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La nuova cultura figurativa a Venezia Le correnti dominanti a Venezia alla metà del secolo sono ancora quelle del tardogotico liberalmente aperto e cautamente modernista di Jacopo Bellini e quella antitetica, ma più che altro per rigorismo religioso, di Antonio Vivarini e dei muranesi. Gentile Bellini: il pittore dei “documentari” veneziani Dei due figli di Jacopo Bellini, GENTILE (1429 circa-1507) rimane per tutta la vita un moderato: eredita la bottega e la clientela illustre del padre, diventa il ritrattista ufficiale dei dogi, va in Oriente a fare il ritratto del sultano. I suoi tentativi di aggiornarsi ai nuovi problemi non sono fortunati: gli servono tuttavia a liberarsi dai manierismi, a rendere più sensibile e determinante la linea, più sottile e trasparente il colore, specialmente nei ritratti finissimi, «da paragonare coi cinesi arcaici, coi persiani o con Holbein» (Longhi). I grandi teleri con le Storie della Croce per la confraternita di San Giovanni evangelista sono opere tarde, degli ultimi anni del secolo, quando il fratello Giovanni aveva già dato le prove più alte della sua pittura meditativa, carica di cultura e di problemi. E a questa manifestazione contrastano questi "documentari" della vita veneziana; con i quali Gentile sembra volere affermare il valore della descrizione precisa e della veduta ottica contro la visione metafisica. Si sa del resto che Gentile, oltre che ritrattista, è stato un vedutista: rimangono notizie di figurazioni panoramiche o topografiche da lui dipinte del Cairo, di Genova, di Venezia. È questo, forse, l'aspetto più originale della sua attività: quello per cui potrebbe essere considerato il lontano precursore della corrente del "vedutismo", che avrà a Venezia sviluppi notevoli. Giovanni Bellini, fra naturalismo classico e spiritualismo cristiano Molto diversa e ben più problematica è la personalità dell'altro e maggior figlio di Jacopo, GIOVANNI BELLINI (1430 circa-1516). Già la sua prima scelta è significativa: la resistenza vivariniana agli aspetti mondani e sociali del tardogotico e, subito dopo, l'aspra essenzialità e la consistenza plastica del disegno mantegnesco. La Trasfigurazione di Cristo, poco dopo il 1455, dimostra la portata e i limiti del rapporto del Bellini con l'ambiente padovano e con il Mantegna, il cui storicismo gli rimane estraneo. Mantegneschi sono certamente gli scorci delle tre figure sul monte, il segno angoloso e tormentato, la frattura cristallina della roccia; ma lo scorcio, più che situare le figure nello spazio, suggerisce la loro tensione verso l'alto, in contrasto alle tre figure poste più in basso, che sembrano aderire e quasi immedesimarsi al terreno e alla roccia. Il senso simbolico di questo crescendo in tre gradi (della natura, espressa nelle pianticelle fiorite del primo piano, dell'umano come stadio intermedio tra naturalità

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La nuova cultura figurativa a VeneziaLe correnti dominanti a Venezia alla metà del secolo sono ancora quelle del tardogotico liberalmente

aperto e cautamente modernista di Jacopo Bellini e quella antitetica, ma più che altro per rigorismo religioso, di Antonio Vivarini e dei muranesi.

Gentile Bellini: il pittore dei “documentari” veneziani

Dei due figli di Jacopo Bellini, GENTILE (1429 circa-1507) rimane per tutta la vita un moderato: eredita la bottega e la clientela illustre del padre, diventa il ritrattista ufficiale dei dogi, va in Oriente a fare il ritratto del sultano. I suoi tentativi di aggiornarsi ai nuovi problemi non sono fortunati: gli servono tuttavia a liberarsi dai manierismi, a rendere più sensibile e determinante la linea, più sottile e trasparente il colore, specialmente nei ritratti finissimi, «da paragonare coi cinesi arcaici, coi persiani o con Holbein» (Longhi). I grandi teleri con le Storie della Croce per la confraternita di San Giovanni evangelista sono opere tarde, degli ultimi anni del secolo, quando il fratello Giovanni aveva già dato le prove più alte della sua pittura meditativa, carica di cultura e di problemi. E a questa manifestazione contrastano questi "documentari" della vita veneziana; con i quali Gentile sembra volere affermare il valore della descrizione precisa e della veduta ottica contro la visione metafisica. Si sa del resto che Gentile, oltre che ritrattista, è stato un vedutista: rimangono notizie di figurazioni panoramiche o topografiche da lui dipinte del Cairo, di Genova, di Venezia. È questo, forse, l'aspetto più originale della sua attività: quello per cui potrebbe essere considerato il lontano precursore della corrente del "vedutismo", che avrà a Venezia sviluppi notevoli.

