Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale · ruolo dell’infermiere pagina 85 10....

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Università degli Studi di Messina Dipartimento di Economia, Sociologia, Matematica, Statistica “V. Pareto” Sezione di Economia e Finanza Facoltà di Medicina e Chirurgia MASTER UNIVERSITARIO DI PRIMO LIVELLO IN MANAGEMENT PER LE FUNZIONI DI COORDINAMENTO NELLE PROFESSIONI SANITARIE Direttore: Prof. Giuseppe Sobbrio Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale Tesi di: Letteria Dottore Relatore: Prof.ssa Anna Maria Velardo

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Università degli Studi di Messina

Dipartimento di Economia, Sociologia, Matematica, Statistica

“V. Pareto” Sezione di Economia e Finanza

Facoltà di Medicina e Chirurgia

MASTER UNIVERSITARIO DI PRIMO L IVELLO IN

MANAGEMENT PER LE FUNZIONI DI COORDINAMENTO

NELLE PROFESSIONI SANITARIE

Direttore: Prof. Giuseppe Sobbrio

Assistenza Infermieristica al Paziente in fase terminale

Tesi di: Letteria Dottore

Relatore: Prof.ssa Anna Maria Velardo

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INDICE

Introduzione pagina 3

1. Malattia terminale pagina 7

2. Assistenza infermieristica e psicologica

del malato terminale pagina 11

3. I bisogni del morente pagina 21

4. La comunicazione con il paziente terminale pagina 27

5. Relazione di aiuto e counseling pagina 40

6. Il controllo del dolore pagina 51

7. Cure palliative pagina 74

8. La famiglia del paziente pagina 80

9. Il decesso del paziente in reparto:

ruolo dell’infermiere pagina 85

10. La morte nel Codice Deontologico

dell’infermiere pagina 98

Conclusioni pagina 108

Bibliografia pagina 112

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INTRODUZIONE

Da sempre l’uomo assiste l’altro uomo, tutta la storia dell’uomo è la

storia dello “stare vicino”, vicino alla sofferenza, vicino al dolore.

Le professioni sanitarie in genere, e quella infermieristica in

particolare, hanno come compito sociale quello di intervenire su questo

fronte, hanno il dovere professionale di accompagnare il paziente in tutte le

fasi della sua malattia, soprattutto in quella terminale. L’infermiere è la

figura dell’equipe che vede quotidianamente l’ammalato, che entra in

relazione con lui cercando di rispondere a tutti i suoi bisogni, cogliendo

tutte le eventuali modificazioni, attraverso l’osservazione e l’ascolto, che

devono essere tesi, non solo alle parole, ma anche ai gesti, alle espressioni

ed ai silenzi. Più di qualsiasi altra figura sanitaria l’infermiere entra nelle

dinamiche relazionali per il fatto che è la persona che sta a contatto con il

malato per più lungo tempo e in via più diretta, perciò rappresenta per il

malato una importante figura di riferimento. Sono gli infermieri che vedono

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maggiormente il suo soffrire di giorno di notte, sono loro che si

intrattengono in camera a parlare.

Curare è un compito difficile. Non ci si improvvisa curanti, ma si

impara a diventarlo, non soltanto attraverso l’apprendimento di tecniche

specialistiche: accanto al sapere inteso come conoscenza scientifica della

malattia e delle possibilità di affrontarla e combatterla, ai curanti viene

richiesto di “saper fare” e di “saper essere”. La difficoltà di tutto ciò si

aggrava quando il malato attraversa la fase terminale, quando il processo di

malattia si fa irreversibile e guarire diventa impossibile.

Per esempio il paziente oncologico, più di ogni altro malato convive

con l’idea della morte prima ancora che questa sia realmente prossima, per

questo spesso di fronte ad un malato di cancro la gente scappa, gli amici

scappano, i familiari compatiscono. Gli stadi avanzati di malattia e la fase

terminale rappresentano uno dei momenti più difficili, per questo

l’assistenza dovrebbe basarsi sulla conoscenza dettagliata dei reali bisogni

fisici e psicologici del malato.

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A questo mira la mia tesi, per fa si che tutti coloro che si trovano in

un fase verso la morte abbiano una giusta assistenza, ma soprattutto

abbiano una morte dignitosa, e quando la medicina e la tecnica non

possono più far guarire, io infermiere posso fare ancora qualcosa per la

persona.

Diventare sensibili ai bisogni del morente, significa comprendere che

necessita di una buona assistenza, egli ha bisogno di calore umano, rispetto

e coraggio per superare tutti i problemi che nascono dentro di lui nella

coscienza della morte: è difficile per tutti accettare l’idea della fine della

propria esistenza.

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“Io infermiere mi impegno a starti vicino quando soffri, quando hai

paura, quando la medicina e la tecnica non bastano.” (Patto infermiere

cittadino - 1996)

“L’infermiere sostiene i familiari dell’assistito in particolare nel

momento della perdita e nella elaborazione del lutto” (Codice

deontologico - 1999)

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1. MALATTIA TERMINALE

La malattia terminale è quella condizione patologica la cui

evoluzione è verso la morte a non lunga scadenza, come diretta

conseguenza della malattia.

Il paziente si può definire terminale quando in lui, nei suoi familiari e

nei curanti comincia a farsi strada l’idea della morte quale diretta

conseguenza della malattia.

La malattia è una delle situazioni più frustanti della vita, ha sempre

un riflesso acuto sulla personalità: la mette in crisi e la rivela nella sua

autenticità, spogliata da tutte le maschere. Il soggetto malato è coinvolto in

tutto il suo essere, la sua identità, il suo ruolo sociale, il mondo affettivo.

Per quanto riguarda la fase terminale della malattia ci si riferisce a

quella fase avanzata, in cui non è più possibile pensare ad una guarigione e

la prospettiva è rappresentata dalla morte. La fase terminale potrebbe essere

definita come quella che ha inizio nel momento in cui il medico dice “non

c’è più niente da fare”, dato che il paziente non risponde più ai trattamenti

intesi a prolungare la vita e che è entrato in un periodo in cui è ormai

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evidente l’inguaribilità, e per il quale le cure specifiche sono passate al

trattamento palliativo.

Tale periodo non riguarda solo le ultime ore di vita, ma è impossibile

collocare in una dimensione temporale la situazione di irreversibilità clinica

che sembra coprire varie settimane e talora mesi o anni.

La malattia terminale è un processo che evolve gradualmente, non un

evento statico. Per il malato vengono a crearsi nuovi bisogni, nuove

abitudini, un nuovo stile di vita ed essendo questi bisogni di natura diversa,

è corretto affrontarli con un approccio multidisciplinare, utilizzando

specifiche competenze e figure diverse, che si propongono l’obiettivo

comune di apportare un miglioramento della qualità di vita dell’ammalato e

l’accompagnamento ad una morte dignitosa.

Il mondo del malato terminale si basa sul bisogno di sapere che non

verrà abbandonato quando la medicina scientifica ha perso ogni capacità di

tenere lontano la morte.

La morte di una persona giovane o un bambino sconcertano di più di

quella di una persona anziana, considerata generalmente come normale

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conclusione di un ciclo vitale. Una persona che muore tra grandi sofferenze

turba di più di una che muore rapidamente senza grandi dolori fisici.

La sofferenza, il progressivo deterioramento delle condizioni

psichiche e fisiche ripropongono, infatti, in maniera molto cruda tutta la

drammaticità della malattia, della lenta attesa della morte, della

sopportazione del dolore, della coscienza più o meno chiara della fine della

propria esistenza terrena.

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2. ASSISTENZA INFERMIERISTICA E

PSICOLOGICA DEL MALATO TERMINALE

La realtà della malattia in fase avanzata e terminale si presenta

complessa e multidimensionale; i diversi aspetti, sia organici che

psicologici, sono strettamente intrecciati tra loro e vengono vissuti con

molta intensità dal malato, dai familiari e dal personale sanitario. In genere,

gli aspetti organici sono posti in primo piano mentre la dimensione

psicologica viene lasciata in secondo piano e vissuta principalmente come

"effetto collaterale" della malattia. Questa strategia di intervento rischia di

occultare situazioni che possono avere una rilevanza cruciale nella

comprensione delle dinamiche che accompagnano la malattia. In altri

termini, la mancata considerazione degli aspetti psichici ed emozionali, nel

corso delle diverse fasi della "crisi" provocata dalla malattia, rischia di

amplificare i sentimenti di disagio, solitudine e dolore non solo del malato

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e del suo contesto familiare, ma anche dell'infermiere che si occupa

dell'assistenza al malato terminale.

Nell'assistenza infermieristica al malato terminale, si assiste

all'instaurarsi di una situazione particolare che vede da una parte il malato

(il più delle volte tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni) alla prese con

sentimenti di confusione, rabbia, solitudine destinati a non essere compresi

e contenuti, dall'altra i familiari, a loro volta travolti da emozioni di non

facile gestione ed espressione, e dall'altra ancora l’infermiere spesso

impreparato a gestire le forti emozioni suscitate dalla malattia terminale.

Successivamente vi sono incomprensioni, conflitti, vissuti abbandonici,

sensi di colpa, ecc. In particolare, le profonde emozioni attivate

dall'assistenza di un malato terminale mettono a dura prova le capacità

dell’infermiere, non solo da un punto di vista professionale ma anche e

soprattutto sotto il profilo psicologico ed emotivo.

Il dover intrattenere rapporti con un intero nucleo familiare significa

avere in carico le emozioni di tutti i membri della famiglia ma soprattutto

del malato, ovvero i suoi momenti di stanchezza psicologica, di sconforto e

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di sfiducia verso l’infermiere e tutta l’equipe sanitaria che lo assiste. Per

questo l’infermiere deve far si che l'attenzione da parte degli altri operatori

venga posta non solo prevalentemente sulla malattia e sugli aspetti tecnici e

concreti ma anche sulla persona del malato; non facendo in questo modo, i

sintomi ed il dolore che affliggono il malato e ne limitano la qualità della

vita e spesso non sono compresi nella loro globalità psicosomatica, nella

loro continua interazione con la personalità, le risorse e i bisogni del

paziente.

Ruolo_dell’infermiere

La competenza psicologica dell’infermiere è molto importante per

poter cogliere le dinamiche operanti in diverse situazioni e contesti, ma

soprattutto per sviluppare negli operatori e nelle famiglie la capacità di

saper contenere ed elaborare tensioni e sofferenze nel modo migliore

possibile.

La preparazione psicologica dell’infermiere permette può permettere

di svolgere una funzione di base sicura a cui il paziente e la famiglia può

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appoggiarsi, al fine di poter raggiungere un maggior adattamento alla

malattia ed un miglioramento delle comunicazioni intrafamiliari, ma anche

favorire l'elaborazione ed il controllo delle dinamiche psicologiche ed

emotive dell’equipe assistenziale. Quest'ultimo, è forse il compito più

gravoso, in quanto gli operatori si trovano spesso soli ad affrontare l'ansia

che gli deriva dal confronto con la morte e con la sofferenza dell'altro, in un

continuo conflitto tra l'illusione di immortalità e l'evidenza della finitudine,

tra il proprio bisogno di ottemperare alla propria professione ed il dover

accettare la propria sconfitta. Inoltre, il contatto quotidiano con malati che

evocano l'immagine della morte, con la sofferenza e la disperazione dei

familiari che viene scaricata sull’infermiere, provoca usura, attenuazione

dell'impegno, crisi depressive.

L’assistenza psicologica al malato terminale

Nel corso dell'assistenza al malato terminale, la famiglia e

l'infermiere rappresentano due poli che, nel momento in cui vengono in

contatto, devono continuamente ridefinire il proprio ruolo durante tutto

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l'iter assistenziale. Questo intervento ruota intorno ad un terzo polo,

rappresentato dal malato terminale, che si trova alle prese con la crisi più

grande è più importante di tutta la sua vita e che si differenzia da ogni altro

paziente per lo svilupparsi e l'aggravarsi di quella particolare sofferenza

che è stata definita come "dolore totale". In altri termini, la vicinanza della

morte ed il precipitare delle condizioni fisiche indicano un progressivo

modificarsi di ogni connotazione personale: l'identità corporea, il ruolo

sociale, lo status economico, l'equilibrio psicofisico, la sfera spirituale, il

soddisfacimento dei bisogni primari.

Il malato terminale, inoltre, è anche un morente e quindi ai bisogni

del malato si aggiungono i bisogni del morente. Questi è, dunque, il

principale protagonista di un processo vitale complesso che si svolge nel

tempo e coinvolge in modo totale le diverse aree dell'esistenza. In tal senso,

l’assistenza infermieristica va colta nella sua dimensione globale ed

olistica e deve necessariamente collocarsi al servizio della soggettività del

paziente, spostando l'attenzione dalla malattia alla persona del malato ed ai

suoi bisogni.

