Aspetti psicologici della gravidanza e della genitorialità...

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1 Aspetti psicologici della gravidanza e della genitorialità Pivetti Monica 1 Introduzione Come ben sa chi ha figli, la nascita del primo figlio 2 è un evento cruciale per la vita dell’uomo e della donna 3 , sia negli aspetti più concreti che in quelli psicologici, e diventa uno spartiacque tra il prima e il dopo la nascita (Binda e Rosnati, 1997). Dal punto di vista psicologico, molti autori concordano nel ritenere il divenire genitori non tanto il momento in cui si concepisce o si mette al mondo un bambino, bensì il periodo più o meno lungo di “transizione alla genitorialità”. Quest a transizione prende origine dalla storia personale di ciascuno, dal contesto familiare in cui ognuno è inserito e dalle aspettative che la società ha nei confronti dei ruoli genitoriali (Cristallo e Scamperle, 2006). Nella società odierna, avere un figlio è sempre più spesso frutto di una scelta volontaria per effetto dell’ampia diffusione della contraccezione. Inoltre, molto spesso tale evento è spostato in avanti nella vita degli individui e delle coppie, sia per effetto della crescente scolarizzazione e presenza nel mercato lavorativo delle donne, sia per effetto del gioco dell’attesa di una situazione di coppia o di una situazione lavorativa o abitativa più adeguata. Se accolta generalmente in un clima di festa, la nascita di un figlio rappresenta un momento critico per la coppia e per la famiglia tutta, che necessita una riorganizzazione importante della quotidianità e del funzionamento della famiglia. Spesso l’evento va aldilà delle aspettative che nel tempo i membri della coppia si sono costruiti a riguardo e forse per questa sua potenzialità innovativa è temuto da alcune coppie. Inoltre la nascita di un figlio ristruttura i ruoli presenti all’interno della famiglia, dove chi e ra figlio (i membri della coppia) si trova improvvisamente genitori e chi era genitore diventa nonno. In questi legami familiari, il rapporto con il figlio diventa un rapporto di “dono”, nel quale il figlio si trova in una situazione di “debito” fin dalla nascita che dovrà a un certo punto estinguere, mettendo al mondo a sua volta un figlio e facendosene carico (oltre che accudire la generazione precedente, in caso di necessità) (Boszormenyi-Nagy e Spark, 1973; Godbout, 1992). 1. Il divenire genitori Più ancora del trasferirsi fuori della casa materna e del rito del matrimonio, l’avere un figlio è considerato un evento critico nella transizione allo status adulto. Rispetto a se stesso, l’individuo ha il compito psicologico di ridefinire la propria identità personale e di acquisire una nuova relazione, quella con il proprio primogenito. Secondo Erikson (1984), i membri della coppia sviluppano la capacità “di prendersi cura” della generazione successiva, in un’assunzione di responsabilità che è virtù tipicamente adulta. Secondo la rassegna condotta da Binda e Rosnati (1997), rispetto al primogenito, lo stile di parenting, ossia quell’insieme di comportamenti che la coppia adotta più o meno consapevolmente con i propri figli, è influenzato da: - le esperienze che ciascun membro della coppia ha vissuto nella propria infanzia; in particolare, Bowlby (1999; 2000) e Ainsworth (2006) parlano di legami di attaccamento per descrivere la relazione specifica e stabile, che si instaura tra il bambino e il caregiver (generalmente la madre ma può essere anche un’altra figura adulta), sulla base degli scambi interattivi che si svolgono tra loro, al fine di garantire il benessere dell’individuo e la protezione dai pericoli 4 . Alcuni recenti studi sulla trasmissione intergenerazionale di questi 1 Monica Pivetti Ricercatore Universitario presso Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, Chieti 2 Per brevità espositiva, nello scritto si parlerà di “primogenito” o “figlio”, intendendo sia il primogenito (maschio) che la primogenita (femmina). 3 Sebbene con il termine “famiglia” ci si riferisca a una pluralità di progetti di vita come le coppie omosessuali, le famiglie adottive, eccetera (Fruggeri, 1998), in questo scritto ci riferiremo alla coppia eterosessuale che ha un figlio biologico. 4 Attraverso numerose ricerche osservazionali, Bowlby e Ainsworth hanno definito 4 tipologie di attaccamento che legano la madre (o la figura principale di accudimento) e il bambino: (1) Stile "Sicuro": il bambino esplora l'ambiente e

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Aspetti psicologici della gravidanza e della genitorialità Pivetti Monica

1

Introduzione Come ben sa chi ha figli, la nascita del primo figlio

2 è un evento cruciale per la vita dell’uomo e

della donna3, sia negli aspetti più concreti che in quelli psicologici, e diventa uno spartiacque tra il

prima e il dopo la nascita (Binda e Rosnati, 1997). Dal punto di vista psicologico, molti autori

concordano nel ritenere il divenire genitori non tanto il momento in cui si concepisce o si mette al

mondo un bambino, bensì il periodo più o meno lungo di “transizione alla genitorialità”. Questa

transizione prende origine dalla storia personale di ciascuno, dal contesto familiare in cui ognuno è

inserito e dalle aspettative che la società ha nei confronti dei ruoli genitoriali (Cristallo e Scamperle,

2006).

Nella società odierna, avere un figlio è sempre più spesso frutto di una scelta volontaria per effetto

dell’ampia diffusione della contraccezione. Inoltre, molto spesso tale evento è spostato in avanti

nella vita degli individui e delle coppie, sia per effetto della crescente scolarizzazione e presenza nel

mercato lavorativo delle donne, sia per effetto del gioco dell’attesa di una situazione di coppia o di

una situazione lavorativa o abitativa più adeguata.

Se accolta generalmente in un clima di festa, la nascita di un figlio rappresenta un momento critico

per la coppia e per la famiglia tutta, che necessita una riorganizzazione importante della quotidianità

e del funzionamento della famiglia. Spesso l’evento va aldilà delle aspettative che nel tempo i

membri della coppia si sono costruiti a riguardo e forse per questa sua potenzialità innovativa è

temuto da alcune coppie.

Inoltre la nascita di un figlio ristruttura i ruoli presenti all’interno della famiglia, dove chi era figlio

(i membri della coppia) si trova improvvisamente genitori e chi era genitore diventa nonno. In

questi legami familiari, il rapporto con il figlio diventa un rapporto di “dono”, nel quale il figlio si

trova in una situazione di “debito” fin dalla nascita che dovrà a un certo punto estinguere, mettendo

al mondo a sua volta un figlio e facendosene carico (oltre che accudire la generazione precedente, in

caso di necessità) (Boszormenyi-Nagy e Spark, 1973; Godbout, 1992).

