ARRIGO BOITO - LICEO SCIENTIFICO N. COPERNICO · 2020. 2. 23. · sconfinata per Verdi, accantonò...

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ARRIGO BOITO Poeta, narratore e compositore Arrigo Boito è noto per il suo melodramma "Mefistofele" e per i suoi libretti d'opera. Arrigo Boito nasce a Padova il 4 febbraio 1842; dal 1854 studia violino, pianoforte e composizione al Conservatorio di Milano. In questo periodo, muore la madre l'11 giugno 1859, si stabilisce a Milano Camillo, il fratello primogenito, che gli saràsempre prodigo di sostegno e d'affetto e che lo introdurrà, in anni successivi, in alcuni tra i più importanti salotti culturali della città. Finiti gli studi si reca a Parigi con Franco Faccio dove prende contatto con Gioacchino Rossini, quando questi viveva alla periferia della capitale francese. Verdi incarica Boito di scrivere le parole per un Inno delle nazioni da eseguirsi durante la cerimonia inaugurale dell'Esposizione internazionale di Londra il 24 maggio 1862. Arrigo botto viaggeràpoi in Polonia, Germania, Belgio e Inghilterra. Torna a Milano e, nella metropoli lombarda guadagna una posizione di rilievo nel movimento della Scapigliatura, partecipa alla vita di salotti come quello della contessa Maffei, quello meno celebre e meno tradizionalista di donna Vittoria Cima e quello dei conti Lurani, si legò d'amicizia tra l'altro con E. Praga, G. Camerana, G. Verga, L.

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  • ARRIGO BOITO

    Poeta, narratore e compositore Arrigo Boito è noto per il suo melodramma "Mefistofele" e per i suoi libretti d'opera. Arrigo Boito nasce a Padova il 4 febbraio 1842; dal 1854 studia violino, pianoforte e composizione al Conservatorio di Milano. In questo periodo, muore la madre l'11 giugno 1859, si stabilisce a Milano Camillo, il fratello primogenito, che gli saràsempre prodigo di sostegno e d'affetto e che lo introdurrà, in anni successivi, in alcuni tra i più importanti salotti culturali della città. Finiti gli studi si reca a Parigi con Franco Faccio dove prende contatto con Gioacchino Rossini, quando questi viveva alla periferia della capitale francese. Verdi incarica Boito di scrivere le parole per un Inno delle nazioni da eseguirsi durante la cerimonia inaugurale dell'Esposizione internazionale di Londra il 24 maggio 1862. Arrigo botto viaggeràpoi in Polonia, Germania, Belgio e Inghilterra. Torna a Milano e, nella metropoli lombarda guadagna una posizione di rilievo nel movimento della Scapigliatura, partecipa alla vita di salotti come quello della contessa Maffei, quello meno celebre e meno tradizionalista di donna Vittoria Cima e quello dei conti Lurani, si legò d'amicizia tra l'altro con E. Praga, G. Camerana, G. Verga, L.

  • Capuana, L. Gualdo, G. Giacosa, col quale stabilisce una vera e propria fraternità d'arte. Il sodalizio col Praga dà vita a una commedia in prosa scritta in collaborazione, Le madri galanti, male accolta dal pubblico del Teatro Carignano di Torino nel marzo del 1863, e alla condirezione, con l'aiuto di B. Zendrini, dell'ebdomadario Figaro, distintosi, dal gennaio al marzo 1864, per le violente polemiche letterarie, specialmente contro la scuola manzoniana, in nome di un'arte anticonformista e realista. Nel 1866 Boito si arruola coi volontari garibaldini nello stesso reggimento del Faccio. A questa breve parentesi bellica risalgono le prime lettere d'amore che sono rimaste, dirette alla contessa, poi duchessa, Eugenia Litta: la stessa che assisterà da un palchetto della Scala, la sera del 5 marzo 1868. Nel 1868 alla Scala di Milano viene rappresentata la sua opera "Mefistofele", basata sul "Faust" di Goethe. Al suo debutto l'opera non viene accolta benevolmente, tanto che provoca disordini e scontri per il supposto implicito "Wagnerismo". Dopo due rappresentazioni la polizia decide di interrompere le esecuzioni. Boito successivamente rivedrà drasticamente l'opera, riducendola: la parte di Faust, scritta per baritono, verrà riscritta in chiave tenorile. La nuova versione viene rappresentata al Teatro Comunale di Bologna nel 1876 e ottiene un grande successo; unica fra le composizioni di Boito, entra nel repertorio delle opere ancor oggi rappresentate e registrate con maggiore frequenza. Negli anni successivi Boito si dedica alla stesura di libretti per altri compositori. I risultati più notevoli riguardano "La Gioconda" per Amilcare Ponchielli, per la quale utilizza lo pseudonimo di Tobia Gorrio, anagramma del suo nome, "Otello" (1883) e "Falstaff" (1893) per Giuseppe Verdi. Altri libretti sono "Amleto" per Faccio, la "Falce" per Alfredo Catalani e il rifacimento del testo del "Simon Boccanegra" (1881) di Verdi. La sua produzione si compone anche di poesie, novelle e saggi critici, soprattutto per la "Gazzetta musicale". Le sue poesie ripercorrono quasi sempre il tema disperato e romantico del conflitto fra il bene e il male, e il "Mefistofele" costituisce il suo esempio più emblematico. Boito Scrive una seconda opera intitolata "Ero e Leandro", ma insoddisfatto la distrugge. Poi inizia la composizione di un'opera che lo impegnerà per anni, il "Nerone". Nel 1901 pubblica il relativo testo letterario, ma non riesce a portare a termine l'opera. Verrà completata in seguito da Arturo Toscanini e Vincenzo Tommasini: il "Nerone" viene rappresentato per

  • la prima volta al Teatro alla Scala il giorno 1 maggio 1924.Direttore del Conservatorio di Parma dal 1889 al 1897, Arrigo Boito muore il 10 giugno 1918 a Milano: la sua salma riposa nel Cimitero Monumentale della città.

