-che, l’accordo affida il ruolo di strumento flessibilizzante al con-tratto nazionale e non all’aziendale. Quindi questo accordo,valutato come un accordo destrutturante perche teso ad avvalo-rare l’idea di una deroga ormai libera tra i livelli contrattuali,tenta un recupero del livello nazionale in contrasto, non esplicitoma diretto, con l’articolo 8 della legge n. 148 del 2011.

In conclusione, e inevitabile riconoscere che in questo scena-rio quasi escatologico restano un problema, una sfida e un peri-colo: il problema e governare queste metamorfosi della flessibilita,la sfida e quella di riuscire a farlo attraverso le relazioni indu-

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striali evitando interventi del legislatore, e il pericolo e che questearticolazioni della flessibilita non si coordinino, generino contrad-dizioni e a questo punto inevitabilmente incertezze. Allora se c’eun limite della flessibilita, e quello dell’incertezza e l’incertezza eproprio cio di cui non ha bisogno una materia ‘‘in crisi’’. Grazie.

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LORENZO ZOPPOLI

I ‘‘fondamenti’’ del diritto del lavoro: questioni di metodo e principicostituzionali.

In considerazione del taglio molto di fondo ed ‘‘alto’’ che si edato a queste giornate di studio, credo innanzitutto sia doverosoesprimere, seppur sinteticamente, il proprio punto di vista sulletematiche trattate con tanto impegno nelle relazioni introduttivee negli interventi dei colleghi/amici stranieri. Pero penso ancheche sia preferibile dibattere non le analisi in dettaglio — che sa-rebbe difficilissimo ripercorrere in pochi minuti — quanto alcuniprofili che, con un po’ di presunzione, oserei definire di metodo. Iltaglio di questo convegno ci invita a fare delle riflessioni che at-tengano sı alla crisi, ma senza per l’ennesima volta sprofondare inuna descrizione della ‘‘congiuntura’’. Di crisi infatti parliamo datanti anni e ancora tanto parleremo (v. ora COLOMBO, Tempi deci-sivi. Natura e retorica delle crisi internazionali, Feltrinelli, 2014);questa parola ci accompagna dalla nascita della materia e, perciascuno di noi, ‘‘nella materia’’. Quindi forse, organizzando que-sto convegno in occasione dei cinquant’anni della A.I.D.La.S.S.,ci si invita a riflettere sui fondamenti della nostra materia: e mipare che, pur nell’ambito di relazione molto belle e ‘‘ariose’’, ilbersaglio non sia stato del tutto centrato, preferendosi affrontarela questione — complessa piu che mai — in modo, per cosı dire,incidentale. Il punto e che, probabilmente, riflettere sui fonda-menti del diritto del lavoro e oggi veramente e particolarmentecomplesso. In un intervento naturalmente ben poco si puo dire oaggiungere su quanto e stato detto. Pero volevo proporre — o ri-proporre — qualche brevissima riflessione sul ruolo che dobbiamoriservarci — e addirittura pretendere — come dottrina, come‘‘addetti’’ alla riflessione teorica (nel senso di ‘‘scientifica’’: questae infatti ‘‘qui ed ora’’ la nostra legittimazione ad affrontare i temidella crisi). Non possiamo infatti proprio noi dimenticare che —

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nonostante le contingenze e le urgenze, cioe senza mai accanto-narle, astraendo dalla realta — dobbiamo assolutamente riservareuno spazio rilevante al pensiero giuridico orientato all’approfondi-mento e alla sistemazione scientifica del diritto del lavoro. Questotema in alcune relazioni introduttive e stato accennato, in parti-colare lo ha toccato Edoardo Ghera, ma non lo ha poi sviluppato(almeno nella relazione che abbiamo ascoltato). Invece e un temaa mio parere importantissimo perche l’incrocio fra crisi e fonda-menti della materia ci segnala un grande rischio, che e quello diun rischio di subalternita della moderna cultura giuridica — allaquale il diritto del lavoro appartiene a pieno titolo — ad altre cul-ture, impostazioni, teorie, discipline, nelle quali sono proprio i‘‘fondamenti’’ ad essere diversi. La moderna cultura giuridica —quella nata dall’illuminismo, dalla rivoluzione francese, dai rivol-gimenti tecnologici ed economico-organizzativi legati alla nascitadella grande industria e del commercio su ampia scala, nonchedalle esperienze dell’ultimo secolo, terribili per tutta l’umanita,che si chiamano guerre mondiali, totalitarismi, annichilimento delvalore dell’essere umano — e fondata su alcuni principi irrinun-ciabili e, in particolare, sui principi dell’eguaglianza dei cittadini edella democraticita delle procedure decisionali pubbliche. Li ri-chiamo qui come « vaa »parole/mondo’’, dovendosene aver pre-sente tutti gli sviluppi, anche storici; le versioni e declinazioni,anche ideologiche; i problemi applicativi nelle varie sfere ordina-mentali. Ma se davvero incombe il rischio di una gerarchia di ap-procci culturali che — a seguito della crisi che ci accompagna or-mai da decenni (con riacutizzazione periodiche e vero, ma conuna costanza che pare condizionare ogni ‘‘pensiero’’ che dalla crisiprovi a prescindere) — ridimensiona o svaluta i principi su cui efondata la moderna cultura giuridica, allora io credo che, comegiuristi, abbiamo un compito prioritario: chiarirci sul piano delmetodo della riflessione scientifica sui fondamenti del diritto dellavoro.

Andando per grandi sintesi, voglio dire che dovremmo innan-zitutto capire meglio come affrontare il rapporto tra misure im-mediate per affrontare la crisi e ricostruzioni dottrinali tenden-zialmente sistematiche. Se ci chiediamo come ci troviamo a svol-gere sempre piu spesso il nostro lavoro scientifico a ridosso di on-date di nuova legislazione, giurisprudenza, contrattazione,dobbiamo ammettere che pare di essere al continuo inseguimento

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del legislatore. Un legislatore che, come ha detto molto bene AlanNeal, non soltanto in Inghilterra, ma anche in Italia — al di ladelle ideologie che, dove piu dove meno, accompagnano le riforme— spesso insegue situazioni emergenziali, qualche volta le mode,qualche altra volta alcune parole d’ordine elettorali, insomma eun legislatore assai poco sistematico e sicuramente molto ‘‘igno-rante’’, nel senso tecnico della parola, dei fondamenti del dirittodel lavoro. Al riguardo proprio come dottrina ci dobbiamo seria-mente porre un problema: che facciamo? gli esperti di ‘‘uncinettoesegetico’’, come diceva ieri Umberto Romagnoli, oppure ci asse-gniamo il compito, piu complesso e a noi congeniale, di provareper l’ennesima volta a ricostruire criticamente la sistematica del-l’ordinamento, del diritto da applicare, del sistema legislativo? Ciappiattiamo sulle politiche del diritto oppure tentiamo di guada-gnare alla dottrina uno ‘‘spazio’’ di partecipazione attiva alla pro-duzione del diritto vivente? Facciamo esibizione di virtuosismotecnico-giudiziario oppure andiamo a un confronto costante e pro-fondo con le categorie fondanti gli ordinamenti giuridici che sono‘‘toccati’’, a volte molto sensibilmente, dai continui interventi ri-formatori in nome della crisi, nonostante spesso siano rapsodici edestemporanei? Possiamo discuterne ovviamente; e, a ben pen-sarci, ne abbiamo discusso in qualche altra occasione, anche se avalle delle giornate di studio (penso soprattutto all’incontro del2012 sulla riforma Fornero). In ogni caso, seppure con grande in-teresse al confronto, le mie risposte sono tutte per la seconda ca-sella della serie di domande che ho prospettato.

C’e poi la questione dei ‘‘fondamenti’’ del diritto del lavoro:quali sono i fondamenti? Dove li cerchiamo i fondamenti? Si puoessere qui semplicistici, affidandosi genericamente alla c.d.‘‘prassi’’? Io francamente, in questo caso, farei una scelta un po’tradizionale, magari sfiorando un altro tipo di ‘‘semplicismo’’. Ifondamenti del diritto del lavoro non vanno cercati nelle dinami-che reali, non vanno cercati nelle politiche, non vanno cercatinelle ideologie. Siamo giuristi e, a mio parere, dobbiamo conser-vare le peculiarita del metodo giuridico: quindi i ‘‘fondamenti’’vanno cercati sicuramente tenendo conto negli interessi reali, deivalori e dei principi che ispirano gli ordinamenti, ma sempre at-traverso i loro riflessi sulle norme. E percio centrale l’analisi delsistema regolativo nel suo complesso, che rimane l’oggetto dellariflessione scientifica del giurista. Se non manteniamo ferma que-

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sta bussola non ci confrontiamo piu, non abbiamo piu un linguag-gio e una finalita di fondo che ci accomuna, pur nelle diversita dimetodo nella ricerca, che ci puo (e anzi ci deve) anche stare. Ri-schiamo di sminuire la nostra (difficile) riflessione scientifica alrango di riflessioni un po’ sparse e disordinate.

Quindi, a mio parere, la discussione su ‘‘crisi e fondamenti deldiritto del lavoro’’, ci deve portare a ri-analizzare profondamentevalori, principi e interessi che si riflettono nel sistema normativo.Al riguardo il discorso andrebbe attentamente articolato; ma dob-biamo cercare di focalizzare il vero nodo del moderno sistema nor-mativo del diritto del lavoro. Questo nodo io lo rinvengo, conmolta chiarezza, nella moltiplicazione e nella proliferazione dellefonti, e nella difficile ricostruzione, non solo e non tanto dei rap-porti fra le fonti (anche di quelli, per carita), ma delle tecniche edelle argomentazioni idonee a graduare i diversi interessi, a faremergere i principi, a metterli in relazione con i valori, a chiarireveramente i precetti ricavabili dall’insieme della fonti. In alcunerelazioni il tema e stato toccato, in particolare in quella di FrancoCarinci. Forse pero sarebbe stato utile andare piu a fondo proprioin questa preziosa occasione, ripercorrendo cinquant’anni in cui sisono intrecciati lo sviluppo della materia e le nostre riflessioniscientifiche in sede associativa. Parlando di ‘‘fonti’’ la crisi cessadi essere un ‘‘pretesto’’ o un ‘‘contesto’’ e ci restituisce invece unasituazione ordinamentale profondamente mutata e molto lontanadall’essere assestata, da qualunque parte la si guardi. L’evolu-zione degli ultimi dieci anni ci segnala un arricchimento della ti-pologia delle fonti dappertutto, tanto in ‘‘alto’’ quanto in‘‘basso’’. Penso all’ordinamento c.d. ‘‘multilivello’’; ma penso an-che alla proliferazione di authority; alla produzione molto artico-lata ad opera del sistema di relazioni industriali, che arricchisce dimolto la tipologia, dandoci, specie negli ultimi tempi (accordi2011, 2012 e, da ultimo, del maggio 2013) degli elementi sicura-mente nuovi, che non consentono la riproposizione a cuor leggerodelle analisi del passato (neanche di quello recentissimo). Ma an-che se si guarda alle fonti piu ‘‘tradizionali, ad esempio la Costitu-zione, c’e da chiedersi: oggi possiamo parlare di ‘‘una’’ Costitu-zione? Di ‘‘quale’’ Costituzione? Si parla di Costituzione nazio-nale, ma si puo parlare di Costituzione europea, si puo parlare diprincipi costituzionali comuni ai vari ordinamenti europei o inter-nazionali. Insomma c’e un problema preliminare, che consiste ad-

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dirittura nell’individuare, a volte, le fonti che riteniamo tradizio-nali, nonche di chiarire i rapporti tra di loro. Lo stesso discorsovale infatti per la ‘‘legge’’: ‘‘legge’’ non e piu soltanto la legge sta-tale, sono le leggi regionali, sono le leggi sovranazionali o quelleche molto assomigliano alle leggi nazionali, come le ‘‘direttive’’dell’Unione europea. Sulla tipologia di leggi diversa da quella na-zionale dovremmo condurre riflessioni molto attente sui marginidi autonomia, sulle competenze, sugli intrecci tra loro, ecc. Anchesulla contrattazione collettiva — che pure da tempo siamo abi-tuati a trattare con metodologia molto diversificata e, talvolta,sofisticata — il processo critico-innovativo non si ferma, ma nonriguarda solo i confini nazionali, seppure ai diversi livelli (inter-confederale, categoriale, decentrato, che pure continuiamo a rite-nere cruciali). Spesso si presentano problemi interessanti relativiad una contrattazione collettiva che tenta di forzare i confini na-zionali, abbracciando le problematiche regolative delle impresetransnazionali, una realta interessantissima, cui accennava peresempio, Tiziano Treu, ma con necessita di approfondimenti amio parere molto marcata.

In questo sistema delle fonti — che si va cosı arricchendo,complicando, intrecciando, fornendo molti spunti nuovi — c’e unbisogno enorme delle bussole di cui si e parlato ieri, bussole peroche siano robuste e tarate sui bisogni di carattere sistematico,non troppo influenzabili da espedienti interpretativi per risolverequesta o quella emergenza o controversia. Proprio la ricerca dibussole sistematiche credo che sia il compito specifico della rifles-sione dottrinale e della riflessione scientifica. Bussole che possonoessere ritrovate da tante parti, a cominciare, naturalmente daiprincipi costituzionali. Pero questi principi non possiamo limitarcia invocarli, dobbiamo, piu di ieri, rivisitarli, esplicitarli, ridiscu-terli, magari per renderli effettivi, per capirne e attualizzarne ireali contenuti. Si potrebbero fare mille esempi, non ne ho qui iltempo. Vorrei solo proporre, a mo di appunto, due tematiche dirango costituzionale che meritano di essere particolarmente te-nute sotto osservazione.

La prima e quella del contratto collettivo e della contratta-zione collettiva, nella prospettiva del primato della ‘‘fonte’’ con-trattuale collettiva nel diritto del lavoro. Non possiamo peroneanche nominare il contratto collettivo senza seguirne con mas-sima attenzione le mutazioni morfologiche. Oggi meno che mai i

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contratti collettivi sono riconducibili a un’unica tipologia; bisognaguardare ‘‘dentro’’ ciascuna tipologia di contratto collettivo senzache si possa agevolmente presumere di risalire dalla species creatadal legislatore al genus con caratteri identitari da definire in basea dati normativi piu generali (ad esempio ‘‘costituzionali’’ ap-punto). Sotto questo profilo tutta la approfondita ed arguta ana-lisi contenuta nella relazione di De Luca Tamajo incentrata sulcontratto di prossimita riguarda, a mio parere (ma in questocredo di essere d’accordo con l’intervento di Mariella Magnani chemi ha preceduto), il contratto di prossimita e difficilmente si puogeneralizzare a al sistema contrattuale nel suo insieme.

La seconda questione attiene al contratto individuale, dasempre la grande categoria, dogmatica ma anche pratica, sullaquale quasi tutti, tranne forse Renato Scognamiglio, diciamo cheil diritto del lavoro e fondato. A questa categoria pero conti-nuiamo a dare uno spazio, una rilevanza limitata, perche diamoper scontato che stia lı come ‘‘fondamento’’ (appunto) del sistemama che tutto sommato serva a poco o a niente. Credo che do-vremmo approfondire, molto e urgentemente. Probabilmente sitratta del ‘‘fondamento’’ meno toccato come categoria giuridicadi fondo. Pero se esso rimane o deve essere piu di prima un realestrumento di regolazione paritaria dei rapporti di lavoro, e quindideve avere una funzione nel moderno diritto del lavoro, pensoche debba servire come ‘‘argine’’ anche nei confronti di disciplineeteronome che alterano in modo irrazionale, insensato o contro-producente la relazione giuridica contrattuale. Se e cosı — e con-viene discuterne di piu — le recenti modificazioni del sistemadelle fonti si ripercuotono sul contratto individuale, possono de-terminare gravi squilibri a danno del lavoratore (tradizionalmente‘‘contraente debole’’, implicato nel rapporto obbligatorio con ogniprofilo ‘‘personale’’) che mettono proprio in discussione la catego-ria concettuale, il fondamento della materia. Possiamo infatti ac-contentarci di un contratto individuale che diventi il ‘‘paravento’’di una ‘‘ideologia contrattualista’’ (per dirla con Supiot) di ma-trice economica e non giuridica? Per il giurista il ‘‘contratto’’ euno strumento di regolazione paritaria dei rapporti tra le parti,ma e soggetto ad una specifica regolazione legislativa volta a tute-lare il migliore equilibrio negoziale garantendo il piu possibilel’autonomia dei privati. Per l’approccio economico in questione il‘‘contratto’’ e uno strumento che l’impresa ha a disposizione per

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regolare i propri interessi nella migliore sintonia con il mercatosenza interferenze della regolazione statale. Possiamo non porciun interrogativo ‘‘fondamentale’’: la concezione economica delcontratto qui (malamente) sintetizzata puo essere posta a ‘‘fonda-mento’’ del nostro diritto del lavoro mantenendo inalterata la Co-stituzione che conosciamo? E se la risposta dovesse essere nega-tiva — specie in considerazione della insanabile contraddizioneche c’e tra la nozione giuridica di contratto (che non puo prescin-dere ne dal principio internazionale secondo cui ‘‘il lavoro non euna merce’’ ne dai principi di cui agli artt. 2 e 3 della Costitu-zione) e quella economica del ‘‘contratto’’ come strumento istitu-zionale a disposizione dell’impresa per ‘‘introiettare’’ i ‘‘beni’’ dellibero mercato — e la Costituzione con i suoi valori di fondo ri-mane ad orientare il mestiere del giurista teorico e pratico, qualealtro fondamento giuridico dobbiamo dare alla regolazione delrapporto obbligatorio che lega il lavoratore ad un determinato da-tore di lavoro?

