arcivescovo di Durban «Nel mio Sudafrica serve una vera .... Avevano visto persone so ... Congo,...

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10 Quadrante L’ECO DI BERGAMO LUNEDÌ 5 MAGGIO 2014 Tunisia, le madri vogliono giustizia per i figli martiri della rivoluzione NOSTRO SERVIZIO TUNISI E’ da poco scoccato mezzo- giorno a Place Pasteur, nel centro di Tuni- si: il Comitato in sostegno dello sciopero della fame delle famiglie dei «martiri» e dei feriti della Rivoluzione tunisina co- mincia la sua marcia verso Avenue Bour- guiba. La data non è casuale: il 3 maggio è la giornata mondiale della libertà di stampa, un modo per fare un appello ai media tunisini (e non) sul problema della giustizia e fare sì che la società civile si unisca allo sdegno che ha accompagnato il cosiddetto «verdetto della vergogna e dell’impunità» del 12 aprile. Una data che rimarrà a lungo im- pressa nella memoria tunisina: quel giorno il tribunale militare ha sollevato dalle accuse gli imputati accusati della repressione duran- te i giorni dei moti rivoluzionari, che ha causato, secondo l’ultima commissione d’inchiesta, 338 morti e 2.147 feriti. In prima fila marciano le madri di questi «mar- tiri»: tra la mani reggono le foto dei propri figli. Da una decina di giorni sono in sciopero della fame: vo- gliono che si apra un nuovo pro- cesso e che questa volta sia il tribu- nale civile ad occuparsi del caso. «E’ nostro dovere di cittadini – dice Feryel Mbarki, del Comitato di sostegno – sostenere queste persone: se ora parliamo di libertà è anche grazie a loro». Dal corteo si levano diversi cori: «Abbiamo fame a causa delle vostre ingiusti- zie», «L’Assemblea Costituente ha tradito il sangue dei martiri», «Vergogna, potete uccidere re- stando impuniti». Il corteo si fer- ma davanti al teatro nazionale in Avenue Bourguiba. Poco più in là, in un appartamento in rue de Grèce, si trovano alcuni membri delle famiglie dei martiri e dei feri- ti della rivoluzione in sciopero della fame. Lì, in una piccola stan- za, sono sedute alcune donne. «Mi chiamo Fatma Ouerghi – racconta una -: mio figlio, martire, si chia- mava Ahmed Ouerghi, di 24 anni. Era il 17 gennaio: stava sorveglian- do il quartiere insieme ad altri gio- vani. Avevano visto persone so- spette ed avevano chiamato i mili- tari. Questi ultimi per allontanare la folla hanno sparato dei colpi ad altezza d’uomo: mio figlio è stato colpito alla testa a morte». Un do- lore che non riesce a trovare pace: Ahmed viveva da anni in Svezia e in quel periodo era in Tunisia per visitarla. «Siamo soli da quattro anni – prosegue Fatma -: è dal 2012 chesosteniamochenonavremmo mai ottenuto giustizia, ma nessu- no ci ha ascoltato. Solo dopo il ver- detto del 12 aprile anche i partiti si stanno svegliando dal torpore. Il tribunale ci ha proposto un ri- sarcimento in denaro, ma non lo vogliamo: chi ha ucciso i nostri figli deve scontare una giusta pena». Fatma mi fa da intermediaria con le altre madri. Tutte vogliono rac- contarmi cosa è successo ai propri figli, perché non siano dimentica- ti: Mohamed Nasser Talbi, 23 an- ni, emigrato in Italia e a Tunisi per Donne in piazza a Tunisi per chiedere giustizia per i figli FOTO FRANA visitare la madre, morto in salotto per un colpo d’arma da fuoco spa- rato da un cecchino; Rami Albed, 17 anni, di Kebeli, morto durante un presidio; Marwen Jemli, 19 an- ni, di Thala, ucciso durante una manifestazione; Chokri Sifi; Med Taher Merghani…l’elenco sarebbe ancora lungo, qualche madre si commuove e piange nel racconta- re la propria storia. «Lo scriva, mi raccomando – mi chiede -: non è cambiato niente dopo la rivolu- zione, è una grande menzogna quello che si dice della Tunisia, non è vero che è da prendere come esempio per gli altri Paesi arabi. Siamo stati traditi! C’è ancora in- giustizia, corruzione, i giornali raccontano solo quello che voglio- no, manca il lavoro, non c’è una vera democrazia e i partiti si pre- occupano solo di mantenere i pro- pri posti». «Non abbiamo più fidu- cia nel tribunale militare – spiega Charfeddine El Kellil, tra gli avvo- cati delle famiglie -: vogliamo che il dossier sia ritirato e riesaminato davanti alla giustizia civile e che venga impedito agli imputati di lasciare il territorio tunisino». In attesa di risposte concrete, la pro- testa andrà avanti. n Giada Frana Qual’è stato il ruolo della Chiesa in questi 20 anni? «Credo che da un punto di vista politico sia stato fondamentale soprattutto tra il 1990 e il 1994. Quando la Chiesa ha sostenuto Nelson Mandela e i movimenti di liberazione. E mi riferisco a tutte le chiese principali del Sud Africa - non solo cattolici, ma anche protestanti, anglicani, me- todisti, musulmani, induisti - che insieme hanno condiviso il supe- ramento dell’apartheid attraver- so il dialogo e la non violenza». E