    MEFISTOFELE

    Nella prima versione di Mefistofele, Boito articolò il dramma in cinque atti e un intermezzo sinfonico-descrittivo tra il primo e il secondo atto; in questa versione si mescolarono il testo di Goethe e le personali prese di posizione di Boito (per esempio, un fervente anti-cattolicismo e altri elementi cari alla Scapigliatura, di cui Boito era membro), cosa

    che spinse il compositore a pubblicare alcune settimane prima della prémiére il libretto dell’opera contenente un suo commento esplicativo: lì chiarisce e spiega i passaggi più oscuri per il pubblico milanese. Nonostante le cautele, l’accortezza nella stesura del libretto e il gigantesco lancio pubblicitario, il 5 marzo 1868, la prima di Mefistofele al Teatro alla Scala, diretta dallo stesso Arrigo Boito, fu un memorabile fiasco: l’eccessiva densità del libretto (ricco di discettazioni filosofiche, teologiche e morali) e la distanza dello

  • spettacolo dal melodramma vero e proprio causarono una rivolta da parte del pubblico; la spaventosa lunghezza dell’opera – quasi sei ore – mise k.o. anche i più agguerriti melomani. Un insuccesso di questo tipo avrebbe fatto desistere molti musicisti, ma Boito non si piegò: fermamente convinto che il Mefistofele avrebbe rinnovato il melodramma italiano, raccolse questa sfida e rimaneggiò pesantemente la partitura e il libretto originali; smussò le proprie posizioni, modificò (o cancellò) le parti maggiormente contestate, eliminò le erudite dissertazioni e tutto ciò che rallentava l’azione scenica (in particolare il primo quadro all’Atto IV e l’intermezzo sinfonico-descrittivo) per rendere il melodramma più omogeneo e contenuto nei tempi senza, tuttavia, fargli perdere lo spiccato carattere di “opera avveniristica”. Oltre agli impietosi tagli, Boito apportò altre rilevanti modifiche, trasformando Faust da baritono in un più convenzionale tenore. In questo modo, per usare le parole dello storico della musica Michele Girardi, «il codice del melodramma tornò a parlare più chiaramente al pubblico, informandolo che l’eroe agisce per amore del soprano […] e non della conoscenza». Prologo in cielo Nebulosa. Dopo il preludio, echeggiano dietro la nebulosa i cori della prima falange celeste che inneggiano al Signore (Ave signor degli angeli e dei santi). Compare Mefistofele (Ave signor, perdona se il mio gergo), che sfida il creatore, affermando altresì di poter tentare il vecchio Faust. Il Chorus Mysticus acconsente, e Mefistofele è sicurissimo della sua vittoria. Esce successivamente di scena al comparire dei cherubini che, assieme alle penitenti, alle falangi celesti e a tutto il paradiso, rendono una lode finale al Signore, tramite un grandioso inno sinfonico/corale in Mi maggiore. Atto I: La domenica di Pasqua Scena I: Francoforte sul Meno. Durante le celebrazione della domenica della Pasqua, fra parate militari e cori e danze dei popolani, Faust e l'amico/allievo Wagner osservano incuriositi uno strano Frate Grigio. Scena II: Faust si interroga sull'amore di Dio verso l'uomo (Dai campi, dai prati) e incontra il Frate Grigio, alias Mefistofele (Son lo spirito che nega) al quale concede l'anima in cambio della sapienza e della giovinezza. Mefistofele otterrà l'anima di Faust, se quest'ultimo, appagato dalla vita, dirà all'attimo fuggente «Arrestati, sei bello!».

  • Atto II: Il giardino, La notte del Sabba romantico Faust, sotto il falso nome di Enrico, incontra la giovane Margherita, e i due si innamorano (Cavaliero illustre e saggio), mentre Mefistofele tenta di sedurre Marta. I due discutono sulla religione e Faust, richiesto da Margherita se crede in Dio, le dà una risposta ambigua: amore, vita ed estasi sono Dio, è solo un modo di definirle con una sola parola. Margherita vorrebbe trascorrere la notte con lui, ma non può perché la madre è in casa, e Mefistofele le dà una boccetta contenente sonnifero (in realtà veleno). Alla fine le due coppie di amanti si rincorrono per il giardino e si abbracciano. Nella seconda scena, Mefistofele porta Faust sul monte Brocken (Su, cammina, cammina), e gli mostra il sabba romantico. Gli stregoni e le streghe rendono omaggio a Mefistofele. Dopo l'aria Ecco il mondo cantata da Mefistofele in cui scherza sulla generale stupidità del genere umano ma anche sul suo stesso ruolo di Male assoluto e supremo Tentatore, compare l'immagine di Margherita. Faust ne è turbato: sembra sia stata decapitata, e il diavolo ironizza paragonandola a Medusa decapitata da Perseo. Mefistofele fa in modo che l'immagine scompaia, e il sabba riprende. Atto III: La morte di Margherita Margherita è condannata a morte per aver ucciso la madre e il figlio (L'altra notte in fondo al mare). Faust giunge con Mefistofele e cerca di convincerla a farla scappare (Lontano, lontano). Ma la donna, riconoscendo in Mefistofele il Diavolo, rifiuta di scappare con Faust, e l'anima della donna ascende al cielo (Enrico, mi fai ribrezzo). Atto IV: La notte del Sabba classico Mefistofele mostra a Faust la notte del sabba classico. Le coretidi e le ninfe rendono omaggio alla bella Elèna di Troia, che però ha un'orribile visione della distruzione della città da parte degli Achei (Notte, cupa, truce). Faust compare e seduce Elèna (Forma ideal, purissima). Epilogo: La morte di Faust Faust, tornato vecchio, è intento alla costruzione di un nuovo mondo, e, affascinato dalla prospettiva della propria opera (Giunto sul passo

  • estremo), non vuole più concedere l'anima a Mefistofele. Compaiono le schiere angeliche che distolgono Faust dal diavolo. Mefistofele cerca di ipnotizzarlo ancora, ma Faust, davanti alle visioni celesti, pronuncia la fatidica frase: «Arrestati, sei bello», rivolta all'attimo fuggente. Mefistofele ha vinto la scommessa, ma una penitente (che è Margherita) intercede per Faust presso Dio: mentre risuonano i canti delle schiere angeliche che avevano aperto l’opera, l'anima di Faust è salva, Mefistofele sprofonda nella terra, irradiato dalla luce dei cherubini.

