ARTE 3Dilvo donne · vanni Papini quando, invitato da Lotti, visitò nel primo dopoguerra la città...

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l’offerta fatta al giovane artista d’una cattedra per “chiara fama” a Velletri, e poi un’altra all’Istituto d’Arte della più vicina Cascina. No: a lui bastava l’inca- rico, certo meno in vista, d’insegnare alla scuola media di San Miniato. Da questo sviscerato amore nacque nel 1981 il libro San Miniato, vita di un’antica città; pubblicazione ricca di storia e di arte, di curiosità e di aned- doti, di registrazioni anche minime di particolari che di quartiere in quartiere narravano vicende d’antiche famiglie, di usi e costumi, di risvolti sociali che, rifacendosi idealmente a una dimen- sione ancora umanamente viva del luogo, finivan per rispecchiare le ca- ratteristiche medesime dello stesso autore: ovvero quel vivo interesse per la partecipazione alla vita della città che, appunto grazie a Lotti, si arricchì d’iniziative come il Carnevale dei bambini e la Festa degli Aquiloni, grande sagra questa evocante l’idea medesima dell’aria e dello spazio re- Lotti. Giuseppina, la Pittura, San Miniato Dilvo ze fu l’Istituto d’Arte di Porta Romana tra le due guerre. Nei suoi novanta- cinque anni, vissuti fino in fondo con grande lucidità, in forza delle sue tante cose per il luogo, Lotti era diventato il paese e il paese era diventato lui. San Miniato è stato per Dilvo un gran- de amore, paragonabile solo a quel- lo nutrito per la mamma Giulia e per Giuseppina moglie. Ma sarebbe giu- sto dire che sono questi tre amori ad avere nutrito lui, costruendone la re- alizzazione affettiva e creativa. Quan- do agli inizi degli anni Quaranta il suo nome cominciava a circolare sulle gaz- zette artistiche di tutta Italia, e gente come Soffici, Papini, Vergani, Ojetti gli davan largo credito, a Lotti non passò mai per la testa di lasciare il suo co- cuzzolo samminiatese per gli interes- si che avrebbe potuto coltivare più proficuamente in città come Firenze, Milano o Roma. Da ricordare la mera- viglia di Carlo Argan nel sentir rifiutare C apita a volte di tornare in un luogo e scoprire che, seppure in nulla mutato, non lo si av- verta più intimamente come quando altre volte andavamo per incontrare una persona o un ambiente ora scom- parsi, il cui carisma finiva per conferire identità al luogo stesso. A chi scrive è successo, risalendo dopo qualche anno a San Miniato, ‘città’ che fino agli anni della guerra si portava dietro l’identificazione “al Tedesco” per via della rocca voluta da Federico II al sommo del colle, punto strate- gico tra Firenze e Pisa. Ma non è per cotanto imperatore, già “stupor mun- di”, che San Miniato riveste un suo ca- risma, quanto per un motivo artistico e letterario molto più vicino a noi che lassù s’incarnava in Dilvo Lotti, pittore e scrittore del secolo passato ma sem- pre attivissimo nei primi nove anni di questo. Dilvo Lotti, memoria storica di quell’alacre fucina artistica che a Firen- Dilvo Lotti e le sue donne, 1959 Fuga in Egitto, 1965 Cristo deriso, 1935 28 Marco Moretti R ARTE 3 le donne di

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l’offerta fatta al giovane artista d’una cattedra per “chiara fama” a Velletri, e poi un’altra all’Istituto d’Arte della più vicina Cascina. No: a lui bastava l’inca-rico, certo meno in vista, d’insegnare alla scuola media di San Miniato. Da questo sviscerato amore nacque nel 1981 il libro San Miniato, vita di un’antica città; pubblicazione ricca di storia e di arte, di curiosità e di aned-doti, di registrazioni anche minime di particolari che di quartiere in quartiere narravano vicende d’antiche famiglie, di usi e costumi, di risvolti sociali che, rifacendosi idealmente a una dimen-sione ancora umanamente viva del luogo, finivan per rispecchiare le ca-ratteristiche medesime dello stesso autore: ovvero quel vivo interesse per la partecipazione alla vita della città che, appunto grazie a Lotti, si arricchì d’iniziative come il Carnevale dei bambini e la Festa degli Aquiloni, grande sagra questa evocante l’idea medesima dell’aria e dello spazio re-