poi? «Poi, dopo le prime elezioni libe- re, quando tutto il popolo ha po- tuto votare, abbiamo fatto un passo indietro, anzi due. E’ com- pito dei cittadini contribuire allo sviluppo della democrazia nel proprio Paese. E ci sono stati buoni risultati come l’equipara- zione di stipendi e pensioni tra bianchi e neri e gli interventi nel sociale. Una questione questa da cui ovviamente la Chiesa non si ritirerà mai. Però ci sono ancora tanti limiti». Quali? «E’ mancata una vera e propria fase di riconciliazione tra la po- polazione bianca e quella nera. Non sono stati creati gli stru- menti per attuarla». Mercoledì il Sud Africa post Mandela, tornerà a votare, quali sono le spe- ranze della Chiesa? «Che siano in tanti a farlo. C’è da un lato il rischio di assenteismo perché in passato molte promes- se sono state fatte dal governo, ma poi non rispettate. E dall’altro il rischio che i cittadini continui- no a votare per i partiti che sono abituati a sostenere tradizional- mente e non valutino invece i programmi, l’impegno di chi opera per il bene comune. In ogni caso mi auguro che nessuno schieramento superi la maggio- ranza dei due terzi: potrebbe la- sciarsi tentare dalla possibilità di modificare la Costituzione per cercare di ridurre il potere degli organi che controllano il gover- no». Questo modello di democrazia è esportabile anche in altri Stati del continente africano? «È ancora incompiuta, certo, ma molti Paesi come Swaziland, Congo, Angola e Sudan stanno guardando con interesse alla no- stra esperienza». Di che priorità dovrà occuparsi il nuovo governo? «La povertà. Il Sudafrica è il Pae- se che presenta il coefficiente differenziale più alto tra ricchi e poveri. Prima del 1994 i ricchi erano bianchi e i neri poveri. Adesso in cima sono arrivati an- che parecchi neri. Ma il cancro L’intervista CARDINALE WILFRIDNAPIER arcivescovodiDurban «Nel mio Sudafrica serve una vera riconciliazione» U n processo di demo- cratizzazione lento e difficile sostenuto dal forte dialogo tra le re- ligioni. A raccontare cosa è cambiato nel Paese che 20 anni fa ha sconfitto l’apartheid, è il cardinale Wilfrid Napier, ar- civescovo di Durban e presidente della Conferenza episcopale di Botswana, Sudafrica e Swaziland che domani (ore 20.30 sede di Sant’Agostino in Città Alta) sarà ospite di un incontro promosso dall’Università di Bergamo in collaborazione con la onlus Do- mitilla Rota Hyams. A che punto è il processo di integra- zione? «Direi che è un problema risolto tra le nuove generazioni, soprat- tutto nelle scuole, tra i più picco- li. Sono loro che poi coinvolgono nel processo anche i genitori. E anche nel mondo del lavoro le cose sono cambiate, le persone di colore hanno ruoli di respon- sabilità e cresce tra loro il nume- ro di chi è impiegato negli uffici e non solo in lavori umili». E nelle istituzioni cosa succede? «Il percorso è molto più lento. Si tendono a privilegiare amicizie e interessi personali. In via di principio l’integrazione è consi- derato ormai un valore acquisito, la difficoltà sta nel vederla con- cretizzata ovunque». del nostro sistema è la corruzio- ne che non guarda al colore di nessuno. Con il governo di unità nazionale, fino alla fine degli an- ni ’90, i due schieramenti si con- trollavano a vicenda. Poi è esplo- sa». Quale sarà nei prossimi anni il ruolo della Chiesa cattolica in Sudafrica? «Credo che la forza della Chiesa sia stata e sarà nella sua capacità di ricercare un dialogo costante tra tutte le religioni. Adesso ci stiamo impegnando su progetti comuni contro la corruzione, a cominciare dall’educazione delle coscienze». Realtà di volontariato come la onlus Domitilla Rota Hyams, cosa rappre- sentano per il suo Paese? «Sono fondamentali. Grazie a loro si sono potuti sviluppare percorsi soprattutto per quanto riguarda la lotta all’Aids e l’edu- cazione scolastica. Dal sociale la Chiesa non si è mai ritirata, ma i progetti non sarebbero potuti andare avanti senza i volontari». Papa Francesco, che lei ha incontrato in questi giorni, è una speranza per l’Africa? «Il suo messaggio, che si concre- tizza anche nel modello di vita semplice e modesta, è un esem- pio per tutti. Anzi una sfida, che i vertici della Chiesa per primi dovrebbero cogliere». n Mariagrazia Mazzoleni ©RIPRODUZIONE RISERVATA L’incontro Domani sera all’Università «Non temete le differenze. Vent’an- ni fa cessava l’apartheid in Sudafri- ca». Il cardinale Wilfred Napier in- terverrà su questo tema domani alle 20,30 all’Università di Bergamo (se- de di Sant’Agostino), dialogando con il presidente del Cesvi Giangi Milesi. L’iniziativa è nata dalla colla- borazione tra l’Associazione Domi- tilla Rota Hyams onlus con lo stesso ateneo di Bergamo, in particolare il dipartimento di Scienze umane e sociali, e l’Istituto di Little Eden che ha sede in Sudafrica.