    RAPPORTO TRA ARRIGO BOITO E GIUSEPPE VERDI

  • Arrigo Boito, scrittore, compositore, librettista, a appena 19 anni si trasferì a Parigi, città in cui conobbe i più celebri operisti dell’epoca e scrisse per Verdi i versi dell’Inno delle nazioni (1862), ottenendo dal Maestro un orologio in dono. Nel 1863 il rapporto tra Verdi e Boito si incrinò nel corso di una festa in onore del direttore d’orchestra Franco Faccio, quando il librettista – entrato nel frattempo nell’orbita della Scapigliatura milanese – improvvisò una polemica ode All’arte italiana, nella quale Verdi si era sentito offeso per un riferimento che ritenne rivolto alla sua musica. Verdi si era infatti sentito additato ed offeso da alcune espressioni contenute in una composizione un po' troppo caustica di Arrigo Boito, all'epoca giovane scapigliato milanese: “Alla salute del’Arte Italiana!/ Perché la scappi fuora un momentino/dalla cerchia del vecchio e del cretino/giovane e sana". Ed ancora, in una strofa successiva: "Forse già nacque chi sopra l’altare/rizzerà l’arte, verecondo e puro/Su quell’altare bruttato come muro/ di lupanare". Dopo questo episodio la ripresa dei contatti tra Verdi e Boito, dovuta anche alla paziente intermediazione di Giulio Ricordi che aveva intuito il valore artistico di una loro collaborazione, fu lenta e inizialmente

  • quasi esclusivamente per lettera, ma ben presto si tramutò in un’amicizia che trascese l’aspetto lavorativo per tramutarsi in un forte legame affettivo. Ci sono varie fonti che ipotizzano il riavvicinamento tra Boito e Verdi. Una di queste afferma che passarono ben diciotto anni prima che i due tornassero a collaborare in occasione di una ripresa del Simon Boccanegra alla Scala (24 marzo 1881): in quell’occasione Boito revisionò l’originario libretto di Francesco Maria Piave e avviò un sodalizio con Verdi proseguito con Otello (5 febbraio 1887).Un’altra fonte afferma che il riavvicinamento, avvenne quando Ricordi propose a Verdi di musicare «Otello». L'editore disse chiaro e tondo al Maestro che non vi era in Italia un letterato che conosceva Shakespeare come Boito. E Boito, che nel frattempo era passato dal disprezzo alla stima sconfinata per Verdi, accantonò la partitura della sua seconda opera Nerone, pur di servire al meglio il Maestro. Durante la composizione di quest’opera, si verificò di nuovo uno spiacevole qui pro quo che ne avrebbe potuto pregiudicare la realizzazione, se Boito non avesse prontamente smentito la notizia secondo cui egli stesso avrebbe desiderato musicare il soggetto shakespeariano. Sempre a Boito venne riservato l’onore di versificare l’ultimo capolavoro dell’ottantenne Verdi, Falstaff (9 febbraio 1893), unica opera comica, insieme allo sfortunato Un giorno di regno, nella carriera del Maestro. Se «Falstaff» esiste, lo dobbiamo ad Arrigo Boito: egli era convinto che Verdi, nonostante stesse per raggiungere gli ottant'anni, poteva ancora creare una partitura scintillante. Anche se all'inizio della gestazione di Otello ("il cioccolatte", come lo definisce Boito in una lettera) dovette essere spronato a riprendere a comporre all'età non indifferente di quasi settant'anni, il potente soggetto shakespeariano aveva già fatto breccia in lui. Per il Falstaff sembra quasi invece che sia Verdi che non veda l'ora di rimettersi con lena a comporre, quasi in segreto, come si legge in una celebre lettera del 1889: "Facciamo addunque, Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie!" Sembra che tra Verdi e Boito si sia stabilito un rapporto come tra un genitore e un figlio; se, infatti, da una parte, il Maestro trepidava per le intemperanze giovanili di Boito, il poeta-musicista si dedicò totalmente a Verdi, curando non solo la rappresentazione delle opere da loro scritte, ma seguendo anche l’esecuzione dei pezzi sacri verdiani composti dopo il Falstaff senza preoccuparsi del suo Nerone che lasciò incompiuto.

  • Otello e Falstaff, i due ultimi capolavori dell’estrema maturità verdiana, sono il frutto di una delle più coinvolgenti e affascinanti collaborazioni artistiche della storia del melodramma. Di essa furono protagonisti due grandi artisti che, con queste due opere, senza fare proclami e senza dichiarazioni programmatiche, rinnovarono il melodramma italiano scaduto nella formula.

    Con l’Otello e il Falstaff si assiste, infatti, alla nascita, rispettivamente, della tragedia e della commedia per musica grazie ad una struttura librettistica profondamente rinnovata e ad una musica non più costretta negli angusti pezzi chiusi della tradizione. Sembra, infatti, che i due grandi artisti, percorrendo due strade parallele, si siano incontrati a un certo punto del loro cammino artistico, proprio quando entrambi avevano maturato indipendentemente e individualmente una nuova poetica musicale. Se per Boito la stesura di questi due libretti costituì l’applicazione pratica delle sue teorie sul melodramma, per Verdi rappresentò la soddisfazione di un’esigenza di rinnovamento avvertita dal compositore sin dalla Aida e culminata nel rifacimento del SimonBoccanegra a prescindere dai passi interamente riscritti da Boito. Verdi, infatti, riscrisse interamente il prologo, del quale fu mantenuto il testo originario di Piave, dando ad esso una struttura unitaria che trascende i pezzi chiusi e costruisce già un embrione di dramma per musica. Il rapporto tra Verdi e Boito andò avanti anche negli ultimi anni di vita del compositore (Boito gli sopravvisse di quasi vent'anni), come testimoniano le ultime lettere contenenti, analisi delle partiture con efficaci esempi musicali, abbozzi

  • di cambiamenti di testi dei libretti, notizie sulle prime esecuzioni, e informazioni anche di tipo personale). Pochi mesi dopo la morte di Verdi, Boito ricevette l’invito da parte di Camille Bellaigue di lavorare insieme a una biografia del Maestro, ma il librettista preferì declinare la proposta. Tuttavia numerosi taccuini di appunti su episodi della vita di Verdi, rinvenuti nella casa di Boito, lasciano pensare che egli abbia posto mano alla realizzazione di una biografia, mai concretizzatasi. Della solidità di questa amicizia è testimonianza, infine, una lettera scritta da Boito a Bellaigue alcuni mesi dopo la morte del maestro, del quale il poeta di Padova sentiva la mancanza. La villa di Sant'Agata luogo di tanti incontri con Arrigo Boito

    Ecco alcuni stralci della corrispondenza che accompagnò la nascita di un capolavoro:

    Verdi a Boito, 7 luglio 1889: Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme de' miei anni? So bene che mi risponderete esagerando lo stato di mia salute, buono, ottimo, robusto... E sia pur così: ciò malgrado converrete rneco che potrei esser tacciato di grande temerità nell'assumermi tanto incarico! - E se non reggessi alla fatica? E se non arrivassi a finire la musica?