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Collocare al centro dell'assistenza infermieristica la persona del

malato, significa prendere in considerazione i diritti inalienabili di ogni

essere umano, riconoscendo, quindi, nel paziente terminale: a) la sua

dignità di persona ed i problemi relativi al suo stato, nel pieno rispetto dei

suoi diritti e delle sue convinzioni etiche e/o religiose; b) i bisogni

psicologici ed emotivi che, tenendo conto delle differenze individuali,

investono: la certezza di non essere abbandonato, la sicurezza di ricevere le

necessarie cure mediche, la possibilità di essere considerato un soggetto in

grado di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili, la

certezza di poter ottenere, accanto ad una assistenza sanitaria, la necessaria

attenzione sia in termini di ascolto che di presenza.

Il rispetto di questi bisogni va considerato come parte integrante

dell'intervento dell'équipe, ma indubbiamente l’infermiere può, in modo

più specifico, accogliere e contenere l'espressione di queste esigenze stando

vicino al paziente.

E' importante sottolineare come l'intervento dell’infermiere debba

sempre tenere conto di due aspetti fondamentali: 1) evitare qualsiasi

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imposizione di un sostegno non gradito, nel riconoscimento della

fondamentale libertà da parte del sistema familiare, nelle sue diverse

componenti, di poter far richiesta o meno di un aiuto psicologico; 2) tenere

sotto controllo i propri bisogni e le proprie dinamiche personali che, se non

riconosciute, possono contribuire a creare una interferenza nel dialogo tra il

paziente e la famiglia. In altri termini, l’infermiere non deve sostituirsi alle

figure più significative del paziente, cercando, in una sorta di relazione

esclusiva con il malato, di soddisfare i propri bisogni di protagonismo.

L’infermiere, può eventualmente porsi come mediatore della

relazione talvolta interrotta, a causa della "congiura del silenzio" che spesso

avvolge il malato, talvolta carente per via delle difficoltà, sia del malato

che dei familiari, nell'affrontare le questioni sospese, i non detti, le gesta

incompiute.

L'azione di facilitazione e mediazione può contribuire ad aiutare

pazienti e famiglie ad apprezzare, pur nella drammaticità della situazione,

le esperienze positive, in termini di relazione e comunicazione, che è

possibile sperimentare quando si è o si vive con un malato grave.

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La malattia terminale, che possiamo considerare una esperienza di

confine e di "verità", può permettere ai diversi protagonisti di vivere ogni

momento in modo significativo, consentendo loro di accettare più

facilmente la propria situazione e, per quanto riguarda i malati, di aver

meno timore di lasciare la vita:

"nessuno può preparare qualcun'altro alla morte; è possibile però

"preparare" alla vita e questa preparazione consiste proprio nell'abituarsi

a riempire il proprio tempo con comportamenti umanamente validi".

Modalità dell’assistenza

Dopo aver preso in considerazione le aree di intervento è necessario

definire più specificamente le modalità proprie di un approccio

infermieristico - psicologico nel campo dell'assistenza ai malati terminali.

Per quanto riguarda l'attività specifica con le famiglie e con i malati,

l'infermiere ha il compito di raccogliere informazioni sulla storia,

organizzazione e dinamiche relazionali della famiglia; verificare la

presenza di problemi all'interno del nucleo familiare in grado di interferire

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con l'assistenza infermieristica; verificare la presenza di eventuali fattori di

rischio a carico dei familiari sia nel corso dell'assistenza che, in prospettiva,

a seguito della morte del paziente. Queste informazioni sono molto utili, in

quanto permettono all’infermiere di conoscere il paziente e di comunicare

in modo adeguato.

Conoscere bene il proprio paziente significa parlare con lui, avere il

modo e le abilità comunicative che consentano di sostenere e promuovere il

dialogo anche qualora la drammaticità della situazione lo renda difficile da

sostenere. Infermieri e medici si trovano ogni giorno di fronte a tali

situazioni e non possono da soli essere investiti di una così grande

responsabilità: devono essere loro stessi aiutati e sostenuti per poter parlare

ed aiutare.

In qualche modo la fase terminale può essere considerata come un

cammino di lutto dalla vita, una presa di coscienza graduale.

Il malato, per raggiungere questa dolorosa consapevolezza e per

arrivare ad elaborare il cambiamento, ha infatti bisogno di tempo, un

tempo, però, dato all’interno della relazione, di una dimensione dove la

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comunicazione ed il dialogo permettano di maturare dei passi in un

cammino di adattamento alla situazione.

E’ quel percorso che porta alla possibilità di accettare il proprio

morire.

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3. I BISOGNI DEL MORENTE

La vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche

inducono un progressivo deteriorarsi di ogni connotazione personale:

l’identità corporea, il ruolo sociale, lo status economico, l’equilibrio psico -

fisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari.

E’ proprio a partire da questo contesto che gli attuali approcci

assistenziali sentono la necessità di spostare l’attenzione maggiormente

verso la persona e i suoi bisogni, piuttosto che nei confronti della malattia

stessa.

Facendo emergere i bisogni del paziente oncologico il ruolo e le

responsabilità infermieristiche acquistano una particolare importanza in

quanto attivamente coinvolte per migliorare la qualità di vita

indipendentemente dalla prognosi.

In una medicina che non può più avere come obiettivo la guarigione,

ma il mantenimento della miglior qualità di vita l’attenzione deve essere

spostata sulla persona e i suoi bisogni.

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E nel malato terminale vengono a crearsi nuovi bisogni, uno stile di

vita che muta con l’evolversi della malattia.

In specifico i bisogni del malato terminale possono essere suddivisi

in tre categorie, bisogni fisico - assistenziali, bisogni sociali e bisogni

personali - emozionali.

Bisogni fisico - assistenziali

Il soddisfacimento di questo tipo di bisogni riguarda in primo luogo

il controllo dei sintomi che si accompagnano alla patologia e ai trattamenti

e che causano una grossa sofferenza per il malato e la sua famiglia. Il

sintomo più presente ma anche tra i più facili da trattare è il dolore.

Possono essere presenti anche profonda astenia, dispnea, stipsi,

nausea e vomito, edemi e versamenti, prurito, incontinenza, tosse e

singhiozzo. Più la malattia avanza e più questi sintomi si accentuano

peggiorando la qualità di vita della persona e di chi la assiste.

Risolvendo il problema del controllo dei sintomi si può rispondere

facilmente anche agli altri bisogni fisico - assistenziali che sono: il

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miglioramento o il ripristino della qualità dell’alimentazione, l’aumento

delle ore di riposo e il miglioramento della qualità del sonno, la cura di sé.

Bisogni sociali

In specifico riguardano: bisogno di appartenenza , ossia la necessità

avvertita dalla persona morente di mantenere delle relazioni con i familiari

e la rete sociale di appartenenza; bisogno di mantenere la comunicazione

non solo con i familiari e gli amici, ma anche con il personale sanitario;

bisogno di esprimere i progetti formulati, sia per quanto riguarda se stesso,

la malattia, i trattamenti e i desideri per il funerale, sia per quanto riguarda i

familiari per l’organizzazione del dopo morte; bisogno di non essere

abbandonato ed essere accettato come malato e morente.

Bisogni personali - emozionali

Riguardano il bisogno di sicurezza dalla minaccia psico-fisica della

malattia; bisogno di autostima e rispetto della dignità del proprio corpo, che

implica il “non sentirsi di peso” e la necessità di occupare la giornata ma

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anche la necessità di preservare il pudore, di mantenere il senso estetico e

di essere ancora apprezzato nonostante le menomazioni dovute alla malattia

e ai trattamenti; infine bisogno di compimento, che riguarda la sensazione

di soddisfazione per la propria vita.

Quest’ultimo bisogno risulta particolarmente importante perché il

malato terminale si trova spesso a riaffrontare questioni personali mai

risolte, che spesso interessano il rapporto con gli altri. La risoluzione di

queste questioni può influenzare la qualità degli ultimi giorni di vita della

persona e la serenità della morte.

Infine, le paure sono le emozioni principali del paziente in fase

terminale: paure molteplici, mai assenti e capaci di provocare anche intense

reazioni difensive. I malati si difendono, infatti, dalla paura dell’ignoto, di

quello che può esserci oltre, dalla paura della solitudine,dell’isolamento e

dell’abbandono, dalla paura di perdere il proprio corpo, la propria integrità,

autonomia ed identità, dalla paura di perdere l’autocontrollo, di essere in

balia degli altri, dalla paura del dolore e della sofferenza, delle cure e dei

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loro effetti collaterali, dalla paura di non riuscire a dare un senso completo

alla propria vita, di essere sommersi dall’angoscia finale.

Ruolo dell’infermiere

La formazione dell’infermiere mira all’acquisizione di capacità e

competenze che permettono l’erogazione di un’assistenza olistica alla

persona malata.

E’ anche la figura maggiormente presente nei reparti ospedalieri e

non, e quindi il professionista che ha più possibilità di dedicare qualche

minuto all’ascolto del paziente e dei suoi bisogni. E’ importante però

ricordare che ogni persona è unica e portatrice di bisogni propri che non

sono mai uguali a quelli di un altro malato.

Questo implica la necessità di conoscere l’individualità della

persona, soprattutto del morente, attraverso un processo di

personalizzazione dell’assistenza.

Alla base di tutto ciò sta la necessità di istaurare una relazione con il

morente creando un rapporto basato sulla sincerità, sull’ascolto e sulla

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vicinanza anche fisica, che permetta all’assistito di fidarsi per esprimere i

suoi ultimi desideri.

Il compito principale dell’infermiere, quindi, è ottimizzare la cura e

l’assistenza del paziente in fin di vita e far si che abbia una morte dignitosa.

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4. LA COMUNICAZIONE CON

IL PAZIENTE TERMINALE

Nell’esercizio delle sue funzioni l’infermiere diviene per il paziente

un punto di riferimento di competenza ed esercita, nella relazione

assistenziale, anche un ruolo educativo che richiede la conoscenza del

processo di comunicazione nelle sue diverse modalità di espressione.

In particolare nella relazione con il paziente terminale l’intervento

professionale contribuisce, tra l’altro, ad alleviare il senso di solitudine e di

isolamento che, ancora troppo spesso, fa parte del vissuto di molte persone

ospedalizzate e in fin di vita.

La comunicazione, inoltre, costituisce, per l’infermiere, uno

strumento fondamentale sia nel momento della raccolta dati, per

identificare la manifestazione del bisogno di assistenza infermieristica, sia

per proseguire nell’applicazione di tutte le altre fasi del metodo disciplinare

(il processo di assistenza infermieristica).

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Poiché non può esservi relazione senza comunicazione, questo

aspetto assume particolare importanza.

La comunicazione viene definita dalla teoria classica come

trasmissione di un’informazione, di un messaggio, da parte di un emittente

a un ricevente.

La comunicazione diventa per l’infermiere un processo di interazione

e di influenzamento reciproco, che avviene in un determinato contesto, che

supera il semplice modello emittente/ricevente, poiché il comportamento di

ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra

persona.

Interagire infatti significa “mettere in atto un’azione scambievole tra

due o più persone. Interagire nella comunicazione ha quindi il valore forte

di realizzazione di una relazione efficace, in quanto il messaggio inviato

giunge al destinatario in modo corretto, tenendo conto delle possibilità e

delle esigenze di quest’ultimo.

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La comunicazione viene considerata come un processo circolare che

prevede l’interazione tra due poli (infermiere-persona assistita) e che attiva

sempre una reazione.

Il presupposto affinché si realizzi tale interazione nella

comunicazione è che essa sia determinata dalla necessità di soddisfare,

nella relazione assistenziale, il bisogno di assistenza infermieristica della

persona.

L’aiuto alla persona ad interagire nella comunicazione non viene

dato sfoggiando le proprie conoscenze, bensì riuscendo a far comprendere

il messaggio voluto. Per ottenere ciò è necessario adattare il proprio

linguaggio a quello dell’altro, utilizzando dei termini che egli possa

comprendere ed usando anche quelli scientifici, se è necessario, purché ne

venga immediatamente spiegato il significato: l’obiettivo è quello di

aiutare la persona a capire. Ovviamente, le modalità dell’approccio

interpersonale sono determinanti nell’influire sulle reazioni della persona, e

contribuiranno a raggiungere un risultato positivo se saranno improntate a

rendere la comunicazione meno ansiogena e meno difensiva. Con

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riferimento alla comunicazione non verbale, gli elementi che la

caratterizzano sono diversi: l’espressione del viso, le posture del corpo, il

tono, l’intensità ed il volume della voce, i gesti ed il contatto visivo. Questi

elementi integrano la comunicazione verbale e, inevitabilmente, ne

influenzano il significato. Infatti, la comunicazione non verbale può:

alterare il significato della comunicazione verbale, rafforzare un messaggio

verbale, esprimere con un gesto quello che non viene chiesto.

Anche il contesto in cui avviene la comunicazione è determinante per

la sua efficacia. Una stanza rumorosa può impedire di sentire ciò che viene

detto, una persona agitata può alterare il messaggio che le è stato inviato, la

presenza di estranei durante un colloquio può indurre la persona a

rispondere alle domande in modo approssimativo o a non farlo.