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UMBERTO CARABELLI

Il fallimento del modello della ‘total flexibility’ e le colpe del si-stema delle imprese.

Avrei bisogno di un tempo maggiore per poter entrare nel me-rito di alcuni passaggi specifici toccati dalle Relazioni. Ritengo,peraltro, che l’occasione ci spinga piu a effettuare considerazionidi carattere sistematico, e quindi a privilegiare, per l’appunto, l’a-nalisi di carattere generale, piuttosto che il lavoro di puntualeesegesi delle norme, di prezioso ricamo interpretativo. Anche per-che, se non ci assumiamo la responsabilita di ragionare con corag-gio e schiettezza sulle ragioni dell’attuale crisi del sistema di di-ritto del lavoro — e specificamente sulla sua profonda involu-zione, causata da sciagurati interventi di riforma attuati con l’ot-tusa cocciutaggine ideologica ormai acclarata dall’evidenza deidati, e su cui e perfino inutile spendere altre parole — il lavoro diricamo lo faremo davvero, con filo e uncinetto, perche i giuslavo-risti saranno tutti disoccupati, in ragione del venir meno dellamateria su cui lavorare! Cio per la felicita di coloro che hannosempre considerato i sistemi di tutela del lavoro legali e contrat-tuali come un fastidioso orpello, come ‘lacci e lacciuoli’ da recidereper il bene (della liberta economica) dell’impresa.

E allora io vorrei partire da una breve e generale riconsidera-zione del passato piu recente. Cosa e successo in questi ultimiventicinque anni? Non dico certo nulla di rivoluzionario se so-stengo che abbiamo assistito al consolidarsi, in Italia e in Europa,di una totale, radicale egemonia del modello neo-liberista, il qualee stato applicato anche al diritto del lavoro. Meglio, abbiamo assi-stito all’affermazione indiscussa del principio secondo cui, poicheil diritto del lavoro costa, al fine di salvaguardare l’occupazioneesistente e di crearne di nuova — assicurando maggiore competi-tivita alle nostre imprese, ed incentivando l’arrivo di investimentistranieri — occorre(va) ampliare sempre di piu le nostre flessibi-

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lita nella regolazione e nell’utilizzo della forza del lavoro, sia at-traverso una progressiva, diretta riduzione delle tutele legali, siaattraverso il riconoscimento alla contrattazione collettiva del po-tere di derogare peggiorativamente alla legge.

I risultati di queste scelte di politica legislativa quali sonostati? Io ritengo che sia davvero impossibile non constatare comeessi risultino drammaticamente negativi. E la chiarezza con cuiquesto fatto si appalesa davanti ai nostri occhi e davvero tale,che resto sconcertato e insofferente davanti alla colposa ignoranzadi alcuni esperti (politici, giuristi, economisti, sociologi etc.), ov-vero alla dolosa, ideologica negazione di altri esperti — proni allemitologiche parole d’ordine in tema di totale flessibilita nell’uti-lizzo della forza lavoro — dei dati incontestabili offerti dallascienza statistica.

La verita e che, come Luciano Gallino ha messo perfetta-mente in evidenza nei suoi studi piu recenti, ricchi di numeri econcetti, negli ultimi 25 anni la cultura politica, sindacale e scien-tifica del lavoro e stata totalmente condizionata da un’ideologiadel libero mercato, ispirata dalla Scuola di Chicago, di modo chesi e dato valore soltanto alle generiche esigenze di competizionedell’impresa, alle quali sono state totalmente sacrificate le sceltedi politica del diritto del lavoro, indipendentemente da qualsivo-glia riflessione intorno a quale modello di sviluppo si desiderasseattuare in Italia ed Europa.

Di questa perversa situazione ha parlato qualche tempo faMaria Rosaria Ferrarese in alcuni saggi nei quali, oltre a ragionareintorno a questa condizionante egemonia del pensiero neo-liberi-sta, ha anche parlato della path dependency che ha caratterizzatol’esperienza italiana, intendendo con tale espressione segnalareche il camminatore e frequentemente condizionato dal bisogno disicurezza e dal timore e incertezza per il nuovo, a percorrere glistessi sentieri, cosı omettendo di considerare che quei sentieri, vo-lente o nolente, ti conducono sempre allo stesso punto di arrivo.Di qui l’esigenza, se si vuole mutare destinazione, di rimettere indiscussione i percorsi fin qui adottati e di cercarne degli altri,quantunque difficili e inusuali.

E allora, se partiamo da questo presupposto e riconsideriamoil modello che ci ha condizionato fino ad oggi ed i drammatici ri-sultati cui esso ci ha condotto (precarieta diffusa, crisi specificadel sistema economico-produttivo italiano correlata alla man-

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canza di investimenti e di innovazione, etc.), io ritengo sia indi-spensabile invertire la logica dell’analisi e quindi non chiedersipiu, oggi, che cosa non va nei modelli regolativi del lavoro e comepossiamo abbassare con la flessibilita i costi del lavoro, bensı: checosa non va nel modello di sviluppo che e stato adottato nel no-stro Paese? quali errori sono stati compiuti, in termini comples-sivi, dal nostro sistema di imprese? Hanno utilizzato bene le im-prese italiane la loro liberta di iniziativa economica? Quale sforzohanno compiuto per evitare di perdere competitivita e cercare dicontinuare a restare pienamente competitive? Hanno investitoparte del capitale lucrativo che per tanti anni ha premiato la lorointelligente presenza nei mercati nazionali e internazionali in pro-cessi di innovazione e modernizzazione organizzativa e produt-tiva? Qual e stato il peso della speculazione finanziaria nelle sceltedei grandi possessori di capitale industriale italiani ed europei?Quali sono stati gli effetti di un lungo periodo di completa assenzadi una politica industriale, di una politica economica che le ispi-rasse, indirizzandole verso scelte di qualita, al fine di assicurareloro una adeguata capacita di resistenza alle pressioni concorren-ziali indotte dalla globalizzazione?

Ebbene, se solo ci sforzassimo di porci queste domande, ana-lizzando senza preclusioni ideologiche, ma con la dovuta obietti-vita scientifica, i dati in grado di fornirci le relative risposte, noncredo che sarebbe molto difficile comprendere quanto sia necessa-rio disegnare un nuovo quadro assai diverso da quello che ha co-stituito il punto di riferimento dell’azione di governo in materiadi diritto del lavoro nei cinque lustri che sono alle nostre spalle.

Permettetemi di segnalare un drammatico aspetto delle erro-nee scelte di politica economica effettuate in questo lungo pe-riodo. Ho completato qualche tempo fa un’impegnativa ricercasulle nuove poverta in Italia, per il cui svolgimento mi sono ci-mentato con l’analisi di dati forniti da tutti i grandi centri chesvolgono indagini del nostro Paese (i risultati della ricerca, per chili volesse leggere, sono pubblicati nel sito della CGIL), al fine diverificare come e andata la ripartizione tra gruppi sociali della ric-chezza prodotta in Italia nel periodo predetto. Non dico nem-meno in questo caso qualcosa di rivoluzionario se ricordo a tuttiche le statistiche ci riportano una sproporzione spaventosa nelladistribuzione di tale ricchezza, la quale ci da conto del perchesiano presenti nel nostro Paese disuguaglianze superiori a quelle

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rinvenibili in quasi tutti i Paesi sviluppati, comparabili soltantocon quelle dei Paesi del terzo mondo. Una quota enorme della ric-chezza prodotta dal sistema economico nel suo complesso si e tra-dotta in profitti e soltanto una quota assai piu ridotta in remune-razione del lavoro. Ma la cosa piu grave non e questa, bensı e chela quota trasformatasi in profitti non e stata rinvestita nel si-stema, non si e tradotta cioe in innovazioni, ristrutturazioni, rior-ganizzazioni, in grado di premiare anche l’occupazione, ma si etrasformata in capitale finanziario, andandosene oltre confine, de-pauperando la terra in cui essa e stata prodotta con gli sforzi ditutti: di cio abbiamo notizie precise e non revocabili in dubbio.

E allora, alla luce di queste premesse, appare evidente checontinuare a ragionare solo ed esclusivamente sui bisogni di flessi-bilita del lavoro e di riduzione del costo del lavoro di un sistemaproduttivo che risulta ormai corroso da un lato dall’immobilismoe dall’infima propensione all’investimento produttivo della nostraclasse imprenditoriale, e dall’altro dall’ignavia e dall’incapacitaprogettuale del nostro ceto politico, sia a questo punto suicida. See vero, infatti, che il diritto del lavoro e un diritto fortementecondizionato dall’andamento dell’economia, e pur vero che nonpuo essere affidato soltanto ad esso il compito di traghettare il si-stema Italia fuori dalla crisi. La cura del nostro sistema passa, in-somma, da una rimessa in discussione ab imis, dell’intero modellodi sviluppo seguito fino ad oggi in Italia ed in larga parte dell’Eu-ropa.

Non ho tempo in questa sede per affrontare il problema dellaforte incidenza assunta, rispetto alle scelte di governo del nostroPaese, dai condizionamenti provenienti dalla Commissione euro-pea, dalla BCE, dal FMI, etc. Sono tra coloro che ritengono che,in larga misura, queste giustificazioni costituiscano soltanto unalibi utilizzato per perseguire politiche volte a smantellare lo statosociale: mi appoggio interamente, per questa mia affermazione,ancora una volta alle preziose analisi di Luciano Gallino, dallequali emerge con evidenza la strumentalita delle scelte effettuateagli interessi piu retrivi di un capitalismo finanziario che ha recisoormai ogni collegamento con gli interessi dei popoli.

Cio detto, desidero, peraltro, fare qualche precisazione in me-rito al contributo che, comunque, la nostra disciplina potrebbedare all’interno di un nuovo quadro di riferimento, in cui lo Statoriassuma la funzione di indirizzare con adeguate politiche indu-

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striali, e piu in generale economiche tout court, una modificazionestrutturale del nostro sistema produttivo, sostenendone un riposi-zionamento strategico nei mercati internazionali.

Premetto che e solo in questo quadro che a me parrebbe cor-retto ragionare sul come sia possibile ed opportuno accompagnarele riforme generali del quadro economico con adeguate riforme deldiritto del lavoro sia a livello collettivo, sia a livello di regolazionedei rapporti di lavoro.

Parlare di ‘patto tra produttori’ ha un senso solo se si defini-scono con precisione obiettivi, strategie, obbligazioni reciprochetra le parti: non ci sto piu a patti con obbligazioni e sacrifici asenso unico, perche, per dirla con un’espressione colorita, ilmondo del lavoro ‘ha gia dato’. Se dunque di patto si deve par-lare, esso deve avere delle partite di scambio molto precise, e diesso e necessario che si renda garante un governo progressista,pronto a fare la propria parte con interventi regolativi con fun-zione redistributiva e di sostegno ad uno sviluppo economico fon-dato su innovazione e modernizzazione dei processi, in grado digarantire alta produttivita e occupazione stabile.

In questa chiave di lettura, un patto di questo tipo potrebbesenz’altro promuovere modelli concertativi e partecipativi, all’in-terno dei quali inserire anche profili di flessibilizzazione funzio-nale del lavoro — e non di brutale mera flessibilita in entrata eduscita —, che diano certezza esistenziale al lavoro ed un sensocompiuto e valoriale all’idea di capitale umano.

Obiettivo, e risultato al tempo stesso, fondamentale di questonuovo approccio dovrebbe essere la restituzione di una reale cen-tralita al lavoro, finalmente preso in considerazione non nella lo-gica di una flessibilita/precarieta che non garantisce nessun fu-turo, ma nella prospettiva di una fonte permanente di dignitadella persona.

Dentro questo patto, come dicevo, potrebbe trovare accogli-mento anche una nuova prospettiva di tipo partecipativo per ilnostro sistema di relazioni industriali. Non basta, infatti, ridarefiato all’economia e al lavoro, ma bisogna anche ricostruire un si-stema di rapporti sociali che risultano oggi estremamente sfilac-ciati, un sistema di relazioni industriali malate, avvelenate dalclima revanchista che ha preso piede dall’avvento dei governi dicentro-destra, nel corso degli anni ’90, e che ha trovato la suamassima espressione concettuale nel Libro Bianco del 2001, e la

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sua massima espressione fattuale nella vicenda FIAT. Un climacha non ha prodotto nessun risultato utile per il mondo imprendi-toriale, per quello sindacale e per il Paese nel suo complesso.

Ritengo che ormai anche in Italia si possa parlare seriamentedi partecipazione; ma, sia ben chiaro, occorre evitare scorciatoiepericolosamente inadeguate, che, oltre a non colmare i fossatidella diffidenza tra le parti sociali, farebbero perdere del tempoprezioso. Se di partecipazione si deve parlare, deve trattarsi diquella vera, di quella prevista dall’articolo 46 della Costituzione,nel quale — con un afflato che e risultato a molti quasi inspiega-bile, nei piu di sessant’anni che ci separano dalla sua entrata invigore — il legislatore costituente ha sancito il ‘il diritto dei lavo-ratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, allagestione delle aziende’. Perche, se il lavoro deve diventare, non aparole ma realmente, l’elemento centrale del nuovo modello disviluppo, a me pare che i lavoratori debbano avere ancor piu il di-ritto di pronunciarsi sulle scelte fondamentali dell’impresa: scom-messe e sacrifici si fanno tutti insieme, ragionando insieme sul fu-turo dell’impresa, sulla base di un modello partecipativo fondatosu regole chiare, certe ed imparziali.

Sento di poter affermare che a ridosso di siffatte regole parte-cipative, potrebbe avere un senso anche ragionare sul conflitto(sciopero), fuori dalle brutali scorciatoie ‘alla Marchionne’. Perso-nalmente ritengo che non si debba aver paura di includere, all’in-terno di un nuovo, generale ed equo ‘patto tra produttori’, un se-rio ragionamento sul conflitto. Una cosa dev’essere pero chiara:prima di accettare riduzioni sul fronte del diritto al conflitto deilavoratori, garantito dal patto costituzionale del 1948, occorre chesiano definite con precisione certosina le partite dello scambiopartecipativo.

Ancora due considerazioni conclusive.Il nostro, purtroppo, e un Paese che conosce una scarsissima

effettivita delle regole del lavoro; e cio e notoriamente dipeso dauna cultura dell’illegalita consolidatasi grazie all’appoggio garan-tito da un’ottusa, brutale e incivile visione politica affermatasi econsolidatasi nel corso soprattutto degli ultimi vent’anni. Ancheda questo punto di vista, appare suicida non riconoscere che ilpermissivismo dilagante ha alla fine danneggiato lo stesso sistemaeconomico, perche, quando si consente alle imprese di farsi con-correnza in modo distorto — nel senso che alcune operano nel ri-

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spetto pieno delle regole, ed ad altre invece viene consentita l’elu-sione — e evidente che si sta dando vita ad un sistema malato.Occorre allora riproporci senza ambiguita il problema dell’effetti-vita delle regole, e specificamente, per quanto piu ci riguarda, del-l’effettivita delle regole del diritto del lavoro, al fine di ricostruirenegli operatori economici una cultura della legalita e della corret-tezza dei comportamenti: le regole vanno rispettate, e questo nondeve valere non soltanto per il diritto penale, o per il diritto am-ministrativo, ma anche per il diritto del lavoro, proprio come ele-mento costitutivo del nuovo modello di sviluppo.

Infine, una risposta al Prof De Luca Tamajo, il quale ha criti-cato coloro che manifestano sempre una certa resistenza rispettoalle disponibilita regolative della contrattazione collettiva e a unaflessibilizzazione della normativa legale operata attraverso l’inter-vento negoziale collettivo. Se sono riuscito a spiegare il mio pen-siero, la risposta al collega e servita sul piatto d’argento: personal-mente non ho affatto remore aprioristiche rispetto ad una nego-ziazione ‘flessibilizzante’, ma occorre che essa avvenga, in futuro,nel quadro di un sistema partecipativo, e che sia finalizzata alraggiungimento di obiettivi chiari e netti di sviluppo, e non allasalvaguardia, sotto minaccia di abbandono (chiusure di impianti,delocalizzazione, etc.), di un sistema che, come appare evidentealla luce dei dati statistici, e ormai sempre meno in grado di com-petere nei mercati internazionali non per l’eccessivo costo del la-voro, ma per inadeguatezza del tessuto produttivo posto in esseredalla nostra classe imprenditoriale.