Giovanni Bellini, fra naturalismo classico e spiritualismo cristiano

Molto diversa e ben più problematica è la personalità dell'altro e maggior figlio di Jacopo, G IOVANNI BELLINI (1430 circa-1516). Già la sua prima scelta è significativa: la resistenza vivariniana agli aspetti mondani e sociali del tardogotico e, subito dopo, l'aspra essenzialità e la consistenza plastica del disegno mantegnesco.

La Trasfigurazione di Cristo, poco dopo il 1455, dimostra la portata e i limiti del rapporto del Bellini con l'ambiente padovano e con il Mantegna, il cui storicismo gli rimane estraneo. Mantegneschi sono certamente gli scorci delle tre figure sul monte, il segno angoloso e tormentato, la frattura cristallina della roccia; ma lo scorcio, più che situare le figure nello spazio, suggerisce la loro tensione verso l'alto, in contrasto alle tre figure poste più in basso, che sembrano aderire e quasi immedesimarsi al terreno e alla roccia. Il senso simbolico di questo crescendo in tre gradi (della natura, espressa nelle pianticelle fiorite del primo piano, dell'umano come stadio intermedio tra naturalità e spiritualità, nel secondo, della spiritualità pura e trascendente nel terzo) prevale nettamente sul senso storico-religioso; ed è significativo che per questa via Giovanni Bellini recuperi qualche tratto della visione bizantina: nel brusco passaggio dal ritmo aggrovigliato delle figure giacenti alla tensione delle altre e, soprattutto, nel carattere iconico della figurazione. Ma il crescendo in tre gradi non è gerarchia dottrinale, bensì un progressivo elevarsi dell’accento patetico, di sentimento. Dietro il roccione, oltre l'orizzonte, si apre lo sfondo luminoso del cielo al tramonto: su di esso si profilano Cristo, Mosè ed Elia, e da essi la luce scende a sfiorare le figure giacenti e il gradino roccioso. È dunque la luce naturale che, con il tramite spirituale di Cristo e dei profeti, scende a destare l'umanità dormiente, a far sbocciare i fiori tra i sassi e a ingemmare i rami dell'albero secco. Già si profila, e lo confermano altre opere di questo periodo, come l’Orazione nell'orto di Londra, il motivo dominante del pensiero del Giambellino: tra naturalismo classico e spiritualismo cristiano non v'è antitesi, perché il legame vivente tra le due ere è Cristo stesso che, discendendo e vivendo sulla terra, ha dato alla natura un nuovo significato. Perciò, e non già perché rechi l'impronta di una creazione autoritaria, la natura si fonde con il sentimento umano e si sublima nel sentimento del divino. Si può dire che le figurazioni belliniane, in questa prima fase, sono essenzialmente cristologiche: la persona di Cristo è l'agente spirituale, divino-umano, che sottrae la realtà naturale all'inerzia della materia e le dà una vita o una storia. E certo il problema del rapporto natura-storia è quello che unisce, tra 1460 e 1470, il Bellini e il Mantegna (si ricordi la Morte della Madonna con la veduta della laguna di Mantova): solo che il Mantegna lo risolve riassorbendo la natura nella storia, il Bellini risolvendo la storia nella natura. La storia è tutta scritta e non può mutare: è la condizione di necessità che determina la rigorosa ricostruzione logica del classicismo mantegnesco. La natura è mutazione continua, virtualità o possibilità infinita: è la condizione di una libertà che si esprime nell'interpretazione soggettiva, secondo il "sentimento". Il Cristo benedicente del Louvre è una delle più toccanti immagini del mito cristiano di Giovanni Bellini: e non è un caso che la figura sofferente, come estenuata dalla luce sottratta al

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cielo ormai scuro, abbia in mano un libro chiuso e con la mano benedicente sembri indicare che altrove, nella natura appunto, è la sorgente dell'esperienza, la spiegazione del mistero.

