ARCIDIOCESI DI AGRIGENTO PROGETTO FORMATIVO · “Post-modernità” e “tramonto...

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ARCIDIOCESI DI AGRIGENTO Trasformare la crisi in attesa AVVENTO E NATALE 2014-2015 PROGETTO FORMATIVO UNITARIO

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ARCIDIOCESI DI

AGR IGENTO

Trasformare

la crisi in attesaAVVENTO E

NATALE

2014-2015

PROGETTOFORMATIVO

UNITARIO

In copertina: R. POLITI, Guarigione del cieco (particolare), olio su tela, sec. XIX Siculiana (AG), Santuario del SS. Crocifisso

Fotocomposizione: CURIA ARCIVESCOVILE DI AGRIGENTO - Dipartimento Pastorale

SOMMARIO Premessa 3 ...............................................................................

SEZIONE PRIMA Proposta formativa 5 ................................................................

Traccia per la formazione 6 ......................................................Laboratorio: «Verificare l’appartenenza» 17 .............................Suggerimenti bibliografici 19 ....................................................

SEZIONE SECONDA Spunti per la predicazione domenicale e festiva 21 .................

Introduzione alla Liturgia del Tempo di Avvento 22 ..................I domenica di Avvento (30 novembre) 23 .................................II domenica di Avvento (7 dicembre) 24 ...................................Immacolata Concezione della B.V.M. (8 dicembre) 25 .............III domenica di Avvento (14 dicembre) 26 ................................IV domenica di Avvento (21 dicembre) 27 ................................Introduzione alla Liturgia del Tempo di Natale 28 ....................Natale del Signore (25 dicembre) 29 ........................................S. Famiglia (28 dicembre) 30 ....................................................Maria SS. Madre di Dio (1 gennaio) 31 .....................................II domenica di Natale (4 gennaio) 32 .......................................Epifania (6 gennaio) 33 .............................................................Battesimo del Signore (11 gennaio) 34 .....................................

SEZIONE TERZA Schemi di Lectio Divina 35 ......................................................

Ripensare il rapporto con Dio in termini sponsali 36 ................La strada come luogo dell’evangelizzazione 40 ........................Abitare le periferie dell’esistenza 43 .........................................

SEZIONE QUARTA Strumenti liturgico-pastorali 47 ...............................................

Veglia di Avvento 48 ................................................................Novena del S. Natale 49 ..........................................................Veglia del S. Natale 51.............................................................

PROGETTO FORMATIVO UNITARIO

a cura del Dipartimento Pastorale

Anno 2014-2015 MODULO 1

Avvento/Natale

Il Progetto Formativo Unitario costituisce il fulcro del PPD 2014-2016 in quanto, come «scuola di vita evangelica per aiutare le comunità ad assumere la forma di Cristo», intende accompagnare i passi della Chiesa Agrigentina in un gioioso percorso di risveglio della fede e di annuncio del Vangelo (cf. PPD, p. 25).

Il primo Modulo – “Trasformare la crisi in attesa” – del Progetto, che scandisce il cammino dei tempi forti dell’Avvento e del Natale 2014-2015, si propone di ricostruire il contesto socio-culturale dell’età post-moderna nel quale viviamo, al fine di decifrare la domanda di senso dell’uomo contemporaneo e riconoscere i limiti e le sfide dell’azione pastorale di fronte a tale domanda.

Questo Sussidio, frutto di un attento lavoro del Dipartimento Pastorale della Curia, offre del materiale che le comunità – a livello parrocchiale, interparrocchiale e/o cittadino – possono utilizzare per il primo Modulo del Progetto, adattandolo secondo le necessità e le consuetudini locali. È pensato come strumento a uso degli Operatori Pastorali e dei Gruppi ecclesiali e, nello stesso tempo, come testo da mettere a disposizione di chiunque voglia, anche a titolo personale, compiere un percorso di maturazione della scelta di fede e di approfondimento della vita spirituale.

Il Sussidio si articola in quattro sezioni.

La prima sezione contiene una Proposta formativa, con la traccia per la formazione, la proposta di un laboratorio e dei suggerimenti bibliografici. La traccia può essere utilizzata, oltre che per la lettura personale, per uno o più incontri formativi; il laboratorio per un momento di confronto in gruppo; i suggerimenti bibliografici per approfondire i temi proposti con delle letture scelte.

La seconda sezione presenta degli Spunti per la predicazione domenicale e festiva. Non si tratta di omelie preconfezionate, ma di semplici indicazioni per leggere la Parola di Dio della Celebrazione Eucaristica domenicale e festiva alla luce delle tematiche affrontate nella proposta formativa. Questi spunti sono indirizzati in primo luogo ai sacerdoti, come ausilio alla preparazione dell’omelia, ma sono rivolti a tutti come lettura spirituale per predisporre o approfondire l’ascolto della Parola.

Nella terza sezione sono proposti tre Schemi di Lectio Divina per estendere i temi della traccia formativa alla vita spirituale. Si possono utilizzare per dei momenti comunitari di lettura orante della Parola di Dio, da proporre soprattutto durante l’Avvento, ma anche per la meditazione personale.

Nella quarta sezione, infine, si trovano i rimandi ad alcuni Strumenti liturgico-pastorali, che saranno pubblicati nel sito web dell’Arcidiocesi in formato digitale, facilmente editabile, per la preparazione di momenti di celebrazione e di annuncio.

A quanti vorranno approfittare di questo Sussidio va l’augurio di poterne trarre tutti i frutti che lo Spirito si compiacerà di elargire.

don Giuseppe Agrò Vicario episcopale per la Pastorale

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Sezione Prima

PROPOSTA FORMATIVA

La domanda di senso dell’uomo nell’attuale contesto socio-culturale e i limiti e le sfide dell’azione pastorale di fronte a tale domanda (a cura di don Giuseppe Agrò)

Premessa • l’esigenza di conoscere il contesto socio-culturale nel quale viviamo • l’urgenza di questa conoscenza secondo il magistero ecclesiale

“Post-modernità” e “tramonto dell’Occidente”: definizione di un’epoca e profezia di un destino • origine e significato dell’espressione post-modernità • definizione della post-modernità in riferimento all’età moderna • origine e significato dell’espressione tramonto dell’Occidente • profezia del destino dell’Occidente e impegno dei cristiani

Profilo dell’attuale “società complessa” in riferimento all’epoca moderna e al Novecento • eredità del Novecento al XXI secolo • trasformazioni culturali e perdita del centro • passaggio dalla società semplice alla società complessa • frammentazione del senso e appartenenze parziali • crisi della Cristianità nella società dell’indifferenza • effetti della secolarizzazione e della laicizzazione della società • riemergere del sacro e limiti dell’azione ecclesiale

Rischi e sfide della “società complessa” a una Chiesa periferica e minoritaria • leggere le tensioni ecclesiali in riferimento alle dinamiche sociali • scrutare i segni dei tempi e diventare capaci di profezia • suscitare e formulare la domanda di senso • vivere la crisi come situazione provvidenziale • purificare la coscienza e rinnovare le strutture • ripensare la percezione e la configurazione della parrocchia • recuperare le dimensioni della strada e della casa • rimotivare le unità pastorali e la lettura del territorio • puntare decisamente sull’apostolato dei laici

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Premessa Per progettare, proporre e accompagnare una «nuova tappa evangelizzatrice che

[…] favorisca l’incontro con Cristo, susciti la conversione e predisponga l’inserimento sempre più pieno nella comunità ecclesiale» (obiettivo generale del PPD 2014-2016) è necessario partire da una ricostruzione delle tensioni che caratterizzano e definiscono il contesto sociale e culturale nel quale viviamo. Al di fuori di questa comprensione, infatti, la pastorale ecclesiale rischia di parlare un linguaggio diverso da quello delle persone a cui si rivolge, di non rispondere o non rispondere adeguatamente alle loro esigenze e di proporre itinerari di fede distanti dai loro percorsi di vita. E a questo rischio – legato ai suoi destinatari – si aggiunge quello – che la riguarda più da vicino – di scoraggiarsi di fronte alle difficoltà che questo tempo presenta e di non cogliere le grandi opportunità che esso offre.

Già il Concilio Vaticano II, in particolare con la Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha invitato le comunità cristiane a ripensare il proprio servizio all’uomo e alla società a partire da un attento esame della situazione attuale. Anche gli orientamenti pastorali successivi al Concilio riprendono questa esigenza, insistendo sulla necessità di conoscere più a fondo le dinamiche della vita personale e sociale degli uomini del nostro tempo per tentare risposte che ne tengano conto e siano, pertanto, significative, utili ed efficaci. Ponendosi sulla stessa linea, nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, il Santo Padre Francesco invita tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi». Il Papa, con un atteggiamento dichiaratamente pastorale, coglie «alcune sfide del mondo attuale» (nn. 52-75), alla luce delle quali individua le possibili «tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109).

La traccia formativa di questo primo modulo intende ricostruire nelle linee generali le tensioni dell’epoca attuale, denominata “post-moderna”, al fine di coglierne gli elementi critici e i punti di forza, in base ai quali rivedere e reimpostare l’azione pastorale della Chiesa. Accogliendo le indicazioni del Santo Padre, questa ricostruzione si pone nella «linea di un discernimento evangelico», cercando di evitare il rischio di un «eccesso diagnostico» e di uno «sguardo puramente sociologico» (n. 50), per individuare le dinamiche della «svolta storica» e del «cambiamento epocale» in atto nella società contemporanea (n. 52).

Effettivamente le comunità cristiane vivono, ormai da diversi decenni, una gravissima crisi di coscienza e di azione, che si inserisce in una più grave e diffusa crisi di identità e di vita dell’uomo nella stagione della Post-modernità. Cogliere queste dinamiche e queste relazioni aiuterà le nostre comunità ad avere una più chiara percezione dell’attuale situazione della Società e della Chiesa, a riscoprire la dimensione profetica del popolo Dio e a imboccare con coraggio e determinazione nuove vie di annuncio e di testimonianza del Vangelo.

Partendo da alcune considerazioni sulle espressioni Post-modernità (che definisce l’epoca che stiamo vivendo) e tramonto dell’Occidente (che ne descrive lo stato e le

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prospettive), si tenta di descrivere l’attuale società complessa post-cristiana e neo-religiosa, per individuarvi i rischi e le sfide che essa pone alla Chiesa: in generale alla sua presenza nel territorio, in particolare alla sua azione pastorale e nella fattispecie alla nuova evangelizzazione che dovrà impegnarla nel suo prossimo futuro.

“Post-modernità” e “tramonto dell’Occidente”: definizione di un’epoca e profezia di un destino

Ormai da diversi decenni è in atto una svolta epocale, ossia un cambiamento generale di grandissima portata che riguarda sia il pensiero sia la vita dell’uomo e della società dell’Occidente. A partire dagli anni Settanta, la consapevolezza di questo cambiamento viene rappresentata con l’espressione “Post-modernità” . 1

In generale, il concetto di modernità fa riferimento al momento attuale, connotandolo positivamente rispetto a quello precedente, in quanto lo supera e in qualche modo lo compie . Con questa connotazione decisamente positiva, 2

modernità definisce l’epoca cominciata nel XV-XVI secolo e per molti aspetti ritenuta conclusa nel XX . L’età moderna, di fatto, si è caratterizzata per un radicale 3

ottimismo, fondato su un’incondizionata fiducia nelle capacità conoscitive dell’uomo, con il conseguente rifiuto di qualsiasi principio soprannaturale per spiegare la realtà e di qualsiasi forma di autorità come criterio di verità.

Nell’espressione post-modernità il prefisso -post – che in generale significa dopo – lascia intendere che questa situazione in qualche modo è cambiata. L’età post-moderna, infatti, si caratterizza in generale per il venire meno di quella fiducia e l’emergere di un diffuso senso di precarietà e incertezza, a cui i tradizionali punti di riferimento, ormai in larga parte screditati, non riescono più a dare risposte adeguate.

Ma post-modernità non significa semplicemente che l’epoca contemporanea è successiva a quella moderna, in senso puramente cronologico. L’espressione denota piuttosto l’imbarazzo a dover definire una nuova stagione dell’Occidente, ormai priva di quel senso di certezza e sicurezza che aveva fortemente caratterizzato la

L’espressione è nata nel contesto della critica artistica e letteraria americana e successivamente è stata 1

usata dai filosofi e dai sociologi per descrivere il pensiero e i fenomeni sociali dell’uomo contemporaneo nel mondo occidentale.

Etimologicamente moderno risulta dall’unione dell’avverbio latino modo, che indica il presente (adesso), 2

o del sostantivo modus, che significa limite e giusta misura (come nell’espressione latina est modus in rebus – c’è una misura nelle cose, con la quale il poeta romano Orazio indicava il giusto equilibrio come esercizio di saggezza), e della desinenza -ernus, che esprime l’appartenenza. Moderno, anche nel linguaggio corrente, indica pertanto qualcosa che appartiene al presente e che è ritenuto giusto, compiuto, o comunque migliore di ciò che apparteneva al passato.

A sancirne la nascita con l’Umanesimo-Rinascimento, in rottura con l’età medievale, era stato l’avvento 3

della scienza moderna, che aveva determinato in generale un modo nuovo di rapportarsi alla realtà. A decretarne la fine ha contribuito tutta una serie di complessi fenomeni culturali e sociali, che hanno trovato nelle due guerre mondiali l’espressione più drammatica e significativa.

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modernità e – proprio per questo – ancora del tutto indecifrabile, piena di incognite e incerta nelle prospettive.