Grazie.

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COMUNICAZIONICOMUNICAZIONI

LORENZO SCARANO

Sulla ‘‘crisi’’ di un paradigma ‘‘in rivoluzione’’

SOMMARIO: 1. L’inderogabilita fra tecnica e contenuti delle tutele. — 2. La rivoluzione

scientifica del diritto del lavoro. — 3. Le prospettive future e i vincoli costituzionali.

1. L’inderogabilita fra tecnica e contenuti delle tutele.

La relazione del prof. De Luca Tamajo sull’inderogabilitadelle regole a tutela del lavoro fra ieri ed oggi suggerisce l’intriganteinterrogativo su quello che potrebbe essere il domani del dirittodel lavoro. L’excursus che parte dalla storia per confrontarsi conla cronaca si proietta naturalmente verso le prospettive future,nella consapevolezza del carattere fondamentale dell’inderogabi-lita quale tecnica normativa connaturata al modello giuslavorista.

Peraltro, in un’ottica de iure condendo, la vista non puo essere‘limitata’ alla forma del tipo di regolamentazione giuridica utiliz-zata dal legislatore, dovendo necessariamente l’interprete soffer-marsi sulla sostanza, sui contenuti che la norma intende perse-guire. Cio e quanto mai inevitabile alla luce dell’evidente consta-tazione delle radicali metamorfosi in atto negli altri settori deirapporti giuridici: e se risulta impensabile confrontarsi con le in-novazioni di tutte le branche del diritto, non e possibile ignorarele rilevantissime modifiche che hanno interessato il diritto privato(specie dei contratti).

E singolare notare, infatti, come negli stessi tempi in cui il di-ritto dei contratti subiva una profonda trasformazione hannofatto apparizione sullo scenario della regolazione statuale del la-voro subordinato provvedimenti normativi orientati in tutt’altradirezione (se non in contrapposizione) rispetto al paradigma clas-

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sico (1) del diritto del lavoro. Si e fatta strada una linea di politicadel diritto tendente ad allentare i vincoli eteronomi che gravanosui contraenti e mirata all’alleggerimento delle tutele, al fine direstituire alle parti spazi di manovra nella disciplina del rap-porto (2).

Per esempio, fra i primi grimaldelli impiegati per scardinarel’impostazione tradizionale della norma inderogabile protettivadel lavoratore occupa un posto di rilievo la tecnica dell’autonomiaindividuale assistita (in veste ‘derogatoria’). E vero che nella suamassima espressione il modello della derogabilita assistita giaceper ora negli indocili sotterranei delle possibili riforme in itinere,essendo stato placato nella sua capacita destrutturante dall’inter-pretazione conforme a Costituzione dell’istituto che ne reca l’im-printing, la certificazione dei contratti di lavoro (3); non ci si puo,tuttavia, esimere dal constatare come il confine mobile tra regola-mentazione inderogabile e spazi di autonomia (individuale o col-lettiva) si sia sensibilmente spostato, ampliandosi gli ambiti nonsottoposti al raggio di applicazione della prima (4).

A fronte delle incontestabili tendenze (de)regolative in attonel diritto del lavoro, si puo cogliere una possibile traccia di let-tura delle stesse, non piu relegabili nell’estemporaneo, extrava-gante, intervento di un legislatore ‘di passaggio’, perche trattasidi interventi in grado di rivoluzionare il paradigma giuslavori-stico.

2. La rivoluzione scientifica del diritto del lavoro.

In questa direzione, la riflessione di ampio respiro di Khun (5)risulta di straordinaria utilita: pur se oggetto di una conquista

(1) Quello connotato dallo specifico proposito di correggere il mercato perseguendo

finalita redistributive; valorizzando un’espressione sintetica ma esaustiva: la ‘‘giustizia so-

ciale’’.

(2) Per tutti, P. ICHINO, Il lavoro e il mercato, Mondadori, Milano, 1996.

(3) R. VOZA, L’autonomia individuale assistita nel diritto del lavoro, Cacucci, Bari,

2007, 195 ss., ivi ulteriori riferimenti dottrinali.

(4) S. SCIARRA, Norme imperative nazionali ed europee: le finalita del diritto del lavoro,

in DLRI, 2006, 41.

(5) T. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978. Su

questa prospettiva gia M. D’Antona, L’anomalia post positivistica del diritto del lavoro e

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scientifica riconosciuta, il paradigma di una disciplina e suscetti-bile di radicali modifiche, anche a causa di « condizioni esternealla scienza », che col tempo possono « trasformare una sempliceanomalia in una fonte di crisi acuta », scrollando quelle acquisi-zioni tradizionalmente capaci di guidare la ricerca in un determi-nato campo (6).

Ebbene, un simile ‘cambio di pelle’ pare interessare il dirittodel lavoro, mettendo in dubbio i suoi tratti differenziali tipici.

Oggi l’interprete, infatti, non puo piu limitarsi all’esegesi diuna novita normativa episodica, frutto di un legislatore che, nel-l’esercizio della discrezionalita riconosciutagli dalla sovranita po-polare, decide di disciplinare in maniera ‘‘anomala’’ (rispetto alparadigma che l’ermeneuta conosce) un determinato aspetto delrapporto di lavoro. Ovviamente, trattasi di un lento e progressivoprocesso evolutivo nel corso del quale il giuslavorista, di fronte adun’altra norma del medesimo segno, continuera ad applicare ilmutato dato legislativo, magari evitando interpretazioni estensivee analogiche, iniziando pero ad interrogarsi su quanto stia acca-dendo (7). Quando, invece, la prospettiva regolativa si stabilizzanel tempo la dottrina riesce con grossa difficolta a confinare nel-l’anomalia l’ennesimo intervento; la norma ha ormai perso la di-mensione contingente che la caratterizzava e se non e spiegabilealla luce del paradigma scientifico della disciplina e forse perchelo stesso non risulta piu valido, siccome in rivoluzione.

la questione del metodo, in B. CARUSO, S. SCIARRA (a cura di), Massimo D’Antona. Opere,

Giuffre, Milano, 2000, 53 ss. e P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia re-pubblicana, in LD, 2009, 35 ss.

(6) T. KUHN, cit., 10 ss. e passim. « La scoperta comincia con la presa di coscienza di

una anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspet-

tative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale »; quando il paradigma non e

piu in grado di spiegare le anomalie, nel frattempo divenute regolari, vi sono tutte le pre-

messe per una crisi del paradigma, in corso di ‘‘rivoluzione’’. Tutte le crisi, infatti, « si chiu-

dono con l’emergere di un nuovo candidato per il paradigma e con la conseguente battaglia

per la sua accettazione » e, durante « il periodo di transizione », vi sara sovrapposizione « tra

i problemi che possono venire risolti col vecchio paradigma e quelli che possono essere ri-

solti col nuovo » (ivi, rispettivamente, 76, 111).

(7) « Come nel processo di fabbricazione cosı anche nella scienza il cambiamento di

strumenti e una stravaganza che va riservata per l’occasione che lo richiede. Il significato

delle crisi sta nell’indicazione, da esse fornita, che l’occasione per cambiare gli strumenti e

arrivata » (Id., 1978, 102).

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Questa descrizione merita di essere specificata.Occorre, in altri termini, chiarire perche il disegno contenuto

gia in nuce negli artt. 75 ss. d.lgs. 276/2003 costituisce un’‘‘ano-malia che puo mettere in crisi’’, e — in maniera evidente — i piurecenti interventi regolativi (art. 30 ss. legge n. 183/2010, art. 8 l.148/2011 e, per certi aspetti, alcune delle modifiche contenutenella legge n. 92/2012) una ‘‘crisi che sta rivoluzionando’’, il para-digma del diritto del lavoro.

In prima battuta, infatti, si potrebbe pensare che sia la dimi-nuzione del tasso di eteronomia e l’erosione dell’inderogabilitadelle regole dello scambio fra lavoro e retribuzione a sottoporre arestyling il paradigma, scuotendo i suoi caratteri fondanti per so-stituirli con altri.

Sarebbe pero miope ancorare una rivoluzione ad una tecnica;giova a tal proposito rimarcare il carattere neutrale della normainderogabile (8) e un’eloquente constatazione, ricavabile dal con-fronto fra diversi modelli e che conferma come la regolazione siasolo una ‘‘forma’’, utile alle piu svariate esigenze, colorabile deipiu eterogenei ‘‘contenuti’’: e singolare osservare come il condi-viso obiettivo dello « sviluppo ottimale delle relazioni di mercato »viene perseguito nel diritto dei contratti con la « limitazione dellaliberta contrattuale » e con la « valorizzazione dell’autonomia indi-viduale » nel rapporto di lavoro (9).

Cioe a dire: il ritorno in auge dell’individualismo e del trionfodel mercato viene normativamente tradotto nel diritto dei con-tratti con l’innalzamento del tasso dell’inderogabilita e nel dirittodel lavoro con l’erosione di questo carattere delle disposizioni. Pe-raltro, il nuovo testo dell’art. 18 Stat. lav. e pur sempre unanorma inderogabile: sono i contenuti prescrittivi — e non la tec-nica normativa — ad aver alleggerito la soglia protettiva per il la-voro subordinato. Ma volendo avventurarsi solo per un attimonei desiderata di qualcuno, se un giorno non esistera piu la ‘‘tutelareale’’ (piena ovvero attenuata poco conta) ma solo quella risarci-toria o indennitaria, sara questo nuovo contenuto della norma ad

(8) P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapportieconomici, Giuffre, Milano, 1969, 165.

(9) V. in proposito le acute osservazioni di V. SPEZIALE, La tutela del contraente de-bole, in Il diritto del lavoro nel sistema giuridico privatistico (Atti delle giornate di studio

A.I.D.La.S.S., Parma, 4-5 giugno 2010), Giuffre, Milano, 2011, 333.

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abbassare la tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi equesta o quella tecnica normativa.

Le prime anomalie e l’attuale stato di crisi del diritto del la-voro stanno rivoluzionando il suo paradigma — incidendo su tec-niche di protezione collaudate (prese a modello da altri settori di-sciplinari) — sotto il profilo delle particolari finalita di giustiziaperseguite dall’intervento statuale nei rapporti di lavoro, sgreto-lando il contenuto delle tutele.

Com’e noto, la peculiare disciplina del rapporto di lavoro su-bordinato trae giustificazione da un dato di struttura ‘‘interno’’alla fattispecie negoziale, la giuridificazione di un potere allocatoa vantaggio della posizione organizzativa del datore di lavoro. Suquesto fondamento cardinale del contratto si e gradualmente edi-ficata la reazione dell’ordinamento giuridico, finalizzata alla pre-disposizione di strumenti di tutela ‘‘esterni’’ alla fattispecie,agenti sulla disciplina della relazione ed orientati alla tendenzialeriduzione della diseguaglianza che contraddistingue la persona (ela dignita) del lavoratore.

E quest’ultima il fondamento ultimo di una disciplina che li-mita i poteri giuridificati del datore di lavoro sulla (ed al con-tempo valorizza la) persona del lavoratore, specie ove si riflettasul problema della compatibilita fra regole degli scambi di mer-cato e salvaguardia di valori extra-patrimoniali. Senza negare lepremesse economiche della sua genesi (la considerazione mercifi-cata del lavoro) ne gli effetti potenzialmente prevaricanti dell’im-plicazione della persona nel contratto di lavoro subordinato (lasottoposizione della persona del lavoratore, con la sua dignita, adun potere altrui), il diritto del lavoro ha progressivamente dise-gnato un diritto « a misura d’uomo » (10), cercando faticosamentedi limitare la negoziabilita degli attributi materiali ed immaterialidella personalita del lavoratore attraverso regole di correzionedello scambio di mercato (e, quindi, ponendosi oltre la mera ac-cettazione di quest’ultimo) e norme che (anziche disciplinare i ter-mini dell’accordo) proteggono e sviluppano, in chiave redistribu-tiva, la posizione di uno dei contraenti.

(10) Cfr. il suggestivo racconto di U. ROMAGNOLI, Il lavoro in Italia. Un giurista rac-conta, Il Mulino, Bologna, 1995, 10.

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E in forza del meta-principio della dignita umana che il rap-porto di lavoro non puo essere governato da una mera logica mer-cantilistica: e la dignita umana l’istanza condivisa, ed oggetto dipositivizzazione normativa, che consente di deviare dai binari del-l’efficienza economica; l’elemento personalistico — del tutto as-sente nelle altre relazioni di mercato di nuovo assolve cosı allafunzione dogmatica di legittimare una disciplina speciale.

In questa prospettiva, lo sviluppo del diritto del lavoro ci haconsegnato un’idea di giustizia delle relazioni umane diversa ri-spetto a quella che governa gli altri rapporti civili, talvolta sle-gata dagli imperativi del mercato e, comunque, sempre alla ri-cerca di un soddisfacente connubio con le impellenti esigenze d’ef-ficienza. Questa storia ha consentito ai giuslavoristi di identificarecon una buona dose di nettezza i confini della propria materia e lefinalita da essa perseguite, nella consapevolezza che la configura-zione di un paradigma scientifico della disciplina risulta d’ausilionell’ambito dell’intera operazione di creazione del diritto: non solonel momento in cui viene posta una norma giuridica, al fine di re-golare un dato conflitto di interessi, ma anche nella quotidianaattivita di interpretazione della stessa.

Le tendenze regolative che hanno messo in crisi accompa-gnando detto paradigma alla sua trasformazione (si pensi alle po-tenzialita destrutturanti insite nell’arbitrato di equita) sono ca-paci di obliterare la funzione di redistribuzione sociale assolta daldiritto del lavoro, agendo sull’assetto eteronomo (e reputato con-forme a giustizia) del rapporto, anche sotto altri profili.

Si puo cogliere la portata ‘‘rivoluzionaria’’ delle ultime tor-nate legislative se si riflette sulla circostanza che l’intervento dellegislatore si muove solo sulla disciplina del rapporto, senza inter-ferire sulla fattispecie di riferimento del contratto di lavoro. Que-st’ultimo continua a fondare (11) — ora e com’e da sempre — lasupremazia giuridica di un soggetto su una persona fisica, forma-lizzazione legale operata dall’ordinamento che non ha eguali (nelsettore dei rapporti interprivati), che non puo avere alternativenell’attuale assetto economico e su cui, ovviamente, non si di-scute. Se, pero, l’intera disciplina protettiva non e ad applicazione

(11) Cfr. M.G. GAROFALO, Liberta, lavoro e imprese, in Scritti in onore di VincenzoStarace, 3, Jovene, Napoli, 2008, 1871.

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necessaria e la giustizia del contratto e disponibile dalle parti (in-dividuali e collettive: art. 8 legge n. 148/2011), vengono a man-care i pilastri del paradigma, le coordinate per individuare nel di-ritto del lavoro uno strumento per ridistribuire utilita, risorse epoteri nella societa.

3. Le prospettive future e i vincoli costituzionali.

A questo punto solo l’evoluzione della legislazione e il contri-buto della riflessione dottrinale potranno dirci se la ‘‘rivoluzione’’trovera il suo esito nella sostituzione al tradizionale di un nuovoparadigma. Se la « marcia indietro » del diritto del lavoro (12) ciportera ad uno stadio in cui non vi sara piu l’esigenza di interro-garsi sul diritto del lavoro quale normativa a tutela del ‘con-traente debole’; reso monco del suo tratto caratterizzante (si ri-pete: sul piano della disciplina, non della fattispecie), la regola-zione del lavoro subordinato si limiterebbe ad assistere e proteg-gere il contraente forte, depositario nel contratto di un poteresempre meno limitato quanto alle sue manifestazioni.

Non e detto, tuttavia, che il corso della transizione sia gia se-gnato.

Certo, le variabili di contesto, anche internazionali (ma forsepiu quelle nazionali), militano nella direzione della rivoluzione ri-chiamata: si assiste, infatti, ad un ripiegamento del ruolo del si-stema giuridico nei confronti degli altri sotto-sistemi sociali; alfondo della tendenza s’intravede un radicale mutamento dellafunzione del Diritto, che da forma formans dell’economia si ridur-rebbe a strumento di registrazione e legittimazione dei cambia-menti che interessano l’economia (13). Basti richiamare in questa

(12) L. ZOPPOLI, Contratto, contrattualizzazione, contrattualismo: la marcia indietro deldiritto del lavoro, in RIDL, 2011, I, spec. 200 s.