L’insieme di questi elementi, che caratterizzano il processo di

comunicazione, fanno intravedere quali capacità del “saper comunicare”,

l’infermiere deve possedere e utilizzare in modo competente con le persone

che hanno bisogno di essere informate, di essere aiutate ad esprimere

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situazioni che le preoccupano o a diminuire la paura per un evento, come la

malattia terminale ancora, ad esprimere o capire dei messaggi.

Alla luce di quanto detto finora, bisogna tuttavia considerare che,

anche con le migliori intenzioni degli interlocutori, la relazione in ambito

assistenziale non sempre si instaura e si sviluppa in maniera ottimale.

Questo può accadere in virtù di diversi fattori, attribuibili

all’operatore, alla persona assistita oppure al contesto dove nasce e si

sviluppa la relazione.

È possibile identificare i fattori che disturbano la comunicazione in

due categorie: fattori di natura personale e fattori di natura ambientale.

Nella prima categoria rientrano quei fattori che riguardano più

specificatamente sia l’assistito (anziano) come ad esempio: la stanchezza

fisica, il dolore, ostacoli all’uso della parola, disturbi della memoria (bio-

fisiologici); ma anche l’ansia, l’eccitazione, risentimento, paura, scarsa

autostima (psicologici); ancora, abilità espressiva, non conoscenza di

argomenti specifici, diversità di appartenenza etnica, ceto sociale e così via

(socioculturali); sia l’operatore come ad esempio: l’utilizzo di un codice

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inadeguato, l’esposizione confusa dei messaggi, l’assunzione di

atteggiamenti inadeguati e così via. Tra i fattori di natura ambientale,

invece, possono essere compresi il rumore, l’inadeguatezza dell’ambiente,

la mancanza di privacy (fattori di natura fisica), ma anche la presenza di

estranei/persone indesiderate e l’assenza di persone desiderate (fattori di

tipo sociali).

Altri elementi di disturbo sono: l’incompatibilità delle opinioni, l’età,

la personalità. Ciò può caratterizzarsi per l’incapacità ad esempio da parte

dell’assistito a rimettersi alla volontà ed alla competenza altrui, o

quantomeno di accettare, in qualche caso, di dover dipendere da altri per

superare una situazione difficoltosa; così alcuni assistiti possono non

accettare di buon grado (se non addirittura rifiutare) che l’infermiere si

occupi di loro, specie se si tratta di azioni sostitutive particolari ad esempio

l’igiene intima.

Altri fattori, che possono influenzare negativamente sulla qualità

della relazione interpersonale in ambito assistenziale infermieristico, sono

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da ricondursi alle modalità con cui l’infermiere gestisce l’interazione nella

comunicazione.

Alcuni autori hanno identificato cinque categorie di comportamento

che ostacolano l’evoluzione efficace della comunicazione: cambiare

argomento, esprimere le proprie opinioni sullo stato d’animo dell’assistito,

frasi rassicuranti fuori luogo, interpretare affrettatamente e fornire consigli

non richiesti, utilizzare in modo inadeguato notizie mediche e conoscenze

infermieristiche, interagire con la persona nell’ambito di contesti

inadeguati.

A volte nella realtà lavorativa la comunicazione pare collocarsi ad un

secondo livello, come se prevalesse la difesa di sé, del proprio ruolo,

piuttosto che l’interesse per l’altro e la ricerca reciproca della fiducia. Ciò,

insieme alla incapacità di neutralizzare i fattori di disturbo della

comunicazione, rappresenta probabilmente la causa principale di quelli che

possono essere definiti “incidenti di percorso” nella relazione. La gestione

corretta dell’interazione nella comunicazione esige dunque che l’infermiere

mantenga l’atteggiamento costante dell’attenzione agli stati d’animo della

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persona assistita, senza esprimere giudizi e senza assumere comportamenti

stereotipati con i quali, a volte, si tende a classificare i malati all’interno di

categorie precostituite: “il paziente lamentoso”, “il paziente rompiscatole”,

“il paziente tranquillo” e così via.

L’assenza del giudizio è necessaria perché esso viene vissuto come

riferito al complesso della persona e non solo ad una parte di essa: così chi

si sente giudicato negativamente per qualche aspetto del suo modo di

essere, finisce col sentirsi svalutato come persona. Ma, d’altra parte, anche

la valutazione positiva di un comportamento è da usare con cautela.

Se ne evince, quindi, la necessità della “coerenza comunicativa” in

riferimento al contesto. Proprio per questo motivo, non bisogna mai

dimenticare che ai due poli della relazione si aggiunge la presenza del

contesto istituzionale, fattore che spesso influisce pesantemente nella

definizione e nell’evoluzione della relazione.

In questa ottica la comprensione delle dinamiche relazionali

connesse o determinate dalla vecchiaia costituisce un requisito

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irrinunciabile per gli infermieri che svolgono la loro attività

prevalentemente in questo settore.

Risulta fondamentale focalizzare gli aspetti che in questa fase della

vita influiscono più direttamente sulla dinamica relazionale e gli effetti che

su di essa producono.

Senza dubbio l’evento che maggiormente pesa sulla dimensione

relazionale è costituita dal termine dell’attività lavorativa. Se inizialmente

questo fatto può offrire a molte persone una sensazione di libertà, in seguito

ciò che emerge è la consapevolezza di aver perso un preciso ruolo sociale;

in altre parole subentra un senso di frustrazione e di inutilità, dovuto alla

percezione che l’immagine di sé si è in qualche modo offuscata: si assiste

ad una crisi di identità e una diminuzione dell’autostima.

Il disadattamento alla nuova condizione, talvolta può assumere toni

drammatici, caratterizzati dal decadimento delle capacità cognitive, da

alterazioni dell’umore, introversione, perdita di interesse per la realtà, verso

la quale vi è un progressivo distacco.

36

Secondo alcuni studi, anche il sesso influisce in maniera cospicua

sulla capacità di adattamento: per la donna esso risulta solitamente più

facile, dato che è abituata a ricoprire diversi ruoli(di lavoratrice, di moglie,

di madre).

Tutti questi fattori, descritti per altro sommariamente, comportano

profonde modificazioni della sfera relazionale.

A seconda dei casi l’anziano può sentirsi valorizzato come persona,

con un proprio vissuto degno di considerazione nonostante la sua eventuale

condizione di malattia, oppure sopportato come un problema.

Riguardo alla malattia, essa viene ancora considerata da molte

persone anziane come una componente essenziale della vecchiaia; tuttavia,

sebbene il binomio vecchiaia-malattia sia stato da tempo superato, esso si

impone quasi inevitabilmente con l’avanzare dell’età, sia con quadri

patologici tipici della senescenza, che con sequele di malattie pregresse o

croniche con il rischio conseguente di dover dipendere da altri. A ciò si

aggiunge anche l’esperienza dell’ospedalizzazione, che molti anziani

vedono come la fase preliminare alla fine della loro esistenza.

37

Ecco perché, diversamente dal giovane/adulto, nell’anziano i

problemi di adattamento all’ambiente ospedaliero sono più accentuati.

Basti pensare ad esempio alla percezione della propria inadeguatezza

di fronte alle persone che lo attorniano, alla complessità dell’ambiente in

cui si trova e alla ristrutturazione delle abitudini e del vissuto personale

connesse all’ospedalizzazione (la variazione degli orari dei pasti, l’uso

obbligatorio del pigiama, l’impossibilità di utilizzare spazi esclusivi, la

necessità di utilizzare elementi di arredo sconosciuti e così via).

Ancora, mostrare parti intime del proprio corpo o addirittura

sopportarne la manipolazione da parte di operatori sconosciuti per

l’esecuzione, ad esempio, dell’igiene intima o di prestazioni

terapeutiche/diagnostiche a livello genitale.

Quest’ultimo aspetto riveste per la persona anziana un’importanza

notevolissima, dato che il corpo viene vissuto spesso come una parte

inviolabile della propria vita; di qui la difesa talvolta ostinata della propria

intimità, del pudore.

38

Il complesso dei fattori sopra descritto esercita un’influenza

considerevole sulla dinamica della comunicazione, nel senso di una sua

involuzione, caratterizzata dal bisogno, oltre che da una ovvia qualità,

anche di una quantità maggiore di tempo ad essa dedicato, perché proprio

nel tempo della comunicazione l’anziano ottiene una risposta implicita al

suo bisogno di sicurezza.

Tutti i fenomeni fin qui descritti contribuiranno a determinare quella

regressione psicologica che si osserva frequentemente negli anziani

ospedalizzati e può caratterizzarsi con l’assunzione di comportamenti

infantili oppure attraverso la scarsa collaborazione con il personale

sanitario per l’esecuzione di alcune prestazioni: ad esempio la

somministrazione di terapie.

Da queste considerazioni si può comprendere come l’approccio

relazionale che l’infermiere adotta nei confronti della persona anziana

debba essere il più possibile personalizzato e, facendo ricorso alla

comunicazione verbale e non verbale, debba essere funzionale al

39

raggiungimento di un preciso obiettivo assistenziale: la risposta del bisogno

di assistenza infermieristica.

40

5. RELAZIONE D’AIUTO E COUNSELING

L’infermiere è una figura professionale di fondamentale importanza

nella gestione della relazione con il malato, per il ruolo di raccordo e di

meditazione con la figura medica e con l’azienda sanitaria.

Questa sua particolare posizione lo mette a contatto con l’intera

gamma dei sentimenti dei pazienti raramente espressi con le professionalità

mediche verso le quali vi è maggiormente un rapporto di subalternità e

comunque più centrato su aspetti clinici che relazionali.

Il principale ostacolo alla relazione con l’utenza è la carenza di

tempo da dedicare al comunicare con i pazienti.

La richiesta sempre più frequente rivolta all’infermiere riguarda il

rispetto del numero delle prestazioni da erogare, ossia “tempi e metodi” di

un’assistenza che sembra sempre più incompatibile con una relazione

assistenziale intesa in senso ampio.

41

Nel ritmo delle prestazioni, il malato rischia di essere “frantumato”,

percepito solo per le parti del suo corpo che necessitano di cura. Il malato si

trasforma nella sua diagnosi.

L’altro ostacolo ha a che fare con la scarsa adeguatezza dei luoghi in

cui si dovrebbe comunicare. Quanto detto sembra avere a che fare con la

fatica di poter garantire un setting adeguato all’incontro ed alla relazione

con l’altro.

E’ possibile conciliare una doverosa relazione d’aiuto con un

paziente sentito come “intero” con una pratica routinaria che avviene in

un’apparente assenza di setting, in luoghi poco idonei alla comunicazione

ed i cui tempi sono scanditi dalla durata della prestazione?

Stando ad un concetto classico di setting si direbbe che non è

possibile. Per la maggior parte dei professionisti che si dedica alla relazione

d’aiuto, appare scontato che questa si svolga in un luogo deputato allo

scopo, generalmente una stanza apposita, con delle sedia in una atmosfera

distesa in cui possa svilupparsi un clima che faciliti confidenza e

comunicazione.

42

La caratteristica, invece, che contraddistingue la relazione

infermieristica è spesso l’assenza della mancanza di un luogo deputato

all’incontro. La comunicazione infatti avviene ovunque: ambulatori, al letto

del paziente, in sala operatoria, ecc.

La relazione con il paziente accompagna qualsiasi attività routinaria:

talvolta rimane sullo sfondo, talvolta la travalica, ma rimane costantemente

presente.

Sembra possibile pensare ad uno spazio d’incontro con l’altro in cui

il tempo e il luogo siano dati dai tempi e dai luoghi della prestazione

infermieristica.

La competenza relazionale dell’infermiere influisce sul come stare

accanto al paziente secondo lo spazio ed il tempo che ha a disposizione.

Lo spazio relazionale tra infermiere e paziente può caratterizzarsi

oltre che per la tipologia di prestazioni sanitarie anche per competenze

relazionali specifiche. Le soluzioni ai problemi sarebbero:

- Gestione della relazione in contesti sfavorevoli: gestire la sala

d’attesa, stabilire un clima accogliente;

43

- Gestione della sofferenza emotiva: sostenere la dignità di chi soffre,

gestire situazioni ad alto livello di emotività, rispondere a domande

delicate;

- Aumento della motivazione e adesione al trattamento: informare il

paziente e i familiari, motivare il paziente al trattamento o all’abbandono di

comportamenti problematici.

Le diverse forme di aiuto relazionale sono:

- incontro d’aiuto occasionale (parenti, amici, relazioni quotidiane)

- relazione d’aiuto

- counseling

- psicoterapia

Relazione d’aiuto

Si ha una relazione di aiuto quando vi è un incontro fra due persone

di cui una si trova in condizioni di sofferenza/confusione/

conflitto/disabilità/malattia (rispetto a una determinata situazione o a un

44

determinato problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) ed

un’altra persona invece dotata di un grado “superiore” di

adattamento/competenze/abilità, rispetto a queste stesse situazioni o tipo di

problema.