    Boito a Verdi, 9 luglio 1889: Lo scrivere un'opera comica non credo che la affaticherebbe. La tragedia fa realmente soffrire chi la scrive, il pensiero subisce una suggestione dolorosa che esalta morbosamente i nervi. Ma lo scherzo e il riso della commedia esilarano la mente e il corpo. «Un sorriso aggiunge un filo alla trama della vita.» Lei ha desiderato tutta la sua vita un bel tema d'opera comica, questo è un indizio che la vena dell'arte nobilmente gaja esiste virtualmente nel suo cervello; l'istinto è un buon consigliere. C'è un modo solo di finir meglio che coll'Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i

  • IL RAPPORTO TRA ARRIGO BOITO E ELEONORA DUSE

    lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! c'è da far strabiliare!

    Verdi a Boito, 10 luglio 1889: Amen; e così sia! Facciamo addunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie!

    Verdi a Boito, 18 agosto 1889: Voi lavorate spero? Il più strano si è che lavoro anch'io!... Mi diverto a fare delle fughe!... Sì signore: una fuga... ed una fuga buffa... che potrebbe star bene in «Falstaff»...

    Boito a Verdi, 20 agosto 1889: Una fuga burlesca è quello che ci vuole, non mancherà il posto di collocarla. I giochi dell'arte sono fatti per l'arte giocosa. Verdi a Boito, 12 giugno 1891: Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore; altre volte grida, corre, salta, fa di diavolo a quattro... Io lo lascio un po' sbizzarrire; ma se continuerà gli metterò la museruola e la camicia di forza. Boito a Verdi, 14 giugno 1891: Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa, Lei ne comprerà degli altri; sfracellerà il pianoforte, poco importa, Lei ne comprerà un altro. Vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sarà fatta! Evviva! Boito a Verdi, 19 marzo 1893: Io non ricordo, e credo che non si sia visto mai, un'opera la quale abbia saputo penetrare come questa nello spirito e nel sangue d'una popolazione. Da questa trasfusione di gioia, di forza, di verità, di luce, di salute intellettuale deve derivarne un gran bene all'arte ed al pubblico.

  • Possiamo definire il rapporto tra Arrigo Boito ed Eleonora Duse un rapporto controverso e sofferto. Lui, molto più anziano, lei giovane e ansiosa di vita, videro trasformarsi dolorosamente l' amore in amicizia, mentre l'attrice finiva per soccombere alla seduzione impietosa di uno che preferiva il fascino al mistero: Gabriele D' Annunzio Il primo incontro tra la giovane Eleonora Duse e Arrigo Boito, avviene il 14 maggio 1884 al famoso ristorante Cova di Milano, dopo una serata d’onore in cui l’attrice recita al Teatro Carcano, applauditissima, La Signora delle Camelie. La Duse siede fra Gaetano Negri e Arrigo Boito; di fronte a lei Cesare Rossi, suo capocomico, e Flavio Andò, primo attore della compagnia; intorno siedono alcuni ammiratori, tra cui Giovanni Verga, Giovanni Pozza e Luigi Gualdo. All’epoca lei è un’artista ventiseienne che si affaccia alla ribalta, sposata con l’attore Tebaldo Checchi, della Compagnia Città di Torino diretta da Cesare Rossi, e madre della piccola Enrichetta. Lui è un affermato compositore e letterato di quarantadue anni, affascinante e mondano esponente della bella società milanese, oltre che grande amico di Giovanni Verga e Giuseppe Giacosa, già sodali dell’attrice. A testimonianza di questo incontro restano le prime lettere che i due si scambiano, in cui Boito scrive: "È proprio quello il ritratto che desideravo, vi ringrazio di averlo indovinato e d’esservi ricordata di mandarmelo. Voi siete partita e il filo si è rotto e noi siamo caduti tutti per terra, Verga, Gualdo ed io, col naso sul pavimento. Adesso dopo trentasei ore di catalessi, il braccio ripiglia i suoi movimenti e la mia mano volta questo cartoncino che vi è dedicato." I due si incontreranno di nuovo anni dopo, nel 1887, quando molto sarà cambiato nella vita dell’attrice. Durante la tournée in Sudamerica, infatti, il matrimonio di Eleonora Duse si rompe; lei rientra da sola in Italia e fonda la Drammatica Compagnia della Città di Roma, con Flavio Andò. Si impegna in un nuovo repertorio, portando al successo tre nuovi titoli di Giuseppe Giacosa. Ormai la sua fama ha superato i confini nazionali, tanto che Alexandre Dumas figlio scrive appositamente per lei Denise. L’amore tra Eleonora Duse e Arrigo Boito esplode nei primi mesi dell’anno, quando lei è a Milano, capocomica e padrona della propria ricerca artistica. Anche Boito, durante quest’anno, ottiene un’importante affermazione

  • personale con il successo segnato dalla prima rappresentazione dell’Otello di Giuseppe Verdi, basato sul suo libretto. Il rapporto fra Eleonora e Arrigo ha due possibili livelli di lettura: da un lato, una indubbia e molto intensa passione amorosa; dall’altro, un sodalizio artistico che influisce tantissimo sull’arte e sulla formazione dell’attrice. Come scrisse Olga Signorelli, “Boito raffinò il gusto di lei, la educò alla comprensione di alcune forme di bellezza che le erano rimaste sconosciute o indifferenti, la iniziò a Shakespeare, tanto da tradurre per lei Antonio e Cleopatra,una tragedia storica in cinque atti, e la guidò nella preparazione della parte”. Inoltre Boito sosteneva che “servire l’arte come suprema espressione dello spirito” fosse la missione fondamentale della vita dell’uomo, e con generosità egli si offriva di collaborare con chiunque voglia seguire questa idea. Sotto la sua influenza, anche la Duse modifica la sua idea di teatro e la “spregiudicata istintività” che ha caratterizzato la sua recitazione fino a quegli anni.