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10 Quadrante L’ECO DI BERGAMO

LUNEDÌ 5 MAGGIO 2014

Tunisia, le madri vogliono giustiziaper i figli martiri della rivoluzioneNOSTRO SERVIZIO

TUNISI

E’ da poco scoccato mezzo­

giorno a Place Pasteur, nel centro di Tuni­

si: il Comitato in sostegno dello sciopero

della fame delle famiglie dei «martiri»

e dei feriti della Rivoluzione tunisina co­

mincia la sua marcia verso Avenue Bour­

guiba. La data non è casuale: il 3 maggio

è la giornata mondiale della libertà di

stampa, un modo per fare un appello ai

media tunisini (e non) sul problema della

giustizia e fare sì che la società civile si

unisca allo sdegno che ha accompagnato

il cosiddetto «verdetto della vergogna

e dell’impunità» del 12 aprile.

Una data che rimarrà a lungo im­pressa nella memoria tunisina: quel giorno il tribunale militare hasollevato dalle accuse gli imputatiaccusati della repressione duran­te i giorni dei moti rivoluzionari,che ha causato, secondo l’ultimacommissione d’inchiesta, 338

morti e 2.147 feriti. In prima fila marciano le madri di questi «mar­tiri»: tra la mani reggono le foto deipropri figli. Da una decina di giornisono in sciopero della fame: vo­gliono che si apra un nuovo pro­cesso e che questa volta sia il tribu­nale civile ad occuparsi del caso. «E’ nostro dovere di cittadini – dice Feryel Mbarki, del Comitatodi sostegno – sostenere queste persone: se ora parliamo di libertàè anche grazie a loro». Dal corteosi levano diversi cori: «Abbiamo fame a causa delle vostre ingiusti­zie», «L’Assemblea Costituente hatradito il sangue dei martiri», «Vergogna, potete uccidere re­stando impuniti». Il corteo si fer­ma davanti al teatro nazionale inAvenue Bourguiba. Poco più in là,in un appartamento in rue de Grèce, si trovano alcuni membridelle famiglie dei martiri e dei feri­