1. Il divenire genitori

Più ancora del trasferirsi fuori della casa materna e del rito del matrimonio, l’avere un figlio è

considerato un evento critico nella transizione allo status adulto. Rispetto a se stesso, l’individuo ha

il compito psicologico di ridefinire la propria identità personale e di acquisire una nuova relazione,

quella con il proprio primogenito. Secondo Erikson (1984), i membri della coppia sviluppano la

capacità “di prendersi cura” della generazione successiva, in un’assunzione di responsabilità che è

virtù tipicamente adulta. Secondo la rassegna condotta da Binda e Rosnati (1997), rispetto al

primogenito, lo stile di parenting, ossia quell’insieme di comportamenti che la coppia adotta più o

meno consapevolmente con i propri figli, è influenzato da:

- le esperienze che ciascun membro della coppia ha vissuto nella propria infanzia; in

particolare, Bowlby (1999; 2000) e Ainsworth (2006) parlano di legami di attaccamento per

descrivere la relazione specifica e stabile, che si instaura tra il bambino e il caregiver

(generalmente la madre ma può essere anche un’altra figura adulta), sulla base degli scambi

interattivi che si svolgono tra loro, al fine di garantire il benessere dell’individuo e la

protezione dai pericoli4. Alcuni recenti studi sulla trasmissione intergenerazionale di questi

1 Monica Pivetti Ricercatore Universitario presso Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, Chieti

2 Per brevità espositiva, nello scritto si parlerà di “primogenito” o “figlio”, intendendo sia il primogenito (maschio) che

la primogenita (femmina). 3 Sebbene con il termine “famiglia” ci si riferisca a una pluralità di progetti di vita come le coppie omosessuali, le

famiglie adottive, eccetera (Fruggeri, 1998), in questo scritto ci riferiremo alla coppia eterosessuale che ha un figlio

biologico. 4 Attraverso numerose ricerche osservazionali, Bowlby e Ainsworth hanno definito 4 tipologie di attaccamento che

legano la madre (o la figura principale di accudimento) e il bambino: (1) Stile "Sicuro": il bambino esplora l'ambiente e

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stili di attaccamento hanno evidenziato una forte correlazione tra esperienze vissute dai

genitori nell’infanzia e legami che essi instaurano a loro volta con i figli, ossia una tendenza

degli individui a riproporre con i propri figli le stesse esperienze vissute nella propria

infanzia e quindi copiare lo stesso stile di attaccamento (Main e collaboratori, 1993).

Certamente, cambiamenti negli stili di attaccamento possono avvenire attraverso

l’esperienza con altre relazioni adulte non congruenti con i modelli acquisiti nell’infanzia

oppure attraverso esperienze emotive particolarmente forti.

- gli stili di parenting adottati dalla coppia: per esempio Simons e collaboratori (1990; 1993)

distinguono 3 tipi di parenting: (1) constructive parenting, ossia il mettere in atto pratiche

educative che attraverso un’interazione frequente e stimolante per il bambino favorisce il

suo sviluppo fisico, psichico e sociale; (2) destructive parenting, ossia il mettere in atto

pratiche orientate alla coercizione e all’obbedienza al fine di instaurare una disciplina; (3)

supportive parenting, ossia comportamenti di sostegno reciproco tra genitori

nell’accudimento dei figli e nel grande coinvolgimento affettivo e nell’utilizzo di metodi

“soft” per ottenere disciplina.

- l’orientamento valoriale dei genitori; per esempio Luster e collaboratori (1989) hanno

osservato che le madri che considerano un valore fondamentale l’autodeterminazione,

tendono a comportarsi in modo da sostenere le iniziative del proprio bambino, mentre le

madri che ritengono più importante il conformarsi alle norme sociali tendono a rinforzare

l’obbedienza alle regole.

- il livello di soddisfazione coniugale: infatti le coppie soddisfatte del loro matrimonio

tendono ad attuare uno stile di parenting costruttivo (Simons, 1990, 1993).

- le attese sociali nei confronti dei ruoli genitoriali; infatti seppure la presenza delle donne sul

mondo del lavoro sia andata crescendo, richiedendo un maggior coinvolgimento degli

uomini nei lavori domestici e nella cura dei figli, con la nascita del primo figlio si osserva

spesso una tradizionalizzazione dei ruoli (La Rossa e La Rossa, 1981), che attribuisce alla

donna il lavoro domestico e di accudimento dei figli. In particolare, le attese sociali riguardo

il lavoro educativo delle madri le caratterizza come progettatrici scientifiche dell’educazione

del figlio, richiedendo alla donna crescente tempo, energie e competenze specifiche di

puericultura e sviluppo cognitivo del bambino (DeSingly, 1994).

Il conciliare tempo di lavoro e tempo della famiglia (Bramanti e Rossi, 1991) e il lavoro psicologico

di assunzione del ruolo materno mettono spesso la donna in una situazione di fragilità psicologica.

Per molte donne, le aspettative riguardo alla vita familiare nel dopo parto, spesso idealizzate, si

scontrano con il carico concreto di lavoro legato alle continue richieste di cura del neonato, con i

cambiamenti nella relazione coniugale e con la significativa riduzione nei rapporti sociali

(Tammentie et al., 2004).

La figura paterna è contraddistinta tra una certa asincronia tra le pressioni sociali e il

comportamento quotidiano: se da una lato ci si aspetta una progressiva interscambiabilità dei ruoli,

molto spesso nel quotidiano il padre è di supporto alla figura materna, nell’ambito di una divisione

sbilanciata del lavoro di cura della casa e di accudimento del figlio verso la madre. Inoltre, spesso i

ruoli vengono rinegoziati all’interno della coppia: se era stato trovato un equilibrio sulla

distribuzione dei compiti domestici prima della nascita del figlio, tale evento lo rimette in

discussione, a causa proprio della stessa natura biologica dei ruoli che, per esempio, consente solo

alla madre l’allattamento della prole.

Riguardo al rientro al lavoro dopo la maternità, Shuster (1983) ha osservato 4 modi principali in cui

le donne riescono a combinare gli impegni familiari con quelli lavorativi, anche in relazione alla

gioca sotto lo sguardo vigile della madre con cui interagisce. Quando la madre esce e rimane con lo sconosciuto il

bambino è visibilmente turbato. Al ritorno della madre si tranquillizza e si lascia consolare; (2) Stile "Insicuro Evitante":

il bambino esplora l'ambiente ignorando la madre, è indifferente alla sua uscita e non si lascia avvicinare al suo ritorno;

(3) Stile "Insicuro Ambivalente": il bambino ha comportamenti contraddittori nei confronti della madre, a tratti la

ignora, a tratti cerca il contatto. Quando la madre se ne va e poi ritorna risulta inconsolabile; (4) Stile "Disorganizzato":

il bambino mette in atto dei comportamenti stereotipici, ed è sorpreso/stupefatto quando la madre si allontana.

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tendenza ad affidare la cura del bambino ad altre figure: (1) le madri “innamorate” si considerano le

più competenti nella cura del figlio, tornano poco volentieri al lavoro e bilanciano bene rientro al

lavoro e accudimento affettuoso del figlio; (2) le madri “manager” che ripongono grande fiducia

nelle persone alle quali affidano il figlio ritenendole validi aiuti nella crescita del figlio, e riescono a

ricoprire i due ruoli con successo; (3) le madri “angosciate” che ritengono che un’unica figura

debba prendersi cura del figlio ed entrano spesso i conflitto con coloro che accudiscono il figlio in

sua assenza; (4) le madri “disimpegnate” che attribuiscono maggiore importanza all’attività

lavorativa e riversano all’esterno ogni responsabilità e compito di cura dei bisogni del figlio.

