AR T I 357 · fosse, invece, un fenomeno originariamente ita liano, pervertito o comunque...

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_ LE AR T I -------------- ---- - - 357 -- - silenzio, che subito le riassorbiva, non erano xneno arte di quelle fissate per simboli grafici sul pentagramma? E che non il tempo le rifiu- tava, ma esse stesse respingevano il tempo , che nulla avrebbe aggiunto all'eternità, rag- giunta nell'istante del suono? Ma poichè si parla di pura forma, bilicata sull'equilibrio instabile d'una tecnica rischiosa, di forma compiuta in se stessa, incapace di contenuti, contradditoria a tutti i contenuti, come non indicare di tutte le celesti follie la più lucida tranquilla e bonaria, ma anche la più inguaribile, la più distaccata, la più au- strale: la tipografia? N elle vecchie esposizioni, onesta mente dedicate alla Scienza e al Pro- gresso, il Bodoni era molto riverito: e tutti, da ragazzi, l'abbiamo immaginato come un filant ropo dedito a sfornare e distribuire senza posa il pane della scienza. Il bonario filantropo era, forse, di tutti, il più sofistico. Per lui l'e spres- sione era soltanto misura. importa sapere, che cosa misuri la sua pagina elaboratissima. Mis ura d'un ritmo senza suono, clessidra senza temp o, è l'arte del Bodoni. L'intervallo bianco tra due righe nere, l'arabesco d'una maiuscola, l'alline arsi pausato dei caratteri sono pura for- ma: dunque, pura poesia. E se non addito, di certo, il Bodoni all'imitazione dei tipografi mo- derni , che sarebbe come proporre agli scultori l'imitazione del Canova, quanto insegnamento, in questo ritmo della tipografia bodoniana, per que gli artisti d'oggi, che non credono di poter realizzare la loro umanità , se non nelle dimen- sioni monumentali della rettorica. Da queste osservazioni, che non vogliono essere un contributo alla critica dei tre grandi che celebrate, io non saprei vorrei ricavare , qui, altra conseguenza che la conferma della mi a premessa: che, cioè, nella storia della cul- tur a italiana, Parma ha una coerenza che passa indubbiamente, senza interrompersi o deviarsi, per questi tre artisti. Passa e non si conclude: chè la nobile eleganza neo classica di questa citt à napoleonica e stendhaliana ci porgerebbe l'oc casione di sviluppare, per l'urbanistica e l'ar chitettura, concetti analoghi a quelli che in- dic ammo. E poichè Giuseppe Verdi è, sebben de l contado, parmense, mi piace concludere, constatando che l'atmosfera rarefatta e, tal- vo lta, per certi polmoni, anche troppo ossige- nata, delle culture sottili e delle tradizioni sele- zionate può dar luogo alle più feconde germina- zioni e alle più lus sureggianti fioriture creative. Del resto, a chiarire la funzione di Parma nella cultura italiana e, cioè, il valore dell'ita- lianità, che quella cultura coltivò e maturò per i tempi propizi, basterà pensare al contributo essenziale che Parma ha dato all'unità d'Italia E si capisce, quando si ritorni con la mente alle premesse del mio discorso. Un fatto d'or- dine politico determina il tono della varia spi- ritualità delle città italiane: l'essere state ca- pitali, l'aver avuto diretti rapporti col mondo, anche e soprattutto, quando lo Stato non coin- cideva con la Nazione italiana e la politica automaticamente si riduceva a una esosa pra- tica polizies ca e fiscale. In quella imposta mi- seria morale, i vecchi municipi, le antiche tra- dizioni comunali riprendevano vigore, conser- vavano nelle culture locali gli argomenti e i motivi per le rivendicazioni imminenti; diven- tavano, insomma, il simbolo d'una libertà esule, perseguitata e combattuta, ma sempre inquie- tamente attesa, desiderata e preparata. Ecco perchè, anche in questa solenne ora d'attesa per la nostra Nazione, il ricercare e ravvivare quegli argomenti e motivi non è eser- citazione dilettantistica, ma concreta afferma- zione di primato della cultura perchè è con questa e solo con questa, che i risorgimenti si fanno e gl'imperi si conquistano, si difendono, si potenziano e si liberano dalle soggezioni. GIUSEPPE BOTTAI PER LA XXII BIENNALE. Questa XXII Biennale s'inaugura in un cli- ma di raggiunta concordia nelle arti. Noi sap- piamo, che l'arte intrapreIJ.de il suo cammino sicuro nel momento in cui le polemiche, che pur concorrono a irrobustire gli ingegni nella spinta essenziale delle idee, si tacciono e si compongono in un proposito di lavoro costrut- tivo. Anche per le arti appare valido l'insegna- mento politico, secondo cui l'azione determina la dottrina. Ma ogni età dell'arte, come ogni età politica, deve prima di tutto riscattare, dinanzi alla co- scienza dei suoi uomini, le ragioni d'una intrin- seca modernità, che riproponga costantemente un linguaggio di rinnovamento e d'anticipazio- ne, pena la decadenza. D'altra parte, è ben presente al nostro spirito un ragionamento: ehe nulla d'assolutamente nuovo può esistere, a meno di cadere in un dilettantismo avulso dal tempo e dalla storia e, di per sè stesso, privo di forza creatrice e di persuasiva morale. Nel dilemma ci assiste e ci guida il nostro fermo proposito di intendere la tradizione come un perpetuo movimento di valori integrantisi a vi- ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte

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silenzio, che subito le riassorbiva, non erano xneno arte di quelle fissate per simboli grafici sul pentagramma? E che non il tempo le rifiu­tava, ma esse stesse respingevano il tempo, che nulla avrebbe aggiunto all'eternità, rag­giunta nell'istante del suono?

Ma poichè si parla di pura forma, bilicata sull'equilibrio instabile d'una tecnica rischiosa, di forma compiuta in se stessa, incapace di contenuti, contradditoria a tutti i contenuti, come non indicare di tutte le celesti follie la più lucida tranquilla e bonaria, ma anche la più inguaribile, la più distaccata, la più au­strale: la tipografia? N elle vecchie esposizioni, onestamente dedicate alla Scienza e al Pro­gresso, il Bodoni era molto riverito: e tutti, da ragazzi, l'abbiamo immaginato come un filantropo dedito a sfornare e distribuire senza posa il pane della scienza. Il bonario filantropo era, forse, di tutti, il più sofistico. Per lui l'espres­sione era soltanto misura. Nè importa sapere, che cosa misuri la sua pagina elaboratissima. Misura d'un ritmo senza suono, clessidra senza tempo, è l'arte del Bodoni. L'intervallo bianco tra due righe nere, l'arabesco d'una maiuscola, l'allinearsi pausato dei caratteri sono pura for­ma: dunque, pura poesia. E se non addito, di certo, il Bodoni all'imitazione dei tipografi mo­derni, che sarebbe come proporre agli scultori l'imitazione del Canova, quanto insegnamento, in questo ritmo della tipografia bodoniana, per quegli artisti d'oggi, che non credono di poter realizzare la loro umanità, se non nelle dimen­sioni monumentali della rettorica.

Da queste osservazioni, che non vogliono essere un contributo alla critica dei tre grandi che celebrate, io non saprei nè vorrei ricavare, qui, altra conseguenza che la conferma della mia premessa: che, cioè, nella storia della cul­tura italiana, Parma ha una coerenza che passa indubbiamente, senza interrompersi o deviarsi, per questi tre artisti. Passa e non si conclude: chè la nobile eleganza neo classica di questa città napoleonica e stendhaliana ci porgerebbe l'occasione di sviluppare, per l'urbanistica e l'architettura, concetti analoghi a quelli che in­dicammo. E poichè Giuseppe Verdi è, sebben del contado, parmense, mi piace concludere, constatando che l'atmosfera rarefatta e, tal­volta, per certi polmoni, anche troppo ossige­nata, delle culture sottili e delle tradizioni sele­zionate può dar luogo alle più feconde germina­zioni e alle più lussureggianti fioriture creative.

