Aspetti psicologici della gravidanza e della genitorialità...
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Aspetti psicologici della gravidanza e della genitorialità Pivetti Monica
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Introduzione Come ben sa chi ha figli, la nascita del primo figlio
2 è un evento cruciale per la vita dell’uomo e
della donna3, sia negli aspetti più concreti che in quelli psicologici, e diventa uno spartiacque tra il
prima e il dopo la nascita (Binda e Rosnati, 1997). Dal punto di vista psicologico, molti autori
concordano nel ritenere il divenire genitori non tanto il momento in cui si concepisce o si mette al
mondo un bambino, bensì il periodo più o meno lungo di “transizione alla genitorialità”. Questa
transizione prende origine dalla storia personale di ciascuno, dal contesto familiare in cui ognuno è
inserito e dalle aspettative che la società ha nei confronti dei ruoli genitoriali (Cristallo e Scamperle,
2006).
Nella società odierna, avere un figlio è sempre più spesso frutto di una scelta volontaria per effetto
dell’ampia diffusione della contraccezione. Inoltre, molto spesso tale evento è spostato in avanti
nella vita degli individui e delle coppie, sia per effetto della crescente scolarizzazione e presenza nel
mercato lavorativo delle donne, sia per effetto del gioco dell’attesa di una situazione di coppia o di
una situazione lavorativa o abitativa più adeguata.
Se accolta generalmente in un clima di festa, la nascita di un figlio rappresenta un momento critico
per la coppia e per la famiglia tutta, che necessita una riorganizzazione importante della quotidianità
e del funzionamento della famiglia. Spesso l’evento va aldilà delle aspettative che nel tempo i
membri della coppia si sono costruiti a riguardo e forse per questa sua potenzialità innovativa è
temuto da alcune coppie.
Inoltre la nascita di un figlio ristruttura i ruoli presenti all’interno della famiglia, dove chi era figlio
(i membri della coppia) si trova improvvisamente genitori e chi era genitore diventa nonno. In
questi legami familiari, il rapporto con il figlio diventa un rapporto di “dono”, nel quale il figlio si
trova in una situazione di “debito” fin dalla nascita che dovrà a un certo punto estinguere, mettendo
al mondo a sua volta un figlio e facendosene carico (oltre che accudire la generazione precedente, in
caso di necessità) (Boszormenyi-Nagy e Spark, 1973; Godbout, 1992).
1. Il divenire genitori
Più ancora del trasferirsi fuori della casa materna e del rito del matrimonio, l’avere un figlio è
considerato un evento critico nella transizione allo status adulto. Rispetto a se stesso, l’individuo ha
il compito psicologico di ridefinire la propria identità personale e di acquisire una nuova relazione,
quella con il proprio primogenito. Secondo Erikson (1984), i membri della coppia sviluppano la
capacità “di prendersi cura” della generazione successiva, in un’assunzione di responsabilità che è
virtù tipicamente adulta. Secondo la rassegna condotta da Binda e Rosnati (1997), rispetto al
primogenito, lo stile di parenting, ossia quell’insieme di comportamenti che la coppia adotta più o
meno consapevolmente con i propri figli, è influenzato da:
- le esperienze che ciascun membro della coppia ha vissuto nella propria infanzia; in
particolare, Bowlby (1999; 2000) e Ainsworth (2006) parlano di legami di attaccamento per
descrivere la relazione specifica e stabile, che si instaura tra il bambino e il caregiver
(generalmente la madre ma può essere anche un’altra figura adulta), sulla base degli scambi
interattivi che si svolgono tra loro, al fine di garantire il benessere dell’individuo e la
protezione dai pericoli4. Alcuni recenti studi sulla trasmissione intergenerazionale di questi
1 Monica Pivetti Ricercatore Universitario presso Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, Chieti
2 Per brevità espositiva, nello scritto si parlerà di “primogenito” o “figlio”, intendendo sia il primogenito (maschio) che
la primogenita (femmina). 3 Sebbene con il termine “famiglia” ci si riferisca a una pluralità di progetti di vita come le coppie omosessuali, le
famiglie adottive, eccetera (Fruggeri, 1998), in questo scritto ci riferiremo alla coppia eterosessuale che ha un figlio
biologico. 4 Attraverso numerose ricerche osservazionali, Bowlby e Ainsworth hanno definito 4 tipologie di attaccamento che
legano la madre (o la figura principale di accudimento) e il bambino: (1) Stile "Sicuro": il bambino esplora l'ambiente e
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stili di attaccamento hanno evidenziato una forte correlazione tra esperienze vissute dai
genitori nell’infanzia e legami che essi instaurano a loro volta con i figli, ossia una tendenza
degli individui a riproporre con i propri figli le stesse esperienze vissute nella propria
infanzia e quindi copiare lo stesso stile di attaccamento (Main e collaboratori, 1993).
Certamente, cambiamenti negli stili di attaccamento possono avvenire attraverso
l’esperienza con altre relazioni adulte non congruenti con i modelli acquisiti nell’infanzia
oppure attraverso esperienze emotive particolarmente forti.
- gli stili di parenting adottati dalla coppia: per esempio Simons e collaboratori (1990; 1993)
distinguono 3 tipi di parenting: (1) constructive parenting, ossia il mettere in atto pratiche
educative che attraverso un’interazione frequente e stimolante per il bambino favorisce il
suo sviluppo fisico, psichico e sociale; (2) destructive parenting, ossia il mettere in atto
pratiche orientate alla coercizione e all’obbedienza al fine di instaurare una disciplina; (3)
supportive parenting, ossia comportamenti di sostegno reciproco tra genitori
nell’accudimento dei figli e nel grande coinvolgimento affettivo e nell’utilizzo di metodi
“soft” per ottenere disciplina.
- l’orientamento valoriale dei genitori; per esempio Luster e collaboratori (1989) hanno
osservato che le madri che considerano un valore fondamentale l’autodeterminazione,
tendono a comportarsi in modo da sostenere le iniziative del proprio bambino, mentre le
madri che ritengono più importante il conformarsi alle norme sociali tendono a rinforzare
l’obbedienza alle regole.
- il livello di soddisfazione coniugale: infatti le coppie soddisfatte del loro matrimonio
tendono ad attuare uno stile di parenting costruttivo (Simons, 1990, 1993).
- le attese sociali nei confronti dei ruoli genitoriali; infatti seppure la presenza delle donne sul
mondo del lavoro sia andata crescendo, richiedendo un maggior coinvolgimento degli
uomini nei lavori domestici e nella cura dei figli, con la nascita del primo figlio si osserva
spesso una tradizionalizzazione dei ruoli (La Rossa e La Rossa, 1981), che attribuisce alla
donna il lavoro domestico e di accudimento dei figli. In particolare, le attese sociali riguardo
il lavoro educativo delle madri le caratterizza come progettatrici scientifiche dell’educazione
del figlio, richiedendo alla donna crescente tempo, energie e competenze specifiche di
puericultura e sviluppo cognitivo del bambino (DeSingly, 1994).
Il conciliare tempo di lavoro e tempo della famiglia (Bramanti e Rossi, 1991) e il lavoro psicologico
di assunzione del ruolo materno mettono spesso la donna in una situazione di fragilità psicologica.