Se fra queste due persone si riesce a stabilire un contatto (una

relazione) che sia effettivamente di aiuto allora è probabile che la persona

in difficoltà inizi qualche movimento di

maturazione/chiarificazione/miglioramento/apprendimento che la porti ad

avvicinarsi all’altra persona (assorbendone per così dire le qualità e le

competenze) o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al

proprio ambiente ed a proprie esigenze interne ed esterne.

Molte relazioni amicali, familiari, di vicinato, sono così relazioni di

aiuto, ma possono esserlo anche molte relazioni a carattere professionale

(infermiere-persona, medico-paziente, insegnante-studente, operatore-

cliente), oltre a quelle sviluppate da psicologi, psicoterapeuti, counselor.

L’aiuto può assumere varie forme: ascoltare, informare, insegnare,

essere vicini, non lasciare soli, condividere. Il professionista sanitario che

45

mette in atto una relazione di aiuto deve possedere la consapevolezza del

processo ed il controllo dello stesso, padroneggiando razionalmente

“abilità” che sono un tutt’uno con ciò che si è. Infatti, una preparazione

inadeguata dell’operatore determina l’incapacità di ascoltarsi e di ascoltare

l’altro, requisito indispensabile per realizzare un processo di ascolto

efficace. Alla luce di quanto esposto possiamo affermare che la pratica

della relazione di aiuto presuppone un faticoso focus personale centrato sul

sé, coniugato sull’acquisizione di abilità specifiche e di una complessa

padronanza tecnica.

Poiché l’efficacia del rapporto è strettamente connessa alla

reciprocità della relazione ed al soddisfacimento dei bisogni di entrambi i

soggetti (operatore e persona assistita), di aiutare e di essere aiutato,

analizziamo brevemente le teorie psicologiche del legame.

Se la comunicazione con il malato terminale è finalizzata

all’istaurarsi di una relazione d’aiuto, ossia alla crescita e all’attivazione

delle risorse personali del paziente, può essere un utile strumento per

aiutare la persona a vivere il più attivamente possibile la sua morte.

46

La relazione d’aiuto, infatti, ha come finalità quella di aiutare la

persona a riacquisire autonomia e autostima, per quanto le sue condizioni

lo permettano.

L’operatore deve ricordare, però, alcuni atteggiamenti indispensabili

per la comunicazione nella relazione d’aiuto:

- non confondere le nostre esigenze di operatività con le sue reali

necessità;

- entrare nell’universo soggettivo dell’altra persona pur conservando la

propria obiettività;

- evitare la contraddittorietà tra linguaggio verbale e non-verbale;

- accettare la persona per quello che è e farla sentire compresa;

- comunicare.

Il counseling

Il counseling in ambito sanitario è un processo di interazione fra due

persone di cui una è in difficoltà; è orientato a far prendere coscienza della

propria situazione così da poterla gestire; è un intervento che favorisce un

47

cambiamento; non fornisce suggerimenti o risposte specifiche, aiuta la

persona a trovare le sue soluzioni.

Il counseling può essere considerato come una relazione d’aiuto con

una connotazione educativa, come un modo nuovo ed efficace per

rispondere ai bisogni del malato terminale e per aiutarlo a maturare,

attraverso un processo relazionale, le scelte necessarie per mantenere la

qualità di vita.

L’operatore che utilizza la tecnica del counseling dovrebbe, infatti,

mediante le proprie capacità di empatia, accettazione incondizionata

dell’individualità del malato e autenticità, favorire la maturazione delle

condizioni interne che gli permettano di definire il problema e mobilitare le

risorse residue per affrontarlo e gestirlo; perché il malato deve rimanere

sempre l’attore principale del processo decisionale.

Nel caso del malato terminale il problema che si deve gestire è quello

della morte che si avvicina.

La dottoressa Elisabeth Kübler-Ross nel corso del suo lavoro accanto

ai morenti ha individuato cinque fasi che se adeguatamente superate

48

portano il malato ad accettare la morte e a vivere con serenità questo

importante evento.

Le fasi sono le seguenti:

- I fase: rifiuto e isolamento; la frase che più rappresenta questa fase è

quella che viene pronunciata dalla maggior parte dei malati dopo la

comunicazione della diagnosi: «No, non sono io, ci deve essere un errore».

Solitamente il rifiuto rappresenta una difesa temporanea che verrà presto

sostituita da una parziale accettazione.

- II fase: la collera; rabbia, invidia e risentimento prendono il

sopravvento sull’iniziale rifiuto e vengono proiettatati nei confronti di

familiari e operatori; le persone sane che circondano il malato e che

rappresentano tutto ciò che sta perdendo.

- III fase: venire a patti; come il bambino che non ottiene ciò che vuole

e prova ad usare delle strategie per accattivarsi i genitori e arrivare lo stesso

al suo scopo; così il malato in questa fase prova a “barattare” una buona

condotta con un desiderio che spesso è il prolungamento della vita.

49

- IV fase: la depressione; che può essere distinta in reattiva e

preparatoria. La prima è caratteristica del primo periodo di malattia,

quando il malato affronta interventi e terapie che causano invalidità e

perdite dell’integrità sia fisica che psicologica, ma lotta adottando strategie

diverse per superare queste difficoltà. La seconda è caratteristica

dell’ultima fase di malattia e permette alla persona adeguatamente aiutata

ad affrontarla di morire in uno stato di accettazione e di pace perché ha

potuto superare le angosce e l’ansietà.

- V fase: l’accettazione; se la depressione e la rabbia sono state

superate il malato è pronto per accettare il suo destino. Non è una fase

felice, ma un momento in cui la persona non prova più dolore, ha finito di

lottare e si riposa prima dell’ultimo viaggio.

L’operatore che vuole aiutare il paziente in questo difficile percorso,

deve conoscere la tecnica del counseling, i sentimenti che ogni fase porta

con sé, ma anche i suoi vissuti e i suoi sentimenti rispetto alla propria morte

per non correre il rischio di chiudersi in un atteggiamento difensivo.

50

Non dobbiamo dimenticare inoltre che il counseling si basa

sull’ascolto e l’empatia, questo significa che l’operatore deve riuscire a

cogliere tutte le peculiarità della persona che si trova di fronte cercando

d’immedesimarsi in questa senza mai perdere di vista il proprio “Io” per

non farsi sopraffare dai sentimenti di dolore e rabbia e non trasferire sul

malato i propri sentimenti e le proprie esigenze . L’operatore deve saper

leggere tra le righe per cogliere tutte le sfumature della comunicazione sia

verbale che non verbale. Per l’utilizzo di queste tecniche relazioni è

necessaria senza dubbio una predisposizione personale ed una disponibilità

nell’incontrare l’altro; ma è richiesto anche un cambiamento di mentalità e

l’acquisizione di nuove abilità.

“Siate come volontari in una spontanea RELAZIONE di AIUTO quando

aiutate, ma poi togliete l’aspetto pubblico e spettacolare dell’intervento e

fate sempre come se foste nello spazio privato e proprio della casa della

persona che aiutate: lo spazio per prendersi cura con professionalità, ma

che mai perde l’entusiasmo di chi lo fa per il semplice e disinteressato

amore e benessere dell’altro”.

51

6. IL CONTROLLO DEL DOLORE

Il malato terminale si caratterizza da qualsiasi altro tipo di paziente

per lo svilupparsi e l’aggravarsi di una particolare e complessa condizione

prodotta da un insieme di sofferenze strettamente interconnesse sebbene di

diversa origine che è stata definita DOLORE TOTALE, insieme di

DOLORE FISICO, PSICHICO, SOCIALE, E SPIRITUALE.

Per DOLORE FISICO si intendono tutti quei problemi che originano

dal corpo causati direttamente dall’azione della malattia o indirettamente

dalla terapia antineoplastica , dallo stato di cachessia, dalle necessità

assistenziali connesse alla perdita di funzioni fisiche.

Il deterioramento fisico nel paziente neoplastico è più marcato di

quello di altri pazienti affetti da sindromi dolorose croniche di natura non

maligna, a causa della maggior gravità dei disturbi del sonno, della perdita

dell’appetito, della nausea e del vomito.

Il DOLORE PSICHICO scaturisce dalla reazione che la psiche, l’io

di ciascun uomo, ha nei confronti del progredire della malattia e

52

dell’imminenza della morte. Questa sofferenza si esprime attraverso ansia,

aggressività, depressione, paura.

La soggettività dell’esperienza dolorosa che è infatti descritta come:

“…un’esperienza sensoriale ed emozionale…” , la svincola dalla stretta

dipendenza dallo stimolo che la provoca.

Esso subisce un processo di alterazione ed interpretazione, in

relazione all’organizzazione ideo-affettiva, e agli stili psico -

comportamentali di ogni individuo, acquisendo specifiche attribuzioni

soggettive e di significato.

La maniera in cui gli individui si adattano alla propria malattia e ai

trattamenti dipende dalla personalità, dallo stato emozionale precedente alla

malattia, dai valori, dalle attività, dalle relazioni e dai precedenti e attuali

eventi di vita.

I pazienti terminali sviluppano una più intensa reazione emotiva al

dolore, con sintomi quali ansia, depressione, ipocondria, somatizzazione,

nevrosi, dato che gli effetti del dolore si sovrappongono alle ripercussioni

emotive della malattia stessa.

53

Molti pazienti associano alla malattia sentimenti di dolore,

distruzione, menomazione e spesso di morte.

Sono preoccupati non solo dell’eventuale esito fatale della loro

malattia, ma anche della possibilità di andare incontro ad ulteriori

sofferenze, in special modo ad un grave dolore fisico, prima che la loro vita

abbia termine.

Il DOLORE SOCIALE, si manifesta con l’alterazione e la perdita dei

ruoli che normalmente la persona ricopre. La malattia stravolge

completamente tutto l’assetto familiare, lavorativo, determinando la perdita

dello status sociale e del benessere economico. Per molti pazienti il dolore

diviene il punto focale attorno al quale ruota la propria vita e quella dei

familiari.

Il fatto che la maggior parte dei pazienti con neoplasia in stadio

avanzato debba smettere di lavorare comporta una crisi non solo

economica, ma anche emotiva con sentimenti di dipendenza e di inutilità.

54

L’aspetto fisico e il comportamento del malato, dovuti alla

sofferenza, colpiscono emotivamente la famiglia; ciò viene percepito dal

paziente con il risultato che la sua condizione si aggrava ulteriormente.

Alcuni malati con dolore incoercibile si scoraggiano al punto di

meditare il suicidio.

La dimensione sociale viene coinvolta non solo per le modificazioni

che inevitabilmente può subire a causa della patologia di cui è affetta la

persona.

La testimonianza di una paziente dice: “…E’ la solitudine, il senso di

angoscia che ti prende quando senti gli altri parlare DEL DOLORE e non

CON IL DOLORE, parlano DEI fatti e non CON le persone…”.

Il paziente, in realtà, non vuole che si parli DEL dolore, ma CON il

dolore, ed il dolore diventa persona, diventa tutt’uno con il paziente.

L’infermiere, ma anche i familiari e gli amici, dialogheranno CON il

dolore tutte le volte che riusciranno ad entrare in relazione con il paziente.

Il DOLORE SPIRITUALE deriva dalla consapevolezza di

avvicinarsi alla fine, alla morte. Tutto ciò determina un profondo disagio,

55

(più o meno presente a seconda della persona) che conduce il più delle

volte alla crisi o al crollo di quei valori, sia religiosi che laici, alla base del

comportamento e delle scelte di vita del malato. Ciò che predomina nel

50/70% dei pazienti nella fase avanzata della malattia, è il dolore fisico,

esso stravolge l’identità materiale del soggetto e, se non sottoposto a cura,

anziché rafforzarne l’animo lo rende sempre più debole rispetto alla

sofferenza.

Esiste quindi nel paziente una dimensione spirituale dell’esistenza

umana, che si definisce come insieme delle esigenze che cercano un senso

alle domande radicali della vita umana.

In una condizione di sofferenza, l’uomo tende naturalmente al senso

finale del suo essere nel mondo. Sono fondamentali i tre filoni su cui viene

sperimentato il dolore spirituale, il passato, il presente, il futuro.

Per quanto riguarda il passato, il dolore chiede di ricordare, di dare

un significato che duri nel tempo agli eventi significativi nell’ambito della

propria storia, e che venga vissuto come messaggio – eredità per le

generazioni successive.

56

Il presente rappresenta la realtà più angosciante “…E’ oggi che mi

trovo così, non so perché, non so fino a quando…” Emergono rabbia contro

Dio, contro il personale sanitario, contro la società. Qui cresce il bisogno di

capire il perché, di dare un senso alla propria sofferenza.

Il futuro è la speranza, quella che si dice sia l’ultima a morire; il

convivere integrando nella propria vita l’esperienza del soffrire, della crisi,

della morte, dando un senso capace di durare nel tempo.