ti della rivoluzione in sciopero della fame. Lì, in una piccola stan­za, sono sedute alcune donne. «Michiamo Fatma Ouerghi – raccontauna ­: mio figlio, martire, si chia­mava Ahmed Ouerghi, di 24 anni.Era il 17 gennaio: stava sorveglian­do il quartiere insieme ad altri gio­vani. Avevano visto persone so­spette ed avevano chiamato i mili­tari. Questi ultimi per allontanarela folla hanno sparato dei colpi adaltezza d’uomo: mio figlio è statocolpito alla testa a morte». Un do­lore che non riesce a trovare pace:Ahmed viveva da anni in Svezia ein quel periodo era in Tunisia pervisitarla. «Siamo soli da quattro anni – prosegue Fatma ­: è dal 2012che sosteniamo che non avremmomai ottenuto giustizia, ma nessu­no ci ha ascoltato. Solo dopo il ver­detto del 12 aprile anche i partitisi stanno svegliando dal torpore.Il tribunale ci ha proposto un ri­sarcimento in denaro, ma non lovogliamo: chi ha ucciso i nostri figlideve scontare una giusta pena». Fatma mi fa da intermediaria conle altre madri. Tutte vogliono rac­contarmi cosa è successo ai proprifigli, perché non siano dimentica­ti: Mohamed Nasser Talbi, 23 an­ni, emigrato in Italia e a Tunisi perDonne in piazza a Tunisi per chiedere giustizia per i figli FOTO FRANA

visitare la madre, morto in salottoper un colpo d’arma da fuoco spa­rato da un cecchino; Rami Albed,17 anni, di Kebeli, morto duranteun presidio; Marwen Jemli, 19 an­ni, di Thala, ucciso durante una manifestazione; Chokri Sifi; MedTaher Merghani…l’elenco sarebbeancora lungo, qualche madre si commuove e piange nel racconta­re la propria storia. «Lo scriva, miraccomando – mi chiede ­: non ècambiato niente dopo la rivolu­zione, è una grande menzogna quello che si dice della Tunisia, non è vero che è da prendere comeesempio per gli altri Paesi arabi. Siamo stati traditi! C’è ancora in­giustizia, corruzione, i giornali raccontano solo quello che voglio­no, manca il lavoro, non c’è una vera democrazia e i partiti si pre­occupano solo di mantenere i pro­pri posti». «Non abbiamo più fidu­cia nel tribunale militare – spiegaCharfeddine El Kellil, tra gli avvo­cati delle famiglie ­: vogliamo cheil dossier sia ritirato e riesaminatodavanti alla giustizia civile e che venga impedito agli imputati di lasciare il territorio tunisino». Inattesa di risposte concrete, la pro­testa andrà avanti.n Giada Frana

Qual’è stato il ruolo della Chiesa in

questi 20 anni?

«Credo che da un punto di vistapolitico sia stato fondamentalesoprattutto tra il 1990 e il 1994.Quando la Chiesa ha sostenutoNelson Mandela e i movimentidi liberazione. E mi riferisco atutte le chiese principali del SudAfrica ­ non solo cattolici, ma anche protestanti, anglicani, me­todisti, musulmani, induisti ­ cheinsieme hanno condiviso il supe­ramento dell’apartheid attraver­so il dialogo e la non violenza».

E poi?

«Poi, dopo le prime elezioni libe­re, quando tutto il popolo ha po­tuto votare, abbiamo fatto un passo indietro, anzi due. E’ com­pito dei cittadini contribuire allosviluppo della democrazia nel proprio Paese. E ci sono statibuoni risultati come l’equipara­zione di stipendi e pensioni trabianchi e neri e gli interventi nelsociale. Una questione questa dacui ovviamente la Chiesa non siritirerà mai. Però ci sono ancoratanti limiti».

Quali?

«E’ mancata una vera e propriafase di riconciliazione tra la po­polazione bianca e quella nera.Non sono stati creati gli stru­menti per attuarla».

Mercoledì il Sud Africa post Mandela,

tornerà a votare, quali sono le spe­

ranze della Chiesa?

