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1 Lezione 1 INTRODUZIONE - Il rabbino spagnolo Nachmanide (Ramban: Rabbi Moshe ben Nachman – 1194-1270) diceva: “Assolutamente tutto quello che accadde al padre accadde ai figli”. - Lo diceva a proposito di Gn 12,10-20: la permanenza di Abramo e Sara 1 in Egitto erano un’anticipazione e una prefigurazione della permanenza di Israele in Egitto e dell’esodo… - Nachmanide, quindi, ma anche il midrash (cf. Genesi Rabbah) interpreta in modo paradigmatico gli eventi della vita di Abramo. - Era un modo particolare per conferire un significato nuovo alle esperienze posteriori. - Fra i patriarchi, la figura di Abramo ha senz’altro un valore unico perché è il primo fra tutti gli antenati. Le sue esperienze sono fondanti e hanno un significato perenne. - Ora, nel mondo antico, tutto quello che è “originario”, dell’“inizio”, del “principio”, della “fondazione”, nei sensi propri dei termini, ha un valore unico, perché decisivo per tutto quello che segue. - Isocrate [retore ateniese v-iv sec. a.C.], Panegirico 8: “L’eloquenza ha questo potere: […] che si raccontino avvenimenti passati come fossero nuovi e che si narrino vicende recenti come fossero antiche”. - Cf. Gal 3,17: “Questo voglio dire: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso [Abramo che credette: 15,6], non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo [Mosè], annullando così la promessa”. - La fede viene prima della legge perché Abramo viene prima di Mosè! - Cf., del resto, anche Gv 8,58: “Prima che Abramo fosse, Io sono”. Excursus su Abramo - La chiamata di Abramo (12,1-4a) è un testo chiave perché fa del patriarca l’antenato di tutti coloro che sono stati in esilio in Mesopotamia, quando “ascolteranno” la voce di Dio che li chiamerà a tornare nella terra promessa. - In 12,10-20 (cf. anche 20,1-18) Abramo sarà l’antenato di coloro che vivono nella diaspora egiziana, perché vi scende per abitarvi per qualche tempo. - Una volta installatosi nella terra promessa (cf. Gn 13), Abramo costruisce altari a Sichem e a Bethel, luoghi tradizionalmente legati alla figura del nipote Giacobbe (cf. 12,6-8; 13,4 // 28,19; 34,18-20; 35,7). Questi luoghi di culto, dunque, risalgono prima ad Abramo che a Giacobbe. - In Gn 14 Abramo fornisce ai suoi discendenti la garanzia che avranno successo in tutte le guerre intraprese (cf. Giosuè). Inoltre, egli, il capostipite, paga la decima al re e sommo sacerdote di Shalem (= Yerushalem), Melkitzedeq, invitando chiaramente tutti i suoi discendenti a imitarlo (cf. 14,18-20). 1 In questi appunti, il patriarca e sua moglie saranno sempre chiamati “Abramo” e “Sara”, indipendentemente dal loro cambiamento di nome (Abram in Abraham, in 17,5, e Sarai in Sara, in 17,15).

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Lezione 1

INTRODUZIONE - Il rabbino spagnolo Nachmanide (Ramban: Rabbi Moshe ben Nachman – 1194-1270) diceva:

“Assolutamente tutto quello che accadde al padre accadde ai figli”. - Lo diceva a proposito di Gn 12,10-20: la permanenza di Abramo e Sara1 in Egitto erano

un’anticipazione e una prefigurazione della permanenza di Israele in Egitto e dell’esodo… - Nachmanide, quindi, ma anche il midrash (cf. Genesi Rabbah) interpreta in modo

paradigmatico gli eventi della vita di Abramo. - Era un modo particolare per conferire un significato nuovo alle esperienze posteriori. - Fra i patriarchi, la figura di Abramo ha senz’altro un valore unico perché è il primo fra tutti gli

antenati. Le sue esperienze sono fondanti e hanno un significato perenne. - Ora, nel mondo antico, tutto quello che è “originario”, dell’“inizio”, del “principio”, della

“fondazione”, nei sensi propri dei termini, ha un valore unico, perché decisivo per tutto quello che segue.

- Isocrate [retore ateniese v-iv sec. a.C.], Panegirico 8: “L’eloquenza ha questo potere: […] che si raccontino avvenimenti passati come fossero nuovi e che si narrino vicende recenti come fossero antiche”.

- Cf. Gal 3,17: “Questo voglio dire: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso [Abramo che credette: 15,6], non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo [Mosè], annullando così la promessa”.

- La fede viene prima della legge perché Abramo viene prima di Mosè! - Cf., del resto, anche Gv 8,58: “Prima che Abramo fosse, Io sono”. Excursus su Abramo - La chiamata di Abramo (12,1-4a) è un testo chiave perché fa del patriarca l’antenato di tutti

coloro che sono stati in esilio in Mesopotamia, quando “ascolteranno” la voce di Dio che li chiamerà a tornare nella terra promessa.

- In 12,10-20 (cf. anche 20,1-18) Abramo sarà l’antenato di coloro che vivono nella diaspora egiziana, perché vi scende per abitarvi per qualche tempo.

- Una volta installatosi nella terra promessa (cf. Gn 13), Abramo costruisce altari a Sichem e a Bethel, luoghi tradizionalmente legati alla figura del nipote Giacobbe (cf. 12,6-8; 13,4 // 28,19; 34,18-20; 35,7). Questi luoghi di culto, dunque, risalgono prima ad Abramo che a Giacobbe.

- In Gn 14 Abramo fornisce ai suoi discendenti la garanzia che avranno successo in tutte le guerre intraprese (cf. Giosuè). Inoltre, egli, il capostipite, paga la decima al re e sommo sacerdote di Shalem (= Yerushalem), Melkitzedeq, invitando chiaramente tutti i suoi discendenti a imitarlo (cf. 14,18-20).

1 In questi appunti, il patriarca e sua moglie saranno sempre chiamati “Abramo” e “Sara”, indipendentemente dal loro cambiamento di nome (Abram in Abraham, in 17,5, e Sarai in Sara, in 17,15).

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- Gn 15 vede in Abramo l’antenato dei numerosi profeti ai quali Dio parla in visioni (15,1) e il primo “credente” di tutta la Bibbia (cf. 15,6). Qui si trova anche a vivere un “esodo prima dell’esodo”, perché la formula adoperata in 15,7 (“Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei”) è pressoché identica alla formula dell’esodo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di servitù” (cf. Es 20,2).

- Inoltre, l’alleanza conclusa qui da Dio con Abramo anticipa quella del Sinai (cf. 15,17-18 e Es 19,18; 24,8). L’unica notevole differenza è che l’alleanza con Abramo è incondizionata e unilaterale, al contrario di quella del Sinai che suppone l’obbedienza di Israele alla Legge. Inoltre, gli animali che Abramo prepara per il rito di alleanza sono tutti animali che saranno menzionati nei rituali della tenda del convegno nel deserto e nel culto del tempio (cf. 15,9-10). Questo spiega la lunga lista di animali, mentre in genere ne bastava uno solo (cf. le “inutili” tortora e colomba che non sono divise…). In questo caso, Abramo è precursore dei sacerdoti del tempio.

- In Gn 17 Abramo inaugura il rito della circoncisione, segno di eterna alleanza tra Dio e i discendenti del patriarca.

- Il racconto di 18,1-15 fa di Abramo un fedele osservante della Legge quando chiede a Sara di impastare focacce con “farina fior di farina” (cf. 18,5) [cf. Congress Volume: Oslo 1998 [VT.S 80].

- L’intercessione di Abramo in 18,16-33 fa di lui il primo fra i grandi oranti di Israele. - Il racconto di Gn 22 descrive nuovamente l’obbedienza di Abramo. Il sacrificio di un montone

“sulla montagna dove il Signore si fa vedere” (cf. 22,14) è il primo sacrificio in assoluto offerto sul monte Moria, monte identificato più tardi col monte Sion, il monte del tempio di Gerusalemme (cf. 2 Cr 3,1).

- L’acquisto di una tomba per seppellire Sara in Gn 23 ha un valore fondante perché è il primo pezzo di terra promessa di cui Abramo diventa proprietario. Anche il resto dei Patriarchi dovrà essere seppellito nella Terra [cf. Abramo (25,7-10); Isacco (35,27-29); Giacobbe (47,29-30; 50,12-14); Giuseppe (50,24-25; Es 13,18-19; Gs 24,32)].

- Infine, Abramo dà un esempio da non trascurare quando chiede al suo servitore di trovare una moglie per suo figlio Isacco e gli fa giurare di sceglierla nella propria parentela e non fra i cananei (cf. 24,3-5). Così, Abramo osserva la legge prima che sia promulgata da Mosè (cf. Dt 7,3-4).

- In poche parole, Abramo vive la sua fede in YHWH che lo chiama e lo accompagna ovunque in un tempo che precede la conquista della terra, la monarchia e la costruzione del tempio di Gerusalemme. Per questo motivo può essere l’antenato di tutti, di quelli che vivono in esilio o nella diaspora, di quelli che vivono nella terra e di quelli che camminano per le vie che conducono o ri-conducono alla terra promessa.

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Lezione 2 A. STATUS QUAESTIONIS: RECENTI SVILUPPI INTORNO ALL’IPOTESI DOCUMENTARIA L’ipotesi documentaria - Julius Wellhausen (1844-1918) è l’esegeta che sistematizzò, nella sua forma classica, la

cosiddetta “ipotesi documentaria”. Secondo la sua teoria, frutto della convergenza dei risultati della ricerca di vari esegeti a lui precedenti nel tempo, il Pentateuco sarebbe frutto di una compilazione di quattro documenti (“fonti”) indipendenti, completi e scritti. Questi documenti furono chiamati “J” (lo Jahwista, dal tedesco “Jahwist”), “E” (l’Elohista, dal tedesco “Elohist”), “D” (il Deuteronomio, dal tedesco “Deuteronomium”), “P” (il Sacerdotale, dal tedesco “Priestercodex” o “Priesterschrift”).

- Per Wellhausen e la sua scuola, questi documenti non darebbero alcuna informazione circa i periodi patriarcali, ma rifletterebbero la situazione di coloro che li scrissero, durante il periodo della monarchia.

La storia delle tradizioni - Questa scuola, il cui capostipite potrebbe essere riconosciuto in Hermann Gunkel (1862-1932),

vuole cercare di andare al di là delle “fonti” scritte per tentare di studiare la tradizione orale che le avrebbe precedute. Sebbene sia molto difficile raggiungere i patriarchi stessi, le tradizioni orali potrebbero fornire agli esegeti elementi provenienti da un milieu vicino agli antenati di Israele (ad es., si pensi a certi aspetti della vita nomadica o semi-nomadica, della religione, ecc.).

- Martin Noth (1902-1968), nel prosieguo della ricerca, intercettò cinque principali tradizioni (orali) all’origine dei cinque principali temi del Pentateuco (patriarchi, esodo, Sinai, deserto, ingresso nella terra promessa).

- Questi cinque temi rappresentano la comune tradizione che avrebbe fatto da base all’Israele pre-monarchico. Queste tematiche con l’andare del tempo divennero le basi per la composizione delle fonti “J” ed “E”, spiegando anche certe loro comuni caratteristiche.

La scuola archeologica - La scuola americana (William Foxwell Albright [1891-1971], George Ernest Wright [1909-

1974], John Bright [1908-1995]) e la scuola francese (Roland G. de Vaux [1903-1971], Édouard Paul Dhorme [1881-1966], André Parrot [1901-1980]) basarono la loro ricerca sulla storicità dei patriarchi, soprattutto a partire da nuove scoperte archeologiche.

- Sotto questa prospettiva, dopo aver studiato il dato biblico, la loro conclusione fu quella che, sebbene l’archeologia non abbia prodotto una sola evidenza extra-biblica che abbia confermato l’esistenza di patriarchi, ci sarebbero sufficienti elementi per affermare la “sostanziale” storicità dei testi biblici e per determinare il (probabile) contesto geografico e storico delle ere patriarcali.

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Critica alle “evidenze” archeologiche - In modo indipendente, Thomas L. Thompson (1939 --) e John Van Seters (1935 --) hanno

criticato le scuole di Albright (scuola americana) e di de Vaux (scuola francese). - Secondo i loro studi, gli argomenti in favore della storicità dei patriarchi non tengono ad un

esame critico. I testi di Genesi riflettono la situazione storica delle persone che li hanno redatti e non quella dei patriarchi stessi.

- Per Th.L. Thompson la storia di Israele inizia con l’esistenza di Israele, ovvero con David, nel X sec. a.C.

- J. Van Seters è ancora più radicale, pensando che le tradizioni su Abramo siano del periodo esilico ed anche post-esilico.

Critica della posizione di Gerhard von Rad (1901-1971) e ulteriori sviluppi - La critica principale mossa da Rolf Rendtorff (1925 --) è diretta contro l’idea di uno Jahwista

come “autore”, così come aveva particolarmente sostenuto G. von Rad. Rendtorff nega che possa esserci una individua “teologia dello Jahwista”, così come aveva sempre asserito von Rad.

- Per lui, ciò che gli esegeti chiamano “J” non può essere il lavoro di un singolo autore perché il documento, ad una lettura approfondita, non appare unificato.

- Il suo principale argomento è che i testi “J” di Esodo non menzionano mai esplicitamente le promesse ai patriarchi. In questo modo, egli propone di distinguere nel Pentateuco cinque “maggiori unità”: la storia primordiale (Gn 1 – 11), le narrazioni patriarcali, l’esodo, il Sinai, il deserto (cf. M. Noth, ma, a differenza di lui, non allo stadio di oralità). Dt è probabilmente responsabile per l’unificazione di queste unità.

- Hans Heinrich Schmid (1937 --) muove alcune dirette obiezioni alla datazione di “J”. Prima di

tutto arguisce che i primi profeti non menzionano affatto alcuna delle supposte antiche tradizioni di Israele (patriarchi, esodo, alleanza...). In secondo luogo, trova ben poche similitudini nel vocabolario, nei temi e nella teologia tra i profeti, Dt e testi “J”.

- Da qui egli propone una data tardiva per “J”. - Il suo discepolo Martin Rose (1947 --) rovescia l’ordine: “J” sarebbe stato scritto dopo la storia

deuteronomistica. Finendo la storia Dtr con la condanna d’Israele e l’esilio, lo scopo di “J”, a lei posteriore, sarebbe stato quello di dare una nuova speranza dopo il disastro del 587 a.C.

- Erhard Blum (1950 --), discepolo di R. Rendtorff, distingue quattro livelli nella redazione della storia patriarcale: a) una “Storia di Giacobbe” composta nel Nord (regno di Israele) sotto Geroboamo I e una “Storia di Abramo” composta nel Sud (regno di Giuda); b) tra il 722 e il 587 a.C., la prima edizione di una “Storia Patriarcale” (“Vg1”) che avrebbe combinato i primi due documenti (cf. a); c) una seconda redazione della “Storia Patriarcale” (“Vg2”) durante l’esilio; d) il “Pentateuco deuteronomistico”, venuto in esistenza dopo l’esilio, nel tardo VI sec. a.C., quando fu espanso per integrare altre “storie” indipendenti.

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B. VALUTAZIONE METODOLOGICA Storicità - La situazione è molto complessa. La posizione radicale (cf. Th.L. Thompson e J. Van Seters),

che ha anche influenzato in un certo modo anche molte “Storie di Israele” recenti, asserisce che il terminus a quo assoluto di una storia di Israele è la monarchia (cf. Jan Alberto Soggin [1926 --]; Niels Peter Lemche [1945 --]). È impossibile andare indietro a quel punto.

- In ogni modo, esegeti come Claus Westermann (1909-2000), R. de Vaux o Albert de Pury (1940 --), ad es., dimostrano di essere meno diffidenti e di ammettere la possibilità di raggiungere, in qualche modo, una base storica al di sotto delle narrazioni.

- A. de Pury ha dubbi circa le tradizioni su Abramo perché il patriarca, fuori di Genesi, viene menzionato solo in testi tardivi (cf., ad es., Is 51,2; Ez 33,24; cf. anche Is 29,22; 41,8; 63,16; Ger 33,26; Sal 47,10; ...).

- Egli manifesta, al contrario, meno dubbi a riguardo di Giacobbe a motivo di Os 12 (profeta pre-esilico), che allude a parecchie vicende del ciclo a lui dedicato.

- Questo significherebbe che il ciclo di Giacobbe sarebbe esistito fin dall’inizio come “ciclo” e non come storie individue e indipendenti.

- Ovviamente, ci sarebbero ancora molte altre posizioni e molte altre sfumature di cui dare ragione. Questo, tuttavia, va al di là di questo succinto sommario.

- Tuttavia, al presente stato della ricerca, una conclusione sembra emergere con una certa chiarezza: le narrazioni patriarcali non danno un diretto accesso al loro sfondo “storico”.

- Da qui la necessità di prendere in seria considerazione la loro forma letteraria prima di trarre qualsiasi tipo di conclusione.

- Con la Scrittura non abbiamo a che fare con ciò che di solito chiamiamo “storiografia”, nel senso moderno del termine.

- Giunti a questo punto, alcune riflessioni di Pierre Gibert (cf., ad es., Une théorie de la légende, Hermann Gunkel et les légendes de la Bible [Paris 1976]) appaiono molto utili.

- Egli distingue tre tipi di testi circa Abramo: a) testi che sono verosimili e credibili (il viaggio e il soggiorno in Egitto, i conflitti con Lot...); b) testi che non sono molto verosimili o facilmente credibili (Abramo ottiene un figlio a cento anni [21,5] da una Sara molto vecchia e senza più mestruazioni [18,11]); c) testi che non sono affatto verosimili né credibili. Ora, di per sé, a proposito di questi ultimi, non ci sono basi per decidere quali siano, come nel caso di Gen 12,1-3; 22,1: non ci sono testimoni della conversazione tra Dio e Abramo. In quel caso il narratore chiede al lettore di credere in ciò che asserisce. In altri termini, il testo richiede fede (fede religiosa) al suo lettore.

- Questa posizione potrebbe essere sfumata. In effetti, i testi citati da P. Gibert contengono una strategia narrativa che non deve essere capita come limitata ai testi religiosi. È comune nella letteratura mondiale trovare un cosiddetto “narratore onniscente” come “testimone privilegiato” di scene senza testimoni.

- In questi casi, il narratore dovrebbe essere, e normalmente è, “affidabile” (altro termine usato dalla critica letteraria).

- Ci sono molti esempi di questo fenomeno. Qualsiasi “monologo interiore”, ad es., presuppone questo “contratto” di affidabilità tra il narratore e il narratario (il lettore).

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- Per rendere più chiaro questo complesso problema, può essere opportuna una ulteriore distinzione tra i differenti generi letterari.

- Che cosa è “storiografia”? Che tipologia di testi troviamo in Genesi 12 – 25?

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Lezione 3 Storia reale (storiografia), storia narrata, leggenda e racconto - Gunkel, nella prefazione del suo famoso commentario a Genesi, introdusse la parola “saga”

(Sage) per definire le narrazioni di Genesi. La migliore traduzione di questa parola potrebbe essere “storia popolare”.

- Egli distingue Sage da Märchen (“racconto”) e da “storia reale (storiografia)”. - Poiché il vocabolario è spesso incerto, è necessario fornire alcune precisazioni circa questi

termini. Storiografia, storia popolare e racconto - La storiografia (ciò che riguarda la storia realmente accaduta) presuppone un mondo reale, il

mondo della nostra esperienza quotidiana che possiamo percepire con i nostri sensi. Lo scopo dello storico è limitato a ciò che egli può verificare attraverso l’evidenza, ossia l’esistenza che ciascuno può sperimentare. Ciò che è al di là di questa sfera rimane irrilevante per la scienza storica.

- Il mondo del racconto, invece, non è il mondo della realtà, ma un universo in cui le leggi dello spazio, del tempo e della causalità sono sospese. I “racconti”, ovviamente, sono senza utilità per lo storico proprio perché il loro universo è al di là della “sperimentabilità”. La loro verità è una verità che riguarda gli umani desideri, i timori e, ovviamente, l’immaginazione.

- In una storia popolare, invece, l’assetto narrativo è giocato sulla frontiera esistente tra il nostro normale mondo e “l’al di là”, tra la realtà e il mistero. Le storie popolari sono testimonianze di incontri con il “numinoso”, con il “sacro”; la loro atmosfera è permeata da “timore e terrore”, tra stupore e meraviglia. Essi implicano un passaggio dall’“ordinario” allo “straordinario”. In qualche modo il racconto popolare si situa tra “storiografia” e “racconto”. Nelle storie popolari, infatti, possono essere intercettati anche degli elementi storici (storiografia), sebbene il loro primo scopo non sia (e qui si deve insistere) quello di comunicare informazioni storiche. D’altro lato, le storie popolari prendono a prestito molto spesso i loro motivi dai “racconti”.

Storie popolari e racconti - a) Persone e luoghi nei racconti sono spesso senza nome e l’universo corrisponde soprattutto a

“desideri”, piuttosto che alla “realtà” (...“il paese delle meraviglie”...). Le storie popolari sono invece legate a luoghi e a personaggi definiti. I loro contesti sono in genere “reali”.

- b) Il narratore di un racconto vuole intrattenere o affascinare il suo uditorio: non vuole essere creduto. Al contrario, il narratore di una storia popolare vuole essere creduto.

Storie popolari e storiografia - a) La storia popolare è normalmente orale e oralmente trasmessa. La storiografia è scritta. - b) Le storie popolari generalmente ritraggono la vita familiare, la vita privata, la vita in piccoli

villaggi o in piccoli paesi. La storiografia riguarda più che altro la vita e gli eventi pubblici. - c) La storiografia è basata su documenti, evidenze e testimonianze oggettive. Le storie

popolari sono basate su tradizioni e su fantasie. - d) La legge della storiografia è quella della verosimiglianza, mentre la non verosimiglianza non

è estranea alle storie popolari.

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- e) La verità della storiografia è “prosaica”; la verità della storia popolare è “poetica” e con qualità estetiche. In altri termini, la sua verità non può essere separata dalla bellezza. A questo riguardo è conveniente anche ricordare i commenti caustici di H. Gunkel, nella sua introduzione al commentario a Genesi (cf. Genesis [Göttingen 1901; 31910] xii, xxvii]), contro quegli esegeti che sono incapaci di apprezzare le qualità estetiche delle storie popolari di Genesi: egli parla di “fromme Barbaren”, ovvero di “pii barbari”, che non possono distinguere tra storia e prosa, da una parte, e tra poesia e storia popolare, dall’altra.

- Secondo le riflessioni di Meir Sternberg (cf. The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading [Bloomington, IN 1985] 7-35, spec. 26), la storiografia è una faccenda di una fattualità oggettiva (“È accaduto o non è accaduto?”) e, perciò, soggetta a una risposta “sì-o-no”. Il lavoro letterario, invece, è una questione di fattualità sottoposta a un giudizio socio-culturale, per cui si dimostra essere infinitamente variabile, a seconda del contesto.

Conclusione - Le definizioni di queste diverse tipologie letterarie sono chiaramente sufficienti per distinguere

teoricamente queste tipologie. In realtà, c’è un buon numero di sovrapposizioni tra la storiografia e la storia popolare, come tra la storia popolare e il racconto.

- Una prima conseguenza di questo fatto sembra essere la necessità metodologica di determinare prima di ogni altra cosa la natura letteraria dei testi.

- Se noi non conosciamo le convenzioni secondo le quali le narrazioni bibliche furono scritte, il tipo di contratto che il narratore ha stipulato col suo uditorio e lo specifico linguaggio che egli ha scelto di adottare, noi saremo completamente persi nell’interpretare il messaggio veicolato dai testi.

- Per usare una semplice immagine, noi potremo capire le parole, ma non saremo in grado di comprendere il significato della frase. Potremmo andare in ricerca di dati storici laddove questo tipo di ricerca risulti completamente estranea ai testi analizzati. Così come potremmo trattare un testo come un lavoro di pura immaginazione laddove esso, invece, tratti di questioni capitali di vita o di morte.

- Alcuni esegeti rifiutano questo tipo di “accostamento letterario” sulla base del fatto che esso trascura la storicità (storiografia) della Bibbia.