Il sentimento della natura di Bellini e il senso della storia di Mantegna

La divergenza della concezione mantegnesca e di quella belliniana emerge dal confronto di due opere di uguale soggetto e, anche nella composizione, molto simili.

Nell’Orazione nell'orto di Londra il Mantegna mette a nudo, nella stratificazione delle rocce, la storia di una natura "antica" e, con l'avvento della spiritualità cristiana, scaduta, andata in rovina. La città nel fondo è Roma, cioè, per antonomasia, la storia: e storico, quindi compiuto e immutabile è il fatto rappresentato. Poiché l'estremo colloquio di Cristo con il Padre non può avere testimoni umani, per volere del cielo gli apostoli sono caduti in un sonno profondo. Solo i conigli sulla strada e gli uccelli sull'acqua alludono alla natura, al suo esistere fuori del tempo storico. Cristo ha una dimensione eroica, anche nella passione è signore della natura e della storia; e gli angeli non gli porgono il calice, ma i simboli della passione, e la loro schiera in cielo è la controparte della schiera dei soldati, ormai vicina. Tutto accade secondo la logica; e nell'istante in cui le cause producono gli effetti si svelano anche i significati simbolici delle cose: il tronco che fa da ponte è l'albero di Adamo che darà il legno per la croce; il ramo morto con l'avvoltoio e il ramo vivo o rinato dell'albero alludono all’era che muore e a quella che nasce.

Nell’Orazione nell'orto del Bellini, anche a Londra, vi sono gli stessi elementi, ma senza correlazione causale. Il paesaggio è un piano tra basse colline disseminate di borghi; la prima luce dell'alba lo percorre come un brivido. Il sonno ha vinto i discepoli; e Cristo è un essere che soffre, le pieghe della tunica tradiscono un brivido, non si sa se di freddo o di angoscia. Il Mantegna fa uscire le guardie dalla città, perché là è stata pronunciata la sentenza; e la strada è nettamente segnata. Giambellino vede le guardie lontane, nella pianura; procedono sparse, arriveranno a un bivio, dovranno decidere se varcare o no il ponte. E se prendessero la strada sbagliata? E se Cristo fuggisse dal cancelletto aperto? Tutto può cambiare. Anche la luce cambia: viene avanti dall'orizzonte, lambisce gli orli delle nubi notturne che si ritirano, dilegua l'angoscia di quella lunga notte, anche l'angelo con il calice si è fatto trasparente, sta per scomparire. La natura assorbe il dramma, lega il mutare dei sentimenti umani a quello delle stagioni, dei giorni, delle ore.

Sul corpo di Cristo, nella Pietà di Brera, trascorre la luce che giunge dall'orizzonte, con le nubi a strisce, in onde lente e ripetute; non vi sono altri segni del martirio che le piaghe slabbrate, le vene indurite delle mani. Cristo spirante è la sublimazione in immagine divina di quella dolce luce di tramonto: l'evidenza delle ferite sta a dimostrare che l'uccisione di Cristo fu un delitto contro natura. Il volto umanissimo della Madonna sembra chiedere il perché di quella morte, e san Giovanni svelare il mistero doloroso. Il mistero non è altro che il mistero della natura, del nascere e del morire: l'attitudine umana davanti a esso è la "malinconia", la sola comunicazione tra l'animo umano e il mondo. Sarà il tema su cui si fonderà, con Giorgione, la pittura veneta del Cinquecento: ne spiegherà il significato Dùrer, poco dopo aver lasciato Venezia, in una stampa famosa. Non più l'ordine geometrico o razionale del creato ispira l'artista, ma il ciclo del nascere e del morire, l'esistenza. Il mito cristiano è lo specchio in cui natura e umanità si sovrappongono in una sola immagine.