Del resto, a chiarire la funzione di Parma nella cultura italiana e, cioè, il valore dell'ita­lianità, che quella cultura coltivò e maturò per

i tempi propizi, basterà pensare al contributo essenziale che Parma ha dato all'unità d'Italia E si capisce, quando si ritorni con la mente alle premesse del mio discorso. Un fatto d'or­dine politico determina il tono della varia spi­ritualità delle città italiane: l'essere state ca­pitali, l'aver avuto diretti rapporti col mondo, anche e soprattutto, quando lo Stato non coin­cideva con la Nazione italiana e la politica automaticamente si riduceva a una esosa pra­tica poliziesca e fiscale. In quella imposta mi­seria morale, i vecchi municipi, le antiche tra­dizioni comunali riprendevano vigore, conser­vavano nelle culture locali gli argomenti e i motivi per le rivendicazioni imminenti; diven­tavano, insomma, il simbolo d'una libertà esule, perseguitata e combattuta, ma sempre inquie­tamente attesa, desiderata e preparata.

Ecco perchè, anche in questa solenne ora d'attesa per la nostra Nazione, il ricercare e ravvivare quegli argomenti e motivi non è eser­citazione dilettantistica, ma concreta afferma­zione di primato della cultura ~ perchè è con questa e solo con questa, che i risorgimenti si fanno e gl'imperi si conquistano, si difendono, si potenziano e si liberano dalle soggezioni.

GIUSEPPE BOTTAI

PER LA XXII BIENNALE.

Questa XXII Biennale s'inaugura in un cli­ma di raggiunta concordia nelle arti. Noi sap­piamo, che l'arte intrapreIJ.de il suo cammino sicuro nel momento in cui le polemiche, che pur concorrono a irrobustire gli ingegni nella spinta essenziale delle idee, si tacciono e si compongono in un proposito di lavoro costrut­tivo. Anche per le arti appare valido l'insegna­mento politico, secondo cui l'azione determina la dottrina.

Ma ogni età dell'arte, come ogni età politica, deve prima di tutto riscattare, dinanzi alla co­scienza dei suoi uomini, le ragioni d'una intrin­seca modernità, che riproponga costantemente un linguaggio di rinnovamento e d'anticipazio­ne, pena la decadenza. D'altra parte, è ben presente al nostro spirito un ragionamento: ehe nulla d'assolutamente nuovo può esistere, a meno di cadere in un dilettantismo avulso dal tempo e dalla storia e, di per sè stesso, privo di forza creatrice e di persuasiva morale. Nel dilemma ci assiste e ci guida il nostro fermo proposito di intendere la tradizione come un perpetuo movimento di valori integrantisi a vi-

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cenda e scambievolmente garantiti dal risultato artistico, che non varia nella sua sostanza, men­tre è diverso nella sua rappresentazione.

Sarebbe facile, oggi, dopo le polemiche degli ultimi anni, dopo gli inviti in pari modo esa­sperati ad un ritorno all'antico o ad un affida­mento supino alla disperata e vana avanguar­dia, sarebbe facile stabilire, con romana sapien­za, il punto d'incontro nel mezzo delle due in­tenzioni programmati che. Sarebbe facile; e, forse, troppo facile. Tuttavia, il lato attivo di queste battaglie dialettiche, che, comunque, non hanno distratto i nostri artisti migliori dal loro lavoro, è fornito dalla possibilità di chiarimento e da quella convinzione definitiva e unanimemente accettata, che all'arte s'arriva dopo una segreta elaborazione del passato con una aderenza non soltanto pubblica e non ' soltanto rettori ca al proprio tempo, con un'assimilazione intima e sincrona ai fatti del proprio tempo.

Al momento in cui, per eccesso di tutela o per malinteso amore, abbiamo udito rivolgere un estremo atto d'accusa agli artisti italiani, gratuitamente imputandoli d'asservimento alla cultura straniera e d'assenteismo rispetto alla realtà sociale del Fascismo, è stato necessario intervenire, per rendere palese e responsabile lo Stato di fronte al prodotto dell'arte, che, per il fatto stesso d'accadere nel giro della sua azio­ne, l'impegnava a riconoscerlo e a meritarlo. E s'è visto, allora, quanto essa arte fosse au­tentica, quanto il suo conclamato europeismo fosse, invece, un fenomeno originariamente ita­liano, pervertito o comunque tralignato, e ma­gari anche diversamente concluso, nell'accapar­ramento fattone dalle cucine artistiche europee. Una fiducia superiore, un'atmosfera di persua­sione e d'amore s'è cosÌ creata intorno agli ar­tisti italiani. Fugate le nebbie reazionarie e le fumate dei rivoluzionari precoci e sprovveduti, è stato possibile introdursi alla comprensione intelligente e serena della nostra arte contem­poranea. Più che un richiamo all'ordine è stato, per gli ingordi e per gli ingenui, un richiamo all'economia e alla realtà più vere dell'arte, alla sua sfera!di virtù e di stupori meditati e sofferti.