- A costoro, tuttavia, si dovrebbe rispondere che un accostamento letterario, così come lo abbiamo definito, è forse uno dei migliori modi di affrontare gli aspetti storici delle narrazioni bibliche, nel senso che l’esegeta è impegnato a giudicare e a misurare il testo secondo norme e convenzioni letterarie con le quali è stato scritto. Queste norme provengono dall’ambiente storico e culturale del testo stesso.

- In altri termini, l’esegeta dovrebbe sforzarsi di leggere i testi del passato secondo le norme e le convenzioni del passato.

Per una postilla - Noi adottiamo la traduzione “storia popolare” per il termine tedesco Sage. Il termine “saga”,

infatti, rimanda di per sé alla letteratura medievale norvegese e islandese. - Il termine “leggenda” non sarebbe adatto per tradurre il sostantivo Sage. Una “leggenda”,

infatti (dal latino legenda, “ciò che è da leggersi”), si applica a) a narrazioni edificanti circa persone sacre; b) a narrazioni che esplicano l’origine di pratiche cultuali (cf. Gs 5,2-9) o di

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santuari (cf. Gn 28,10-22). Inoltre, il termine “leggenda” e l’aggettivo “leggendario” hanno connotazioni negative nell’uso comune. Nondimeno, ci sono autori che adottano per Sage proprio questa traduzione.

- Al contrario, il termine “storia popolare” è un po’ più specifico del termine “storia”, troppo generico e vario da usarsi per tradurre Sage (ma qualcuno lo adotta ugualmente).

- Con “storia popolare”, infatti, si intendono narrazioni in cui vengono a cristallizzarsi tradizioni e credenze di un determinato gruppo umano.

Lo scopo delle storie popolari religiose della Bibbia - a) Lo scopo dei racconti può essere semplicemente quello di intrattenere un uditorio. Essi,

tuttavia, possono anche avere un effetto educativo e catartico sui desideri profondi e sulle paure, spesso inconsci, della psiche umana.

- b) Le “leggende”, invece, intendono “edificare” i loro lettori. Si pensi, ad es., alle molte “leggende profetiche” circa Elia ed Eliseo (spesse volte redatte in un genere letterario non distante dai “Fioretti di San Francesco”). Ora, le storie di Genesi non sempre così edificanti...

- c) Secondo Gunkel, le storie popolari (Sagen) intendono allietare, sollevare l’animo, entusiasmare, commuovere e toccare (cf. Genesis, xii: “[die Sage] will erfreuen, erheben, begeistern, rühren”).

- Questa visione non è certamente errata. Tuttavia, forse evidenzia un po’ troppo gli aspetti estetici della storia popolare in reazione all’interesse storiografico enfatizzato al tempo di Gunkel...

- In questo senso, non tutti i racconti popolari di Genesi raggiungono quello scopo estetico e alcuni lasciano il lettore con sentimenti contrastanti (cf. Sodoma e Gomorra, gli episodi della “moglie-sorella”, la benedizione carpita...).

- Le storie popolari di Genesi dovrebbero forse coinvolgere il loro uditorio solo a livello della sfera estetica ed emotiva?

- I patriarchi sono gli antenati di Israele. Da qui, le narrazioni patriarcali possono influenzare anche l’esistenza e l’identità del lettore israelita.

- d) Erich Auerbach analizza i caratteri peculiari dei racconti biblici (cf. Mimesis: Dargestellte Wirklichkeit in der Abendländischen Literatur [Bern 1946] 12-17). Ciò che la Bibbia presenta non è solo storiografia ma la storiografia; non solo la verità ma la verità. In questo senso, la Bibbia sarebbe una sorta di letteratura ideologica, cercando di descrivere o di imporre al suo lettore una visione del mondo. Ovviamente, la posizione di Auerbach è molto più sfumata di questa semplice asserzione, non dimenticando affatto i suoi peculiari aspetti estetici. Tuttavia, prendendo la sua affermazione come indizio, possiamo dire che la Bibbia, per sua natura, è un’opera didattica? E che il suo scopo è quello di inculcare principi dottrinali o morali?

- e) Meir Sternberg rigetta questa idea. La verità biblica è troppo complessa e il suo ritratto dei comportamenti umani troppo ambiguo perché possa veicolare al suo lettore chiare e univoche lezioni. Invece di polarizzare la risposta emozionale ed etica del lettore in linea con alcuni preconcetti schemi di princìpi, la Bibbia abitualmente genera ambivalenza. Si pensi a Giacobbe, Aronne, Gedeone, Saul, David, Salomone, ...: piuttosto che parlare della loro divina elezione e della loro statura morale, la Bibbia di solito mette in luce la loro incoerenza...

- M. Sternberg propone dunque un diverso accostamento. Secondo lui, i testi biblici sono regolati da un set di tre princìpi: a) ideologico; b) storiografico; c) estetico.

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- Il principio ideologico è principalmente presente nelle leggi, nelle lezioni morali e nelle strutture tematiche (promessa/adempimento; peccato/punizione).

- Il principio storiografico appare nelle date, nelle genealogie, nei nomi e nei luoghi, nelle eziologie, nelle cronologie.

- Il principio estetico è l’“arricchimento immaginativo” del materiale, la foggia e la forma adottate dal narratore per veicolare il suo messaggio al lettore.

- Ma nella Bibbia questi tre principi non possono essere separati. La “storiografia” biblica insegna al lettore l’ideologia biblica mediante mezzi estetici.

- L’ideologia proviene dalla storiografia attraverso l’estetica. - In conclusione, il lettore non può separare il messaggio della Bibbia dal “dramma della lettura”.

La Bibbia non offre informazioni (nemmeno storiche) per il solo gusto di farlo. La Bibbia non insegna una ideologia o una dottrina astratte. La Bibbia invita il lettore a entrare nella sua “esperienza di lettura”, nel suo “atto del leggere”. I valori umani e religiosi, il senso della storia, l’esistenza e l’universo sono inseparabili da quel processo.

La religione dei Patriarchi - a) Nel suo importante studio, Der Gott der Väter (Stuttgart 1929), Albrecht Alt (1883-1956)

affermò che la religione dei Patriarchi ebbe peculiari caratteristiche che la distinsero dalle forme più tardive della religione israelitica.

- Lo scopo principale della pietà patriarcale era “il Dio dei padri”. Alt basò la sua teoria su alcuni paralleli nabatei all’espressione biblica “Dio di Abramo” o “Dio di mio padre”. Per lui questo titolo sarebbe caratteristico della religione nomade.

- In tal senso, la divinità non è vincolata a un luogo, ad esempio ad un santuario, ma a una persona o a più persone, ovvero gli antenati. La divinità è anche anonima, senza nome.

- b) Questa teoria è stata criticata da Matthias Köckert (1944 --), per il quale quei modi di nominare Dio non sarebbero altro che inserzioni redazionali molto recenti (esiliche e post-esiliche) con lo scopo di collegare insieme narrazioni patriarcali di origine indipendente. Anche i presunti paralleli con la letteratura nabatea si rivelerebbero di datazione troppo recente per essere utilizzati a difesa della tesi di Alt.

- In tal senso, diviene molto difficile identificare un antico stadio nomadico della religione di Israele nelle narrazioni patriarcali.

- c) Reiner Albertz (1943 --) ha proposto sull’argomento una visione alternativa ed interessante. Secondo lui, la religione patriarcale non è esattamente un’antica forma di religione israelitica. Per lui si dovrebbe distinguere forme di religione private e familiari da forme di religione pubbliche e ufficiali.

- La religione patriarcale sarebbe una forma di religione familiare. Tra i principali aspetti di questa religione, due sono preminenti: 1) la questione della moralità e, specialmente, del giudizio morale, è secondaria. La divinità molto raramente giudica azioni o comportamenti. Al contrario, il Dio dei patriarchi assiste e supporta la famiglia in ogni circostanza. Ci sono parecchi esempi di questo fenomeno. Si veda, ad es., Gen 12,10-20 o Gen 20, due delle tre storie della “moglie-sorella” del libro della Genesi. Abramo non è mai condannato per aver mentito. D’altro canto, Dio interviene per proteggere Sara e obbliga il Faraone a restituirla a suo marito. In Gen 27 Dio non interviene per punire Rebecca e Giacobbe per avere rubato la benedizione. Giacobbe è benedetto e benedetto rimane.

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- 2) La promessa di Dio è incondizionata. La sua alleanza con i patriarchi è unilaterale e senza alcun obbligo da loro parte (cf. Gen 15 e 17).

- Tutto questo spiegherebbe perché i patriarchi e le tradizioni patriarcali sono assenti da certe aree della Bibbia. Poiché i patriarchi appartengono alla sfera della religione familiare, essi non vengono menzionati, se non solo molto occasionalmente, quando i testi riflettono le idee della religione “ufficiale”.

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Lezione 4

ESEGESI GENESI 11,27-32: L’“ESPOSIZIONE” DEL CICLO DI ABRAMO A. DELIMITAZIONE DEL CICLO DI ABRAMO (GEN 11,27 – 25,11) La formula di Tôlēdôt in Gn 11,27 - La formula di tôlēdôt in Gn 11,27 introduce il ciclo di Abramo, proprio come la formula di

tôlēdôt in Gn 25,12 introduce la genealogia di Ismaele, e quella in 25,19 introduce le narrazioni sui figli di Isacco.

- La conclusione naturale del ciclo di Abramo è la notizia della morte e della sepoltura del patriarca in Gn 25,7-11.

- Le formule di tôlēdôt sono tra le particolarità del libro della Genesi. Esse hanno una funzione strutturale.

- Ricorrono per 11 volte nel libro della Genesi: 2,4 (cielo e terra); 5,1 (Adamo); 6,9 (Noè); 10,1 (figli di Noè); 11,10 (Sem); 11,27 (Terah); 25,12 (Ismaele); 25,19 (Isacco); 36,1.9 (Esaù); 37,2 (Giacobbe).

- Al di fuori di Genesi: Nm 3,1; 1Cr 1,29; Rt 4,18. - Per i nostri scopi, notiamo che le lunghe genealogie del c. 10 e del c. 11 sono interrotte soltanto

dalla narrazione circa la torre di Babele (11,1-9) e in 11,27 dall’inizio della storia di Abramo. - La nascita di Abramo introduce il ciclo di Abramo e la morte di quest’ultimo lo conclude nel

modo naturale più ovvio. La peculiarità di Gn 11,27: l’introduzione del ciclo di Abramo - C’è una prima questione circa la formula di 11,27: per quale motivo le tôlēdôt di Terah

introducono il ciclo di Abramo? Non sarebbe stato più normale trovare in 11,27 le tôlēdôt di Abramo?

- Un esame delle diverse formule conduce a semplificare la risposta a questa domanda. - a) La formula di tôlēdôt può introdurre sia una genealogia, sia una sezione narrativa. Nel primo

caso, cf., 5,1; 10,1; 11,10; 25,12; 36,1.9. Nel secondo caso, cf. 2,4; 6,9; 11,27; 25,19; 37,2. Poiché la formula in 11,27 introduce una narrazione, essa appartiene alla seconda classificazione.

- b) La formula non introduce una “biografia” della persona che menziona, quanto piuttosto gli eventi connessi con i suoi discendenti.

- Così, ad es., le tôlēdôt di Isacco (25,19) non sono l’inizio della biografia di Isacco, quanto piuttosto quella dei suoi figli, Esaù e Giacobbe. Così, ancora, in Gn 37,2, le tôlēdôt di Giacobbe non introducono notizie sulla vita di Giacobbe, ma l’inizio della storia di Giuseppe.

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- Per questo motivo, 11,27, con le tôlēdôt di Terah, è la normale introduzione alle narrazioni circa i discendenti di Terah, in particolare di Abramo.

- c) Non ci sono tôlēdôt di Abramo in Genesi perché, secondo i risultati dell’analisi precedente, la formula avrebbe dovuto introdurre una narrazione su Isacco, suo figlio. Ora, l’unico materiale narrativo su Isacco, specialmente quello in Gn 26, è parte del ciclo di Giacobbe, che inizia in 25,19, con le tôlēdôt di Isacco.

La conclusione del ciclo di Abramo - Comparata con altri cicli nel libro della Genesi, la conclusione del ciclo di Abramo non è

normale. - Il ciclo di Giacobbe inizia con le tôlēdôt di Isacco (25,19) e finisce con la menzione della morte

e della sepoltura di Isacco (35,28-29). - Allo stesso modo, la storia di Giuseppe inizia con le tôlēdôt di Giacobbe (37,2) e finisce con la

sua morte e sepoltura (49,29-32; 50,12-13). - La storia di Noè e dei suoi figli è pure delimitata dalle tôlēdôt di Noè (6,9) e dalla sua morte

(9,28-29). - Visto che troviamo le tôlēdôt di Terah all’inizio del ciclo di Abramo, la conclusione aspettata

sarebbe stata la morte della stessa persona. Perché, al contrario, troviamo la menzione della morte di Abramo?

- In realtà, la menzione della morte di Terah è anticipata in 11,32. - Secondo la cronologia di Genesi, egli aveva 205 anni quando morì (11,32), e suo figlio Abramo

ne aveva 135, dal momento che Terah aveva 70 anni quando nacque suo figlio Abramo (11,26). - Questo significa che Terah morì solo 2 anni prima della morte di Sara (23,1; cf. 17,17). - C’è un altro elemento per confermare questa evidenza. - Abramo aveva 75 anni quando lasciò Harran per andare in Canaan (12,4b). A quel tempo, suo

padre aveva 145 anni (11,26). - Il Pentateuco Samaritano legge 145 invece di 205 in 11,32b (cf. Atti 7,4). In questo modo,

Abramo avrebbe lasciato Harran solo dopo la morte del padre. - Per il TM, dunque, Terah morì 60 anni dopo la partenza di Abramo da Harran. In tal modo,

sarebbe stato possibile menzionare questo evento da qualche parte verso Gn 22 o Gn 23, ovvero nei luoghi verso la fine del ciclo di Abramo. Perché questo non è stato fatto?

- Sono state proposte varie spiegazioni. - a) Forse il narratore voleva registrare eventi meno importanti all’inizio del ciclo. Per es., la

genealogia di Ismaele (25,12-18) precede il ciclo di Giacobbe, ovvero la storia della famiglia di Isacco (25,19 – 35,29); le genealogia di Esaù (36,1 – 37,1) precedono la storia della famiglia di Giacobbe (37,2 – 50,13).

- b) Potrebbe anche essere che il narratore preferisse concludere la storia di Terah in 11,32 perché, al contrario di Isacco o di Giacobbe, Terah non gioca alcun ruolo nella storia susseguente.

- c) Infine, il narratore potrebbe aver indicato in un modo speciale che una nuova era sarebbe iniziata in 12,1, con l’ordine di Dio ad Abramo e il viaggio di quest’ultimo verso la terra di Canaan. Dal momento che Terah non accompagna suo figlio ma rimane in Harran, era preferibile menzionare la sua morte prima della partenza di Abramo.

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- Il testo menziona esplicitamente che Terah morì in Harran (11,32b). Quest’ultimo motivo è così connesso con la teologia, o con la geografia teologica, della narrazione.

- Per queste ragioni, è più facile comprendere il motivo per cui il ciclo di Abramo è introdotto dalle tôlēdôt di Terah, suo padre, e concluso dalla notizia della morte e della sepoltura del patriarca in 25,7-11.

EXCURSUS

LE ABNORMITÀ DELLE ETÀ PATRIARCALI

- A proposito della vecchiaia di Abramo, se diamo un’occhiata all’età da lui raggiunta al

momento della sua morte, non possiamo che rimanere abbastanza stupiti: secondo Gn 25,7 Abramo avrebbe lasciato questo nostro mondo all’impossibile età di 175 anni, ovvero esattamente dopo 100 anni dalla sua chiamata da parte di Dio (cfr. Gn 12,4b).

- Visto che parliamo delle generazioni e del loro trascorrere, due parole, a questo riguardo, è ben opportuno sprecarle.

- Chi è uso alla lettura dell’AT, in special modo della Genesi, non si lascerà di certo stupire dall’età raggiunta da Abramo. Prima di lui, molti personaggi lo sorpasseranno di non poco.

- Per non fare che degli sparuti esempi, Adamo, il primo uomo, morì – si dice – a 930 anni (cf. Gn 5,5); Set, il suo terzogenito, a 912 anni (cf. Gn 5,8); il famoso Matusalemme, battendo tutti, a 969 anni (39 in più di Adamo).

- Lo stesso padre di Abramo, Tèrah, morirà a 205 anni (cf. Gn 11,32), si è visto. - Del resto, anche dopo Abramo, gli altri patriarchi non moriranno nella culla: Isacco spirerà a

180 anni (cf. Gn 35,28), Giacobbe sarà sepolto a 147 anni (cf. Gn 47,28) e lo stesso Mosè vedrà finire la sua vita a 120 anni (cf. Dt 34,7).

- Come si può notare anche a partire da questi pochi esempi, più i personaggi sono lontani nel tempo – ovvero prima della venuta del Diluvio (Adamo, Set, Matusalemme,…) –, più le loro età sono abnormi; più i personaggi si allontanano dalla venuta del Diluvio (Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè,…), più le loro età – pur comunque sempre molto alte –, si assottigliano.

- Giuseppe, il penultimogenito di Giacobbe, per concludere gli esempi, proprio alla fine del libro della Genesi, morirà a “soli” 110 anni… (cf. Gn 50,22.26).

- Come capire tutto questo? - Bisogna sapere che le indicazioni circa le età dei patriarchi furono scritte subito dopo che

Israele visse i lunghi anni del suo esilio in Mesopotamia, precisamente in Babilonia (597-538 circa a.C.; quindi verso il 535 o giù di lì).

- Israele, cioè, iniziò a redigere i computi delle età dei patriarchi, assieme anche a molti altri racconti, soltanto dopo essere stato lungamente in contatto con la vivacissima cultura babilonese, i cui scritti più antichi giunti fino a noi datano a partire già dal III millennio a.C.

- Ora, in quella civiltà, esiste un documento, all’epoca assai diffuso e conosciuto sotto molteplici redazioni, che viene oggi convenzionalmente chiamato col nome di “Lista regale sumerica”.

- Tale lista, in realtà, scritta in lingua sumerica, altro non è che un lunghissimo elenco di re e di dinastie regali mesopotamiche che affondano i loro inizi in tempi antichissimi, fino ad arrivare a raggiungere un tempo decisamente mitico.

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- Ora, la durata di queste dinastie presenta una semplice caratteristica: più queste sono contestualizzate in epoche remote e, quindi, mitiche, più esse sono spropositatamente lunghe; più queste si avvicinano agli anni recenti rispetto alla loro redazione, più esse si assottigliano.

- Per avere una pur vaga idea di queste durate, continuo a fare solo pochi esempi: - «Quando la regalità discese dal cielo, la regalità apparve in Eridu. In Eridu, A-lulim divenne re

e regnò 28.800 anni; Alalgar regnò 36.000 anni […]» (cf. i.1-5). - Oppure ancora: «In Bad-tibira En-men-lu-Anna regnò 43.200 anni; En-men-gal-Anna regnò

28.800 anni […]» (cf. i.11-13). - Ora, come accaduto in Genesi, man mano che scorrono le età fino ad avvicinarsi agli anni

prossimi a quelli di chi scrive tale lista, gli anni delle dinastie si ridimensionano sempre di più, fino a raggiungere durate decisamente verosimili:

- «Il divino Būr Sîn, figlio del divino Ur-Ninurta, regnò 21 anni; il divino Lipit-Enlil, figlio di Būr-Sîn, regnò 5 anni […]» (cf. viii.34-37).

- Ecco, dunque, svelato il mistero della stranezza delle età abnormi dei patriarchi così come si trovano attualmente nel libro della Genesi (“abnormi” ma pur sempre ridotte, come visto, rispetto a quelle della “Lista regale sumerica”).

- Come in molte altre circostanze della sua produzione letteraria, Israele è stato quindi fortemente influenzato dalla cultura e dai miti babilonesi con i quali, come già detto, per lungo tempo venne in contatto durante gli anni del suo esilio.

- Certe età, dunque, come quella di Abramo (cfr. i suoi 175 anni di vita), non vogliono certamente rispecchiare una verità storica, quanto semplicemente una verità letteraria presa in prestito dalla cultura babilonese.

- Del resto, di quando in quando, sono gli stessi testi biblici a darci delle chiare indicazioni che anche l’antico Israele invecchiava esattamente in età assai simili alle nostre…

- Per non fare che un solo esempio, assai chiaro, il libro della Genesi, in 18,11, asserisce l’impossibilità umana per Abramo e Sara di poter avere un figlio, vista la loro ragguardevole età (in questo momento della storia Abramo avrebbe avuto 100 anni e Sara 90 [cfr. Gen 17,17]):

- «Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni, era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne».

- Questo ci rassicura: la fisiologia umana e l’invecchiamento nell’Israele biblico erano esattamente come i nostri... Quelle loro età abnormi, dunque, non rispecchiano tanto la realtà dei fatti quanto, come appena visto, l’emulazione di un ben noto motivo letterario mesopotamico, appreso durante gli anni dell’esilio in quelle terre.

- Quanto la “Lista regale sumerica” applicava alle dinastie dei re e dei monarchi, Israele lo ha quindi applicato – pur ridimensionando di molto i numeri! – ai suoi patriarchi e ai suoi padri fondatori: sia quelli precedenti che quelli susseguenti al Diluvio.

B. GN 11,27-32 Note filologiche v. 28: jårR;t yEnVÚp_lAo: “davanti a”, “alla presenza di”, “durante la vita di”.

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v. 30: ;dDlÎw hDl NyEa: cf. 2Sam 6,23 (ketib); costrutti simili: Gdc 13,2-3; Is 54,1. Questa forma rara è forse in origine poetica. Da notare anche il parallelismo all’interno del verso. v. 31: MD;tIa …waVx´¥yÅw: “ed essi uscirono con loro”. Un testo più liscio sarebbe stato wayyōṣē’ ’ōtām: “egli li fece uscire fuori”, che è la lettura del Samaritano, seguita dai LXX e dalla Vulgata (cf. BHS). La lectio difficilior del TM probabilmente suppone che Terah e Abramo viaggiassero con Lot e Sara. Delimitazione del testo Gn 11,27 è l’inizio - Sembra preferibile considerare 11,26, nonostante tutte le sue similitudini con 11,27, come una

conclusione. Ci sono tre principali argomenti che confortano questa opinione: - a) C’è un chiaro parallelismo tra 11,26 e 5,32. La costruzione è simile poiché entrambi i versi

menzionano tre figli. Ora, 5,32 è chiaramente una conclusione. Gn 6,1 è l’inizio di una nuova sezione narrativa.

- In 5,32 Noè appartiene alla decima generazione della linea iniziata con Adamo (5,1). Terah appartiene alla nona generazione della linea iniziata con Sem (11,10). La decima generazione, dunque, è quella di Abramo.

- b) Gn 11,27 introduce Lot, che ha una funzione solo nella storia che seguirà. - c) Nello scritto P, la formula di tôlēdôt introduce sempre una nuova sezione. - In conclusione, 11,26-27 è un cardine di cui una parte conclude la sezione precedente (11,26),

mentre l’altra ne apre una nuova (11,27). Alcuni elementi comuni mostrano il passaggio dalla prima alla seconda.

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Lezione 5 Delimitazione del testo (segue) Gn 11,32 è la conclusione - G. Wenham, nel suo commentario a Genesi, conclude l’introduzione del ciclo in 12,9 e non in

11,32. Per questo autore, Gn 11,27 – 12,9 sarebbe l’“esposizione” dell’intero ciclo. - Tuttavia, per due ragioni principali sembra meglio considerare 11,32 come conclusione e 12,1

come inizio di una nuova unità narrativa. - a) La menzione della morte di Terah in 11,32 è la normale conclusione della narrazione,

specialmente perché essa viene anticipata (cf. sopra). Terah visse 60 anni in Harran, dopo la partenza di Abramo. Attraverso l’anticipazione della notizia della morte di Terah, il narratore ha voluto mostrare chiaramente che qualcosa è terminato e che qualcos’altro di nuovo stava per iniziare.

- b) La seconda ragione è il cambiamento “scenico” occorso in 12,1: un nuovo personaggio è apparso sul palcoscenico narrativo: YHWH. In 12,1-3 troviamo il primo discorso diretto della narrazione. Gli imperativi di questo discorso contrastano con gli indicativi che predominano in 11,27-32. Questi imperativi provocano una nuova azione.