Questo cambiamento epocale trova un’ulteriore rappresentazione nell’espressione “tramonto dell’Occidente” . Nella forza evocativa della metafora del tramonto è 4

contenuta la percezione di un tempo conclusivo, prevedibile e inevitabile, così come il tramonto del sole segna il naturale compiersi del giorno. Tuttavia, come il tramonto del sole e l’arrivo della sera è preludio e condizione di un nuovo giorno, così il tramonto dell’Occidente costituisce il termine a cui l’Europa doveva necessariamente arrivare per rendersi conto di tutte le possibilità che ha a disposizione e di tutte le conseguenze a cui va incontro.

Prendere consapevolezza del tramonto dell’Occidente, da una parte, significa assumere un dato di fatto, che definisce drammaticamente un’epoca e di cui non possiamo non tener conto, perché ci riguarda direttamente; dall’altra, costituisce una sfida e diventa profezia di un destino, che noi cristiani siamo chiamati ad assumere personalmente e comunitariamente – con tutto ciò che la profezia rappresenta nella coscienza del popolo di Dio – e a cui ancora possiamo e dobbiamo imprimere una nuova rotta, alimentata di Vangelo e permeata di salvezza.

Questa, del resto, è la vocazione dell’Occidente dalle indiscusse radici cristiane; vocazione peraltro misticamente contenuta nello stesso nome che identifica questo preciso spazio geografico e, ancor di più, il popolo che lo abita. Occidente, infatti, identifica il luogo dove tramonta il sole . E questa identificazione può e deve 5

assumere adesso tutta la valenza simbolica di cui – forse inconsapevolmente – è portatrice, perché – ancora una volta e forse ora più che mai – l’Occidente assuma su di sé il destino dell’umanità e, imparando dalle sue crisi, le apra nuovi orizzonti di senso e nuove prospettive di speranza.

Profilo dell’attuale “società complessa”

1. Eredità del Novecento e nuove trasformazioni sociali Per delineare il profilo personale e sociale dell’uomo che vive nella post-

modernità e si lascia provocare dalle sfide del tramonto dell’Occidente occorre ripartire dall’eredità lasciata al XXI secolo da quello che l’ha preceduto.

L’espressione risale al filosofo tedesco Oswald Spengler, che la utilizzò all’indomani della prima guerra 4

mondiale per dire che l’Europa si trova ormai in una fase terminale di decadenza. Secondo Spengler, all’Europa resta un’ultima remota possibilità di salvezza, a condizione di purificarsi dal suo esasperato materialismo e dal cosiddetto “caos urbano” e ripristinare i valori che avevano contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo.

Dal latino occidere, che significa cadere.5

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Il Novecento è stato il secolo in cui la modernità ha raggiunto il suo apice e ha conosciuto la sua fine: si è aperto con un’affermazione indiscussa della scienza e della tecnica e ha incontrato ben presto lo scempio delle due “grandi” guerre; ha continuato il suo corso con uno sviluppo vertiginoso della tecnologia e ha dovuto fare i conti con gli orrori delle ideologie totalitariste; ha aperto vie impensabili di comunicazione e ha subìto la minaccia di forme esasperate di terrorismo; ha costruito mezzi imprevedibili di trasporto e ha registrato gli inevitabili scacchi della natura; ha sconfitto la fame e ha inventato nuove povertà; ha costruito ricchezza ed è rimasto vittima di un consumismo sfrenato; ha moltiplicato le strutture economiche e ha tradito la giustizia sociale; ha promosso i diritti dell’uomo e della donna e ha imparato a manipolarli e strumentalizzarli; si è impadronito dell’etica e ha svenduto la coscienza; ha rifiutato la fede e si è svuotato di senso. E questo solo per richiamare – in forma volutamente provocatoria – le contraddizioni più stridenti del suo sviluppo e i segni più evidenti delle sue crisi.

All’insieme di queste contraddizioni e di queste crisi si uniscono le trasformazioni sociali in senso multietnico, multiculturale e multireligioso, dovute alla mobilità umana e ai processi della produzione e del mercato globali, nonché alla diffusione dei nuovi mezzi di trasporto e dei nuovi sistemi di comunicazione. Oggi gli uomini si spostano più facilmente e frequentemente rispetto al passato, sia per ragioni di studio e di lavoro sia per motivi di interesse e di svago, e hanno un accesso più diretto e immediato all’informazione. Gli spostamenti reali attraverso le vie tradizionali, insieme ai viaggi virtuali resi possibili da internet, favoriscono – oggi più che mai – l’incontro di mondi diversi. E questo, se da un lato arricchisce, dall’altro rischia di creare confusione e smarrimento.

Di fatto l’intreccio di tutte queste forze ha portato progressivamente a un fenomeno di disorientamento della coscienza, che gli studiosi del pensiero e dei fenomeni sociali chiamano perdita del centro e che ha come conseguenza diretta l’evoluzione della società da semplice a complessa.

2. Dalla complessità all’indifferenza Una società è semplice se i vari gruppi sociali riescono a ritrovarsi attorno a un

centro unico di riferimento, capace di farli incontrare e convivere pacificamente. Questo, in fondo, a livello istituzionale, aveva cercato di fare lo Stato moderno, che è uno dei frutti più compiuti delle conquiste sociali europee dell’epoca precedente. E questo, analogamente, nell’ambito della coscienza individuale e collettiva, aveva fatto la Cristianità nella cultura occidentale dei secoli precedenti, pur fra alti e bassi e con le dovute eccezioni.

Al contrario, una società diventa complessa se viene meno il centro unificatore e i diversi sistemi di vita e di pensiero non riescono più – probabilmente perché neppure lo vogliono – a convergere e incontrarsi. La perdita del centro consiste proprio in questa crisi di un’identità comune, con la conseguente necessità di limitarsi a

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constatare la molteplicità di centri diversi e di gestirla – laddove è possibile, opportuno e conveniente – il più delle volte per via di compromessi.

La perdita del centro, a sua volta, sfocia in un ulteriore fenomeno di disorientamento, ancora più sottile e pericoloso, denominato frammentazione del senso. Per senso si intende l’orizzonte di comprensione e il quadro di riferimento all’interno del quale ogni singolo elemento trova la sua collocazione e il suo significato . Un senso unitario, ossia un orizzonte di comprensione condiviso e un 6

unico quadro di riferimento, consente di dare un significato preciso e determinato alle cose, nel quale ci si ritrova pacificamente. Un senso frammentato, al contrario, produce diverse interpretazioni di una stessa cosa e genera opinioni e posizioni contrastanti. Questo diventa tanto più pericoloso quanto più riguarda la ricerca della verità (sul piano della conoscenza) e la determinazione dei valori (sul piano etico), con evidenti conseguenze sulla professione della fede e sulle scelte della morale.

La frammentazione del senso, in tal modo, ripropone ed esaspera l’antica tentazione del relativismo, ossia la convinzione che non esiste una verità unica e assoluta, valida per tutti, e che tutte le opinioni – e, conseguentemente, tutte le decisioni – sono plausibili e meritano lo stesso rispetto.

Questa nuova espressione del relativismo, soprattutto in riferimento alle grandi questioni, costituisce il presupposto delle cosiddette appartenenze parziali. Se l’appartenenza, in quanto tale, indica la relazione vitale di un individuo a un gruppo e, dunque, la consapevolezza di fare parte di un tutto, l’appartenenza parziale si ferma alla parte e non considera la prospettiva del tutto, oppure considera impropriamente la parte come un tutto autonomo e indipendente. Con l’illusione di appartenere a qualcosa, di fatto si rischia di non appartenere più a niente. E questo rischio, a volte, riguarda anche la fede. Tra un’adesione incondizionata e un rifiuto totale, si pone tutta una serie di posizioni – appartenenze parziali, appunto – su ciò che bisogna credere (fede) e fare (morale) per ritenersi cristiani.

La società complessa della post-modernità, che reagisce alle illusioni dell’età moderna e alle contraddizioni del Novecento, si profila pertanto come una società dell’indifferenza, in cui tutte le proposte si collocano sullo stesso piano e in cui non si riesce più – o addirittura non c’è più alcun interesse – ad assumere una posizione netta per l’una o per l’altra. La prassi e la morale, di conseguenza, diventano sempre

Per capire questa definizione può essere utile un esempio pratico. La lettera “P”, in generale, è una 6

lettera dell’alfabeto che riproduce un determinato suono e, unendosi ad altre lettere che riproducono altri suoni, consente di formare delle parole. Riportata in una tabella nei pressi di un luogo adibito alla sosta di veicoli, significa che quello è un parcheggio. Scritta su un foglio applicato su un’automobile, indica che l’automobile è guidata da un principiante. Nella tavola degli elementi chimici è il simbolo del fosforo. In sigle convenzionali specifiche rappresenta determinate realtà di riferimento, come nel comunissimo CAP, che riportiamo in un indirizzo per facilitare l’individuazione di un luogo, significa postale rispetto al codice di avviamento. Come l’alfabeto, il luogo adibito alla sosta dei veicoli, l’automobile, la tavola degli elementi e la sigla convenzionale degli esempi riportati costituiscono la condizione per attribuire un significato diverso e specifico alla stessa lettera “P”, così il senso costituisce il contesto che permette di attribuire a qualsiasi cosa il suo significato e senza il quale questa attribuzione non sarebbe possibile.

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più autonome rispetto a qualsiasi autorità e relegate nell’ambito naturale, senza riferimenti alla sfera del divino o, al limite, legate a un vago senso del sacro, filtrato attraverso l’emotività dell’individuo e sganciato dalla ragione e dalla rivelazione.

Alla luce di queste dinamiche, la stessa Cristianità – ossia la forma storica che il Cristianesimo ha assunto in Occidente nei primi due millenni della sua era, con le sue strutture e le sue istituzioni, nonché il movimento culturale e sociale che essa ha innescato e guidato – si ritrova profondamente in crisi e c’è addirittura chi sostiene che sia giunta al tramonto. Ma anche qui, come in generale per l’Occidente, il tramonto può ancora diventare preludio e condizione di un nuovo risveglio.

Di fatto è innegabile una diminuzione quantitativa del numero dei cristiani, così come è evidente il calo qualitativo della vita di chi si ritiene tale. Ciò risente, certamente, del generale processo di scristianizzazione che interessa l’Occidente e che si manifesta in particolare nella secolarizzazione e nella laicizzazione: la prima esalta la dimensione naturale e le realtà terrene, contrapponendole all’esigenza religiosa e ai simboli della fede; la seconda allontana sempre più le istituzioni e le coscienze dagli schemi tradizionali della cultura cristiana, rifiutandone il magistero e screditandone la testimonianza.

A questo si aggiungono altri due fattori non meno pericolosi, da non sottovalutare. In primo luogo, si registra un diffuso ritorno al sacro, inteso tuttavia in una visione accomodante che unisce elementi del cristianesimo ad altre proposte religiose, generando confusione anche tra gli stessi battezzati praticanti. Dall’altra, le comunità cristiane si ritrovano impreparate a gestire la crisi, non perché prive di competenze, strumenti o forze, ma perché spesso ancora preoccupate più di una nostalgica autopreservazione che di una più audace uscita missionaria.

Da qui l’esigenza, ormai improrogabile, di lasciarsi provocare dalle sollecitazioni provenienti dal mondo che è cambiato e continua vertiginosamente a cambiare, superando la paura – e anzi accettando la sfida – di non essere più in una posizione centrale e di maggioranza, bensì marginale e minoritaria.

Rischi e sfide della “società complessa” a una Chiesa periferica e minoritaria

1. Dinamiche sociali e tensioni ecclesiali Non di rado – anzi, frequentemente – le nostre comunità entrano in crisi perché

non riescono a leggere le loro tensioni interne alla luce delle dinamiche che caratterizzano il nostro tempo o perché si limitano a constatarne le criticità senza riuscire a cogliere le grandi opportunità che queste offrono al ripensamento dell’identità e dell’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo.

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Spesso ci sentiamo frustrati perché la nostra azione pastorale non riesce più ad avere la presa e gli effetti che aveva in un passato ancora non molto lontano; o perché ciò che annunciamo e insegniamo non interessa più i destinatari delle nostre prediche e delle nostre catechesi e non troviamo più i modi idonei e i contenuti appropriati per coinvolgerli; o perché le nostre chiese si svuotano e non siamo più capaci di riempirle; o perché le nostre comunità e il nostro presbiterio mancano di coesione e di entusiasmo e non riusciamo più a ricaricarli di motivazioni e stimoli efficaci. Forse dovremmo imparare a considerare questi fenomeni come la traduzione dello smarrimento dell’uomo e della società contemporanei nei nostri contesti specifici, per non perderci d’animo e soprattutto per assumere, a partire dalla nostra esperienza personale e comunitaria, tutto ciò che è proprio degli uomini del nostro tempo e aiutare loro e noi a “trasformare la crisi in attesa”.

Entrare consapevolmente nella prospettiva di essere Chiesa periferica e minoritaria in una società complessa – che ha perso il suo centro, frammentato il suo senso, indebolito le sue strutture, screditato i suoi punti di riferimento, smarrito la sua identità e chiuso i suoi orizzonti – significa recuperare la capacità profetica di leggere da vicino i segni dei tempi e aprire strade inattese nel deserto della storia. Il ruolo marginale della Chiesa nell’attuale contesto socio-culturale, infatti, può strappare la comunità cristiana alla logica del mondo e riconsegnarla alla purezza delle origini e alla volontà di Cristo di farne un “seme del Regno”. Con questa precisa chiave di lettura si tratta, adesso, di individuare i rischi e cogliere le sfide di questo tempo, al fine di intraprendere una nuova evangelizzazione che sia “nuova” non perché deve innescare un movimento di ritorno a una cristianità non ancora conosciuta o semplicemente abbandonata, ma perché deve crearne uno capace di ricostruire un’identità perduta o, almeno, sensibilmente compromessa.