    LA GIOCONDA DI A. PONCHIELLI

  • La Gioconda è un'opera di Amilcare Ponchielli su libretto di Arrigo Boito (firmatosi con lo pseudonimo e anagramma di Tobia Gorrio)

    GENESI DELL’OPERA

    Dopo il debutto dei Lituani, il 7 marzo 1874 alla Scala, Ponchielli si mise in cerca di un nuovo libretto e prese contatto con Arrigo Boito. Il soggetto proposto, il dramma di Victor Hugo, Angelo tyran de Padue, lasciò in un primo tempo perplesso il compositore, che temeva il raffronto con Il giuramento di Saverio Mercadante , una fortunata riduzione operistica del medesimo soggetto che aveva debuttato alla Scala l'11 maggio1837. Per qualche tempo egli coltivò pertanto il progetto parallelo di mettere in musica il Piquillio Aliaga di Scribe, la cui riduzione librettistica fu affidata ad Antonio Ghislanzoni

    Boito decise di adattare il soggetto con estrema libertà, introducendo la figura di Barnaba e dando nuova fisionomia a tutti gli altri personaggi. Nel novembre 1874 i primi due atti del libretto erano pronti e Ponchielli si apprestò ad iniziare il lavoro di composizione, pur tra mille dubbi, che lo accompagneranno fino al debutto dell'opera. Nonostante l'ammirazione incondizionata per Boito, Ponchielli riteneva

  • infatti che l'elemento drammatico soverchiasse quello lirico e temeva, di conseguenza, una reazione negativa del pubblico. Egli capiva inoltre che l'audacia drammaturgica e formale di Boito l'avrebbe costretto a modificare il suo stile. Da una lettera del 3 giugno 1875 all'amico musicista Achille Formis:

    «Io sto occupandomi per questa Gioconda, ma t'assicuro che più di cento volte al giorno, sono tentato di desistere; le cause sono molte. La prima è che non ho fiducia nel libretto, troppo difficile, e forse non confacente alla mia maniera di scrivere. Siccome poi io sono per natura incontentabile, qui lo sono doppiamente, atteso la frequente e troppa elevatezza dei concetti, del verso, e difficoltà di forme, non trovando quelle idee che io vorrei. È una cosa inconcepibile ma trovo in me più scorrevolezza quando il verso è comune = Vi sono dei momenti che mi pare di non essere più capace di accozzare un'idea, e di non aver più Fantasia. È un fatto però che presentemente io dovevo attenermi ad altro libretto od altro poeta, che scrivesse non per suo conto ma per il Maestro»

    Le continue richieste di modifiche al libretto erano evase malvolentieri da Boito, già impegnato a portare in scena la nuova versione del suo Mefistofile (1875), tanto che il compositore cremonese cercò, per ottenerle, il tramite dell'editore Ricordi. Il 19 giugno 1875 il primo atto era comunque terminato, sebbene senza orchestrazione, ma Ponchielli - forse per fuggire le proprie paure - si era nel frattempo impegnato a comporre una cantata in onore di Gaetano Donizetti , che fu eseguita a Bergamo il 13 settembre 1875, e ad iniziare la revisione della giovanile Savoiarda che porterà alla Lina.

    Ponchielli rimise dunque mano alla Gioconda, ma più la prima si avvicinava, più il panico cresceva. Così scriveva il 31 dicembre a Giulio Ricordi:

    «Ho ricevuto il di Lei telegramma al quale vorrei far seguire una risposta lusinghiera e che appagasse i voti di entrambi rapporto al S. martire Gioconda, che martirizza anche un tale gettandolo in un ginepraio d'incertezze, di sì e no, di pezzi fatti e poi stracciati, di pentimenti, di pause, di spaventi, di terrori, al punto da alterarsi il fisico, il morale, porre il malumore in casa, far piangere la moglie... la serva! »

  • Alla conclusione del lavoro mancano solo quattro pezzi: il finale del terzo atto, la Danza delle Ore, il duetto finale del quarto atto e la sinfonia. Il 12 gennaio 1876 l'abbozzo è terminato tranne i ballabili e il preludio. Lo stesso giorno Ponchielli inizia la strumentazione. Ma i dubbi sul già fatto continuano a tormentarlo: il 24 gennaio informa l'editore di voler rivoluzionare il duetto tra Enzo e Barnaba dell'atto primo e che ben difficilmente potrà consegnare l'opera in tempo per eseguirla durante la stagione di carnevale. La Danza delle Ore fu composta a Milano quando le prove di canto erano già iniziate e, secondo una testimonianza, furono accolti alcuni suggerimenti di Luigi Manzotti, coreografo del Ballo Excelsior , musicato da Romualdo Marenco.

    DRAMMATURGIA E MUSICALITA’

    Con la sua drammaturgia sontuosa, spettacolare, ricca di danze (tra cui la celebre Danza delle Ore), effetti e di colpi di scena, La Gioconda è considerata il prodotto più tipico e rappresentativo del genere dellagrande opera, che il melodramma italiano aveva importato dallaFrancia sul modello delgrand opera

    Il libretto di Boito le conferì tuttavia tratti non convenzionali, sia nella versificazione che nel taglio drammaturgico, e un'impronta del tutto originale. Il merito del successo va dunque diviso tra il compositore e il poeta, nonostante la non facile collaborazione da cui l'opera aveva preso vita.