- c) Gn 11,27-32 è allo stesso tempo la conclusione della vita di Terah e l’introduzione del ciclo di Abramo. Poiché Terah è il padre di Abramo, era normale che vivessero insieme per un certo periodo di tempo. Per questo, è normale che le narrazioni circa entrambi i personaggi si sovrappongano in una certa misura.

Funzione dell’unità - Nel linguaggio dell’analisi narrativa, Gn 11,27-32 serve da “esposizione” per l’intero ciclo di

Abramo. - Questa idea può spiegare il contenuto e la struttura del passo. Cos’è una “esposizione”? - In una narrazione l’“esposizione” contiene informazioni indispensabili circa lo stato delle cose

precedente l’inizio dell’azione stessa. Questi dettagli sono indispensabili per la comprensione della narrazione.

- L’esposizione, si potrebbe dire, è pre-temporale, trattando di informazioni che precedono il tempo della storia vera e propria.

- Logicamente, l’esposizione è il primo momento di una narrazione. Tuttavia, concretamente, l’azione potrebbe iniziare anche in medias res (per questa espressione, cf. Orazio, Ars poetica), posponendo l’ esposizione in un momento successivo.

- Normalmente, in una esposizione il lettore trova informazioni di background circa: a) il setting

della narrazione (luogo, tempo); b) i personaggi principali e le relazioni esistenti tra loro (si risponde alle domande: chi? dove? quando?); c) l’esposizione deve eventualmente dare una chiave di comprensione della narrazione, ovvero alcune indicazioni circa il contratto tra il narratore e il lettore: quali saranno le convenzioni del “dramma della lettura”? In questo senso, sono decisivi il setting e la creazione di una certa “atmosfera”. L’effetto, ad es., della frase

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“C’era una volta” (Once upon a time...) porta immediatamente l’ascoltatore in un “paese delle meraviglie”, in cui le convenzioni che regolano il nostro mondo perdono la loro importanza.

- Una delle difficoltà dell’esegesi è che i narratori biblici danno per sicuro che i loro ascoltatori siano familiari con una certa cultura e una certa tradizione. Sfortunatamente, questo non è più vero per noi, ascoltatori / lettori contemporanei.

- Uno dei problemi più importanti è quello di saper identificare la delimitazione dell’esposizione.

Dove finisce? Per distinguere l’esposizione dalla prima “scena”, ovvero dall’inizio dell’azione, ci sono, secondo M. Sternberg, due principali indicatori: a) il concetto di “tempo” e b) il passaggio dal “sommario” alla “scena”.

- a) Il concetto di “tempo”. Si tende a distinguere tra “tempo della storia” (narration time; Erzählzeit; temps racontant; tiempo de narrar [o tiempo del relato]) e tra “tempo del racconto” (narrative time; Erzählte Zeit; temps raconté; tiempo de la historia [o tiempo narrado]).

- Il “tempo della storia” è il tempo degli eventi e delle azioni raccontate nella narrazione, ed è misurato in tempo reale, ovvero in ore, giorni, settimane, mesi, anni.

- Il “tempo del racconto” è il tempo materiale necessario per raccontare (o leggere o ascoltare) una narrazione. Esso viene misurato in parole, versi, linee, paragrafi, pagine.

- b) Il “sommario” e la “scena”. Una narrazione è “scenica” quanto il tempo della storia è quasi uguale o molto vicino al tempo del racconto. Le caratteristiche principali di una scena sono la presenza di dialoghi e la descrizione dettagliata di azioni.

- In un sommario, l’organizzazione del tempo è molto diversa: il tempo del racconto è molto più breve del tempo della storia. Molti fatti ed eventi, infatti, sono condensati in poche frasi.

- Normalmente, l’esposizione è un “sommario”, ma anche una “scena” può adempiere questa funzione.

- A questo, possiamo aggiungere anche due ulteriori distinzioni sull’“uso” del tempo nelle narrazioni: a) In una “ellissi” c’è tempo della storia, ma non c’è tempo del racconto, dal momento che determinati eventi non vengono raccontati dal narratore. b) In una “pausa”, ovvero in una pausa descrittiva o, anche, in una intrusione del narratore, c’è tempo del racconto ma nessun tempo della storia, dal momento che non viene raccontato nessun tipo di evento.

- Per tornare al nostro problema, il lettore avverte che la narrazione passa dall’esposizione

all’azione quando c’è un cambiamento nel ritmo, segnatamente con l’inizio della prima vera scena della storia.

- In una esposizione, il lettore trova solo brevi notizie circa la situazione dei personaggi principali. L’informazione è spesso laconica, generica e astratta, laddove, al contrario, nella prima scena l’informazione è dettagliata, concreta, vivida e unica.

- Ai criteri di M. Sternberg è tuttavia possibile aggiungere altri due criteri: - a) Forme verbali. In una esposizione è consueto trovare verbi stativi, frasi nominali o forme

verbali frequentative. - La situazione descritta in una esposizione è spesso o ciclica o statica. Potrebbe durare per

molto, o anche per sempre, se non dovesse intervenire alcun elemento esterno a disturbare il pacifico – o il doloroso – stato delle cose.

- In altri casi, si nota un movimento ad infinitum, oppure una serie di eventi così tipici che ogni passo può divenire prevedibile.

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- Per esempio, la crescita e la prosperità di Israele avrebbe benissimo potuto continuare se un nuovo Faraone non fosse arrivato sulla scena (cf. Es 1). In questo contesto, l’aggettivo nuovo (ḥādāš) è una “parola-chiave”.

- Gn 6 offre un altro esempio: la crescita della malvagità dell’universo sembrerebbe essere stata irreversibile se Dio non avesse deciso una “nuova” azione: quella di inviare il diluvio (Gn 6,5-12.13).

- b) tensione drammatica. Ciò che determina l’inizio dell’azione è spesso un cambiamento di direzione nell’interesse del lettore. Non appena il narratore inizia l’azione, inizia anche la tensione drammatica, la suspense, attesa. Questo significa che l’attenzione del lettore è orientata verso il futuro narrativo.

- Nell’esposizione, la suspense è assente o minima. Qualora ci fosse un’attesa, nell’esposizione la narrazione la compie pressoché istantaneamente, senza alcun arco significativo di tensione.

- Nei casi in cui l’esposizione compaia nel corso della narrazione, a quel punto l’attenzione torna indietro verso il passato. Questo, tuttavia, non significa che ogni flash-back o “retrospezione” contenga necessariamente un pezzo procrastinato di una esposizione.

Gn 11,27-32 è l’esposizione del ciclo di Abramo Caratteristiche: - a) In Gn 11,27-32 il tempo della storia è molto più lungo del tempo del racconto. I 6 versetti

riassumono 135 anni della vita di Terah. La narrazione è limitata all’essenziale e consiste pressoché in una enumerazione di dati: nomi, luoghi, anni.

- b) Tra 11,27-32 e 12,1-4 si assiste al passaggio da un sommario a un discorso diretto (scena). - c) In 11,27-32 si trovano un certo numero di frasi nominali e di verbi stativi: cf. 27a: we’ēlle

tôledōt teraḥ; v. 29b: šēm ’ēšet ’abrām śārāy... wa’ăbî yiskāh; v. 30: wattehî śāray ‘ăqārāh ’ên lāh wālād.

- d) Gn 12,1-3, come vedremo, apre la prospettiva del lettore a un futuro concreto. Analisi del contenuto: a) Tempo e spazio: Le tôlēdōt e l’itinerario del viaggio - L’esposizione dà forma a due dimensioni basilari dell’arte narrativa: a) il tempo e lo spazio, e

b) orienta la scena da un punto di vista geografico e cronologico verso la scena successiva. - Le tôlēdōt inseriscono Terah nella storia dell’universo. Dopo il diluvio, questa storia universale

si restringe in 11,10 per narrare, tra i figli di Noè, solo dei discendenti di Sem. In questa linea generazionale, il testo dà preferenza alla linea che conduce a Terah e ad Abramo (cf. 10,21-24 con 11,10-13).

- Da Gn 11,27-32 in avanti, il libro non è più interessato alla storia dell’universo, ma solo alla storia di una singola famiglia, da cui dipende il destino dell’intero universo (cf. 12,1-3).

- L’itinerario del viaggio riprende un filone che il lettore ha trovato per l’ultima volta in 11,9, ovvero la dispersione dell’umanità dopo l’episodio della torre di Babele. In questo modo, Terah diviene il centro della storia dell’universo e il suo destino diviene rilevante per tutta l’umanità.

- Se in Gn 1 – 11 il mondo come tale costruisce il background della narrazione, da Gn 11,27-32 in avanti la terra di Canaan diviene il luogo in cui gli eventi più importanti della storia della salvezza hanno avuto luogo (11,32; 12,5).

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Lezione 6 Analisi del contenuto (segue) b) Le caratteristiche dell’azione - Immediatamente, pochi dettagli attirano l’attenzione del lettore. Le genealogie in Gn 10 – 11

creano l’impressione che la nascita sia pressoché un processo automatico. - In Gn 11,30 questo processo giunge improvvisamente a uno stop. Il cambiamento nella

formula, finora ripetitiva, e l’ostacolo inaspettato sono elementi seminali della narrazione che seguirà.

- Anche la morte di Haran (11,28) e la menzione di Lot (11,27.31) sono elementi di disturbo in un mondo in cui la vita appare essere molto lunga e in cui solo il primogenito sembra meritare attenzione. Lot sta per essere l’erede? Questa è una delle molte domande sollevate da questi versetti.

- Se le tôlēdōt giungono a uno stop, così fa l’itinerario del viaggio. La meta di Terah era Canaan, eppure egli si stanzia, con la sua famiglia, in Harran (11,31b). Perché? Continuerà il suo viaggio? Il v. 32 risponde alla domanda: Terah muore in Harran. Il suo viaggio rimane incompleto. Il clan di Terah si metterà di nuovo in movimento?

c) Il genere letterario della narrazione - Questa storia riceve un chiaro delineamento. Il lettore si trova in un mondo concreto e

“realistico”, in cui luoghi e persone hanno nomi. Gli eventi sono parte di una storia che è una “storia mondiale”. Questo, ovviamente, non significa che tutti i dettagli siano storici, ma solo che quanto il narratore sta per raccontare ha un peso sulla “storia del mondo”, anche se alcuni elementi possono sfuggire al lettore moderno.

Conclusione - A questo punto, la narrazione sembra essere arrivata a un punto fermo. Non c’è alcuna concreta

attesa, eccetto che per un “nuovo” elemento che rimuoverà gli ostacoli e darà un nuovo inizio all’azione drammatica (cf. 12,1).

Le fonti in Gn 11,27-32 La divisione classica - a) Gn 11,27.31-32 è generalmente attribuito a P (lo scritto sacerdotale) e 11,28-30 a J (lo

scritto jahwista). - Tuttavia, i primi esegeti che tentarono di distinguere fonti in Gn 11,27-32 erano ben

consapevoli delle peculiari difficoltà di questo passo. - Di recente, più di un esegeta ha avuto buone ragioni per mettere in discussione questa consueta

divisione. - D’altro canto, esistono anche voci fuori dal coro. Secondo Christoph Levin (Der Yahwist, 133-

142) in questi versetti si possono distinguere ben 4 strati: 1) una fonte pre-jahwista (11,29); 2) una redazione jahwista (11,30); 3) un testo sacerdotale (11,27.31-32); 4) alcune complementi post-redazionali (11,28).

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- Questa divisione è senz’altro discutibile per parecchie ragioni: quale sarebbe il significato di un testo? Queste “fonti” sarebbero complete? Quale sarebbe la ragione per così tante addizioni?

- b) Le principali ragioni per l’attribuzione di 11,27.31-32 a P sono: 1) il vocabolario caratteristico di questi versetti: il titolo we’ēlle tôledōt (11,27a); la radice yld (11,27; cf. anche altri testi attribuiti a P come Gn 5,32 e 10,1); l’espressione ’ereṣ kena‘an (11,31; cf. anche i testi P di Gn 17,8; 23,19; 36,6; 37,1; 48,3; 49,30; Es 6,4; Nm 13,2); 2) i tipici interessi per le date e gli anni (11,32; cf. anche Gn 9,29 per una formula simile in un altro testo P).

- In quanto al cosiddetto J, le ragioni sono molto più tenui. Non c’è niente di realmente tipico di J in Gn 11,28-30. Il vocabolario, specialmente in 11,30, è alquanto diverso da quello solito di P. Ad es., P non usa mai l’aggettivo ‘ăqārāh. L’espressione ’ereṣ môledet si trova anche in altri testi attribuiti a J o a E (lo scritto elohista): cf., ad es., Gn 24,7; 31,13 (cf. anche Ger 22,10; 46,16; Ez 23,15; Rt 2,11.

- La coppia ’ereṣ / môledet è parimenti tipica di J (cf. 12,1; 24,4; 31,3; 32,10; Nm 10,30). I problemi della divisione classica - a) 11,28 (J) presuppone 11,27 (P), visto che i personaggi di 11,28 sono noti solo grazie a 11,27:

Haran è nato in 11,26-27 (P) e questi stessi versetti introducono anche suo padre Terah. Questo significa che il testo J non può essere capito senza una conoscenza previa del testo P.

- b) 11,31 (P) presuppone 11,28 (J), poiché 11,31 menziona Lot, ma non suo padre Haran, tra le persone che accompagnano Terah nel suo viaggio da Ur dei Caldei. Il lettore sa da 11,28 (J) che Haran era già morto.

- c) 11,31 (P) menziona Sara, la moglie di Abramo. Il lettore è informato circa il matrimonio di Abramo con Sara in 11,29 (J). Questo significa che P, in 11,31, presuppone una conoscenza di J in 11,28-29.

- d) 11,31 (P) parla di Ur dei Caldei, dapprima menzionato in 11,28 (J). - e) Il motivo della sterilità di Sara (11,30) è necessario sia in J (cf. 16,1-14; 18,1-15) che in P

(cf. Gn 17). - f) Lot viene introdotto da P nella narrazione in 11,27. Quando viene sul palcoscenico in 12,4a,

13,5 (J), egli non viene introdotto. Questo significa che il lettore deve già conoscerlo. In altre parole, si suppone che il lettore abbia letto 11,27 (P).

Il problema di Ur dei Caldei - Questa città compare solo quattro volte nell’AT: Gn 11,28.31; 15,7; Ne 9,7. Questi testi sono

tardivi. - Vari esegeti considerano la sua menzione in 11,28b (be’ûr kaśdîm) come un’aggiunta perché

essa sarebbe ridondante dopo be’ereṣ môladtô (cf., ad es., R. Kilian; H. Gunkel; G. von Rad; O. Eißfeldt).

- Tuttavia, questa supposizione non è probabilmente necessaria. Il testo è una composizione tardiva e unificata - a) Alcuni elementi del testo appartengono chiaramente allo scritto sacerdotale, specialmente i

vv. 27.31-32. Poiché questi versetti suppongono la conoscenza degli altri (cf. vv. 28-30), il testo deve essere letto come una unità letteraria. Le diverse componenti del testo sono state redatte per auto-complementarsi e, per questo, ogni tentativo di separarle lascia il lettore con

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informazioni insoddisfacenti. Qui, come in molti altri casi, la totalità è sempre di più della somma delle sue parti.

- b) Il testo, in quanto composizione unificata, deve essere più tardivo dello scritto Sacerdotale, che è parte di esso. Tale testo è stato fin dall’inizio redatto come “esposizione” dell’intero ciclo di Abramo nella sua forma finale. Infatti, tale esposizione introduce molti dei protagonisti delle storie successive: Abramo, Sara, Lot (cf. 12,4-5; 13 – 14; 18 – 19); la sterilità di Sara (cf. 15 – 18; 21); Nahor e Milkah, i nonni (o bisnonni) di Rebecca (cf. 24,15; 24,24.50; 23,20-23).

- c) Da un punto di vista metodologico, è importante notare che testi “compositi” dovrebbero essere letti secondo la loro “intenzione”. Nel caso di 11,27-32, solo il prodotto finale è coerente e ha senso. È per questo che il testo deve essere analizzato in quanto tale. Un metodo esegetico è un modo per meglio comprendere la Bibbia: non dovrebbe mai essere o diventare una finalità fine a se stessa.

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Lezione 7 GENESI 12,1-9: L’OUVERTURE DEL CICLO DI ABRAMO Traduzione vv. 2-3a: coortativi. Alla lettera: “...così che possa farti una grande nazione...”. v. 2a: ywø…g e non ‘am. Gôy (“nazione”): l’identità politica, amministrativa, geografica e culturale che distingue una comunità umana da altri gruppi del medesimo tipo (unità ad extra). ‘Am (“popolo”): definisce un gruppo umano per mezzo della relazione che unisce tutti i suoi membri; ad es., a causa delle relazioni di sangue tutti i membri sono discendenti di un singolo antenato (unità ad intra). v. 2b: hDk ∂rV;b hEyVh‰w. Il significato dell’imperativo è simile a quello dei precedenti coortativi: “...così che tu possa essere una benedizione”. Ci sono due paralleli a questa espressione: Is 19,24; Zc 8,13. Non è semplice determinare il suo esatto significato. Gli esegeti hanno proposto tre interpretazioni: a) un senso passivo: “tu sarai benedetto”, che significa: “tu sarai l’‘incarnazione’ della benedizione”. Le versioni comprendono il testo in questo modo, così come anche alcuni esegeti (cf., ad es., A. Dillmann; O. Procksch; L. Schmidt). b) un senso attivo: “tu sarai una sorgente di benedizione per altri” (cf., ad es., C.F. Keil; F. Delitzsch; H.W. Wolff). c) sulla base di Zc 8,13, G. Wenham propone una terza interpretazione. In Zc 8,13 il termine qelālāh significa “maledizione”, così come, ovviamente, berākāh significa “benedizione”. In altri termini, sempre secondo quel testo, come il popolo si malediceva dicendo: “Sii come Giuda o Israele”, esso si sarebbe dovuto benedire dicendo: “Sii benedetto come Giuda o Israele”, oppure: “Dio possa benedirmi come ha benedetto Giuda o Israele”. Abramo, dunque, sarebbe stato una benedizione nello stesso modo, dal momento che il popolo avrebbe detto: “Sii benedetto come Abramo” o, anche, “Dio possa benedirmi come Abramo”. Quest’ultima interpretazione ha tre vantaggi: 1) La parola berākāh ha questo significato in due stretti paralleli: Is 19,24 e Zc 8,13. 2) Questa è una traduzione accettabile per il sostantivo berākāh. Il testo non usa il verbo “benedire”, ma solo il nome, che, in contesti simili, significa “parola di benedizione”, “formula di benedizione” (cf. Gn 49,28; Is 19,24; Zc 8,13; Sal 37,26; Pr 10,7; Ne 9,5; cf. anche Sal 21,7). Infatti, se il verbo fosse stato passivo, si sarebbe aspettato l’aggettivo verbale bārûk. E se il senso fosse stato attivo (“tu sarai una sorgente di benedizione per altri”), l’espressione avrebbe potuto essere più esplicita. 3) Gn 48,20 è un altro parallelo in cui Efraim e Manasse divengono ‘benedizioni’: “per mezzo di te Israele benedirà dicendo: ‘Dio ti faccia come Efraim e come Manasse’”. v. 3a: rOaDa: la scelta di qll invece di ’rr per il participio è con molta probabilità intenzionale. ’rr descrive maledizioni legali pronunciate su malfattori, mentre qll denota più che altro attacchi verbali. L’opposto della radice qll, alla lettera, “disprezzare”, è la radice kbd, “onorare”. In tal senso la frase significa che Dio maledirà non solo coloro che maledicono Abramo, ma anche coloro che semplicemente lo disprezzano.

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Si veda, comunque, Gn 27,29 e Nm 24,9 per diverse enfasi e costruzioni. Gn 12,3 usa la prima persona singolare, mentre Gn 27,29 e Nm 24,9 usano il passivo. v. 3b: ÔKVb …wk √rVbˆn ◊w. Si tratta della corretta interpretazione del verbo $r:B', «benedire», al nifal (Wkr>b.nIw>), uno dei punti più discussi all’interno del libro della Genesi. Sono sostanzialmente tre le valenze con cui abitualmente si tenta di risolvere tale questione ermeneutica: a) quella passiva («saranno benedette in te tutte le famiglie della terra») (cf., ad es., B. Jacob; U. Cassuto); b) quella riflessiva («si benediranno in te tutte le famiglie della terra») (cf., ad es., H. Gunkel; C. Westermann); c) quella media («acquisteranno benedizione in te tutte le famiglie della terra»), pur non essendo, quest’ultima, eccessivamente dissimile dalla valenza riflessiva (cf., ad es., O. Procksch; H.W. Wolff). Occorre altresì precisare che il significato passivo del verbo è quello verso il quale si dirigono anche alcune importanti versioni: si vedano la Settanta (evneuloghqh,sontai e le sue citazioni in At 3,25 e Gal 3,8; cfr. anche Sir 44,21 [evneuloghqh/nai; il manoscritto B, invece, ha solo l’infinito $rbl]), la Vulgata (benedicentur) e i targumin Neophyti 1, Pseudo-Jonathan, Onqelos e Frammentario nel manoscritto 264 (!wkrbtyw). Tuttavia, secondo diversi studi in merito, nello sviluppo della lingua – e, dunque, in epoche più recenti di composizione – l’assimilazione del nifal allo hithpael (nella sua comprensione riflessiva) si fece sempre più evidente. Da tempo, infatti, l’esegesi storico-critica ritiene, con solidi argomenti, che testi come Gen 12,3 ($rb, al nifal), Gen 22,18 ($rb, allo hithpael), Gen 28,14 ($rb, al nifal), Gen 26,4 ($rb, allo hithpael) siano molto recenti, abbondantemente post-esilici (segnatamente, post-Sacerdotali) e, dunque, da questo punto d’osservazione, in concomitanza con le epoche di assimilazione alla sfumatura riflessiva delle due modalità verbali in esame (cfr. anche Gen 18,18 [$r:B', al nifal]). Del resto, nella lingua ebraica è ben attestato l’uso del pual o del qal passivo per veicolare un senso strettamente passivo dell’azione espressa dal verbo (se nella Bibbia ebraica non è presente il verbo $r:B' al qal passivo, non è così per il pual: cfr. Nm 22,6; Dt 33,13; Gdc 5,24; 2Sam 7,29; 1Cr 17,27; Gb 1,21; Sal 37,22; 112,2; 113,2; 128,4; Pr 20,21; 22,9). Fra l’altro, anche alcuni paralleli al contesto di benedizione che caratterizza Gen 12,3b sembrano favorire l’interpretazione riflessiva, poiché presentano il verbo $r:B' allo hithpael, seguito, come in Gen 12,3b, dalla preposizione b (cfr. Sal 72,17 e Ger 4,2). Ma pure luoghi come Gen 48,20 (con $rb), Rut 4,11-12 e Ger 29,22 paiono assecondare un medesimo senso riflessivo: il nome autorevole e benedetto di una determinata persona (YHWH, il re, ...) viene usato da altri (Israele, le nazioni...) per benedirsi reciprocamente. In Gen 12,3b, il verbo $r:B' usato con valenza riflessiva esprimerebbe, dunque, il seguente significato: «Che noi, famiglie tutte della terra, ci benediciamo a vicenda così come Abramo è stato da YHWH benedetto». In questo caso, Gen 12,3 si troverebbe a sottolineare come tutta la terra dovrà arrivare a riconoscere quanto Abramo sia stato benedetto da Dio. L’accento viene così a posarsi, ancora una volta, sull’elezione del patriarca e non tanto sull’universalità della benedizione a tutte le nazioni (come accadrebbe nel caso dell’interpretazione passiva). v. 8: qE;tVoÅ¥yÅw: il verbo ‘tq (piel) significa “muovere un accampamento”. v. 9: ... KwølDh ...: l’infinito assoluto esprime continuità.

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Delimitazione del testo - Gn 12,1-3 contiene un “programma narrativo”: l’ordine di Dio ad Abramo di andare verso un

paese ignoto e la promessa di una benedizione. - Questo ordine crea un particolare problema a riguardo della delimitazione del testo. Si

dovrebbe distinguere tra unità più grandi e più piccole. L’unità più grande inizia con l’ordine di Dio e finisce con la conclusione del viaggio di Abramo. Le unità più piccole descrivono le diverse tappe di questo viaggio.