L’incontro con la verità teoretica di Piero della Francesca

L’Incoronazione di Pesaro, poco dopo il 1470, è il documento dell'incontro della pittura di Giovanni Bellini e di quella di Piero della Francesca. Fino a questo momento la pittura del Bellini traduceva il flusso del sentimento nella modulazione della luce e del colore: la pittura di Piero, con la sua certezza teoretica, pone il problema della verità. Si può, per la via del sentimento della natura, giungere alla conoscenza? Il cielo è pieno di angeli, non natura ma empireo; il paesaggio "naturale" s'inquadra invece in una finestra quadrata nel dossale geometrico del trono. Rigorosamente prospettica è la disposizione delle figure. I colori si fissano, quasi s'induriscono nei riquadri del pavimento, negli specchi marmorei del trono, perfino nelle vesti e nei volti. Ma geometria e prospettiva non costruiscono, hanno valore simbolico: fissano i colori, li accordano per rapporti proporzionali, a distanza, invece che per trapassi e sfumature; fermano il flusso dalla comunicazione per la via del sentimento, trasformano l’intuizione in rivelazione della natura e del suo significato metafisico.

Dall’incontro con Antonello il classicismo nella natura

L'incontro con Antonello da Messina (1475-1476) ha per il Bellini un'importanza fondamentale: lo aiuta a superare il dilemma di sentimento e verità, di natura reale o metafisica. La Pala di San Giobbe (1487 circa) è ancora un'interpretazione o un ripensamento della Pala di San Cassiano di Antonello ma la "sacra conversazione" si svolge in un ambiente più chiuso, saturo della luce calda che scende, riflessa, dal catino

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dorato dell'abside. Ciò che il pittore vuole esprimere non è certo l'animazione di una disputa dottrinale; ma la condizione spirituale, lo stato d'animo comune delle figure così diverse, il loro concorde reagire a una condizione di spazio e di luce, il loro esistere insieme in un dato luogo e tempo. Quasi dello stesso periodo è un quadro misterioso, forse anch'esso una Sacra conversazione, ma espressa attraverso una serie di allusioni allegoriche. Benché il soggetto ci sfugga, il quadro conserva tutto il suo fascino. Infatti, se è oscuro il soggetto, è chiaro il significato della visione: l'identità, anche sul piano metafisico, di umanità e natura; il risolversi della mitologia naturale, classica, in una mitologia spirituale o cristiana. Alcune figure sono riconoscibili (la Madonna, san Sebastiano, san Giobbe, san Pietro, san Paolo), altre no: ma tutte coesistono in quel luogo magico, in quella luce che dà ai colori uno splendore inconsueto e in cui le forme della natura e quelle della civiltà hanno lo stesso, identico significato. La ricerca della relazione tra spazio e colore si approfondisce e sviluppa nel Trittico dei Frari (1488), nella Pala di San Zaccaria (1505) e in quella di San Giovanni Crisostomo (1513), per non citare che alcune tra le opere più importanti. In tutte Giovanni Bellini porta innanzi il suo proposito di conseguire una spazialità aperta, illimitata, costruita senza alcun illusionismo prospettico, con i rapporti di distanza risultanti dalle qualità luminose, irradianti o assorbenti, del colore. Nella Pala di San Pietro martire a Murano (1510 circa), il pittore ormai ottantenne elimina coraggiosamente anche l'architettura e il trono: la conca absidale è sostituita da un semicerchio di santi, che guardano in alto, alla Vergine Assunta, prodigiosamente sospesa a mezz'aria. Dietro, un vasto paesaggio di monti, con alberi spogli e castelli profilati sulla luce incostante di una giornata invernale; e nelle nubi trascorrenti, si formano e si disfanno, col capriccio del vento, teste di cherubini. Tutto è miracolo: l'accolta dei santi paludati in quel luogo e in quell'ora, il pavimento marmoreo nell'aperta campagna, la Madonna sospesa, gli angeli tra le nubi; eppure la luce batte sui volti e sulle vesti nel modo più "naturale", smorza o ravviva i colori dei colli e delle mura, e le piccole figure di pastori e di cavalieri, lontane, stanno a dimostrare ci nulla vi è di più miracoloso che la natura stessa, ne suoi aspetti consueti. Il miracolo, poi, non è tanto questi aspetti, quanto nella reazione che suscitano nell'animo umano che li contempla; nell'emozione che provocano, nel più durevole sentimento che succede al trauma emotivo, nel riversarsi di esso sulla natura stessa, nel significato e nel valore crescenti che i fenomeni, le cose naturali assumono nell'appassionata visione umana. Giambellino, nell'esaltazione affettiva suscitata dalla visione emozionata di quel paesaggio, in quella stagione, in quel giorno, in quell'ora, aggiunge interesse, forza d'appello alle nubi con le teste dei cherubini: a Tiziano, a questa data già attivo, basterà intensificare con qualche pennellata più vigorosa, il tono del colore. È questo sentimento del miracolo naturale o della natura come spettacolo sempre nuovo, sorprendente, prodigioso agli occhi dell'uomo, che costituisce il classicismo senza eroi, trionfi e rovine, anzi quotidiano e domestico, inerente alla vita, dell'ultimo Bellini: e che permetterà al vecchio maestro di ravvivare la sua pittura, fino all'ultimo, con l'esperienza degli stessi pittori che si erano formati nella sua orbita: Cima da Conegliano. Giorgione, Sebastiano del Piombo.