Nuova evangelizzazione, in tale contesto, deve dunque significare disponibilità a tornare nel territorio per incontrare gli uomini che lo abitano e capacità di decifrare insieme a loro la domanda di senso, già latente nel loro e nel nostro cuore, per tentare una risposta di fede profondamente significativa e realmente efficace. Dobbiamo riconoscere, infatti, che spesso tentiamo di dare risposte a domande che non sono mai state poste o adeguatamente formulate, così come, per di più, talora ci accontentiamo di fornire piccole risposte a piccole domande, eludendo quelle più grandi e impegnative legate alla nascita e alla morte, al senso della vita umana e al destino dell’esistenza terrena, al male e alla sofferenza che ci sono nel mondo, e così via.

La presunta coincidenza della società civile con la cultura cristiana – quella per cui nel nostro dialetto cristiano significa persona – che, in forme più o meno esplicite, ha caratterizzato l’Occidente da quando il Cristianesimo è diventato religione di Stato, ci ha assuefatto a questa tentazione. Ed è per questo, forse, che a volte abbiamo catechizzato e “sacramentalizzato” le masse senza evangelizzare le persone, presentando i contenuti della fede e offrendo i canali della grazia a un mondo che abbiamo ritenuto cristiano ma che talora non ha ancora incontrato realmente Cristo e il Vangelo nella realtà e nella concretezza della sua esistenza.

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2. “Fine della Cristianità” e rinascita della Chiesa La “fine della Cristianità” – nel senso sopra esposto – può diventare, in tal senso,

una situazione provvidenziale per recuperare l’identità specifica e la missione propria della Chiesa, oltre gli spazi protetti che le nostre comunità si sono ritagliate e le prerogative accomodanti che le strutture sociali hanno loro concesso. Anziché come la conclusione di un’epoca d’oro per la perdita di una posizione strategica e di un consenso pressoché indiscusso, la “fine della Cristianità” va dunque intesa come la necessaria liberazione da una serie di condizionamenti che, a lungo andare e venendo meno determinate condizioni, hanno in larga parte demotivato il cristianesimo e intiepidito i cristiani.

Del resto, la “fine della Cristianità” non implica che ogni sforzo pastorale sia andato perduto né, tanto meno, che si sia spenta la fede o che si sia compromessa la natura della Chiesa.

Accanto ai fallimenti di un certo agire pastorale bisogna riconoscere la preziosità dell’impegno di tanti sacerdoti, diaconi, consacrati e laici che, silenziosamente e a volte a prezzo di grandi sacrifici, hanno lavorato e continuano a lavorare per diffondere il Vangelo e promuovere una cultura genuinamente cristiana; in contrasto con il rifiuto e la superficialità di tanti bisogna ricordare il cammino sincero di tantissimi che, nelle case come nelle chiese, nei luoghi ordinari della vita come negli spazi propri della fede, vivono in maniera esemplare e offrono una testimonianza credibile; proporzionalmente all’allontanamento delle masse bisogna registrare una rinnovata sensibilità e una generosa disponibilità alla missione, tanto quella ad gentes quanto quella sul territorio; per non parlare del diffuso senso del sacro che, pur con determinate riserve, costituisce una rassicurante premessa alla ricerca del divino anche in coloro che frettolosamente definiamo “lontani”.

Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa è del Signore e che la Grazia opera invisibilmente anche là dove gli uomini non ne sanno riconoscere la presenza.

Proprio in ragione e in forza di tutto questo, la “fine della Cristianità” costituisce l’occasione favorevole in cui, qui e ora, una purificazione della coscienza e delle strutture può aprire un tempo nuovo per la Chiesa e per i cristiani. In fondo anche le idee veterotestamentarie del piccolo resto e del piccolo esercito, insieme a quella evangelica del piccolo gregge, confermano la certezza che solo la consapevolezza della crisi e della precarietà può diventare condizione dell’attesa e della speranza.

In questo rinnovato orizzonte la separazione della Chiesa dalle strutture istituzionali della società può indirizzare l’azione pastorale al piano delle coscienze, così come la perdita di una posizione centrale può riportare la comunità cristiana ad abitare le periferie e a evangelizzarle con una presenza diffusa. Nello stesso tempo la purificazione di una religiosità rituale ed esteriore può orientare la fede a un culto rinnovato capace di raggiungere l’esistenza, così come l’esercizio della carità può tornare a essere il primo luogo dell’ascolto e della testimonianza.

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3. Prospettive di una “conversione pastorale” Per predisporre e accompagnare questa “conversione pastorale” che permetterà

alla Chiesa del terzo millennio di intraprendere una nuova evangelizzazione proporzionata all’esistenza degli uomini di questo tempo, sarà necessario ripensare coraggiosamente i luoghi, le modalità e i protagonisti della pastorale ecclesiale.

Occorrerà in primo luogo mettere in seria discussione la percezione e la configurazione della parrocchia, non per eliminarla ma per darle una nuova identità – o un nuovo «volto», se vogliamo usare un termine più rassicurante, tratto dagli orientamenti pastorali della CEI – che risponda meglio alle esigenze del mondo che cambia. Nate nel IV-V secolo e configurate come oggi le conosciamo in epoca moderna sotto l’influsso del Concilio di Trento, le parrocchie, così come le grandi abbazie e i monasteri dell’età medievale, hanno rappresentato – giustamente, in quel preciso contesto storico – il luogo proprio in cui la fede, già conosciuta e condivisa, doveva essere alimentata, verificata e confermata.

Luogo proprio di una fede da annunciare e testimoniare, nel contesto storico attuale, deve adesso diventare – anzi, deve tornare a essere – la strada e, al suo interno, la casa, in cui la parrocchia in qualche modo deve sapersi “trasferire” per recuperare le dimensioni complementari della famiglia come “chiesa domestica” e della comunità come “comunione di famiglie”. Anche le dinamiche della vita parrocchiale – dalle strutture alle attività, dalle celebrazioni alle catechesi, dalla funzione degli organismi di partecipazione al ruolo delle aggregazioni laicali – devono essere ripensate in una direzione di uscita e in un atteggiamento missionario.

La stessa prospettiva delle unità pastorali non può restare un compromesso, spesso frustrante, funzionale alla diminuzione del clero per non lasciare “scoperte” le parrocchie, ma deve diventare una scelta di campo per aiutare le comunità a pensare in termini di “territorio” più che di “confine”.

La progettazione pastorale non può non partire da un’attenta lettura del territorio e non può non tenerne conto a ogni successivo passaggio, non per tenere sotto controllo i dati statistici o monitorare gli effetti delle strategie adottate, ma per definire un nuovo stile di ascolto appassionato e di intervento interessato. Proprio questo rinnovamento di stile dovrà costituire la sfida della Chiesa del futuro e preparare il terreno per una chiara e decisa risposta di fede, mettendo le nostre comunità nelle condizioni di suscitare le domande di senso e di formularle adeguatamente, di affrontare seriamente le criticità riscontrate e di valorizzare le potenzialità e le risorse a disposizione.

Protagonisti di questo rinnovato agire ecclesiale non possono più restare soltanto le figure istituzionali del passato, ma occorre valorizzare l’apostolato dei laici sia nella corresponsabilità delle scelte sia nella sinergia delle opere, mettendo in atto un’acquisizione già maturata nella teoria ma ancora sotto molti aspetti lontana dalla pratica. In particolare si deve ripartire da quei gruppi di credenti che hanno già un

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cammino di fede e che, inserendosi nel tessuto sociale e negli ambienti ordinari della vita, devono costituire la base di un nuovo impulso missionario.

Il prossimo modulo della formazione unitaria ci aiuterà a cogliere più specificamente le sfide della nuova evangelizzazione nel contesto qui ricostruito e con le tensioni qui abbozzate, per intraprendere la via di un nuovo annuncio nel territorio e negli ambiti ordinari della pastorale parrocchiale.

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Proposta di laboratorio

VERIFICARE L’APPARTENENZA (a cura di Valerio Landri)

Premessa

Il laboratorio è un metodo di studio e di indagine in cui i partecipanti osservano se stessi – e, eventualmente, persone a loro vicine – per verificare una teoria, trarre delle conclusioni pratiche e delineare delle proposte operative concrete.

Questa prima esperienza di laboratorio ruota attorno al concetto delle “appartenenze parziali” come aspetto del relativismo che caratterizza l’attuale contesto socio-culturale anche nell’ambito della fede.

La proposta offre delle indicazioni generiche, che si possono adattare secondo le opportunità (età e interessi dei partecipanti, tempo a disposizione, ecc.).

Obiettivo

Valutare la percezione del proprio grado di appartenenza (individuale e comunitario) alla coscienza ecclesiale e verificare i rischi di “appartenenza parziale” in se stessi, nel proprio gruppo e nelle persone vicine (familiari, amici, compagni di scuola, colleghi di lavoro, vicini di casa, ecc.).

La riflessione che implicitamente solleciteremo sarà su: Quanto mi sento parte della Chiesa? Quanto il mio essere cristiano è coerente con tutte le espressioni della mia vita quotidiana individuale e comunitaria? Quanto la nostra comunità è consapevole di essere parte di un’unica Chiesa?

Descrizione

1. Il laboratorio prevede un momento di preparazione a opera della guida e un incontro che dovrebbe svilupparsi in un tempo complessivo di circa 2 ore.

2. Alcuni giorni prima dell’incontro la guida individua e approfondisce (servendosi, eventualmente, del Catechismo della Chiesa Cattolica) un tema dottrinale e una questione etica da proporre all’analisi del laboratorio.

3. Sulla base di questo approfondimento può preparare anche una scheda sintetica con una pista di riflessione e alcune domande su cui il laboratorio dovrà riflettere.

4. All’inizio dell’incontro si dà spazio innanzitutto alla preghiera: si propone un’invocazione allo Spirito Santo, perché guidi quest’operazione ecclesiale e aiuti nel discernimento [durata: 5 minuti].

5. Dopo la preghiera, la guida spiega ai partecipanti il senso e l’obiettivo del laboratorio; quindi propone loro di discutere sul tema e sulla questione in

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piccoli gruppi, da stabilire secondo il numero, l’età e l’interesse dei partecipanti. Può proporre a questo punto la scheda sintetica preparata in precedenza (punto 1), per facilitare la discussione [durata: 10 minuti].

6. Ogni gruppo sceglie al proprio interno:

• un coordinatore, che guida il confronto e raccoglie gli interventi in vista della discussione successiva;

• un “custode del tempo”, con il compito di garantire che vengano rispettati da ciascuno i tempi utili perché il lavoro del laboratorio venga portato a compimento.

7. Trascorso il tempo a disposizione per il confronto nei gruppi [durata: 50 minuti], ci si riunisce nuovamente e i coordinatori riferiscono quanto è emerso durante la discussione [durata: 20 minuti].

8. Dopo la presentazione dei lavori dei gruppi la guida presenta il tema e la questione, approfonditi precedentemente, mettendo in evidenza gli elementi che orientano verso un’appartenenza “totale” e quelli che orientano verso un’appartenenza “parziale” e guidando la riflessione in base alle domande riportate sopra nell’obiettivo [durata: 15 minuti].

9. Si lascia quindi spazio a ulteriori interventi, nei quali si cercherà di delineare proposte operative concrete per “recuperare l’appartenenza” [durata: 20 minuti].

10. Si conclude con un momento di preghiera, in cui si affida al Signore l’esperienza vissuta e il cammino intrapreso.

Sviluppi

Il laboratorio può prevedere un lavoro e una seduta ulteriori, invitando i partecipanti a sottoporre le stesse questioni ad altre persone e dando appuntamento a un incontro successivo per valutare, con gli stessi criteri, i nuovi dati raccolti.

Sarebbe opportuno presentare i risultati del laboratorio al Consiglio Pastorale e/o a un’assemblea di Operatori Pastorali per le opportune valutazioni e per una riflessione a più ampio raggio, al fine della verifica e della programmazione comunitarie.

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SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI (a cura della Libreria Paoline di Agrigento)

• BAUMAN Z., Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido, Laterza, Bari, 2010

• BAUMAN Z., Il buio del postmoderno, Aliberti, Reggio Emilia, 2011

• BAUMAN Z., Lo spirito e il clic. La società contemporanea fra crisi e bisogno di speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013

• BAUMAN Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2011

• CAMPANINI G., Quale fede nella stagione della post-modernità, Portalupi Editore, Casale Monferrato, 2004

• CODELUPPI V., Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Bari, 2012

• FERGUSON N., Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Mondadori, Milano, 2012

• FERRETTI G., Essere cristiani oggi. Il «nostro» cristianesimo nel moderno mondo secolare, ElleDiCi, Leumann, 2011

• GENNARO G., Dietrich Bonhoeffer. Una luce sulla crisi dell’Occidente cristiano, Guida, Napoli, 2007

• GIACCARDI C., Abitare il presente, Edizioni Messaggero, Padova, 2014

• GIUNTELLA P., L’aratro, l’iPod e le stelle, Paoline, Milano, 2008

• INTROVIGNE M., Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane, Sugarco Edizioni, Milano, 2008

• SARTORIO U., Scenari della fede. Credere in tempo di crisi, Edizioni Messaggero, Padova, 2012

• SIVALON J.C., Il dono dell’incertezza. Perché il postmoderno fa bene al Vangelo, EMI, Bologna, 2014

• VECOLI F., La religione ai tempi del web, Laterza, Bari, 2013

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Sezione Seconda

SPUNTI PER LA PREDICAZIONE DOMENICALE E FESTIVA

Introduzione alla Liturgia del Tempo di Avvento

DECIFRARE LE ATTESE DELL’UOMO

L’Avvento è, per definizione, tempo di attesa. La Liturgia, sia attraverso le preghiere sia attraverso la Parola di Dio, ci propone un itinerario che parte dall’attesa del ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi (prima parte) e da quella della nascita di Gesù nel memoriale del Natale (seconda parte), per riempire di attesa l’intera quotidianità dell’uomo.