L’unità narrativa maggiore - Per quanto riguarda l’unità narrativa maggiore, il problema è quello di trovare la sua

conclusione. - Il viaggio di Abramo inizia in 12,4a, con un sommario, ovvero con una “formula di

esecuzione”. Dove finisce? Dio disse che gli avrebbe mostrato la terra. Ora, Dio “mostra” ad Abramo la terra promessa in due occasioni: in 12,7 e, più esplicitamente, in 13,14-15.

- In 12,7 Dio appare ad Abramo e gli dice che gli avrebbe data “questa terra”, che, secondo 12,6, è la terra di Sichem.

- In 13,14-15 è più chiaro, poiché il testo usa il verbo r’h, “vedere”, che fu usato in 12,1 nella frase “la terra che io ti mostrerò” (’ar’ekā).

- In Gn 13,14-15 Dio dice ad Abramo: “Alza i tuoi occhi e guarda dal luogo in cui stai – a nord, a sud, a est e a ovest – perché tutta la terra che vedi io la darò a te”.

- I legami tra Gn 13,14-15 e 12,1 sono inequivocabili e indicano che questa parte della promessa di Dio è stata adempiuta. In effetti, dopo il discorso divino, Abramo si installa in Hebron (13,18).

- Qui la narrazione usa il verbo yšb per la prima volta: “E Abramo si installò alle Querce di Mamre, che sono in Hebron” (13,18).

- Questa è la conclusione del viaggio di Abramo, iniziato in 12,4b.

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Lezione 8 L’unità narrativa maggiore (segue) - D’altro canto, Gn 12,2-3 contiene una promessa. Quando viene adempiuta? - Poiché inerisce il futuro della discendenza di Abramo, la risoluzione di questo arco di tensione

narrativa può a stento trovarsi all’interno del ciclo di Abramo. - Una risposta a questa domanda è data in Rm 4, Gal 3 – 4 o Gv 8. Nell’AT, Is 51,1-3 riattualizza

chiaramente le promesse di Gn 12,1-3 e le applica al ritorno dall’esilio babilonese e alla ricostruzione di Gerusalemme.

Le unità narrative minori - Per quanto concerne le unità minori, si dovrebbero distinguere diverse tappe nel viaggio di

Abramo: 12,1-9; 12,10-20; 13,1-18. Queste tre unità possono essere distinte con l’aiuto di tre principali criteri: l’azione, gli attori, l’ambientazione.

Azione - Gn 12,1-9 contiene l’ordine e la promessa di Dio (12,1-3) e la prima esecuzione di Abramo

dell’ordine di Dio, ovvero le prime tappe del suo viaggio verso e attraverso la terra di Canaan fino al Negheb (12,4-9).

- Gn 12,10-20 descrive un incidente che prende luogo in Egitto, nella fattispecie l’episodio della “moglie-sorella”, ovvero la consegna di una moglie a un sovrano straniero e la relativa liberazione per mezzo dell’intervento divino. Il pretesto per questa storia è una carestia (12,10).

- Gn 13,1-18 descrive un altro incidente che vede coinvolti Abramo e suo nipote Lot, in una regione tra Bethel e Ai. Alla fine di questa narrazione, Abramo e Lot si separano (13,12) e Abramo si installa in Hebron (13,18).

Attori - In 12,1-9 gli attori principali sono YHWH e Abramo; in 12,10-20, Abramo, Sara, il Faraone e

YHWH; in 13,1-18 ci sono invece due parti principali: in 13,1-13 gli attori principali sono Abramo e Lot, mentre in 13,16-18 sono Abramo e YHWH.

Ambientazione - Gn 12,1-9 descrive un viaggio, che è anche l’ambientazione dell’intera unità narrativa. Questo

è confermato dal vocabolario. I verbi di movimento abbondano in 12,1.4-9: hlk (5x); yṣ’ (2x); ns‘ (2x); bw’ (1x); ‘br (1x); ‘tq (1x).

- Ci sono anche molti termini topografici, nomi di luogo, parole come ’ereṣ, ‘ădāmāh, šām, māqôm. Un vocabolario di itinerario al v. 8. Questo vocabolario dà un tono unificato all’unità.

- In ogni modo, il vocabolario del viaggio è assente da 12,2-3: in questi versetti la radice brk è usata per cinque volte.

- Gn 12,10-20 è ambientato in Egitto, mentre 13,1-18 principalmente tra Ai e Bethel (13,3-4). - L’ultima narrazione prende luogo alle Querce di Mamre, in Hebron (13,18).

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Analisi narrativa I diversi elementi del testo Discorso e Narrazione - Gn 12,1-3 contiene un discorso diretto. Nella prima frase, Dio dà un’ordine: le forme verbali

sono all’imperativo. Questo genere di discorso è chiamato “esortativo”. - La seconda parte del discorso divino è una promessa. Molti verbi sono al futuro. Questo tipo di

discorso è chiamato “predittivo”. - Poiché molti verbi sono coortativi (weyiqtol), la frase esprime un desiderio piuttosto che la

predizione di una futura realtà. In quest’ultimo caso, l’ebraico normalmente usa il weqataltì. - Gn 12,4-9 è una semplice narrazione. L’imperativo lek-lekā (12,1) è ripreso da un wayyiqtol

(wayyēlek: 12,4a). Nella sezione 12,4-9 molti verbi sono al wayyiqtol. - C’è solo un breve discorso in 12,7a, di natura “predittiva”, poiché ’ettēn è un semplice yiqtol. Pausa - In Gn 12,4b la menzione dell’età di Abramo non è esattamente un “segmento” della narrazione,

dal momento che niente “accade” in questo emistichio. - In termini di tempo, c’è tempo del racconto – 8 parole – ma non tempo della storia. - Elementi di questo tipo sono chiamati “pause” e generalmente appartengono all’ambientazione

della narrazione. Intrusione - In Gn 12,6b le parole wehăkkena‘ăni ’āz bā’āreṣ continua a non essere un “segmento” di una

effettiva narrazione. Queste poche parole sono una informazione, o un breve commento, dato dal narratore ai suoi lettori. Esse interrompono il flusso della narrazione, che riprende agli inizi di 12,7.

- Nel linguaggio tecnico dell’analisi narrativa, questo tipo di discorso viene chiamato “intrusione”.

Suddivisione di 12,4-9 - È possibile distinguere 4 piccole unità in Gn 12,4-9, che sono sviluppate in una unità più larga

e che descrivono il viaggio di Abramo. - a) Gn 12,4a è un “titolo” o “sommario prolettico” dell’intero itinerario. - Non c’è alcuna successione tra il wayyēlek di 12,4a e il wayyiqqaḥ di 12,5. Abramo non prende

sua moglie Sara, Lot e tutti i suoi averi dopo essersene andato nella terra indicata da Dio (12,4a), ma prima che egli partisse per questo viaggio.

- Per capire il testo, si dovrebbe leggere 12,4a come sommario dell’intero viaggio, mentre in 12,5 si dovrebbe tornare indietro, al passato, ovvero al momento in cui il viaggio iniziò.

- Gn 12,5 riassume il processo e dà qualche dettaglio in più. Gn 12,5 potrebbe iniziare così: “A dire il vero questo è ciò che accadde: Abramo prese Sara...”; oppure: “Il viaggio iniziò in questo modo...”.

- b) Gn 12,5-7 descrive il viaggio da Harran (12,5) a Sichem (12,6), dove Dio appare ad Abramo (12,7).

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- c) Gn 12,8 descrive un passo ulteriore nel viaggio di Abramo. Egli va da Sichem alla montagna; più precisamente a un luogo situato tra Ai e Bethel.

- d) Il passo successivo del viaggio è il Negeb (12,9). La funzione di Gn 12,1-9 nel ciclo di Abramo Il programma narrativo del ciclo di Abramo - a) Gn 12,1-3 contiene il “programma narrativo” del ciclo di Abramo. Il “programma narrativo”

è il momento iniziale della narrazione, in cui il “progetto” della narrazione appare per la prima volta: un compito, un piano o una missione da adempiere, un conflitto o un problema da risolvere, un desiderio da realizzare, un enigma da decifrare...

- Il “programma narrativo” catalizza l’interesse del lettore. Quando il “programma” è adempiuto, la narrazione raggiunge la sua conclusione e la tensione narrativa si rallenta.

- Questo programma narrativo contiene due principali elementi: 1) un ordine di intraprendere un viaggio (12,1); 2) la promessa di una benedizione (12,2-3).

- b) Gn 12,4-9 è la prima esecuzione del programma narrativo, più precisamente del comando di intraprendere un viaggio (12,1). Questo viaggio conduce Abramo e la sua famiglia nella terra di Canaan.

- c) Gn 12,4-9 presenta anche i primi “ostacoli” alla realizzazione del programma narrativo. In 12,1 Dio chiede ad Abramo di lasciare la sua patria per andare verso un paese sconosciuto. Questo paese, tuttavia, è già occupato da un’altra popolazione: i cananei (12,6b).

- Perché Dio vuol far andare Abramo in questo paese? Potrà possedere quella terra? Queste sono solo alcune domande sollevate dall’intrusione del narratore in 12,6b.

- d) Il secondo elemento del programma narrativo, la benedizione, è ugualmente problematico a causa della sterilità di Sara (11,30).

- Come potrà Abramo divenire una “grande nazione”? Chi sarà l’erede della benedizione? Sarà forse Lot, menzionato in 12,4a.5? Queste domande richiedono una risposta. In realtà, i diversi tentativi di risolvere questi problemi occuperanno una larga parte delle narrazioni.

La strategia narrativa di Gen 12,1-3 - Gn 12,1 colloca il lettore in una speciale posizione. - Ci sono tre possibili “posizioni di lettura” nella narrazione: a) un personaggio o alcuni

personaggi sanno più del lettore; b) il lettore sa più di un personaggio o di alcuni personaggi; c) lettore e personaggio/-i sanno allo stesso livello.

- In Gn 12,1 Dio invia Abramo in una terra che, dice, gli avrebbe mostrata. In questo caso, Abramo non conosce la terra e nemmeno il lettore.

- In altri termini, Abramo e il lettore sono nella stessa posizione (c), rispetto a Dio (e al Narratore).

- Sia Abramo che il lettore devono scoprire il “dove” di quella terra. Composizione e contestualizzazione teologica di Gn 12,1-9 I problemi del testo - In Gn 12,1-5 ci sono due principali problemi. - a) Gn 12,4a e 12,5 raccontano per due volte la partenza di Abramo e di Lot da Harran.

Particolarmente strana è la menzione di Lot in 12,4a e in 12,5. Sarebbe tuttavia possibile capire

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12,4a come un “sommario prolettico” e 12,5 come la prima narrazione dettagliata di questa partenza.

- Occorre tuttavia non dimenticare, da un punto di vista diacronico, che un testo può anche essere stilisticamente o strutturalmente unificato, senza che sia per forza il lavoro di un singolo autore. I redattori riuscivano anche a lavorare con abilità.

- b) La seconda difficoltà è più seria. C’è una tensione tra 12,1 e 12,5b (e 11,31). In 12,1 Abramo non conosce la meta finale del suo viaggio, dal momento che YHWH gli dice: “Va’ nella terra che io ti mostrerò”. Ora, però, in 12,5 Abramo parte per la terra di Canaan, come se egli conoscesse che proprio quella terra era quella che Dio avrebbe voluto indicargli.

- In più, in 11,31 la terra di Canaan era già la meta del viaggio (mai terminato) di Terah. In 12,5 Abramo continua semplicemente il viaggio che Terah aveva interrotto per far tappa in Harran.

- Per questa ragione, gli esegeti distinguono due fonti in Gn 12,1-9: 12,4b.5 è attribuito all’autore sacerdotale, mentre il resto all’autore Jahwista.

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Lezione 9 L’autore sacerdotale in Gn 12,4b.5 - a) Gn 12,5. Questo versetto descrive il viaggio di Abramo da Harran in Canaan e si presenta

come la naturale continuazione di 11,31. Sia 11,31 e 12,5 iniziano con lo stesso verbo wayyiqqaḥ seguito da una lista di nomi. Entrambi contengono anche la formula: wayyēṣe’û lāleket ’arṣāh kena‘an wayyābō’û.

- La differenza è molto chiara. Da un lato, Terah si ferma e si stanzia in Harran (11,32b), mentre Abramo raggiunge Canaan (12,5b). In tal modo, il testo enfatizza il fatto che il viaggio intrapreso da Terah è concluso da Abramo. Entrambi i versetti devono appartenere alla medesima fonte.

- Gn 12,4b. La menzione dell’età di Abramo in 12,4b appartiene ugualmente all’autore sacerdotale. Gn 11,31 e 11,32 legavano già insieme il fatto del viaggio e il fatto dell’età del patriarca.

- Inoltre, le genealogie in Gn 5 e in Gn 11 (P) sono caratterizzate dalla frequente menzione dell’età dell’antenato. La stessa cosa rimaneva vera anche per la versione P dei racconti del diluvio (cf. Gn 7,11; 8,13).

- L’espressione usata in 12,4b, comunque, è diversa da quella in 11,32. In 12,4b P usa una formula che inizia con la parola bēn... Questa espressione sarà usata parecchie volte nel corso del ciclo di Abramo per sottolineare gli eventi più importanti della vita del patriarca, segnatamente la nascita di Ismaele (16,16), la berît e la circoncisione (17,1.24; cf. 17,25) e la nascita di Isacco (21,5).

- Al di fuori del ciclo di Abramo, questa formula appare in Gn 25,20 (il matrimonio di Isacco); 26,34 (il matrimonio di Esaù); 37,2 (l’età di Giuseppe all’inizio della sua “storia”); Es 7,7 (l’età di Mosè e di Aronne all’inizio della loro missione).

- In questo modo, c’è chiaramente un sistema di date che lega insieme i principali eventi della vita di Abramo.

- Ora, tutti questi testi appartengono alla medesima fonte: ovvero all’autore sacerdotale. - Si nota una piccola difficoltà nella menzione dell’età di Abramo in 12,4a, dal momento che

sarebbe stato forse più normale trovarla dopo e non prima la menzione del viaggio in 12,5. - Alla fine di 12,4b, l’espressione beṣē’tô mēḥārān dovrebbe essere tradotta: “quando egli lasciò

Harran”. - Ora, nel testo P, Abramo lascia Harran solo in 12,5: wayyēṣe’û lāleket ’arṣāh kena‘an, “ed essi

uscirono per andare nella terra di Canaan”. - In 12,4a e in 12,5, l’autore sacerdotale usa lo stesso verbo yṣ’, “uscire”. In più, nei testi in cui

l’età del patriarca viene menzionata seguita da un infinito con la preposizione be, il fatto precede la menzione dell’età del patriarca.

- Per questo, cf. 16,15 e 16,16; 17,23 e 17,24; 21,2 e 21,5. - La spiegazione più semplice è probabilmente che nel testo finale 12,4b non si riferisca a 12,5,

bensì a 12,4a.

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La particolarità di Gn 12,1-4a La posizione centrale di Gn 12,1-3 nella teologia dello Yahwista (cf. G. von Rad) - Per l’ipotesi documentaria classica, il lavoro dello Jahwista (J) fu scritto al tempo di David o di

Salomone, ovvero al tempo della monarchia unita di Israele e Giuda. - Gn 12,1-3, che è stato comunemente attribuito allo Yahwista, è divenuto per molti esegeti un

testo centrale per questa prima fonte del Pentateuco. Di questo è specialmente il caso negli studi esegetici di G. von Rad.

- Questa interpretazione classica ha visto in Gn 12,1-3 il cosiddetto “kerygma” dello Yahwista. Sono due i punti particolarmente importanti in questa interpretazione.

- a) Nella fonte J la storia dell’universo (Gn 1 – 11 o, meglio, Gn 2 – 11*) è una storia continua di peccato e di castigo. Dopo la creazione (Gn 2), la prima coppia commette il primo peccato (Gn 3), così che il serpente e il suolo vengono maledetti (3,14.17). Gn 4 registra il primo crimine per cui Caino è maledetto (4,11). La storia del Diluvio è la storia di peccato e di castigo a seguire (Gn 6* – 8*). C’è una piccola tregua in Gn 8, dal momento che Dio promette di non maledire più il suolo (8,21; cf. 5,23); ma dal momento in cui il Diluvio è terminato, occorre un nuovo peccato, questa volta commesso da Cam contro suo padre Noè. La conseguente maledizione danna Canaan, il figlio e l’eroe di Cam (9,20-29; cf. 9,25). La torre di Babele è l’ultimo episodio in questa lunga serie di eventi oscuri e dannosi (11,1-9).

- Contro questo sfondo, Gn 12,1-3 diviene un punto di svolta, dal momento che, attraverso la persona di Abramo, una benedizione è alla fine promessa a “tutte le famiglie della terra” che erano sotto la maledizione di Dio.

- b) Il testo riflette la mentalità della monarchia unita. Per lo Jahwista questa benedizione promessa ad Abramo è adempiuta nel regno di David e di Salomone. Tutte le nazioni radunate in questo nuovo regno possono ora beneficiare della benedizione promessa all’antenato di Israele. Per tutte le nazioni circostanti, Israele è benedetto da Dio e possono condividere con lui questa benedizione. Molto probabilmente in questa “teologia” soggiace un tocco di propaganda politica.

Le difficoltà della teoria di G. von Rad a) Frank Crüsemann - Secondo F. Crüsemann, il vocabolario di Gn 12,1-3 non appoggia la teoria di von Rad. In altri

termini, molti termini-chiave in Gn 12,1-3 hanno un significato ben diverso da quello che i medesimi hanno in Gn 2* – 9*.

- Ad es., ’ădāmāh in Gn 2* – 9* significa “suolo” (cf., ad es., 2,5.6.7.9.19.23; 3,17.19; 4,2.3.11.12; 5,29; 6,7; 7,23; 8,21; 9,20), mentre in Gn 12,3 significa “universo”.

- D’altro lato, ’ereṣ significa “universo” in Gn 2* – 9* (cf., ad es., 2,4.5.6; 4,14; 6,5.6.7; 7,4.10.12.17; 8,3.9.11.22; 9,19; 10,8; 11,1.4.8.9), mentre in Gn 12,1 rimanda a “uno specifico e limitato paese”.

- In Gn 2* – 11* le tre parole gôy, mišpāḥāh e ’ereṣ (12,1-3), col significato di uno “specifico paese” non sono trovate in J, bensì in testi P (cf., ad es., 10,5.20.31.32; in 10,32, tuttavia, ’ereṣ significa “universo”).

- Crüsemann conclude che Gn 12,1-3 è un testo tardivo, dal momento che presuppone che J e P fossero già combinati in Gn 1* – 11* (cf. anche simili risultati di M. Köckert, G. Wenham, R. Cohn).

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- Questa conclusione indebolisce di molto la teoria di von Rad, dal momento che diviene difficile asserire che lo stesso autore, ovvero J, abbia scritto sia 2* – 11* e 12,1-3.

b) Erhard Blum - Questo esegeta solleva parecchie obiezioni contro la teoria di G. von Rad. La più importante

tocca l’esegesi di Gn 12,3b: h`Dm ∂dSaDh tñOjVÚpVvIm läO;k $ÔKVb …wâk √rVbˆn ◊w. Per von Rad e i suoi seguaci queste parole promettono una benedizione per tutte le nazioni della terra. La traduzione che essi propongono, infatti, è: “tutte le famiglie della terra saranno benedette in te”, oppure: “...troveranno benedizione in te”.

- Per questi aspetti, cf. le precedenti note alle particolarità del testo. Si ricordi che anche le antiche versioni (LXX, Targum, Vulgata) e il NT (Atti 3,25; Gal 3,8) preferiscono il significato passivo o medio. Il significato riflessivo è preferito da parecchi antichi esegeti, sia giudei che cristiani. Tuttavia, Rashi, Nachmanide, Kimchi e Ibn Ezra preferiscono la forma passiva.

- È corretta la traduzione proposta da von Rad e dai suoi seguaci? Secondo Blum, la grammatica e i suoi paralleli non la consentono.

- 1) La grammatica. La stessa, o la quasi stessa, formula di Gn 12,3 si trova in Gn 18,18; 28,14, con l’uso del niphal, e in 22,18; 26,4, con l’uso dell’hitpa‘el. Le formule sono troppo simili per avere diversi significati.

- Dal momento che l’hitpa‘el non può avere un significato passivo, la traduzione col passivo (“saranno benedette”) deve essere esclusa.

- Il significato medio è teoricamente possibile, anche se mai in pratica attestato. - Soltanto il significato riflessivo è possibile sia per il niphal che per l’hitpa‘el. - 2) I paralleli. I paralleli più chiari sono dati da Sal 72,17; Ger 4,2; Gn 48,20; cf. Rt 4,11-12;

Ger 29,22. In parecchi di questi testi l’hitpa‘el di brk è usato con la preposizione be. Tutti questi testi favoriscono un significato riflessivo (questi testi erano già citati da H. Gunkel).

- Sal 72,17 legge …wh…wírVÚvAa ◊y M¶Iywø…g_lD;k wóøb …wk √r¶D;bVtˆy ◊w, “possano [tutti] benedirsi l’un l’altro in lui e tutte le nazioni dichiararlo felice”.

- Il testo suggerisce che tutte le nazioni si benediranno vicendevolmente usando il nome del re, che viene menzionato subito prima, nello stesso versetto (“possa il suo nome durare per sempre, possa il suo nome conservarsi quanto il sole”).

- Ger 4,2 è molto simile al Sal 72,17: …wlD;lAhVty wñøb…w M™Iywø…g wöøb …wk√r¶D;bVtIh◊w hó∂q∂dVxIb…w f∞DÚpVvImV;b t™RmTaR;b hYÎwh◊y_yAj ‹D;tVo‹A;bVvn◊w, “Se giuri per il Signore che vive, con verità, rettitudine e con giustizia, allora le nazioni si benediranno in lui e in lui si glorieranno”.

- Il testo significa che le nazioni useranno il nome di Yhwh, menzionato in Ger 4,2a, per benedirsi e per gloriarsi. Si veda anche Dt 29,18; Sal 49,19 per costruzioni simili.

- Gn 48,20: già Rashi usava questo testo per spiegare Gn 12,3. I precedenti testi non sono forse completamente liberi dalle difficoltà. Gn 48,20 non lascia alcun dubbio circa l’esatto significato del costrutto brk allo hitpa‘el + be (“benedirsi reciprocamente nel...”).

- Il testo descrive la benedizione di Efraim e di Manasse da parte di Giacobbe: h¡RÚvÅnVmIk ◊w MˆyäårVpRaV;k My$IhølTa ∞ÔKVm`Ic ◊y r$OmaEl ‹ lEa ∂rVcˆy JKôérDb ◊y KV;b ~rwømaEl a…whAh Mwâø¥yA;b M%Ekßr°Db ◊yÅw, “Ed egli [Giacobbe] li benedisse dicendo: ‘In te Israele si benedirà, dicendo: Possa Dio farti come Efraim e come Manasse’”.

- Questo testo, tra l’altro, mostra anche come un nome proprio fosse usato in una benedizione.

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- Allo stesso modo, Gn 12,3 dice che tutte le famiglie della terra useranno il nome di Abramo per benedirsi l’una l’altra.

- Rt 4,11-12. Questo testo non usa il verbo brk, ma mostra molto bene il modo concreto in cui i nomi propri vengono usati in una benedizione:

- “11 E tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: «Ne siamo testimoni. Il Signore conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d’Israele. Spiega la tua forza in Efrata e fatti un nome in Betlemme! 12 Possa la discendenza che il Signore ti darà da questa giovane rendere la tua casa simile alla casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda!»”.

- In questo testo, i nomi di Rachele, Lea e Perez sono usati per benedire Rut e Boaz. - Ger 29,22. L’ultimo testo contiene una maledizione e non una benedizione: “Da essi [Sedechia

e Acab] si trarrà una formula di maledizione fra tutti quelli di Giuda che sono deportati a Babilonia, e si dirà: ‘Il Signore ti tratti come Sedechia e come Acab, che il re di Babilonia ha fatti arrostire al fuoco!’”.