Che cosa è la sofferenza? E’ il dolore senza significato, senza

collocazione, senza spiegazione.

Cause del dolore

Il dolore nel paziente oncologico può riconoscere le seguenti cause:

- Varie patologie (tumori maligni ed eventuali metastasi);

- Complicanze della terapia antitumorale e antalgica (sindromi

dolorose postoperatorie, post-chemioterapia, post-radioterapia). Il dolore

post-chemioterapia, per esempio, può insorgere e manifestarsi con modalità

diverse a seconda del tipo e del dosaggio del farmaco chemioterapico

57

utilizzato e a seconda delle variabili costituzionali e soggettive di ogni

singola persona.

- Sindromi paraneoplastiche: si tratta di alterazioni fisiologiche e

biochimiche legate al tumore e/o associate alle malattie croniche già

presenti nel paziente. Tra queste si riconoscono dolore muscolare, l’artrite

reumatoide che causa dolore articolare e muscolare, e infezioni

infiammazioni come si verifica con le lesioni da decubito nei pazienti

allettati.

- Disturbi dolorosi non correlati alla patologia né alla terapia: artriti,

osteoporosi, emicrania.

Influenze sulla qualità di vita

Il paziente nella fase finale della sua malattia polarizza la sua

attenzione sul suo stato al quale né lui ne altri per il momento, hanno dato

una spiegazione. L’ansia iniziale diventa depressione. Il tempo non ha

passato ne futuro, ma soltanto un presente insopportabile e senza

58

significato. Quanto più il paziente si chiude in se stesso, tanto più il suo

dolore diventa insopportabile e intollerabile.

L’insieme delle tensioni e dei bisogni che la sofferenza e la morte

fanno esplodere non solo nel malato, ma anche tra i suoi familiari, è da

tener presente soprattutto in un ottica di qualità di MORTE almeno alla pari

con la qualità di VITA, cioè, la necessità di vedere salvaguardata la dignità

della persona durante tutte le fasi della malattia.

Responsabilità infermieristica nell’assistenza al paziente terminale con

dolore cronico

“Funzione specifica dell’infermiere è di assistere l’individuo, malato

o sano, ad eseguire quelle attività che contribuiscono a mantenere la salute,

ottenere la guarigione (o a prepararlo ad una morte serena) atti che

compirebbe da solo, senza aiuto se disponesse della forza, volontà, o delle

cognizioni necessarie, e di aiutarlo a riacquistare l’indipendenza più

rapidamente possibile”.

59

E’ proprio risalendo a questa famosa definizione di Virginia

Henderson che già emergono come campi d’azione specifici infermieristici,

non solo quello preventivo, curativo, riabilitativo, ma anche quello

palliativo.

L’obiettivo primario è quello di assistere la persona a recuperare e

mantenere il suo ruolo come membro della società. I programmi di

trattamento usano metodi che promuovono l’integrazione delle dimensioni

fisica, psicologica, sociale, spirituale della persona in relazione al dolore.

Il ruolo dell’infermiere nella cura del dolore è allo stesso tempo

indipendente e interdipendente.

Responsabilità indipendente: l’infermiere ha il compito di insegnare

al paziente come meglio autogestire il dolore e mantenere una funzionalità

ottimale.

Proprio in questo contesto viene massa in risalto la professione

infermieristica in relazione all’importante ruolo che investe soprattutto

nell’applicare una varietà di strategie gestionali (es. tecniche cognitive,

60

comportamentali, fisiche, gestione delle medicazioni) e nell’aiutare gli

individui nell’imparare ad usarle.

L’infermiere è responsabile nel riconoscere quella varietà di risposte

umane comportamentali che il paziente con dolore sceglie di sviluppare e

mettere in atto per il controllo dello stesso. La risposta comportamentale fa

parte della gestione del dolore del paziente.

Nell’ambito degli interventi infermieristici ad esempio il

comportamento posturale nel controllo del dolore, può essere incoraggiato

quando l’infermiere: documenta nel piano assistenziale la posizione

antalgica favorita dal paziente; insegna al paziente a spostarsi da quella

posizione solamente quando è necessario; aiuta il paziente a mantenere tale

posizione con cuscini e altri supporti medici.

Nel contesto ospedaliero la pianificazione ha un attuabilità diversa,

in quanto gli infermieri sono disponibili 24 ore su 24 e possono

monitorizzare continuamente sintomi e risposte di pazienti in trattamenti

antalgici e possono determinare se una tecnica è stata applicata

correttamente, se è efficace o ha bisogno di modifiche.

61

E’ fondamentale che si riesca a instaurare una positiva alleanza tra

paziente e infermiere, sia per un efficace accertamento, che spesso nei casi

di dolore, è difficile e scrupoloso a causa della soggettività propri di questa

esperienza, sia perché in questo modo si può riuscire a cogliere tutti quegli

aspetti riferiti dal paziente che permettono all’infermiere di accedere a

quell’ampia gamma di esperienze e comportamenti unici nel loro genere.

Responsabilità interdipendenti: Considerando il dolore nella sua

natura multidimensionale, esso richiede una varietà di operatori sanitari, tra

i quali infermieri, medici, terapisti fisici, psicologi, e la persona che è

affetta da dolore può essere aiutata solo da un sistema che funzioni

attraverso un approccio olistico e collaborativo. Quindi, un altro aspetto

dello specifico ruolo infermieristico nei confronti del problema dolore è

quello riguardante l’interdipendenza con le altre figure professionali

presenti nell’equipe che si occupa del paziente terminale con dolore.

L’infermiera ha due obiettivi importanti che caratterizzano la

professione stessa, specialmente all’interno di un equipe multidisciplinare.

62

Il primo prevede un contatto continuo con il paziente, ovvero

assistere il paziente all’ interno di un iter continuo che permette

all’operatore sanitario di non soffermarsi alla facciata che la persona malata

presenta al primo impatto, ma di andare più a fondo.

Il secondo obiettivo formativo è quello che mira a sviluppare un

determinato profilo nell’infermiera. Prendersi a cuore tutta la persona, va

dall’ostacolo empatico, al dialogo attento, al vero e proprio counseling fatto

da persone competenti. L’azione specifica dell’assistenza infermieristica

privilegia un attenta analisi dei bisogni assistenziali individuali, come tali,

maggiormente legati al vissuto personale del malato. Accanto al sapere, al

saper fare, il saper essere si pone come elemento fondamentale della prassi

infermieristica, che in questo si differenzia in maniera sostanziale da quella

medica.

63

Aspetti relazionali

Nella pratica infermieristica aiutare il paziente ad affrontare la

sofferenza cronica ha due versanti: uno di tipo assistenziale - sanitario,

l’altro di tipo umano.

Il primo versante comporta che la relazione di assistenza fra malato e

infermiere rispetti l’etica del lavoro ben fatto.

Quale dolore è lecito o doveroso trattare? E’ bene ricorrere subito

all’analgesico di fronte a qualunque banale doloretto? Chi stabilisce il

confine tra le varie entità di dolore? L’unico orientamento generale è

questo: va attuato ciò che realizza maggiormente il bene della persona e le

sue capacità di “essere per il bene”. L’obiettivo sarà quello di ridurre la

sofferenza intendendola come dolore globale. L’operatore sanitario ha

perciò la responsabilità professionale di agire secondo scienza e coscienza.

In questo contesto la conoscenza e la competenza nel mettere in

pratica la corretta procedura di terapia del dolore, diventa un atto di

giustizia nei confronti del paziente.

64

Non basta la scienza e la coscienza, ma bisogna far ricorso alla

sapienza. Occorre, cioè riscoprire, questa importante risorsa dell’uomo che

valutando con ponderatezza, serenità e fede nella vita, l’esistenza propria e

quella di un altro uomo, sappia operare di conseguenza le scelte più

opportune.

Tali decisioni la coinvolgono nel dibattito più ampio sul diritto del

malato a non soffrire inutilmente, e nel problema più specifico del corretto

uso degli analgesici quando essi mettono in questione la riduzione o

addirittura la soppressione dello stato di coscienza del paziente,

separandolo dalla possibilità di partecipare responsabilmente al proprio

progetto assistenziale.

A volte, il ricorso sistematico ai narcotici potrebbe essere sollecitato

dall’ansia di alleviare il disagio delle persone vicine al malato piuttosto che

da una valutazione oggettiva della sofferenza stessa del paziente.

Inoltre facendo sempre riferimento alla definizione della professione

infermieristica di V. Henderson, l’eticità del lavoro ben fatto, si svela anche

e soprattutto in relazione al fine specifico dell’assistenza: “…Aiutare il

65

paziente a acquistare il massimo stato di indipendenza e autonomia il più

rapidamente possibile.” In quest’ottica il dolore ed il suo trattamento

potrebbero essere considerati come fattori che maggiormente favoriscono

od ostacolano l’indipendenza del paziente.

Infatti nei pazienti con dolore sono fondamentalmente 4 i valori

(qualità) umane che vengono coinvolti: l’intelligenza, l’autostima, la

socialità, l’autonomia.

Il dolore è “disumanizzante”; mentre una malattia può distruggere il

corpo, il dolore distrugge l’anima. Infatti quanto più il dolore è grave ,

tanto più oscura l’intelligenza del paziente. E nello stesso codice

deontologico infermieristico questo aspetto viene messo ben in risalto: La

responsabilità dell’infermiere consiste nel CURARE e PRENDERSI

CURA della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e

dalla DIGNITA’ dell’individuo[…].

L’infermiere ASCOLTA, INFORMA, COINVOLGE la persona e

VALUTA con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il

66

livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le

proprie scelte.

La sofferenza non ha senso quando un grido d’aiuto non viene

ascoltato ed accolto, quando malgrado la possibilità tecnica di agire per

lenire il dolore, nulla viene fatto, o viene fatto male, quando manca

qualsiasi conforto, quando uno sguardo che cerca viene lasciato cadere o

evitato, quando viene negato un atteggiamento empatico nella relazione di

cura. La sofferenza non ha senso quando l’uomo è lasciato solo nello

smarrimento di un dolore…

Nel secondo versante la relazione infermiere/paziente rientra nella

situazione che l’operatore sanitario, in quanto uomo o donna, si trova a

vivere senza che esso si configuri come un dovere deontologico, ma

piuttosto sociale, umano, nel quadro della solidarietà alla quale ogni essere

umano è chiamato per la sua stessa natura.

In questo tipo di relazione si riescono a trasmettere volontariamente e

involontariamente, messaggi di tipo prettamente umano, come la

comprensione, la condivisione, la ricerca di senso, l’accettazione.

67

L’esperienza della sofferenza induce ad intraprendere un dialogo

interpersonale ad un livello molto più profondo di quanto normalmente

accade: proprio la necessità di comunicare ciò che appare incomunicabile

può spiegare e trovare risorse comunicative insospettate ed a intrecciare

legami di solidarietà molto più stabilmente fondati.

Un’esperienza condivisa da molti, è quella per cui, anche nei casi di

malattie terminale, una comunicazione reale e partecipata è in grado di

rendere vivibile la sofferenza.

La lotta contro il dolore, o se si preferisce, l’aiuto e l’assistenza

all’uomo che si trova nel dolore, non può ridursi alla somministrazione di

analgesici o di stupefacenti, oppure ad altri tipi di interventi esclusivamente

medici, perché questi possono solo calmare temporaneamente il dolore

fisico, ma non toccano la sofferenza interiore.

68

La valutazione del paziente con dolore

L’accertamento del dolore costituisce il primo passo per

comprendere in che modo lo percepisce il paziente, e rappresenta la

premessa per una positiva alleanza tra il paziente e l’infermiere. Il processo

di accertamento, nei casi di dolore, è difficile spesso molto scrupoloso, in

quanto il dolore comunica in modi diversi, avendo tuttavia come fattore

comune la sofferenza fisica dell’uomo.

Poiché l’esperienza del dolore è così altamente soggettiva,

l’infermiere deve essere un bravo esercente l’arte dell’accertamento. E “I

pazienti devono essere sottoposti ad una valutazione professionale non ad

un giudizio morale”

Il primo gradino da compiere nella valutazione del paziente con

dolore è quello della raccolta dei dati.

69

LA RACCOLTA DATI

Il modello per la raccolta dei dati varia a seconda del contesto clinico

in cui l’infermiere esercita.

Nei diversi contesti in cui l’infermiere può incontrare un paziente

con dolore, la raccolta dati diventa assai diversa proprio in relazione al

diverso tipo di approccio che si riesce ad instaurare. Qualunque sia lo

scenario di lavoro, si prendono in considerazione sia dati oggettivi che

soggettivi.

Il difficile compito di infondere fiducia nel paziente può essere

attuato in diversi modi; a tutti i pazienti si deve far sentire che la loro

individualità è riconosciuta e che il loro problema non è significativo solo

per loro, ma è un momento importante per il lavoro dell’operatore sanitario.

La raccolta dati all’interno di un processo valutativo - assistenziale, è

caratterizzata da tre tappe fondamentali: il colloquio, l’osservazione e

l’esame obiettivo.