1.1 il punto di vista della madre: Psicologia della gravidanza

Secondo Stern e Bruschweiler-Stern (1999), alla nascita fisica del bambino corrisponde la nascita

psicologica della mamma, ossia la madre nella sua mente dà origine a una nuova identità: il senso

dell’essere madre. Stern parla di “assetto materno”, che non nasce nell’istante in cui il neonato

viene alla luce bensì emerge gradualmente dal lavoro intrapsichico che si è andato cumulando nei

molti mesi precedenti e successivi all’effettiva nascita del bambino. Stern individua tre fasi nel

graduale processo del divenire madre:

1) la prima fase ha inizio con la gravidanza, nella quale avvengono 3 gravidanze in una: (a)

mentre il corpo è impegnato nella gestazione fisica del feto, la mente è attivamente

impegnata a (b) elaborare la sua nuova identità e (c) a costruire una immagine di come

potrebbe essere il bambino. Inoltre i cambiamenti corporei che avvengono durante la

gravidanza minano l’immagine fisica che la donna ha di sé e preparano il terreno per una

nuova organizzazione dell’identità materna, favorendo anche lo sviluppo del bambino

immaginario. Solitamente il processo immaginativo di costruzione delle fantasie ha inizio

dopo il terzo mese, quando si ha conferma del normale procedere della gravidanza. Tra i

quattro e i sette mesi, le donne cominciano a creare fantasie sempre più specifiche sul feto e

le ecografie spesso facilitano il lavoro di immaginazione. Tra l’ottavo e il nono mese, la

futura madre comincia a smontare questa immagine in modo che al momento della nascita,

quando si incontreranno bambino immaginato e reale, le due entità non presentino

differenze troppo marcate. Inoltre, negli ultimi mesi di gestazione, aumentano le paure

relative al parto e alla salute del bambino: la paura che il bambino nasca morto o muoia

subito dopo il parto; il timore di non riuscire a sopportare il dolore o di avere il bacino così

stretto che il bambino resti bloccato, senza poter uscire; la paura di avere un bambino

deforme etc. Molte volte le donne riferiscono sogni particolarmente paurosi che coinvolgono

il nascituro. Tali paure/sogni aiutano la madre a prepararsi alle molteplici eventualità che

possono accadere nel momento del parto.

2) il parto come transizione; per molte donne, il momento del parto rimane tutta la vita come

un ricordo vivido e di grande intensità, sia che si sia trattato di un’esperienza positiva che

negativa. Tale momento oltrepassa i limiti di sopportazione e dolore. Inoltre, vedere il

neonato rende la madre consapevole che ora il neonato è un’entità distinta da sé. Le madri

riferiscono di aver provato un misto di sentimenti di euforia, sfinimento, vittoria, sollievo,

dolore.

3) la nascita di una madre; i mesi successivi alla nascita del bambino, quando la madre torna a

casa e si dedica ai compiti di nutrire, accudire e far crescere il neonato, costituiscono la terza

fase nella quale l’assetto materno assume forma compiuta. Spesso, la principale

preoccupazione delle mamme è che il bambino smetta di respirare, che il bambino muoia,

che si faccia male per colpa della inadeguatezza della madre, che il bambino non acquisisca

il peso ritenuto adeguato, che non sia in buona salute. Queste naturali preoccupazioni

tengono alta l’attenzione delle madri verso la protezione del bambino e le aiutano ad

interiorizzare le nuove responsabilità. Inoltre, la fatica dell’accudimento accompagna i primi

mesi di vita del bambino, quando i suoi ritmi relativi alla fame e al sonno sono ancora

estremamente irregolari e non permettono alla madre il riposo di cui ha bisogno. Inoltre, in

questi mesi ogni madre sviluppa una relazione intima con il bambino, in un suo modo

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personale di stare con lui e di rispondere alle sue prime richieste. Prima che il bambino

impari a parlare, si parla di “relazionalità primaria”, ossia della relazione che si costruisce

grazie all’allattamento e al momento dei pasti, attraverso la produzione di suoni, scambi di

sguardi e di espressioni del viso, lievi movimenti. Inoltre, nei primi mesi aumenta il

coinvolgimento delle mamme verso le altre donne e meno sugli uomini, e soprattutto verso

la propria madre. Molto spesso, il modello di attaccamento che viene stabilito con il

bambino è in larga misura determinato da quello sperimentato con la propria madre.

1.2 Dalla coppia alla triade

Come si è già accennato, al ritorno a casa dall’ospedale la presenza di un figlio ha un impatto molto

forte sia sull’organizzazione delle giornate, ossia la cura del bambino, la distribuzione del lavoro

domestico, la gestione del tempo libero, sia sulla relazione tra i membri della coppia, che hanno

bisogno di nuove strategie di comunicazione e gestione dei conflitti.

Gli effetti della nascita dei figli sulla relazione di coppia sono stati osservati attraverso la

rilevazione dei livelli di soddisfazione coniugale. Mentre le prime 4-6 settimane sono considerate

abbastanza facili poiché la vicinanza di parenti e amici alleviano i compiti di cura, il maggiore

impatto avviene nei primi 3 mesi quando la relazione di coppia appare come funzionale

all’accudimento del bambino (Belsky et al., 1983; Cowan et al., 1985). Il declino della

soddisfazione di coppia al passare del tempo non è solo legato all’avere un figlio ma è comune a

tutte le coppie, indipendentemente dall’avere figli o meno. Appaiono più soddisfatte quelle coppie

che riescono ad accordarsi su una equa spartizione dei compiti legati alla cura del bambino (Cowan

e Cowan, 1990) oppure quelle coppie che hanno una concezione tradizionale dei ruoli sessuali

(McDemid, 1990).

La genitorialità ha un impatto maggiore sulle madri rispetto ai padri, le quali riferiscono

l’affaticamento, la difficoltà a trovare tempo per sé e l’aumento delle tensioni all’interno della

coppia (Cooper Harrimann, 1983; Belsky, Lang e Rovine, 1985). Questo è un esempio del fatto che

la relazione tra i membri della coppia sia connessa alla relazione madre-bambino nei primi 3 anni di

vita del bambino. Una ricerca di Easterbrooks e Emde (1988) osserva come quanto più i membri

della coppia sono soddisfatti della propria relazione, tanto più vedranno positivamente la relazione

con il bambino. Questo è valido soprattutto per i padri, che quando hanno una relazione più

soddisfacente, sono solitamente più attenti e meno irritati nella relazione con il figlio. Inoltre, il

costruire una solida alleanza genitoriale permette ai membri della coppia di adempiere con

maggiore efficacia ai compiti del divenire genitori (Simons, 1993; Lewis, 1989). In questo senso, la

relazione coniugale, lo stile di parenting e lo sviluppo dei figlio costituiscono 3 aspetti fondamentali

dello sviluppo della nuova famiglia.

1.3 La famiglia estesa

In molti casi, i neo-genitori ricevono supporto emotivo, materiale ed economico dalle famiglie di

origine, come si rileva dal basso tasso di bambini tra 0 e 3 anni che frequentano l’asilo nido (7,4%;

fonte: Sanna e Teselli, 2005) e l’alta percentuale di neogenitori che vanno a vivere entro un

chilometro dalla casa dei nonni (28,9%) o che vanno a co-risiedere con i genitori di uno dei due

(8,2%; fonte: ISTAT, report "Famiglia e soggetti sociali", Sistema di Indagini multiscopo sulle

famiglie, dati relativi all’anno 2009). Compito della generazione dei nonni è quello di sostenere i

figlio, ora genitori, nel loro ruolo, anche grazie all’esperienza maturata nell’allevamento dei figli, e

partecipare alla vita dei nipoti assumendo il nuovo ruolo di nonni (Scabini, 1995). Il rischio in

questa delicata fase è quello di tentare di sostituirsi ai neo-genitori oppure, al contrario, di

disinteressarsi del nuovo nato. Se i nonni riescono a trovare una posizione intermedia tra questi

opposti, possono facilitare l’assunzione del ruolo genitoriale nei neo-genitori, che può avvenire solo

se sono stati tracciati chiari confini tra la nuova famiglia e le famiglie di origine.

Inoltre, nel primo anno di vita del bambino si intensificano i rapporti tra le coppie di genitori con

figli piccoli che si trovano a vivere situazioni simili. Spesso, le famiglie monogenitoriali

considerano l’aiuto ricevuto dagli amici come più rilevante rispetto a quello ricevuto dai parenti

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(Marks e McLanahan, 1993).