Un’esistenza segnata dallo stile dell’attesa è un’esistenza che si sottrae all’abitudine e alla monotonia per aprirsi a una novità inattesa, capace di riscattare il presente e rendere ancora possibile un futuro.

Alla luce della proposta formativa di questo primo modulo, la sfida dell’attesa si colloca nel tentativo di affrontare la crisi di coscienza e di azione in atto nell’attuale contesto socio-culturale, invitandoci a trasformare la crisi in attesa.

Gli spunti per la predicazione domenicale e festiva del tempo di Avvento mirano a declinare i temi della proposta formativa con questa particolare chiave di lettura, aiutandoci a decifrare le attese dell’uomo mediante un percorso che si può articolare secondo lo schema seguente:

• I Domenica di Avvento (30 novembre) RICONOSCERE UN VOLTO

• II Domenica di Avvento (7 dicembre) ASCOLTARE UNA VOCE

• Immacolata Concezione della B.V.M. (8 dicembre) RIPRISTINARE LA PUREZZA

• III Domenica di Avvento (14 dicembre) RADDRIZZARE LE VIE

• IV Domenica di Avvento (21 dicembre) ABITARE UNA CASA

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I Domenica di Avvento (30 novembre)

RICONOSCERE UN VOLTO Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

La società “complessa” in cui viviamo rischia di diventare sempre più anonima per via della perdita del centro e della frammentazione del senso, che destabilizzano l’identità personale e collettiva, e a causa dell’indifferenza religiosa e delle appartenenze parziali, che compromettono l’identità specificamente cristiana ed ecclesiale. Contro questo rischio di anonimato, la Liturgia della Parola propone l’esigenza di riconoscere un volto.

Il primo volto da riconoscere è quello di Dio, a partire dalla memoria del passato, dalla considerazione del presente e dalla prospettiva del futuro.

Nella memoria del passato è contenuto tutto ciò che Dio ha operato in favore del suo popolo, rivelandosi come padre e redentore. Ogni uomo e l’intera comunità possono ricordare e riconoscere tali benefici nella loro storia concreta.

Nella considerazione del presente Dio è percepito in un atteggiamento di ira, che si manifesta nell’aver nascosto il suo volto e nell’aver lasciato il popolo in balìa della sua iniquità. Questo atteggiamento, tuttavia, ha una funzione pedagogica in quanto manifesta il disappunto per la ribellione e il peccato ed è finalizzato alla conversione e al ritorno. In ogni circostanza si può sperimentare questa pedagogia divina, poiché Dio continua a mostrare la sua benevolenza nei confronti chi pratica la giustizia. Egli, inoltre, continua ad arricchire ogni uomo di doni specifici, in modo che l’intera comunità abbia tutto ciò che le serve, in maniera piena e completa.

Nella prospettiva del futuro Dio è considerato come il padrone di una casa che, dopo un periodo di assenza, ritornerà e chiederà conto ai suoi servi del loro operato. L’immagine ci ricorda che tutto appartiene a Lui ed è orientato a questo compimento, indipendentemente dal modo in cui ciascuno decide di rispondere alla sua chiamata.

Di fronte al volto di Dio, l’uomo e la comunità sono invitati a riconoscere il loro. Se stiamo smarrendo la nostra identità è perché abbiamo indurito il nostro cuore e stiamo vagando lontano dalle vie di Dio, perdendo il senso e l’orientamento della nostra esistenza e inseguendo le illusioni di vie alternative, prive di significato autentico e duraturo. Prendere coscienza della vanità di queste vie è il primo passo da compiere per imboccare la via della conversione e del ritorno.

A questo primo passo deve seguire il riconoscimento dei doni di Dio e il loro esercizio fedele, responsabile e operoso per il bene delle persone e della comunità. Assumere i propri compiti e portarli avanti, riconoscere i beni ricevuti e custodirli, esercitare l’autorità e il potere al servizio di tutti: questo, in pratica, significa dare un risvolto alla crisi della coscienza e dell’impegno e trasformarla nell’attesa della novità di Dio, superando ogni tentazione di scoraggiamento e di disperazione.

Il messaggio cristiano può e deve ancora riscattare un mondo altrimenti destinato alla deriva e al fallimento. Per questo siamo invitati a stare svegli e vigilare.

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II Domenica di Avvento (7 dicembre)

ASCOLTARE UNA VOCE Is 40,1-5.9-11; Sal 84; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

In una società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa le voci si accavallano, rendendo difficile e a volte impossibile il discernimento e la decisione. La situazione esistenziale che si profila è caratterizzata, paradossalmente, da un progressivo impoverimento della coscienza, direttamente proporzionale al moltiplicarsi delle visioni sul mondo e sull’uomo, delle teorie sulla storia e sulla società, delle proposte etiche e religiose. Contro questo rischio di confusione, la Liturgia della Parola propone l’esigenza di ascoltare una voce.

Si tratta della voce di Dio che, oggi come sempre, risuona sia nelle vicende storiche del suo popolo sia nell’insegnamento dei suoi messaggeri e testimoni, invitando l’uomo a un dialogo di reciproca conoscenza e comunione.

Lo scenario di questo dialogo è rappresentato dalle immagini complementari del deserto e dell’esilio, che, riferendosi a precise situazioni storiche di Israele, diventano paradigmi per descrivere il contesto esistenziale di ogni epoca, compresa la nostra.

Il deserto descrive una situazione di aridità e solitudine, povertà e desolazione, essenzialità e lotta per la sopravvivenza. Leggere con questa immagine l’esistenza dell’uomo contemporaneo significa cogliere la precarietà della sua esistenza, ma anche l’esigenza di spegnere le voci e ripristinare il silenzio per chiedersi se la riscoperta dell’essenziale possa ancora aprire strade di salvezza. L’esilio completa questa allegoria in quanto, rappresentando per Israele la perdita della terra e dei beni materiali e affettivi, compresa la stessa coscienza di appartenere a Dio e al suo popolo, proprio per questo costituisce la condizione per purificare la memoria, ritornare in patria e ritrovare il proprio posto in riferimento a Dio e agli altri uomini.

Nel deserto e nell’esilio della storia si leva la voce di Dio, che noi cristiani siamo chiamati ad amplificare con le nostre parole e soprattutto con le nostre opere. Questa speranza assume i tratti specifici della consolazione di un popolo oppresso, attraverso la liberazione dalla schiavitù e l’impegno di un cambiamento radicale che deve partire dal cuore e raggiungere tutte le dimensioni dell’esistenza.

La liberazione da ogni forma di schiavitù, antica e nuova, è possibile solo a condizione di ripensare il valore delle realtà terrene in riferimento alla loro fine e al loro fine. Tutto è destinato a passare e ogni cosa deve trovare il suo significato nella creazione nuova, radicata nella storia di ogni giorno e destinata a compiersi alla fine.

Il cambiamento del cuore e dell’esistenza – condizione e, insieme, obiettivo di questa liberazione – si attua nella scelta dell’essenziale, nell’abbandono di ogni presunzione e pretesa e nella capacità di fare un passo indietro per lasciare spazio all’altro, come fa il Battista.

La speranza cristiana si fonda sull’annuncio della salvezza in Cristo. Per questo siamo invitati a diventare voce di Dio nella quotidianità della nostra esistenza.

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Immacolata Concezione della B.V.M. (8 dicembre)

RIPRISTINARE LA PUREZZA Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

Per una società che stenta a ritrovarsi in un sistema di valori universali e condivisi e che sta perdendo il senso della colpa personale e collettiva, la purezza delle origini e del destino della storia costituisce un ideale ancora valido e una proposta di senso sempre attuale. L’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria ci ricorda che il peccato dell’uomo e la crisi della sua coscienza non possono restare l’ultima parola sulla vita e sul destino dell’umanità. Contro questo rischio di decadenza, la Liturgia della Parola propone l’esigenza di ripristinare la bellezza.

La domanda «dove sei?» – che fin dall’inizio attraversa l’intera storia umana – risuona come un richiamo a riconoscere la propria responsabilità e a cominciare un percorso di redenzione capace di restituire all’uomo e all’intera creazione la dignità perduta. Sullo sfondo di questa domanda siamo invitati a superare le nostre paure, a uscire allo scoperto senza vergogna e a riconoscere responsabilmente le colpe che rompono la comunione con Dio e rovinano l’armonia del creato.

Accogliendo questa provocazione, dobbiamo riconoscere che il limite proprio della natura umana non è impedimento ma condizione della nostra realizzazione. L’uomo, infatti, non si realizza in quanto individuo isolato, che non ha bisogno né di Dio né degli altri. Al contrario, l’essere creature limitate e bisognose ci spinge a ricercare la comunione e custodire l’armonia.

Così si realizza la benedizione divina realizzata in Cristo, che precede la stessa creazione e la compie nella gloria dei figli di Dio, secondo la volontà salvifica del Padre. Questa benedizione è la manifestazione della forza del bene, intesa ora come provvidenza ora come misericordia, di cui noi cristiani siamo a un tempo destinatari e collaboratori nell’unica vocazione alla santità.

In questo disegno universale di salvezza la Vergine Maria, pur essendo preservata da ogni peccato per singolare privilegio di Dio, entra a pieno titolo come immagine e modello della Chiesa pellegrina nel tempo. In lei troviamo l’icona dell’umanità chiamata a diventare santa e immacolata nella carità, ossia capace di purificare le proprie intenzioni e le proprie opere per portare a compimento la storia di redenzione cominciata già nel momento stesso del primo peccato.

Dalla docilità di Maria alla volontà di Dio possiamo imparare a ridimensionare la nostra pretesa di autonomia e riscattare la nostra disobbedienza; dalla sua rinuncia alle promesse umane possiamo imparare a smascherare l’illusione di poter trovare la nostra realizzazione nelle cose del mondo; dalla sua fiducia nella grazia dell’Onnipotente possiamo imparare a superare le nostre paure e vincere la preoccupazione di fronte a ciò che umanamente è impossibile.

La bellezza può ancora salvare il mondo. Per questo, con Maria, siamo invitati a diventare santi e immacolati nell’amore.

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III Domenica di Avvento (14 dicembre)

RADDRIZZARE LE VIE Is 61,1-2.10.11; Sal Lc 1,46-50.53-54; 1Ts 5,16-24; Mc 1,1-8

Una società che perde di vista il suo scopo ultimo e i suoi punti di riferimento si disorienta e, a lungo andare, non sa più quali vie percorrere. In un simile contesto tutte le alternative si equivalgono e anche la stessa comunità cristiana si ritrova nell’incertezza di scegliere e agire, sia per la paura di sbagliare sia per la mancanza di proposte convincenti. Contro questo rischio di smarrimento, la Liturgia della Parola propone l’esigenza di raddrizzare le vie.

L’idea della via richiama inevitabilmente quella del cammino, la quale, a sua volta, si contrappone a ogni tentazione di lasciarsi paralizzare dalla situazione in cui ci si trova. Di fronte alla mancanza di prospettive non possiamo piangerci addosso né lamentarci, ma dobbiamo recuperare la vocazione di testimoni della luce, anche a costo di essere incompresi, derisi e perseguitati, secondo l’esempio del Battista. Come il precursore, sulla scia degli antichi profeti, siamo invitati a fare spazio dentro di noi e attorno a noi, per accogliere la luce della verità e permetterle di guidare le nostre scelte e le nostre opere, ridando a Dio la priorità nella volontà e nell’azione.

Questo significa rendere «diritta la via del Signore». Concretamente si traduce nell’impegno a fare del nostro tempo un’occasione di grazia, com’era l’anno giubilare nella coscienza di Israele: tempo di riscatto da ogni forma di oppressione, opportunità per chi ha perso la gioia di vivere e la stessa possibilità di sopravvivere.

Oggi nuove forme di miseria e schiavitù opprimono l’umanità, nuove inquietudini e precarietà minacciano l’esistenza di tante persone e di tante famiglie, non soltanto nelle aree più povere e sottosviluppate del mondo, ma nel nostro stesso territorio. «Promulgare l’anno di grazia del Signore» vuol dire andare a cercare nelle strade delle nostre città quanti vivono nella disperazione a causa delle vecchie e delle nuove povertà per farcene carico insieme a loro; vuol dire impegnarci per il riscatto di una giustizia sempre più compromessa con gli interessi personali; vuol dire portare negli ambiti ordinari dell’esistenza umana l’annuncio coraggioso e credibile della salvezza in Cristo e di un nuovo umanesimo che solo il Vangelo, in mezzo alla confusione dell’attuale contesto socio-culturale, è in grado di rilanciare.

Oggi più che mai siamo chiamati alla profezia e al discernimento, in un atteggiamento di docilità allo Spirito da maturare nella preghiera personale e comunitaria. Questo mandato ci deve impegnare in primo luogo nella formazione delle coscienze – dall’educazione dei più piccoli alla correzione dei più grandi, nella dimensione familiare come in quella sociale, nella vita comune e nei luoghi istituzionali – per riproporre la cultura della vita e del bene a un mondo sempre più in balìa del male e della morte.

Oggi è ancora possibile essere irreprensibili nella totalità delle dimensioni della nostra esistenza. Per questo siamo invitati a fare nostre le vie di Dio.

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IV Domenica di Avvento (21 dicembre)

ABITARE UNA CASA 2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16; Sal 88; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38

Una società che sta smarrendo le sue coordinate rinuncia inconsapevolmente al senso di appartenenza che la rende unita in vista di un obiettivo comune. Ciò produce progressivamente un vago senso di autosufficienza, che porta a limitare ogni attesa nell’autoreferenzialità dell’uomo e delle sue strutture sociali, sempre precarie e mai pienamente stabili. Contro questo rischio di dispersione, la Liturgia della Parola propone l’esigenza di abitare una casa.