(13) Come ha scritto A. SUPIOT, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologicadel Diritto, Mondadori, Milano, 2006, 17, e l’idea del « Diritto oggettivo che oggi sta scom-

parendo, come del resto sta scomparendo l’impiego della maiuscola per distinguerlo dai di-

ritti soggettivi (...) per essere titolare di diritti l’individuo non avrebbe bisogno del Diritto;

al contrario sarebbe proprio dall’unione e dal conflitto tra i diritti individuali che derive-

rebbe, per addizione e sottrazione, l’interezza del Diritto ». La tendenza a « voler dissolvere

il Diritto nelle leggi della scienza » economica — eretta sul postulato posneriano ‘‘se le po-

ste in gioco sono abbastanza elevate, la tortura e ammissibile’’ — identifica nel « calcolo

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angolazione la posizione espressa dalla Corte di Giustizia in meritoall’indeclinabile necessita di bilanciare i diritti fondamentali, fracui la dignita umana, con i diritti economici (14).

Non siamo pero ancora di fronte ad una nuova acquisizionescientifica, forse ad un processo in tendenziale compimento; manella scienza giuridica ci sono dei vincoli di sistema che possonoarginare le rivoluzioni piu radicali. Il riferimento e alla trama co-stituzionale, quel tessuto connettivo di cui deve — inevitabil-mente — nutrirsi anche l’eventuale nuovo paradigma della disci-plina giuslavoristica. Inutile dire che nella Costituzione e agevoletrovare principi che ostruiscono la strada alla trasformazione evo-cata: non si fa fatica a richiamare l’art. 3, cpv. (15) come limite aduna deriva deregolativa che s’indirizzi lungo la via della tutela delcontraente forte nel rapporto di lavoro.

Piu di recente, due importanti disposizioni — saldamente an-corate al dettato costituzionale — sembrano deviare il percorsodel diritto del lavoro dalla deriva evocata. Il riferimento e alnuovo art. 63 d.lgs. n. 276/2003 che disciplina il compenso del col-laboratore a progetto ed alla legge n. 233/2012 (Equo compenso nelsettore giornalistico), emanata in « attuazione dell’articolo 36,primo comma, della Costituzione [e] finalizzata a promuovere l’e-quita retributiva dei giornalisti ». Trattasi di conferme legislativedella tendenza ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 36Cost. al lavoro non subordinato, principio per nulla ricavabile dalpunto di vista interpretativo (avversato com’era dalla conformeposizione di dottrina e giurisprudenza (16)) e che segnano un pos-

dell’utilita (...) il fondamento e il limite dei diritti individuali. L’utilita di un individuo di

non essere torturato (che fonderebbe il diritto corrispondente) dovrebbe dunque essere

rapportata all’utilita che altri possono trarre dal torturarlo » (ivi, 99).

(14) A completamento di una parabola che porta la dignita umana da fondamento

di diritti a diritto fra i tanti. Cfr. U. CARABELLI, Europa dei mercati e conflitto sociale, Ca-

cucci, Bari, 2009 e le recenti riflessioni di A. SUPIOT, Il pensiero giuridico di Simone Weil,in RGL, 2011, I, 603 ss. e Giustizia sociale e liberalizzazione del commercio internazionale, in

LD, 2011, 501 ss.

(15) Come recentemente riletto da M.G. GAROFALO, Unita e pluralita del lavoro nelsistema costituzionale, in Studi in onore di Edoardo Ghera, Bari, Cacucci, I, 439.

(16) Contra le ‘profetiche’ osservazioni di M.G. GAROFALO, Unita e pluralita del la-voro nel sistema costituzionale, cit., spec. § 6; ID., La legge delega sul mercato del lavoro: primeosservazioni, in Riv. giur. lav., 2003, I, 373.

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sibile nuovo cammino nel percorso orientato all’accrescimentodelle tutele per le persone che lavorano per un interesse altrui.

Da tutto cio una chiosa, che e allo stesso tempo un auspicio.Difficilmente la regolazione giuridica del lavoro umano, conti-

nuando ad essere inquadrata lungo un’appartenenza che non eproprietaria, ma identitaria (coinvolgendo la personalita del con-traente-lavoratore, sottoposto al potere del datore), potra essereproiettata verso logiche esclusivamente economiche che abbando-nino qualsivoglia finalita sociale. E proprio il giudizio di compati-bilita costituzionale che si frappone ad una simile forzatura del‘cerchio’: includere il diritto del lavoro nella ‘squadrata’ prospet-tiva delle relazioni proprietarie e patrimoniali di mercato.

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CONCLUSIONICONCLUSIONI

GIUSEPPE SANTORO PASSARELLI

Le relazioni dei nostri maestri sono state cosı ampie ed esau-rienti che mi dispensano dall’onere di formulare delle conclusioni.Mi limitero percio a qualche osservazione telegrafica.

Vorrei sottolineare tre argomenti affrontati in queste giornatedi studio.

In primo luogo l’attuale contesto dell’attivita del sindacato.In secondo luogo le insoddisfacenti novita introdotte dalla leggeFornero alla disciplina del licenziamento e infine qualche osserva-zione sull’impatto del diritto europeo sul diritto del lavoro nazio-nale.

Come e noto il diritto sindacale italiano e stato contrasse-gnato per un quarantennio da due principi: quello dell’autonomiaprivata collettiva e da un principio di effettivita che si ricava si-curamente dalla teoria dell’ordinamento intersindacale. Questidue principi hanno regolato l’attivita sindacale assecondandol’autonomia dei sindacati che hanno operato in un regime di unitad’azione sindacale e di pari rappresentativita sindacale. Allo statoattuale, come e noto, e entrata in crisi l’unita di azione sindacalee anche la pari rappresentativita sindacale. E la crisi dell’unita diazione ha messo in discussione anche la tenuta del contratto col-lettivo in particolare per quanto riguarda la sua efficacia sogget-tiva. Di recente solo un accordo interconfederale nel 2011 e statosottoscritto dalle tre confederazioni. Nel 2009 un accordo inter-confederale e stato sottoscritto solo da due confederazioni e nondalla CGIL. Nel settore metalmeccanico si e registrata addiritturala compresenza di due contratti collettivi.

L’articolo 19 dello statuto dei lavoratori e, si puo dire, la car-tina al tornasole che fa vedere come questa tensione tra le confe-derazioni sia piuttosto marcata anche se la norma statutaria nel

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’96 fu considerata costituzionalmente legittima dalla Corte costi-tuzionale e in quel momento fu accolta adesivamente dalla dot-trina maggioritaria.

E il 3 luglio e gia annunciata una nuova sentenza sulla costi-tuzionalita dell’articolo 19. Non si sa se di rigetto o di accogli-mento. Ma perche la nuova sentenza potrebbe essere di segno di-verso dalla precedente? Perche e cambiato profondamente il con-testo. Allora l’unita d’azione sindacale reggeva come criterio ordi-natore delle relazioni sindacali, e l’obbiettivo era quello disostenere l’unita di azione non riconoscendo spazio ai sindacatiautonomi contro lo stesso intento dei promotori del referendum.

Oggi la CGIL propone una censura di legittimita al testo del-l’art. 19, perche, pur essendo sindacato sicuramente piu rappre-sentativo, non ha stipulato o si rifiuta di stipulare il contratto col-lettivo e di conseguenza non puo costituire rappresentanze sinda-cali in azienda.

Nel nuovo contesto risulta evidente la inadeguatezza dellaformula dell’art. 19.

E nell’accordo interconfederale del 2011 siglato dalle tre con-federazioni la clausola 1 introduce, secondo una parte della dot-trina, non solo la regola della misurazione della rappresentativitama implicitamente l’obbligo a negoziare nei confronti delle confe-derazioni sindacali che abbiano raggiunto una certa soglia di rap-presentativita.

Questa clausola, al di la dell’introduzione o meno dell’obbligoa negoziare, mette in evidenza come il contesto sindacale sia pro-fondamente mutato rispetto all’impostazione di Federico Mancinisulla quale noi ci siamo formati.

Come e noto nel suo saggio Mancini affermava che non era ne-cessario attuare l’articolo 39 cost. Oggi a mio avviso, in un conte-sto di divisione sindacale, si puo riproporre la questione dell’at-tuazione dell’articolo 39 perche quella norma, oltre a riconoscerel’efficacia generale del contratto collettivo, ha la funzione di com-porre i contrasti fra sindacati adottando la regola della maggio-ranza proporzionale. Non solo ma l’attuazione dell’art. 39 consen-tirebbe anche di risolvere i problemi che pone il tanto discussoart. 8 della legge 148 del 2011.

D’altra parte al di la dei problemi di costituzionalita che su-scita l’art. 8, l’importanza di questa norma e costituita dal tenta-tivo di riconoscere al contratto aziendale il potere di derogare in

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peius a norme inderogabili di legge su determinate materie conl’obbiettivo, a mio avviso non dichiarato ma implicito, di indivi-duare nel livello aziendale il vero e forse unico livello contrat-tuale.

Perche attraverso la stipula di questo tipo di contratto difatto si bypassa il livello nazionale, diversamente da quanto pre-vede l’accordo interconfederale del 2011. E vero cha anche l’ac-cordo interconfederale consente la deroga del contratto nazionaleda parte di quello aziendale, ma nei limiti e secondo le procedurepreviste dal contratto nazionale. Questo accordo interconfederalepercio riconosce al contratto nazionale il ruolo di governo dellacontrattazione aziendale. E questo spiega la redazione della clau-sola del settembre 2011 con la quale i sottoscrittori di quell’ac-cordo interconfederale si impegnano a seguire le procedure previ-ste dallo stesso accordo interconfederale. Cio non mi esime nep-pure dal riconoscere che nella realta gli accordi aziendali ex art. 8sono stipulati silenziosamente perche contengono deroghe peggio-rative a norme inderogabili di legge.

D’altra parte e noto che i sindacati in maggioranza e anche leforze politiche sono contrarie all’attuazione per via legislativa del-l’art. 39 cost. ed e altrettanto noto tuttavia che sta per essere si-glato un accordo interconfederale diretto a misurare la rappresen-tativita di ciascun sindacato con l’intento di perseguire gli stessiobbiettivi dell’art. 39 e cioe vincolare il sindacato dissenziente cheha sottoscritto l’accordo interconfederale alla volonta dei sinda-cati che superano il 50% +1.

Senza essere apologetici bisogna ricordare la funzione delloStatuto dei lavoratori che ha contribuito in modo determinante arendere effettiva la dignita del lavoratore nel posto di lavoro e haconsentito al diritto del lavoro di essere a ragione denominato undiritto di attuazione costituzionale. Certo bisogna anche ricono-scere che lo Statuto e stato pensato per l’impresa medio grande ditipo fordista. Oggi lo sviluppo economico ha determinato una di-versa strutturazione dell’impresa che decentra, (attraverso formedi esternalizzazione, trasferimento di ramo di azienda, appaltooutsourcing) delocalizza ecc.

E bisogna anche riconoscere che lo Statuto ha contribuito in-direttamente a creare un doppio mercato del lavoro costituito, daun parte, dai soggetti tutelati e dall’altra parte, dai soggetti prividi qualsiasi tutela. Come pure nell’ambito del lavoro autonomo

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bisogna distinguere il falso lavoro autonomo dal lavoro autonomodebole ma genuino.

E vero che la legge Fornero ha tentato di razionalizzare ilmercato del lavoro regolamentando nuovamente le tipologie con-trattuali cosiddette in entrata e ha disciplinato nuovamente e in-teramente la materia dei licenziamenti.

Ma in realta gli obbiettivi non sono stati realizzati. Infatti ildisegno iniziale aveva un duplice obbiettivo. Il primo: di irrigidirela disciplina dei contratti in entrata, in particolare la disciplinadel contratto di collaborazione a progetto, al fine di evitare l’usofraudolento di questo schema contrattuale per nascondere inrealta un contratto di lavoro a tempo determinato, incanalandola cosiddetta flessibilita cattiva verso la flessibilita ‘‘buona’’ e cioeverso il contratto a tempo determinato, ammesso senza causalenella stipula del primo contratto. Il secondo obbiettivo era quellodi flessibilizzare la disciplina del licenziamento prevedendo ac-canto alla sanzione della reintegrazione che doveva restare unasanzione residuale, la sanzione del risarcimento che doveva essereapplicata nella gran parte delle ipotesi di licenziamento ingiustifi-cato sia soggettivo che oggettivo ad eccezione del licenziamentodiscriminatorio per il quale rimane la sanzione della reintegra-zione.

Le mediazioni che sono seguite a questo disegno, vistose nellastesura del testo normativo, hanno alterato completamente il di-segno iniziale con formule legislative ambigue e di non facile ap-plicazione con la conseguenza che la giurisprudenza che si sta for-mando su questa normativa, ha continuato a considerare la rein-tegrazione la sanzione ordinaria contro il disegno iniziale del legi-slatore. A tutto scapito della certezza del diritto e della scarsaattrattivita per gli investimenti stranieri.

Un’ultima osservazione e ho finito, restando nei dieci minuti,riguarda sl’incidenza della disciplina europea sulla normativa ita-liana. Non c’e dubbio che rispetto alla frigidita dei padri fonda-tori dell’Unione Europea in materia di diritti sociali, sottolineatada Mancini, c’e stato un passo in avanti, nel senso che i diritti dellavoro sono stati progressivamente equiparati alle liberta econo-miche soprattutto con l’incorporazione della carta di Nizza neltrattato di Lisbona.

Pero a mio avviso questa equiparazione e piu consacrata neitesti normativi di quanto lo sia nella realta effettuale. Non biso-

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gna infatti dimenticare che i diritti del lavoro nella nostra Costi-tuzione non hanno una funzione ancillare rispetto alle liberta eco-nomiche come invece e stato all’origine nella normativa comuni-taria.

Questo e un punto da tenere sempre presente anche se obbiet-tivamente oramai e forte l’intreccio tra disciplina europea e disci-plina nazionale rispetto a certi istituti: basti pensare alla disci-plina del trasferimento di azienda, del contratto a termine, dellediscriminazioni ecc. Detto questo, sono convinto che l’Europanon abbia molti doni in serbo per la tutela dei diritti del lavoro:Perche? Perche uno dei principi fondanti dell’Unione Europeaera estraneo alla nostra cultura e prassi in materia di lavoro: miriferisco al principio della tutela della concorrenza. L’applicazioneautomatica di questo principio in materia di lavoro sta creandoseri guasti, a mio avviso, proprio nell’area del lavoro autonomodebole e all’area delle professioni liberali contribuendo a far scom-parire la figura del piccolo professionista a vantaggio del grandeprofessionista ma non del mercato.

E d’altra parte nel lavoro subordinato storicamente l’associa-zione sindacale e il contratto collettivo sono strumenti diretti adeliminare l a concorrenza fra i lavoratori. Pertanto, senza per que-sto essere pessimista a tutti i costi, non credo che possiamo faremolto affidamento sull’Europa per il rafforzamento dei diritti dellavoro.

Infine qual e la prospettiva che ci attende? Credo che realisti-camente dovremo accettare, resistendo, e, sottolineo resistendo, lasmobilitazione di talune garanzie che riguardano la tutela dei di-ritti in cambio di una forte tutela dell’occupazione con l’obbiet-tivo di conservare il cd. ‘‘Minimo Costituzionale’’ che riguarda es-senzialmente la tutela del reddito nei periodi di non lavoro. In-fatti e fin troppo evidente che tale minimo non e acquisito unavolta per tutte, soprattutto di fronte ad una crisi che non e af-fatto ciclica. Si tratta, come e ormai riconosciuto da tutti, di unacrisi eccezionale senza precedenti che investe l’intero sistema ca-pitalistico, in particolare in Europa i paesi del Mediterraneo: la di-soccupazione in Italia e all’11%, la disoccupazione giovanile e al30%.

E nel tentativo di contenere gli effetti devastanti di questacrisi sul reddito da lavoro e certamente opportuno un patto traproduttori, ma bisogna prendere atto che diventa indispensabile

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una redistribuzione del reddito che comporta l’uso della leva fi-scale. Ma le forze politiche oggi in campo sono in grado di effet-tuare tale redistribuzione del reddito?

E infine l’ultima osservazione, lo dicono tutti a parole, le legginon creano posti di lavoro, soltanto l’economia in crescita crea po-sti di lavoro. E quindi bisogna riconoscere che l’aumento dellaflessibilita della normativa da sola non produce nuova occupa-zione se non c’e la crescita. Grazie.

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Parte Seconda

NOTIZIARIO A.I.D.La.S.S.

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NOTIZIARIO NAZIONALENOTIZIARIO NAZIONALE

ASSEGNAZIONE PREMIO « LODOVICO BARASSI »PER LA MIGLIORE TESI DI LAUREA

IN DIRITTO DEL LAVORO(2012)

VERBALE DELLA COMMISSIONE

Il giorno 10 maggio 2013 alle ore 13,00 si e riunita la Commis-sione nominata dal Consiglio direttivo dell’Associazione italianadi diritto del lavoro e della sicurezza sociale per l’attribuzione delPremio Barassi, composta dai professori Mattia Persiani, MarinaBrollo e Antonio Pileggi.