Lotti. Giuseppina, la Pittura, San Miniato

Dilvoze fu l’Istituto d’Arte di Porta Romana tra le due guerre. Nei suoi novanta-cinque anni, vissuti fino in fondo con grande lucidità, in forza delle sue tante cose per il luogo, Lotti era diventato il paese e il paese era diventato lui. San Miniato è stato per Dilvo un gran-de amore, paragonabile solo a quel-lo nutrito per la mamma Giulia e per Giuseppina moglie. Ma sarebbe giu-sto dire che sono questi tre amori ad avere nutrito lui, costruendone la re-alizzazione affettiva e creativa. Quan-do agli inizi degli anni Quaranta il suo nome cominciava a circolare sulle gaz-zette artistiche di tutta Italia, e gente come Soffici, Papini, Vergani, Ojetti gli davan largo credito, a Lotti non passò mai per la testa di lasciare il suo co-cuzzolo samminiatese per gli interes-si che avrebbe potuto coltivare più proficuamente in città come Firenze, Milano o Roma. Da ricordare la mera-viglia di Carlo Argan nel sentir rifiutare

capita a volte di tornare in un luogo e scoprire che, seppure in nulla mutato, non lo si av-

verta più intimamente come quando altre volte andavamo per incontrare una persona o un ambiente ora scom-parsi, il cui carisma finiva per conferire identità al luogo stesso. A chi scrive è successo, risalendo dopo qualche anno a San Miniato, ‘città’ che fino agli anni della guerra si portava dietro l’identificazione “al Tedesco” per via della rocca voluta da Federico II al sommo del colle, punto strate-gico tra Firenze e Pisa. Ma non è per cotanto imperatore, già “stupor mun-di”, che San Miniato riveste un suo ca-risma, quanto per un motivo artistico e letterario molto più vicino a noi che lassù s’incarnava in Dilvo Lotti, pittore e scrittore del secolo passato ma sem-pre attivissimo nei primi nove anni di questo. Dilvo Lotti, memoria storica di quell’alacre fucina artistica che a Firen-

Dilvo Lotti e le sue donne, 1959

Fuga in Egitto, 1965

Cristo deriso, 1935

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Marco Moretti

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spirabili sul pratone della Rocca edi-ficata dal tedesco e sette secoli dopo dal tedesco distrutta. “San minato dal tedesco” ebbe a commentare Gio-vanni Papini quando, invitato da Lotti, visitò nel primo dopoguerra la città devastata, le cui ferite materiali erano ancora sulla strada, mentre altre, inte-riori, laceravano ancor di più gli animi nel ricordo dell’eccidio in duomo di cinquantacinque persone. Una strage attribuita ai nazisti (con la complici-tà del vescovo si disse), e solo tem-po dopo accertata come causa d’un bombardamento americano. Ma tut-tavia, per le distruzioni subite, i sam-miniatesi vollero cassare dal nome del loro paese il riferimento “al Tedesco”.In quel luglio 1944 Lotti, tenente di fanteria, si trovava lontano dalla sua città. Al ritorno la ritrovò devastata, con il peso delle morti che aveva di-viso i vivi. Nel clima tragico del do-poguerra, prese corpo l’idea di una riflessione sul senso sacrale della vita; istanze che attraverso il teatro dettero vita all’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato di cui Lotti fu cofonda-tore e autore, anche, col suo ex ma-estro Pietro Parigi, di manifesti stra-ordinari e inconfondibili, veri e propri capolavori d’incisione che nell’asciut-tezza del bianco e nero riportavano lo spirito del Dramma. Ma al di sopra degli impegni culturali per la sua città, Lotti era artista di ca-ratura nazionale. Pittore, con spiccata predilezione per la grafica incisa ap-presa in quella grande bottega che fu la scuola d’arte di Porta Romana, era cresciuto sotto gli occhi attenti di Francesco Chiappelli e del suo as-sistente Pietro Parigi, galantuomini entrambi quanto grandi incisori, che poi saranno anche i suoi testimoni di nozze. Il ragazzo, già forte disegnato-re, aveva il dono di un segno persona-lissimo, tormentato e aggressivo. Una forza che si accentuava nel taglio chia-roscurale della xilografia e che in pit-tura si espandeva in effetti luministici