La casa rappresenta in generale il luogo protetto in cui ci si sente sicuri, nonché il luogo dell’intimità in cui si condivide la vita in tutti i suoi aspetti. La casa è la dimora della famiglia che si ritrova fra le sue mura e, nelle difficoltà della convivenza, impara ad affrontare i problemi, a farsi carico delle debolezze, a risanare le controversie. La casa è il luogo in cui si genera l’altro, accogliendolo ogni giorno come un dono da custodire, e in cui si curano le relazioni, ripensandole ogni volta come il modo concreto di vivere la vocazione all’amore propria di ogni uomo.

L’esigenza di una casa corrisponde al desiderio di sicurezza e stabilità, non solo per la famiglia strettamente intesa, ma in generale per la famiglia umana o, almeno, per il popolo a cui si appartiene. In questo senso va letta l’iniziativa di Davide di costruire una casa a Dio e così si devono intendere i tentativi di aggregazione sociale che ogni epoca, compresa la nostra, si sforza di compiere.

La risposta di Dio corregge le aspettative dell’uomo, ricordandoci che le realtà umane, da sole, non sono in grado di assicurare la sicurezza e la stabilità di cui abbiamo bisogno. Per questo Dio stesso si impegna a costruire una casa per l’uomo, prefigurata dal popolo dell’antica alleanza, realizzata nella Chiesa di Cristo e destinata a compiersi nel Regno. Questa casa, tuttavia, non si può identificare in una istituzione sociale né, tantomeno, in una struttura materiale, ma consiste nel ritenere che in Cristo tutti gli uomini sono figli dello stesso Padre e fratelli fra di loro.

In questa consapevolezza, frutto dell’obbedienza della fede a cui tutte le genti sono chiamate, si manifesta il mistero nascosto per secoli e manifestato nell’incarnazione del Dio-con-noi. Ma perché questo mistero continui a compiersi occorre recuperare il senso della casa di Nazaret, dove Maria accoglie la proposta di generare l’Emmanuele, nella sua storia personale e nella storia dell’umanità prima ancora che nel suo grembo. Nel suo turbamento e nella sua domanda sul senso del saluto dell’Angelo dobbiamo riconoscere l’inquietudine dell’uomo e la sua necessità di formulare una seria domanda di senso, a cui la fede potrà rispondere con una proposta che lo impegni per sempre, così come per sempre, attraverso il «sì» di Maria, dureranno la casa, il regno e il trono promessi a Davide.

Dio è ancora disposto a farsi vicino a noi e a riconsegnarci gli uni agli altri nel suo nome. Per questo siamo invitati a entrare nella casa che Dio prepara all’umanità.

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Introduzione alla Liturgia del Tempo di Natale

COGLIERE LE RISPOSTE DI DIO

In diretta continuità con l’Avvento, il tempo di Natale costituisce la risposta di Dio alle attese dell’uomo. Anche nella Liturgia di questi giorni è possibile tracciare un itinerario, che comincia con la disponibilità ad accogliere la visita di Dio e a lasciarsi mettere in discussione da Lui, per ridare consistenza alla memoria, dignità al presente e prospettive al futuro.

Un’esistenza aperta alla visita di Dio è un’esistenza che non si lascia scoraggiare dalla drammaticità della vita quotidiana e si lascia provocare da una speranza nuova, capace di trasformare il mondo e la storia.

La sfida dell’attesa, che si colloca propriamente nel tempo dell’Avvento, qui si realizza, si rilancia e si amplifica, compiendosi solo per proiettarci verso un’attesa e un compimento più grandi, che attraversano tutti i giorni dell’uomo.

Anche gli spunti per la predicazione domenicale e festiva del tempo di Natale ci aiutano a rileggere con questa chiave interpretativa i temi della traccia per la formazione, disegnando un itinerario che ci aiuta a cogliere le risposte di Dio e che si può sintetizzare nello schema seguente:

• Natale del Signore (25 dicembre) ACCOGLIERE LA PAROLA

• S. Famiglia (28 dicembre) RECUPERARE L’APPARTENENZA

• Maria SS.ma Madre di Dio (1 gennaio) ENTRARE NELLA BENEDIZIONE

• II domenica dopo Natale (4 gennaio) RICOSTRUIRE IL SENSO

• Epifania del Signore (6 gennaio) RITROVARE LA STRADA

• Battesimo del Signore (11 gennaio) RINASCERE DALL’ACQUA

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Natale del Signore (25 dicembre)

ACCOGLIERE LA PAROLA [Messa del giorno] Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Nell’incarnazione del Verbo troviamo una prima risposta di Dio alle attese dell’uomo. Questa risposta si colloca in un contesto storico che assume la forma concreta delle “rovine di Gerusalemme” e quella simbolica delle “tenebre del mondo”.

Le “rovine di Gerusalemme” descrivono concretamente la situazione disastrosa di Israele, il quale, nelle sue vicende storiche, ha perso la stabilità del presente e la speranza del futuro. Le “tenebre del mondo” rappresentano simbolicamente questa decadenza, in quanto esprimono la condizione di chi, vivendo lontano dalla verità, non ha luce sufficiente per vedere bene le cose e pertanto va incontro al peccato e conseguentemente alla morte. Non è difficile intravedere in questa descrizione la situazione storica di ogni uomo e di ogni popolo e, nella fattispecie, la nostra condizione nel particolare momento storico che stiamo vivendo.

In questo contesto, oggi come nel mistero del Natale, Dio continua a parlare con una Parola che si fa pro-vocazione, ossia invito a dare un senso nuovo alla vita e alla storia. Egli non parla solo attraverso la profezia – come ha fatto in molti modi anche nei tempi antichi – ma con una Parola che si fa Carne e viene ad abitare in mezzo a noi, ossia con una Persona capace di incontrare la concretezza di ogni uomo e di condividerla fino in fondo per redimerla dal di dentro.

Gesù che si fa uomo riapre all’uomo la strada per tornare a Dio. Egli non solo ha la verità sull’uomo e sulla storia, in quanto conosce le cose con la stessa conoscenza di Dio, ma è la Verità stessa, in quanto in Lui Dio ha fatto tutte le cose. Egli è il modello compiuto dell’umanità. E se l’umanità vuole recuperare la sua vera identità e raggiungere il suo vero destino deve tornare a Lui, entrando nel rapporto filiale che lo unisce al Padre e in quello fraterno che lo lega agli altri. In questo senso il Verbo che si fa Carne dà il potere di diventare figli di Dio a quelli che lo accolgono. E in questo stesso senso l’annuncio del Natale è un messaggio di pace.

Nella storia c’è un’opera continua di generazione, che comincia prima del tempo con la creazione e si compie nel tempo attraverso il mistero della redenzione. In quest’opera siamo coinvolti direttamente, non solo come destinatari ma anche come collaboratori, con la capacità che Dio stesso ci dona se siamo disposti ad accoglierlo.

Le immagini del messaggero/sentinella che annuncia la salvezza alle rovine di Gerusalemme e del testimone che rende testimonianza alla luce vera che viene nel mondo per illuminarne le tenebre ci suggeriscono che c’è ancora una possibilità di consolazione e riscatto per il popolo “che cammina nelle ombre della morte”.

Celebrando il mistero del Natale siamo invitati a prendere consapevolezza che l’annuncio cristiano può ancora portare luce a un mondo che brancola nelle tenebre e sembra andare in rovina. Siamo invitati altresì a deciderci responsabilmente di diventarne messaggeri e testimoni con un serio impegno personale e comunitario.

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Santa Famiglia (28 dicembre)

RECUPERARE L’APPARTENENZA Gn 15,1-6;21,1-3; Sal 104; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40

Nella dimensione familiare troviamo una seconda risposta di Dio alle attese dell’uomo. Anche questa seconda risposta si colloca in un contesto storico preciso, costituito dall’appartenenza di Gesù alla famiglia di Maria e Giuseppe, dall’appartenenza di questa famiglia alla coscienza del popolo di Israele e dall’appartenenza di questo popolo alla grande famiglia umana. Questo forte senso di appartenenza conferisce stabilità a tutte le istituzioni sociali che trovano nella famiglia il modello ispiratore e la cellula fondamentale.

La Famiglia di Nazareth è descritta attraverso tre riferimenti essenziali. Il primo riferimento è l’ubbidienza alla Legge di Mosè, intesa come condizione del legame al popolo di Dio, alle sue usanze e alle sue tradizioni, al suo sentire comune e al suo agire unitario. Il secondo riferimento è la condivisione della missione del Figlio – non solo a livello emotivo, ma come partecipazione reale al suo essere “segno di contraddizione” – che Maria e Giuseppe imparano attraverso l’ubbidienza alla Legge di Mosè, maturando dall’offerta rituale la consapevolezza che la vita appartiene al Signore. Il terzo riferimento è alla quotidianità della casa di Nazareth, presentata come un contesto privato e raccolto, segnato dalla grazia, nel quale il Figlio può crescere e fortificarsi in una dimensione sapienziale dell’esistenza.

La forza della Famiglia di Nazareth risiede, a sua volta, nella coscienza di Israele, che ritrova nell’esperienza familiare del patriarca Abramo il modello dell’apertura incondizionata a Dio e dell’autentico atteggiamento di fede. La vicenda di Abramo è descritta attraverso i momenti salienti della partenza verso l’ignoto, del dono del figlio nella vecchiaia e della prova del sacrificio di Isacco. L’abbandono fiducioso in Dio, che Abramo e Sara apprendono in questi tre passaggi in cui si lasciano guidare senza opporre resistenza, è la condizione della giustizia e la garanzia della fede.

L’accostamento di queste due famiglie ci offre il ritratto dell’umanità pienamente realizzata, portatrice di attese profonde e depositaria di grandi promesse, che Dio compirà nel tempo stabilito. Il ritornello “non temere” – che, a partire da Abramo, accompagna la storia dell’antico e del nuovo Israele – ci ricorda che Dio agisce misteriosamente, nonostante i controsensi della storia. Il segno della discendenza – frutto concreto dell’alleanza – ci ricorda che Dio apre possibilità inattese di futuro anche a “un uomo solo e inoltre già segnato dalla morte”.

Se possiamo ritrovarci in questa condizione di solitudine e mancanza di prospettive, possiamo ritrovarci anche nella certezza che Dio è fedele e compie le sue promesse per chi si fida totalmente di Lui e affida completamente a Lui la sua vita. Con Abramo e Sara e con Maria e Giuseppe, siamo allora chiamati all’obbedienza della fede per lasciarci “condurre fuori”, nella consapevolezza di essere forestieri e pellegrini nel mondo e di aspirare a un compimento infinitamente più grande di ogni nostra attesa.

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Maria SS. Madre di Dio (1 gennaio)

ENTRARE NELLA BENEDIZIONE Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

Nella logica della benedizione troviamo una terza risposta di Dio alle attese dell’uomo. Il contesto di questa risposta è, da una parte, il primo giorno del nuovo anno civile, dall’altra, la celebrazione liturgica della maternità di Maria. Entrambi i riferimenti ci pongono nella prospettiva degli inizi e della novità, del tempo che si rigenera per aprirsi alla vita e al futuro.

In ogni istante ci è data la possibilità di rendere pieno il nostro tempo, passando da un rapporto di schiavitù verso le cose a una relazione di figliolanza verso Dio e, conseguentemente, di fraternità verso gli altri uomini. In questo senso dobbiamo intendere la pace, di cui oggi ricorre la giornata mondiale. Sarebbe troppo riduttivo definire la pace come il contrario della guerra; di fatto è anche questo, ma è molto di più. La pace è innanzitutto una disposizione interiore, che solo successivamente si traduce in un atteggiamento esteriore che può essere di concordia o discordia, di armonia o contrapposizione.

In quanto tale, la pace che viene dall’alto e che il mondo non conosce consiste nella disponibilità a entrare nella benedizione, intesa non come atto rituale o come formula augurale, ma piuttosto come stile di un’esistenza nuova. La benedizione è, in primo luogo, l’azione di Dio nei confronti degli uomini e consiste nella provvidenza con cui Egli sostiene il mondo; in secondo luogo, è la risposta degli uomini nei confronti di Dio e consiste nella gratitudine con cui essi riconoscono che il mondo non potrebbe vivere senza la provvidenza divina; in terzo luogo, è il sentimento degli uomini verso gli altri uomini e consiste nella solidarietà con cui essi condividono – o dovrebbero condividere – quanto ricevono da Dio.

Gli elementi dell’antica formula di benedizione di Aronne evidenziano meglio questi tratti. Vivere nello stile della benedizione significa imparare a custodire l’altro, come fa Dio con noi, riconoscendone il valore, prendendosene cura e difendendolo dai pericoli. Ma significa anche mostrare il volto e fare grazia, ossia creare un rapporto personale di autenticità e compassione, nel quale l’amore prevale sull’egoismo e la giustizia diventa misericordia.

Il nostro tempo, con le sue contraddizioni e le sue precarietà, può diventare realmente pieno e può conoscere una pace sincera e duratura a condizione che cambiamo il nostro modo di rapportarci a Dio, agli altri e alle cose. Dio stesso, in Cristo nato da donna e sotto la Legge, ci indica il modo per riscattarci da ogni forma di schiavitù dalle cose, diventare figli dell’unico Padre, sentirci fratelli tra di noi e, così, ricevere l’eredità del mondo rinnovato.

Maria, donna nuova nella sua esperienza di maternità, ci insegna a custodire e meditare ogni cosa, per generare relazioni di autenticità capaci di dare un volto nuovo e aprire prospettive di bene al mondo e alla storia.