I Commissari danno atto che la Segreteria dell’Associazioneha fatto pervenire a ciascuno di loro le tesi di Fabrizio Ferraro(Sapienza Universita di Roma), Marco Cuttone (Universita di Ca-tania), Maria Rosaria Foreste (Universita di Napoli Federico II),Fatima Zagara Khouribech (Universita di Siena), Viviana LaGhezza (Universita di Bari), Giovanna Pistore (Universita di Pa-dova), Angela Rampazzo (Universita di Padova), Federica Ros-selli (Universita di Modena e Reggio Emilia).

Ciascuno dei Commissari da atto, altresı, di aver attenta-mente esaminato il contenuto di ognuna delle tesi che sono stateloro consegnate.

Dopo che ciascuno dei Commissari ha esposto le sue valuta-zioni comparative, si procede alla valutazione complessiva.

All’esito della discussione, la Commissione, unanime, ritienedi proporre che il Premio Barassi sia attribuito alla dottoressa AN-

GELA RAMPAZZO per la tesi ‘‘Gli accordi collettivi separati tra nodiirrisolti e problematiche nuove’’ con la seguente motivazione: ‘‘Latesi costituisce una interessante rassegna critica dell’ampia proble-matica suscitata dal recente fenomeno della contrattazione collettiva

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separata. Fenomeno analizzato tenendo conto di tutte le molteplici ri-cadute sui nodi critici del diritto sindacale italiano, evidenziando leimplicazioni sistematiche sulle dinamiche delle relazioni industrialie sul rapporto tra autonomia collettiva ed autonomia individuale. Intale direzione si accenna anche a problematiche nuove con prese diposizione personali. Nel complesso, anche se mancano precisi ap-porti originali, l’accurata ricostruzione critica del fenomeno presentauna forte impronta personale e capacita persuasiva’’.

La Commissione ritiene, altresı, che una particolare menzionemeriti la tesi del dott. Marco Cuttone ‘‘Trasferimento di azienda eappalti nell’ordinamento multilivello: tra problematiche aperte epossibili evoluzioni’’, in quanto, soprattutto dalla considerazionecritica di casi giudiziari in essa contenuta, emergono spunti chepotrebbero essere connotati di originalita.

Roma, Udine 10 maggio 2013

La CommissioneMattia Persiani (presidente)Marina BrolloAntonio Pıleggi

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ASSEGNAZIONE PREMIO« FRANCESCO SANTORO PASSARELLI »

PER LA MIGLIORE TESI DI DOTTORATOIN DIRITTO DEL LAVORO

(2012)

VERBALE DELLA COMMISSIONE

Il giorno 16 maggio presso l’hotel Royal Carlton, via Monte-bello n. 8, Bologna, alle ore 11,00 si e riunita la Commissione peril conferimento del premio Santoro Passarelli.

La Commissione e cosı composta:— prof. Tiziano Treu— prof. Francesco Santoni— prof.ssa Luisa GalantinoAssume le funzioni di presidente il prof. Tiziano Treu e di se-

gretario la prof.ssa Luisa Galantino.Il presidente ricorda che si sono presentati i seguenti candi-

dati:1) AMATO CARMEN con la tesi: La corrispettivita nelle vicende

sospensive della prestazione di lavoro;2) BAVASSO ELENA con la tesi: La rappresentativita sindacale.

Uno studio comparato dei sistemi italiano e francese di relazioniindustriali nel settore privato;

3) BRACOLONE MARCO con la tesi: Tipologie contrattuali e fles-sibilita del lavoro nelle pubbliche amministrazioni;

4) DE MARTINO CLAUDIO con la tesi: La dimensione dell’im-presa nel diritto del lavoro;

5) DI CASOLA ALESSANDRO con la tesi: Formazione, professio-nalita, workfare nel rapporto di lavoro;

6) DONA SILVIA con la tesi: Apprendistato di alta formazione;ambiti applicativi alla luce del testo unico;

7) FENOGLIO ANNA con la tesi: Legge, autonomia collettiva eautonomia individuale nella disciplina dell’orario di lavoro;

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8) TEMPESTA GIAMPAOLO FULVIO con la tesi: La produttivitadel lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

Il presidente fa presente che tutti i commissari hanno potutogia da tempo prendere visione delle tesi e pertanto sono in gradodi esprimere la propria valutazione.

Dopo ampia discussione, all’unanimita, i commissari espri-mono la seguente opinione:

— pur apprezzando gli scritti presentati, tuttavia nessuno diessi appare in grado di ottenere una valutazione positiva ai finidella attribuzione del premio Santoro Passarelli, destinato a tesidi dottorato.

La seduta e tolta alle ore 11.40

Il Presidente Il segretarioProf. Tiziano Treu Prof. ssa Luisa Galantino

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ASSEGNAZIONE PREMIO« MASSIMO D’ANTONA »

PER LA MIGLIORE OPERA PRIMAIN DIRITTO DEL LAVORO

(2011-12)

VERBALE DELLA COMMISSIONE

Oggi, 17 maggio 2013, alle ore 9, si e riunita a Bologna laCommissione — composta dai professori Franco Carinci, FiorellaLunardon e Luca Nogler — cui il Direttivo dell’Associazione Ita-liana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale ha affidato ilcompito di assegnare il premio ‘‘Massimo D’Antona’’ 2011-2012per la migliore opera prima in materia di diritto del lavoro.

La Commissione, visto il bando

che prevede la possibile candidatura al premio delle opere inmateria di Diritto del Lavoro, Diritto Sindacale, Diritto dellaPrevidenza Sociale, Diritto Comunitario e Comparato del Lavoroche siano state pubblicate in veste definitiva fra il 1o gennaio2011 e il 31 dicembre 2012 quale primo lavoro monografico dei ri-spettivi autori,

esaminate le opere presentate, nei termini stabiliti dal bando, da

CERBONE Mario, Dirigenza pubblica e autonomia territoriale,Giappichelli 2011

CORTI Matteo, La partecipazione dei lavoratori. La cornice eu-ropea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero 2012

DE MOZZI Barbara, La rappresentanza sindacale in azienda:modello legale e contrattuale, Cedam 2012

DESSI Ombretta, L’indisponibilita dei diritti dei lavoratori,Giappichelli 2011

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FERRARA Maria Dolores, Il lavoro tramite agenzia interinalenell’esperienza europea, Amon 2012

FOGLIA Laura, La posizione professionale del lavoratore nel si-stema di protezione sociale, Giappichelli 2012

GAMBACCIANI Marco, L’evoluzione della previdenza sociale traprevidenza complementare e trattamento di fine rapporto, Jovene,2011

IMBERTI Lucio, Il socio lavoratore di cooperativa. Disciplinagiuridica ed evidenze empiriche, Giuffre 2012

LEPORE Alberto, Il trasferimento d’impresa tra legge e case law.Italia e Gran Bretagna a confronto, Jovene 2012

LUDOVICO Giuseppe, Tutela previdenziale per gli infortuni sullavoro e le malattie professionali e responsabilita civile del datore dilavoro, Giuffre 2012

MARTELLONI Federico, Lavoro coordinato e subordinazione.L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bonomia UniversityPress 2012

MENEGATTI Emanuele, I limiti alla concorrenza del lavoratoresubordinato, Cedam 2012

NICOSIA Gabriella, Dirigenze responsabili e responsabilita diri-genziali pubbliche, Giappichelli 2011

PANTANO Fabio, Il rendimento e la valutazione del lavoratore su-bordinato nell’impresa, Cedam 2012

PERUZZI Marco, L’autonomia nel dialogo sociale europeo, Il Mu-lino 2011

QUARANTA Mario, Concertazione sociale e regole del lavoro, EdizScientif 2012

RAZZOLINI Orsola, Piccolo imprenditore e lavoro prevalentementepersonale, Giappichelli 2012

SPINELLI Carla, Il datore di lavoro pubblico. Autonomia organiz-zativa e poteri del dirigente, Cacucci 2012

osserva preliminarmente

che tutte le opere candidate al premio si segnalano per l’impe-gno e la qualita della scrittura, manifestando il valore della nuovagenerazione di giuslavoristi cui sara affidato lo sviluppo deglistudi sulla nostra materia nel prossimo futuro;

Si segnalano in particolare, per la ricchezza del contributo allacostruzione dottrinale della materia quelle di:

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Barbara DE MOZZI, La rappresentanza sindacale in azienda:modello legale e contrattuale

Giuseppe LUDOVICO, Tutela previdenziale per gli infortuni sullavoro e le malattie professionali e responsabilita civile del datore dilavoro

Emanuele MENEGATTI, I limiti alla concorrenza del lavoratoresubordinato

Gabriella NICOSIA, Dirigenze responsabili e responsabilita diri-genziali pubbliche

Mario QUARANTA, Concertazione sociale e regole del lavoroOrsola RAZZOLINI, Piccolo imprenditore e lavoro prevalentemente

personaleFra queste sei opere la Commissione, con il voto unanime dei

suoi membri, individua per l’assegnazione del premio la monogra-fia di

Gabriella NICOSIA, Dirigenze responsabili e responsabilita diri-genziali pubbliche

per l’originalita del contributo e la maturita scientifica dimo-strata.

Franco CarinciFiorella LunardonLuca Nogler

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Parte Terza

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

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SEMINARIO INTERNAZIONALE DI DIRITTOSEMINARIO INTERNAZIONALE DI DIRITTOCOMPARATO DEL LAVORO - PONTIGNANO XXXCOMPARATO DEL LAVORO - PONTIGNANO XXX

‘‘‘‘THE INDIVIDUAL DISMISSAL’’THE INDIVIDUAL DISMISSAL’’Modena - Fondazione Marco Biagi, 16-19 luglio 2013

Sintesi dei lavori a cura di MARCO BIASI (*)ed ELENA GRAMANO (**)

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La cornice europea. — 3. Le relazioni nazionali. — 3.1.

Belgio. — 3.2. Regno Unito. — 3.3. Olanda. — 3.4. Austria. — 3.5. Francia. — 3.6.

Polonia. — 3.7. Italia. — 3.8. Germania. — 3.9. Spagna. — 4. Le relazioni dei gruppi

di lavoro. — 4.1. Ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali.

— 4.2. I motivi del licenziamento individuale. — 4.3. Le procedure. — 4.4. Conse-

guenze del licenziamento. — 5. Conclusioni.

1. Introduzione.

La trentesima edizione del Seminario Internazionale di Di-ritto del Lavoro Comparato si e svolta, come nell’anno prece-dente, non gia presso il suggestivo luogo che ha dato il nome all’e-vento (Pontignano, appunto), bensı presso la — altrettanto acco-gliente — Fondazione Marco Biagi di Modena, dal 16 al 19 luglio2013: gli incontri, organizzati congiuntamente dalla FondazioneBiagi e dall’Universita di Modena, hanno ottenuto il Patrociniodell’AIDLASS (Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e dellaSicurezza Sociale) e del Comune di Modena.

A confrontarsi sul tema oggetto di discussione, ‘‘Il licenzia-mento individuale’’, le delegazioni nazionali di numerosi Paesi eu-ropei: Austria (Prof. Franz Marhold) Belgio (Prof. Filip Dorsse-mont), Francia (Proff. Marie-Cecile Escande-Varniol e Nicolas

(*) Dottore di ricerca in Diritto dell’Impresa dell’Universita Bocconi di Milano e as-

segnista di ricerca dell’Universita Ca’ Foscari di Venezia.

(**) Dottoranda di ricerca in Diritto dell’Impresa dell’Universita Bocconi di Milano.

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Moizard), Germania (Proff. Olaf Deinert e Katja Nebe), Italia(Proff. Stefano Bellomo, Massimiliano Delfino, Vania Brino, LucaRatti, Iacopo Senatori e Aurora Vimercati), Olanda (Proff. TeunJaspers e Saskia Klosse), Polonia (Prof. Lukasz Pisarczyk), Re-gno Unito (Prof. Jeff Kenner) e Spagna (Proff. Joaquın Aparicioe Antonio Baylos).

I lavori sono stati introdotti dal Prof. Lorenzo Gaeta, ordina-rio di diritto del lavoro dell’Universita di Siena, il quale ha pre-sentato ai giovani studiosi della materia il seminario di Ponti-gnano, guidando e coordinando i lavori, con cura ed attenzione aldettaglio, per tutte le giornate di studio.

Come nelle precedenti edizioni, i docenti provenienti dai di-versi Paesi hanno esposto una relazione sul tema scelto per l’occa-sione di confronto, concentrandosi sulla propria disciplina nazio-nale ed offrendo anche il loro prezioso contributo ai gruppi di la-voro, formati da dottorandi e dottori di ricerca, impegnati a lorovolta nella realizzazione dei reports presentati nella sessione finaledel seminario, a chiusura dei lavori.

All’incontro scientifico hanno partecipato, infatti, dottorandie dottori di ricerca italiani (Mirko Altimari, Antonello Baldas-sarre, Marco Biasi, Livia Di Stefano, Raffaele Galardi, Nadia Gi-relli, Elena Gramano, Luigi Matrundola, Pasquale Monda, GinaSimoncini, Alessandro Ventura, Ester Villa) e stranieri: dall’Au-stria (Christina Hießl), dal Belgio (Philippe Culliford, CharlotteLambert, Aurelie Mortier, Philippe Reyniers), dalla Francia (Mar-tin Abry-Durand, Mathilde Frapard, Laurent Willocx), dalla Ger-mania (Marten Fleig, Bernd Horstmann, Susanne Parting, Cath-leen Rosendahl), dai Paesi Bassi (Niels Jansen, Pam Hufman,Femke Laagland, Ilse Zaal) e dalla Spagna (Ana Dominguez Mo-rales, Julen Llorens, Gratiela Moraru, Victoria Rodriguez Rico).

2. La cornice europea.

Il Prof. Massimiliano Delfino si e soffermato sulla normativaeuropea in materia di licenziamento individuale.

Innanzitutto, egli ha rilevato come l’interesse per la disciplinaa livello europeo abbia riguardato non solo interventi diretti sultema, venendo piuttosto evocato spesso quest’ultimo nell’ambitodi disposizioni riguardanti altri aspetti del diritto del lavoro: dalla

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tutela antidiscriminatoria (art. 14, par. 1c. Dir. 2006/54/CE), al-l’informazione e consultazione dei lavoratori (art. 7 Dir. 2002/14/CE), sino al trasferimento d’azienda (art. 4 Dir. 2001/23/CE).

Venendo poi all’esame della ‘‘direct regulation’’ in materia, ilProf. Delfino, dopo aver menzionato lo specifico divieto di licen-ziamento delle lavoratrici di cui all’art. 10 della Direttiva 1992/85/CE (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere ilmiglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavo-ratrici gestanti, puerpere, o in periodo di allattamento), si e con-centrato sul ‘‘nucleo’’ (‘‘core’’) della protezione dei confronti del li-cenziamento individuale nello spazio europeo, ovvero sull’art. 30della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (c.d.‘‘Carta di Nizza’’), la quale ha notoriamente acquisito lo stessovalore giuridico dei Trattati, a seguito dell’entrata in vigore delTrattato di Lisbona (1.12.2009).

Se l’art. 30 della Carta di Nizza (‘‘Tutela in caso di licenzia-mento ingiustificato’’) si limita a stabilire che ‘‘ogni lavoratore ha ildiritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conforme-mente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali’’, sitrattava di chiarire il rapporto tra tale disposizione e l’art. 24della Carta Sociale Europea (nella sua versione ‘‘riveduta’’ del1996), che conteneva invece prescrizioni piu dettagliate in mate-ria: per quanto la prima possa avere in qualche modo ‘‘ispirato’’la seconda, ad avviso del Prof. Delfino, pero, non sarebbe statocorretto dedurre che l’art. 30 della Carta di Nizza di fatto conte-nesse al suo interno — ‘‘like a Chinese box’’ — lo scopo e gli effettidell’art. 24 della Carta Sociale Europea (che invece continuerebbead essere sostanzialmente una disposizione di diritto internazio-nale).

Un altro aspetto su cui si e soffermato il Relatore e quello re-lativo alla ‘‘forza legale’’ ed effettivita della disposizione in parola(is it a ‘‘real time’’, or a ‘‘paper tiger’’?, si e chiesto il ProfessoreDelfino): a suo avviso, l’articolo 30 della Carta di Nizza sarebbeda solo in grado di prescrivere che le normative nazionali in mate-ria di licenziamento non possano prescindere dalla sussistenza diragioni soggettive o oggettive alla base dell’atto di recesso, tantoda doversi negare la legittimita di una disciplina che ammetta ge-neralmente una libera recedibilita ad nutum.

Da ultimo, pero, posto che il citato articolo 30 si riferisce adun diritto spettante ad ‘‘ogni lavoratore’’, il Professore ha auspi-

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cato un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia circa icontorni di tale definizione, specie alla luce degli incerti confinidel lavoro subordinato e, soprattutto, in grado di consentire l’ef-fettivo riconoscimento dei diritti sociali (tra cui, appunto, quellodi necessaria giustificazione del licenziamento) con le liberta eco-nomiche fondamentali a livello europeo (in particolare, la libertadi circolazione).