70

L’OSSERVAZIONE E L’ESAME OBIETTIVO: L’osservazione è la

modalità che sta alla base di tutti i rapporti relazionali che instauriamo con

gli altri, ed è per questo valorizzata in un contesto sanitario di valutazione

del dolore.

Una buona comunicazione insieme ad una certa accortezza

nell’osservare, sono importanti per un efficace gestione del paziente.

La comunicazione non verbale è il modo attraverso il quale le

persone trasmettono informazioni su loro stessi agli altri tramite segnali

non verbali (linguaggio del corpo). E’ importante che il personale

infermieristico faccia attenzione al modo con cui i pazienti manifestano

segnali per indicare che hanno dolore.

Limiti o restrizioni nei movimenti, il controllo di parti del corpo,

posture anomale e cambiamenti nella statura sono dimostrazioni visive del

dolore per quanto riguarda gli atteggiamenti legati al movimento.

Per quanto riguarda la vista, possono essere riscontrati, l’aumento o

la diminuzione dell’ammiccamento degli occhi, le lacrime, espressioni

facciali, le smorfie, la tensione dei muscoli facciali.

71

Tra i segni verbali, il singhiozzare, il piangere, la compromissione

della fluidità della parola, i cambiamenti di tono.

Tra le emozioni più frequenti nel paziente con dolore sono presenti

rabbia, tristezza, cambiamenti dell’umore.

COLLOQUIO : E’ un importante metodo di valutazione e gestione del

paziente. E’ importante stabilire le aspettative del paziente non soltanto

direttamente correlate al dolore ma indirettamente riguardo ciò che gli

verrà fatto.

In questo contesto è la COMUNICAZIONE VERBALE che viene ad

assumere un ruolo prioritario sia per fornire informazioni ai pazienti, sia

per ottenere informazioni dal paziente.

E’ importante permettere al paziente di sapere cosa gli sta

succedendo in ogni momento (consenso informato), e sono sempre da

considerare i diritti etici del paziente.

Fanno parte di questa fase della raccolta dati sia l’intervista

anamnestica(condizioni fisiopatolologiche ed emotive del paziente) del

72

dolore sia l’esame delle caratteristiche del dolore (localizzazione, qualità,

intensità, periodicità e durata dell’esperienza remota del dolore).

Il trattamento del dolore

E' stato dimostrato che la terapia farmacologica può controllare

efficacemente il dolore almeno nel 90% dei casi.

Il trattamento del dolore cronico deve essere innanzi tutto

farmacologico: infatti il trattamento farmacologico è il primo e il più

importante dei mezzi attualmente a nostra disposizione per il controllo del

dolore; fintanto che il paziente è in preda a dolore non è possibile instaurare

una relazione interpersonale. Innanzi tutto “sedare il dolore”. Attualmente

per il trattamento farmacologico del dolore si seguono le linee guida

dell’OMS, il modello è conosciuto con il nome di “scala analgesica a tre

livelli”: oppioidi maggiori (+/- fans coadiuvanti), oppioidi minori (+/-

coadiuvanti), fans (+/- coaudivanti).

73

PROPRIETA’ EFFETTI TIPO DI DOLORE

EFFETTI COLLATERALI

VIE DI SOMMINI- STRAZ.

FANS Paracetamolo A.acetilsalicilico Diclofenac Ketoralac Noramidopirina

Analgesici Anti- infiammatori Antipiretici

Analgesia da “Effetto tetto”

-Acuto e/o cronico -Lieve, moderato -Metastasi ossee -infiamm. muscolo scheletri- che

-Incremento secrezioni gastriche -Allergie, -nefrotossicità, -diatesi emorragica

s.b., os, i.m., e.v., t.d., rettale

OPPIOIDI MINORI Buprenorfina Pentazocina Tramadololo Codeina Metadone

Analgesici non anti-infiammatori

Picco di circa 1 ora, durata dalle 3 alle 14 ore

Dolore cronico moderato o medio intenso

-Sedazione -Nausea -Vomito -Stipsi

s.b, os, i.m, e.v

OPPIOIDI MAGGIORI Morfina Fentanil

Analgesici non anti-infiammatori

Sul SNC, apparato gastrointe- stinale

Dolore di intensità grave

-Sedazione -sonnolenza -depressione respiratoria assuefazione dipendenza -nausea -vomito -stipsi

os, i.m, e.v, s.c, t.d, spinale, rettale

“Lottare attivamente contro la malattia, cercare innanzitutto di ritardare

la scadenza fatale, questo può corrispondere più al bisogno dell’infermiere

che all’aspettativa del malato. Vi sono dei casi, piuttosto numerosi, in cui il

problema primordiale, quello che viene in primo luogo, è di sollevare il

malato dal dolore.”

74

7. CURE PALLIATIVE

In Inghilterra intorno agli anni ’60 nasce un movimento definito delle

Cure Palliative o movimento Hospice.

La capostipite fu la dottoressa Cicely Saunders, che nel 1967 fondò

nei pressi di Londra il primo Hospice, chiamato St Christopher. Il suo

motto era “Curare quando non si può guarire”.

L’obiettivo consiste nel cercare di ottenere la migliore qualità di vita

possibile per i malati giudicati non più guaribili e nel sostenere queste

persone quando la morte si avvicina. Nel raggiungere tale obiettivo

l’attenzione è sempre posta sul paziente e sulla sua centralità nel processo

assistenziale, tenendo conto della sua autonomia decisionale e del mondo di

esperienze che porta con sé.

Le cure palliative sono erogate da un’equipe formata da diversi

professionisti, tra cui anche l’infermiere. La funzione di questo

professionista all’interno dell’equipe risulta essere centrale e fondamentale.

L’infermiere nell’ambito delle cure palliative è investito di maggiore

75

autonomia e responsabilità, perciò può esprimere al massimo le sue

capacità in termini “creativi” e di flessibilità, le sue conoscenze in un

rapporto paritario con le altre figure professionali.

Rifacendoci alla definizione di cure palliative, esse vengono intese

come l’insieme degli interventi medici, psicologici, sociali, messi in atto

nella fase terminale della malattia per il controllo e la gestione dei sintomi

propri della fase; devono comprendere l’elaborazione e la preparazione, nel

rispetto delle credenze del paziente, alla morte, devono tenere conto e

intervenire sulle esigenze psicologiche dei familiari nei periodi di crisi e di

elaborazione del lutto.

L’assistenza infermieristica nelle cure palliative, complicata dalla

fragilità fisica e psicologica dell’individuo terminale, diviene più

complessa in quanto si basa anche sull’utilizzo di operatori non

professionali, i familiari, che oltre ad essere impegnati dal punto di vista

tecnico sono coinvolti affettivamente, e quindi bisognosi essi stessi di

attenzione. L’assistenza al malato terminale necessita di un approccio

olistico che include: la comprensione del processo patologico, l’utilizzo di

76

interventi appropriati per alleviare la sofferenza fisica, l’esplorazione

“dell’unità” dell’individuo, una comprensione dei bisogni psicologici ed

emozionali della persona malata, il rispetto della persona e di tutti i membri

della famiglia.

Di fondamentale importanza, appare, la stretta collaborazione tra le

diverse figure che vengono ad operare nell’ambito nella medicina

palliativa: la creazione di un equipe multidisciplinare è il presupposto

essenziale affinché una unità operativa di cure palliative possa adempiere

agli obiettivi stessi che la medicina si prefigge di fronte questo tipo di

malati.

La più comune responsabilità della pratica infermieristica clinica

consiste nell’aiutare il medico a diagnosticare e a trattare le malattie

dell’uomo e pertanto a mantenere l’equilibrio e la stabilità nel sistema

biologico umano. La principale responsabilità infermieristica tuttavia

consiste nel diagnosticare e trattare le risposte umane a problemi sanitari

reali o potenziali e mantenere così l’equilibrio e la stabilità nel sistema

comportamentale umano.

77

Alla terapia farmacologica possono essere affiancate una serie di

Tecniche non Farmacologiche che possono aiutare la riduzione del dolore.

Effettuando una ricerca rispetto alle pubblicazioni sul trattamento non

farmacologico per la gestione, il controllo e l'alleviamento del dolore

cronico abbiamo cercato di valutare l'efficacia di tali interventi.

I metodi trattati sono:

- Terapia comportamentale

- Medicine complementari

- Relax

- Musicoterapia

- Immagine guidata

- Massaggio

- Tecniche di distrazione

- Tecniche di stimolazione cutanea

Le tecniche complementari sembrano produrre effetti sull'individuo

che promuovono i meccanismi di modulazione del dolore e riducono la

percezione dello stimolo nocivo; tale struttura teorica si basa sulla "teoria

78

del cancello" elaborata per la prima volta da Melzack e Wall nel corso degli

anni '50 e perfezionata nel 1965 e nel 1982 a seguito delle scoperte rispetto

alla struttura del sistema nervoso.

Tutti gli elementi indicano una ridotta eccitabilità del sistema

nervoso simpatico dovuta ad una ridotta sensibilità degli organi terminali

alla noradrenalina o ad una variazione del tasso delle catecolamine e delle

endorfine.

La teoria del cancello viene usata anche per spiegare l'efficacia del

massaggio sul dolore; gli effetti periferici della stimolazione tattile sono

l'aumento del flusso ematico, miglioramento del tono muscolare e

riduzione della tensione muscolare.

Le tecniche di distrazione possono agire sul dolore con effetti

nell'area cognitiva (aumentando il controllo, la distrazione o l'attenzione) o

riguardo l'affettività (migliorando l'umore ed il rilassamento e riducendo

l'ansia), favorendo la produzione di endorfine e i meccanismi endogeni di

riduzione del dolore.

79

L'applicazione delle tecniche sopra citate permette sicuramente di

poter interagire con il paziente come individuo nella sua totalità, di

utilizzare tutte le diverse capacità sensoriali del paziente per trasmettere

informazioni che permettano di elaborare l'esperienza del dolore

promuovere il rilassamento e la distrazione.

Fondamentale risulta il coinvolgimento del gruppo familiare o di

persone significative nell'addestramento all'uso di tali tecniche , sfruttando

così i principi di funzionamento del piccolo gruppo ed aiutare pazienti e

familiari ad individuare un ulteriore bisogno d'aiuto nel fronteggiare il

dolore.

“La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non

dunque una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina

per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte.”

80

8. LA FAMIGLIA DEL PAZIENTE

La fase terminale della malattia coinvolge profondamente ogni sfera

della vita del malato: e i suoi familiari sono indubbiamente le persone più

partecipi d’un simile dramma.

Trattare un paziente terminale vuol dire agire tutta una serie di

sistemi di relazione, affettivi e sociali.

La sofferenza del malato, la necessità di terapie continuative e di un

costante controllo medico, le limitazioni funzionali che possono arrivare ad

un grado estremo si riverberano spesso drammaticamente sui suoi familiari

e sul sistema di relazione della famiglia.

E’ indispensabile tenere conto delle relazioni della famiglia di fronte

a quell’avvenimento che è per ogni paziente la notizia che per lui non c’è

niente da fare; di conseguenza a questo si produce una differenza

nell’ambiente familiare tale da modificare tutte le variabili relazionali in

gioco. Questa differenza produce una riorganizzazione globale di tutta la

81

famiglia, estendendo così tutti i suoi effetti anche al rapporto

medico/paziente/famiglia/paziente.

Gli ultimi giorni di vita hanno un effetto destabilizzante su tutto

l’ambiente che circonda il paziente e segnala un cambiamento di stato cui

la famiglia risponde rivedendo i ruoli e le relazioni interne.

Nel momento in cui una persona diventa “malata terminale”, infatti,

l’organizzazione familiare è obbligata a raggiustarsi: il paziente

diagnosticato perde il suo ruolo di soggetto autonomo e indipendente per

diventare una persona di cui è necessario occuparsi; gli altri familiari

diventano responsabili della sua vita e della sua malattia; una gran parte

delle risorse emotive della famiglia devono essere utilizzate per affrontare

la nuova realtà; la famiglia stessa, rispetto alle istituzioni sanitarie e ai

medici, diventa dipendente e in posizione di soggezione; repentine

modifiche delle priorità della famiglia; modifiche della vita quotidiana e

dell’attività lavorativa; possibili difficoltà economiche indotte dalla

malattia; una visione del paziente verso la non guarigione.

82

E’ possibile ipotizzare comunque tre forme fondamentali di reazione

familiare:

- Negazione: in questo caso la famiglia continua a comportarsi come

se nulla stia per accadere. La gravità della situazione a volte viene

trascurata.

- Ipercoinvolgimento: tutte le routines e le abitudini della famiglia si

riorganizzano intorno all’imperativo di curare il soggetto malato, accudirlo

e ridurre la sofferenza. L’ansia di tutti i familiari raggiunge un livello molto

alto, massime sono le pressioni e le insistenze sui curanti e anche il

desiderio di terapie “magiche”.