Giovanni Bellini: luce e colore

L'innovatore dell'arte veneziana

Giovanni Bellini, figlio minore di Iacopo, fu uno dei più grandi pittori rinascimentali e il più importante esponente dell'arte veneziana del Quattrocento, che a partire da lui sarebbe stata caratterizzata fino al XVIII secolo dal binomio di luce e colore. Nacque a Venezia intorno al 1430 e vi morì nel 1516; si formò nella bottega paterna ma guardò anche all'ambiente padovano e alle opere donatelliane lì conservate. Cognato di Mantegna, Giovanni ne fu influenzato fino al sesto decennio del secolo, apprendendone la concezione monumentale della figura umana ma stemperandone l'asprezza del disegno, come dimostra la tavola dell'Orazione nell'orto del 1459-60, strettamente legata a quella mantegnesca sul medesimo soggetto (vedi p. 151).

Presto Bellini sviluppò uno stile più personale, basato su una calda gamma cromatica, sulla morbidezza delle forme e sulla delicatezza espressiva della natura e dei volti. A questa fase appartiene la Pietà (1460-65 ca.) conservata a Brera: il soggetto fu particolarmente amato dal pittore, che lo ripropose in modi diversi durante la sua carriera. Se da un lato l'incisività mantegnesca dei contorni è ancora visibile nella resa scultorea del braccio di Cristo, con nervi e muscoli in evidenza, o nelle pieghe delle vesti e nei capelli di san Giovanni, dall'altro le espressioni intense ma non esasperate, profondamente umane, e l'armonia tra figure, paesaggio e colori, sono una conquista del tutto personale del pittore.

L'influsso di Antonello da Messina

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Segna il raggiungimento della maturità la Pala di Pesaro (1472-74), dipinta per l'altare maggiore della chiesa di San Francesco della città marchigiana, la cui tavola centrale rappresenta l’Incoronazione della Vergine tra i santi Paolo, Pietro, Gerolamo e Francesco, mentre nelle Storie di san Francesco della predella e nei Santi dei pilastri intervennero degli aiuti. Durante il soggiorno nelle Marche, Bellini ebbe modo di approfondire la conoscenza della pittura fiamminga e di quella di Piero della Francesca, raggiungendo una piena consapevolezza luministica e prospettica e apprendendo la tecnica a olio, che utilizzò con sottili velature, in modo da ammorbidire il chiaroscuro e i trapassi cromatici.

Tornato a Venezia, l'incontro con Antonello da Messina, presente nella città tra la fine del 1474 e il 1476, migliorò in lui la resa della luce e dei paesaggi; dal rapporto con il messinese nacque anche la nuova concezione di pala d'altare, che, a partire dal primo esemplare perduto per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (1474) e passando poi per la Pala di San Giobbe e le successive (vedi p. 142), sarebbe stata sviluppata da Bellini durante tutta la sua lunga carriera, coniugando la monumentalità dell'impianto con la resa psicologica dei personaggi.

Nel 1483 divenne pittore ufficiale della Repubblica veneziana, alla guida di una grande bottega che avrebbe avuto come allievi anche Giorgione e Tiziano.

Le opere devozionali

Oltre alle grandi opere pubbliche, si devono a Bellini diversi dipinti devozionali di formato minore, alcuni realizzati per un pubblico raffinato che apprezzava le colte simbologie.