3. Le relazioni nazionali.

3.1. Belgio.

Il Prof. Filip Dorssemont ha illustrato la disciplina del licen-ziamento individuale in Belgio, partendo dalla tradizionale sepa-razione, all’interno di tale sistema, tra operai (blue collar workers)ed impiegati (white collar workers).

Tale distinzione e stata dichiarata incostituzionale dalla CorteCostituzionale belga nel 2011, la quale ha invitato il legislatore aprovvedere quanto prima alla parificazione delle due categorie ri-spetto ai regimi di tutela previsti dall’ordinamento, compresoquello in materia di licenziamento.

Se, per quanto concerne il regime generale di protezione, lanormativa belga distingue tra licenziamento con preavviso (la cuidurata viene stabilita dalla contrattazione collettiva all’internodella cornice delineata dall’art. 37 loi 1978) e licenziamento coneffetto immediato (che puo essere intimato in ipotesi di grave ina-dempimento ex art. 35 loi 1978, previa procedura di contestazionedisciplinare ed audizione del lavoratore a difesa), tradizional-mente ai soli lavoratori manuali era consentito lamentare la ca-renza di giustificazione del licenziamento (art. 63 loi 1978), men-tre agli impiegati era tutt’al piu concesso di appellarsi alla dot-trina dell’abuso del diritto nel contestare un provvedimento rite-nuto iniquo.

Tuttavia, nell’un caso come nell’altro, il rimedio rimaneva ditipo risarcitorio, limitandosi il possibile ricorso alla tutela informa specifica (reintegrazione nel posto di lavoro) alle ipotesi diviolazione della normativa in materia di protezione delle mino-ranze linguistiche.

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Da ultimo, il Prof. Dorssemont ha fatto notare come il Legi-slatore belga, da un lato, non abbia recepito la convenzione del-l’OIL n. 158 del 1982 in materia di protezione nei confronti del li-cenziamento individuale, dall’altro lato, non abbia aderito allaCarta Sociale Europea (previo esercizio di ‘‘opt-out’’ dall’applica-zione della stessa), a conferma di un regime di protezione nazio-nale piuttosto carente nei confronti dei lavoratori oggetto delprovvedimento espulsivo.

3.2. Regno Unito.

Secondo il Prof. Jeff Kenner, la scarsa protezione tradizional-mente riconosciuta nei confronti del licenziamento individuale al-l’interno del sistema britannico discenderebbe da un’origine sto-rica legata al concetto di ‘‘servant’’ (operante a favore di un ‘‘ma-ster’’ e soggetto alla volonta di quest’ultimo), in uso almeno sinoagli anni ’80, a prescindere dalla — formale e sostanziale — sosti-tuzione con il termine ‘‘employee’’.

Ebbene, anche a seguito del passaggio ad una relazione con-trattuale tra lavoratore e datore di lavoro basata sull’uguaglianza(della volonta) delle parti, per lungo tempo, in assenza di unanormativa ‘‘ad hoc’’, le corti di common law hanno riconosciutola sola protezione del lavoratore nei confronti del c.d. ‘‘wrongfuldismissal’’, ovvero del licenziamento o del recesso intimato, tantonel lavoro dipendente (‘‘contract of service’’) quanto nel lavoroautonomo (‘‘contract for service’’) in violazione dei limiti conven-zionali, in particolare legati al mancato rispetto del periodo dipreavviso.

L’idea di una protezione legale avverso il licenziamento ingiu-stificato (per tale motivo, ‘‘unfair’’) per i soli lavoratori dipen-denti (‘‘employees’’ e non ‘‘independent contractors’’) risale all’In-dustrial Relations Act (IRA) del 1971, anche se la fonte della di-sciplina attuale e l’Employment Rights Act (ERA) del 1996.

In particolare, sulla scorta della Section 94 dell’ERA, vi sa-rebbero tre categorie di licenziamento:

a) il recesso per ragioni invalide (‘‘invalid reasons’’): ipso iure‘‘unfair’’, come si verifica nei casi di discriminazione o ritorsione,a fronte di comportamenti leciti del lavoratore risultati sgraditi aldatore di lavoro (‘‘retaliatory dismissal’’);

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b) il recesso per ragioni economiche: basato su motivi affe-renti alla sfera dell’impresa, valido nel rispetto dei requisiti proce-durali e previa corresponsione di apposite indennita (c.d. ‘‘redun-dancy payment’’, in misura viabile sulla base dell’eta, del reddito edell’anzianita aziendale, nell’importo massimo di £ 12.900);

c) il recesso legato alla persona del lavoratore, nella dupliceaccezione di idoneita allo svolgimento delle mansioni (‘‘worker’scapability’’) e di natura disciplinare (‘‘substantial breach of con-tract’’).

I rimedi, esperibili da un lavoratore con anzianita aziendaledi almeno un anno (in precedenza, due anni) nei confronti del li-cenziamento ‘‘unfair’’, ai sensi delle Sections 114 e 115 ERA pre-vedono, su richiesta del lavoratore, una sanzione ripristinatoria(‘‘reinstatement’’ o ‘‘re-engagement’’), solo ove ritenuto ‘‘pratica-bile’’ e ‘‘giusto’’ dal Giudice (‘‘practicable’’ and ‘‘just’’: Sections114, 115 ERA), o, come avviene nella maggioranza dei casi, unasanzione indennitaria (‘‘award of compensation’’), diretta a risar-cire la duplice voce di danno ‘‘basic’’ e ‘‘compensatory’’.

3.3. Olanda.

In Olanda, secondo quanto esposto dai relatori Teun Jasperse Saskia Klosse, il sistema di protezione nei confronti dei licenzia-menti individuali e basato su un doppio controllo preventivo, am-ministrativo e giudiziario.

Ed infatti, secondo l’analitica ricostruzione del Prof. Jasper,per disporre validamente di un licenziamento, il datore di lavoroha l’onere di esperire, alternativamente, una procedura ammini-strativa presso la UWV (Agenzia per il lavoro), volta ad ottenereun decreto di autorizzazione, o il ricorso al giudice, al fine di otte-nere lo scioglimento del vincolo contrattuale.

Le ragioni alla base del recesso nel sistema olandese possonoriguardare: a) motivi disciplinari, che legittimano il recesso imme-diato in caso di esigenze di urgenza (art. 677 CC); b) motivi econo-mici, legati alla sfera dell’impresa; c) motivi oggettivi legati allapersona del lavoratore, qualora l’impossibilita di eseguire adegua-tamente la prestazione lavorativa non coinvolga profili di rile-vanza disciplinare.

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Al fine di ottenere il decreto di autorizzazione da parte dellaUWV, il datore di lavoro deve dimostrare la sussistenza delle ra-gioni dichiarate e, nel caso di licenziamento per ragioni economi-che o legate alla sfera del lavoratore e non disciplinari, anche l’as-senza di alternative al licenziamento.

Vi sono poi casi di divieti specifici di licenziamento (art. 670 e670a CC): a) durante i primi due anni di malattia; b) durante ilperiodo di gravidanza; c) per ragioni legate al ruolo di membrodel consiglio d’azienda o per l’appartenenza ad un sindacato; d)durante il periodo di astensione per genitorialita.

Nel caso in cui la UWV neghi la propria approvazione ri-spetto al licenziamento (ipotesi comunque piuttosto rara), il prov-vedimento e da ritenersi inefficace ed il lavoratore ha diritto dirientrare in servizio, mentre in caso di autorizzazione il lavoratoreha normalmente diritto al solo preavviso.

Nel caso di procedura giudiziaria di scioglimento del vincolocontrattuale, al lavoratore viene riconosciuto, in caso di accogli-mento della richiesta del datore di lavoro, un’indennita (‘‘seve-rance payment’’) calcolata secondo una formula predeterminata,maggiorata eventualmente in via equitativa.

Cio in quanto il ricorso al giudice e ammesso unicamente inpresenza di ragioni di urgenza ed eccezionalita (art. 685 CC), cheil datore di lavoro ha l’onere di dimostrare, come ad esempio av-viene in ipotesi di licenziamento disciplinare ‘‘sommario’’ (art. 677CC), nonostante si ritenga che il datore di lavoro debba conside-rare tutte le circostanze del caso concreto (precedenti, condizionesoggettiva, eventuale ravvedimento ecc.).

Da ultimo, il Prof. Jaspers ha evidenziato come il sistemaolandese sia attualmente oggetto di discussione, con numeroseproposte di riforma al vaglio, lasciando la parola alla Prof.ssa Sa-skia Klosse, che si e occupata del rapporto tra il regime di prote-zione nei confronti del licenziamento individuale e l’emersione esempre maggiore diffusione di forme di lavoro flessibile.

In particolare, la Prof.ssa Klosse ha mostrato come il numerodelle assunzioni con contratto di lavoro subordinato a temo inde-terminato sia radicalmente diminuito nell’ultimo decennio, e dicome le regole in materia di protezione nei confronti del licenzia-mento non si applichino per le forme di lavoro flessibile.

In particolare, la Prof.ssa Klosse si e concentrata sul con-tratto a termine e sul lavoro tramite Agenzia, mostrando come in

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ambo i casi non si via una forte protezione nei confronti della sta-bilita dell’impiego, dipendendo la cessazione del rapporto, nell’uncaso, dallo spirare del termine essenziale, nell’altro caso, in conse-guenza alla fine del contratto commerciale tra Agenzia ed utiliz-zatore.

Analogamente, il lavoratore autonomo non gode di alcunaprotezione per i casi di recesso del committente, ne tantomeno dialcuna apposita indennita, cosı come di copertura previdenziale,salva l’ipotesi in cui si accerti che il contratto di lavoro autonomomascheri la natura sostanzialmente subordinata della prestazioneresa dal prestatore di lavoro, con tutte le conseguenze in terminidi tutela nei confronti del licenziamento ingiustificato.

3.4. Austria.

Anche il Prof. Franz Marhold, incaricato della relazione sul si-stema austriaco, e partito da un confronto tra il livello di prote-zione nei confronti del licenziamento individuale e la flessibilitanell’utilizzo di forme di lavoro ‘‘non standard’’ (contratto a ter-mine, in primis).

Ad avviso del Prof. Marhold, il quadro austriaco, che vanta iltasso di disoccupazione piu basso in Europa (4,2%), sarebbe ca-ratterizzato da un limitato utilizzo di forme di lavoro flessibile, afronte, da un lato, di una relativa protezione rispetto al licenzia-mento individuale, dall’altro lato dal forte richiamo ad esigenze di‘‘social partnership’’ che parrebbero rendere il recesso non conve-niente per il datore di lavoro, tanto da dissuaderlo rispetto a taleopportunita, a prescindere da questioni di legittimita.

Ed infatti, il principio generale e che non vi sia l’obbligo dimotivare il recesso, ne che vi siano particolari requisiti formali,salvo l’obbligo di preavviso o la presenza di eventuali previsionispecifiche nei contratti collettivi.

A tal proposito, l’approccio seguito e basato ad una visionecollettiva del rapporto di lavoro e dell’impresa stessa, legato alruolo del consiglio d’azienda, eleggibile in ogni unita produttivadi almeno 5 lavoratori, che deve essere tempestivamente infor-mato, a pena di inefficacia, dell’intenzione di procedere al licen-ziamento.

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Se nel caso di espressa obiezione da parte del consiglio d’a-zienda, la legittimita del recesso puo essere contestata in giudiziotanto dal lavoratore quanto dall’organo di rappresentanza, in ipo-tesi di approvazione del provvedimento, il lavoratore puo censu-rare il provvedimento solo per ragioni tipiche e particolarmentegravi, come discriminazione o ritorsione, che danno diritto al la-voratore di ottenere la tutela reintegratoria, ma non sul pianodella ‘‘mera’’ carenza di giustificazione: a tal proposito, il Prof.Marhold ha sollevato, nel corso del suo intervento, dubbi sullacompatibilita tra tale regola e quanto previsto dall’art. 30 dellaCarta Europea dei Diritti Fondamentali.

Infatti, gli aspetti relati alla ‘‘accettabilita sociale’’ della scelta,legata alle condizioni personali (eta, prospettive nel mercato dellavoro, ecc.), anche nel confronto con altri dipendenti, ed alla sus-sistenza di alternative al licenziamento, non possono essere esami-nati dal Giudice nel caso di consenso espresso dal consiglio d’a-zienda rispetto al singolo provvedimento.

Tali regole non valgono, tuttavia, per il licenziamento con ef-fetto immediato (‘‘entlassung’’), che puo avvenire solo per ‘‘ra-gioni serie’’, anche se pure in quest’ipotesi il consiglio d’aziendaha diritto di essere informato.

Da ultimo, il datore di lavoro ha l’onere di ottenere l’approva-zione del Giudice preventivamente all’adozione del licenziamentonei riguardi di alcune categorie: membri del consiglio d’azienda;lavoratrici in stato di gravidanza; lavoratori che usufruiscono dicongedo parentale; lavoratori disabili.

3.5. Francia.

Come messo in luce dalla Prof.ssa Marie-Cecile Escande-Var-niol, il principio nel sistema francese e, a partire dalla l. 13.7.1973,quello della necessaria giustificazione del licenziamento.

In pratica, il datore puo recedere alla presenza di una ‘‘causereelle et serieuse du licenciement’’, il che implica una ragione: a)sussistente, seria ed obiettiva; b) non ipotetica; c) non irrilevante.

La ragione alla base del licenziamento puo essere legata adaspetti economici/oggettivi, ovvero legati alla persona del lavora-tore.

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Avuto riguardo ai primi, il codice del lavoro francese, all’art.l. 1233-3, stabilisce che si tratti di ragioni: a) non concernenti lapersona del lavoratore; b) risultanti da una soppressione o trasfor-mazione dell’attivita; c) derivanti da esigenze economiche, tecno-logiche o di incremento di produttivita.

Al di fuori di queste circostanze, si tratta di licenziamenti ine-renti alla persona del lavoratore, che possono derivare da compor-tamenti disciplinarmente rilevanti o dall’impossibilita del lavora-tore di eseguire correttamente la propria prestazione.

Si distingue, allora, tra ragioni ‘‘serie’’ (incompetenza del la-voratore, impossibilita sopravvenuta, ecc.), che consentono di re-cedere con preavviso, e ragioni particolarmente gravi, che dannotitolo per il recesso immediato.

Il licenziamento deve ritenersi invece ingiustificato ove sitratti di comportamenti disciplinari non sufficientemente graviper legittimare il recesso datoriale, di questioni personali o legatealla fiducia tra il lavoratore ed il datore di lavoro o, ancora, con-nesse alla vita privata del lavoratore: in tal caso, al lavoratorespetta, oltre al preavviso (quantificato per legge in base all’anzia-nita aziendale), un’indennita per ingiustificatezza del recessoquantificata di regola in 6 mensilita.

Diversamente, in ipotesi di licenziamento per ragioni discrimi-natorie (legate all’appartenenza sindacale, al sesso, alla razza,ecc.), per maternita, aspetto fisico, eta, nonche dei rappresentantisindacali (assenza di previa autorizzazione del sindacato), il licen-ziamento e nullo e ne consegue la reintegrazione del lavoratore inservizio.

Per ogni tipo di licenziamento, e prevista una procedura pre-ventiva, con la comunicazione dell’intenzione datoriale di proce-dere al recesso e l’audizione del lavoratore a propria difesa (conl’eventuale ausilio di un collega o di un rappresentante sindacale),cui segue l’invio della lettera di licenziamento, che deve avvenire— per iscritto, a pena di nullita — a distanza di almeno duegiorni dall’audizione del prestatore di lavoro.

Il quadro descritto ha subito tuttavia decisive modifiche negliultimi anni, sulle quali si e concentrata la relazione del Prof. Nico-las Moizard.

Le riforme, aventi lo scopo di difendere l’occupazione in unmomento di crisi economica e di evitare l’insorgere del conten-zioso, hanno rafforzato il ruolo della contrattazione collettiva di

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preservare l’impiego e di promuovere la mobilita interna all’im-presa (l. 14.6.2013), attraverso accordi aziendali contenenti dero-ghe (normalmente, in materia retributiva e di orario di lavoro) incambio dell’impegno del datore di lavoro a non disporre licenzia-menti per motivi economici.

Il rifiuto del lavoratore di aderire a tale accordo consente aldatore di lavoro di disporre validamente un recesso — individuale— per ragioni oggettive, il che, secondo il Prof. Moizard, porrebbedubbi di coerenza con l’art. 8, par. 1 Conv. OIL 158/1982, conl’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e conl’art. 24, par. 2 della Carta Sociale Europea, ovvero con il princi-pio di necessaria giustificazione del licenziamento.