2. La relazione di aiuto e il sostegno in gravidanza e nel puerperio

Le modificazioni sociali e demografiche, quali per esempio l’abbassamento del numero di figli per

donna e il tramonto della famiglia patriarcale estesa, hanno diminuito nel corso degli anni il numero

di figure sulle quali i neo-genitori possono contare in un momento difficile come il rientro a casa

dall’ospedale. Infatti mentre un tempo le coppie erano inserite in una fitta rete di parentele che

potevano sostenere la coppia ed alleviare il senso di fatica fisica ed emotiva, ora si assiste ad un

crescente isolamento della coppia che spesso, di fronte al primo figlio, può provare smarrimento e

solitudine, che possono acuire lo stress, le ansie, le insicurezze, i sintomi depressivi dei membri

(ISTAT, 2000).

Grande importanza in questa fase possono assumere quindi gli interventi psicosociali sia a livello

individuale, come il sostegno psicologico durante la gravidanza e il puerperio e le visite domiciliari

di personale sanitario come l’ostetrica o l’assistente sanitaria, sia a livello più gruppale come i corsi

di preparazione alla nascita e le attività di sostegno alla genitorialità. Il contributo della psicologia e

delle scienze sociali si concentra sulla relazione di aiuto a livello individuale, e sull’organizzazione

di efficaci programmi di sostegno alla nascita che coinvolgono professionisti sociali e sanitari, a

livello gruppale.

2.1 La relazione di aiuto

Canevaro e Chieregatti (1999) intendono il lavoro di cura come l’accompagnamento di un operatore

nei confronti di un ragazzo o di un adulto nella crescita individuale e sociale. Molte relazioni

amicali, familiari, di vicinato, sono relazioni di aiuto, così come molte relazioni di tipo

professionale quali insegnante-allievo, medico-paziente, assistente sociale-persona, oltre che quelle

sviluppate da psicologi, counselor e psicoterapeuti.

Seguendo la definizione formulata dalla categoria degli assistenti sociali, la relazione di aiuto

intende l’utente come un soggetto, che sebbene in grande difficoltà, svantaggiato e limitato

nell’utilizzo delle risorse, deve poter scegliere il proprio percorso. Tale libertà di scelta permette

l’assunzione di responsabilità da parte della persona stessa (Carkuff, 2002; Pedrazza, 2004).

La relazione di aiuto si caratterizza per elementi di asimmetria e di simmetria. Da un lato si tratta di

un incontro fra due persone di cui una si trova in condizioni di

sofferenza/confusione/conflitto/disabilità (rispetto a una determinata situazione o a un determinato

problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) e un’altra persona dotata di un grado

superiore di adattamento/competenze/abilità, rispetto a queste stesse situazioni o tipo di problema

(Evangelista, 2006; Folgheraiter, 1993). Dall’altro lato molti autori insistono sul bisogno di

simmetria nella relazione di aiuto poiché essa rappresenta la modalità di aiuto tra pari, tra adulti,

nella quale l’azione dovrebbe produrre l’autodeterminazione della persona. In questo senso

l’asimmetria, come per esempio utilizzare un vocabolario molto forbito, porre barriere fisiche tra le

persone, vestirsi in modo estremamente elegante o estremamente trasandato, può rimarcare la

differenza di ruolo e di potere e rallentare la crescita individuale, poiché all’aiutato si restituisce

l’immagine di ciò che non è e non ha (Albano, 2004; 2005; Pedrazza, 2005).

In campo professionale, l’autonomia del richiedente aiuto è un obiettivo della relazione di aiuto, nel

senso che colui che riceve aiuto è parte attiva del processo, è co-attore del suo benessere (Bianchi,

1983). Il prestatore di aiuto ha lo scopo di sostenere il richiedente nel suo percorso verso

l’autonomia, senza sostituirsi all’altro per non impedirne, anziché promuoverne, lo sviluppo

(Canevaro, Chieregatti, 1999). Questo orientamento è stato sviluppato in particolar modo nella

teoria dell’empowerment, intesa come la crescita di comprensione dei fenomeni, di consapevolezza

dei problemi, di percezione dei limiti a fronte di rischi individuali e globali, di uso del principio di

precauzione nelle decisioni, di uso positivo dell'incertezza. Per empowerment si intende sia il

processo di crescita personale sia il risultato di tale percorso, ovvero il miglioramento

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dell’autonomia della persona (Folgheraiter, 2002).

2.1.1 Le abilità di colui che presta aiuto

Nella relazione diventa fondamentale l’atteggiamento che l’operatore sociale ha nei confronti

dell’utente (Pedrazza, 2005). Tale atteggiamento potrebbe essere la base per conflitti,

incomprensioni e ulteriori pregiudizi con colui che richiede aiuto. Dal punto di vista della

psicologia sociale, gli atteggiamenti costituiscono griglie percettive, attraverso le quali leggiamo,

decodifichiamo e organizziamo i dati di realtà. L’attivazione di uno stereotipo, ossia la componente

cognitiva di un atteggiamento, che consiste nell’attribuzione ad un membro di un gruppo delle

caratteristiche che si ritiene condivise da tutti i membri del gruppo (Brown, 2000), può influire

negativamente sul processo di aiuto.

Giovannini (1998) elenca le abilità del professionista nella relazione di aiuto:

- interesse genuino per l’altro, interesse per le persone, rispetto per le persone (Metelli Di

Lallo, 1954),

- interesse per il proprio lavoro visto non come routine o come parte di un ingranaggio

burocratico (Metelli Di Lallo, 1954),

- capacità di comunicare e capacità di contatto, capacità di manifestare considerazione

(Rogers, 1942),

- atteggiamento collaborativo e capacità di fornire supporto psicologico (Borsatti, Cesa

Bianchi, 1980);

- flessibilità, e capacità di ascolto (Meyer, Davis, 1993),

- rispetto dell’autodeterminazione dell’altro (Kadushin, 1972),

- astensione da qualsiasi atteggiamento moralistico (Rogers, 1942),

- capacità di riconoscere le difese dell’altro (Lis, Venuti, De Zordo, 1991).

2.1.2 La comunicazione interpersonale

La relazione di aiuto si può esplicare attraverso la comunicazione interpersonale e, in questo senso,

le competenze comunicative e gli atteggiamenti di chi presta aiuto diventano centrali per la buona

riuscita dello scambio (Franta e Salonia, 2005).

Se, come affermano Watzlawick e collaboratori (1971), “ogni comportamento è comunicazione”,

allora diventa rilevante distinguere tra comunicazione verbale e non verbale. La tabella 1 sintetizza

le caratteristiche dei due tipi di comunicazione.

Tab. 1 – Caratteristiche della comunicazione verbale e non verbale

Comunicazione verbale Comunicazione non verbale

Invia i messaggi di tipo razionale-cosciente Invia messaggi di tipo intuitivo-subcosciente

Suscita idee e trasmette pensieri Evoca emozioni e trasmette sentimenti

Prevale il significato logico-linguistico Prevale il significato psicologico

La comprensione è lenta, per analisi La comprensione è immediata, per sintesi

Percezione ed interpretazione dei segnali

secondo un metodo logico-metodico

Percezione ed interpretazione dei segnali in

modo globale-olistico

Influisce per il 7% sulla comprensione del

significato

Influisce per il 93% sulla comprensione del

significato

Fonte: Laveder, F. (2005) Comunicazione verbale e non verbale. In G. Tuveri (a cura di) Saper

ascoltare, saper comunicare. Roma, Pensiero Scientifico Editore.

Comunicare e ascoltare implica il prestare attenzione ad ogni messaggio proveniente dall’altro, sia a

livello verbale che non verbale. Significa non solo ascoltare ciò che l’altro dice a livello di

contenuto, ma anche osservare ciò che fa e non fa (livello di status/identità) e rendersi conto di

come l’altro reagisce di fronte ai messaggi e comportamenti inviati da chi parla (livelli di relazione

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ed emotivo-affettivo).