Il tema prediletto da Bellini e sviluppato con risvolti intimi e quotidiani in innumerevoli varianti fu la Madonna con il Bambino sullo sfondo di delicati paesaggi campestri. Una delle più belle tavole con questo soggetto è la cosiddetta Madonna del prato (1500-05 ca.), interpretazione moderna dell'iconografia della Madonna dell’umiltà: la Vergine è seduta a terra con in braccio il Bambino; sullo sfondo, una campagna assolata, con animali dai significati simbolici. Alcuni particolari alludono alla morte e resurrezione di Gesù: la posizione abbandonata del Bambino, il suo pallore e i suoi occhi chiusi; il corvo in alto a sinistra, uccello spesso associato al demonio e alla corruzione perché si nutre di carogne; la cicogna e il serpente sottostanti, che richiamano la prima la Pasqua, in quanto simbolo di vita nuova, e il secondo il male del peccato originale da cui libera il Cristo risorto. Le figure sono come fuse con il paesaggio, tramite l'armonizzarsi delle tinte e l'uso morbido della luce e del chiaroscuro: sono i princìpi alla base della pittura tonale, che si andava sviluppando tra gli allievi di Bellini, Giorgione e Tiziano.

La sfida del nuovo secolo

Nonostante l'età, all'inizio del nuovo secolo Bellini fu ancora in grado di rinnovarsi, assorbendo le novità introdotte dalla nuova generazione di pittori suoi allievi (oltre ai citati, anche Lorenzo Lotto e Sebastiano del Piombo). Nella ritrattistica, memore della lezione antonelliana, dimostrò grande sensibilità: nel Ritratto di Leonardo Loredan (1501 ca.), firmato sul cartellino fissato al parapetto, il doge è raffigurato in una posa severa con il corno (il cappello dogale) e l'abito da cerimonia che ne sottolineano la dignità e l'autorevolezza, eppure risulta profondamente umano, anche in virtù della verità luministica e del realismo con cui sono rese le stoffe.

Nelle ultime opere di Bellini, per esempio nella Pala di San Zaccaria (vedi p. 142), del 1505, si colgono gli esiti dell'apertura alla Maniera moderna di primo Cinquecento.

Le pale d'altare

Giovanni Bellini

1487 ca. - Sacra conversazione (Pala di San Giobbe)

olio su tavola, 471 x 58 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia

1488 - Sacra conversazione (Trittico dei Frari)

olio su tavola, pannello centrale 184 x 79 cm, pannelli laterali 115 x 46 cm, Venezia, chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari, sagrestia

1505 - Sacra conversazione (Pala di San Zaccaria)

olio su tavola trasportato su tela, 500 x 235 cm,

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Venezia, chiesa di San ZaccariaNonostante il suo realismo e la sua naturalezza, la scena nasconde richiami simbolici alla maternità verginale di Maria (l'uovo di struzzo) e alla stirpe a cui appartiene Gesù (il volto di David sul coronamento del trono). I santi, come sempre nelle arti figurative, sono individuati da un simbolo: a sinistra Pietro con le chiavi e Caterina d'Alessandria con la palma del martirio e la ruota su cui subì il supplizio; a destra il Dottore della Chiesa Gerolamo con un libro, simbolo della sua dottrina, e Lucia con la palma e un piccolo recipiente che contiene i suoi occhi, strappati nel martirio.

L'invenzione di un genere: la Pala di San Giobbe

La perduta Pala di San Zanipolo (1474) di Bellini per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (o San Zanipolo in dialetto veneziano), di un anno precedente la Pala di San Cassiano di Antonello da Messina, ebbe il merito di inaugurare una nuova tipologia, in cui la Sacra conversazione ha un impianto verticale ed è ambientata all'interno di una chiesa illuminata da una luce dorata e realistica. Il primo esempio rimastoci di Bellini è la Pala di San Giobbe, posta in una cappella laterale dell'omonima chiesa francescana di Venezia, dipinta intorno al 1487 (ma per alcuni è da anticipare agli anni 1480-85).