Già la precedente Biennale, dopo la quale in certo senso ebbero inizio le battaglie pole­miche, forniva un bilancio attivo della nostra situazione artistica. Successivamente, la Qua­driennale romana imponeva un suggello di qua­lità nella revisione dei nostri maggiori; e ciò si produceva e si produce in èontemporaneità, con altre manifestazioni, che per quanto di­verse, compongono rigogliosamente la poliedri-

ca unità del nostro tempo, documentando un'aderenza sempre più viva dei nostri artisti alla vita della Nazione. Alludo al « Premio Cre­mona », al « Premio Bergamo », campi d'Arte e di Marte, vivai e traguardi: e alludo anche a tutto questo intenso moto di grandi Mostre che non sono un nostalgico appello al passato' ma nel presente, nell'attualità viva si tempra: no: la Triennale di Milano, la Triennale di Na­poli, le Mostre del Partito, le Mostre sindacali e intersindacali, che testimoniano sempre un livello più alto. E non vorrei neppure dimen­ticare, accanto a queste manifestazioni che hanno durata temporale limitata, quelle di ca­rattere permanente: non vorrei dimenticare la prodigiosa attività edilizia, il rinnovamento del­le nostre città: non segni avvisatori, ma dure­voli testimonianze, eloquenti per tutti, di una vita che nell'arte dà prova inconfondibile della sua spiritualità.

Ed ora è la volta di questa XXII Biennale veneziana, che . concede" altresì, d'anticipare la certezza di un'integrale fusione degli spiriti creatori. I giovani si sono fatti le ossa, gli an­ziani hanno ristabilita la loro mai dimessa leal­tà verso l'arte. È la fine del calligrafismo, delle gratuite e vacue « sensibilità». L'arte ha rin­verginato nel suo eterno divenire i canoni fon­damentali della propria esistenza: i valori in­trinseci della forma è del colore, della plastica e dell'architettura. Vi è una stupenda fioritura di artisti nuovi; la gioventù artistica italiana mai, come ora, aveva contemperato e senza reciproca limitazione, l'età giovanile e il do­minio formale. Ad essa spetta un primato: essa avrà il riconoscimento del suo primato. Con ciò, noi non invitiamo gli artisti a far grande e a far epico, noi non interveniamo in alcun modo nel loro processo creativo. È dalla chiara conclusione, motivata nei fatti, che esiste oggi, nuovamente, in Italia, un primato artistico, che ha ben fermi i suoi nomi e le sue date, che noi ricaviamo la fiducia e la disposizione verso i nostri artisti come verso gli « illustratori Il si­curi del nostro tempo. Perchè prima, insieme e dopo il valore delle armi, e in comunione con esso, sono le ragioni dell'ingegno, che assicu­rano la potenza di una N azione. Sono per sem­pre tramontati i tempi, in cui gli Italiani si consolavano della loro miseria politica con la dovizia dell'arte, quasi che questa fosse il sur­rogato d'un concreto imperialismo, a noi pre­cluso da una nostra fatale inettitudine al co­mando politico sostenuto e avvalorato dalla forza d'elle armi. Il comando politico ci spetta: per forza d'armi e per vigore d'arti. Chè armi

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e arti, oltrechè consonare nella parola, hanno il medesimo suono nell'animo d'un popolo, che, come questo italiano, si batte per un'idea d'or­dine e di bellezza.

G. BOTTAI

LA MOSTRA DEL '500 TOSCANO A FIRENZE.

La Mostra che si è tenuta fin dallo scorso aprile a Palazzo Strozzi non era rivolta alla grande arte classica del primo Cinquecento fio­rentino che segnò con Leonardo, Raffaello e Michelangelo la piena maturità del Rinascimen­to, bensì alla complessa evoluzione che a Firenze la segui e vide il sorgere di nuovi intenti, il con­cretarsi e l'evolversi del fenomeno artistico tut­tora designato con l'improprio nome di Manie­rismo.