«Che siano in tanti a farlo. C’è daun lato il rischio di assenteismoperché in passato molte promes­se sono state fatte dal governo, ma poi non rispettate. E dall’altroil rischio che i cittadini continui­no a votare per i partiti che sonoabituati a sostenere tradizional­mente e non valutino invece iprogrammi, l’impegno di chi opera per il bene comune. In ognicaso mi auguro che nessunoschieramento superi la maggio­ranza dei due terzi: potrebbe la­sciarsi tentare dalla possibilità dimodificare la Costituzione per cercare di ridurre il potere degliorgani che controllano il gover­no».

Questo modello di democrazia è

esportabile anche in altri Stati del

continente africano?

«È ancora incompiuta, certo, mamolti Paesi come Swaziland, Congo, Angola e Sudan stanno guardando con interesse alla no­stra esperienza».

Di che priorità dovrà occuparsi il

nuovo governo?

«La povertà. Il Sudafrica è il Pae­se che presenta il coefficiente differenziale più alto tra ricchi epoveri. Prima del 1994 i ricchi erano bianchi e i neri poveri. Adesso in cima sono arrivati an­che parecchi neri. Ma il cancro

L’intervista

CARDINALE WILFRID NAPIERarcivescovo di Durban

«Nel mio Sudafricaserve una verariconciliazione»

Un processo di demo­cratizzazione lento edifficile sostenuto dalforte dialogo tra le re­ligioni. A raccontare

cosa è cambiato nel Paese che 20anni fa ha sconfitto l’apartheid,è il cardinale Wilfrid Napier, ar­civescovo di Durban e presidentedella Conferenza episcopale di Botswana, Sudafrica e Swazilandche domani (ore 20.30 sede diSant’Agostino in Città Alta) saràospite di un incontro promossodall’Università di Bergamo in collaborazione con la onlus Do­mitilla Rota Hyams.

A che punto è il processo di integra­

zione?

«Direi che è un problema risoltotra le nuove generazioni, soprat­tutto nelle scuole, tra i più picco­li. Sono loro che poi coinvolgononel processo anche i genitori. Eanche nel mondo del lavoro le cose sono cambiate, le personedi colore hanno ruoli di respon­sabilità e cresce tra loro il nume­ro di chi è impiegato negli ufficie non solo in lavori umili».

E nelle istituzioni cosa succede?

«Il percorso è molto più lento. Sitendono a privilegiare amiciziee interessi personali. In via di principio l’integrazione è consi­derato ormai un valore acquisito,la difficoltà sta nel vederla con­cretizzata ovunque».

del nostro sistema è la corruzio­ne che non guarda al colore dinessuno. Con il governo di unitànazionale, fino alla fine degli an­ni ’90, i due schieramenti si con­trollavano a vicenda. Poi è esplo­sa».

Quale sarà nei prossimi anni il ruolo

della Chiesa cattolica in Sudafrica?

«Credo che la forza della Chiesasia stata e sarà nella sua capacitàdi ricercare un dialogo costantetra tutte le religioni. Adesso ci stiamo impegnando su progetticomuni contro la corruzione, acominciare dall’educazione dellecoscienze».

Realtà di volontariato come la onlus

Domitilla Rota Hyams, cosa rappre­

sentano per il suo Paese?

«Sono fondamentali. Grazie a loro si sono potuti sviluppare percorsi soprattutto per quantoriguarda la lotta all’Aids e l’edu­cazione scolastica. Dal sociale laChiesa non si è mai ritirata, mai progetti non sarebbero potutiandare avanti senza i volontari».

Papa Francesco, che lei ha incontrato

in questi giorni, è una speranza per

l’Africa?

«Il suo messaggio, che si concre­tizza anche nel modello di vitasemplice e modesta, è un esem­pio per tutti. Anzi una sfida, chei vertici della Chiesa per primidovrebbero cogliere». n Mariagrazia Mazzoleni

©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’incontro

Domani seraall’Università

«Non temete le differenze. Vent’an­

ni fa cessava l’apartheid in Sudafri­

ca». Il cardinale Wilfred Napier in­

terverrà su questo tema domani alle

20,30 all’Università di Bergamo (se­

de di Sant’Agostino), dialogando

con il presidente del Cesvi Giangi

Milesi. L’iniziativa è nata dalla colla­

borazione tra l’Associazione Domi­

tilla Rota Hyams onlus con lo stesso

ateneo di Bergamo, in particolare

il dipartimento di Scienze umane e

sociali, e l’Istituto di Little Eden che

ha sede in Sudafrica.