- La formulazione di questo testo è vicina a quella in Gn 48,20. Per una simile idea, cf. anche Sal 102,9; Is 29,14; 65,15-16; Zc 8,13.

- Conclusione. Questi paralleli confermano che il niphal di brk in Gn 12,3 deve avere un

significato riflessivo. Il testo implica che tutte le famiglie della terra si benediranno vicendevolmente usando il nome di Abramo, dicendo: “Sii benedetto come Abramo”.

- In tal modo, Gn 12,1-3 non promette una benedizione a tutta l’umanità, ma piuttosto insiste sul fatto che Abramo è benedetto e che questo sarà riconosciuto da tutte le nazioni della terra.

- Questo, ovviamente, rende molto dubbia la teoria di G. von Rad. - Del resto, già H. Gunkel nel suo commentario scriveva: “Benedirsi l’un l’altro in qualcuno o

nel nome di qualcuno (niphal o hitpa‘el) significa: ‘menzionare il nome di qualcuno in una formula di benedizione’” (p. 165).

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Lezione 10 Interpretazione – Gen 12,1-3 è un testo post-esilico e post-sacerdotale - Due tipi di argomentazioni appoggeranno questa tesi: primo (a), la relazione di Gn 12,1-4a con

il resto del ciclo di Abramo; secondo (b), i paralleli e il loro contesto. a) Gen 12,1-4a e il ciclo di Abramo - Due realtà meritano una speciale attenzione: 1) il tema della benedizione e 2) i legami di 12,1-

4a con il testo sacerdotale. - 1) Le benedizioni in 12,2-3 rimangono isolate all’interno del ciclo di Abramo. In alcun luogo

c’è una concreta allusione al loro compimento. - Dov’è che le persone benedicono o maledicono Abramo? Dove le persone sono benedette o

maledette a causa del loro comportamento nei confronti di Abramo? - Alcuni esegeti tentano di trovare delle evidenze o delle tracce di queste questioni in narrazioni

come Gn 12,10-20; 13,1-18; 16,1-16; 18,17-33. - Tuttavia, questi tentativi non si rivelano, in realtà, stringenti. - Si può dire che, in Gn 12,10-20, il Faraone riceve da Dio le sue “piaghe” perché ha disprezzato

o maltrattato Abramo? In Gn 13 Abramo è una benedizione perché lascia a Lot la parte migliore del paese? Gn 13,10b.13 e Gn 19 mostrano che, al contrario, Lot fece la scelta sbagliata. Dunque, Abramo sarebbe l’origine di una maledizione in Gn 13 e in Gn 19? Tutto questo sembra molto forzato. Del resto, Gn 18,17-33 non parla di benedizioni e di maledizioni, ma di giustizia.

- In conclusione, si deve ammettere che in nessun luogo Abramo si è mostrato particolarmente “benedetto” da Dio. In nessun luogo le persone sono benedette o maledette a causa del suo comportamento verso di lui. E, sicuramente, in nessun luogo le persone usano il suo nome come una benedizione.

- Il tema della benedizione speciale di Abramo sembra essere piuttosto una reinterpretazione dell’intero ciclo di Abramo. Questa reinterpretazione è posizionata in un momento-chiave della narrazione, proprio al suo inizio, per dare al lettore una nuova chiave ermeneutica di narrazioni ben conosciute.

- 2) Il fatto che questo testo sia tardivo e tenti di reinterpretare antichi materiali è confermato da una osservazione critico-letteraria. Il testo sacerdotale di Gn 11,31-32 ha la sua naturale continuazione in 12,5, come si è visto. Il viaggio del clan di Terah termina in 12,5, quando Abramo raggiunge Canaan.

- La narrazione di questo viaggio si trova quindi interrotta nell’attuale testo canonico da Gn 12,1-4a (12,4b è P; vedi infra). La connessione tra 11,31-32 riappare ben chiaramente se si rimuove 12,1-4a.

- Per questa ragione, Gn 12,1-4a deve essere considerata una inserzione all’interno di un testo P. Ora, normalmente, una inserzione è più recente del testo in cui viene introdotta.

- Tutto questo è corroborato da un’altra osservazione, fatta in precedenza. Gn 12,4b è fuori posto

perché dovrebbe provenire, secondo la grammatica e lo stile sacerdotale, dopo e non prima di 12,5. Ma, dopo che 12,1-4a fu inserito, divenne più appropriato menzionare l’età di Abramo proprio subito dopo la sua partenza da Harran in 12,4.

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- Così, la spiegazione più semplice di questo inusuale ordine è che i redattori post-P di 12,1-4a cambiarono il normale ordine delle frasi, al fine di adattarle meglio al nuovo contesto creato dalla loro inserzione di 12,4a.

b) I paralleli - Tra le espressioni usate in Gn 12,2-3, alcune hanno paralleli solo in testi post-esilici. È il caso

di ‘śh gôy gādôl (12,2) e della formula del v. 3a. - 1) ‘śh gôy gādôl, “fare [qualcuno] una grande nazione” (12,2; cf. anche 17,20; 18,18; 21,18;

46,3 [cf. anche 21,13: Samaritano, LXX, Peshitta, Vulgata]). - Al di fuori di Genesi, questa espressione si trova in Es 32,10 e in Nm 14,12, che sono redatti in

stile e in contenuto deuteronomistici. - L’espressione gôy gādôl è applicata a Israele in Dt 4,7; 26,5b. Tutti questi testi sono tardivi e

sono sicuramente deuteronomici/deuteronomistici. - Il contenuto di queste espressioni è post-esilico per due principali ragioni. i) i testi che

riferiscono questa espressione a Israele sono tardivi (cf. supra); ii) questi temi suppongono l’esperienza politica della monarchia.

- In effetti, la parola gôy ha connotazioni politiche perché significa “nazione” e perché implica almeno due elementi, ovvero il possesso di un territorio e una forma indipendente di governo.

- Per la maggioranza degli antichi questo significa una monarchia. - Israele fu una “nazione” con il suo proprio territorio e re fino alla distruzione di Samaria, nel

721, e di Gerusalemme, nel 586. Dopo questi eventi, Israele e Giuda furono sempre parti di un grande impero, prima di tutto quello babilonese, poi quello persiano, quello greco e quello romano.

- Solamente durante e dopo l’esilio Israele avrebbe potuto non essere più un gôy, ovvero una nazione indipendente, con il suo proprio territorio e la sua propria monarchia.

- La promessa di Gn 12,2 riflette questa amara esperienza, specialmente la fine della monarchia. In caso contrario, il testo avrebbe semplicemente parlato di ‘am gādôl (cf. Dt 1,28, 2,10.21; 9,2) o di ‘am rāb (cf. Gn 50,20; Nm 21,6; Gs 11,4; 17,14.15.17; Gdc 7,4; 2Sam 13,34; 24,16; 1Re 3,8; 5,21; 2Cr 1,9; 30,13; 32,4; Esd 10,13; Is 13,4; Ez 17,9.15; 26,7; Gl 2,2), “grande popolo”, o di “popolo numeroso”, e non avrebbe insistito su questo aspetto “politico” della promessa.

- L’idea che Gn 12,2-3 supponga l’esperienza della monarchia è confermata da due altre osservazioni. Due delle tematiche presenti in questi versetti sono attualmente anche parte dell’“ideologia regale”, segnatamente la “benedizione” e il “grande nome”.

- Per il “grande nome” di un re (šēm gādôl), si veda l’oracolo di 2Sam 7,9, un testo deuteronomistico: cf. 1Re 1,47; Sal 72,17. Oltre ad Abramo, solo Dio e il re possono avere un “nome grande” nella Bibbia.

- Per la benedizione “nel nome del re”, si veda Sal 21,4; 72,17. - Gn 12,2-3 ha sostituito deliberatamente e consciamente questa forma e questa espressione reale

e l’ha applicata ad Abramo. Come a dire, quando Abramo è nominato in questo modo può solo significare la democratizzazione delle forme reali.

- La monarchia è ormai scomparsa, ma la sua eredità non è persa. Attraverso Abramo, tutto il popolo di Israele ne diviene erede.

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- 2) Benedizioni e maledizioni (12,3). I testi in cui i nomi di Israele e di Giuda sono usati come detti per una maledizione sono tutti esilici o post-esilici (cf. Dt 28,37; 2Re 22,19; Ger 24,9; 25,18; 26,6; 42,18; 44,8.12.22; Zc 8,13; cf. anche Lm 2,15-16; Sal 44,14-15).

- Alcuni testi esilici/post-esilici menzionano la possibilità che il nome di Israele possa essere “cancellato”, ovvero che Israele come nazione possa scomparire (cf. Dt 9,13; 29,16-17; 2Re 14,27; Is 48,18).

- Conclusione. Gn 12,2-3 è meglio compreso se letto sullo sfondo di questo background

esilico/post-esilico. L’oracolo di Dio promette ad Abramo un futuro luminoso: esattamente il contrario dell’esperienza di Israele durante l’esilio.

- 1) Mentre Israele stava per scomparire come nazione, Abramo diventerà una grande nazione (cf. 12,2a).

- 2) Mentre Israele era sotto una maledizione, Abramo sarà benedetto (cf. 12,2a). - 3) Mentre il nome di Israele correva il pericolo di essere cancellato, Dio farà grande il nome di

Abramo (cf. 12,2a). - 4) Mentre il nome di Israele era usato come un detto per maledire, ora il nome di Abramo sarà

usato come benedizione da tutte le famiglie della terra (cf. 12,3). - 5) La monarchia non esiste più, tuttavia in questo oracolo le benedizioni promesse al re sono

trasferite ad Abramo e a tutti i suoi discendenti. Alcune riflessioni conclusive su Gn 12,1-9 e sul viaggio di Abramo Gn 12,1-3 e 11,1-9 - Poiché Gn 12,1-3 è un testo tardivo che presuppone, dunque, l’esistenza di Gn 1* – 11*, è

possibile leggerlo sollo sfondo del background dei precedenti capitoli, specialmente 11,1-9, l’episodio della costruzione della città di Babele.

- Le osservazioni che seguono sono basate sull’uso di un vocabolario simile e sulla presenza di temi comuni in entrambi i testi.

- a) Sia Gn 11,1-9 che 12,1-3 parlano di un “grande nome” o di un “nome” (12,2 e 11,4); entrambi i testi usano la radice gdl (12,2.3 e 11,4.5, nella parola migdāl, “torre”). Abramo riceverà da Dio il “nome” che il genere umano voleva acquisire con la costruzione di Babele.

- b) I motivi del viaggio e la dispersione del genere umano sono ugualmente comuni ad entrambi i testi. La dispersione del genere umano dopo il fallimento di Gn 11,1-9 riceve un nuovo significato in Gn 12,1-3. Il viaggio di Abramo non ha luogo sotto una maledizione, ma sotto la benedizione di Dio. Questo è, dunque, un altro modo di sottolineare l’importanza di Gn 12,1-3 come punto di svolta nel libro della Genesi.

Il viaggio - Gn 12,1-9 è l’inizio di un viaggio, che costituisce una delle trame più comuni nella letteratura

eroica tradizionale. - Ciò che è peculiare al viaggio di Abramo è la situazione iniziale, carica di incertezze. - Lo scopo di Ulisse nell’Odissea è molto chiaro, dal momento che vuole tornare a casa. - Lo scopo dell’Eneide è trovare un luogo in cui sarà possibile fondare una nuova Troia.

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- Nel Rāmāyaṇa, uno dei più grandi poemi epici della mitologia induista, Rāma parte per un lungo viaggio per trovare la sua sposa Sitā, che Rāvana ha rapita, al fine di portarla a casa.

- Lo scopo di Abramo rimane molto più nell’ombra, oltre al fatto che dovrà scoprirlo a poco a poco, dal momento che il suo viaggio è un viaggio verso l’ignoto.

- Questa è una caratteristica della letteratura biblica e della spiritualità. Il carattere specifico del viaggio di Abramo - I due critici letterari, Robert Kellogg e Robert Scholes, hanno notato un interessante fenomeno

nelle tecniche sviluppate dalla letteratura tradizionale per descrivere la vita interiore dei personaggi.

- La prima possibilità è quella della descrizione diretta da parte del narratore. La tecnica è comune nelle saghe islandesi e nella letteratura moderna.

- Una seconda possibilità è l’uso del monologo interiore, che non è molto frequente nella Bibbia. È anche piuttosto raro nella letteratura tradizionale. La saga lo evita.

- Una terza possibilità, che non è menzionata da Kellogg e Scholes, ma che, al contrario, è una tipica caratteristica dell’arta narrativa biblica, è data dalla drammatizzazione della vita interiore attraverso il dialogo.

- Infine, la letteratura tradizionale e primitiva ricorrono al “mito”: l’intervento di divinità, di visioni, di oracoli, di sogni.

- Nella Bibbia Dio viene sul palcoscenico narrativo in momenti psicologici cruciali. Questo è il caso proprio di Gn 12,1-3. La partenza di Abramo non è presentata come il risultato di una privata deliberazione di Abramo, ma come il risultato di un ordine proveniente direttamente da Dio nella forma di un discorso ordinario. Non c’è né una teofania né una visione.

- Non sappiamo niente dei processi mentali di Abramo, o delle sue battaglie interiori, o dei suoi sentimenti. Non servono, proprio perché la decisione non è sua propria.

- Questo fatto presenta delle conseguenze: 1) Il discorso di Dio costituisce Abramo come il

“protagonista” della narrazione. In Gn 12, Dio parla a lui, non a Terah o a Lot o a Sara o a qualcun altro.

- 2) Questa tecnica introduce un elemento imprevisto nella narrazione. Un personaggio che agisce sempre secondo gli attributi che gli sono dati a partire dalla sua prima apparizione sulla scena tende a comportarsi sempre meccanicamente secondo quegli attributi. Tuttavia, un personaggio i cui processi mentali e le cui azioni sono soggetti a improvvise influenze soprannaturali inevitabilmente mostrerà alcune di quelle “irregolarità” di comportamento che, agli occhi di un lettore del XX secolo, appariranno squisitamente umane, proprio perché irrazionali.

- Del resto, nella Bibbia gli interventi di Dio sono normalmente decisivi perché accadono quando la narrazione raggiunge un punto fermo (proprio come in Gn 12,1-3).

Conclusione - Gn 12,1-4a è il vero e proprio inizio del ciclo di Abramo. - In questi pochi versetti il lettore trova il contratto tra Dio e Abramo, ovvero tra il destinatore e

il destinatario, o l’eroe, della narrazione. Il contratto contiene parecchie clausole.

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- La prima clausola è una missione, ovvero il comando di Dio di partire per un viaggio (12,1). La seconda è la promessa di una benedizione, che implica una “promessa di assistenza” (12,2-3).

- Queste due clausole formano quanto viene chiamato “momento iniziale” della narrazione (inciting moment), ovvero il momento della narrazione in cui il problema, il conflitto, la domanda, il compito o la missione da adempiere appaiono per la prima volta.

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Lezione 11 GENESI 12,10-20: ABRAMO E SARA IN EGITTO Note filologiche v. 11: rRvSaA;k yIh ◊yÅw; v. 14: awøbV;k yIh ◊yÅw: Si tratta di espressioni che introducono una nuova sezione narrativa. v. 13: Da notare la forma di educata richiesta con l’uso dell’interiezione precativa della particella aDn in aDn_yîrVmIa: “...ti prego”, “...per favore”. Si noti ancora la rima interna in v. 13b: JKElDl ◊gI;b ...Kér…wbSoA;b. Delimitazione del testo - L’inizio della narrazione è chiaramente marcato da una nuova circostanza, segnatamente una

carestia, e da un cambiamento di luogo, dal momento che Abramo “scende” in Egitto. Il segnale stilistico utilizzato per evidenziare questa nuova narrazione è il yIh ◊yÅw al v. 10.

- Più difficile è stabilire dove la narrazione finisca: in 12,20 (la maggior parte dei commentatori), in 13,1 (Holzinger, Gunkel, Skinner, Heinisch, von Rad, Simpson, Peterson, Coats, Alexander, Levin) o in 13,4 (Cassuto)?

- a) Ci sono alcuni argomenti a favore di 13,4: 1) la radice kbd (12,10) è ripetuta in 13,2; 2) Bethel e Ai sono menzionate in 12,7-8 e in 13,3-4; 2) la menzione della costruzione dell’altare (cf. 12,7b e 13,4a); 3) la menzione dell’invocazione del nome del Signore (cf. 12,8b e 13,4a).

- D’altro lato, le obiezioni a questa possibilità sono considerevoli: 1) Per esempio, l’inizio di 13,5, che menziona Lot, lega questo versetto con 13,1-2. Per questo motivo, la narrazione di Gn 13 deve iniziare al limite in 13,2. 2) Inoltre, la radice kbd in 12,10 e in 13,2 non descrive le medesime realtà.

- Da questo si ricava che il cosiddetto parallelismo è molto formale e di poco significato. - b) Gli argomenti in favore di 13,1 sono più forti. C’è uno stretto parallelismo tra 12,10 e 13,1:

1) il viaggio finisce dove comincia. Notare anche il verbo yrd in 12,10 e il verbo ‘lh in 13,1. Inoltre, il termine mimmiṣrayim in 13,1 corrisponde a miṣraymāh in 12,10.11.14. 2) L’enumerazione ’ōtô we’et-’ištô we’et-kol-’ăšer-lô di 12,20 ha un equivalente in 13,1: hû’ we’ištô wekol-’ăšer-lô.

- L’argomento principale contro questa soluzione è che il parallelismo può essere tra due inizi piuttosto che tra l’inizio e la fine in una stessa narrazione.

- c) Gli argomenti in favore di 12,20 sono narrativi, piuttosto che semplicemente stilistici: - 1) Il soggetto “Abramo” è introdotto nuovamente in 13,1, ma è assente da 12,20. Inoltre, 13,1

introduce nuovamente Lot, un personaggio importante nell’episodio che segue. - 2) Da un punto di vista narrativo, 12,20 è una conclusione perché non c’è più alcuna attesa oltre

questo versetto.

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- 3) Il viaggio in quanto tale (12,20; 13,1-4) appartiene a una struttura narrativa omnicomprensiva e non specificamente a 12,10-20. È molto più naturale vedere in 12,20 la conclusione di 12,10-20 perché descrive la partenza dall’Egitto, ovvero l’ambientazione dell’intero episodio. Al contrario, 13,1, che conduce Abramo e Lot verso il Negeb e la terra promessa, si presenta più naturalmente come l’introduzione all’episodio che segue, che ha luogo proprio nella terra promessa.

- Per queste ragioni la delimitazione classica (12,10-20) è la più preferibile. Il problema delle fonti - Secondo la maggioranza dei commentatori, il testo appartiene a J. Solo pochi esegeti hanno una

opinione diversa, come, ad es., Chr. Levin, per il quale Gn 12,10-20 sarebbe un testo molto tardivo, che suppone già la combinazione di J e di P (cf. Der Yahwist, 141-142).

- Levin qui segue J. Wellhausen, che vede in 12,10-20 una inserzione all’interno del suo attuale contesto.

- Il problema, tuttavia, è sapere cosa era originale, la narrazione o la cornice. - Esegeti come R. Rendtorff, E. Blum e M. Köckert, tra altri, hanno mostrato con solidi

argomenti che la struttura del ciclo di Abramo è più recente dei singoli episodi. - Tornando a 12,10-20, la narrazione appare unificata: non ci sono vere tensioni o inconsistenze

al suo interno che potrebbero condurre a importanti operazioni di critica delle fonti. - Tra gli altri problemi che meritano attenzione, poi, sono anche le espressioni wa’ătōnōt

ûgemallîm del v. 16b, e we’et bêtô del v. 17a. Entrambe sono molto probabilmente delle aggiunte scribali.

- Gn 12,16b contiene una descrizione dei doni del Faraone ad Abramo. L’enumerazione è un tópos , un motivo ben conosciuto, circa le “ricchezze degli antenati”.

- Liste simili si ritrovano in Gn 13,2; 20,14; 24,35; 30,43; 32,15-16; Es 9,3; 2Re 5,26; Gb 1,3; 42,12; ...

- Tuttavia, come detto, le ultime due parole sembrano essere fuori posto. Per quale motivo le asine e i cammelli sono menzionati dopo i servi e le serve, visto anche che una breve enumerazione di animali li precede?

- Il Pentateuco samaritano è anche più lungo, ma insieme anche più liscio del TM: “Egli ebbe pecore, buoi, molto bestiame, servi e serve, asini e asine, e cammelli”.

- L’aggiunta di alcune parole e lo spostamento di altre mostra che queste liste potevano essere facilmente modificate.

- Lo spostamento della parola ḥămōrîm, “asini”, nel Samaritano è forse un segno che questa tradizione avvertì una qualche difficoltà con l’ordine originario delle parole.

- In ogni modo, in Gn 24,35 e 31,43, esattamente come in Gn 12,16b, la coppia di parole ‘ăbādîm ûšepāḥōt, “servi e serve”, è seguita da un’altra coppia di parole, gemallîm waḥămōrîm. In questi casi, la certezza assoluta è impossibile.

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Lezione 12 Il problema delle fonti (segue) - Alcuni autori vanno un poco oltre e affermano che l’intero v. 16b (a partire da wayhî-lô) sia

un’aggiunta (cf. R. Kilian, P. Weimar). - Essi adducono tre argomenti: a) la frase è solo vagamente connessa al contesto; b)

l’enumerazione dei possessi di Abramo ha poco peso sulla narrazione: c) essa prepara la narrazione successiva, in cui il numeroso bestiame causa un conflitto tra i pastori di Abramo e quelli di Lot (13,2.5-7).

- Questi argomenti, tuttavia, non sono completamente convincenti. Si potrebbe obiettare che: a) in tutte e tre le versioni di questa storia compare il motivo dell’arricchimento del patriarca (20,14; cf. 26,12-17); b) in Gn 12,16 questi doni sono molto probabilmente da essere interpretati come “dote”; c) il v. 16 è essenziale alla trama, poiché asserisce che Abramo fu salvo in Egitto, e non precisamente che divenne ricco. Il v. 16a (yṭb + ba‘ăbûrāh) diviene dunque l’adempimento del desiderio di Abramo espresso al v. 13 (yṭb + ba‘ăbûrēk).

- La struttura narrativa è chiara e il v. 16a descrive il compimento della situazione. - L’altra difficoltà è più semplice. In Gn 12,17 non c’è alcuna reale ragione del perché la “casa

del Faraone” dovrebbe essere afflitta da piaghe. - Le parole we’et bêtô sono presenti, se non testualmente almeno come significato, nella versione

parallela (Gn 20,17) e potrebbero essere state introdotte in Gn 12,17 per armonizzare entrambe le narrazioni.

- Come si può vedere, nessuno di questi problemi ha un particolare peso sull’interpretazione del testo.

- C’è, comunque, una terza difficoltà che è molto dibattuta, ovvero il problema del v. 18: Come ha fatto il Faraone a connettere le piaghe con la presenza di Sara nel suo harem? Questo problema sarà trattato in sede di analisi narrativa, dal momento che la sua soluzione si trova dopo un attento esame della trama.

Analisi narrativa Status quaestionis - I commentari dedicano molto spazio a uno specifico problema di questa narrazione, ovvero alla

sua relazione con altre due versioni della medesima “scena tipica”: Gn 20,1-18 e 26,6-11. - L’espressione “scena tipica” è un termine coniato negli anni Trenta del secolo scorso da W.

Arend, uno specialista in letteratura omerica. - Queste tre storie costituiscono tre versioni indipendenti? Sono tra loro correlate? In che modo?

Qual è quella più antica? Appartengono alle classiche “fonti” J ed E? Hanno una origine che si perde nel mondo dell’oralità?

- Questioni di questo tipo non saranno trattate in questo corso, dal momento che ci porterebbero troppo lontano dagli scopi prefissi.

- Noi ci concentreremo più che altro sulla narrazione di 12,10-20 in quanto tale.

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- In Gn 12,10-20 il problema principale è il “significato” della storia. A questo scopo si possono distinguere almeno quattro principali direzioni nello studio della pericope:

- a) La storia sarebbe essenzialmente profana e loderebbe la bellezza di Sara. Essa esalterebbe la sua passione per il marito, dal momento che è pronta a mettere a rischio il suo onore per difendere la vita del marito. D’altro canto, enfatizzerebbe anche la scaltrezza di Abramo (cf., ad es., H. Gunkel).