La Vergine con il Bambino è rappresentata su un trono marmoreo sormontato dalla croce, mentre ai piedi siedono tre angeli musicanti. Ai lati vi sono, da sinistra, i santi Francesco, Giovanni Battista, il vecchio Giobbe e i santi Domenico, Sebastiano e Ludovico da Tolosa. La composizione è inserita all'interno di un presbiterio voltato a botte e terminante con un'abside decorata da marmi marezzati e mosaici dorati. La pala è inserita in una cornice originale (non visibile nella foto) che ha l'aspetto di un arco classicheggiante i cui pilastri presentano lo stesso disegno di quelli dipinti, posti in scala prospettica con essi, in modo da suggerire la continuità spaziale con la cappella, come era avvenuto nella Pala di Brera di Piero della Francesca, di pochi anni precedente. Ma mentre la luce e la prospettiva erano per Piero uno strumento per accentuare la razionalità e l'astrazione delle sue composizioni, in Bellini sono fuse in un'atmosfera dorata e intima, che coinvolge emotivamente il fedele. L'iscrizione latina nell'abside, che tradotta recita «Ave, immacolato fiore di pudore virginale», allude all'Immacolata concezione, allora non ancora dogma e oggetto di accese discussioni tra francescani e domenicani: per questo motivo per volere dei francescani, committenti dell'opera, san Domenico è polemicamente rappresentato nell'atto di studiare su un libro ciò che agli altri santi è stato invece miracolosamente rivelato dalla contemplazione.

L'unità di spazio e luce

Passaggio intermedio dell'evoluzione della pala d'altare attuata da Bellini è il Trittico dei Frari, eseguito nel 1488 su commissione dei fratelli Nicolò, Marco e Benedetto Pesaro per la cappella di famiglia nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia. La cornice, originale, e l'unitarietà compositiva nonostante la divisione in scomparti, sono chiaramente ispirate alla Pala di San Zeno di Mantegna e creano l'illusionistica visione dello spaccato di una navata di chiesa, i cui pilastri continuano nello scorcio fino all'abside, dove su un podio si trova la Madonna con il Bambino.

Negli scomparti-navate laterali si trovano i santi protettori dei committenti: Nicola e Pietro (nome del padre dei Pesaro) a sinistra e Benedetto e Marco (in secondo piano) a destra. Anche in questo caso la scritta che invoca l'intercessione della Vergine nel dorato catino absidale, gli angeli musicanti e il passo biblico del libro di Benedetto alludono alla concezione di Maria senza peccato. Ma a differenza di Mantegna l'unità spaziale è qui raggiunta, piuttosto che con la prospettiva, attraverso la luminosità diffusa e naturale, debito evidente verso Antonello, che riflettendosi nell'oro dei mosaici ricade morbidamente sulle figure, rendendo la visione intima e vicina al fedele.

Un modello per il nuovo secolo

Alla fine di questo percorso si colloca, ormai nel Cinquecento, la Pala di San Zaccaria, dipinta nel 1505 per l'altare di San Gerolamo nella chiesa di San Zaccaria a Venezia, ma ora conservata in un'altra cappella, dopo essere stata trafugata durante l'occupazione napoleonica. Quest’opera divenne il modello imprescindibile della pala d'altare per la nuova generazione di artisti veneziani, quali Lorenzo Lotto, Tiziano e Sebastiano del Piombo.

La Sacra conversazione è ambientata al di sotto di un loggiato quadrato voltato a crociera, terminante in un'abside con mosaici dorati a racemi e aperto ai lati sul paesaggio, così come aveva fatto Ercole de' Roberti nella Pala Portuense (vedi p. 156). L'asse della composizione corrisponde alla verticale creata dalla lampada che parte dall'uovo di struzzo e dal trono su cui siede la Madonna con il Bambino, ai cui piedi un angelo suona la viola. Ai lati vi sono i santi, disposti a semicerchio per aumentare la profondità spaziale. Lo spostamento dell'opera dalla sua posizione originale, il trasporto dal supporto ligneo alla tela e la mutilazione in alto e in basso hanno purtroppo compromesso l'innovativa unitarietà tra lo spazio illusorio e quello reale, poiché l'architettura dipinta continuava quella della cappella e le maggiori dimensioni del pavimento davano

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più profondità alla scena. La pala è caratterizzata da una maggiore monumentalità e spazialità rispetto alla Pala di San Giobbe, anche grazie a un più consapevole uso del repertorio classico e all'introduzione della luce naturale esterna.