    Sottratto alla sua dimensione storica, il dramma di Hugo fu riletto da Boito in chiave simbolica alla luce dell'estetica della scapigliatura. Le inverosimiglianze della vicenda, pertanto, non solo non furono occultate ma vennero inserite in una visione drammaturgica straniata e moderna, ricca di momentimetateatrali: la frenetica forlana bruscamente interrotta da un altro rito, quello sacro della preghiera accompagnata dall'organo; la barcarola intonando la quale Barnaba fa amicizia con i pescatori; la serenata da dietro le quinte la cui popolaresca semplicità fa da sfondo ironico alla scena dell'avvelenamento di Laura; e naturalmente la Danza delle Ore con la quale Alvise intrattiene i suoi ospiti nell'attesa di shoccarli con l'immagine - non meno spettacolare - del presunto cadavere della

  • moglie Laura. E persino la morte diventa esplicita finzione nel momento in cui Gioconda sostituisce l'ampolla col veleno, affinché Laura beva una pozione che la faccia addormentare simulando una morte apparente.

    Il lessico dei personaggi sembra prescindere dalla loro estrazione culturale ed è quello, insieme ricercato e asciutto, tipico della poesia di Boito.

    La trama è a sua volta condotta da tre autentiche figure di drammaturghi in scena: Barnaba, Alvise e Gioconda, dove quest'ultima s'incarica di disfare i piani degli altri due, nel secondo atto avvisando gli amanti - Laura ed Enzo - dell'agguato predisposto da Barnaba, nel terzo sostituendo l'ampolla, nel quarto preparando la fuga degli innamorati e, infine, negando a Barnaba il suo corpo pugnalandosi a morte.

    La figura di Barnaba, il malvagio delatore che Ponchielli descrisse come «una parte odiosa, antipatica, ma originale», anticipa nelle sue trame lo Jago dell'Otello di Verdi, su libretto dello stesso Boito, sia nella funzione drammaturgica che nella sostituzione della canonica aria con un monologo drammatico di forma aperta: O monumento, così affine al celebre Credo di Jago, il cui ultimo verso - La morte è il nulla e vecchia fola il ciel - si incontra tale e quale nell'aria di Alvise composta per versione veneziana, e in seguito rimpiazzata.

    Dal canto suo, Ponchielli fu spronato ad ampliare il proprio vocabolario musicale, e ad abbandonare la sua prudenza, proprio dalle trovate di Boito. Il Tableau vivant dell'inizio del secondo atto, ad esempio, con il canto dei marinai sulla tolda e dei mozzi arrampicati sulle sartie, gli ispirò una pagina in cui il fitto gioco di contrasti ritmici e timbrici non si limita alle voci ma inizia già dal dialogo tra gli strumenti dell'orchestra, disposti a varie altezze come le varie parti che compongono il veliero e coloro che lo abitano.

    La sola pagina retrospettiva, il canto di Gioconda a Barnaba Vo' farmi più gaia, coi suoi passaggi di coloratura, si giustifica in base all'ironia con cui la cantatrice si rivolge all'uomo che s'illude di possederla, prima di infliggersi la pugnalata mortale.

  • Dove Ponchielli dovette faticare ad adattare il libretto alla sua estetica fu invece nelle sezioni liriche, molte delle quali furono ricavate a dispetto dei versi, in alcune zone d'ombra del libretto, dando fondo ad una vena melodica capace di trasferirsi dalle voci all'orchestra. È il caso, in particolare delle due grandi melodie che costituiscono altrettanti motivi ricorrenti (un terzo, legato al personaggio di Barnaba, consiste in un grottesco inciso, affidato per lo più ai legni gravi): il motivo del rosario e quello del sacrificio di Gioconda. Il primo, su cui si basano le sezioni cantabili del preludio, è intonato dalla madre di Gioconda - la Cieca - nel donare il suo rosario a Laura e segna il destino di Gioconda, costretta da quel momento ad aiutare la rivale. È ripreso più volte, in forma estesa poco dopo dall'orchestra, accompagnando suggestivamente l'uscita di scena dei personaggi, e più brevemente negli atti successivi. Il secondo, che appare la prima volta nel finale del primo atto, in corrispondenza dei quattro settenari di Gioconda O cuor, dono funesto! / Retaggio di dolore, / Il mio destino è questo: / O morte o amor!, presenta una condotta affatto nuova per l'opera italiana del tempo, sciolta dalla consueta simmetria tra le frasi e caratterizzata da vertiginose escursioni di registro. Sarà ripreso dai violini come perorazione finale dell'atto, negli atti terzo e quarto in corrispondenza di due estesi e drammatici ariosi di Gioconda (O madre mia, nell'isola fatale e E in cor / Mi si ridesta / La mia tempesta) e, affidato al clarinetto nel preludio notturno all'ultimo atto.

    Oltre alla Danza delle Ore, i pezzi più famosi dell'opera sono probabilmente le due romanze, Cielo e mar! (atto II) e Suicidio! (atto IV). Nella prima la melodia del tenore, morbida e insieme inquieta, secondo lo stile tipico di Ponchielli, e articolata in due strofe, è resa ancora più suggestiva in teatro dall'ambientazione notturna. Più libera è la forma della romanza di Gioconda, basata su martellanti versi quinari e articolata in una libera successione di idee tematiche intercalate da una sorta di tragico ritornello orchestrale, già ascoltato durante il preludio del quarto atto. Una forma dettata ancora una volta dai versi di Boito:

    «Mi pare di non aver fatto vaccate, e di aver interpretato specialmente nella romanza del Suicidio le tue idee acido-prussiche!!»

    TRAMA

  • L'azione si svolge nella Venezia del XVII secolo.

    Atto I - La bocca del leone

    Cortile del Palazzo Ducale di Venezia. Presso il portico della Carta, un portone conduce all'interno della Basilica di San Marco. Su un lato del cortile una bocca di leone riporta incisa sul marmo la scritta: «Denontie secrete per via d'inquisizione contra cada una persona con l'impunita secreteza et benefitii giusto alle leggi». Nelle vicinanze si trova lo scrittoio di uno scrivano.

    Mentre il popolo festante, che affolla il cortile, si dirige alla regata («Feste! Pane!»), Barnaba - informatore del Consiglio dei Dieci che si finge cantastorie - spia, nascosto dietro ad una colonna, Gioconda che conduce in chiesa la madre (la Cieca) non vedente («Figlia, che reggi il tremulo piè»). L'uomo è innamorato di Gioconda, ma, dopo l'ennesimo rifiuto di lei («Al diavol vanne con la tua chitarra!»), medita di vendicarsi sulla Cieca.