- Come si espresse H. Gunkel nel suo commentario: “Il narratore sommessamente gioisce perché Abramo ha potuto mentire così straordinariamente bene e fare della necessità in cui si trovava una virtù. Egli può quindi riconoscersi con assoluto diletto nell’intelligente comportamento del suo antenato”.

- Sempre in questo filone (a), per T.L. Thompson la storia sarebbe centrata sul motivo della “spogliazione degli egiziani” (cf. Es 12,36).

- b) La storia avrebbe un significato teologico. Ad esempio, mostra come Dio protegga Abramo nonostante la sua debolezza (cf., ad es., G. von Rad). Oppure, il focus potrebbe essere su Sara. In questo caso la narrazione mostrerebbe come Dio abbia riscattato Sara quando essa venne abbandonata da suo marito (cf., ad es., G. Wenham).

- c) La storia conterrebbe una lezione morale. Per alcuni esegeti essa mostrerebbe che non si dovrebbe dare la precedenza alla paura di morire, come fa Abramo. Essa, al contrario, si dovrebbe sconfiggere avendo fiducia nel potere di Dio (cf., ad es., P. Weimar). Dio punirebbe Abramo per la sua mancanza di fede, anche se questa punizione consisterebbe solo in una “vergogna”. La storia creerebbe un contrasto con 12,1-3: dopo un primo atto di fede, Abramo, il prescelto da Dio, mostrerebbe la sua infedeltà e la sua incredulità (cf., ad es., A. Dillmann).

- Oppure, al contrario, si potrebbe ipotizzare che il contrasto consista tra il senso di moralità, evidente nel comportamento del Faraone (cf. vv. 18-19), e l’indifferenza di Abramo.

- d) Il significato della storia avrebbe una valenza storica, ovvero prefigurerebbe la storia futura di Israele, dal momento che possono essere riscontrate diverse similitudini tra Gn 12,10-20 e Es 7 – 11. I punti di maggiore contatto sono più che altro le “piaghe” (cf. Gn 12,17: waynagga‘ YHWH...), e il “licenziamento” (espulsione) di Abramo, espresso dal verbo šlḥ, al pi‘el (cf. Gn 12,20).

- Per questi esegeti (cf., ad es., H. Gunkel, B. Jacob, U. Cassuto, F. Crüsemann, G. Wenham, E. Blum), Gn 12,10-20 sarebbe una storia “tipologica”, annunciando le “piaghe” d’Egitto e il relativo esodo (cf., spec., G. Wenham).

- La narrazione usa il motivo universale ben conosciuto della moglie rapita. - Ci sono parecchi esempi di questo motivo nella Bibbia (cf. Gn 6,1-4; 20,1-18; 26,7-11; 34;

2Sam 11; cf. anche Gn 39; 1Sam 25; 2Sam 3,12-16). - Al di fuori della Bibbia questo tipo di storia è pure molto comune. È qui sufficiente menzionare

l’Iliade, il Rāmāyaṇa e innumerevoli miti, racconti, fiabe e novelle.

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Lezione 13 La trama a) Il tempo - 1) Ellissi. Un primo modo di analizzare una narrazione e di scoprire la sua struttura soggiacente

è quello di comparare il “tempo della storia” e il “tempo del racconto”. - Nel caso di Gn 12,10-20 si notano parecchi “vuoti” temporali o “ellissi”. Le più importanti

sono tra i vv. 13 e 14, e tra i vv. 16 e 17. - In 12,11-13 Abramo parla a Sara e le chiede di dire di essere sua sorella. Sara, però, non

risponde, e il verso successivo dipinge cosa accade in Egitto. Il resto della conversazione, qualora ci sia stata, e il resto del loro viaggio non sono raccontati.

- L’altra maggiore “rottura” è tra il v. 16 e il v. 17, come detto. Quanto tempo sarebbe passato tra la decisione del Faraone di prendere Sara e di ricompensare Abramo generosamente, e l’intervento punitivo di Dio?

- La narrazione presenta gli eventi in una sequenza cronologica, tuttavia non ci sono alcune indicazioni di tempo.

- I legami cronologici e logici tra i vv. 16 e 17 devono essere suppliti dal lettore. - 2) Scene e sommari. Due momenti sono più importanti in questa narrazione: i due discorsi dei

vv. 11-13 e del vv. 18-19. - Questi sono gli unici due momenti in cui il tempo della storia è praticamente uguale al tempo

del racconto. - Questa osservazione è essenziale per l’analisi della trama. Il resto della narrazione contiene

solo brevi “sommari”. b) Le diverse parti della trama (“scene”) - Il criterio principale per distinguere delle unità in una narrazione è lo sviluppo dell’azione. - Da questo punto di vista ci sono due parti principali nella narrazione: vv. 10-16 e vv. 17-20. - Nella prima parte Abramo e Sara sono obbligati ad andare in Egitto a causa del sopraggiungere

di una carestia. Tuttavia, il problema reale della storia appare nel primo discorso della narrazione (vv. 11-13).

- Abramo prevede un possibile pericolo nella bellezza di sua moglie: gli egiziani potrebbero ucciderlo per prendergli la moglie. Il patriarca propone una soluzione a Sara: ella deve nascondere la sua vera identità. Tutto sembra svolgersi secondo il piano di Abramo (vv. 14-16).

- Al v. 16 la narrazione giunge ad uno “stop”: essa raggiunge una prima conclusione e, in verità, potrebbe finire là. Solo un elemento esterno potrebbe cambiare il corso degli eventi, dal momento che il Faraone e Abramo sono “felici”, mentre Sara è “silente”...

- La seconda parte della narrazione inizia con un elemento inaspettato, ovvero l’intervento di Dio nel v. 17: egli affligge il Faraone con piaghe “ a causa di Sara, moglie di Abramo”.

- A dire il vero, il lettore potrebbe essersi sentito “inquieto” per la presenza di Sara nell’harem del Faraone. Tuttavia, niente nella narrazione indica in qual modo poter trovare una soluzione a questo nuovo problema. Dopo l’intervento di Dio, la storia si affretta verso la sua seconda, e definitiva, conclusione, ovvero la restituzione di Sara ad Abramo e la partenza dall’Egitto.

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- La soluzione, questa volta, è data dallo stesso Faraone nel secondo discorso della narrazione, quando egli scopre la verità circa la reale situazione di Sara (vv. 18-19).

- La prima parte della narrazione è chiaramente suddivisa in due scene da alcuni espedienti stilistici, ovvero dalle indicazioni di tempo. Dopo l’esposizione (v. 10) la prima scena è introdotta da una prima indicazione di tempo: wayhî ka’ăšer hiqrîb lābô’miṣrāymāh, “Come stava per entrare in Egitto” (v. 11a).

- A questo punto ha luogo un dialogo tra Abramo e Sara (vv. 11b-13). - La seconda scena viene introdotta da un’altra indicazione di tempo: wayhî kebô’ ’abrām

miṣrāymāh, “Quando Abramo giunse in Egitto” (v. 14a). - Questa scena finisce con la descrizione della prosperità di Abramo in Egitto (v. 16). - La seconda parte della narrazione non è suddivisa in scene. - C’è solo una breve introduzione, con la menzione dell’intervento di Dio (v. 17); l’immediata

reazione del Faraone, ovvero il suo discorso ad Abramo (vv. 18-19), e la conclusione della narrazione (v. 20).

- I vv. 17-20 formano una singola unità di azione, dal momento che essi costituiscono una singola catena di causa-effetto in tre momenti: a) L’intervento di Dio (v. 17) causa b) la reazione del Faraone (vv. 18-19), che, a sua volta, causa c) la partenza di Abramo (v. 20).

- Il v. 20 è la conclusione dell’intera narrazione, e non solo della seconda parte. c) Analisi delle singole parti dell’azione 1) L’esposizione (v. 10) - Gn 12,10 descrive il setting e le circostanze della narrazione che segue: la carestia e il

soggiorno in Egitto. Introduce anche uno dei protagonisti principali: Abramo. La carestia è solo un elemento della narrazione, l’occasione del viaggio in Egitto, ma non il centro dell’episodio, che è introdotto dai vv. 11-13.

- La frase “E Abramo scese in Egitto per soggiornare là” (v. 10b) è una sorta di “titolo” o di “sommario prolettico”.

- Tuttavia, l’uso di lāgûr (“soggiornare”) invece del wayyiqtol wayyāgor (“ed egli soggiornò”: cf. 20,1) ci previene dal dire che esso sia un vero sommario prolettico, dal momento che c’è una sequenza tra i due verbi. Nondimeno, molte versioni e commentari hanno usata questa frase come titolo dell’episodio. Si pensi ai classici titoli: “Abramo in Egitto” e simili...

- Dal punto di vista stilistico, il v. 10 ricorre ad una figura retorica conosciuta col nome di “epanalessi”, con cui si vuol significare il fatto che le prime parole di una frase sono riassunte alla fine: cf. v. 10a con il v. 10bb.

2) La prima scena (vv. 11-13) - a) Il primo discorso introduce Sara come personaggio. Esso contiene il cosiddetto inciting

moment della narrazione, poiché qui appare per la prima volta il reale problema dell’episodio. - Il problema non è esattamente la bellezza di Sara quanto ciò che Abramo connette alla bellezza

di sua moglie, ovvero il pericolo per la sua propria vita. - Il primo discorso contiene nel v. 13 anche un “programma narrativo”, in cui Abramo propone

un piano per scampare al pericolo di morte.

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- In realtà, Abramo teme per la sua propria vita, non per quella di sua moglie. Questo piano viene parzialmente adempiuto nei vv. 14-16.

- b) La struttura del discorso di Abramo. Quanti elementi contiene questo discorso? Peter Weimar e Irmtraud Fischer propongono due diverse soluzioni.

- Per P. Weimar il testo si può suddividere in tre parti (vv. 11; 12; 13): - 1) Il v. 11b, introdotto dalla particella hinnēh-nā’, “ecco, ti prego”, e dal verbo yāda‘tî, “io so”,

costituisce la presentazione del fatto. - 2) La seconda parte è introdotta, al v.12a, da wehāyāh, “e avverrà/accadrà che...”. In questa

parte Abramo “prevede” ciò che potrebbe accadere in Egitto: a causa di Sara e della sua bellezza, gli egiziani potrebbero ucciderlo per prendere per loro stessi Sara (cf. v. 12b).

- 3) La terza parte contiene la soluzione proposta da Abramo: egli chiede a Sara di dire che è sua sorella (cf. v. 13).

- I. Fischer basa la sua analisi più sulla forma che sul contenuto, distinguendo solo due parti nel discorso di Abramo: i vv. 11-12 e il v. 13.

- La prima parte contiene sia un complimento a Sara a proposito della sua bellezza, che un problema che questa bellezza potrebbe causargli in Egitto. La seconda parte propone una soluzione.

- Il parallelismo di queste due parti è sottolineato dall’uso della particella enclitica –nā’ all’inizio del v. 11b e del v. 13a (hinnēh-nā’ e ’imrî-nā’).

- La costruzione è parallela poiché entrambe le parti contengono una citazione e una giustificazione. Nella prima parte, Abramo cita il possibile discorso degli egiziani (cf. v. 12a), laddove la giustificazione è introdotta dalla particella kî (“io so che...: cf. v. 11b).

- Nella seconda parte Abramo dice ciò che Sara dovrà dire: (cf. v. 13a), laddove la giustificazione è introdotta dal lema‘an (“perché io sia trattato bene a motivo di te”: cf. v. 13b).

- Come si vede, se c’è un chiaro parallelismo tra le due “citazioni”, il parallelismo tra le due “giustificazioni” appare forzato. Il primo kî, al v. 11b non introduce una proposizione causale, bensì un oggetto diretto.

- In ogni modo, il principale argomento della Fischer è che l’espressione hinnēh-nā’ introduce sempre una richiesta.

- Chi ha ragione? La questione sembra di poco conto. Ma non ne è il caso, dal momento che la

differenza di opinioni proviene dalla diversa prospettiva adottata dagli esegeti. - Per Weimar, Sara è un personaggio passivo, senza un reale peso nella narrazione, mentre

Fischer adotta chiaramente una prospettiva femminista, identificandosi con Sara. Per lei, la prima parte del discorso di Abramo (vv. 11-12) è solo una preparazione per la richiesta del v. 13.

- La formula hinnēh-nā’ yāda‘tî tradisce già l’intenzione di Abramo di chiedere qualcosa. Il “complimento” del v. 11b sarebbe semplicemente una sorta di captatio benevolentiae.

- Tutto questo potrebbe essere corretto, anche se si potrebbe obiettare che il discorso di Abramo dovrebbe essere letto secondo il punto di vista di Abramo, piuttosto che secondo la percezione e la sensibilità di Sara, dal momento che colui che parla è esclusivamente Abramo.

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Lezione 14 2) La prima scena (vv. 11-13) (segue) - Un’analisi della forma e del contenuto guiderà ad una posizione molto più sfumata. - 1) Per Sara ci sono solo due elementi nel discorso di Abramo: il problema e la richiesta di suo

marito. - Per Abramo, al contrario, la situazione è diversa dal momento che egli ha tre elementi da

prendere in considerazione: la bellezza di Sara; come gli Egiziani reagiranno quando vedranno Sara; cosa egli dovrà fare per evitare conseguenze dannose per se stesso.

- Il suo discorso divide questi tre elementi: a) al v. 11 Abramo afferma la bellezza di Sara. Ora, questo non è esattamente un complimento, dal momento che non si capisce bene per quale motivo egli dovrebbe esaltare la bellezza di sua moglie proprio ora (pace I. Fischer, Erzeltern, 124: “V. 11 ist ein Kompliment an Sara”). b) Al v. 12 egli considera cosa potrebbe accadere in Egitto a causa della bellezza della propria moglie. c) Al v. 13 propone una soluzione per risolvere questo problema, che è in verità suo e non di sua moglie.

- 2) In effetti, secondo le grammatiche, un discorso che inizia con hinnēh-nā’ introduce una frase che contiene una richiesta accompagnata da un secondo -nā’. Questi discorsi hanno principalmente una struttura piuttosto chiara e contengono due elementi, come ad es. in Gn 16,2 (cf., dopo l’hinnēh-nā’, l’espressione bō’-nā’).

- Tuttavia, ci sono alcuni esempi in cui la prima parte del discorso introdotta da hinnēh-nā’ contiene due elementi, come, ad es., in Gdc 13,3-4; 1Sam 9,6; 2Re 4,9-10. Gdc 13,3-4 è molto simile a Gn 12,10-13:

- aYÎn yîrVm ∞DÚvIh ‹hD;tAo ◊w 4 N`E;b V;t √d¶AlÎy ◊w tyäîrDh ◊w V;t √d$AlÎy aâøl ◊w ‹h ∂r ∂qSo_V;tAa a§Dn_h´…nIh Dhy#RlEa rRmaâø¥yÅw h¡DÚvIaDh_lRa h™Dwh ◊y_JKAaVlAm añ∂r´¥yÅw

...r¡DkEv ◊w Nˆy ∞Ay y™I;tVvI;t_lAa ◊w - “E l’angelo del Signore apparve a lei e disse: ‘Ecco, ti prego, tu sei sterile e non hai dato alla

luce figli; ma tu concepirai e darai alla luce un figlio. 4 Ed ora, ti prego, non bere vino né bevande inebrianti...’”.

- Prima degli imperativi di richiesta del v. 4, la frase contiene chiaramente due elementi, distinti dal tempo dei verbi. Il primo parla del passato, ovvero della sterilità della moglie di Manoah, mentre il secondo parla del futuro prossimo, ovvero della nascita di Sansone.

- In Gdc 13,3-4, come in Gn 12,11-12, il primo elemento è una asserzione di un fatto, mentre il secondo è una predizione del futuro.

- 2Re 4,9-10 è un altro esempio di una simile costruzione: - hYÎ…nAfVq ‹ryIq_tÅ¥yIlSo a§D…n_hRcSo`An 10 dy`ImD;t …wny™ElDo r¶EbOo a…wóh vwêød ∂q My™IhølTa vy¶Ia y¢I;k yI;tVo$ådÎy a ∞Dn_h´…nIh ;h$DvyIa_lRa ‹rRma‹ø;tÅw - “Ed ella disse a suo marito: ‘Ecco, ti prego, io so che egli è un santo uomo di Dio; egli passa

continuamente per la nostra strada: 10 costruiamogli, ti prego, una piccola camera di sopra...’”. - Il v. 9 contiene due elementi che preparano la richiesta del v. 10, ovvero il fatto che Eliseo è un

santo uomo di Dio e che egli regolarmente visita la Sunamita. Nella prima parte del discorso, 2Re 4,9 usa il verbo yāda‘tî, come in Gn 12,11.

- La struttura di Gn 12,11-13 è molto simile, si è detto, a quella di Gdc 13,3-4. Il v. 11 introduce il discorso con un qaṭal, che asserisce un fatto. Il v. 12 parla del futuro: tutte le forme verbali appartengono a un discorso predittivo. Il v. 13 contiene un discorso esortativo, con un

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imperativo. Così, la struttura è duplice, con un problema nella prima parte e una soluzione nella seconda, come nell’analisi di I. Fischer.

- Tuttavia, la prima parte del discorso consiste chiaramente di due elementi separati, come nell’analisi di P. Weimar.

- Schematicamente, dunque, abbiamo: - 1. Il problema: vv. 11-12 – hinnēh-nā’ – “Ecco, ti prego...”

a) Primo elemento: v. 11 – yāda‘tî kî... – “Io so che...” b) Secondo elemento: v. 12 – wehāyāh kî... – “E quando...”

2. La soluzione proposta: v. 13 – ’imrî-nā’ – “Di’, ti prego...” - c) Il contenuto. Questo discorso, da una parte, rivela chiaramente l’interesse di Abramo per la

sua propria vita e, dall’altra, il suo trascurabile interesse per la sorte di Sara. Tutto questo è espresso dallo stile:

- 1) Nel v. 11b il discorso di Abramo introduce sul palcoscenico della narrazione Sara come attore. Tuttavia, è importante notare come Abramo introduce sua moglie, dal momento che questa caratterizzazione definirà il suo ruolo nella narrazione almeno fino al v. 17: “Io so che tu sei una donna di bell’aspetto” (v. 11b).

- La cosa che su tutto questo prevale non è tanto che Sara è la moglie di Abramo, ma che è una “bella donna”.

- 2) Al v. 12 il discorso di Abramo si fa ellittico. In questa scena, proiettata in un futuro congetturato, il lettore deve supporre che, per Abramo, gli Egiziani troveranno Sara così attraente che cercheranno di rapirla. Dal momento che Abramo, suo marito, è un ostacolo, essi lo uccideranno.

- Tutto questo, tuttavia, non è esplicitamente trattato e la frase giustappone solo i due elementi che importano ad Abramo, ovvero: a) il fatto che Sara è la moglie di Abramo e b) il pericolo che di conseguenza spaventa Abramo: “Essi diranno: ‘Questa è sua moglie’: essi mi uccideranno, mentre te lasceranno in vita” (v. 12). In parole più semplici, Abramo morirà perché la bella Sara è sua moglie.

- 3) L’ultima parte della frase, col suo ordine chiastico, oppone drasticamente la sorte di Abramo e quella di Sara: “Essi mi uccideranno, mentre te lasceranno in vita” (v. 12b). Ciò che viene per prima è la preoccupazione di Abramo per la sua stessa vita. Quel che accadrà a Sara non importa poi molto... Ella rimarrà in vita, mentre suo marito morirà. È tutto questo che causa la paura di Abramo. In questa parte del discorso, l’intenzione di Abramo appare in modo ben palese!

- 4) Il v. 13 rivela ancora una volta la prospettiva auto-centrata di Abramo. Come in molte narrazioni bibliche, il narratore non esprime alcun giudizio morale sul comportamento del personaggio. Tuttavia, il modo oggettivo di presentare i fatti deve condurre il lettore a leggere la condotta di Abramo sotto una luce negativa. Due elementi confermano questa opinione:

- a) Ciò che Sara dovrà dire è presentato dal punto di vista di Abramo: “Di’, ti prego, che tu sei mia sorella” (v. 13). In realtà, Sara dovrebbe dire: “Sono sua sorella” (’ăḥōtô ’ănî), oppure: “Lui è mio fratello” (’āḥî hû’). Solo Abramo può dire: “Sei mia sorella”! Questo rivela quanto Abramo sia preoccupato per la sua sorte, vedendo la situazione dal suo solo punto di vista.

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- b) Il parallelismo delle due espressioni – “al fine che possa andare bene con me a causa di te, così che io possa vivere a motivo di te” (v. 13) – alla fine del v. 13 rivela chiaramente la preoccupazione di Abramo. In questa frase Sara sembra divenire uno strumento al servizio del benessere di Abramo.

- Le due espressioni ba‘ăbûrēk (“a causa di te”) e biglālēk (“a motivo di te”) non lasciano dubbi. Al punto che si potrebbe anche tradurre “a tue spese”!

- Gli altri suffissi, lî (“con me”) e napšî (“mia vita”), mostrano ancora quale sia l’unica preoccupazione di Abramo.

- Non c’è una sola parola su quella che potrebbe essere stata la sorte di Sara, una volta che fosse caduta nelle mani dei bramosi Egiziani.

- 5) Secondo il piano di Abramo, Sara deve nascondere la sua vera identità. Lei non deve essere più la moglie di Abramo. Gli egiziani non devono scoprire questa pericolosa verità e dire: “Questa è sua moglie” (’ištô zō’t). Lei deve dire di essere la sorella di Abramo (“Tu sei mia sorella”, ’ăḥōtî ’āt). L’opposizione tra questi due “discorsi nel discorso” creerà un nuovo problema, che sarà risolto nella seconda parte della narrazione.

- 6) Sara non risponde al discorso di Abramo. Si deve supporre che sia d’accordo. È la continuazione della narrazione che conferma questa opinione. Come si espresse H. Gunkel, nel suo commentario (p. 170): “Queste sono idee alle quali la buona moglie non poté resistere” (!).

3) La seconda scena (vv. 14-16) - a) Quasi tutto accade secondo il piano di Abramo. La corrispondenza tra il v. 13b e il v. 16a

rivela che il piano ha funzionato e che le cose si sono messe bene per Abramo: v. 13b: lema‘an yîṭab-lî ba‘ăbûrēk // v. 16a: ûle’abrām hêṭîb ba‘ăbûrāh.

- Tuttavia gli Egiziani non agiscono in modo lussurioso, come Abramo aveva immaginato. - Essi certamente notano la bellezza di Sara, ma la loro reazione è inaspettata: i servi del Faraone

ne fanno le lodi davanti al Faraone. In questo caso c’è solo una parziale corrispondenza tra la furbizia di Abramo e quanto realmente accadde: v. 11: “So che sei una donna di bell’aspetto...” v. 12: “E quando gli Egiziani ti vedranno...” v. 14: “E gli Egiziani videro che la donna era molto bella...” v. 15: “E gli ufficiali del Faraone la videro...”

- b) C’è ancora una ellissi nella narrazione. Infatti, da qualche parte ci sarebbe dovuto essere un dialogo in cui o Abramo o la moglie avrebbero dovuto dire che Sara è la sorella di Abramo (cf. 12,13.19)

- c) C’è un altro elemento inaspettato di questa scena, ovvero il fatto che la bellezza di Sara viene lodata da parte degli ufficiali del Faraone di fronte a quest’ultimo e che questi decide di prenderla nel suo harem (v. 15).

- Sara è passiva in tutta la narrazione. Al v. 15b ella è il soggetto di un verbo: di un verbo passivo, tuttavia: “E la donna fu presa (wattuqqaḥ) nella casa del Faraone”. La formula denota un formale matrimonio, anche se non implica automaticamente la consumazione di un rapporto sessuale.

- d) Il v. 15 introduce il terzo attore principale dell’episodio, l’attore principale della sua seconda parte: il Faraone. Egli viene menzionato tre volte nello stesso versetto. Tale espediente è una delle usuali tecniche delle narrazioni bibliche per sottolineare l’importanza di un personaggio:

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“Gli ufficiali del Faraone la videro, e ne fecero le lodi alla presenza del Faraone ed ella fu presa nella casa del Faraone”.