Per molte donne, le aspettative riguardo alla vita familiare nel dopo parto, spesso idealizzate, si
scontrano con il carico concreto di lavoro legato alle continue richieste di cura del neonato, con i
cambiamenti nella relazione coniugale e con la significativa riduzione nei rapporti sociali
(Tammentie et al., 2004).
La figura paterna è contraddistinta tra una certa asincronia tra le pressioni sociali e il
comportamento quotidiano: se da una lato ci si aspetta una progressiva interscambiabilità dei ruoli,
molto spesso nel quotidiano il padre è di supporto alla figura materna, nell’ambito di una divisione
sbilanciata del lavoro di cura della casa e di accudimento del figlio verso la madre. Inoltre, spesso i
ruoli vengono rinegoziati all’interno della coppia: se era stato trovato un equilibrio sulla
distribuzione dei compiti domestici prima della nascita del figlio, tale evento lo rimette in
discussione, a causa proprio della stessa natura biologica dei ruoli che, per esempio, consente solo
alla madre l’allattamento della prole.
Riguardo al rientro al lavoro dopo la maternità, Shuster (1983) ha osservato 4 modi principali in cui
le donne riescono a combinare gli impegni familiari con quelli lavorativi, anche in relazione alla
gioca sotto lo sguardo vigile della madre con cui interagisce. Quando la madre esce e rimane con lo sconosciuto il
bambino è visibilmente turbato. Al ritorno della madre si tranquillizza e si lascia consolare; (2) Stile "Insicuro Evitante":
il bambino esplora l'ambiente ignorando la madre, è indifferente alla sua uscita e non si lascia avvicinare al suo ritorno;
(3) Stile "Insicuro Ambivalente": il bambino ha comportamenti contraddittori nei confronti della madre, a tratti la
ignora, a tratti cerca il contatto. Quando la madre se ne va e poi ritorna risulta inconsolabile; (4) Stile "Disorganizzato":
il bambino mette in atto dei comportamenti stereotipici, ed è sorpreso/stupefatto quando la madre si allontana.
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tendenza ad affidare la cura del bambino ad altre figure: (1) le madri “innamorate” si considerano le
più competenti nella cura del figlio, tornano poco volentieri al lavoro e bilanciano bene rientro al
lavoro e accudimento affettuoso del figlio; (2) le madri “manager” che ripongono grande fiducia
nelle persone alle quali affidano il figlio ritenendole validi aiuti nella crescita del figlio, e riescono a
ricoprire i due ruoli con successo; (3) le madri “angosciate” che ritengono che un’unica figura
debba prendersi cura del figlio ed entrano spesso i conflitto con coloro che accudiscono il figlio in
sua assenza; (4) le madri “disimpegnate” che attribuiscono maggiore importanza all’attività
lavorativa e riversano all’esterno ogni responsabilità e compito di cura dei bisogni del figlio.
1.1 il punto di vista della madre: Psicologia della gravidanza
Secondo Stern e Bruschweiler-Stern (1999), alla nascita fisica del bambino corrisponde la nascita
psicologica della mamma, ossia la madre nella sua mente dà origine a una nuova identità: il senso
dell’essere madre. Stern parla di “assetto materno”, che non nasce nell’istante in cui il neonato
viene alla luce bensì emerge gradualmente dal lavoro intrapsichico che si è andato cumulando nei
molti mesi precedenti e successivi all’effettiva nascita del bambino. Stern individua tre fasi nel
graduale processo del divenire madre:
1) la prima fase ha inizio con la gravidanza, nella quale avvengono 3 gravidanze in una: (a)
mentre il corpo è impegnato nella gestazione fisica del feto, la mente è attivamente
impegnata a (b) elaborare la sua nuova identità e (c) a costruire una immagine di come
potrebbe essere il bambino. Inoltre i cambiamenti corporei che avvengono durante la
gravidanza minano l’immagine fisica che la donna ha di sé e preparano il terreno per una
nuova organizzazione dell’identità materna, favorendo anche lo sviluppo del bambino
immaginario. Solitamente il processo immaginativo di costruzione delle fantasie ha inizio
dopo il terzo mese, quando si ha conferma del normale procedere della gravidanza. Tra i
quattro e i sette mesi, le donne cominciano a creare fantasie sempre più specifiche sul feto e
le ecografie spesso facilitano il lavoro di immaginazione. Tra l’ottavo e il nono mese, la
futura madre comincia a smontare questa immagine in modo che al momento della nascita,
quando si incontreranno bambino immaginato e reale, le due entità non presentino
differenze troppo marcate. Inoltre, negli ultimi mesi di gestazione, aumentano le paure
relative al parto e alla salute del bambino: la paura che il bambino nasca morto o muoia
subito dopo il parto; il timore di non riuscire a sopportare il dolore o di avere il bacino così
stretto che il bambino resti bloccato, senza poter uscire; la paura di avere un bambino
deforme etc. Molte volte le donne riferiscono sogni particolarmente paurosi che coinvolgono
il nascituro. Tali paure/sogni aiutano la madre a prepararsi alle molteplici eventualità che
possono accadere nel momento del parto.
2) il parto come transizione; per molte donne, il momento del parto rimane tutta la vita come
un ricordo vivido e di grande intensità, sia che si sia trattato di un’esperienza positiva che
negativa. Tale momento oltrepassa i limiti di sopportazione e dolore. Inoltre, vedere il
neonato rende la madre consapevole che ora il neonato è un’entità distinta da sé. Le madri
riferiscono di aver provato un misto di sentimenti di euforia, sfinimento, vittoria, sollievo,
dolore.
3) la nascita di una madre; i mesi successivi alla nascita del bambino, quando la madre torna a
casa e si dedica ai compiti di nutrire, accudire e far crescere il neonato, costituiscono la terza
fase nella quale l’assetto materno assume forma compiuta. Spesso, la principale
preoccupazione delle mamme è che il bambino smetta di respirare, che il bambino muoia,
che si faccia male per colpa della inadeguatezza della madre, che il bambino non acquisisca
il peso ritenuto adeguato, che non sia in buona salute. Queste naturali preoccupazioni
tengono alta l’attenzione delle madri verso la protezione del bambino e le aiutano ad
interiorizzare le nuove responsabilità. Inoltre, la fatica dell’accudimento accompagna i primi
mesi di vita del bambino, quando i suoi ritmi relativi alla fame e al sonno sono ancora
estremamente irregolari e non permettono alla madre il riposo di cui ha bisogno. Inoltre, in
questi mesi ogni madre sviluppa una relazione intima con il bambino, in un suo modo
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personale di stare con lui e di rispondere alle sue prime richieste. Prima che il bambino
impari a parlare, si parla di “relazionalità primaria”, ossia della relazione che si costruisce
grazie all’allattamento e al momento dei pasti, attraverso la produzione di suoni, scambi di
sguardi e di espressioni del viso, lievi movimenti. Inoltre, nei primi mesi aumenta il
coinvolgimento delle mamme verso le altre donne e meno sugli uomini, e soprattutto verso
la propria madre. Molto spesso, il modello di attaccamento che viene stabilito con il
bambino è in larga misura determinato da quello sperimentato con la propria madre.