- Di stanziamento: l’esistenza della situazione è accettata, ma la

presenza in casa del malato rifiutata. Le richieste di ricovero sono assidue:

il malato deve essere collocato fisicamente fuori della famiglia.

L’adattamento emotivo del paziente morente risulta fortemente

influenzato dalla risposta emotiva e dal comportamento dei familiari;

diversi fattori influenzano l’adattamento della famiglia alla malattia:

- lo “stadio di sviluppo” della famiglia;

83

- l’organizzazione familiare;

- la storia della famiglia e dei suoi singoli membri;

- le variabili culturali ed il supporto sociale.

Uno dei bisogni predominanti della famiglia concerne la necessità di

ricevere informazioni da parte del personale sanitario, sia per ridurre

l’impatto psico-sociale della situazione che per ridurre l’ansia e la

depressione della persona malata.

Un’altra fondamentale necessità della famiglia durante la fase

terminale della malattia è quella di sapere rispondere in modo adeguato ai

bisogni fisici del paziente, al fine di evitarne la sofferenza e garantirgli una

buona qualità degli ultimi giorni di vita.

Fornire un sostegno psicologico ai familiari del malato terminale

consente di conseguire un duplice risultato. Un tale lavoro, infatti, non è

fine a se stesso, dal momento che la famiglia può fungere da “tramite

terapeutico”. La famiglia va coinvolta nel problema. La comune emotività

va affrontata, va agita, possibilmente va risolta attraverso un processo per il

84

quale tutte le energie intrapsichiche vengono canalizzate verso obiettivi più

congrui rispetto alla situazione.

La famiglia deve essere ampiamente informata sulle modificazioni

che il corpo del paziente può subire direttamente prima e dopo il decesso.

Essi non devono essere sorpresi dalla respirazione irregolare, dalle

estremità fredde, dalla confusione, da un colorito purpureo della cute o

dalla sonnolenza nelle ultime ore. Gli ultimi momenti di vita possono avere

un effetto durevole sulla famiglia, sugli amici e su chiunque offra

assistenza al paziente. Il paziente deve stare in una zona pacifica, quieta e

fisicamente confortevole. L’infermiere in questi momenti ha il compito non

solo di stare vicino al paziente, ma anche alla famiglia, che deve essere

incoraggiata a mantenere il contatto fisico con il paziente, come tenergli le

mani. Se desiderato dal paziente e dalla famiglia, deve essere incoraggiata

la presenza di amici e di preti. Deve essere concesso un accomodamento

per i riti spirituali, culturali, etnici o personali del trapasso desiderati dal

paziente e dalla famiglia.

85

9. IL DECESSO DEL PAZIENTE IN REPARTO:

RUOLO DELL’INFERMIERE

Una volta avvenuto il decesso, se non è presente il medico,

l’infermiere provvede ad una prima constatazione rilevando i segni di

morte negativi, vale a dire cessazione del respiro, attività cardiaca (polso

carotideo, in quanto gli altri polsi non potrebbero essere attendibili) e

neuro-muscolare (riflesso pupillare: diminuzione o aumento del diametro

della pupilla mediante stimolazione luminosa; riflesso corneale: evocabile

toccando l’occhio che determina la chiusura delle palpebre).

Immediatamente l’infermiere dovrà chiamare il medico per la

constatazione legale di decesso (quella effettuata dall’infermiere non ha

valore legale).

Nell’attesa che arrivi il medico dovrà avere cura di:

- isolare la salma mediante paraventi o tendine se la stanza in cui si è

verificato il decesso è a più letti;

86

- preparare la cartella clinica e la modulistica necessaria (cartellini di

identificazione della salma, modulo di avviso di morte, modulo denuncia di

causa di morte e modulo ISTAT).

Il medico accerta la morte del paziente, registra la constatazione del

decesso sulla cartella clinica e firma la modulistica secondo la procedura

descritta più avanti. Non sempre è necessario l’utilizzo di apparecchiature

cliniche (ECG) per questa rilevazione.

Rapporti con i parenti

II Codice Deontologico specifica che "l'Infermiere sostiene i

familiari dell'assistito, in particolare nel momento della perdita e nella

elaborazione del lutto ".

Se i parenti sono presenti in reparto occorre assisterli e fornire loro

tutte le informazioni necessarie sulle procedure da seguire successivamente

al decesso (dove verrà trasportata la salma, orari della camera mortuaria,

adempimenti veri, ecc.). Se i parenti non sono presenti sarà cura

87

dell'infermiere avvisarli utilizzando il recapito telefonico precedentemente

comunicato.

Nel comunicare con i familiari occorre usare attenzione e delicatezza

per evitare di traumatizzarli.

Tutti gli oggetti personali ed i valori devono essere consegnati ai

parenti; qualora non siano presenti occorre redigere un verbale con l'elenco

e la descrizione degli oggetti di valore che deve essere sottoscritto dagli

infermieri di fumo e consegnato in copia, unitamente agli oggetti, al

personale incaricato alla custodia dei valori presente in ogni ospedale.

In caso di presenza di somme ingenti di denaro o di oggetti di grande

valore che potrebbero dar luogo a contenziosi relativi alla eredità del

defunto, è buona norma non consegnare nulla ai parenti presenti al

momento del decesso; la consegna va effettuata al personale addetto alla

custodia valori che poi provvederà alla restituzione degli oggetti ai parenti

nel rispetto della previsioni di legge.

88

Aspetti religiosi

Nel rispetto della libertà religiosa, occorre informarsi verificando

sulla cartella infermieristica la religione di appartenenza della persona

deceduta. Se è di religione cattolica si può provvedere, previo consenso dei

familiari se presenti, a chiamare il sacerdote per somministrare il

sacramento dell'unzione degli infermi. Detto sacramento andrebbe

somministrato quando la persona è ancora in vita ma, in caso di morte

improvvisa il sacerdote può comunque somministrarlo con riserva. Qualora

il deceduto sia appartenente ad altra religione occorre procedere secondo le

regole vigenti in ospedale.

Sistemazione della salma

Prima di provvedere alla sistemazione della salma occorre attendere

che i familiari (qualora non presenti) arrivino da casa: non è infatti

decoroso far trovare ai parenti il loro congiunto sistemato nel modo in cui

si predispone il trasporto in camera mortuaria.

89

Pertanto: se i parenti sono presenti si da loro la possibilità di

rimanere un po' di tempo accanto al deceduto prima di procedere alla

sistemazione della salma, mentre se i parenti devono arrivare da casa, si

dovrà attendere il loro arrivo.

Nel frattempo, sempre dopo la constatazione ufficiale del medico, si

provvede a togliere eventuali drenaggi, fleboclisi, cateteri, sondini, ecc. in

modo che all'arrivo dei parenti la salma sia nel letto, isolata con i paraventi,

con ancora il pigiama, con le palpebre abbassate e con il solo lenzuolo di

sopra alzato a coprire il capo. Il pacemaker, qualora fosse impiantato, non

va tolto.

La salma deve essere sistemata e trasportata in luogo idoneo per

l'osservazione nel più breve tempo possibile.

Se in reparto esiste un locale dedicato, la salma, dopo la visita dei

parenti, può essere isolata e preparata in detto locale, altrimenti la

preparazione avviene nella stanza di degenza dopodiché si effettua il

trasporto i camera mortuaria.

90

La preparazione della salma deve:

- garantire il massimo rispetto della persona deceduta;

- evitare la diffusione di infezioni ed eventuali intestazioni di parassiti;

- facilitare una rapida identificazione in camera mortuaria.

Materiale occorrente. Un carrello a due piani con:

- tre lenzuola

- un copriletto

- un asciugamano

- guanti monouso

- un catino

- due bacinelle reniformi grandi

- una brocca con acqua

- DPI (camice, mascherina, occhiali)

- Cartellini identificativi

- Scatolone per rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo

91

Tecnica (due infermieri):

- indossare i DPI necessari

- scoprire la salma

- spogliarla degli indumenti

- rinnovare le medicazioni in presenza di ferite secernenti

- lavare e asciugare rapidamente il corpo

- cambiare il lenzuolo di sotto del letto se non e pulito

- stendere un lenzuolo pulito sotto la salma

- coprire con una falda cotone o con un pannolone l'ano e il meato

urinario

- applicare un cartellino identificativo secondo le regole in uso

- avvolgere la salma con il lenzuolo lasciando scoperto solo il viso

- chiudere bene le palpebre

- non legare ne tamponare la salma

- coprire la salma con un lenzuolo pulito ed un copriletto

- applicare un secondo cartellino all'esterno

92

- arieggiare la stanza

- riordinare e disinfettare il materiale usato

- attendere il trasporto in camera mortuaria

- unitamente alla salma va inviata in camera mortuaria la fotocopia del

frontespizio della cartella clinica su cui è evidenziata la firma del medico di

reparto, la non richiesta di riscontro diagnostico, i dati anagrafici e l'ora

esatta del decesso.

Altri compiti dell’infermiere

Dopo il decesso occorre ricordarsi di:

- la caposala deve consegnare non prima di 15 ore e non dopo le 30

ore dal decesso la documentazione, comprensiva di cartella clinica e

modello ISTAT alla Direzione Sanitaria dei Presidi Ospedalieri;

- togliere la cartella infermieristica dopo aver effettuato le registrazioni

di competenza;

- togliere tutta la documentazione clinica del paziente

93

- cancellare la terapia o togliere il foglio dal registro

- cancellare il nome dall'elenco

- verificare che sia gettata la terapia eventualmente già predisposta per

il paziente deceduto

- inviare il Direzione sanitaria la comunicazione di avvenuta morte nel

rispetto della legge sugli espianti.

Il medico di reparto deve (se la causa di morte è nota): annotare in cartella

clinica l'ora e la constatazione dell'avvenuto decesso e controllare i dati

anagrafici.

Il personale ota e ausiliario deve: trasferire la salma dal letto di

reparto alla lettiga dedicata al trasporto (tale manovra sarà eseguita con la

dovuta attenzione soprattutto nel porre il corpo con il capo nella giusta

parte della lettiga); durante il trasporto, l'operatore non dovrà mai, per alcun

motivo, lasciare incustodita la lettiga.

Il personale della camera mortuaria deve: trascrivere sul registro

ufficiale del Servizio i dati identificativi della salma presenti sul cartellino

identificativo o compilalo dagli operatori del reparto di provenienza;

94

comporre la salma nella sala di osservazione; accertarsi che la salma sia

stata composta in modo tale da non ostacolare eventuali manifestazioni di

vita; collegare gli avvisatori acustici alla salma; predisporre la modulistica

necessaria al medico necroscopo per i successivi atti medico-legali avendo

cura di controllare attentamente i dati anagrafici del defunto; vigilare

l'integrità della salma fino alla consegna alla ditta incaricata del trasporto.

Osservazione della salma

Il periodo di osservazione dura di norma 24 ore, ai sensi dell'art. 8

del Regolamento di Polizia Mortuaria approvato con DPR 285/90; "durante

detto periodo il corpo deve essere posto in condizioni tali che non

ostacolino eventuali manifestazioni di vita ".

Per questo motivo, la persona deceduta deve essere posta in un locale

riscaldato, non deve essere tamponato nella cavità orale, non deve avere

mani e piedi legati, non deve essere applicata la fionda per la chiusura del

mento. Deve essere messo in condizione di poter chiedere aiuto in caso di

risveglio da morte apparente.

95

La certezza della morte si ottiene durante il periodo di osservazione

mediante l'osservazione delle note tanatologiche che sono: rigor mortis,

raffreddamento del corpo e chiazze ipostatiche.

La rigidità cadaverica si manifesta dopo 2-3 ore dal decesso,

scompare progressivamente entro 24/36 ore.

La temperatura del corpo si abbassa di un grado l'ora fino ad

uniformarsi alla temperatura esterna, su valori sicuramente non compatibili

con la vita (>25°).

Le ipostasi cadaveriche sono chiazze bluastre che non scompaiono

alla digitopressione; esse si formano nelle zone declivi a causa del

rallentamento o della cessazione dell'attività circolatoria. Esse indicano la

posizione che il corpo aveva nel momento del decesso, per questo sono

importanti anche in medicina legale.

Va tenuto presente, peraltro, che tali segni di morte non sono

assolutamente, tassativamente certi perché un spiccata diminuzione della

temperatura corporea può aversi in occasione di assideramento, si hanno

96

rigidità anche su base catatonica e quindi per fenomeni non mortali, un

accenno di ipostasi può verificarsi negli agonizzanti, in soggetti con

spiccato rallentamento dell'attività circolatoria.

L'unico segno di morte assolutamente certa, rilevabile con i comuni

mezzi semeiologici, è costituito dalla colorazione verdastra in fossa iliaca

destra (la cosiddetta macchia verde putrefattiva) che compare

inizialmente in questa sede, poiché la cute addominale è a stretto contatto

con il cieco normalmente assai ricco di germi che rapidamente si

sviluppano, producono idrogeno solforato che trasforma l'emoglobina in

solfo-meta-emoglobina, da cui la colorazione verdastra. Raramente però

questo segno si manifesta nelle prime 24 ore.