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II domenica dopo Natale (4 gennaio)

RICOSTRUIRE IL SENSO Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

Nella sapienza che viene dall’alto troviamo una quarta risposta di Dio alle attese dell’uomo. Se lo spirito di questo mondo produce i tanti controsensi che possiamo constatare nella nostra storia personale e sociale, Dio ci offre la possibilità di vedere le cose sotto un’altra luce, capace di vincere le tenebre del mondo.

Il discorso – già ascoltato il giorno di Natale – sul Verbo, che era in principio presso Dio e si è fatto carne venendo ad abitare in mezzo a noi, viene riproposto con la chiave di lettura della Sapienza, che prima dei secoli è uscita dalla bocca dell’Altissimo e si è stabilita in Sion piantandovi la sua tenda.

L’accostamento di queste due figure – il Verbo e la Sapienza – ci permette di stabilire un rapporto imprescindibile tra il tempo e l’eternità e ci porta a considerare le cose e gli eventi alla luce del disegno provvidenziale di Dio, che oltrepassa infinitamente i limiti della natura e la precarietà del mondo. Questo disegno – in continuità con la riflessione del 1° gennaio – si pone in termini di «benedizione spirituale nei cieli in Cristo» e consiste nel fatto che Dio, prima di crearci, ci ha scelti e, attraverso le vicende della creazione, ci vuole fare diventare suoi figli nell’amore.

La pienezza del tempo è data, dunque, non solo dall’incarnazione del Verbo/Sapienza, ma dalla capacità – data dall’accoglienza del Verbo/Sapienza incarnato – di vivere ogni istante in rapporto a quel “principio” che dà senso a tutte le cose, in quanto le proietta in un orizzonte di comprensione molto più ampio.

Il Verbo, per mezzo del quale è stato fatto tutto ciò che esiste e nel quale fin dal principio era la vita, è presentato come ciò che dà forma e significato alle cose, al di fuori del quale nulla si può comprendere pienamente. Questo “senso ritrovato” – che si contrappone al “senso frammentato” tipico dell’età post-moderna – non serve solo a dare la reale collocazione e la giusta definizione di tutto ciò che esiste, ma ne costituisce la stessa condizione di possibilità, in quanto niente può sussistere al di fuori dell’opera di Dio. Ogni tentativo di vivere autonomamente rispetto a Dio e alla sua volontà, a lungo andare, si rivela illusorio e contraddittorio.

Il senso delle cose, dunque, non va cercato nelle cose stesse, che sono sempre relative e destinate a passare, ma nella volontà salvifica di Dio, che ha preordinato ogni cosa per la salvezza e l’eternità dei suoi figli. Ciò significa che non possiamo assolutizzare le cose umane e le situazioni storiche. Al contrario, ogni cosa e ogni situazione va relativizzata e ridimensionata in riferimento a Dio e al suo progetto.

In questa visione teologica della storia, di conseguenza, insieme a Paolo dobbiamo chiedere a Dio «uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui». Questa conoscenza non va intesa in senso razionale, come insieme di concetti, ma in termini di illuminazione, in vista della speranza e della gloria, ossia di un “di più” che va sempre al di là di tutto ciò che è storico e umano.

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Epifania del Signore (6 gennaio)

RITROVARE LA STRADA Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12

Nella disponibilità gioiosa alla ricerca della verità troviamo una quinta risposta di Dio alle attese dell’uomo. Il contrasto tra la luce e le tenebre, che ha scandito l’intero percorso liturgico del tempo di Natale, trova nel mistero dell’Epifania il suo apice, in quanto nella “manifestazione del mistero” la luce di Dio si impone in tutta la sua chiarezza e le tenebre del mondo sono destinate a retrocedere per farle spazio.

Legato a questa irruzione della luce è anche l’invito che apre la Liturgia della Parola e riempie di significato quel «Coraggio! Alzati, ti chiama!» che sta accompagnando il cammino della Chiesa Agrigentina: «Alzati, rivestiti di luce… Alza gli occhi intorno e guarda… Allora guarderai e sarai raggiante…». Il motivo della rinnovata capacità di alzarsi e vedere e della gioia che ne consegue è dato da un atteggiamento nuovo nei confronti della vita, destinato a cambiare le sorti, non solo del popolo di Dio, ma dell’intera umanità.

Questo atteggiamento è rappresentato nell’immagine dei popoli che si radunano da lontano e camminano sotto la stessa luce e nella stessa direzione, facendo confluire l’abbondanza del mare e la ricchezza delle genti verso un centro unico di convergenza, simboleggiato da Gerusalemme. L’immagine descrive un ideale di fratellanza e di condivisione nel nome di Dio, che resterà incompiuto fino a quando l’egoismo e l’autoreferenzialità continueranno a dividere gli uomini, ma che rimane l’unica via possibile per l’umanità, altrimenti destinata all’autodistruzione.

Per definire ulteriormente questo ideale e quell’atteggiamento, è utile mettere a confronto lo spirito dei Magi con quello di Erode. I Magi sono animati da un profondo senso di libertà e da un grande desiderio di ricerca, che li spinge a compiere un lungo viaggio verso una terra lontana, per riconoscere un “altro” più grande di loro a cui offrire i propri doni. Erode, al contrario, è animato da una profonda brama di potere e da una grande avidità di possesso, che lo fa restare fermo nella sua reggia a tramare inganni e compromessi, per eliminare l’”altro” con cui pensa – e teme – di doversi contendere il primato.

Fino a quando lasciamo prevalere l’interesse egoistico per il prestigio personale, continuando a fare di noi stessi il centro assoluto di ogni cosa e di ogni relazione, si spegne la possibilità di un reale incontro di pace tra gli uomini e il turbamento continua a restare il sentimento predominante di ogni situazione. Nella misura in cui, al contrario, ci sappiamo espropriare di noi stessi e anteponiamo il bene di tutti all’interesse personale, si riaccende la gioiosa speranza del mondo nuovo.

A partire dal rinnovamento della coscienza personale e collettiva, frutto di un’accoglienza generosa del Vangelo della Vita, diventa possibile costruire insieme la nuova umanità inaugurata da Cristo, in cui tutti – vicini e lontani – condividiamo la stessa eredità, formiamo lo stesso corpo e siamo partecipi della stessa promessa.

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Battesimo del Signore (11 gennaio)

RINASCERE DALL’ACQUA Is 55,1-11; Sal Is 12,2.4-6; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11

Nella rigenerazione alla vita nuova dello Spirito troviamo una sesta risposta di Dio alle attese dell’uomo. Spesso queste risposte di Dio restano inascoltate e disattese perché ci aspettiamo altro e non siamo disposti ad accogliere la novità inaudita che esse contengono. Le nostre vie e i nostri pensieri non sono le vie e i pensieri di Dio e questo ci impedisce di camminare sulla stessa lunghezza d’onda.

Celebrando il Battesimo del Signore e facendo memoria del nostro, che – pur diverso dal suo – ci unisce alla sua stessa vita, siamo invitati a rifare radicalmente la scelta della fede. La fede, infatti, è l’unica vittoria capace di sconfiggere il mondo, in quanto vi immette quella mentalità nuova dei figli di Dio che permette di pensare con i suoi pensieri e agire secondo le sue vie.

Il mondo si può ancora rinnovare a partire da questa scelta di fondo, che ci fa riconoscere come bisogno primario, più essenziale del cibo e delle bevande, la Parola di Dio, la cui efficacia è simile a quella della pioggia nel ciclo della fecondazione della terra.

Alla luce di questa Parola, ascoltata e accolta con docilità, anche il valore delle nostre relazioni è destinato a cambiare radicalmente. La logica della gratuità, con cui questa Parola si dona e opera, deve diventare il rimedio più efficace per tanti rapporti umani segnati dall’interesse e regolati dall’economia.

Quando le relazioni tra gli uomini si ispirano a criteri materialistici e utilitaristici, anziché essere occasioni di incontro e di crescita, diventano pretesti di alienazione e sfruttamento, che disumanizzano il mondo e chiudono le prospettive della storia. Al contrario, la relazione improntata al dono e vissuta come alleanza diventa spazio per il riconoscimento dell’altro come fratello, da accogliere e rispettare nel nome e con lo stesso amore dell’unico Padre.

Garanzia di questo modo nuovo di vivere i rapporti tra gli uomini nel segno dell’amore di Dio è l’osservanza dei suoi comandamenti, intesa non come obbedienza a dei precetti, ma come condivisione di una stessa volontà salvifica, che si compie nel dono della vita e si attua nella sfida della conversione.

In questo senso si pone ancora una volta la testimonianza del Battista. Egli è tutto orientato a Cristo, il quale viene dopo di lui nella successione temporale, ma viene prima nel piano dell’essere e nell’opera che è chiamato a compiere. Ed è proprio nella logica di questa priorità dell’altro che, nello stesso tempo, il Battista è tutto orientato agli uomini, ai quali propone il suo battesimo di conversione – fino a quando non sarà arrivato quello di rigenerazione del Figlio di Dio – anche a condizione di pagare con la vita la vita di coloro che ha riconosciuto come fratelli.

Vivere da figli di Dio, nella forza del Battesimo, significa assumere la logica del primato dell’altro e della gratuità del dono, che ci rende nuove creature in Cristo.!34

Sezione Terza

SCHEMI DI LECTIO DIVINA

Ripensare il rapporto con Dio in termini sponsali

LECTIO DIVINA SU Ct 2,8-17

(a cura di don Gino Faragone)

Premessa

Proponiamo una breve lectio sul testo del Cantico dei Cantici, perché esso ci permette di riflettere sulle origini e lo sviluppo dell’amore umano, sulle gioie, le sue sorprese, i suoi momenti di intimità, ma anche il dolore per i distacchi. L’amore è visto nella sua giovinezza, come esperienza di scoperta continua dell’uno e dell’altra, senza alcuna forma di vergogna o di ammonimento. Al centro del Cantico c’è l’amore tra due persone che esprimono con genuinità e autenticità il calore della loro intimità e della loro passione. Nel testo ci si imbatte in immagini molto attraenti con il loro erotismo ridondante e felice. L’atmosfera è quella primaverile, gioiosa e serena: si avvertono nell’aria delicati profumi pieni di sensualità. Gli stessi corpi degli amanti sono uno splendido segno del divino.

E partiamo dalla conclusione, con uno sguardo più attento a ciò che ci circonda, dalla vita concreta di tanti uomini che fanno fatica a vivere nella dimensione dell’amore. La struttura classica della lectio va dalla Parola alla vita; questa volta vogliamo suggerire un percorso inverso: vogliamo iniziare osservando le difficoltà di tutti noi a vivere praticando l’unico comandamento che Gesù ci ha lasciato, l’amore reciproco tra gli uomini. Partiamo dalla vita, da quella parola incarnata che si riflette nella storia degli uomini, segno di una presenza divina.

Guardo con particolare attenzione al Sinodo straordinario sulla famiglia, al coraggio ritrovato, alla parresia della nostra Chiesa nel lasciarsi trasportare dal vento dello Spirito verso spazi inesplorati per ridire a tutti l’annuncio gioioso di un Dio che non discrimina nessuno, che ama tutti. Con piacevole sorpresa abbiamo osservato i toni con cui sono state affrontate tematiche davvero impegnative come l’apertura alle coppie omosessuali, l’accoglienza dei divorziati risposati, il riconoscimento dei diritti della persona. Ci sono dei valori che vanno riscoperti nonostante la diversità delle unioni e delle convivenze. Una Chiesa, quella che possiamo vedere in questo Sinodo, in ascolto di un laicato sempre più protagonista nel cercare soluzioni in linea con il Vangelo; una Chiesa impegnata a usare un linguaggio più comprensibile per l’annuncio della verità; una Chiesa che non ha paura della novità.

Contesto, struttura e genere letterario

Il brano fa parte della seconda unità compositiva del Cantico (2,8 – 5,1), che comprende due canti della donna (2,8-17 e 3,1-5) e due canti dell’uomo (4,1-7 e 4,8-5,1). Il canto è recitato dalla donna e ritrae l’amato davanti alla porta chiusa

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dell’amata. Si può intravedere anche una serenata mattutina per svegliare l’amata. Gli elementi fondamentali che ritmano l’andamento del canto sono le parole «l’amato mio» (dodi) e «amica mia» (ra’jati), che vengono pronunciate unicamente dagli amanti, come a voler sottolineare l’esclusività dell’amore.

La prima strofa descrive l’arrivo dell’amato dai monti e il suo stare fuori davanti alla casa dell’amata. La seconda strofa riporta il canto dell’amato, il cui inizio è un’invocazione all’amata perché si alzi e lo segua.

Un ritornello di supplica che appare in 2,9 e 3,5 esprime l’atteggiamento di rispetto e di tenerezza dell’amato nei confronti dell’amata: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme…: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia». Tra le due parti si possono notare alcuni ostacoli all’unione di questi due amanti: la distanza e il muro. Non ci importa se storicamente questo dialogo sia stato mai pronunciato da qualcuno. Si tratta di una parabola poetica, di un canto di ogni uomo per la donna e di ogni donna per l’uomo, di un canto in cui i due amanti scoprono l’assolutezza dell’Amore

Analisi del testo

a) La venuta dello sposo: vv. 8-9

Prevale un ritmo concitato, un’aria di eccitamento: l’espressione «eccolo», ripetuta due volte, distingue i due momenti della venuta dello sposo. I movimenti aggraziati e veloci spingono la sposa ad affermare che egli è come una gazzella o un cerbiatto. L’amato viene dal regno delle forze dell’amore, dalla natura selvaggia e incontaminata. Il riferimento al cucciolo evoca un’immagine di delicatezza e innocenza.