1.2 Dalla coppia alla triade
Come si è già accennato, al ritorno a casa dall’ospedale la presenza di un figlio ha un impatto molto
forte sia sull’organizzazione delle giornate, ossia la cura del bambino, la distribuzione del lavoro
domestico, la gestione del tempo libero, sia sulla relazione tra i membri della coppia, che hanno
bisogno di nuove strategie di comunicazione e gestione dei conflitti.
Gli effetti della nascita dei figli sulla relazione di coppia sono stati osservati attraverso la
rilevazione dei livelli di soddisfazione coniugale. Mentre le prime 4-6 settimane sono considerate
abbastanza facili poiché la vicinanza di parenti e amici alleviano i compiti di cura, il maggiore
impatto avviene nei primi 3 mesi quando la relazione di coppia appare come funzionale
all’accudimento del bambino (Belsky et al., 1983; Cowan et al., 1985). Il declino della
soddisfazione di coppia al passare del tempo non è solo legato all’avere un figlio ma è comune a
tutte le coppie, indipendentemente dall’avere figli o meno. Appaiono più soddisfatte quelle coppie
che riescono ad accordarsi su una equa spartizione dei compiti legati alla cura del bambino (Cowan
e Cowan, 1990) oppure quelle coppie che hanno una concezione tradizionale dei ruoli sessuali
(McDemid, 1990).
La genitorialità ha un impatto maggiore sulle madri rispetto ai padri, le quali riferiscono
l’affaticamento, la difficoltà a trovare tempo per sé e l’aumento delle tensioni all’interno della
coppia (Cooper Harrimann, 1983; Belsky, Lang e Rovine, 1985). Questo è un esempio del fatto che
la relazione tra i membri della coppia sia connessa alla relazione madre-bambino nei primi 3 anni di
vita del bambino. Una ricerca di Easterbrooks e Emde (1988) osserva come quanto più i membri
della coppia sono soddisfatti della propria relazione, tanto più vedranno positivamente la relazione
con il bambino. Questo è valido soprattutto per i padri, che quando hanno una relazione più
soddisfacente, sono solitamente più attenti e meno irritati nella relazione con il figlio. Inoltre, il
costruire una solida alleanza genitoriale permette ai membri della coppia di adempiere con
maggiore efficacia ai compiti del divenire genitori (Simons, 1993; Lewis, 1989). In questo senso, la
relazione coniugale, lo stile di parenting e lo sviluppo dei figlio costituiscono 3 aspetti fondamentali
dello sviluppo della nuova famiglia.
1.3 La famiglia estesa
In molti casi, i neo-genitori ricevono supporto emotivo, materiale ed economico dalle famiglie di
origine, come si rileva dal basso tasso di bambini tra 0 e 3 anni che frequentano l’asilo nido (7,4%;
fonte: Sanna e Teselli, 2005) e l’alta percentuale di neogenitori che vanno a vivere entro un
chilometro dalla casa dei nonni (28,9%) o che vanno a co-risiedere con i genitori di uno dei due
(8,2%; fonte: ISTAT, report "Famiglia e soggetti sociali", Sistema di Indagini multiscopo sulle
famiglie, dati relativi all’anno 2009). Compito della generazione dei nonni è quello di sostenere i
figlio, ora genitori, nel loro ruolo, anche grazie all’esperienza maturata nell’allevamento dei figli, e
partecipare alla vita dei nipoti assumendo il nuovo ruolo di nonni (Scabini, 1995). Il rischio in
questa delicata fase è quello di tentare di sostituirsi ai neo-genitori oppure, al contrario, di
disinteressarsi del nuovo nato. Se i nonni riescono a trovare una posizione intermedia tra questi
opposti, possono facilitare l’assunzione del ruolo genitoriale nei neo-genitori, che può avvenire solo
se sono stati tracciati chiari confini tra la nuova famiglia e le famiglie di origine.
Inoltre, nel primo anno di vita del bambino si intensificano i rapporti tra le coppie di genitori con
figli piccoli che si trovano a vivere situazioni simili. Spesso, le famiglie monogenitoriali
considerano l’aiuto ricevuto dagli amici come più rilevante rispetto a quello ricevuto dai parenti
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(Marks e McLanahan, 1993).
2. La relazione di aiuto e il sostegno in gravidanza e nel puerperio
Le modificazioni sociali e demografiche, quali per esempio l’abbassamento del numero di figli per
donna e il tramonto della famiglia patriarcale estesa, hanno diminuito nel corso degli anni il numero
di figure sulle quali i neo-genitori possono contare in un momento difficile come il rientro a casa
dall’ospedale. Infatti mentre un tempo le coppie erano inserite in una fitta rete di parentele che
potevano sostenere la coppia ed alleviare il senso di fatica fisica ed emotiva, ora si assiste ad un
crescente isolamento della coppia che spesso, di fronte al primo figlio, può provare smarrimento e
solitudine, che possono acuire lo stress, le ansie, le insicurezze, i sintomi depressivi dei membri
(ISTAT, 2000).
Grande importanza in questa fase possono assumere quindi gli interventi psicosociali sia a livello
individuale, come il sostegno psicologico durante la gravidanza e il puerperio e le visite domiciliari
di personale sanitario come l’ostetrica o l’assistente sanitaria, sia a livello più gruppale come i corsi
di preparazione alla nascita e le attività di sostegno alla genitorialità. Il contributo della psicologia e
delle scienze sociali si concentra sulla relazione di aiuto a livello individuale, e sull’organizzazione
di efficaci programmi di sostegno alla nascita che coinvolgono professionisti sociali e sanitari, a
livello gruppale.
2.1 La relazione di aiuto
Canevaro e Chieregatti (1999) intendono il lavoro di cura come l’accompagnamento di un operatore
nei confronti di un ragazzo o di un adulto nella crescita individuale e sociale. Molte relazioni
amicali, familiari, di vicinato, sono relazioni di aiuto, così come molte relazioni di tipo
professionale quali insegnante-allievo, medico-paziente, assistente sociale-persona, oltre che quelle
sviluppate da psicologi, counselor e psicoterapeuti.
Seguendo la definizione formulata dalla categoria degli assistenti sociali, la relazione di aiuto
intende l’utente come un soggetto, che sebbene in grande difficoltà, svantaggiato e limitato
nell’utilizzo delle risorse, deve poter scegliere il proprio percorso. Tale libertà di scelta permette
l’assunzione di responsabilità da parte della persona stessa (Carkuff, 2002; Pedrazza, 2004).