- e) Il v. 16 conduce la narrazione alla sua fine, dal momento che il piano di Abramo si è adempiuto e il pericolo è stato evitato. Questa potrebbe essere la conclusione dell’episodio. I doni ricevuti possono ben essere considerati come una dote data al fratello, dal momento che non sono menzionati altri parenti.

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Lezione 15 4) La seconda parte della narrazione (vv. 17-19) - Ci sono tre parti in questa sezione: a) l’intervento di Dio (v. 17); b) il discorso del Faraone ad

Abramo (vv. 18-19) e c) la conclusione dell’episodio (v. 20).

a) L’intervento di Dio a favore di Sara (v. 17). - L’intervento di Dio è inaspettato ma essenziale alla trama, dal momento che rovescia la

situazione all’interno della narrazione. Questo intervento è il “punto di svolta” (turning point) dell’episodio.

- In una narrazione il turning point è il momento in cui ha luogo l’azione decisiva che condurrà alla risoluzione il racconto.

- Senza questo intervento la storia avrebbe avuta una conclusione del tutto diversa. - A riguardo di questo versetto, ci occuperemo di due principali problemi: 1) la ragione

dell’intervento di Dio; 2) il problema letterario del v. 17b, che da qualche esegeta è considerato un’aggiunta tardiva. 1) La ragione dell’intervento di Dio.

- Per quale ragione Dio affligge con piaghe il Faraone, dal momento che questi non ha colpa (cf. anche la figura etymologica: waynagga‘... negā‘îm gedōlîm)?

- Questo potrebbe essere spiegato ricorrendo al concetto biblico di “responsabilità”. Nella Bibbia e nel Vicino Oriente antico, il concetto di “responsabilità” è più oggettivo e collettivo che nel mondo occidentale, dove esso sarebbe piuttosto soggettivo e individuale.

- In altre parole, per la Bibbia e il Vicino Oriente antico, i diritti della parte offesa sono molto più importanti di quelli dell’aggressore.

- Se sono state commesse delle ingiustizie, la giustizia deve essere completamente restaurata. Che il danno sia stato commesso intenzionalmente o meno diviene una questione secondaria.

- Nel caso del Faraone in Gn 12,17, è stato commesso un “danno oggettivo” a Sara, anche se il Faraone ha agito senza poter conoscere i retroscena.

- Le piaghe lo affliggono proprio a causa di questa “ingiuria oggettiva” e anche in ordine a obbligarlo a restituire Sara ad Abramo.

- A questa potrebbe essere aggiunta un’altra occasione. È possibile che Dio voglia proteggere Sara (e Abramo) in un modo speciale, dal momento che essi sono i progenitori di Israele, il suo popolo eletto. Per tale motivo essi sono “santi” e non devono essere danneggiati (cf. Sal 105,12-15; Ger 2,3). In questo caso, tuttavia, si dovrebbe anche notare che la persona in pericolo è Sara, piuttosto che Abramo. 2) Il v. 17b è un’aggiunta?

- Per P. Weimar Gn 12,17b (‘al debar śāray ’ēšet ’abrām) è un’aggiunta. Egli adduce tre principali ragioni: a) Sara è un personaggio passivo nell’intera narrazione e mai viene chiamata per nome, ad eccezione del v. 11; b) il v. 17b è letteralmente presente anche nel v. 18b. Un redattore deve pertanto avere armonizzato i testi; c) il v. 17b segue immediatamente l’espressione we’et-bêtô, che è parimenti un’aggiunta. Entrambe le frasi provengono dalla stessa mano.

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- I. Fischer reagisce fortemente contro questa operazione letteraria e la bolla come un “circolo vizioso” (Zirkelschluß). Una lettura attenta del testo conferma la correttezza delle sue osservazioni:

- 1) L’espressione ‘al debar śāray ’ēšet ’abrām corrisponde ad altre dello stesso genere, ugualmente riferite a Sara. Cf. v. 13: ba‘ăbûrēk, “a causa di te”; v. 13: biglālēk, “a motivo di te”; v. 16: ba‘ăbûrāh, “a causa di lei”. In tutti questi casi, Sara è stata “usata” come uno strumento per il bene della sopravvivenza e del benessere di Abramo.

- Ora, per la prima volta, qualcuno interviene per il bene proprio di Sara, ed esclusivamente per lei. C’è dunque un contrasto acuto tra il comportamento di Abramo e quello di Dio. Rimuovere il v. 17b dal testo priverebbe il testo di questa idea.

- 2) Questa chiarificazione è necessaria alla corretta comprensione del passo. Dio potrebbe essere intervenuto in favore di Abramo, che era stato privato della sua moglie; o per salvare il matrimonio e garantire così al popolo di Israele che essi sono veri discendenti di Abramo e di Sara; o forse perché il Faraone stava per commettere un adulterio.

- Tuttavia, il testo non dice che Dio sia intervenuto a favore di Abramo, ma per Sara, sua moglie. - 3) L’identità di Sara e la sua posizione sono al centro della narrazione. Dire, come dice

Weimar, che Sara non gioca alcun ruolo attivo e che ella non sta al centro dell’azione, significa dimenticare il punto principale della narrazione.

- Sara è indubbiamente passiva nell’intera narrazione, tuttavia è l’unico personaggio menzionato in ogni singolo versetto, ad eccezione dell’esposizione (v. 10). Ella è sempre il “centro di interesse” nella narrazione, e tutti gli altri – Abramo, gli Egiziani, gli ufficiali del Faraone, il Faraone stesso e Dio – agiscono in vista di Sara. Le loro azioni dipendono da lei. Ella è il cardine dell’intera narrazione.

- Così, se Sara fosse assente dal v. 17, significherebbe che solo Dio, tra tutti gli attori che agiscono nell’episodio, non avrebbe a che vedere con lei.

- 4) Il modo in cui Sara viene caratterizzata è essenziale alla storia. La narrazione distingue al riguardo tre momenti principali: a) Sara è introdotta dal narratore per la prima volta al v. 11. Ella viene presentata per nome – Saray – così come per la sua principale qualifica, quella di essere la moglie di Abramo.

- b) Tuttavia, per Abramo ella è “una donna di bell’aspetto” (v. 11b). A motivo del pericolo, Abramo vede in sua moglie la bellezza e, come ormai ben sappiamo, le chiede di nascondere la sua vera identità. Ella diviene così la sorella di Abramo (vv. 12-13). È dunque normale che gli Egiziani e gli ufficiali del Faraone vedano in lei una “donna” (vv. 14-15). Così, in questa seconda fase della narrazione, Sara perde la sua vera identità.

- c) Nella terza fase, ella recupera ciò che aveva perduto. Al v.17 riappare il suo proprio nome, Saray, con la sua reale qualifica – moglie di Abramo –, per mezzo di un’asserzione del narratore che appare identica a quella usata nell’“introduzione”, al v. 11. La reale identità di Sara, dunque, appare nuovamente nella narrazione, soprattutto a motivo dell’intervento di Dio. Il continuo della narrazione conferma questa visione, dal momento che il discorso del Faraone ad Abramo ha un solo scopo: quello di rimproverarlo perché ha nascosto la reale identità e il reale stato di Sara: ella non è tua sorella, ma tua moglie, così che ella non può essere mia moglie (vv. 18-19a); perciò – continua –: prendi tua moglie e vattene (v. 19b). La storia finisce quando ciò che era stato nascosto da Abramo e, per questo, era ignoto al Faraone, viene nuovamente rivelato per mezzo dell’intervento di Dio. Si noti anche che la parola ’iššāh viene usata per 4 volte nei vv. 18-20.

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- Se questa analisi è corretta, diviene molto difficile eliminare il v. 17b dalla narrazione, poiché questo versetto è la chiave per la comprensione dell’intervento di Dio e per la reazione del Faraone. Questo versetto, si potrebbe anche dire, contiene il cuore della narrazione, ovvero la questione della sorte e dell’identità di Sara.

b) Il discorso del Faraone ad Abramo (vv. 18-19)

- Questo discorso ha chiari connotati giudiziari. Il primo verbo del v. 18, wayyiqrā’, è una delle parole che descrivono una convocazione in un tribunale.

- Questo significa che, nel v. 18, Abramo è convocato davanti al tribunale del Faraone. - Tratteremo quattro punti principali a proposito di questo discorso: 1) la sua struttura; 2) la

funzione di questo discorso nella trama di Gn 12,10-20; 3) il problema dell’anagnórisis (“riconoscimento” ) del Faraone; 4) il silenzio di Abramo dopo l’accusa del Faraone. 1) La struttura del discorso.

- Secondo P. Weimar, il discorso è formato da tre parti: a) la prima parte esprime l’accusa del Faraone in una forma negativa (v. 18). Questa prima parte contiene due domande che iniziano rispettivamente con mah-zō’t (“cosa?”) e lāmmāh (“perché?”) ed entrambe terminano con lî (“a me”, “mi”) [nel caso della seconda domanda la frase continua con una proposizione subordinata]. b) La seconda parte esprime l’accusa in un modo affermativo (v. 19a). Questa domanda inizia con un secondo lāmmāh (“perché?”). c) La terza parte è introdotta dalla particella we‘attāh, “ed ora”, e contiene due imperativi (v. 19b).

- Per I. Fischer il discorso contiene solo due parti: i vv. 18-19a e il v. 19b. Ancora, quest’ultima visione è confermata da una lettura attenta del testo:

- a) La prima domanda del Faraone è più esattamente un rimprovero. Questo tipo di domanda viene raramente seguita da una risposta. Al contrario, essa viene principalmente seguita da altre domande o asserzioni che specificano ulteriormente l’accusa.

- È questa la funzione delle due domande introdotte da lāmmāh, “perché?”, che specificano l’accusa in un modo prima negativo e poi positivo: Perché Abramo non ha detto la verità? (v. 18b)? Perché ha detto una bugia (v. 19a)? La conseguenza di questo fatto è che il Faraone ha preso Sara come sua moglie.

- La formula lqḥ ’et-... lî le’iššāh, “prendere qualcuno per se stesso come moglie”, è infatti la formula giuridica di matrimonio.

- I vv. 18-19a formano una singola accusa, con una introduzione (v. 18a: “Che mi hai fatto?”) e due specifiche domande introdotte da lāmmāh (vv. 18b-19a).

- b) La prima parte dell’accusa è un discorso al passato. Tutti i verbi, infatti, sono o qatal o wayyiqtol. Questo discorso, dunque, è un “discorso narrativo”, frequente nelle accuse espresse in ambito forense.

- c) La seconda parte del discorso è un “discorso esortativo”, dal momento che usa due imperativi (qaḥ wālēk, “prendi e va’”: v. 19b).

- Questa seconda parte è introdotta dalla particella we‘attāh, “e ora”, che solitamente è usata come cardine del discorso.

- Il suo specifico è quello di far passare l’eloquio dal passato al presente. - Questa seconda parte porta a conclusione le frasi proferite dal Faraone.

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- Schematicamente, dunque, abbiamo: 1. Accusa – “discorso narrativo” (vv. 18-19a) a. Introduzione: “Che mi hai fatto?” (v. 18a) b. Accusa i. In forma negativa: “Perché non mi ha detto la verità?” (v. 18b) ii. In forma positiva: “Perché hai detto: ‘È mia sorella’?” (v. 19a) 2. Sentenza – “discorso esortativo”: “Ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!” (v. 19b)

2) Il discorso del Faraone e la risoluzione della trama. - a) “Trame di risoluzione” e “trame di rivelazione” - Seguendo Aristotele, i critici letterari distinguono tra due principali tipi di trama. - In primo luogo, troviamo trame di azione, in cui la linea principale è costituita dal passaggio

dall’infelicità alla felicità, o viceversa. - La questione principale è: “che cosa accadrà in seguito?”. La narrazione, infatti, descrive un

cambio di situazione. In questo caso, la trama è detta di “risoluzione” e il momento del ribaltamento della situazione (dall’infelicità alla felicità, o viceversa) è chiamato peripéteia, ovvero, in greco: “ribaltamento”. Nella tragedia greca qualche volta è chiamata catastrofe.

- In secondo luogo, troviamo trame in cui il problema principale è una questione di conoscenza: in questo caso si parla di trama di “rivelazione”. La sua linea principale è costituita da un passaggio dall’ignoranza alla conoscenza e il momento della scoperta viene chiamato anagnórisis, ovvero, in greco: “riconoscimento”.

- Molte narrazioni combinano insieme le due trame. Ad esempio, la storia di Giuseppe finisce con una peripéteia e una anagnórisis, quando Giuseppe ribalta la situazione di ostilità in seno alla sua famiglia e quando rivela la sua identità ai fratelli (cf. Gn 45).

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Lezione 16

2) Il discorso del Faraone e la risoluzione della trama (segue)

- b) La trama di Gn 12,10-20 - A prima vista, la trama di Gn 12,10-20 appare essere una trama di azione. Abramo si sente in

pericolo in Egitto a causa della bellezza di sua moglie e così inventa un’astuzia per scansare il pericolo.

- Dal momento che lo stratagemma funziona, Abramo passa dall’infelicità alla felicità (12,11-15.16). Il v. 16 potrebbe essere la conclusione di questa trama di azione.

- Tuttavia, la “felicità” di Abramo potrebbe causare l’“infelicità” di Sara o, per essere più precisi, potrebbe averla messa in una situazione molto spiacevole.

- La narrazione giunge alla sua conclusione quando Sara è restituita ad Abramo. Sara è al centro della narrazione, dal momento che la vera peripéteia è il cambiamento della situazione non di Abramo, ma di Sara (cf. vv. 18-19).

- Tuttavia, questa peripéteia richiede anche un “cambiamento di conoscenza”. - Il Faraone non conosce l’identità di Sara e la narrazione giunge al termine solo quando il

Faraone passa dall’ignoranza alla conoscenza, dal momento che Dio lo ha afflitto “misteriosamente” con delle piaghe (v. 17).

- In tal modo, l’anagnórisis causa la peripéteia della narrazione. Questa è descritta ai vv. 18-19, quando il Faraone scopre la verità circa l’identità di Sara, tenuta nascosta a partire dai vv. 11-13 (il discorso di Abramo).

- In questo modo, i due discorsi (di Abramo e del Faraone) sono paralleli, dal momento che la verità nascosta nel primo è rivelata nel secondo. Il primo discorso crea il problema, il secondo lo risolve. Questo, ancora una volta, conferma che il problema principale della narrazione è l’identità di Sara.

3) Forma e contenuto – trama e stile - Stilisticamente, questa anagnórisis con la relativa peripéteia è enfatizzata dall’opposizione tra

le espressioni usate per descrivere Sara nei due discorsi della narrazione: in quello di Abramo, ai vv. 11-13, e in quello del Faraone, ai vv. 18-19. Schematicamente abbiamo:

a) Discorso di Abramo (vv. 11-13) v. 11 (narratore): “Abramo parlò a Sara, sua moglie...” v. 11 (Abramo): “Io so che tu sei una donna di bell’aspetto...” v. 12 (Egiziani): “Essi diranno: ‘Questa è sua moglie...’” v. 13 (Abramo): “Di’, ti prego, che sei mia sorella”

b) Discorso del Faraone (vv. 18-19) v. 18: “Perché non mi hai detto che è tua moglie?”

v. 19: “Perché hai detto: ‘È mia sorella?’2, così che me la sono presa per moglie? E ora, questa è tua moglie: prendila e vattene!”

v. 20: “Ed essi li accomiatarono: lui, sua moglie e tutto ciò che gli apparteneva” 2 Si noti che il Faraone accusa Abramo, non Sara, di aver detto una menzogna. Una comparazione tra il v. 13 e il v. 19 si rivela istruttiva: al v. 13 Abramo chiede a Sara di dire “tu sei mia sorella”, ma al v. 18 Faraone accusa Abramo di aver detto: “ella è mia sorella”. Sara appare in tutto senza colpa.

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- Il discorso del Faraone è la chiara controparte dello schema del discorso di Abramo dei vv. 11-13. Sara è la moglie di Abramo, non sua sorella: è per questo che non può essere la moglie del Faraone.

- Secondo questa analisi della narrazione, la scoperta della verità circa Sara è necessaria per ottenere una soluzione soddisfacente e pervenire alla “pacifica” conclusione della trama.

- La pace e la prosperità di Abramo del v. 16 sono solo apparenti e non possono essere la vera conclusione.

- In termini aristotelici, il cambiamento di situazione occorre solo col cambiamento di conoscenza dei vv. 18-19. La felicità di Abramo del v. 16 non è il reale cambiamento di situazione perché implica la menzognera (e pericolosa) situazione di Sara. Il vero passaggio dall’infelicità alla felicità prende luogo solo ai vv. 18-20, quando Sara viene restituita ad Abramo.

- Si noti anche l’uso del verbo lqḥ ai vv. 15b.19a.19b. - Questi tre usi del verbo descrivono l’“itinerario narrativo” di Sara: era la moglie di Abramo,

diviene la moglie del Faraone e, alla fine, viene restituita come moglie ad Abramo.

4) Il problema dell’anagnórisis - Come venne a sapere il Faraone che le piaghe subite furono causate dalla presenza di Sara nel

suo harem? Come poté scoprire la verità circa l’identità di Sara? - Ora, la narrazione dice che il Faraone venne a sapere la verità, ma non come la scoprì. Questo

non è un problema nuovo. Già Giuseppe Flavio e il Genesis Apocryphon (Qumran) tentarono di risolverlo.

- Giuseppe Flavio, nelle sue Antichità giudaiche 1,8,1, offre una nuova versione di questa narrazione in cui egli cerca di riempire il gap narrativo. Secondo la sua versione, dopo essere stato afflitto dalle piaghe, il Faraone offrì un sacrificio per venire a conoscere quale medicina avrebbe potuto guarirlo. Allora, i sacerdoti e i divinatori gli rivelarono che egli aveva provocato l’ira degli dèi per il suo aver preso la moglie del suo ospite. Così il Faraone convocò Sara, la quale gli rivelò la verità.

- Giuseppe Flavio, dunque, tenta di comprendere la storia con l’aiuto della sua conoscenza dei costumi egiziani.

- Nel Genesis Apocryphon, il Faraone convoca i suoi saggi, i suoi maghi e i suoi guaritori. Tutti costoro, tuttavia, sono parimenti afflitti dalle medesime piaghe, esattamente come in Es 9,11 (cf. 1QGenAp 19-20). In seguito, un uomo chiamato hrkns, molto probabilmente una personificazione del sommo sacerdote asmoneo Hyrkanus, ebbe un sogno, chiedendo così ad Abramo di intercedere per il re. Lot gli risponde che Abramo non può pregare per il Faraone mentre Sara, moglie di Abramo, è assieme al re. Allora hrkns comunica la verità al Faraone. Il Faraone, così, restituisce Sara a suo marito. Abramo prega per il Faraone e per la sua casa, e tutti vengono sanati dalle piaghe.

- In questo modo, questa versione supplisce l’ellissi narrativa combinando elementi di Gn 20 con altri elementi provenienti da Es 7 – 11, ovvero le narrazioni sulle piaghe d’Egitto.

- In tempi decisamente più recenti, H. Gunkel, nel suo commentario a Genesi, propose una diversa soluzione.

- Il suo punto di partenza è un paragone con le altre versioni della narrazione (Gn 20 e Gn 26).

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- In queste due versioni, l’elemento mancante è presente. Perciò, conclude Gunkel, Gn 12 deve aver contenuto tale elemento, dal momento che è impossibile che la narrazione lasci aperta la questione su come il Faraone sia venuto a sapere la verità.

- Con buona probabilità, secondo Gunkel, il Faraone deve aver domandato la verità ai suoi saggi e ai suoi maghi, come Giuseppe Flavio aveva già proposto due millenni fa.

- Gunkel riporta anche casi simili, come quelli in 1Sam 6; Gio 1,7-8; Gn 41,8; Es 7,11; ... - Per quale ragione questa parte della narrazione, se realmente esistita, come Gunkel asserisce, fu

tolta di mezzo? - Gunkel propose due possibili spiegazioni. - a) Occorre considerare un problema di “mentalità”. Nei tempi antichi, era naturale pensare che

i pagani avrebbero consultato le loro divinità per ricevere risposte a determinati quesiti. In tempi più recenti, di questo non fu più il caso. Le persone si sarebbero scandalizzate ad udire che i pagani avrebbero potuto ottenere la verità su determinate questioni da maghi e incantatori. Al contrario, in parecchie storie essi non sono capaci di trovare la verità (Gn 41,8) o, anche, essi sono incapaci di competere con veri uomini di Dio (Es 7 – 9).

- b) Gunkel vede una possibile contraddizione tra questa narrazione e Gn 20,12, dove si dice che Sara è davvero sorella di Abramo (o, meglio, sorellastra). Uno scriba avrebbe soppresso il versetto che avrebbe potuto creare problema.

- Gunkel spiega la difficoltà ricorrendo alla (presunta) storia del testo. Questa ricostruzione è basata sulla sua concezione di come una narrazione biblica dovrebbe essere scritta. Naturalmente, questa concezione potrebbe essere contestata.

- Molti commentatori propongono soluzioni simili a quelle di Giuseppe Flavio o a quelle di Gunkel: il Faraone avrebbe fatto ricorso a un indovino (O. Procksch); avrebbe indagato e, quindi, scoperto la verità (S.R. Driver); avrebbe domandato a Sara (la proposta più comune, già a partire da Ramban [Nachmanide]); avrebbe avuto un sogno rivelatore, come in Gn 20 (O. Procksch).

- Tuttavia, alcuni commentatori reagiscono alla proposta di Gunkel. Per loro non è necessario supporre un testo più completo. C’è qualcuno, accanto ad Abramo e a Sara, che conosce la verità: il lettore.

- Dal momento che il lettore è informato, non è necessario dare una piena spiegazione di come la verità venne comunicata al Faraone.

- Questa spiegazione introduce un principio molto importante nell’esegesi del testo: ogni narrazione implica la partecipazione attiva del lettore. La soluzione del problema non si trova più, dunque, entro i limiti del testo, ma proviene da una sfera extradiegetica, ovvero da ciò che è al di fuori della narrazione e del testo stesso.

- La soluzione, dunque, proviene proprio dal lettore, che sta al di fuori della narrazione, pur essendo sempre presente. La soluzione è stata proposta per la prima volta da R. Kilian, seguito poi da molti altri commentatori.

- Ci sono ovviamente altri esempi del medesimo stile ellittico nell’AT. Gn 27,41-42 è un altro buon esempio. Dopo la famosa storia della benedizione estorta, Esaù dice a se stesso che egli avrebbe ucciso suo fratello subito dopo la morte del padre (27,41). Tuttavia, nel versetto successivo si dice che le parole di Esaù furono riferite a Rebecca.

- Ora, chi mai avrebbe potuto conoscere la sua intenzione, dal momento che egli parlò solo a se stesso, in quello che viene chiamato “monologo interiore”?

- Un altro esempio si potrebbe trovare nella storia di Iefte (Gdc 11).

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- Prima di andare in battaglia contro gli Ammoniti, Iefte promette a Dio che, se fosse stato vittorioso, avrebbe sacrificato la prima persona che avrebbe incontrato nel suo ritorno a casa.

- Egli fu vittorioso, ma la prima persona che incontrò nel suo tornarsene a casa fu sua figlia. Iefte straccia le sue vesti e menziona un voto che avrebbe dovuto mantenere, anche se non spiega esattamente cosa aveva promesso.

- Tuttavia, sua figlia gli risponde con le parole che si trovano in Gdc 11,36. Ora, come poté sapere quanto suo padre aveva promesso a Dio?

- 2Sam 4,11 dà un altro chiaro esempio del medesimo espediente. - Due assassini uccidono Ishbaal, figlio di Gionata, durante la sua siesta, portando anche la sua

testa a Davide, nella probabile speranza di ricevere in cambio una ricompensa. - Tuttavia, quando Davide ode la notizia, ne rimane sconcertato, accusando anche quegli uomini

di aver assassinato un innocente nel suo letto. Nessuno, tuttavia, aveva riferito a Davide le circostanze del delitto. Come ha potuto saperle?

- In tutti questi casi, solo il narratore e il lettore possono conoscere queste informazioni, mentre il personaggio di turno mai ne è stato informato.

- Qual è la ragione di queste ellissi? In tutti questi casi la ragione è assai simile: la tensione drammatica è molto alta e il lettore è il primo ad essere interessato alla reazione del personaggio coinvolto.