Del pari, la qualificazione di tale recesso come individuale, aprescindere dal numero di lavoratori coinvolti, creerebbe un contra-sto con le disposizioni della Direttiva 98/59/CE in materia di licen-ziamenti collettivi, applicabile in tutti i casi di esuberi determinatida ragioni estranee alle persone dei lavoratori e senza il loro con-senso (C.d.G. 12.10.2004, Commissione c. Portogallo, C-55/02).

3.6. Polonia.

Sulla base dell’approfondita ricostruzione del Prof. LukaszPisarczyk, la disciplina del licenziamento individuale in Polonia,formalizzata nel Codice del Lavoro del 26 giugno 1974, si collo-cava in una tradizione europea continentale protettiva nei con-fronti del lavoratore, pur sottoposta a profonde modifiche (di cuil’ultima ad opera della l. 2.2.1996) nel tempo in una prospettivadi progressiva flessibilizzazione.

A cio si aggiunga l’utilizzo sempre piu frequente del contrattoa termine, la cui valida stipulazione non e sottoposta a condizioniparticolarmente restrittive e rispetto al quale, ha notato il Prof.Pisarczyk, non si pongono problematiche complesse relative allacessazione, che avviene normalmente alla regolare scadenza.

La regola fondamentale era e rimane, pero, quella della neces-saria giustificazione del licenziamento, cui si aggiunge un regimedi protezione assai intensa nei confronti di alcune categorie di la-voratori (in numero, peraltro, piuttosto significativo, oltre qua-ranta: dai rappresentanti sindacali, ai lavoratori prossimi allapensione, oltre alle ipotesi di genitorialita e matrimonio).

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Il recesso, per essere giustificato, deve basarsi su ragioni le-gate o meno alla persona del lavoratore e di una certa gravita, in-dividuate dalla giurisprudenza nell’incapacita di eseguire corret-tamente la prestazione lavorativa, nelle frequenti assenze dal la-voro, come pure in presenza di ‘‘ragioni tecniche, organizzative eproduttive’’ (tipicamente, fallimento dell’imprenditore): in tuttiquesti casi, e previsto comunque il preavviso, determinato dallalegge in misura dipendente dall’anzianita aziendale.

Inoltre, prima di ogni licenziamenti, il datore di lavoro ha l’o-nere di consultare il sindacato presente in azienda, pur non es-sendo vincolante l’opinione espressa da quest’ultimo.

Ancora, e prevista anche la possibilita di recedere con effettoimmediato, in presenza di una grave condotta del lavoratore ov-vero di impossibilita totale di eseguire la prestazione lavorativa.

In caso di licenziamento carente di giustificazione, il rimedio,a scelta del lavoratore, e la reintegrazione in servizio, dispostasolo ove possibile ed utile alle parti (anche se in ogni caso in fa-vore delle categorie protette), ovvero il risarcimento del danno,quantificabile in misura da 2 settimane a 3 mesi di retribuzione.

3.7. Italia.

Il Prof. Stefano Bellomo si e occupato della relazione sulla di-sciplina del licenziamento individuale in Italia, sottolineando sinda subito come il punto di partenza per comprendere le piu re-centi modifiche, ad opera della c.d. ‘‘Riforma Fornero’’, non possache essere l’evoluzione della disciplina nel tempo, che in passato siera sempre mossa in una direzione di progressiva acquisizione didiritti da parte dei lavoratori.

Ed infatti, il primo, un elemento essenziale e stato il supera-mento del principio di libera recedibilita, con il solo obbligo delpreavviso ovvero immediatamente, in ipotesi di giusta causa (se-condo lo schema tracciato dagli artt. 2118 e 2119 del codice ci-vile), con l’inserimento dell’obbligo di necessaria giustificazionedel provvedimento espulsivo, ad opera della l. 604/1966, e l’affer-mazione del valore della stabilita dell’impiego, anche ai fini dell’e-sercizio effettivo dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro.

Il principio di necessaria giustificazione del licenziamento, ad-dentellato all’art. 1 l. 604/1966 (disposizione ‘‘ispirata’’ dalla fon-

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damentale pronuncia della Corte Costituzionale n. 45/1965), im-plicava, ed implica tutt’ora, che, salvi i casi eccezionali di recedi-bilita ‘‘ad nutum’’, il datore di lavoro possa disporre un provvedi-mento espulsivo solo in presenza di una giusta causa ex art. 2119c.c., ovvero di un giustificato motivo soggettivo o oggettivo, cosıcome definiti dall’art. 3 l. 604/1966 e la cui sussistenza deve esseredimostrata dal datore di lavoro (art. 5 l. 604/1966).

Se, tuttavia, in un primo momento, in caso di licenziamentocarente di giustificazione la conseguenza era unicamente di tipoeconomico/indennitario, con il fondamentale art. 18 dell’altret-tanto storica l. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e stato intro-dotto, per le unita produttive con piu di 15 dipendenti impiegati,il rimedio, di natura ripristinatoria e non piu meramente indenni-taria, della reintegrazione in servizio.

Successivamente, attraverso la l. 108/1990, ha preso forma ilsistema basato sulla distinzione binaria tra ‘‘tutela reale’’, ovveroreintegratoria ex tunc prevista dall’art. 18 S.L., e tutela ‘‘obbliga-toria’’, ossia sostanzialmente indennitaria ex art. 8 l. 604/1966, si-stema rimasto praticamente immutato sino al recente interventoriformatore.

Se, infatti, ogni tentativo di incidere radicalmente sui presup-posti del licenziamento e risultato infruttuoso, il piu recente in-tento legislatore ha preso le mosse dalle critiche che piu frequen-temente venivano mosse al regime previgente, ovvero: a) ecces-siva discrezionalita giudiziaria; b) imprevedibilita del costo del li-cenziamento per il datore di lavoro; c) stessa sanzione perlicenziamenti intimati per violazioni formali e sostanziali delprovvedimento; d) eccessiva durata dei giudizi in materia di licen-ziamento.

Il Legislatore, mediante la l. 92/2012, ha, inter alia, innovatoprofondamente il sistema sanzionatorio nei confronti del licenzia-mento ingiustificato rientrante nel campo di applicazione dell’art.18 S.L., prevedendo un regime ‘‘modulato’’ di sanzioni, in basealla gravita del comportamento datoriale e nel cui ambito la tu-tela ripristinatoria non costituisce piu l’unico rimedio.

Eppure gli effetti della Riforma, ad avviso del Prof. Bellomo,rimarrebbero ‘‘incerti e controversi’’: innanzitutto, la scelta dellasanzione da parte del giudice pare rivelarsi concretamente piutto-sto complessa in diversi casi, ed in particolare quando nel giustifi-cato motivo oggettivo si tratti di distinguere le ipotesi di ‘‘manife-

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sta insussistenza’’, che danno (o possono dare) luogo alla sanzionereintegratoria ‘‘debole’’, e di semplice insussistenza del fatto postoalla base del licenziamento, con conseguente applicazione della tu-tela ‘‘indennitaria forte’’.

Il ‘‘nuovo’’ art. 18 S.L., risultante dalla Riforma, ha concluso ilProf. Bellomo ha cosı attirato su di se un gran numero di critiche, adiversi livelli, senza trascurare l’argomento per cui risulta comun-que incerto l’effetto concreto, in termini di promozione dell’occupa-zione, di ogni modifica normativa avente lo scopo di attenuare il li-vello di garanzie nei confronti del licenziamento e di incentivare cosıle imprese all’assunzione, in assenza di un intervento piu esteso sulcosto del lavoro e su altri aspetti del mercato del lavoro in un’otticamaggiormente ‘‘distributiva’’ o, in linea con una ‘‘Theory of Justice’’,ove gli svantaggi risultino compensati in un disegno generale di pro-mozione di occasioni per la generalita.

3.8. Germania.

Come esposto dai Proff.ri Deinert e Nebe, l’originaria disci-plina in materia di licenziamento individuale in Germania risaleal § 626 del BGB, che prevede che, tanto, il licenziamento quantole dimissioni, debbano avvenire con preavviso, ovvero per giustacausa (‘‘wichtiger Grund’’); quest’ultima, in particolare, riguarda‘‘ragioni che, alla luce delle circostanze e tenuto conto degli interessidelle parti, rendono inaccettabile la prosecuzione della prestazione la-vorativa sino al termine del preavviso’’.

Solo dopo la seconda Guerra Mondiale, con l’approvazionedella KschG del 1951, e infatti emersa la distinzione tra ‘‘licenzia-mento straordinario’’ (ossia per giusta causa) e ‘‘licenziamento ordi-nario’’, che riguarda i recessi disposti nei confronti di lavoratoricon almeno 6 mesi di anzianita aziendale da parte di imprese conalmeno 10 dipendenti.

A partire dal 1951, dunque, con riferimento a questi ultimivige la regola fondamentale della giustificazione sociale del licen-ziamento. Il provvedimento puo essere dunque adottato soloquale ‘‘extrema ratio’’, sulla base di tre diversi tipi di ragioni, con-cernenti: a) la persona del lavoratore (tipicamente, il caso di ma-lattia prolungata o reiterata); b) il comportamento (disciplinar-mente rilevante) del lavoratore; c) la sfera del datore di lavoro.

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Ove il recesso risulti carente di giustificazione, il rimedio pre-visto e di tipo ripristinatorio, anche se, su richiesta di una delleparti, il Giudice puo riconoscere il diritto del lavoratore ad un ri-medio esclusivamente monetario (il cui ammontare viene determi-nato ex § 9 KschG), ove si ritenga impossibile o eccessivamentegravoso il reinserimento del lavoratore all’interno dell’unita pro-duttiva.

Inoltre, nell’ambito delle c.d. ‘‘Riforme Hartz’’, risalenti all’i-nizio del nuovo Millennio, e stata altresı introdotta una disposi-zione, § 9a del KschG, che, con lo scopo di promuovere la ricercadi soluzioni transattive, il ricorso a soluzioni transattive, ha pre-visto la possibilita del datore di lavoro di riconoscere un inden-nizzo di ammontare predeterminato, in cambio della rinuncia dellavoratore ad agire in giudizio avverso il licenziamento dispostonei suoi confronti.

Eppure, come spiegato dai relatori, un elemento essenziale alfine di comprendere il funzionamento del sistema tedesco di pro-tezione in materia di licenziamento individuale e dato dal ruolodel consiglio d’azienda, che deve essere informato, a pena di nul-lita, prima di ogni licenziamento.

Se, tuttavia, il parere espresso dal consiglio d’azienda sulprovvedimento non riveste normalmente alcun valore vincolanteper il datore di lavoro, nel caso di ‘‘licenziamento ordinario’’, un’e-ventuale parere negativo dell’organo di rappresentanza dei lavo-ratore sortisce l’effetto di consentire al lavoratore di prestare ser-vizio nelle more del giudizio sul licenziamento e, in tal modo, diaccrescere le possibilita di ottenere una pronuncia ripristinatoriae non indennitaria.

3.9. Spagna.

Come evidenziato dal Prof. Baylos, la disciplina spagnola in ma-teria di licenziamento individuale, a seguito dell’emergere dell’at-tuale crisi economica, ha subito profonde modificazioni ad operadella Ley 35/2010, del Real Decreto Ley 3/2012 (poi, Ley 3/2012).

Cosı come in altri Paesi europei, gli obiettivi dell’interventoriformatore sono stati: a) la certezza del diritto; b) la prevedibilitadei costi dei licenziamenti; c) la riduzione della discrezionalita giu-diziaria.

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Ebbene, nel sistema spagnolo si distingueva tra licenziamentidisciplinari e licenziamenti per ragioni oggettive, proprio con rife-rimento a questi ultimi il Legislatore ha scelto di intervenire spe-cificando ulteriormente cosa dovesse intendersi per ragioni ‘‘eco-nomiche, tecniche, organizzative o produttive’’, con l’obiettivo direndere piu flessibili (e, dunque, meno costosi) i licenziamentirientranti nella sfera dell’impresa e di ridurre la discrezionalitadei Giudici in materia, limitandola ad un controllo sulla ‘‘minimarazionabilidad’’ della decisione.

Per quanto concerne il regime rimediale, se in ipotesi di licen-ziamento discriminatorio la conseguenza e il diritto alla reintegra-zione, alle mensilita perse dal provvedimento alla decisione giudi-ziaria e un risarcimento ulteriore di entita massima di 12 mesi,nel caso di licenziamento ingiustificato (‘‘improcedente’’) il datoredi lavoro puo oggi scegliere tra la reintegrazione del lavoratore ele mensilita perse (‘‘salarios de tramitacion’’) o, in alternativa, unrisarcimento economico pari a 33 giorni di retribuzione per ognianno di servizio prestato.

Oltretutto, in un primo tempo, la l. 45/2002 aveva introdottoil ‘‘Despido Expres’’, che consentiva al datore di lavoro di ricono-scere la carenza di giustificazione del licenziamento e di corrispon-dere al contempo al lavoratore l’indennita prevista dalla legge(ma non i ‘‘salarios de tramitacion’’) e, in seguito, la Riforma del2012, nel sopprimere il Despido, ha creato il ‘‘Contrato de Apoyo alos Emprendedores’’: si tratta di un accordo a tempo indetermi-nato, stipulabile solo dalle imprese con un numero di dipendentisino a 50, che prevede la libera recedibilita delle parti nel corsodel primo anno di rapporto, in assenza di alcuna giustificazione esenza la corresponsione di alcun importo economico.

4. Le relazioni dei gruppi di lavoro.

4.1. Ambito di applicazione della disciplina dei licenziamentiindividuali.

Il primo gruppo, i cui lavori sono stati coordinati dal TutorIacopo Senatori, ha aperto la sessione dedicata alle presentazionidei dottorandi e dottori di ricerca analizzando la questione del-l’ambito di applicazione della disciplina in materia di licenzia-

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menti individuali e il tema delle finalita perseguite dalle diversediscipline nazionali che regolano il licenziamento.

Il gruppo ha, in particolare, evidenziato come nei diversiPaesi considerati la disciplina del recesso dal contratto si differen-zia a seconda che il contratto sia di opera professionale (lavoroautonomo) o sia di lavoro subordinato.

Nei vari ordinamenti mutano le definizioni di contratto di la-voro subordinato, cosı come mutano gli orientamenti delle cortinazionali in materia.

Con la prima relazione si e altresı rilevato che in molti deiPaesi considerati la disciplina dei licenziamenti non trova indi-stinta applicazione a tutte le ipotesi di recesso del datore di la-voro dal contratto di lavoro subordinato, bensı talvolta e necessa-ria la sussistenza di ulteriori condizioni, tra le quali rientrano ledimensioni dell’impresa, l’anzianita del lavoratore e la sua quali-fica.

4.2. I motivi del licenziamento individuale.

Il secondo gruppo, i cui lavori si sono svolti sotto la guidadella Tutor Aurora Vimercati, ha affrontato il tema dei motividel licenziamento individuale.

Esso in primo luogo ha ripercorso le fonti sovranazionali intema di licenziamenti individuali, in particolare gli articoli 4, 5 e6 della convenzione 158/1983 dell’OIL, l’articolo 24 della Carta so-ciale europea e l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali del-l’Unione europea, e le fonti europee, in particolare le direttive2001/23 sul trasferimento d’azienda, 1999/70 sul contratto a ter-mine e 1997/81 sul lavoro a tempo parziale, che contengono dispo-sizioni anche in materia di licenziamento.

Nella propria analisi il gruppo ha rilevato che nella maggiorparte dei Paesi presi in considerazione, e richiesta una giustifica-zione per la legittimita del licenziamento. Fanno eccezione l’Au-stria, in talune ipotesi, e soprattutto il Belgio.

Il gruppo ha poi considerato gli effetti che la crisi ha prodottosui singoli sistemi, evidenziando che, seppur non incidendo diret-tamente sul piano della giustificazione del licenziamento, vi sonostate riforme in Italia, Spagna e Francia che hanno rinnovato ladisciplina dei licenziamenti.

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Il gruppo ha poi svolto una riflessione sulla disciplina dei li-cenziamenti ed in particolare della necessaria giustificazione dellicenziamento individuale, considerando il profilo dell’equilibriotra la liberta di iniziativa economica e l’interesse del datore di la-voro da un lato e l’interesse dal lavoratore alla conservazione delposto. Il gruppo ha considerato che proprio la necessita di giusti-ficare il licenziamento permette di bilanciare gli opposti interessidel datore di lavoro e del lavoratore.

La relazione e proseguita con l’analisi delle ragioni che pos-sono giustificare un licenziamento distinguendo tra le ragioni eco-nomiche, inerenti all’impresa e le ragioni di carattere soggettivo.

Alla luce di tale distinzione, il gruppo ha valutato come gli in-teressi delle parti vengono contemperati.

Con riferimento al motivo soggettivo di licenziamento, i Paesiconsiderati distinguono diverse ragioni di licenziamento di carat-tere soggettivo in funzione della gravita del comportamento dellavoratore.

Le diverse legislazioni nazionali utilizzano espressioni quali‘‘giusta causa’’, ‘‘giustificato motivo’’, ‘‘colpa grave’’, ‘‘perdita dellafiducia nella persona del lavoratore’’, per indicare le ragioni di ca-rattere soggettivo che possono giustificare un licenziamento.