La relazione di aiuto si caratterizza per elementi di asimmetria e di simmetria. Da un lato si tratta di
un incontro fra due persone di cui una si trova in condizioni di
sofferenza/confusione/conflitto/disabilità (rispetto a una determinata situazione o a un determinato
problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) e un’altra persona dotata di un grado
superiore di adattamento/competenze/abilità, rispetto a queste stesse situazioni o tipo di problema
(Evangelista, 2006; Folgheraiter, 1993). Dall’altro lato molti autori insistono sul bisogno di
simmetria nella relazione di aiuto poiché essa rappresenta la modalità di aiuto tra pari, tra adulti,
nella quale l’azione dovrebbe produrre l’autodeterminazione della persona. In questo senso
l’asimmetria, come per esempio utilizzare un vocabolario molto forbito, porre barriere fisiche tra le
persone, vestirsi in modo estremamente elegante o estremamente trasandato, può rimarcare la
differenza di ruolo e di potere e rallentare la crescita individuale, poiché all’aiutato si restituisce
l’immagine di ciò che non è e non ha (Albano, 2004; 2005; Pedrazza, 2005).
In campo professionale, l’autonomia del richiedente aiuto è un obiettivo della relazione di aiuto, nel
senso che colui che riceve aiuto è parte attiva del processo, è co-attore del suo benessere (Bianchi,
1983). Il prestatore di aiuto ha lo scopo di sostenere il richiedente nel suo percorso verso
l’autonomia, senza sostituirsi all’altro per non impedirne, anziché promuoverne, lo sviluppo
(Canevaro, Chieregatti, 1999). Questo orientamento è stato sviluppato in particolar modo nella
teoria dell’empowerment, intesa come la crescita di comprensione dei fenomeni, di consapevolezza
dei problemi, di percezione dei limiti a fronte di rischi individuali e globali, di uso del principio di
precauzione nelle decisioni, di uso positivo dell'incertezza. Per empowerment si intende sia il
processo di crescita personale sia il risultato di tale percorso, ovvero il miglioramento
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dell’autonomia della persona (Folgheraiter, 2002).
2.1.1 Le abilità di colui che presta aiuto
Nella relazione diventa fondamentale l’atteggiamento che l’operatore sociale ha nei confronti
dell’utente (Pedrazza, 2005). Tale atteggiamento potrebbe essere la base per conflitti,
incomprensioni e ulteriori pregiudizi con colui che richiede aiuto. Dal punto di vista della
psicologia sociale, gli atteggiamenti costituiscono griglie percettive, attraverso le quali leggiamo,
decodifichiamo e organizziamo i dati di realtà. L’attivazione di uno stereotipo, ossia la componente
cognitiva di un atteggiamento, che consiste nell’attribuzione ad un membro di un gruppo delle
caratteristiche che si ritiene condivise da tutti i membri del gruppo (Brown, 2000), può influire
negativamente sul processo di aiuto.
Giovannini (1998) elenca le abilità del professionista nella relazione di aiuto:
- interesse genuino per l’altro, interesse per le persone, rispetto per le persone (Metelli Di
Lallo, 1954),
- interesse per il proprio lavoro visto non come routine o come parte di un ingranaggio
burocratico (Metelli Di Lallo, 1954),
- capacità di comunicare e capacità di contatto, capacità di manifestare considerazione
(Rogers, 1942),
- atteggiamento collaborativo e capacità di fornire supporto psicologico (Borsatti, Cesa
Bianchi, 1980);
- flessibilità, e capacità di ascolto (Meyer, Davis, 1993),
- rispetto dell’autodeterminazione dell’altro (Kadushin, 1972),
- astensione da qualsiasi atteggiamento moralistico (Rogers, 1942),
- capacità di riconoscere le difese dell’altro (Lis, Venuti, De Zordo, 1991).
2.1.2 La comunicazione interpersonale
La relazione di aiuto si può esplicare attraverso la comunicazione interpersonale e, in questo senso,
le competenze comunicative e gli atteggiamenti di chi presta aiuto diventano centrali per la buona
riuscita dello scambio (Franta e Salonia, 2005).
Se, come affermano Watzlawick e collaboratori (1971), “ogni comportamento è comunicazione”,
allora diventa rilevante distinguere tra comunicazione verbale e non verbale. La tabella 1 sintetizza
le caratteristiche dei due tipi di comunicazione.
Tab. 1 – Caratteristiche della comunicazione verbale e non verbale
Comunicazione verbale Comunicazione non verbale
Invia i messaggi di tipo razionale-cosciente Invia messaggi di tipo intuitivo-subcosciente
Suscita idee e trasmette pensieri Evoca emozioni e trasmette sentimenti
Prevale il significato logico-linguistico Prevale il significato psicologico
La comprensione è lenta, per analisi La comprensione è immediata, per sintesi
Percezione ed interpretazione dei segnali
secondo un metodo logico-metodico
Percezione ed interpretazione dei segnali in
modo globale-olistico
Influisce per il 7% sulla comprensione del
significato
Influisce per il 93% sulla comprensione del
significato
Fonte: Laveder, F. (2005) Comunicazione verbale e non verbale. In G. Tuveri (a cura di) Saper
ascoltare, saper comunicare. Roma, Pensiero Scientifico Editore.
Comunicare e ascoltare implica il prestare attenzione ad ogni messaggio proveniente dall’altro, sia a
livello verbale che non verbale. Significa non solo ascoltare ciò che l’altro dice a livello di
contenuto, ma anche osservare ciò che fa e non fa (livello di status/identità) e rendersi conto di
come l’altro reagisce di fronte ai messaggi e comportamenti inviati da chi parla (livelli di relazione
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ed emotivo-affettivo).
2.1.3 L’empatia
La disposizione delle persone verso la partecipazione ad un affetto viene definita empatia ossia la
capacità di mettersi nei panni dell’altro, la capacità di comprensione empatica con una corretta
distanza emotiva, porsi nei panni dell’altro in termini sia cognitivi sia affettivi (Kadushin, 1972;
Rogers, 1983). L’ascolto empatico permette inoltre di creare una piattaforma comune tra emittente e
ricevente, che facilita l’interazione comunicativa. Infatti, immedesimarsi nell’altro significa anche
muoversi nell’universo percettivo dell’altro con il rispetto derivante dalla consapevolezza che tale
mondo non ci appartiene. Diventa cruciale astenersi dal giudizio, in modo da evitare di porsi con i
propri comportamenti, valori, giudizi, abitudini, a metro di misura dell’altro.
Secondo Bianchi (1983), nella relazione d’aiuto l’operatore sociale dovrebbe, saper anche:
- essere disponibile al cambiamento,
- sviluppare attenzione critica,
- stabilire collegamenti tra persone e risorse e tra vari sistemi di risorse,
- fornire informazioni sulle risorse in modo da aiutare gli utenti a superare le barriere
psicologiche che si interpongono alla utilizzazione delle risorse,
- migliorare le risorse esistenti e aiutare a sviluppare nuove reti di risorse sia sul piano
istituzionale che comunitario,
- aiutare gli utenti a individuare, utilizzare e sviluppare le risorse personali.
2.2 Il sostegno (psicologico) in gravidanza e nei primi mesi di puerperio
In questo contesto, i corsi di accompagnamento alla nascita durante la gravidanza, generalmente
definiti corsi pre-parto, e i programmi di visita domiciliare nel puerperio possono avere benefici per
la madre, per la coppia e per la relazione col bambino (Bestetti e Guerrini, 2011; Jacobson e Frye,
1991; Hawkins e coll., 1992).