2.1.3 L’empatia

La disposizione delle persone verso la partecipazione ad un affetto viene definita empatia ossia la

capacità di mettersi nei panni dell’altro, la capacità di comprensione empatica con una corretta

distanza emotiva, porsi nei panni dell’altro in termini sia cognitivi sia affettivi (Kadushin, 1972;

Rogers, 1983). L’ascolto empatico permette inoltre di creare una piattaforma comune tra emittente e

ricevente, che facilita l’interazione comunicativa. Infatti, immedesimarsi nell’altro significa anche

muoversi nell’universo percettivo dell’altro con il rispetto derivante dalla consapevolezza che tale

mondo non ci appartiene. Diventa cruciale astenersi dal giudizio, in modo da evitare di porsi con i

propri comportamenti, valori, giudizi, abitudini, a metro di misura dell’altro.

Secondo Bianchi (1983), nella relazione d’aiuto l’operatore sociale dovrebbe, saper anche:

- essere disponibile al cambiamento,

- sviluppare attenzione critica,

- stabilire collegamenti tra persone e risorse e tra vari sistemi di risorse,

- fornire informazioni sulle risorse in modo da aiutare gli utenti a superare le barriere

psicologiche che si interpongono alla utilizzazione delle risorse,

- migliorare le risorse esistenti e aiutare a sviluppare nuove reti di risorse sia sul piano

istituzionale che comunitario,

- aiutare gli utenti a individuare, utilizzare e sviluppare le risorse personali.

2.2 Il sostegno (psicologico) in gravidanza e nei primi mesi di puerperio

In questo contesto, i corsi di accompagnamento alla nascita durante la gravidanza, generalmente

definiti corsi pre-parto, e i programmi di visita domiciliare nel puerperio possono avere benefici per

la madre, per la coppia e per la relazione col bambino (Bestetti e Guerrini, 2011; Jacobson e Frye,

1991; Hawkins e coll., 1992).

La rilevazione nazionale sul percorso nascita di Grandolfo, Donati e Giusti dell’ISS (2002) ha

mostrato che fattori associati a una maggiore partecipazione ai corsi di preparazione alla nascita

sono l’età ≥30a, l’istruzione superiore, l’essere stata assistita in gravidanza dal consultorio familiare

dall’ostetrica; fattori associati a una minore partecipazione sono la condizione di casalinga, di

pluripara soprattutto con precedente esperienza di taglio cesareo, la gravidanza patologica e la

residenza al Sud.

Lara, Navarro e Navarrete (2010) nel loro studio randomizzato sull’efficacia degli interventi

psicoeducativi per prevenire la depressione postpartum nelle donne messicane ha confrontato un

campione di donne che hanno frequentato un corso preparto e un gruppo di controllo che non lo ha

frequentato. Le misurazioni sono state effettuate in 3 momenti: durante la gravidanza, a 6 settimane

e a 4-6 mesi dalla nascita. I risultati mostrano che l’incidenza della depressione postpartum è

minore per le donne che hanno seguito il corso nei tre momenti della misurazione. Inoltre le

partecipanti al corso hanno riferito che, dal loro punto di vista, questo ha avuto un’influenza da

media a grande sul loro benessere, sui loro problemi quotidiani, sul loro ruolo come madri e sulla

loro relazione con il bambino.

Le, Perry e Stuart (2011) hanno studiato l’efficacia di un corso preparto di 8 settimane basato sul

metodo cognitivo-comportamentale attraverso uno studio randomizzato con gruppo di controllo in

donne immigrate dall’America Centrale e residenti nel distretto di Washington (USA). Le

misurazioni sono state fatte sia durante il corso, che 6 settimane, 4 mesi e un anno dopo la nascita. I

risultati mostrano che le donne che hanno frequentato il corso hanno meno sintomi depressivi

immediatamente dopo la fine del corso rispetto alle donne che non l’hanno frequentato. Tuttavia

questi risultati non sono continuati nel periodo postparto. Inoltre, non ci sono stati effetti del corso

riguardo l’incidenza di episodi depressivi gravi nel tempo. Ad ogni modo, i sintomi depressivi

diminuivano significativamente al passare del tempo dalla gravidanza al postparto,

indipendentemente dall’aver partecipato al corso o meno.

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Riguardo ai programmi di home visiting, ossia l’intervento domiciliare alle madri dopo il parto

(McNaughton, 2004), esso si attiva solitamente solo in situazioni di rischio per il bambino e

vulnerabilità del bambino (prematurità, basso peso alla nascita etc), situazioni di disagio sociale

della famiglia (povertà, madre sola o minorenne etc), situazioni di disagio causato da malattia dei

genitori (handicap, malattia psichiatrica etc). Tale home visiting è definito come un setting, un

contesto nel quale vengono erogati una gamma di interventi (Prezza, Speranza e Todini, 2006).

Alcuni programmi fanno riferimento a procedure più standardizzate mentre altri sono più flessibili e

si adattano ai bisogni delle famiglie. Inoltre le professionalità degli operatori domiciliari sono le più

diverse e possono essere psicologi, infermieri, ostetriche, operatori sociali, assistenti sociali e

sanitari, volontari. Tali programmi basano le loro azioni sulla teoria di riferimento. Prezza, Speranza

e Todini (2006) ne presentano tre:

(a) “Nurse Home Visiting Program” (Olds et al., 1998) negli U.S.A.; tale programma prevede

una visita domiciliare della durata di 90 minuti a cadenza settimanale fino a 6 settimane

dopo il parto, poi quindicinale e infine mensile. I professionisti coinvolti sono infermieri

professionali con laurea breve, con un corso di formazione iniziale e incontri di supervisione

regolare in itinere. Il programma è rivolto principalmente a madri sole o minorenni o con

problemi di abuso di sostanze, o esperienze di maltrattamento/abuso o problemi

psichiatrici/psicologici. L’attenzione degli operatori è indirizzata sugli aspetti sociali e

materiali che possono mettere in grado le madri di occuparsi con del bambino e di facilitarne

lo sviluppo e la salute. Inoltre gli operatori cercano di favorire l’attivazione delle persone

significative per la madre come il padre del bambino, la nonna, la sorella, le amiche eccetera

e l’utilizzo dei servizi sociali e sanitari presenti nella comunità (Journal of Community

Psychology, 1997; 1998).

(b) Il modello educativo/programma “Genitori come insegnanti” (Culp et al., 1998); tale

programma inizia con la nascita e si protrae fino ai 3 anni del bambino, e consta di visite

domiciliari di 30-60 minuti che seguono protocolli rigidi, fornendo informazioni riguardo

l’accudimendo del bambino, promuovendo incontri di gruppo per costruire una rete

informale di sostegno, monitorando lo sviluppo del bambino, promuovendo l’utilizzo dei

servizi sociali e sanitari della zona. Il programma è destinato a famiglie che abitano in

quartieri svantaggiati o si trovano in situazioni sociali critiche o hanno un basso livello di

istruzione. L’assunto di base è di tipo educativo e cerca di mettere in grado i genitori, come

primi insegnanti dei loro figli, di promuovere lo sviluppo del bambino e l’apprendimento,

attraverso la trasmissione di conoscenze di puericultura, attraverso l’utilizzo di tecniche di

addestramento e modellamento delle funzioni genitoriali.