Nel secondo momento lo sposo è già arrivato e sta dietro i muri della sua casa. E come le alte rocce e i dirupi impervi, anche i muri della casa esprimono la difficoltà che l’amante trova per avere accesso alla persona amata. La donna del Cantico desidera essere corteggiata, non si concede con facilità.

b) La voce dello sposo: vv. 10-14

«Alzati, amica mia, mia bella e vieni». Due imperativi che sottolineano l’urgenza e la voglia dell’incontro. L’accento è posto non sull’istituzione, sul ruolo del matrimonio nella società, ma sulla coppia in sé, su un uomo «amato mio» e una donna «amica mia». Particolarmente intensa l’espressione «mia bella»: l’aggettivo possessivo coglie nell’amata l’espressione stessa della bellezza. È l’unica donna bella. Per motivare la richiesta, dichiara che l’inverno è già passato: non ci sono motivi per restare chiusa in casa. L’uscita ha una particolare pregnanza: come Abramo, la donna deve trovare il coraggio di uscire dalla sua terra, lasciare la sua parentela, abbandonare le sue sicurezze e aprirsi all’amore, a una nuova vita.

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Non c’è più il rischio di piogge e la casa non serve più. In Israele, come da noi in Sicilia, è difficile la pioggia dopo il mese di aprile. Ma il motivo più forte è un altro: l’amata deve imitare la natura, deve aprirsi alla vita. Il suo appello offre immagini, suoni e profumi della primavera, sperando di convincere l’amata a uscire da casa. Non può rimanere nascosta dietro la finestra di casa, come una colomba «nelle fenditure delle rocce». L’amato implora di poter vedere il viso dell’amata e sentire la sua voce.

c) La voce della sposa: vv. 15-17

Il v. 15, un breve canto enigmatico, riprende l’immagine della vigna, per descrivere il corpo dell’amata. Qui le vigne in fiore rappresentano gli stessi amanti e il loro amore, pronto a essere donato. Le volpi costituiscono un pericolo per le vigne, sono dunque un pericolo per l’amore. Probabilmente l’amata potrebbe alludere ad altri spasimanti che le stanno facendo una corte spietata, non nascondendo così un pizzico di civetteria. L’amata è una vigna con le viti in fiore, che produce un vino inebriante, per la gioia dell’amato.

Le carezze affettuose e le tenerezze eccitanti, più dolci del vino, che i due amanti si scambiano definiscono meglio questo dialogo. Che non è fatto solo di parole, ma di «baci sulla bocca» e di amplessi estasianti sigillati dalle parole di lei come formula di alleanza, di reciproca appartenenza: «Il mio amato è mio e io sono sua». L’espressione richiama il testo di Gen 2,23 «carne della mia carne, osso delle mie ossa» pronunciato dall’uomo, senza ombra di sottomissione, di strumentalizzazione, di potere. Si respira aria pura, di prima creazione, di armonia nella differenza di sessi. Qui è la donna a manifestare questo sentimento, ma ambedue scoprono e riconoscono la propria identità nella differenza, comprendono di essere destinati a una fusione, a una comunione di vita, simile a quel Dio “uno”. Non c’è nessun richiamo alla discendenza, nessun riferimento alla finalità procreativa. Si celebra l’amore, e basta; quello che permette all’uomo di contemplare estasiato la sua donna per divenire con lei un essere umano.

Per continuare… un invito

Occorre anzitutto recuperare una teologia sponsale. Questa ci potrà aiutare a scoprire che è lo stesso Gesù, con la sua Parola e con i suoi gesti, fondamento del sacramento del matrimonio. Nell’ultima cena agisce nei confronti della comunità apostolica, come lo Sposo verso la Sposa, determinato a comunicare la propria vita. Nel segno del pane e del vino si offre per divenire con lei una sola carne.

Egli ha trovato una “nuzialità ferita” e la sua missione è stata quella di ricostruire una nuova relazione con Dio, così come in principio. La morte sancisce l’unione tra Gesù e la sua umanità/sposa, la quale è invitata ad accettare il dono della vita nuova nello Spirito. Insieme danno inizio alla celebrazione delle nozze messianiche e al compimento dell’alleanza prefigurata nel Primo Testamento tra Dio e il suo popolo.

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La comunità/sposa partecipa intimamente a questo evento nuziale e in attesa del compimento finale invoca: «Lo Spirito e la sposa dicono: vieni!» (Ap 22,17).

Nella vicenda dell’amore umano esaltato nel Cantico dobbiamo intravedere la stessa dinamica della storia della salvezza. Come Abramo e Mosè seguono la voce di Dio, così la giovane è invitata a seguire la voce dell’amore, a lasciare la sua famiglia per fondarne una nuova.

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La strada come luogo dell’evangelizzazione

LECTIO DIVINA SU At 3,1-10

(a cura di don Baldo Reina)

Premessa

Il brano è tratto dal libro degli Atti degli Apostoli, che, secondo la tradizione, è attribuito allo stesso autore del Vangelo secondo Luca. Si tratta di un testo fondamentale per comprendere le dinamiche della Chiesa nascente (di fatto il testo narra i primi 30 anni della vita della Chiesa) e, pertanto, della Chiesa di tutti i tempi. La lettura degli Atti costituisce una sorta di ritorno alle origini che consente in ogni snodo della storia di recuperare le motivazioni, i principi fondativi e la corretta comprensione dell’essere comunità dei credenti, ecclesia.

Il programma di tutto il libro è presentato nei primi versetti: «Non spetta a voi conoscere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,7-8). Di fatto i 28 capitoli che compongono il libro descrivono esattamente questo movimento: la comunità apostolica, dopo l’evento di Pentecoste, inizia ad annunciare a tutti il “Vangelo”, partendo da Gerusalemme e arrivando, sul finire del testo, nel cuore della capitale dell’Impero: Roma.

Grande protagonista di questa stagione è lo Spirito Santo (tanto da portare alcuni a definire Atti il Vangelo dello Spirito), che guida gli apostoli dapprima verso gli ebrei e, lentamente, dopo un difficile discernimento, verso i pagani perché anche questi si aprano alla salvezza operata da Cristo.

Il tema della “strada” e il suo rapporto con la Chiesa, scelto per questo primo modulo formativo, lo si può facilmente comporre a partire dagli Atti poiché subito dopo la discesa dello Spirito Santo gli apostoli iniziano a percorrere le strade della Giudea, ad annunciare per strada il Vangelo; gli incontri avvengono per strada, le conversioni nascono lungo le strade o le piazze… Quella che emerge dagli Atti è una “Chiesa di strada”. La preoccupazione delle strutture (fisiche e organizzative) è superata dall’urgenza di mettersi per strada per dire a tutti il Vangelo e, cioè, che «quel Gesù che voi avete crocifisso Dio lo ha risuscitato e noi ne siamo testimoni».

Analisi del testo

Il capitolo secondo si apre con la descrizione dell’evento di Pentecoste e si chiude con il sommario sulla prima comunità: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli» (At

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2,42-43). Subito dopo il nostro brano, a partire dal v. 11 è presentato il discorso di Pietro al popolo. In mezzo, tra la descrizione della comunità e la predicazione di Pietro, il testo scelto per la nostra Lectio che narra la guarigione di uno storpio nei pressi di uno degli accessi al Tempio.

Il testo ha una struttura molto semplice: i vv. 1-2 fanno da introduzione: descrivono il luogo, il tempo, e i diversi soggetti (Pietro e Giovanni che stanno andando a pregare, lo storpio che è stato collocato lì per ricevere qualche elemosina). Il v. 3 presenta la richiesta dello storpio. Nei vv. 4-6 l’autore riporta il dialogo tra Pietro e Giovanni e lo storpio. A quest’ultimo, che chiedeva l’elemosina, i due apostoli fanno un annuncio chiaro: Gesù Nazareno, unica loro ricchezza. I vv. 7-8 descrivono le azioni compiute dagli apostoli e quelle realizzate dallo storpio. In questi 2 versetti non vi sono parole ma soltanto gesti dinamici. I vv. 9-10 chiudono il brano raccontando la reazione del popolo.

Questa proposta di suddivisione del testo può aiutare a cogliere il punto centrale che è costituito dall’annuncio kerygmatico: «Nel nome di Gesù, il Nazareno, alzati e cammina». A partire da questo schema vogliamo suggerire qualche approfondimento per entrare nel cuore della Parola e per consentire alla Parola di entrare nel cuore della nostra vita.

a) La strada come opportunità

I due apostoli stanno per entrare nel Tempio e lo storpio è messo proprio lì, davanti la porta. Si tratta di una strada di passaggio o, per meglio dire, di una piazza, di un incrocio di sentieri umani. Tutti e tre hanno in mente il Tempio e tutti e tre abitano una strada: i primi per arrivare nella casa di Dio, l’ultimo nella speranza di ottenere qualcosa.

L’incontro avviene in quella piccola porzione di terra dove, fino a quel punto, si stava consumando una crisi: la crisi esistenziale dello storpio, la crisi/discernimento della comunità apostolica ancora unita agli Ebrei e da poco uscita dalla paura di affrontare il mondo. Quella strada delimita il contesto socio-culturale dei soggetti protagonisti e ne descrive già il contenuto. È una strada “orientata” e, perciò, carica di attese. La svolta avviene quando tutti si accorgono di ciò che avviene su quella strada. Il testo utilizza molto il verbo «vedere»: lo storpio vede i due che stanno per entrare e gli apostoli fissano lo sguardo sullo storpio. Potremmo dire che affrontano la strada “con gli occhi aperti” e questo consente loro di accorgersi di ciò che avviene su quella strada.

Pietro e Giovanni che si fermano diventano l’emblema di una Chiesa che è capace di fermarsi e di soffermarsi, di capire e di compatire, di vedere e di chinarsi. La contrapposizione non è tra Tempio e strada, ma tra vedere e non vedere. Perché si può anche stare per strada e non accorgersi di nulla. I due apostoli sanno “abitare la soglia”, sanno fare da ponte tra la ricchezza del Mistero che è racchiuso nelle sacre mura e la profondità di Colui che è stato fatto «poco meno degli Angeli» (Sal 8).

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b) Dalla conoscenza del bisogno all’annuncio di Colui che libera dal bisogno

Nei dialoghi non c’è alcuna forma di disprezzo. Tutto si svolge con delicatezza e carità. Lo storpio si gira verso i due nella speranza di ricevere qualcosa. Aveva fatto l’abitudine a questo stato di prostrazione. Forse era sfruttato da altri (come avviene anche ai nostri giorni), forse aveva davvero bisogno. Non ci è dato saperlo.

Sappiamo che i due apostoli non lo disprezzano, non lo umiliano. Lo ascoltano, gli fanno spazio nella loro vita, lo fanno sentire importante fissandolo negli occhi e soffermandosi a parlare con lui. C’è un’attesa in tutti e tre: lo storpio attende l’elemosina e gli apostoli attendono di poter dire e dare il Cristo della vita. Tutti tendono verso. È proprio il “verso” a qualificare l’attesa. Perché può succedere di tendere “verso” cose piccole e allora l’esito non può che essere fallimentare. Se invece si sa tendere “verso” l’Alto, la vita intera si innalza.

Ecco perché Pietro e Giovanni con franchezza affrontano l’annuncio più grande: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù, il Nazareno, alzati e cammina». Allo storpio che chiedeva qualcosa i due sanno dare Qualcuno; il loro annuncio parte dalla situazione del bisogno, ma la supera con una proposta liberante e di risurrezione: «Alzati e cammina!».

c) Il cammino che va dalla strada verso il Tempio (e viceversa)

Prima dello stupore del popolo, il testo presenta attentamente tutti i gesti dei soggetti finora descritti. Pietro prende per mano lo storpio e lo solleva e questi balza in piedi, si mette a camminare, entra nel tempio, salta e loda Dio. La scena statica dell’inizio si trasforma in una vera e propria danza. La crisi è diventata festa, il non-senso dell’attesa è diventato pienezza di vita alla presenza dell’Atteso, le mani atrofizzate nella speranza che cada qualche moneta si aprono alla lode. Tutto cambia e tutto si riveste di luce. Quell’uomo abbandonato alle porte del tempio adesso è in grado di prendere l’iniziativa e diventare, a sua volta, evangelizzatore per altri che ancora non hanno incontrato Gesù.

Quest’ultima parte del brano ci consente di cogliere meglio l’orientamento della strada (a cui si faceva prima un accenno). Alla fine tutti entrano nel Tempio e lì lodano il Dio della vita. Ma, a questo punto, non è difficile andare oltre il Testo e immaginare ciò che è accaduto a quell’uomo. Data l’esplosione di gioia che lo ha invaso, certamente ha ripreso a percorrere le strade della sua città e, anche claudicante, si è fermato con ognuno per dire che nel nome di Gesù il Nazareno era possibile rialzarsi da ogni forma di appiattimento per affrontare le sfide e le difficoltà.

Il suo movimento circolare – dalla strada al Tempio e dal Tempio alla strada – diventa la cifra dell’evangelizzazione, che parte dalla strada (dalla condizione concreta dell’uomo di questo tempo), arriva al Tempio (per consentire l’incontro con Dio) e dal Tempio riparte per raggiungere altri uomini.

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Abitare le periferie dell’esistenza

LECTIO DIVINA SU Lc 19,1-10

(a cura di Maria Parello)

Il testo e il suo contesto

Il testo indica ed esprime quello che è l’incontro tra l’uomo e Dio. La prima cosa da precisare è che l’iniziativa parte sempre da Dio. È Gesù, infatti, che decide di andare a Gerico, città non centrale ma periferica, nota per la situazione di corruzione e peccato, luogo quindi marginale sia dal punto di vista geografico, lontano dalla Città Santa, che dal punto di vista morale.