In questo periodo il centro dell'attività arti­stica italiana si spostò da Firenze a Roma: la vicenda considerata era quindi ormai una vi­cenda regionale. Ma a parte il generale interesse di queste rassegne di singole scuole, questa Mo­stra ne aveva uno più particolare nell'adeguarsi ad uno dei più recenti risultati della critica: la nuova considerazione del momento manieristico. Esso sembrò per secoli solo inerte ripetizione, senza proprie vicende, del linguaggio creato dai grandi artisti del primo Cinquecento: la critica moderna ha riscoperto alte affermazioni indivi­duali entro questa apparente uniformità: ha chia­rito come il Manierismo sorga quale autonoma manifestazione d'arte da un preciso orientamento spirituale diverso da quello dell'arte classica. La stessa denominazione è parsa pertanto im­propria a indicare la vera essenza del fenomeno, inadeguata a significarne tutte le manifestazioni. E si è designata come « reazione anticlassica », come « crisi della forma» la fase decisiva in cui il nuovo orientamento prese coscienza dei suoi scopi che altrove circolavano non chiari nella virtuosistica rielaborazione dei moduli di Raf­faello e di Michelangelo.

Questo avvenne a Firenze, per opera del Pontormo e del Rosso, fin dal secondo decennio del secolo, e si è riconosciuto quanto le loro soluzioni stilisti che furono attive su tutto il Manierismo italiano ed europeo. A ragione quindi s'era fatto della loro arte il nucleo cen­trale della Mostra la quale seguiva poi il com­plesso elaborarsi dei problemi per tutto il se­colo risalendo alla loro origine fin negli ultimi aspetti del Quattrocento.

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Essa non presentava questioni filologiche di singolare importanza. Scarse erano le incertezze attributive, limitate al tondo di Budapest con S. Giovanni Evangelista, male riferito al Gra­nacci e reputato dal Longhi prodotto del Quat­trocento Ferrarese vicino al Costa, alla bellis­sima Sacra Famiglia della Collezione Contini provvisoriamente assegnata al Pontormo ma tanto diversa da lui nel compatto colore, a poche altre opere di minore interesse. Notevole invece l'esemplificazione di artisti da poco me­glio definiti o rivalutati dalla critica, come Pie­tro Candido riconosciuto autore dell'l D eposi­zione e della Natività di Volterra prima asse­gnate al Rossetti, o Filippo Paladino, o il Buontalenti di cui s'è ora rintracciata la prova di una attività pittorica nel ritratto di France­sco I a Prato. E notevoli anche la precisazione su base documentaria delle attribuzioni dei di­pinti nello Studiolo di Francesco I, e la prima presentazione di recenti ritrovamenti: la pala di Villamagna del Rosso; la Fiesole del Tri­bolo e la Giunone dell'Ammannati, e soprat­tutto le due statue marmo ree di Benvenuto Cellini che ne completano la conoscenza come scultore prima Hmitata, si può dire, al solo Perseo e ad opere di minore importanza.

Ma più importante di questi contributi par­ticolari, che completavano senza sostanzialmente innovarlo il quadro storico, era la conferma che la Mostra porgeva alla rivalutazione del manie­rismo operata nella critica, consentendo di se­guirne le singole, laboriose vicende, di rilevarne il lato positivo in elette creazioni individuali. Intento solo sottinteso nel titolo che aveva vo­luto evitare il significato ancora ambiguo del termine (( manierismo », ma evidente nella scelta delll:) opere, nella loro stessa successiva coordi­nazione, nella decisiva importanza data al Pon­tormo, al Rosso, che furono di questa vicenda le figure centraH.

Questa rassegna non poteva pertanto avere più appropriata cornice del Pa~zzo Strozzi, sorto a Firenze tra la fine del '400 e l'inizio del '500, che fin nella sua stessa struttura ri· specchia l'evoluzione spirituale nel trapasso tra i due secoli.

Il recente restauro ha restituito al monu­mento la chiara vastità della sua struttura in­terna, menomata nei 'secoli da suddivisioni mu­rarie. Ha completata anche la bella loggia verso mezzogiorno, rimasta interrotta nei dissesti della famiglia Strozzi. All'esterno del palazzo il ritmo architett.onico è pienamente quattrocentesco. Ma nel cortile si ha il senso di un variare del gusto solo che si ascenda coll'occhio dal loggiato

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