GIORGIONE E LA RIVOLUZIONE DEL COLORE

Le peculiarità artistiche del Veneto

Il contesto storico e culturale di Venezia e quello di Firenze portarono alla formazione di due indirizzi artistici diversi: mentre l'arte fiorentina fu generalmente caratterizzata da un maggior rigore compositivo e iconografico, intellettualismo, precisa definizione delle forme - a causa dell'importanza data al disegno - e della prospettiva, quella veneziana, erede di Antonello da Messina e Giovanni Bellini (vivente fino al 1516), sviluppò uno stile più attento ai fenomeni naturali e all'armonia di luce e colore che alla linea e alla prospettiva, nonché una visione più pragmatica e ottimistica della vita, che esprimeva i valori della ricca classe dirigente di Venezia. A questa pittura contribuirono i soggiorni in città del pittore tedesco Albrecht Dùrer nel 1494-95 e nel 1505-07 e di Leonardo da Vinci nel 1500.

Un iniziatore della Maniera moderna

In questo contesto emerse la figura di un grande pittore (che fu anche musico e poeta), la cui breve vita e il ristretto numero di opere presentano tuttora molti punti oscuri: Zorzi da Castelfranco (dal paese di Castelfranco Veneto, dove nacque intorno al 1477), detto Giorgione.

Giorgione si formò nella metà degli anni novanta del Quattrocento, influenzato dall'uso della luce di Bellini, nel cui ambito completò il proprio apprendistato, e dal classicismo peruginesco, ma anche dall'armonia e dalla delicatezza degli emiliani Francesco Francia e Lorenzo Costa. Non fu pittore di grandi opere pubbliche, eppure la sua portata innovativa venne percepita già dalla committenza locale, raffinata e amante di un'arte colta e ricca di rimandi allegorici. Vasari lo collocò tra gli artisti iniziatori della Maniera moderna, subito dopo Leonardo, cogliendone i dati stilistici essenziali: «sfumò le sue pitture e dette una terribil movenzia [cioè un eccezionale senso di movimento] alle sue cose, per una certa oscurità di ombre ben intese [cioè per un chiaroscuro realistico]».

La pittura tonale

La vera rivoluzione pittorica di Giorgione riguarda infatti l'uso del colore e l'intonazione sentimentale e intima, già evidente in una delle sue prime opere, la Pala di Castelfranco D (1504), l'unica sua commissione devozionale pubblica nota, che rappresenta la Madonna in trono con il Bambino fra i santi Liberale e Francesco. Sono evidenti le novità rispetto a Bellini: il tradizionale impianto piramidale della Sacra conversazione è calato in un contesto aperto, che serve a dare profondità, come nelle Madonne belliniane, che erano però quadri di devozione privata. La Vergine siede su un alto trono posto su un basamento marmoreo semplice ma solenne, collocato al di qua di un muro coperto da un panno, che lo separa da un paesaggio con la veduta della cittadina d'origine del pittore. L'impostazione non segue le regole prospettiche (il punto di fuga del paesaggio è diverso da quello del pavimento) e insolita è la visione rialzata. Le figure sono modellate con morbidezza e trapassate dalla luce crepuscolare; i passaggi di ombra sì fondono con i colori, i cui toni sono fra loro armonizzati. È la cosiddetta "pittura tonale": i colori sono fusi tra loro, illuminati da una luce calda e avvolti da un'atmosfera morbida; scompaiono i contorni netti e i cromatismi violenti e discordanti in favore di una vibrante armonia generale. A ciò contribuì la conoscenza diretta di Leonardo, da cui Giorgione derivò l'interesse per la resa dei fenomeni naturali, anche se non basò la propria pittura sull'attento studio del reale attraverso il disegno, bensì avvicinò il paesaggio in modo spontaneo, intervenendo direttamente sulla tela, spesso senza schizzi preparatori.

Anche a livello tecnico Giorgione introdusse novità: nella tradizionale pittura a olio su tavola si procedeva per sovrapposizioni di velature sempre più scure che lasciavano trasparire in certi punti la sottostante preparazione a gesso, in modo da dare tocchi di luce; Giorgione, al contrario, per far risaltare le parti illuminate applica sul supporto di tela scura lasciata ruvida strati sempre più chiari di colore opaco. Le pennellate risultano evidenti e materiche e conferiscono ai dipinti un senso di schiettezza del tutto nuovo. Ciò non significa che le opere di Giorgione siano