La rilevazione nazionale sul percorso nascita di Grandolfo, Donati e Giusti dell’ISS (2002) ha
mostrato che fattori associati a una maggiore partecipazione ai corsi di preparazione alla nascita
sono l’età ≥30a, l’istruzione superiore, l’essere stata assistita in gravidanza dal consultorio familiare
dall’ostetrica; fattori associati a una minore partecipazione sono la condizione di casalinga, di
pluripara soprattutto con precedente esperienza di taglio cesareo, la gravidanza patologica e la
residenza al Sud.
Lara, Navarro e Navarrete (2010) nel loro studio randomizzato sull’efficacia degli interventi
psicoeducativi per prevenire la depressione postpartum nelle donne messicane ha confrontato un
campione di donne che hanno frequentato un corso preparto e un gruppo di controllo che non lo ha
frequentato. Le misurazioni sono state effettuate in 3 momenti: durante la gravidanza, a 6 settimane
e a 4-6 mesi dalla nascita. I risultati mostrano che l’incidenza della depressione postpartum è
minore per le donne che hanno seguito il corso nei tre momenti della misurazione. Inoltre le
partecipanti al corso hanno riferito che, dal loro punto di vista, questo ha avuto un’influenza da
media a grande sul loro benessere, sui loro problemi quotidiani, sul loro ruolo come madri e sulla
loro relazione con il bambino.
Le, Perry e Stuart (2011) hanno studiato l’efficacia di un corso preparto di 8 settimane basato sul
metodo cognitivo-comportamentale attraverso uno studio randomizzato con gruppo di controllo in
donne immigrate dall’America Centrale e residenti nel distretto di Washington (USA). Le
misurazioni sono state fatte sia durante il corso, che 6 settimane, 4 mesi e un anno dopo la nascita. I
risultati mostrano che le donne che hanno frequentato il corso hanno meno sintomi depressivi
immediatamente dopo la fine del corso rispetto alle donne che non l’hanno frequentato. Tuttavia
questi risultati non sono continuati nel periodo postparto. Inoltre, non ci sono stati effetti del corso
riguardo l’incidenza di episodi depressivi gravi nel tempo. Ad ogni modo, i sintomi depressivi
diminuivano significativamente al passare del tempo dalla gravidanza al postparto,
indipendentemente dall’aver partecipato al corso o meno.
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Riguardo ai programmi di home visiting, ossia l’intervento domiciliare alle madri dopo il parto
(McNaughton, 2004), esso si attiva solitamente solo in situazioni di rischio per il bambino e
vulnerabilità del bambino (prematurità, basso peso alla nascita etc), situazioni di disagio sociale
della famiglia (povertà, madre sola o minorenne etc), situazioni di disagio causato da malattia dei
genitori (handicap, malattia psichiatrica etc). Tale home visiting è definito come un setting, un
contesto nel quale vengono erogati una gamma di interventi (Prezza, Speranza e Todini, 2006).
Alcuni programmi fanno riferimento a procedure più standardizzate mentre altri sono più flessibili e
si adattano ai bisogni delle famiglie. Inoltre le professionalità degli operatori domiciliari sono le più
diverse e possono essere psicologi, infermieri, ostetriche, operatori sociali, assistenti sociali e
sanitari, volontari. Tali programmi basano le loro azioni sulla teoria di riferimento. Prezza, Speranza
e Todini (2006) ne presentano tre:
(a) “Nurse Home Visiting Program” (Olds et al., 1998) negli U.S.A.; tale programma prevede
una visita domiciliare della durata di 90 minuti a cadenza settimanale fino a 6 settimane
dopo il parto, poi quindicinale e infine mensile. I professionisti coinvolti sono infermieri
professionali con laurea breve, con un corso di formazione iniziale e incontri di supervisione
regolare in itinere. Il programma è rivolto principalmente a madri sole o minorenni o con
problemi di abuso di sostanze, o esperienze di maltrattamento/abuso o problemi
psichiatrici/psicologici. L’attenzione degli operatori è indirizzata sugli aspetti sociali e
materiali che possono mettere in grado le madri di occuparsi con del bambino e di facilitarne
lo sviluppo e la salute. Inoltre gli operatori cercano di favorire l’attivazione delle persone
significative per la madre come il padre del bambino, la nonna, la sorella, le amiche eccetera
e l’utilizzo dei servizi sociali e sanitari presenti nella comunità (Journal of Community
Psychology, 1997; 1998).
(b) Il modello educativo/programma “Genitori come insegnanti” (Culp et al., 1998); tale
programma inizia con la nascita e si protrae fino ai 3 anni del bambino, e consta di visite
domiciliari di 30-60 minuti che seguono protocolli rigidi, fornendo informazioni riguardo
l’accudimendo del bambino, promuovendo incontri di gruppo per costruire una rete
informale di sostegno, monitorando lo sviluppo del bambino, promuovendo l’utilizzo dei
servizi sociali e sanitari della zona. Il programma è destinato a famiglie che abitano in
quartieri svantaggiati o si trovano in situazioni sociali critiche o hanno un basso livello di
istruzione. L’assunto di base è di tipo educativo e cerca di mettere in grado i genitori, come
primi insegnanti dei loro figli, di promuovere lo sviluppo del bambino e l’apprendimento,
attraverso la trasmissione di conoscenze di puericultura, attraverso l’utilizzo di tecniche di
addestramento e modellamento delle funzioni genitoriali.
(c) l’Home visiting basato sulla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1999; Lyons-Ruth et al.,
1990; 1997); questi programmi si basano sull’assunto che un attaccamento sicuro del
bambino, fondato su un’esperienza di una caregiver disponibile e responsivo (spesso la
madre), rappresenta un fattore protettivo per lo sviluppo del bambino. In questo senso, gli
interventi dell’operatore si focalizzano sulla relazione madre-bambino e sulla relazione tra
l’operatore e la coppia madre-bambino. Infatti, il genitore può utilizzare la relazione con
l’operatore e i feedback che ne riceve per costruire una base di partenza sicura per prendere
consapevolezza delle proprie difficoltà e rispondere meglio ai bisogni del bambino.
La valutazione di esito sull’efficacia di tali programmi si avvale di alcune review o rassegne che
esaminano criticamente numerosi studi di letteratura sul tema. Kendrik e collaboratori (2000), nella
loro rassegna di 34 ricerche empiriche dal 1966 al 1996, mostrano come tali programmi siano
efficaci in termini di miglioramento dell’ambiente domestico ossia la responsività emozionale e
verbale della madre verso il bambino, il suo coinvolgimento verso il bambino, eventuali restrizioni
o punizioni, l’adeguatezza dei giochi all’età del bambino, la sicurezza dell’ambiente domestico.
Bakermans-Kranenburg e collaboratori (2003) passano in rassegna 70 pubblicazioni tra il 1980 e il
2001 che riportano sia interventi domiciliari che in altri setting e mostrano come gli interventi
abbiano prodotto un miglioramento della sensibilità materna e uno più modesto sullo stile di
attaccamento. Tale rassegna non ha osservato differenze nei risultati raggiunti da interventi
9
domiciliari o all’interno dei servizi, né tra interventi operati da professionisti e volontari. Trentini
(2007), nella sua rassegna, mostra come alcune ricerche sperimentali con gruppo di controllo hanno
evidenziato una riduzione dei sintomi depressivi e un miglioramento generale nelle competenze
genitoriali, solo nelle donne che hanno ricevuto visite domiciliari per 6 mesi (e non in quelle che
non hanno ricevuto tali visite) (Ahn e Kim, 2004; Armstrong et al., 1999; Long et al., 2001).