rammemoranti accensioni crude di El Greco. Parigi ne aveva assecondato l’orientamento espressionista facen-dogli conoscere gli artisti della Brüke e il visionario Ensor, Goya e Daumier - sul quale il giovane dette la tesi di licenza - fino ai contemporanei Viani e Rosai. Ensor lo ispirerà nel ‘35 per un confronto a distanza col suo Cristo deriso tra maschere, impostato dal giovane su una grande tela affollata da dieci figure attorno al Redento-re, disposte in un assetto piramidale e illuminate da una luce atemporale, oscura e tragica. Un’opera dominata da un forte espressionismo che riman-da ad afflati nordici e goyeschi, le cui espressività non solo contrastavano con l’ordine di “Novecento”, ma si ponevano anche fuori dall’espressio-nismo populista di Viani e di Rosai, come pure da quello romano di Mafai e di Scipione. Al di là di tali sentimenti, la vena del giovane vibrava per creazioni ironiche, come la xilografia de Il campo strega-to dove una sgangherata processio-ne con la statua d’un santo portata a spalle e preceduta da un frate, sfila sul terreno di gioco per esorcizzare la lunga serie di sconfitte della squa-dra di casa. Una tendenza ironica che accompagnerà l’artista per tutta la vita, al punto che la sua ferrea fede di credente, testimoniata come uomo e come artista nelle innumerevoli com-posizioni d’arte sacra, non gl’impedirà di dipingere, immaginando l’evento ai tempi d’oggi, la Fuga in Egitto della Sacra Famiglia a bordo di uno scooter. Negli anni precedenti il conflitto, Lotti costituì un esempio assai singo-lare tra gli artisti della generazione, aggiudicandosi nel ‘40 a Firenze il premio Panerai. La sua pittura aveva suscitato, seppure con iniziali riser-ve, l’interesse di Soffici, il quale poi determinò coi suoi giudizi il lancio dell’artista in campo nazionale, tanto che la sua partecipazione con quindi-ci dipinti alla biennale veneziana del

‘42 registrò il tutto venduto. Dopo la guerra la pittura di Lotti non si aggregò alle nuove tendenze infor-mali ed astratte ma rimase se stessa, asciugandosi dai precedenti lumini-smi grechiani per lasciar posto a una pennellata di più asciutta sostanza.Così fino al 2009, quando l’artista, dopo i lunghi decenni spesi per l’arte e le tante iniziative, si spegnerà anco-ra intatto nella sua vivacità creativa, seguito quattro anni dopo dalla cara Giuseppina che per oltre sessantacin-que anni era stata la paziente interfac-cia tra il suo mondo d’artista e le cose pratiche del quotidiano.Con Giuseppina, si spense l’ultima fiammella che teneva vivo il ricordo di Dilvo nella casa-studio di via Maioli, così apparentemente piccola da fuori quanto ridondante di memorie den-tro. La sua struttura di antica torre sca-pitozzata, cui l’artista aveva impresso la sua impronta pitturandone le pareti e incastonando dentro e fuori piccoli manufatti e bizzarri capolavori, è am-mutolita per sempre, consegnata agli interrogativi d’una storia ancora tutta da scrivere. Le presenze dei perso-naggi che vi circolarono vivono oggi attraverso le loro opere in biblioteche e musei: dai “babbi” Chiappelli e Pa-rigi a Papini e Savinio; Lisi e Betocchi, Scheiwiller e Spadolini, fino ai coeta-nei di Dilvo, Luzi e Parronchi. Un elen-co che potrebbe chissà quanto conti-nuare se potessimo sfogliare come un tempo quei registri di memorie che Dilvo e Giuseppina porgevano, per un pensiero scritto o disegnato, agli ospiti in visita allo studio o alla fine di allegri conviviali: non per vanagloria, ma per la contentezza sincera di trat-tenere sulla carta momenti condivisi tra anime speciali.

San Miniato, 1967

Giuseppina e Dilvo Lotti consegnano a Margherita

Casazza, direttrice della rivista, il quadro per la copertina Reality 47 del marzo 2008

Il campo stregato, 1935, xilografia