    Il popolo ritorna dalla regata («Gloria a chi vince il palio verde»): il regatante Zuàne è il perdente. Barnaba gli si avvicina e gli insinua il dubbio: che sia stata una stregoneria a farlo perdere? Barnaba allora accusa la Cieca («La vidi staman gittar sul tuo legno un segno maliardo, un magico segno [...] la tua barca sarà la tua bara!»). La calunnia si diffonde tra il popolo, che si scaglia contro la donna. Né Gioconda, né l'uomo di cui è innamorata, Enzo, riescono a sottrarla alla folla («Assassini, quel crin venerando rispettate!»), quando sopraggiungono Laura Adorno (di cui Enzo è innamorato) e suo marito Alvise Badoero, nobile veneziano e inquisitore di stato. La nobildonna intercede presso il marito, che riesce a salvare la Cieca, la quale, riconoscente, dona a Laura un rosario («A te questo rosario, che le preghier aduna... ti porterà fortuna»). La folla si disperde.

    Barnaba si avvicina ad Enzo, lo chiama col suo vero nome, lo rassicura che terrà il segreto per sé e gli rivela che quella notte Laura fuggirà con lui. Barnaba rivela ad Enzo la sua vera identità («Sono il possente demone del Consiglio dei Dieci») e gli confida di aver fatto tutto ciò per poter essere amato da Gioconda. Enzo fugge, inorridito.

    Rimasto solo, Barnaba detta allo scrivano Isépo una denuncia che accusa entrambi gli amanti e la inserisce nella bocca del leone («O

  • monumento!»), mentre Gioconda, nascosta dietro ad una colonna con la madre, ode le accuse e osserva l'atto della delazione.

    Uscito di scena Barnaba, un popolo festante entra nel cortile («Carneval! Baccanal!») improvvisando una forlana, ma i festeggiamenti vengono interrotti dai cori dei fedeli che giungono dalla basilica. Un barnabotto esorta il popolo a inginocchiarsi e pregare seguendo i vespri («Tramonta il sol... udite il canto del vespro santo, prostrati al suol»). Mentre si ode l'inno, Gioconda, disperata («Tradita! Ohimè, io soccombo!»), lamenta il suo destino («O cor, dono funesto»). La madre cerca di consolarla, ma Gioconda è decisa: quella stessa notte, anche lei salirà sulla nave di Enzo.

    Atto II - Il rosario

    È piena notte e un brigantino, col nome «Hècate» dipinto sulla fiancata, attende alla fonda presso la bocca della laguna di Venezia detta della Fusina. Nelle immediate vicinanze un'isola deserta.

    I marinai dell'Hècate attendono ai loro compiti cantando una marinaresca. Intanto Barnaba, fingendosi un pescatore («Pescator, affonda l'esca!»), spia la nave di Enzo dopo aver inviato Isépo ad avvertire il naviglio veneziano. Entra in scena il principe Enzo e manda sotto coperta i marinai perché resterà lui a vegliare durante la notte. Rimasto solo, attende trepidante l'arrivo di Laura («Cielo e Mar»). È Barnaba a condurre da lui l'amante, accostandone la barca al brigantino. Laura sale a bordo, ma appare allarmata per il sinistro augurio del falso pescatore. Eppure – ribatte Enzo – quello «è l'uomo che ci aperse il paradiso!». I due amanti si scambiano dolci parole, fino a che non tramonta completamente la luna, al che Enzo si allontana sotto coperta per cercare qualcuno che conduca la donna di nuovo a casa.

    Rimasta sola nella notte, Laura confida alla Madonna il suo turbamento e la sua paura («Stella del marinar»). Sulle ultime parole della preghiera («su me scenda la tua benedizion...»), Gioconda esce dall'oscurità («E un anatema!») e aggredisce la rivale, minacciandola di ucciderla se non fuggirà. Ma Laura reagisce rivendicando la forza del suo amore («L'amo come il fulgor del creato!»). Gioconda allora minaccia di consegnarla al marito, che sta giungendo su una barca («Là è il tuo consorte!»). Ma quando Laura, spaventata, alza il rosario, Gioconda la riconosce come la donna che ha salvato sua madre, e la aiuta a fuggire. Laura, confusa, domanda il nome della

  • salvatrice («Ma mi dirai chi sei?»), «Son la Gioconda» risponde l'altra.

    Barnaba per un attimo ricompare in scena («Maledizion! Ha preso il vol!»), consigliando ad Alvise di seguire la barca sulla quale fugge Laura. Tornato Enzo, Gioconda gli dice che Laura è fuggita per paura («Vedi là, nel canal morto? Un navil che forza il corso? Essa fugge... il suo rimorso fu più forte dell'amor!»). Enzo, sdegnato («Non mi dir d'avermi amato... odio sol tu porti in core!»), corre verso la riva per seguire la donna amata («Là è la vita»), ma Gioconda lo ferma e lo avverte del pericolo delle galee veneziane («La è la morte!»). Il genovese, pur di non farsi prendere, dà fuoco alla nave (»Incendio! Guerra! Morte! Strage!»).

    Atto III - Il narcotico o la Ca' d'Oro

    Scena I: Una camera nella Ca' d'Oro. Sera; lampada accesa - da un lato un'armatura antica.

    Alvise, scoperto il tradimento di Laura, giura di vendicarsi («Si, morir ella de'!»). Sarà una vendetta terribile, degna di un Badoéro: che le danze della festa gioiscano pure, lì il marito tradito deve vendicare il proprio onore. Decide però di non sporcarsi le mani, sarà lei stessa a darsi la morte con un veleno. Quindi fa convocare Laura e la lusinga nascondendo a malapena la sua ira: egli accenna ironicamente appena al suo tradimento («Bella così madonna, io non v'ho mai veduta»), e Laura, insospettita, gli chiede il motivo di tale comportamento («Dal vostro accento insolito cruda ironia traspira»). Alvise, al massimo dell'ira, la costringe a dire la verità, e poi le urla che morirà subito.

    Mentre Laura lamenta il suo destino («Morir, morir è troppo orribile»), Alvise le mostra la sua bara. Da fuori risuona una canzone intonata dai gondolieri («La gaia canzone fa l'eco languir e l'ilare suono si muta in sospir»). Alvise la obbliga a bere un veleno prima che il canto giunga alla sua ultima nota, ma di nascosto Gioconda sopraggiunge e convince Laura a bere da un'altra boccetta, che contiene un potente narcotico che «della morte finge il letargo».