(c) l’Home visiting basato sulla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1999; Lyons-Ruth et al.,

1990; 1997); questi programmi si basano sull’assunto che un attaccamento sicuro del

bambino, fondato su un’esperienza di una caregiver disponibile e responsivo (spesso la

madre), rappresenta un fattore protettivo per lo sviluppo del bambino. In questo senso, gli

interventi dell’operatore si focalizzano sulla relazione madre-bambino e sulla relazione tra

l’operatore e la coppia madre-bambino. Infatti, il genitore può utilizzare la relazione con

l’operatore e i feedback che ne riceve per costruire una base di partenza sicura per prendere

consapevolezza delle proprie difficoltà e rispondere meglio ai bisogni del bambino.

La valutazione di esito sull’efficacia di tali programmi si avvale di alcune review o rassegne che

esaminano criticamente numerosi studi di letteratura sul tema. Kendrik e collaboratori (2000), nella

loro rassegna di 34 ricerche empiriche dal 1966 al 1996, mostrano come tali programmi siano

efficaci in termini di miglioramento dell’ambiente domestico ossia la responsività emozionale e

verbale della madre verso il bambino, il suo coinvolgimento verso il bambino, eventuali restrizioni

o punizioni, l’adeguatezza dei giochi all’età del bambino, la sicurezza dell’ambiente domestico.

Bakermans-Kranenburg e collaboratori (2003) passano in rassegna 70 pubblicazioni tra il 1980 e il

2001 che riportano sia interventi domiciliari che in altri setting e mostrano come gli interventi

abbiano prodotto un miglioramento della sensibilità materna e uno più modesto sullo stile di

attaccamento. Tale rassegna non ha osservato differenze nei risultati raggiunti da interventi

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domiciliari o all’interno dei servizi, né tra interventi operati da professionisti e volontari. Trentini

(2007), nella sua rassegna, mostra come alcune ricerche sperimentali con gruppo di controllo hanno

evidenziato una riduzione dei sintomi depressivi e un miglioramento generale nelle competenze

genitoriali, solo nelle donne che hanno ricevuto visite domiciliari per 6 mesi (e non in quelle che

non hanno ricevuto tali visite) (Ahn e Kim, 2004; Armstrong et al., 1999; Long et al., 2001).

A dimostrazione dell’utilità e dell’efficacia di tali iniziative, si riportano due lettere-testimonianza di due

mamme-utenti del servizio “Primi Giorni” dell’Ulss 16 di Padova inviate al distretto sociosanitario di

appartenenza nel corso del 20105.

Lettera n.1: “(…) Sin dai primi giorni a casa dopo il parto ho trovato un supporto eccezionale grazie al Progetto

Primi Giorni, ricordo ancora con commozione il momento in cui H… (l’assistente sanitaria) è entrata in casa mia

salvandomi dalle grinfie dei familiari che mi trattavano come un’affamatrice di bambini, solamente perché avevo

deciso e desideravo fortissimamente allattare mio figlio.

L’appuntamento del martedì con H… ed in generale con il Progetto Primi Giorni è diventato una piacevole e precisa

ricorrenza, almeno fino a quando mio figlio non ha iniziato lo svezzamento ed ha iniziato a diventare un vero

“torello”. Il sostegno del progetto e di persone competenti ed al tempo stesso affettuose, mi hanno dato la forza di

persistere nell’allattamento, nonostante io abbia incontrato delle difficoltà in principio. L’aiuto che ho ricevuto ha

fatto di me una mamma nutrice serena e non sola e mi ha regalato di realizzare il mio desiderio di non ricorrere al

latte artificiale, e di questo sono immensamente grata al distretto sanitario, senza di loro non sarebbe stato possibile.

Non avevo, infatti, alcun riferimento ed alcuno che mi desse conforto, al contrario tutti mi porgevano con insistenza

dei biberon (ora che mio figlio ha più di un anno ho scoperto persino che i miei familiari a mia insaputa mentre

dormivo davano il biberon al bimbo!!!)

Se penso poi come sono giunta a conoscere il servizio, sorrido: mentre ero ricoverata ricordo di aver visto entrare

una signora (che poi ho riconosciuto in N…) che mi ha porto un volantino giallo. Da mamma neofita e meticolosa ho

archiviato il documento con tutti gli altri che riguardavano il bimbo. Poi chiaramente quel foglietto è rimasto sepolto

tra le carte, ma per poco. Una volta giunta a casa all’ennesimo litigio in famiglia in cui mi si accusava di far soffrire

il mio bambino, ho visto sbucare quel foglietto… mi è sembrato l’unico modo per trovare aiuto …ostentando

sicurezza ho zittito i miei dicendo loro che non capivano niente e che avrei chiamato un’esperta a conforto della mia

teoria. Ho chiamato con terrore, convinta che non avrebbe risposto nessuno, al contrario la risposta è stata

immediata e dopo soli 30 minuti H… era in casa mia a redarguire i miei familiari e soprattutto a confortarmi e dirmi

che ero sulla strada giusta.(…)

Frequentando il distretto con assiduità, ho avuto modo di conoscere ed apprezzare persone splendide ed ho appreso

del corso di Massaggio Neonatale, altra esperienza eccezionale.

Il corso massaggi mi ha dato l’opportunità di coccolare e maneggiare mio figlio che - diciamocelo - per mesi rimane

un esserino da manipolare con una certa circospezione, ma soprattutto mi ha dato l’opportunità di instaurare un

rapporto piuttosto unico con altre mamme che vivevano un esperienza in tutto simile alla mia.

Il massaggio si svolgeva in un atmosfera rilassata, N… ci dava istruzioni su come coccolare i nostri bimbi, poi

veniva il bello: del tempo dedicato al dialogo ed al confronto ed ecco che ti sentivi finalmente non l’UNICA, ad avere

dubbi, difficoltà, attriti, paure, ed ecco che non ti sentivi più SOLA, anzi. Tutte ci aprivamo e scoprivamo, con un

sorriso, che ciascun nostro piccolo dramma in realtà era vissuto dalle altre allo stesso identico modo e diventava, di

conseguenza, un non problema perché appariva evidente come fossero dinamiche normali e comuni a tutte.

Il confronto è stato piacevole ed utile nonostante fossimo perfette estranee ci siamo aperte ed abbiamo trovato

sostegno reciproco. Beh con quelle mamme siamo ancora in contatto. Ci scriviamo mail e non abbiamo perso

l’abitudine di confrontarci su questioni che riguardano i bimbi o altro, ci passiamo informazioni su corsi, iniziative

da condividere e poi ci incontriamo. Spesso coi bimbi ed i papà (in questo periodo ci sono le feste del primo

compleanno di tutti e li passiamo insieme se possibile) e poi facciamo incontri solo mamme dove ci sfoghiamo e

continuiamo nel confronto iniziato per caso e grazie ad un’iniziativa che ritengo meriti di essere pubblicizzata ed

incentivata. (…)

Non faccio elenchi perché compierei omissioni, ma ricordo che ho trovato grandemente utile la lezione con la

logopedista (utile avere consapevolezza di come rispondere ai versetti del piccolino) utili anche gli spunti di

psicomotricità, incredibile come vengano sfatati miti e come la semplicità sia la cosa migliore, tenere i bimbi a terra

sdraiati… chi ci sarebbe mai arrivato!!! Tutti con super tecnologie, ed aggeggi vari.(…)”

( N.D., mamma di un bimbo di 13 mesi)

Lettera n.2: “ (…) Sono come molte donne senza una famiglia alle spalle e mio marito, anche lui, ha la famiglia di

origine fuori regione e quindi non possiamo contare su una rete familiare di "protezione". Siamo entrambi padovani

di adozione poichè dopo l'università ci siamo traferiti definitivamente a Padova per cui la nostra rete di amicizie

sono quelle legate al mondo del lavoro. (…)

Ho avuto una gravidanza difficile ed un parto cesareo d'urgenza e quando sono tornata a casa mi sono trovata

completamente sola, con un bimbo che non dormiva mai. Le mie condizioni fisiche e mentali erano come molte neo-

mamme fragilli, e per quanto fossi preparata e mi fossi documentata, non ero certo pronta al periodo difficile che mi

aspettava.