A dimostrazione dell’utilità e dell’efficacia di tali iniziative, si riportano due lettere-testimonianza di due
mamme-utenti del servizio “Primi Giorni” dell’Ulss 16 di Padova inviate al distretto sociosanitario di
appartenenza nel corso del 20105.
Lettera n.1: “(…) Sin dai primi giorni a casa dopo il parto ho trovato un supporto eccezionale grazie al Progetto
Primi Giorni, ricordo ancora con commozione il momento in cui H… (l’assistente sanitaria) è entrata in casa mia
salvandomi dalle grinfie dei familiari che mi trattavano come un’affamatrice di bambini, solamente perché avevo
deciso e desideravo fortissimamente allattare mio figlio.
L’appuntamento del martedì con H… ed in generale con il Progetto Primi Giorni è diventato una piacevole e precisa
ricorrenza, almeno fino a quando mio figlio non ha iniziato lo svezzamento ed ha iniziato a diventare un vero
“torello”. Il sostegno del progetto e di persone competenti ed al tempo stesso affettuose, mi hanno dato la forza di
persistere nell’allattamento, nonostante io abbia incontrato delle difficoltà in principio. L’aiuto che ho ricevuto ha
fatto di me una mamma nutrice serena e non sola e mi ha regalato di realizzare il mio desiderio di non ricorrere al
latte artificiale, e di questo sono immensamente grata al distretto sanitario, senza di loro non sarebbe stato possibile.
Non avevo, infatti, alcun riferimento ed alcuno che mi desse conforto, al contrario tutti mi porgevano con insistenza
dei biberon (ora che mio figlio ha più di un anno ho scoperto persino che i miei familiari a mia insaputa mentre
dormivo davano il biberon al bimbo!!!)
Se penso poi come sono giunta a conoscere il servizio, sorrido: mentre ero ricoverata ricordo di aver visto entrare
una signora (che poi ho riconosciuto in N…) che mi ha porto un volantino giallo. Da mamma neofita e meticolosa ho
archiviato il documento con tutti gli altri che riguardavano il bimbo. Poi chiaramente quel foglietto è rimasto sepolto
tra le carte, ma per poco. Una volta giunta a casa all’ennesimo litigio in famiglia in cui mi si accusava di far soffrire
il mio bambino, ho visto sbucare quel foglietto… mi è sembrato l’unico modo per trovare aiuto …ostentando
sicurezza ho zittito i miei dicendo loro che non capivano niente e che avrei chiamato un’esperta a conforto della mia
teoria. Ho chiamato con terrore, convinta che non avrebbe risposto nessuno, al contrario la risposta è stata
immediata e dopo soli 30 minuti H… era in casa mia a redarguire i miei familiari e soprattutto a confortarmi e dirmi
che ero sulla strada giusta.(…)
Frequentando il distretto con assiduità, ho avuto modo di conoscere ed apprezzare persone splendide ed ho appreso
del corso di Massaggio Neonatale, altra esperienza eccezionale.
Il corso massaggi mi ha dato l’opportunità di coccolare e maneggiare mio figlio che - diciamocelo - per mesi rimane
un esserino da manipolare con una certa circospezione, ma soprattutto mi ha dato l’opportunità di instaurare un
rapporto piuttosto unico con altre mamme che vivevano un esperienza in tutto simile alla mia.
Il massaggio si svolgeva in un atmosfera rilassata, N… ci dava istruzioni su come coccolare i nostri bimbi, poi
veniva il bello: del tempo dedicato al dialogo ed al confronto ed ecco che ti sentivi finalmente non l’UNICA, ad avere
dubbi, difficoltà, attriti, paure, ed ecco che non ti sentivi più SOLA, anzi. Tutte ci aprivamo e scoprivamo, con un
sorriso, che ciascun nostro piccolo dramma in realtà era vissuto dalle altre allo stesso identico modo e diventava, di
conseguenza, un non problema perché appariva evidente come fossero dinamiche normali e comuni a tutte.
Il confronto è stato piacevole ed utile nonostante fossimo perfette estranee ci siamo aperte ed abbiamo trovato
sostegno reciproco. Beh con quelle mamme siamo ancora in contatto. Ci scriviamo mail e non abbiamo perso
l’abitudine di confrontarci su questioni che riguardano i bimbi o altro, ci passiamo informazioni su corsi, iniziative
da condividere e poi ci incontriamo. Spesso coi bimbi ed i papà (in questo periodo ci sono le feste del primo
compleanno di tutti e li passiamo insieme se possibile) e poi facciamo incontri solo mamme dove ci sfoghiamo e
continuiamo nel confronto iniziato per caso e grazie ad un’iniziativa che ritengo meriti di essere pubblicizzata ed
incentivata. (…)
Non faccio elenchi perché compierei omissioni, ma ricordo che ho trovato grandemente utile la lezione con la
logopedista (utile avere consapevolezza di come rispondere ai versetti del piccolino) utili anche gli spunti di
psicomotricità, incredibile come vengano sfatati miti e come la semplicità sia la cosa migliore, tenere i bimbi a terra
sdraiati… chi ci sarebbe mai arrivato!!! Tutti con super tecnologie, ed aggeggi vari.(…)”
( N.D., mamma di un bimbo di 13 mesi)
Lettera n.2: “ (…) Sono come molte donne senza una famiglia alle spalle e mio marito, anche lui, ha la famiglia di
origine fuori regione e quindi non possiamo contare su una rete familiare di "protezione". Siamo entrambi padovani
di adozione poichè dopo l'università ci siamo traferiti definitivamente a Padova per cui la nostra rete di amicizie
sono quelle legate al mondo del lavoro. (…)
Ho avuto una gravidanza difficile ed un parto cesareo d'urgenza e quando sono tornata a casa mi sono trovata
completamente sola, con un bimbo che non dormiva mai. Le mie condizioni fisiche e mentali erano come molte neo-
mamme fragilli, e per quanto fossi preparata e mi fossi documentata, non ero certo pronta al periodo difficile che mi
aspettava.
5 Si ringrazia il dr. Gianmaria Gioga, direttore Distretto 1, Ulss 16 di Padova per aver messo a disposizione il testo di
queste lettere, previo consenso delle autrici.
10
La mancanza di sonno, di cibo (non riuscivo nemmeno a farmi un pasto senza che il bimbo urlasse), le incertezze, la
mancanza di aiuto concreto (non potendo certo permetterci una tata) ed un supporto psicologico (sostegni che una
volta venivano garantiti dalla famiglia e dal tessuto sociale) mi hanno portato ad una situazione davvero critica e
non nascondo che in certi momenti i miei pensieri erano tutt'altro che felici.