    Dopo averlo bevuto, Laura entra nella camera mortuaria e si distende sul catafalco. Entra Alvise e, osservando la boccetta vuota, si convince che la donna è morta. Gioconda invoca la madre, e riflette sconvolta su quello che ha appena fatto: salvare la rivale per amore di Enzo («Io la salvo per lui, per lui che l'ama!»).

  • Scena II: Sontuosissima sala attigua alla cella funeraria, splendidamente parata a festa. Ampio portone nel fondo a sinistra, un consimile a destra, ma questo chiuso da una drapperia. Una terza porta nella parete a sinistra.

    Nel palazzo si svolge un ricevimento durante il quale gli invitati inneggiano alla Ca d’oro («S'inneggi alla Ca' d'Oro!»). Alvise ha fatto allestire per loro lo spettacolo della Danza delle ore. Sopraggiunge Barnaba, che di nuovo accusa la Cieca di stregoneria. Per le strade riecheggia il suono funesto della campana dei moribondi, e Barnaba confida ad Enzo che Laura è morta («Un'agonia? Per chi?... Per Laura!»). Quando Enzo, sconvolto, si smaschera davanti a tutti, Alvise ordina di arrestarlo e gli preannuncia una agonia dolorosa nel carcere. Infine, mostra a tutti il corpo, apparentemente senza vita, di Laura. Enzo fa per aggredirlo («Carnefice!»), ma viene fermato dalle guardie e arrestato. Nello sconcerto generale, Barnaba rapisce la Cieca.

    Atto IV - Il canal orfano

    L'atrio di un palazzo diroccato nell'isola della Giudecca. Nell'angolo di destra un paravento disteso, dietro il quale si trova un letto. Un gran portone di riva nel fondo, da cui si vedrà la laguna e la piazzetta di San Marco, illuminata a festa. Un'immagine della Madonna e una croce appesa al muro. Un tavolo, un canapè, sul tavolo una lucerna e una lanterna accese, un'ampolla di veleno, un pugnale. Sul canapè, vari adornamenti scenici di Gioconda. A destra della scena, una lunga e buia calle.

    L'isola della Giudecca. Un dolce e malinconico preludio apre l'ultimo atto. Gioconda, sola, attende l'arrivo di qualcuno. Giungono gli amici cantori, che le portano il corpo di Laura, trafugato dalla cripta. Gioconda supplica i cantori di cercare la Cieca. Rimasta sola, la donna medita il suicidio («Suicidio! In questi / Fieri momenti»).

    D'improvviso la cantatrice ha l'impulso di liberarsi della rivale («Se spenta fosse!!! Siam sole... è notte... profonda è la laguna...»), ma viene interrotta da due voci dal canale lì vicino che segnalano la presenza di un cadavere nella laguna («Eh! dalla gondola, che nuove porti? - Nel Canal Orfano ci son dei morti!»). Gioconda inorridita si blocca e invoca la pietà dell'amato per ciò che stava per fare.

    Proprio in quel momento sopraggiunge Enzo, liberato da Barnaba grazie all'intercessione di Gioconda. Enzo è disperato, vuole

  • raggiungere il sepolcro di Laura e uccidersi, ma Gioconda gli dice di averla rapita. Enzo, furibondo, cerca di farsi dire dove l'ha nascosta («O furibonda iena che frughi il cimitero!»). Alla resistenza di Gioconda, sta per ucciderla («Oh, gioia, m'uccide!»), quando, proprio in quel momento, si risveglia Laura, che lo chiama per nome.

    Gioconda, sopraffatta dalla vergogna, si nasconde, ma Laura rivela all'amato che è stata proprio lei a salvarle la vita. Enzo la benedice, mentre compare la barca dei cantori che intonano una Serenata, la stessa durante la quale Laura ha bevuto la pozione. Gioconda rammenta la canzone e il rosario donato a Laura dalla madre: rinnova la benedizione su Laura, e la fa fuggire sulla barca con Enzo ad Aquileia. I due giovani, commossi, la benedicono mentre si allontanano.

    Disperata, Gioconda prende la spada per uccidersi, quando si ricorda della madre, e anche del patto con Barnaba. Fa per fuggire, quando le si fa innanzi Barnaba. È il momento di pagare il prezzo: la cantatrice ha promesso il suo corpo a Barnaba in cambio della liberazione di Enzo. Ma dopo averlo tenuto a bada lusingandolo («Vò farmi più gaia... più fulgida ancora...»), si lascia cadere di peso sulla spada, accoltellandosi a morte («Volesti il mio corpo, demon maledetto? E il corpo ti do!»).

    Barnaba, beffato, vuole vendicarsi rivelandole che le ha appena ucciso la madre («Ier tua madre m'ha offeso... io l'ho affogata!»). Ma è tardi: Gioconda è già morta («Non ode più!»). Dopo aver emesso un alto grido di rabbia, Barnaba si dilegua scappando per le calli.

  • BIBLIOGRAFIA: Arrigo Boito, vita biografia e musica | settemuse.it BOITO, Arrigo in “dizionario biografico”- Treccani

    https://it.wikipedia.org/wiki/Mefistofele_(opera) Mefistofele: libretto e musica di Arrigo Boito (ricordi)

    http://www.verdi.san.beniculturali.it/verdi/?verdi-e-il-suo-tempo=arrigo-boito

    https://www.rodoni.ch/proscenio/cartellone/doncarlo/verdieboito.html https://www.gbopera.it/2013/07/riccardo-viagrande-verdi-e-boito-

    allarte-dellavvenire-storia-di-unamicizia-e-di-una-collaborazione/ http://www.operaclick.com/recensioni/libri/verdi-e-boito-allarte-

    dellavvenire-storia-di-unamicizia-e-di-una-collaborazione-art

    http://spazioinwind.libero.it/eleonoraduse/_private/boito.htm https://www.cini.it/wp-content/uploads/2017/09/Catalogo-Duse-

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    https://it.wikipedia.org/wiki/La_Gioconda

    Giovanni Guarducci, Lorenzo Mancini, Giulia Cecchi, Benedetta Incarbona, Martina Calamai