Gesù entra in questo luogo maledetto per cambiarne le sorti, perché non solo entra nella città, ma addirittura l’attraversa; non rimane cioè ai confini, ai bordi, ma si lascia impolverare dal suo suolo, contaminare dalla sua aria. Non bisogna dimenticare, infatti, che nella cultura semitica avvicinarsi a un peccatore o passare in un luogo noto per la sua corruzione morale significava contaminarsi. Eppure Gesù non teme il contatto con i malati, con i peccatori, né il passare e sostare nei luoghi noti per la loro decadenza morale. Entra a Gerico e l’attraversa, perché è solo attraversandola che può farsi conoscere e redimere gli uomini che la abitano. Il motivo del suo passaggio è ben espresso alla fine della pericope al v. 10: Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.

Dio compie il cammino inverso rispetto a quello che fa l’uomo, il quale scappa dinanzi ai poveri, ai malati, ai peccatori. Dio, al contrario, si avvicina a tutte le forme di decadenza e bruttezza umana, ne assume le fragilità, per offrire la sua grandezza; del resto l’incarnazione di Dio è proprio questo misterioso scambio d’amore in cui l’uomo ci mette tutta la sua piccolezza e fragilità per ricevere in dono tutta la grandezza di Dio.

Ritornando a Zaccheo, si precisa che al passaggio di Dio deve corrispondere l’adesione umana. Gesù entra a Gerico e l’attraversa, ma anche Zaccheo deve metterci del suo perché questo passaggio di Dio non risulti vano. Infatti Zaccheo fa di tutto per realizzare il suo desiderio: vedere Gesù.

Occorre precisare che il testo su Zaccheo dà alcune informazioni importanti. È scritto, infatti, che è un uomo, capo dei pubblicani e ricco, basso di statura, ma – cosa più importante – è detto il suo nome, Zaccheo. In queste informazioni Luca racchiude tutta la storia di quest’uomo, che di certo non era ben visto dalla sua gente; anzi, sembrerebbe goderne di tutto il disprezzo perché è capo dei pubblicani, una sorta di usuraio, e addirittura capo degli usurai, che vessava il suo popolo ed era ricco. Per l’evangelista Luca la ricchezza è sempre sinonimo di peccato, perché se c’è un ricco, c’è certamente un povero a cui sono stati sottratti dei beni dovuti.

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“Basso di statura” indica uno stato che non è, quindi, solo fisico, ma anche morale; esprime, infatti, una situazione di peccato in cui l’uomo vive. Ma queste informazioni racchiudono nel contempo una grande positività, perché nonostante tutto Zaccheo è un uomo, quindi destinatario della salvezza, come espressamente detto attraverso la menzione di Abramo e il legame con lui. Zaccheo è figlio di Abramo, e di lui conosciamo il nome proprio. Non sempre nella Scrittura questo viene indicato; spesso i soggetti restano nell’anonimato attraverso l’uso di termini generici come un tale, un uomo, ecc.

Nella Scrittura i nomi non sono mai a caso, anzi sono parlanti perché recano un messaggio. Il nome Zaccheo racchiude una sua teologia, che la pericope sviluppa. Zaccheo, in ebraico זכי (Zakkay), deriva dal verbo זכר (zaqar), che ha due significati: Dio si ricorda oppure puro, innocente, nitido.

Nel nome c’è tutta una storia, un significato, un cammino. Zaccheo, il peccatore, con la sua condotta ha tradito la sua profonda essenza, che è quella di essere il puro, e allora Dio si ricorda di lui e gli consente di riappropriarsi della sua vera identità di uomo e di figlio di Abramo. C’è quindi racchiusa nel nome un’identità precisa, che indica un rapporto personale con Dio e nel contempo con i fratelli, che non sono più nemici da sfruttare ma persone da aiutare e amare, condividendo con loro le proprie ricchezze materiali («do metà dei miei beni ai poveri») ed anche morali, attraverso l’esempio («se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto»).

Zaccheo da peccatore sfrutta gli altri e da loro viene allontanato perché di lui hanno paura, da puro invece diventa esempio trascinatore per chi ha occhi per vedere, ma non per quella folla anonima e cieca, incapace di vedere al di là di sé.

Zaccheo ha un desiderio: vedere Gesù. E si attrezza per farlo. In questo desiderio è espressa un’apertura, una disponibilità al cambiamento, una preghiera inespressa ma attiva, perché lo porta a capire la logica di Gesù, ossia dove sta andando, il cammino che intende compiere, così da precederlo senza temere il giudizio della folla. Nonostante tutte le sue ricchezze non può vedere Gesù, perché basso di statura, e sale su un sicomoro. Si espone, quindi, alla derisione, lui che è un uomo ricco, non un semplice pubblicano, ma addirittura capo dei pubblicani.

Questo elemento è soggetto almeno a due interpretazioni. Un’interpretazione letterale: a causa della sua bassezza fisica ha bisogno di elevarsi. E un’interpretazione spirituale: ha bisogno di elevarsi spiritualmente per potere vedere Dio e ha bisogno di aiuto. Questo aiuto gli viene offerto dal sicomoro, che, oltre a essere un albero, rappresenta tutto ciò – persone, strutture, situazioni – che gli consente di vedere Dio.

Passando di là Gesù alza lo sguardo e parla proprio con lui, lo chiama per nome, sembra conoscerlo e a lui si rivolge con un tono – fatto di parole, gesti, sguardi, espressioni – che cambia la vita dell’uomo Zaccheo.

Il messaggio di Gesù racchiude un invito che Zaccheo accoglie con gioia e prontezza. Gesù dice: «Devo fermarmi a casa tua». Non indica la semplice casa, la costruzione in muratura, ma la dimora, il luogo dove abita il suo cuore, la sua stessa

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vita. Da quel momento, infatti, Gesù non vivrà fisicamente a Gerico, ma spiritualmente nella vita di Zaccheo, che diventa, per così dire, un uomo nuovo, un altro Cristo, capace di rinunciare alle sue stesse ricchezze per donarle ai poveri.

Al contrario la folla è anonima, di lei è detto: «Vedendo ciò tutti mormoravano». La folla vede solo con gli occhi del corpo e allora giudica Gesù, non è capace come Zaccheo di lasciarsi trasformare da quell’incontro. La folla è vicina a Gesù fisicamente molto più di Zaccheo, eppure non si lascia toccare dalla sua grazia ed è capace solo di mormorare contro Gesù, non di gioire per il cambiamento di vita di Zaccheo, anche perché è così piena di sé da non cogliere né la grandezza di Gesù né la conversione di Zaccheo.

Il messaggio, in riferimento al testo, è possibile sintetizzarlo così: Dio decide di farsi vicino all’uomo, al peccatore, entrando nella storia e nello spazio più infimo in cui egli vive. L’iniziativa è sempre di Dio ed è gratuita. L’uomo deve essere disponibile alla grazia per poterne godere dei benefici. Il primo passo lo compie Dio, ma l’uomo deve metterci del proprio, deve superare i limiti esterni e interni, come fa Zaccheo. Ma l’incontro con Dio può anche essere infruttuoso, come avviene per la folla: è vicina a Gesù, eppure non è capace di coglierne la grandezza.

L’uomo Zaccheo è spinto dal desiderio di vedere Gesù, ma Dio gli dà di più: non solo si lascia vedere, ma addirittura alza lo sguardo su di lui, lo chiama per nome, gli conferisce cioè una nuova vita, perché il dire di Dio dà vita, va ad abitare nella sua casa, gli dona la salvezza e può donarla perché è lui, Gesù il Salvatore, il figlio dell’uomo, il Signore.

L’incontro con Gesù cambia la vita di Zaccheo. Questo cambiamento è manifestato con scelte precise, radicali e nette e con una confessione di fede: «Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Zaccheo fa prima la sua confessione di fede, chiama Gesù «Signore», lo riconosce come Dio, e poi indica come vivere da uomo toccato dalla potenza della misericordia divina, perché chi incontra veramente Dio e si lascia toccare dalla sua grazia non può non donare e donarsi senza riserve. Che non ci accada di cercare di Dio e non riconoscerne il passaggio come quella folla anonima!

Applicazione alla vita

Il brano evangelico dell’incontro di Gesù con Zaccheo è soggetto a diverse interpretazioni per le varie sfaccettature che presenta, ma se ne prenderanno in considerazione solo alcune, in ragione del tema scelto dell’“abitare le periferie”.

La “periferia” del testo è espressa dalla città di Gerico, da tutto quanto già scritto in merito e anche dalla situazione di peccato in cui vive Zaccheo. Egli è descritto come capo dei pubblicani e ciò indica un’assenza di spiritualità e una smodata sete di potere, un egocentrismo sfrenato con la conseguente mancanza di cura del prossimo. Il testo indica, inoltre, un’altra povertà che è quella della cecità della folla,

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della sua autocommiserazione e nel contempo del vittimismo, del ripiegamento su di sé, con l’incapacità di cogliere la grandezza dell’evento: il passaggio della grazia divina e la salvezza di Zaccheo. E infine il più grande peccato umano, l’ingratitudine: anziché ringraziare Dio per il miracolo compiuto, la folla mormora.

Al contrario, Zaccheo non mormora, non giudica, ma si alza, si eleva, non solo fisicamente ma anche moralmente, facendo una confessione piena che è un vero pentimento, in cui è già inclusa la riparazione: una forma di riparazione più alta di quella che la legge richiedeva o che Gesù stesso gli avrebbe chiesto. Chi incontra e si lascia toccare dalla grazia di Dio non rimane muto al grido di aiuto del prossimo né rimane ancorato alle proprie ricchezze, ma è portato a donare tutto e a donarsi in pienezza.

«Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri». Magnifica, questa dichiarazione, preceduta dall’«Io»: è lui che si impegna in prima persona. Spesso noi siamo bravi a impegnare gli altri; spesso su noi siamo parchi, mentre sui beni degli altri siamo sempre tanto generosi.

«…e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Innanzitutto non è detto che Zaccheo abbia rubato: quel «se» indica una possibilità che potrebbe non esserci stata frode. Segue, comunque, la riparazione: restituire per quattro volte il mal preso. Nessuna legge umana lo richiede e Dio stesso non avrebbe preteso tanto, ma quando l’uomo è toccato dalla grazia divina, così come Dio, trabocca in generosità e non si risparmia in nulla.

Ogni uomo, come Zaccheo, nel suo cammino verso la grazia è impedito da due elementi: la folla, che rappresenta l’ostacolo esterno, costituito da convinzioni, pregiudizi, opinioni comuni, abitudini; e i propri limiti, ostacolo interno, la propria statura morale. Ogni uomo, come Zaccheo, è chiamato a non arrendersi e a superare i propri limiti, perché la grazia di Dio non ha limiti ed è gratuita. Ma l’uomo non può restare inerme: deve metterci del proprio, deve muoversi verso di lei e lasciarsi plasmare dalla misericordia senza limiti.

Dio ci dà di più di ciò che gli chiediamo. Zaccheo voleva solo vedere Gesù; Dio gli dà di più, gli parla e gli offre la possibilità di cambiare vita, solo se lui lo vorrà. All’invito di Gesù «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» segue la prontezza di Zaccheo, accompagnata dalla gioia.

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Sezione Quarta

STRUMENTI LITURGICO- PASTORALI

Veglia di Avvento

NELL’ATTESA DELLA SUA VENUTA…

(a cura del Centro per il Culto e la Liturgia)

Schema della Celebrazione (fuori dal contesto di una Celebrazione Eucaristica)

1. Canto

2. Introduzione

3. Lucernario

4. Parola di Dio

5. Segni

6. Riflessione

7. Intercessioni

8. Benedizione

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Novena del S. Natale

DIO AL PASSO CON LA SUA CREATURA

(a cura del Centro per il Culto e la Liturgia)

Articolazione delle tematiche

1. Primo giorno (16 dicembre) LA CREATURA SMARRITA Gen 3,8-11: Adamo, dove sei?…

2. Secondo giorno (17 dicembre) LA RICERCA DELLA TERRA PERDUTA Gen 12,1-4: Abramo, esci dalla tua terra…

3. Terzo giorno (18 dicembre) IL GRIDO DELLO SCHIAVO Es 3,1-9: Mosè, ho ascoltato il grido del mio popolo…

4. Quarto giorno (19 dicembre) L’AMORE TRADITO E UMILIATO Os 2,16.21-22: Osea, ti condurrò nel deserto…

5. Quinto giorno (20 dicembre) IL PELLEGRINO PERSEGUITATO 1 Re 19,1-8: Elia, prendi la mia vita…

6. Sesto giorno (21 dicembre) LA DIGNITÀ VIOLATA Gv 4,5-15: Donna, se tu conoscessi il dono di Dio…

7. Settimo giorno (22 dicembre) LA CATENA DELLA RICCHEZZA Mc 10, 17-22: Giovane, una cosa ti manca…

8. Ottavo giorno (23 dicembre) I SOGNI INFRANTI Mt 1, 18-25: Giuseppe, non avere paura…

9. Nono giorno (24 dicembre) LA RICERCA DI SENSO Lc 1,26-25: Maria, lo Spirito Santo scenderà su di te…

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Schema della Celebrazione (fuori dal contesto di una Celebrazione Eucaristica)

1. Canto

2. Introduzione

3. Lucernario

4. Salmodia

5. Parola di Dio

6. Testimonianza

7. Riflessione

8. Magnificat

9. Intercessioni

10. Benedizione

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Veglia del S. Natale

NEL CUORE DELLA NOTTE MI ALZO PER INCONTRARTI (a cura del Centro per il Culto e la Liturgia)

Schema della Celebrazione (Veglia e Celebrazione Eucaristica nella Notte santa del Natale)

1. Canto

2. Introduzione

3. Canto delle Profezie

4. Parola di Dio

5. Proclamazione della Kalenda

6. Ingresso dell’immagine di Gesù Bambino

7. Gloria

8. Colletta

9. Liturgia della Parola

10. Liturgia Eucaristica

11. Riti di conclusione

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NOTE

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