In un momento di disperazione totale: non riuscivo a farmi una doccia da giorni, la ferita mi faceva male e
camminavo a malapena; non sapevo se il bimbo crescesse bene, non potendo uscire di casa per paura di svenire, non
potevo pesarlo.
Alla fino ho chiamato l'assistente sanitaria di … (avendo ricevuto in ospedale l'opuscolo "Progetto Primi giorni"),
perchè non sapevo davvero come fare per gestire il mio bimbo e me stessa.
Mi ha risposto C… che si è resa conto delle mie condizioni ed è venuta a casa mia la mattina stessa. Ha pesato il
bimbo, abbiamo parlato ed insieme abbiamo studiato un piano d'azione e di sostegno.
Nelle settimane successive è sempre stata pronta per sostenermi al telefono per ogni mio dubbio e ogni mia crisi (ma
sapere di avere una persona di riferimento era già moltissimo) e così ho superato i primi due mesi e poi tutto si è
sistemato.
Mi rendo conto che leggendo le mie parole potrebbe sembrare una situazione ai limiti, e pensando a quel periodo ora
che tutto è tornato sotto controllo sembra incredibile anche a me, avere pensato certe cose, ma sono onesta in certi
momenti veramente ho rischiato grosso perchè sentirsi così soli in una situazione tanto delicata è veramente
"pericoloso".
Purtroppo nella società di adesso sono molte le famiglie "sole" senza supporti parentali e sociali e senza le guide che
una volta erano le mamme e le nonne, ci si sente e si è, realmente soli ad affrontare un periodo difficile e delicato
come la nascita di un primo figlio.
La mia storia per ringraziare di cuore la signora D… che probabilmente mi ha salvato la vita (sembra una cosa
grossa a scriverla, ma le notizie di cronaca testimoniano che non è poi così raro perdere il lume della ragione nel
periodo successivo ad un parto) e per ringraziare, chi ha permesso l'esistenza di un servizio di così alta qualità e per
chiedere, in un periodo di tagli della sanità, di non tagliare un servizio del genere.
Un grazie di cuore anche dal mio bimbo e complimenti per l'alta competenza e l'umanita’ che la signora D… ci ha
dimostrato. (O. G., mamma di un bambino di 7 mesi)
3. La famiglia di fronte alla depressione postpartum e alla diagnosi di disabilità
3.1 La depressione postpartum
La depressione postpartum o postnatale o puerperale è uno dei disturbi più frequenti che si
presentano nei primi 12 mesi di vita del bambino ed ha ottenuto ampia attenzione scientifica. Circa
il 10-15% delle donne presenta un episodio depressivo dopo la nascita (O’Hara e Swain, 1996) e la
percentuale raddoppia nelle madri adolescenti (Arnold et al., 1999). In particolare, l’incidenza della
depressione è più alta nei primi 3 mesi dopo la nascita, con un picco nelle prime 4-6 settimane
(Murray et al., 2003).
La rassegna di Grussu e Quatraro (2010) riguardante la definizione, rilevazione e trattamento di
questa patologia prende in esame 68 pubblicazioni avvenute nel periodo 1990-2006. Secondo
questa rassegna, la sintomatologia più diffusa comprende senso di solitudine e perdita di sé,
irritabilità, paura di impazzire, agitazione e bassa energia. Inoltre, altri sintomi frequenti sono il
pianto, l’abbattimento, la labilità emotiva, il senso di colpa, la mancanza di appetito, le idee
suicidarie, i sentimenti di inadeguatezza, la scarsa capacità di concentrazione, di memoria e di
prendere decisioni, la stanchezza, i disturbi del sonno.
Tra i fattori di rischio precedenti la nascita del bambino si annoverano lo status coniugale, bassa
condizione socioeconomica, limitata autostima, presenza di depressione o ansia prenatale, una
gravidanza non pianificata, una precedente storia di depressione, mancanza di sostegno sociale,
bassa soddisfazione coniugale ed eventi stressanti come la morte di una persona cara o la perdita del
lavoro. Mentre nel periodo dopo il parto, i fattori di rischio sono il temperamento del bambino e lo
stress legato all’accudimento del nuovo nato (Robertson et al., 2004). L’influsso di alcuni marcatori
biologici come la prolattina o la progesterone o l’estradiolo non è ancora stato dimostrato sulla
depressione postpartum. E’ ormai accettato che il presentarsi di una depressione clinica sia da
attribuirsi alla compresenza di più fattori individuali, familiari ed ambientali della coppia madre-
bambino. Per esempio, una donna con una precedente storia di episodi depressivi, in un contesto di
stress e inadeguato supporto emotivo, materiale e sociale può avere maggiori probabilità di
incorrere nella depressione postpartum (Miller, 2002). Il ruolo della predisposizione genetica verso
la depressione postpartum è tuttora sotto studio.
Tra i fattori protettivi si annoverano la presenza di un atteggiamento positivo personale sostenuto
11
dal contesto sociale di appartenenza, una buona autostima, aspettative positive verso le proprie
capacità personali, relazione di coppia soddisfacente, consapevolezza di poter fare affidamento su
un ampio e solido sostegno sociale (Benvenuti et al., 2006). Inoltre, sembra essere un fattore
protettivo una adeguata preparazione alla genitorialità sia in termini di conoscenze riguardanti la
gravidanza e il parto, sia in termini di aspettative realistiche riguardo alla vita postparto.
In termini di prevenzione, emerge un’insufficiente evidenza scientifica sia per il trattamento
farmacologico sia per gli interventi psicosociali o psicologici quali la psicoterapia interpersonale, la
terapia cognitivo-comportamentale e alcune tecniche di rilassamento. Si osservano una riduzione
della sintomatologia depressiva e un’elevata soddisfazione materna nei programmi di socio-sanitari
locali che prevedono visite domiciliari nel dopo parto da parte di personale specializzato (Shaw et
a., 2006; Terzulli, 2006). Oltre che sul tono dell’umore della madre, tali programmi hanno un
benefico effetto anche sulla relazione madre-bambino poiché aiutano la madre a rinforzare le sue
competenze genitoriali (Ammanniti, Cimino, Trentini, 2007).
Un recente studio italiano di Grussu e collaboratori (2009) ha esplorato i disturbi dell’umore in 60
donne con gravidanza normale e a termine, al primo figlio, con parto fisiologico. Gli strumenti
standardizzati che misurano l’ansia, la depressione, i sintomi somatici e l’ostilità in 4 momenti: il 3°
giorno dopo il parto, al compimento del 1° mese, del 6° mese e a 12 mesi. I risultati mostrano un
minor benessere della donna in termini di maggior sintomatologia psicologica e somatica al 3°
giorno dopo il parto, rispetto al compimento del 1° mese, del 6° mese e del 12° mese. I disturbi
dell’umore sono modesti nei primi giorni dopo il parto e tendono a ridursi nei mesi successivo.