Il gruppo ha rilevato che gli ordinamenti non indicano tassa-tivamente le ipotesi di inadempimento o condotta disciplinar-mente rilevante che costituiscono ragioni soggettive del licenzia-mento, ricorrendo perlopiu a clausole generali. Vi sono, tuttavia,eccezioni quali quella della Spagna, dell’Austria e dei Paesi Bassi.

Con riferimento alle ragioni oggettive del licenziamento, ilgruppo ha rilevato che — salva l’eccezione dei Paesi Bassi dove eprevista una procedura amministrativa di autorizzazione del li-cenziamento volta ad una prima verifica della sussistenza delleragioni oggettive che motivano lo stesso — in generale negli altriPaesi non vi e un controllo preventivo della sussistenza di tali ra-gioni.

Le ragioni oggettive possono afferire anche alla persona dellavoratore e sono state individuate dal gruppo in alcune macrocategorie: l’incapacita o disabilita del lavoratore; l’incompetenzadel lavoratore; gli accadimenti della vita privata del lavoratoreche influenzano la sua capacita lavorativa (ad es. il ritiro della pa-tente per il camionista).

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Il gruppo rileva altresı che mentre alcuni Paesi hanno utiliz-zato delle clausole generali, altri — come Spagna ed Austria —hanno individuato un elenco tassativo delle ragioni oggettive.

Con specifico riferimento, infine, alle ragioni strettamenteeconomiche del licenziamento, intendendosi con esse le ragioniinerenti all’attivita produttiva del datore di lavoro ed al suo fun-zionamento, il gruppo ha evidenziato che si tratta di motivi noninerenti alla persona del lavoratore, che possono essere legati adifficolta economiche del datore di lavoro, a cambiamenti tecnolo-gici, alla cessazione dell’attivita di impresa.

Tutti gli ordinamenti garantiscono la liberta del datore di la-voro di definire la propria organizzazione e strategia produttiva.Talune legislazioni nazionali, tuttavia, specificano i criteri di indi-viduazione dei lavoratori da licenziare in presenza di quelle ra-gioni economiche che consentono il licenziamento.

La relazione si e conclusa con la discussione dei temi del bi-lanciamento degli interessi e dell’importanza del ruolo del giudicenella valutazione di questi diversi interessi.

4.3. Le procedure.

Il terzo gruppo, che si e avvalso della guida del Tutor Massi-miliano Delfino, ha affrontato la tematica delle procedure preven-tive all’intimazione del licenziamento individuale.

Il gruppo ha enucleato diversi profili di rilevanza delle proce-dure, che si articolano e si collocano temporalmente in modi di-versi nei Paesi europei analizzati, anche in funzione del ragionealla base del licenziamento.

In particolare, la terza relazione ha evidenziato le funzioniprincipali che le procedure perseguono, pur nella diversita propriadi ciascun ordinamento.

Il gruppo ha concentrato la propria attenzione sulla funzionedella trasparenza, intesa come conoscibilita delle ragioni alla basedel recesso e come occasione di preliminare controllo delle condi-zioni di legittimita del licenziamento.

A tale profilo si ricollega quello della completezza delle infor-mazioni, funzionale a sua volta a consentire alle parti di esperiretentativi al fine di addivenire a soluzioni transattive alternativeal recesso o comunque destinate ad evitare il contenzioso.

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Il gruppo ha altresı evidenziato la diversa rilevanza che leprocedure assumono con riferimento ai licenziamenti intimati perragioni oggettive e quelli dettati invece da ragioni disciplinari,pur nella diversita dei diversi ordinamenti.

Il gruppo ha concluso valorizzando la funzione delle proce-dure, pur nella loro complementarieta e non alternativita aglistrumenti di controllo del merito del provvedimento di licenzia-mento.

4.4. Conseguenze del licenziamento.

Il quarto ed ultimo gruppo, coordinato dal Tutor Luca Ratti,ha articolato la propria analisi della conseguenze dei licenziamentiindividuali, iniziando con la considerazione delle conseguenze dellicenziamento ‘‘fair’’, intimato cioe nel rispetto dei requisiti diforma e sostanza previsti dalla legge e/o dalla contrattazione col-lettiva.

Il gruppo rileva come tutti le legislazioni nazionali prese inconsiderazione prevedono un periodo di preavviso da rispettarsiin tutti i casi di licenziamento, con l’eccezione del licenziamentointimato per giusta causa. La durata del periodo di preavviso estabilita dalla legge o dai contratti collettivi o, in alcuni Paesi,dallo stesso contratto individuale. Con l’eccezione di Germania ePolonia, dove il lavoratore continua a prestare la propria operalavorativa fino al termine del periodo di preavviso, negli altriPaesi spetta al datore di lavoro la decisione se continuare ad av-valersi della prestazione lavorativa fino al termine del preavviso.

In alcuni Paesi e previsto un risarcimento per il lavoratore inconseguenza del licenziamento anche laddove esso risulti esserestato intimato nel rispetto della legge. Cio accade soprattutto inconseguenza di licenziamento c.d. economico, ma in alcuni Paesianche in altre ipotesi di licenziamento.

Con riferimento, invece, alle conseguenze del licenziamento il-legittimo, il gruppo ha distinto le violazioni di norme procedurali,dalle violazioni dei requisiti sostanziali di legittimita del licenzia-mento.

Avuto riguardo al primo profilo, il gruppo ha verificato che ilrimedio applicabile in caso di violazione delle procedure nellamaggior parte dei Paesi analizzati e quello del risarcimento del

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danno. Fanno eccezione le ipotesi di licenziamento orale, di totalemancanza di giustificazione nella lettera di licenziamento, di di-fetto di autorizzazioni amministrative, laddove necessarie (comenei Paesi Bassi), o di errore nella lingua adottata per la redazionedella lettera di licenziamento (Belgio), che invece sono sanzionatecon il rimedio del ripristino del rapporto di lavoro.

In tutti i casi, si tratta di un risarcimento di misura inferiorerispetto a quello dovuto nei casi di licenziamento ingiustificato odiscriminatorio.

Con riferimento alle violazioni di norme sostanziali, i due ri-medi possibili contro il licenziamento illegittimo sono il re-employ-ment (termine che ricomprende sia le ipotesi di reintegrazione chequelle di riassunzione del lavoratore) e il risarcimento del danno.

Mentre in alcuni Paesi tra quelli considerati dal gruppo,quello del re-employment rappresenta il rimedio principale, in altriesso rappresenta l’eccezione, il rimedio sanzionatorio applicabilesoltanto nei casi piu gravi.

Le diverse legislazioni nazionali divergono anche con riferi-mento all’individuazione del soggetto cui spetta decidere il tipo dirimedio applicabile nell’alternativa tra tutela reale ed obbligato-ria. Talvolta e il Giudice, talvolta il datore di lavoro, o, infine, lostesso lavoratore.

Con riferimento alla natura dei rimedi applicabili il gruppo haspecificato che, nell’ambito del re-employment, si distinguono duediverse ipotesi: la reintegrazione, per effetto della quale il rap-porto di lavoro viene ripristino come se lo stesso non fosse maicessato (ex tunc), e quello della riassunzione, con il quale tra da-tore di lavoro e lavoratore viene instaurato un nuovo rapporto dilavoro (ex nunc).

In tutti i Paesi considerati dall’analisi del gruppo, la legisla-zione da rilievo al dovere del lavoratore di trovare un nuovo im-piego nelle more del processo, tanto da prevedersi la detrazionedal risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro tanto del-l’aliunde perceptum, quanto, in alcuni casi, dell’aliunde percipien-dum.

Con riferimento alla tutela obbligatoria, il gruppo ha eviden-ziato che la maggior parte dei Paesi considerati prevede un limitemassimo all’ammontare del danno risarcibile, salvo eccezioni incui le legislazioni nazionali si sono limitate ad indicare il solo li-mite minimo o a non indicare alcun limite.

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Dopo avere brevemente considerato anche le misure di soste-gno post-licenziamento, evidenziando che tutti i Paesi richiedonouna certa anzianita del lavoratore come condizione di accesso alsistema di protezione e che sono esclusi dall’accesso alle misure ilavoratori licenziati per giusta causa, il gruppo ha ricordato lenorme che compongono il quadro sovranazionale in tema di licen-ziamento individuale.

In particolare, con riferimento all’articolo 30 della Carta deidiritti fondamentali dell’Unione europea, il gruppo si e interro-gato sul significato del termine ‘‘protezione’’ contenuto in dettadisposizione.

Con riferimento, invece all’articolo 24 della Carta sociale euro-pea, nel quale si utilizza l’espressione ‘‘adequate compensation orother appropriate relief’’, la relazione ha discusso del significato daattribuirsi all’aggettivo adequate, soffermandosi altresı sulla por-tata precettiva di tale disposizione.

5. Conclusioni.

Le conclusioni dei lavori della XXX edizione del SeminarioInternazionale di Diritto del Lavoro Comparato di Pontignanosono state affidate al Prof. Edoardo Ales.

Quest’ultimo, dopo un vivace dibattito che ha coinvolto atti-vamente i Professori e i membri dei gruppi, ha ripreso ed appro-fondito alcune delle tematiche affrontate da questi ultimi nelle ri-spettive relazioni, innalzando il piano della riflessione ad una di-mensione piu ampia, legata non solo agli aspetti relativi alla tu-tela della stabilita del rapporto di lavoro, ma anche ai profili digaranzia dei lavoratori nella fase successiva alla cessazione di que-st’ultimo.

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INDICEINDICE

Elenco dei partecipanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V

Cronaca del Congresso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IX

PARTE PRIMA

RELAZIONI E INTERVENTI

Giovedı 16 maggio 2013 - mattina

Relazioni

UMBERTO ROMAGNOLI, Diritto del lavoro e quadro economico: nessi di origine e profilievolutivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

TIZIANO TREU, Le istituzioni del lavoro nell’Europa della crisi. . . . . . . . . . . . . . . . . . 21

Giovedı 16 maggio 2013 - pomeriggio

Relazioni

MATTIA PERSIANI, Crisi economica e crisi del welfare state . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133

FRANCO CARINCI, Alice non abita piu qui (a proposito e a sproposito del ‘‘nostro’’ di-ritto sindacale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165

EDOARDO GHERA, Il contratto di lavoro oggi: flessibilita e crisi economica. . . . . . . . . . 195

RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, Il problema dell’inderogabilita delle regole a tutela del la-voro, ieri e oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233

Interventi

PAOLO TOSI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263

MICHELE CERRETA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 266

FELICE TESTA, Valore costitutivo del diritto e mercato del lavoro: a proposito di utilitadella prestazione lavorativa e regole del suo svolgimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272

ANNA TROJSI, La crisi economica e i diritti fondamentali dei lavoratori . . . . . . . . . . . 275

Venerdı 17 maggio - mattina

Tavola rotonda

Uno sguardo sull’Europa

MAXIMILIAN FUCHS, Il ruolo del diritto del lavoro e della sicurezza sociale nella crisieconomica. L’esperienza tedesca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287

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ANTOINE JEAMMAUD, L’incidenza della crisi economica sui principi basilari del dirittodel lavoro. Il caso francese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306

ALAN NEAL, Post-Recessionary Labour Law: Another British Paradox?. . . . . . . . . . . 310

MIGUEL RODRIGUEZ-PINERO y BRAVO-FERRER, La crisi economica e i fondamenti deldiritto del lavoro in Spagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 334

Interventi

MARIELLA MAGNANI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 353

GIULIO PROSPERETTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 356

FIORELLA LUNARDON . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 358

LORENZO ZOPPOLI, I ‘‘fondamenti’’ del diritto del lavoro: questioni di metodo e principicostituzionali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362

UMBERTO CARABELLI, Il fallimento del modello della ‘total flexibility’ e le colpe del si-stema delle imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 369

Comunicazioni

LORENZO SCARANO, Sulla ‘‘crisi’’ di un paradigma ‘‘in rivoluzione’’ . . . . . . . . . . . . . . 377

Conclusioni

GIUSEPPE SANTORO PASSARELLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 387

PARTE SECONDA

NOTIZIARIO A.I.D.La.S.S.

Notiziario nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395

Premio Ludovico Barassi - edizione 2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395

Premio Francesco Santoro Passarelli - edizione 2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 397

Premio Massimo D’Antona - edizione 2011-2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 399

PARTE TERZA

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

Seminario Internazionale di Diritto Comparato del Lavoro - Pontignano XXX su

The individual dismissal - Modena - Fondazione Marco Biagi, 16-19 luglio

2013 (di Marco Biasi ed Elena Gramano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405

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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLA SICUREZZA SOCIALE

Annuario di Diritto del lavoro

01. I licenziamenti nell’interesse dell’impresa (1969), 8°, pag. IV-204.02. L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro (1970), 8°, pag. IV-176.03. La sistemazione didattica del diritto del lavoro nell’insegnamento universitario

(1970), 8°, pag. IV-144.04. La rappresentanza professionale e lo statuto dei lavoratori (1971), 8°, pag. IV-224.05. I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori (1972), 8°,

pag. IV-368.06. Statuto dei lavoratori ed enti pubblici (1974), 8°, pag. IV-228.07. Mansioni e qualifi che dei lavoratori: evoluzione e crisi dei criteri tradizionali (1975), 8°,

pag. IV-232.08. Il nuovo processo del lavoro (1977), 8°, pag. IV-292.09. Il rischio professionale (1977), 8°, pag. IV-176.10. La disciplina giuridica del lavoro femminile (1978), 8°, pag. IV-204.11. Il lavoro a termine (1979), 8°, pag. IV-268.12. Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato (1979), 8°, pag. IV-252.13. Innovazioni nella disciplina giuridica del mercato del lavoro (1980), 8°, pag. IV-236.14. Problemi giuridici della retribuzione (1981), 8°, pag. IV-216.15. Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello (1982), 8°, pag. IV-144.16. Prospettive del diritto del lavoro per gli anni ’80 (1983), 8°, pag. XII-340.17. L’intervento del giudice nel confl itto industriale (1984), 8°, pag. VIII-212.18. Rischio e bisogno nella crisi della previdenza sociale (1985), 8°, pag. VIII-180.19. Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro (1986), 8°, pag. VIII-296.20. Il tempo di lavoro (1987), 8°, pag. XII-264.21. Licenziamenti illegittimi e provvedimenti giudiziari (1988), 8°, pag. X-312.22. Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pub-

blico (1989), 8°, pag. X-378.23. Rappresentanza e rappresentatività del sindacato (1990), 8°, pag. X-430.24. Licenziamenti collettivi e mobilità (1991), 8°, pag. X-322.25. Riforma pensionistica e previdenza integrativa (1994), 8°, pag. VIII-220.26. Autonomia individuale e rapporto di lavoro (1994), 8°, pag. X-252.27. Il dialogo fra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale del lavoro (1994), 8°,

pag. X-338.28. Il processo del lavoro: bilancio e prospettive (1994), 8°, pag. VIII-240.29. Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti collettivi (1996),

8°, pag. X-248.30. Lavoro e discriminazione (1996), 8°, pag. X-404.31. Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti (1997), 8°,

pag. XX-410.32. Autonomia collettiva e occupazione (1998), 8°, pag. VI-300.33. Impresa e nuovi modi di organizzazione del lavoro (1999), 8°, pag. X-292.34. Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo (2000), 8°, pag. XVIII-392.35. Il diritto del lavoro alla svolta del secolo (2002), 8°, pag. IV-392.36. Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro (2002), 8°, pag. IV-558.37. Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro fl essibile (2003), 8°, pag. X-778.38. Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme (2005),

8°, pag. IV-396.39. Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle

imprese (2006), 8°, pag. X-510.40. Il danno alla persona del lavoratore (2007), 8°, pag. XIV-472.41. Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa (2007), 8°, pag. XII-462.42. Disciplina dei licenziamenti e mercato del lavoro (2008), 8°, pag. VIII-560.43. Inderogabilità delle norme e disponibilità dei diritti (2009), 8°, pag. VI-416.44. La fi gura del datore di lavoro - Articolazioni e trasformazioni. In ricordo di Massimo

D’Antona, dieci anni dopo (2010), 8°, pag. XII-530.

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45. Il diritto del lavoro nel sistema giuridico privatistico (2011), 8°, pag. X-398.46. La riforma dell’Università tra legge e statuti. Analisi interdisciplinare della legge n.

240/2010, a cura di Marina Brollo e Raffaele De Luca Tamajo (2011), 8°, pag. XIV-476.47. Le relazioni sindacali nell’impresa (2012), 8°, pag. VIII-450.48. Il diritto del lavoro al tempo della crisi (2013), 8°, pag. XII-610.49. La crisi economica e i fondamenti del diritto del lavoro (2014), 8°, pag. X-428.

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E 56,00024190197 9 788814 183850

ISBN 978-88-14-18385-0