5 Si ringrazia il dr. Gianmaria Gioga, direttore Distretto 1, Ulss 16 di Padova per aver messo a disposizione il testo di

queste lettere, previo consenso delle autrici.

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La mancanza di sonno, di cibo (non riuscivo nemmeno a farmi un pasto senza che il bimbo urlasse), le incertezze, la

mancanza di aiuto concreto (non potendo certo permetterci una tata) ed un supporto psicologico (sostegni che una

volta venivano garantiti dalla famiglia e dal tessuto sociale) mi hanno portato ad una situazione davvero critica e

non nascondo che in certi momenti i miei pensieri erano tutt'altro che felici.

In un momento di disperazione totale: non riuscivo a farmi una doccia da giorni, la ferita mi faceva male e

camminavo a malapena; non sapevo se il bimbo crescesse bene, non potendo uscire di casa per paura di svenire, non

potevo pesarlo.

Alla fino ho chiamato l'assistente sanitaria di … (avendo ricevuto in ospedale l'opuscolo "Progetto Primi giorni"),

perchè non sapevo davvero come fare per gestire il mio bimbo e me stessa.

Mi ha risposto C… che si è resa conto delle mie condizioni ed è venuta a casa mia la mattina stessa. Ha pesato il

bimbo, abbiamo parlato ed insieme abbiamo studiato un piano d'azione e di sostegno.

Nelle settimane successive è sempre stata pronta per sostenermi al telefono per ogni mio dubbio e ogni mia crisi (ma

sapere di avere una persona di riferimento era già moltissimo) e così ho superato i primi due mesi e poi tutto si è

sistemato.

Mi rendo conto che leggendo le mie parole potrebbe sembrare una situazione ai limiti, e pensando a quel periodo ora

che tutto è tornato sotto controllo sembra incredibile anche a me, avere pensato certe cose, ma sono onesta in certi

momenti veramente ho rischiato grosso perchè sentirsi così soli in una situazione tanto delicata è veramente

"pericoloso".

Purtroppo nella società di adesso sono molte le famiglie "sole" senza supporti parentali e sociali e senza le guide che

una volta erano le mamme e le nonne, ci si sente e si è, realmente soli ad affrontare un periodo difficile e delicato

come la nascita di un primo figlio.

La mia storia per ringraziare di cuore la signora D… che probabilmente mi ha salvato la vita (sembra una cosa

grossa a scriverla, ma le notizie di cronaca testimoniano che non è poi così raro perdere il lume della ragione nel

periodo successivo ad un parto) e per ringraziare, chi ha permesso l'esistenza di un servizio di così alta qualità e per

chiedere, in un periodo di tagli della sanità, di non tagliare un servizio del genere.

Un grazie di cuore anche dal mio bimbo e complimenti per l'alta competenza e l'umanita’ che la signora D… ci ha

dimostrato. (O. G., mamma di un bambino di 7 mesi)

3. La famiglia di fronte alla depressione postpartum e alla diagnosi di disabilità

3.1 La depressione postpartum

La depressione postpartum o postnatale o puerperale è uno dei disturbi più frequenti che si

presentano nei primi 12 mesi di vita del bambino ed ha ottenuto ampia attenzione scientifica. Circa

il 10-15% delle donne presenta un episodio depressivo dopo la nascita (O’Hara e Swain, 1996) e la

percentuale raddoppia nelle madri adolescenti (Arnold et al., 1999). In particolare, l’incidenza della

depressione è più alta nei primi 3 mesi dopo la nascita, con un picco nelle prime 4-6 settimane

(Murray et al., 2003).

La rassegna di Grussu e Quatraro (2010) riguardante la definizione, rilevazione e trattamento di

questa patologia prende in esame 68 pubblicazioni avvenute nel periodo 1990-2006. Secondo

questa rassegna, la sintomatologia più diffusa comprende senso di solitudine e perdita di sé,

irritabilità, paura di impazzire, agitazione e bassa energia. Inoltre, altri sintomi frequenti sono il

pianto, l’abbattimento, la labilità emotiva, il senso di colpa, la mancanza di appetito, le idee

suicidarie, i sentimenti di inadeguatezza, la scarsa capacità di concentrazione, di memoria e di

prendere decisioni, la stanchezza, i disturbi del sonno.

Tra i fattori di rischio precedenti la nascita del bambino si annoverano lo status coniugale, bassa

condizione socioeconomica, limitata autostima, presenza di depressione o ansia prenatale, una

gravidanza non pianificata, una precedente storia di depressione, mancanza di sostegno sociale,

bassa soddisfazione coniugale ed eventi stressanti come la morte di una persona cara o la perdita del

lavoro. Mentre nel periodo dopo il parto, i fattori di rischio sono il temperamento del bambino e lo

stress legato all’accudimento del nuovo nato (Robertson et al., 2004). L’influsso di alcuni marcatori

biologici come la prolattina o la progesterone o l’estradiolo non è ancora stato dimostrato sulla

depressione postpartum. E’ ormai accettato che il presentarsi di una depressione clinica sia da

attribuirsi alla compresenza di più fattori individuali, familiari ed ambientali della coppia madre-

bambino. Per esempio, una donna con una precedente storia di episodi depressivi, in un contesto di

stress e inadeguato supporto emotivo, materiale e sociale può avere maggiori probabilità di

incorrere nella depressione postpartum (Miller, 2002). Il ruolo della predisposizione genetica verso

la depressione postpartum è tuttora sotto studio.

Tra i fattori protettivi si annoverano la presenza di un atteggiamento positivo personale sostenuto

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dal contesto sociale di appartenenza, una buona autostima, aspettative positive verso le proprie

capacità personali, relazione di coppia soddisfacente, consapevolezza di poter fare affidamento su

un ampio e solido sostegno sociale (Benvenuti et al., 2006). Inoltre, sembra essere un fattore

protettivo una adeguata preparazione alla genitorialità sia in termini di conoscenze riguardanti la

gravidanza e il parto, sia in termini di aspettative realistiche riguardo alla vita postparto.

In termini di prevenzione, emerge un’insufficiente evidenza scientifica sia per il trattamento

farmacologico sia per gli interventi psicosociali o psicologici quali la psicoterapia interpersonale, la

terapia cognitivo-comportamentale e alcune tecniche di rilassamento. Si osservano una riduzione

della sintomatologia depressiva e un’elevata soddisfazione materna nei programmi di socio-sanitari

locali che prevedono visite domiciliari nel dopo parto da parte di personale specializzato (Shaw et

a., 2006; Terzulli, 2006). Oltre che sul tono dell’umore della madre, tali programmi hanno un

benefico effetto anche sulla relazione madre-bambino poiché aiutano la madre a rinforzare le sue

competenze genitoriali (Ammanniti, Cimino, Trentini, 2007).

Un recente studio italiano di Grussu e collaboratori (2009) ha esplorato i disturbi dell’umore in 60

donne con gravidanza normale e a termine, al primo figlio, con parto fisiologico. Gli strumenti

standardizzati che misurano l’ansia, la depressione, i sintomi somatici e l’ostilità in 4 momenti: il 3°

giorno dopo il parto, al compimento del 1° mese, del 6° mese e a 12 mesi. I risultati mostrano un

minor benessere della donna in termini di maggior sintomatologia psicologica e somatica al 3°

giorno dopo il parto, rispetto al compimento del 1° mese, del 6° mese e del 12° mese. I disturbi

dell’umore sono modesti nei primi giorni dopo il parto e tendono a ridursi nei mesi successivo.