3.2 La comunicazione della diagnosi di disabilità
La comunicazione della diagnosi di disabilità alla nascita del figlio rappresenta per i genitori un
momento doloroso e traumatico e appare di cruciale importanza per mitigarne l’impatto le modalità
con cui la coppia viene informata. Infatti, se la comunicazione della diagnosi avviene in maniera
frettolosa, utilizzando termini troppo tecnici, allora può provocare un sentimento di rifiuto nei
genitori e rendere difficoltosa l’accettazione del figlio. Invece, una comunicazione serena, empatica,
in un luogo tranquillo, che presenti anche le potenzialità e non solo i limiti della patologia, può
rappresentare un buon punto di partenza per la nuova famiglia. Sarebbe importante che diverse
figure professionali partecipassero alla comunicazione della diagnosi in un processo che fornisca
informazioni mediche e specialistiche chiare e fornisca anche un sostegno continuativo alla famiglia
(Frosi, Gioga e Milani, 2008; Gioga e Hanau, 2006).
Se la nascita di un bambino rappresenta in ogni caso un momento di ristrutturazione del sé, una
nascita patologica sembra mettere ancora più a dura prova la coppia, irrompendo nella vita della
coppia senza lasciare il tempo di elaborare la perdita del bambino desiderato durante la gravidanza e
rappresentato in un’immagine mentale del figlio fatta di fantasie, aspettative, desideri, ansie e paure.
La nascita, da un lato, ferisce l’immagine del figlio che i genitori si sono costruiti e, dall’altro, il
piccolo richiede, come tutti i nuovi nati, un’attenzione immediata e totale.
I genitori spesso reagiscono con meccanismi di difesa come la colpa e la vergogna, meccanismi che
sembrano necessari per convivere inizialmente con una grande sofferenza (Mariazzi, 2001). Inoltre
alcuni autori (Gargiulo, 1987; Mariazzi, 2001; Selleri, 1999) fanno riferimento a 3 fasi comuni nelle
reazioni delle coppie:
1) La prima fase di shock e incredulità causati dalla forte delusione rispetto alle aspettative dei
genitori. A volte, in seguito, subentra il rifiuto, il tentativo di negare la disabilità e il
sentimento di inadeguatezza rispetto ai bisogni del figlio. Da un punto di vista psicologico,
questo periodo pare servire alla famiglia come un periodo di tranquillità per elaborare
l’accaduto. A volte questo periodo si prolunga eccessivamente, con le famiglie che
sottopongono il bambino al consulto di diversi specialisti alla ricerca di una disconferma
della diagnosi precedente (“sindrome dello specialista ennesimo”; Dall’Aglio, 1994);
2) La seconda fase è, spesso, quella della vergogna, dell’imbarazzo, della colpa, della rabbia. A
volte le coppie alternano sentimenti di amore e di rabbia verso il figlio, legati al senso di
colpa scaturito dal pensare che a volte si preferirebbe che il figlio non fosse mai nato. In
12
particolare, può succedere che le madri ripensino al periodo della gravidanza alla ricerca di
una causa nei propri eventuali comportamenti o pensieri. La ricerca di un colpevole o di una
causa esterna può essere utile ai genitori per alleviare la tensione psicologica ed emotiva. A
volte, la rabbia viene scaricata verso i medici e la medicina, colpevoli di non aver “visto” o
consigliato accertamenti specifici. Altre volte, il colpevole è ricercato tra i membri della
coppia, soprattutto in casi di patologie genetiche, in seguito alle quali si attribuisce a uno dei
due partner e alla sua famiglia la responsabilità dell’evento (Dall’Aglio, 1994; Carbonetti e
Carbonetti, 1996). Certamente lo stigma sociale facilità il permanere di sentimenti di
imbarazzo, vergogna ed inadeguatezza nei genitori.
3) La terza fase è costituita inizialmente dalla ricerca di qualunque persona che possa portare il
bambino alla normalità, sia esso un medico o un guaritore, e successivamente
dall’adattamento e dall’accettazione dell’evento. In questa seconda fase, i genitori vedono
abbassarsi l’ansia e il sentimento di inadeguatezza e cominciano a riprendere fiducia nelle
proprie competenze genitoriali e a ripensare al futuro.
Ovviamente, ogni famiglia è una famiglia a sé stante e le fasi possono variare nell’ordine e nella
durata. Alcune fasi possono anche non essere presenti oppure avvenire contemporaneamente.
Spesso le famiglia non solo imparano a convivere con i limiti del figlio, ma trasformano anche il
loro modo di vedere la vita, cambiando l’ordine dei valori ritenuti importanti, modificando
eventuali pregiudizi e dando grande importanza all’aiuto reciproco. In particolare, quei genitori che
riescono ad ammettere a sé stessi e agli altri, in un clima privo di giudizio, che il figlio che hanno
avuto in sorte non è esattamente quello che avevano sognato, sono quelli che riescono meglio nella
fase di “trasformazione” verso un miglior adattamento alla situazione (Pelchat, Bouchard e
Lefebvre, 2001).
La ricerca condotta da Gioga e Zanella (2008) sul benessere della popolazione disabile del territorio
di Rovigo ha esplorato la presa in carico delle famiglie con figli disabili, sin dal momento della
comunicazione della diagnosi, attraverso interviste a genitori con figli disabili e ad operatori dei
servizi. L’analisi delle interviste mostra come a volte i genitori non si ricordino con esattezza la
tempistica della diagnosi e la durata del periodo dell’incertezza, anche quando la diagnosi è già stata
comunicata, ma le famiglie cercano comunque risposte differenti presso altri servizi. Altre volte le
famiglie confondono la diagnosi con l’eziologia della malattia per cui riferiscono con precisione la
diagnosi ma dicono di non conoscerla perché non ne conoscono le cause.
I genitori invece riferiscono con certezza i sentimenti e i vissuti al momento della diagnosi. La
durata del tempo dell’incertezza è variabile da caso a caso e appare più breve per diagnosi di
sindrome di Down e più lunghe per diagnosi di autismo o sindromi più complesse. A volte i genitori
riferiscono che il servizio ha cercato di prendere tempo prima di comunicare con chiarezza la
diagnosi e la prognosi, mentre i genitori avrebbero preferito una maggior chiarezza e tempestività. A
volte i genitori lamentano il linguaggio troppo tecnico utilizzato o la frettolosità con cui è stata
comunicata la diagnosi. Inoltre, maggiore è il tempo di incertezza e maggiori sono i bisogni delle
famiglie di essere sostenuti e accompagnate in un lungo percorso alla ricerca di competenze
specialistiche e anche umane. Alcune famiglie girano da uno specialista all’altro alla ricerca di
risposte e altre volte sono le famiglie stesse che attivano i servizi che già dovrebbero seguire il caso
(Moderato, 2001).
Prendendo in considerazione il caso della diagnosi di autismo, Gioga e Hanau (2006) sottolineano
l’importanza della diagnosi precoce di disabilità, che consenta l’elaborazione del lutto e
successivamente l’acquisizione di modalità efficaci di educazione del bambino. Al contrario, una
comunicazione della diagnosi tardiva, effettuata in modo che genera ansia e abbattimento nella
coppia, può accentuare la naturale reticenza di alcuni genitori nell’accettare la disabilità del figlio e
ritardare l’attivazione di quei servizi sociali e sanitari e di quegli interventi psico-educativi di cui le
famiglie e i bambini hanno diritto e bisogno.
13
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