Il personale della direzione sanitaria deve: presentare al Direttore

sanitario dei presidi ospedalieri la scheda ISTAT e l'avviso di morte di

morte per la visione e la firma; fare una fotocopia dell'avviso di morte e

conservarla presso gli uffici della direzione sanitaria; consegnare all'ufficio

dell'anagrafe del Comune di Roma la scheda ISTAT e l'avviso di morte;

provvedere alla trasmissione al Settore di medicina legale della ASL del

97

certificato necroscopico in copia per gli adempimenti conseguenti di quel

settore.

Esposizione della salma

L'esposizione della salma avviene generalmente in un locale idoneo

attiguo alla camera mortuaria. La sistemazione del corpo prima della

esposizione è a cura dell'agenzia funebre incaricata dai familiari del

defunto. Per questo motivo occorre dare loro informazioni corrette al fine

di far portare abiti o altri indumenti utili per la composizione della salma

non presso il reparto, bensì direttamente in camera mortuaria.

98

10. LA MORTE NEL CODICE DEONTOLOGICO

DELL’INFERMIERE

“Noi sani, noi vivi, possiamo solo immaginare come ci si sente in quel

momento, ma non possiamo cogliere tutte le sfumature di chi vuol

ricordare, fare consuntivi, cullare speranze, provare amore in vista

dell'esame finale più importante, preparare la difesa per il processo più

temuto.”

La malattia inguaribile e la morte rappresentano una situazione

sconosciuta, che mette in crisi anche il personale sanitario più esperto che

quotidianamente si confronta con il limite della sua conoscenza e del suo

ruolo.

Di fronte a questo evento nulla vale la scienza, la tecnologia più

avanzata, i farmaci più efficaci; il personale sanitario vive la morte come

una sconfitta, un affronto, una situazione da dimenticare o da negare.

99

Nella società moderna la morte è vissuta come un avvenimento che

ostacola il normale iter delle cose; l'uomo non è né preparato né educato a

considerare la morte come naturalmente legata al ciclo della vita, ciò in

quanto l’esistenza è improntata sul mito dell'eterna giovinezza e sul culto

del benessere e non si accetta che l'una e l'altro possano essere sconfitti

dalla morte.

L'individuo, a livello inconscio, non crede di morire poiché

quest'evento non gli appartiene, non l'ha mai sperimentato e pertanto tende

a negare la propria morte e ad accertare con difficoltà e con distacco quella

degli altri.

Chi sta morendo ha diritto:

- Ad essere considerato persona sino alla morte;

- Ad essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole;

- A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere;

- A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua

volontà;

- Al sollievo del dolore e della sofferenza;

100

- A cure ed assistenza continue nell'ambiente desiderato;

- A non subire interventi che prolunghino il morire;

- Ad esprimere le sue emozioni;

- All'aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e

la sua fede;

- Alla vicinanza dei suoi cari;

- A non morire nell'isolamento e in solitudine;

- A morire in pace e con dignità.

Noi possiamo fare molto per recuperare il senso più autentico della

morte poiché, in quanto l’infermieri, ha la responsabilità di "prendesi cura

della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della

dignità dell'individuo" (Codice Deontologico dell’Infermiere, Federazione

Nazionale Collegi IP.AS.VI. 1999) e pertanto dobbiamo sostanziare con

atti concreti i diritti dei morenti. Questo non solo per compito istituzionale

ma per profonda convinzione etico-deontologica.

101

A questo proposito il punto 4.15 del Codice Deontologico così si

esprime:

“L’infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione

clinica e fino al termine della vita, riconoscendo l’importanza del

conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale.

L’infermiere tutela il diritto a porre dei limiti a d eccessi diagnostici e

terapeutici non coerenti con la concezione di qualità della vita

dell’assistito.”

“…Quando la sfida medica vacilla di fronte all’inevitabilità della morte

allora il moribondo subisce un triplice isolamento: spaziale (lo si colloca

in disparte o lo si nasconde dietro un paravento), temporale (si risponde

con minor premura alle sue chiamate), relazionale (la persona che si

occupa di lui è sempre meno altolocata nella gerarchia delle mansioni

mediche….”

102

Riprendiamo ora il punto 4.15 del Codice deontologico e parliamo del:

Conforto ambientale

In Ospedale esistono spazi dedicati ed attrezzati per garantire al

paziente le più moderne terapie, locali adibiti a camere da letto per le

partorienti create per demedicalizzare l’evento fisiologico della nascita.

Se la morte fa parte del ciclo della vita, e quindi è un evento naturale

come la nascita, è necessario individuare nelle nostre corsie ambienti

confortevoli, silenziosi e capaci di ricreare il più possibile il clima di casa

consentendo ai familiari di stare vicino e sostenere il loro caro sino alla

fine, senza limitazioni di orario e di accudimento. Risulta essenziale dar

loro la possibilità di alimentarlo, lavarlo, sistemargli i cuscini, di compiere

cioè atti semplici che rappresentano occasioni di comunicazione affettiva

con il loro caro.

103

Conforto fisico

Molto può essere fatto anche sul piano della sofferenza fisica.

Occorre un’alleanza tra il Medico e l’infermiere perché venga concordato

un programma terapeutico-assistenziale capace di alleviare e risparmiare al

paziente e ai familiari inutili sofferenza in vista di una morte dignitosa.

Vale ricordare quanto disposto dall’articolo 37 del Codice di deontologia

medica:

“In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenuti alla

fase terminale, il Medico deve limitare la sua opera all’assistenza

morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al

malto i trattamenti appropriati a tutela, per quant o possibile, della

qualità della vita”

Inoltre l’entrata in vigore della legge n. 39 del 26 Febbraio 1999

sulla terapia del dolore ha adeguato il quadro normativo alle reali esigenze

della medicina palliativa che deve essere intesa come “un processo

terapeutico finalizzato non solo al controllo dei sintomi, ma soprattutto alla

104

difesa e al recupero della migliore qualità di vita possibile, mediante

interventi che coinvolgono anche la sfera psicologica, spirituale e sociale”

Conforto psicologico-relazionale

Più facile a dirsi che a farsi proprio perché saper instaurare,

affrontare e mantenere un adeguato rapporto con il morente e con la sua

famiglia non è facile per nessuno. Occorre saper instaurare una relazione di

aiuto “singolare” che, oltre a basarsi sul rapporto empatico, sull’ascolto

attivo, sulla comprensione e sulla solidarietà, deve possedere “quel certo

non so che”, ogni volta diverso perché legato all’unicità e irripetibilità della

persona assistita, volto ad aiutarla ad affrontare una “morte serena e

dignitosa”.

105

Conforto spirituale

Consideriamo ora l’atteggiamento da assumere nella soddisfazione

del bisogno spirituale. Adesso come non mai la nostra società è divenuta

multietnica e multiculturale e il bisogno spirituale delle persone ha assunto

dimensioni sino ad ora quasi sconosciute.

E’ compito specifico dell’infermiere assicurare, nel rispetto della

volontà della persona, la presenza del Ministro del culto quando il morente

è ancora in condizioni di comprendere e trarre conforto dall’aiuto che

riceve: ha poco significato chiamare il religioso quando il paziente sta

esalando l’ultimo respiro, questo serve solo a tacitare le coscienze dei vivi.

Il dovere dell’Infermiere di tutelare il diritto a porre limiti ad eccessi

diagnostici e terapeutici incoerenti con la qualità della vita dell’ assistito è

strettamente legato al dovere del Medico di astenersi dall’ostinazione in

trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la

salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita (Art. 14).

L’alleanza Medico - Infermiere è dunque fondamentale per

assumersi la responsabilità del prendersi cura e garantire che al paziente

106

vengano praticate le normali cure del caso senza peraltro sottoporlo a

trattamenti non più adeguati alla reale situazione perché ormai

sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo

gravosi per lui e per la sua famiglia.

Il tema della responsabilità dell’Infermiere nell’era tecnologica è

stato affrontato anche nell’ultimo Congresso Nazionale IP.AS.VI. svoltosi

a Roma dal 19 al 21 Settembre scorso.

Il punto 1.3 del Codice Deontologico cita:

“La responsabilità dell’Infermiere consiste nel curare e nel prendersi

cura della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e

della dignità dell’individuo.”

“L’infermiere, nell’aiutare e sostenere la persona nelle scelte

terapeutiche, garantisce le informazioni relative al piano di assistenza

ed adegua il livello di comunicazione alla capacità del paziente di

comprendere. Si adopera affinché la persona disponga di informazioni

107

globali e non solo cliniche e ne riconosce il diritto alla scelta di non

essere informato.” (Punto 4.5 del Codice Deontologico)

Anche questo è un altro momento difficile da affrontare e gestire nel

processo del prendersi cura poiché è indispensabile riuscire a capire se dire

o meno la verità al paziente destinato a morte sicura.

L’Infermiere è combattuto tra la “paura di non saper gestire reazioni

eccessive ed inconsulte e la contraddittorietà di rassicurare un paziente che

egli osserva con impotenza spengersi lentamente ed inesorabilmente.”

108

CONCLUSIONI

Si parla sempre più spesso, da qualche tempo, di diritti dei malati

terminali. Vocaboli quali accanimento terapeutico, living will, sostegno

vitale, eutanasia, scelte di fine vita, biocard, sono ormai ricorrenti sulle

pagine dei quotidiani. E il discorso non tocca solo episodi di malasanità o

passaggi di cronaca giudiziaria; quasi giornalmente medici, filosofi e

politici si confrontano, anche nel nostro Paese, su un tema fin a pochi anni

fa giudicato scabroso, rimosso un po’ da tutti: la condizione

giuridico/sanitaria di chi sta per morire.

Alla diffusione di questi argomenti ha contribuito, da un lato,

l’invecchiamento progressivo della popolazione, con il moltiplicarsi di

patologie legate all’età avanzata; dall’altro lato, la frequente trasformazione

in situazioni croniche di malattie che, nel passato, consumavano

repentinamente chi ne era affetto (si pensi ai progressi scientifici nelle cure

oncologiche).

109

Risulta sempre più evidente come la qualità della vita di coloro che

hanno pochi mesi innanzi a sé sia un affare dell’intera comunità, non

ristretta al personale ospedaliero o ai famigliari dell’infermo.

Una fiammella umana che si spegne è pur sempre un vita, una fase

(l’ultima) dell’esistenza di ciascuno. Prepararsi alla morte nel rispetto della

propria dignità, dei propri affetti, della propria visione del mondo; ecco ciò

che, più di qualsiasi altra cosa sulla terra, può desiderare ognuno di noi,

quando pensa a momenti del genere. Se così è, sembra difficile negare

come il patimento e i malesseri psico-fisici, che caratterizzano tanto spesso

la condizione del malato terminale, andrebbero presi in seria

considerazione e rintuzzati/prevenuti dalla società, utilizzando a tal fine

qualsiasi strumento la moderna medicina possa offrire.

La morte ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti

più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché

intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non

finire, non è traducibile in alcuna esperienza.

110

Ai fini di un'esperienza di vita è, in tal senso, molto più importante il

dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi

può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva.

Il dolore ci fortifica, la morte ci distrugge o, se vogliamo, ci libera

dal peso di un dolore insopportabile, vero o immaginario che sia, sempre

che la morte sia per così dire "naturale" e non ci colga di sorpresa. Noi

possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura

proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita. Il motivo per

cui non riusciamo ad accettare la morte è dovuto al fatto che per istinto

rifiutiamo l'idea che ci venga a mancare una persona amata. Ma una vita

che abbia condotto un'esistenza normale, di regola avverte la morte come

un fenomeno naturale, che pone fine a una vita che si sta logorando. E'

proprio la consapevolezza di veder deperire fisicamente il corpo che induce

a vedere la morte come una soluzione liberatoria. Anzi, si potrebbe dire che

si avverte la fine come prossima quando la vita in generale, il suo

trascorrere nel tempo, le forme in cui essa si manifesta non risultano più

111

idonee a proseguirla e vengono in sostanza percepite, o meglio, sentite,

come un peso insopportabile.

Il corpo è un involucro soggetto a decomporsi: quando si comincia

ad avere consapevolezza di questo, si comincia anche a desiderare di vivere

una nuova condizione. Questo processo evolutivo può essere

tranquillamente applicato alla storia di tutte le civiltà. E' proprio il concetto

di tempo, la percezione del suo trascorrere, che ci mette in condizioni di

comprendere se determinate forme di esistenza possono essere considerate

irreversibilmente superate o no. Non si può attribuire alla morte un

significato più grande di quello che si deve attribuire alla vita, appunto

perché della morte noi non possiamo avere alcuna vera esperienza.

“Chi seppe farsi amare non muore interamente lascia la sua memoria

come alle notti la stella lascia un bianco lucor che nessuna ombra invola e,

morto nella sua bara, rivive dentro ai cuori No….tutto non è perduto”

112

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