3.2 La comunicazione della diagnosi di disabilità

La comunicazione della diagnosi di disabilità alla nascita del figlio rappresenta per i genitori un

momento doloroso e traumatico e appare di cruciale importanza per mitigarne l’impatto le modalità

con cui la coppia viene informata. Infatti, se la comunicazione della diagnosi avviene in maniera

frettolosa, utilizzando termini troppo tecnici, allora può provocare un sentimento di rifiuto nei

genitori e rendere difficoltosa l’accettazione del figlio. Invece, una comunicazione serena, empatica,

in un luogo tranquillo, che presenti anche le potenzialità e non solo i limiti della patologia, può

rappresentare un buon punto di partenza per la nuova famiglia. Sarebbe importante che diverse

figure professionali partecipassero alla comunicazione della diagnosi in un processo che fornisca

informazioni mediche e specialistiche chiare e fornisca anche un sostegno continuativo alla famiglia

(Frosi, Gioga e Milani, 2008; Gioga e Hanau, 2006).

Se la nascita di un bambino rappresenta in ogni caso un momento di ristrutturazione del sé, una

nascita patologica sembra mettere ancora più a dura prova la coppia, irrompendo nella vita della

coppia senza lasciare il tempo di elaborare la perdita del bambino desiderato durante la gravidanza e

rappresentato in un’immagine mentale del figlio fatta di fantasie, aspettative, desideri, ansie e paure.

La nascita, da un lato, ferisce l’immagine del figlio che i genitori si sono costruiti e, dall’altro, il

piccolo richiede, come tutti i nuovi nati, un’attenzione immediata e totale.

I genitori spesso reagiscono con meccanismi di difesa come la colpa e la vergogna, meccanismi che

sembrano necessari per convivere inizialmente con una grande sofferenza (Mariazzi, 2001). Inoltre

alcuni autori (Gargiulo, 1987; Mariazzi, 2001; Selleri, 1999) fanno riferimento a 3 fasi comuni nelle

reazioni delle coppie:

1) La prima fase di shock e incredulità causati dalla forte delusione rispetto alle aspettative dei

genitori. A volte, in seguito, subentra il rifiuto, il tentativo di negare la disabilità e il

sentimento di inadeguatezza rispetto ai bisogni del figlio. Da un punto di vista psicologico,

questo periodo pare servire alla famiglia come un periodo di tranquillità per elaborare

l’accaduto. A volte questo periodo si prolunga eccessivamente, con le famiglie che

sottopongono il bambino al consulto di diversi specialisti alla ricerca di una disconferma

della diagnosi precedente (“sindrome dello specialista ennesimo”; Dall’Aglio, 1994);

2) La seconda fase è, spesso, quella della vergogna, dell’imbarazzo, della colpa, della rabbia. A

volte le coppie alternano sentimenti di amore e di rabbia verso il figlio, legati al senso di

colpa scaturito dal pensare che a volte si preferirebbe che il figlio non fosse mai nato. In

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particolare, può succedere che le madri ripensino al periodo della gravidanza alla ricerca di

una causa nei propri eventuali comportamenti o pensieri. La ricerca di un colpevole o di una

causa esterna può essere utile ai genitori per alleviare la tensione psicologica ed emotiva. A

volte, la rabbia viene scaricata verso i medici e la medicina, colpevoli di non aver “visto” o

consigliato accertamenti specifici. Altre volte, il colpevole è ricercato tra i membri della

coppia, soprattutto in casi di patologie genetiche, in seguito alle quali si attribuisce a uno dei

due partner e alla sua famiglia la responsabilità dell’evento (Dall’Aglio, 1994; Carbonetti e

Carbonetti, 1996). Certamente lo stigma sociale facilità il permanere di sentimenti di

imbarazzo, vergogna ed inadeguatezza nei genitori.

3) La terza fase è costituita inizialmente dalla ricerca di qualunque persona che possa portare il

bambino alla normalità, sia esso un medico o un guaritore, e successivamente

dall’adattamento e dall’accettazione dell’evento. In questa seconda fase, i genitori vedono

abbassarsi l’ansia e il sentimento di inadeguatezza e cominciano a riprendere fiducia nelle

proprie competenze genitoriali e a ripensare al futuro.

Ovviamente, ogni famiglia è una famiglia a sé stante e le fasi possono variare nell’ordine e nella

durata. Alcune fasi possono anche non essere presenti oppure avvenire contemporaneamente.

Spesso le famiglia non solo imparano a convivere con i limiti del figlio, ma trasformano anche il

loro modo di vedere la vita, cambiando l’ordine dei valori ritenuti importanti, modificando

eventuali pregiudizi e dando grande importanza all’aiuto reciproco. In particolare, quei genitori che

riescono ad ammettere a sé stessi e agli altri, in un clima privo di giudizio, che il figlio che hanno

avuto in sorte non è esattamente quello che avevano sognato, sono quelli che riescono meglio nella

fase di “trasformazione” verso un miglior adattamento alla situazione (Pelchat, Bouchard e

Lefebvre, 2001).

La ricerca condotta da Gioga e Zanella (2008) sul benessere della popolazione disabile del territorio

di Rovigo ha esplorato la presa in carico delle famiglie con figli disabili, sin dal momento della

comunicazione della diagnosi, attraverso interviste a genitori con figli disabili e ad operatori dei

servizi. L’analisi delle interviste mostra come a volte i genitori non si ricordino con esattezza la

tempistica della diagnosi e la durata del periodo dell’incertezza, anche quando la diagnosi è già stata

comunicata, ma le famiglie cercano comunque risposte differenti presso altri servizi. Altre volte le

famiglie confondono la diagnosi con l’eziologia della malattia per cui riferiscono con precisione la

diagnosi ma dicono di non conoscerla perché non ne conoscono le cause.

I genitori invece riferiscono con certezza i sentimenti e i vissuti al momento della diagnosi. La

durata del tempo dell’incertezza è variabile da caso a caso e appare più breve per diagnosi di

sindrome di Down e più lunghe per diagnosi di autismo o sindromi più complesse. A volte i genitori

riferiscono che il servizio ha cercato di prendere tempo prima di comunicare con chiarezza la

diagnosi e la prognosi, mentre i genitori avrebbero preferito una maggior chiarezza e tempestività. A

volte i genitori lamentano il linguaggio troppo tecnico utilizzato o la frettolosità con cui è stata

comunicata la diagnosi. Inoltre, maggiore è il tempo di incertezza e maggiori sono i bisogni delle

famiglie di essere sostenuti e accompagnate in un lungo percorso alla ricerca di competenze

specialistiche e anche umane. Alcune famiglie girano da uno specialista all’altro alla ricerca di

risposte e altre volte sono le famiglie stesse che attivano i servizi che già dovrebbero seguire il caso

(Moderato, 2001).

Prendendo in considerazione il caso della diagnosi di autismo, Gioga e Hanau (2006) sottolineano

l’importanza della diagnosi precoce di disabilità, che consenta l’elaborazione del lutto e

successivamente l’acquisizione di modalità efficaci di educazione del bambino. Al contrario, una

comunicazione della diagnosi tardiva, effettuata in modo che genera ansia e abbattimento nella

coppia, può accentuare la naturale reticenza di alcuni genitori nell’accettare la disabilità del figlio e

ritardare l’attivazione di quei servizi sociali e sanitari e di quegli interventi psico-educativi di cui le

famiglie e i bambini hanno diritto e bisogno.

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