- Ad esempio, in Gn 27,41-42 il lettore vuole sapere il prima possibile cosa accadrà a Giacobbe. Quando il narratore dice che Rebecca è stata informata, l’uditorio ne è sollevato, dal momento che esso è implicitamente identificato con Giacobbe ed è preoccupato del suo destino. Tutto il resto diviene secondario.

- In Gdc 11 il lettore vuole sapere come reagirà la figlia di Iefte quando udrà del voto del padre, visto che si tratta di una questione di vita o di morte.

- In 2Sam 4, il problema dell’uditorio è la reazione di Davide. Se egli gioirà della morte del suo rivale, questo implicitamente rivelerà le sue vere intenzioni riguardo a Saul e alla sua casa, le sue segrete ambizioni, gettando così una luce oscura sulla sua personalità. Potrebbe egli ancora essere presentato come un prescelto da Dio? O sarebbe solo un fortunato usurpatore? Se, al contrario, egli sarà addolorato dalla morte di Ishbaal e condannerà i due assassini, egli conquisterà la simpatia del lettore. Per il narratore biblico, questa reazione è più importante di ogni altra cosa.

- Per riassumere, l’attenzione dell’uditorio biblico è monopolizzata da queste questioni cruciali, che richiedono anche una risposta tempestiva. Le altre informazioni sono già in suo possesso e perciò il narratore non deve dire niente in proposito.

- Per tornare a Gn 12, ciò che importa è la reazione del Faraone. Restituirà Sara ad Abramo? Tutti i passaggi intermediari possono essere “bypassati” per rispondere alla questione pressante del lettore.

5) Il silenzio di Abramo - Abramo non risponde all’accusa del Faraone nei vv. 18-19. Come deve essere interpretato

questo silenzio? Potrebbero darsi varie spiegazioni. - a) Abramo non ha alcuna opportunità di rispondere, dal momento che il Faraone lo congeda

prima che egli possa articolare una sola parola (cf. I. Fischer).

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- b) P. Weimar offre una spiegazione piuttosto bizzarra. Secondo lui, il discorso del Faraone ai vv. 18-19, in fondo, è parallelo a quello di Abramo nei vv. 11-13, all’inizio della narrazione. Se ci fosse stata una risposta di Abramo, questa avrebbe distrutto la struttura del testo...

- Questa spiegazione è legata all’interpretazione di Weimar dell’intera storia, che è basata sull’opposizione tra il comportamento di Abramo e quello del Faraone.

- c) La spiegazione più comune è che Abramo non risponde perché egli non ha che da riconoscere la propria colpa. Le sue paure si sono rivelate infondate, per cui non può giustificare in alcun modo la propria bugia.

- Questa terza spiegazione è probabilmente la migliore, anche se con una piccola sfumatura. - Dal momento che Abramo non risponde, non ci sarà mai un’assoluta certezza circa il contenuto

di questa risposta. Ciascun lettore, ciascun commentatore, in questo senso, può immaginare quale sarebbe potuta essere. È proprio questa la probabile intenzione del testo.

- Chi può rispondere alla domanda del Faraone, se non il lettore? In questo modo, ancora una volta, l’uditorio è chiamato a supplire all’importante ellissi.

- E, nel fare così, il lettore deve attivamente intervenire nel dramma della narrazione. Il lettore, in altri termini, deve “sostituire” Abramo, deve rispondere per Abramo e, in tal modo, deve adottare una posizione ben definita circa il comportamento dello stesso Abramo in tutta questa vicenda.

- Ci sono molti esempi di questa tecnica nella Bibbia (cf. Gn 18,1-15; 34; 50; Es 17,1-7; Giona; ma anche Mt 18,33; 20,1-15; Lc 15,31-32; ...).

- Quello che oggettivamente possiamo dire è che la narrazione non offre molti elementi per discolpare il patriarca.

- In realtà, in Gn 20,11-13, in una identica situazione, Abramo è in grado di rispondere alle accuse rivolte contro di lui, questa volta da Abimelek, re dei Filistei. Questa volta, Abramo sembra non aver (del tutto) mentito, giacché Sara, si dice, è sua sorellastra. Così, egli sembra aver detto solo una mezza-bugia, o una mezza-verità...

5) La conclusione (v. 20) - Questo versetto conclude l’intera narrazione in un modo assai appropriato. Abramo deve

lasciare l’Egitto. È esplicitamente detto che egli lascia l’Egitto con sua moglie. - C’è solo un piccolo problema di esegesi circa il significato del verbo šlḥ, “mandare via”. Questo

congedo è amichevole o meno? Alcuni esegeti ritengono che il congedo sia amichevole sulla base di alcuni paralleli come Gn 18,16; 24,51a; 31,27 (cf. P. Weimar, Chr. Levin, U. Cassuto).

- Questa opinione, tuttavia, è difficilmente sostenibile. - Da un punto di vista metodologico, un testo dovrebbe essere interpretato nel suo proprio

contesto. - a) In nessuno dei paralleli citati c’è la benché minima atmosfera “giuridica”, come invece pare

essere il caso in Gn 12,20. - b) In nessuno dei paralleli citati si trova il comando di “scortare” coloro che vengono

congedati.

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Lezione 17 L’interpretazione del testo - Dopo aver effettuato l’analisi del testo, diviene più semplice determinarne l’esatto significato.

Sono tre gli elementi che dovrebbero essere presi in considerazione: - a) Sara è il “centro di interesse” dell’intera narrazione; b) la risoluzione della trama consiste in

una peripéteia con una anagnórisis. La condizione di Sara, infatti, cambia perché il Faraone scopre la sua reale identità; c) Il lettore deve supplire la risposta di Abramo all’accusa del Faraone.

- In tal modo, la narrazione non solo dice come Sara, abbandonata da Abramo, fu salvata in Egitto da Dio. Essa mostra anche come l’identità di Sara fosse nascosta e poi rivelata e implicitamente chiede se il nascondimento era giustificato.

- Fondamentalmente, la questione principale della narrazione è il riconoscimento dell’identità e della reale situazione di Sara.

- Un passo dopo l’altro, il Faraone, Abramo e il lettore devono fronteggiare questa questione e risponderle.

Excursus: alcune caratteristiche della narrazione biblica - Gen 12,10-20 è un buon esempio di tipica narrazione biblica. Nell’esegesi biblica, H. Gunkel fu

uno dei primi esegeti che studiarono sistematicamente le caratteristiche delle narrazioni bibliche.

- Il terzo paragrafo della sua introduzione al libro della Genesi rimane, ad oggi, un capolavoro di intelligenza e di sensibilità letteraria.

- Nel suo studio, egli usò il lavoro di uno specialista della letteratura epica, A. Olrik, che catalogò un certo numero di “leggi epiche della poesia popolare”.

- Più recentemente, l’esegesi biblica ha usato studi nel campo della poesia orale e della tradizione orale inerenti l’epica omerica. Lo studioso più spesso citato è A.B. Lord.

- Dal 1980 in avanti, gli studi sull’“arte narrativa” o “narratologia” divengono preminenti. - Tutti questi lavori ci aiutano a meglio comprendere le tecniche e le convenzioni usate dagli

antichi scrittori biblici. - In Gn 12,10-20 ci sono 4 aree di speciale interesse: 1) La trama; 2) Le convenzioni; 3) i

personaggi e il loro palcoscenico narrativo; 4) il ruolo del lettore. - 1) La trama - a) La trama delle narrazioni bibliche si occupa abitualmente di un solo problema. Perciò,

abitualmente, la trama ha una unica linea (Einsträngigkeit, in tedesco). - In Gn 12,10-20 l’unico problema è la sorte di Sara. Gli altri possibili problemi che potrebbero

essere considerati nel tempo del soggiorno egiziano di Abramo non vengono mai menzionati. - b) La “legge dell’economia”: Il narratore racconta solo l’essenziale. Ad esempio, laddove il

lettore potrebbe facilmente immaginare la continuazione di una scena, quella particolare parte non viene raccontata.

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- Ad es., in Gn 12,10-20 niente è detto circa la risposta di Sara alla richiesta di Abramo dei vv. 11-13. Niente viene detto nemmeno circa la risposta di Abramo alle accuse del Faraone nei vv. 18-19.

- E poiché il lettore sa perché Dio affligge con delle piaghe il Faraone, il narratore evita di raccontare come il Faraone sia venuto a sapere il motivo di quelle stesse piaghe. E così via anche per altri tipi di dettagli...

- Ad es., si dice che Sara è una bella donna, eppure non viene affatto descritta. - Il Genesis Apocryphon riempie i vuoti lasciati dal racconto biblico, riflettendo così una

mentalità del tutto diversa, appartenente ad altri tempi di composizione. - Un lettore, ad es., si potrebbe chiedere se Lot abbia accompagnato Abramo e Sara in Egitto (cf.

13,1)... Ma dal momento che egli non gioca alcun ruolo attivo nella narrazione, il suo nome non viene mai menzionato. Qui, di nuovo, il Genesis Apocryphon introduce Lot sul palcoscenico...

- c) La maggior parte delle volte, i dialoghi sono la parte essenziale della trama. In Gn 12, i due discorsi (cf. vv. 11-13 e 18-19) sono senza dubbio i momenti più importanti della narrazione. È ancora in questi dialoghi che il tratto dei vari attori appare in modo più chiaro.

- 2) Le convenzioni - Ogni narrazione presuppone una sorta di contratto tra il narratore e il proprio uditorio. - Le clausole di questo contratto sono le “convenzioni” di ogni genere letterario. Alcune di

queste convenzioni sono comuni alla maggior parte delle narrazioni. - a) Una prima convenzione che può essere osservata in Gn 12,10-20 riguarda la bellezza di

Sara. Secondo la cronologia Sacerdotale, Sara, al momento, della narrazione, avrebbe dovuto avere poco più di 65 anni (cf. Gn 17,1.17 e 12,4; il problema, come si sa, è più acuto nell’episodio parallelo di Gn 20, dove Sara avrà 90 anni...).

- Come può dire Abramo che è “di bell’aspetto” (12,11)? Sono state proposte diverse spiegazioni. Secondo Calvino, le donne senza figli preserverebbero la loro bellezza meglio e più a lungo delle madri. U. Cassuto nota che se Sara può rimanere incinta all’età di 90 anni, non ci si dovrebbe meravigliare che ella fosse ancora molto attraente all’età di 65 anni...

- G. Wenham propone una diversa soluzione. Egli sostiene che l’ideale di bellezza femminile nelle società tradizionali differisce alquanto dal nostro: le figure matronali con un bel corpo, ben dotate fisicamente – e non giovani e magre – tendono a rappresentare un ideale di femminilità.

- H. Gunkel crede che, in questo modo, gli israeliti tendano a glorificare le loro antenate: esse sono più carine delle altre donne. Per sottolineare questo, il narratore suppone che a quel tempo Sara fosse una donna giovane e piacente.

- Questa osservazione circa quello che il narratore “suppone” è probabilmente la migliore risposta alla nostra domanda. In questo tipo di narrazioni la moglie deve essere bella, come di fatto si dice che fosse. Altrimenti, non si sarebbe data alcuna storia!

- b) Un’altra regola continua a legarsi al problema della bellezza di Sara. Ciò che appare evidente è che ciascuna narrazione abbia una sua propria logica interna. I problemi di “inconsistenze” o di “incoerenze” che sorgono dalla comparazione con altre narrazioni non si trovano nella mentalità popolare presupposta dalle narrazioni bibliche. L’attenzione dell’uditorio si concentra solo su un unica narrazione, su un unico episodio.

- Certamente, per una mentalità più evoluta e più sofisticata, le connessioni tra le varie narrazioni divengono importanti.

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- È proprio questo cambiamento di sensibilità e di interesse che spiega molte aggiunte e correzioni nei testi biblici. Si veda, ad es., Gn 16,9 e 21,14*.

- Si è supposto, come ormai sappiamo, che le parole we’et-bêtô in 12,17 siano state inserite da un redattore che voleva armonizzare Gn 12 con Gn 20,17.

- Questo tipo di interesse è alieno dagli antichi narratori biblici e proviene da periodi più recenti, in cui tutte le narrazioni divennero parte di un singolo e unico lavoro letterario.

- c) Per questo genere di storie popolari, non esistono certi problemi che, invece, come sappiamo, esistono per noi. Ad es., è certamente normale incontrare in Egitto un Faraone, sebbene sia alquanto improbabile che alcuni migranti insignificanti, provenienti da un paese straniero, possano avere la possibilità di incontrarlo personalmente.

- Allo stesso modo, in questi casi la lingua non sembra mai costituire un problema. Il Faraone può parlare ad Abramo senza interprete.

- Al contrario, il narratore della storia di Giuseppe è ben conscio del problema (cf. Gn 42,23) e, in questo modo, tradisce il fatto di non appartenere all’antica corporazione dei narratori popolari.

- 3) I personaggi e il loro palcoscenico narrativo - a) La regola del “tre”. In una normale narrazione popolare, ci sono abitualmente tre attori

principali. - In Gn 12,10-20 questi tre personaggi sono Abramo, Sara e il Faraone. Gli altri personaggi sono

dei semplici “agenti”, o “funzionari” o “comparse”, come, ad es., gli egiziani (12,14), gli ufficiali del Faraone (12,15) o la scorta in 12,20.

- b) La regola del “due”, o della “dualità scenica”. In una scena, solamente due personaggi sono attivi. Talvolta, uno dei personaggi è una collettività. Ad es., in Gn 12,14-15 “gli egiziani” e “gli ufficiali del Faraone” agiscono come un “gruppo” compatto.

- c) L’azione prevale sulla psicologia. I narratori di racconti popolari raramente descrivono i processi mentali dei loro personaggi, i loro conflitti psicologici, i sentimenti e i momenti di introspezione. I caratteri dei loro attori emergono dalle loro azioni e dai loro discorsi, altrimenti di essi molto raramente se ne trova traccia.

- In Gn 12,10-20, i timori di Abramo emergono dal suo discorso (vv. 11-13), non da una descrizione oggettiva da parte del narratore. Poi, come si sa, niente viene detto circa i sentimenti di Sara dopo la proposta di Abramo, oppure, dopo essere arrivata nell’harem del Faraone.

- Per il momento in cui il marito e sua moglie si ritrovano insieme nuovamente, dopo che il Faraone ha restituito Sara, non si spreca una sola parola.

- Parimenti, l’indignazione del Faraone trapela esclusivamente dal suo discorso ad Abramo (vv. 18-19), ma l’intima reazione di Abramo non viene minimamente affrontata.

- Gn 22 è un altro buon esempio di questa tecnica. Lo stato interiore di Abramo non viene mai descritto durante l’interezza della narrazione. E, parimenti, niente continua ad essere detto dopo che la “prova” voluta da Dio è giunta alla sua fine. Padre e figlio non scambiano una sola parola dopo che l’angelo è intervenuto per fermare il sacrificio.

- 4) Il lettore - Qualsiasi narrazione, specialmente una narrazione popolare, presuppone la partecipazione

attiva dell’uditorio. Questo diviene particolarmente vero quando la narrazione si fa chiaramente ellittica. Il lettore è chiamato a riempire i vuoti.

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- In Gn 12,10-20, il lettore deve supplire la risposta di Sara dopo il discorso di Abramo in 12,11-13, così come la risposta di Abramo al Faraone dopo le accuse di quest’ultimo in 12,18-19.

- Più importante ancora, solo la conoscenza del lettore può risolvere la difficoltà logica dei vv. 18-19, in cui non c’è alcuna spiegazione di come il Faraone abbia saputo che Sara non era la sorella, bensì la moglie di Abramo.

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Lezione 18 GENESI 18,1-15: GLI OSPITI DI ABRAMO ALLE QUERCE DI MAMRE Note filologiche v. 1a: אליו: “a lui”, ovvero ad Abramo. Gn 18,1 potrebbe riferirsi a Gn 13,18, dove Abramo arriva a Mamre. In uno stadio del ciclo di Abramo precedente all’attuale, Gn 18,1 poteva aver immediatamente seguito 13,18. v. 1a+b: ב ... והוא יש La sequenza wayyiqtol + qotel esprime: a) la simultaneità di : וירא entrambe le azioni; b) la distinzione tra primo piano e secondo piano. L’azione istantanea nel passato (wayyiqtol) è nel primo piano, mentre l’azione durativa (qotel) è nel secondo piano. v. 1b: ם היום nel caldo meridiano”. La particella ke suppone una comparazione implicita, una“ :כחsorta di correlazione tra i tempi di due azioni, da cui la nozione di esatta corrispondenza tra le due azioni: ke, in questo senso, viene usata per il momento del giorno durante il quale un’azione viene completata. Qui si potrebbe dire: “al momento del calore del giorno”, “proprio nel punto in cui arriva il calore più forte del meriggio”. v. 2a: L’azione espressa dal wayyiqtol (א ים) è nel primo piano, mentre il participio (ויש con ,(נצבazione durativa, appartiene al secondo piano dell’azione. v. 2b: חו ed egli si prostrò”. Si tratta dell’hishtaphel del verbo ḥwh. In ebraico, l’hishtaphel“ : וישתè usato solo con questa radice. v. 3a: י Signore”, con “S” maiuscola (cf. anche LXX e Vulgata). Questa puntuazione implica“ : אדנche Abramo riconosca immediatamente Dio. Tuttavia, molti commentatori propongono di rivocalizzare con ’ădōnî, “signore”, “mio signore”, con “s” minuscola. In questo caso, Abramo non riconoscerebbe Dio tra o “nei” suoi ospiti. Rashi, l’antico commentatore giudaico, capisce ’ădōnāy come il plurale di ’ādôn, col suffisso di 1a pers. sing., e traduce: “miei signori”, e non “Signore”. Questo è possibile. Si osservi, al proposito, la forma meno usuale ’ădōnay in 19,2, col medesimo significato – “miei signori” – in un identico contesto. Questa traduzione, tuttavia, confligge con i due suffissi singolari in ‘ênékā e in ‘abdekā, “Miei signori, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare dal tuo servo”. La decisione in questa materia dipende dall’esegesi della scena. Essa, pertanto, sarà oggetto di discussione più avanti. v. 3b: ! י! ... עבד ai tuoi occhi... tuo servo”. Il TM usa il singolare in entrambi i casi. Il“ : בעינPentateuco samaritano ha due plurali (be‘ênêkem... ‘abdekem). Questo potrebbe essere un tentativo di armonizzare il testo al causa del v. 4, dove Abramo usa il plurale per indirizzarsi ai suoi

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visitatori. Tuttavia, la versione del Samaritano potrebbe essere originale, perché è più semplice spiegare il cambiamento dal plurale al singolare che viceversa. L’uso del singolare e del plurale in questa pericope saranno trattati più avanti. vv. 6-7: ר רץ אברהם ר אברהם ... ואל־הב ק La sequenza chiastica wayyiqtol... we... qatal : וימהsuppone che non ci sia sequenza tra le due azioni. Esse sono semplicemente presentate come se fossero simultanee o, in altri termini, come fossero due aspetti di una singola azione. v. 7b: ער il ragazzo”, “l’inserviente”. Questo uso dell’articolo è tipico dell’ebraico. In“ : הנcircostanze come questa, esso viene usato per una persona che viene menzionata nel corso di una narrazione in circostanze che le danno una particolare determinazione. v. 8b: לו e mentre egli stava in piedi (ma anche: “e mentre egli stava al loro“ : והוא־עמד ... ויאכservizio...”)... essi mangiarono”. Cf. i vv. 1-2 per la sequenza di wayyiqtol – qotel. In questo caso, il qotel precede il wayyiqtol. v. 9a: יו ל La parola ’ēlâw è contrassegnata da alcuni punti sopralineari nel TM. Ci sono : ויאמרו א15 casi simili in tutta la Bibbia ebraica. Questi puncta extraordinaria spesso segnalano alcune difficoltà nel testo. Qui, la ragione per questi puncta non è ben chiara. Forse la costruzione wayyō’merû lô sarebbe più usuale (cf. BHS). v. 10: עת ה שמ אמר ... ושר egli disse..., mentre Sara stava ascoltando”. Questo è un altro“ : ויesempio della sequenza wayyiqtol + qotel in questa narrazione. v. 10a: חיהכעת : La traduzione di questa espressione non è semplice (alla lettera: “al tempo della vita”). È usata solo in Gn 18,10.14; 2Re 4,16.17 in due contesti simili. La traduzione “il prossimo anno” è appoggiata da Gn 17,21 (“l’altro anno”, “il prossimo anno”) e dall’accadico ana balaṭ. Balaṭu significa “vita”, “durata della vita” ,”anno”. Abitualmente, l’espressione ebraica si traduce con “allo stesso tempo il prossimo anno”. Il termine ḥayyāh, in questo caso, potrebbe essere impiegato come un nome di misura e, in questo senso, una “unità di vita” sarebbe “un anno”. Altri traducono con: “alla fine di un periodo di gravidanza, quando la vita dovrebbe essere dovuta”. v. 10b: יו ’alla lettera: “egli era dietro di lui”. Il Pentateuco samaritano legge: wehî : והוא אחר’aḥărâw, “ed ella (Sara) era dietro di lui (colui che parla)”. Poiché entrambe le parole ’ōhel, “tenda”, e petaḥ, “entrata”, sono maschili in ebraico, il TM può significare che l’entrata della tenda o la tenda stessa erano dietro colui che parlava. v. 11: La prima parte del versetto è costituita da una frase senza verbo; il verbo, nella seconda parte, ḥādal, “cessare”, non è coordinato con quanto precede. Questa seconda frase specifica il contenuto della prima: “Abramo e Sara erano vecchi, avanzati in età; [questo significa che] era cessato a Sara quanto avviene di regola alle donne”. A Sara, cioè, si era fermato il mestruo. “Sara aveva passato la menopausa”, come traduce G. Wenham.

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v. 11b: ים רח כנש alla lettera: “la via / il modo secondo le donne”. La BHS propone invece di : אleggere la particella ke davanti a ’ōraḥ, “secondo la via / il modo delle donne”. Questa correzione, tuttavia, non appare necessaria. v. 12b: ה י עדנ יתה־ל qui l’uso del qatal è sorprendente. Secondo il contesto, questo qatal : הdovrebbe essere tradotto con un futuro: “ci sarà piacere per me?”, “proverò piacere?”. Questi casi sono abbastanza rari, molti dei quali appaiono essere, come qui, domande di stupore. È forse un modo per esprimere un “desiderio irreale”. v. 15b: קת י צח א כ Ci sono due possibili traduzioni: a) “Non così, tu hai riso”; b) “No, invece tu : לhai proprio riso”. Nel primo caso, kî significa “così”. Nel secondo caso, kî è avversativo. I paralleli favoriscono la seconda interpretazione (2Sam 20,21; 19,2; Gs 5,14; Am 7,14).

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Lezione 19 Delimitazione del testo nel contesto 1) La delimitazione della piccola unità narrativa - Gn 18,1-15 costituisce una piccola unità narrativa. Ci sono diversi buoni argomenti di ordine

narratologico per suffragare questa opinione. - a) L’unità di azione non è forse immediatamente evidente. A questo stadio dell’analisi, è

sufficiente dire che la narrazione descrive una visita che culmina nella scoperta di un messaggio, ovvero, nell’annuncio di una nascita.

- L’argomento di Gn 17 è il giuramento di Dio ad Abramo e la circoncisione. - Gn 18,16-33 tratta di una materia del tutto diversa: Abramo discute con Dio la sorte delle due

città... - b) Gli attori sono i tre visitatori, con Abramo e Sara. In Gn 17 Dio e Abramo sono soli, così

come in Gn 18,16-33. - c) In Gn 18,16 c’è un cambiamento di luogo: i tre visitatori lasciano Mamre per scendere a

Sodoma, mentre Abramo li accompagna. 2) L’unità narrativa più ampia. - Gn 18,1-15 è parte di una più grande unità narrativa (macro-unità). Abramo e Sara sono stati

senza bambini fin da 11,30 (cf. 16,1 e la nascita del loro figlio in 21,1-7). Gn 11,30, che nota il problema per la prima volta, e 21,1-7, che descrive la sua risoluzione, sono i due estremi in questo arco di tensione narrativa.

- All’interno di questa grande cornice (Gn 11 – 21), Gn 18 – 19 formano una catena di episodi che sono strettamente connessi. I legami sono tematici e stilistici.

- a) Da un punto di vista narrativo, un filo narrativo è costituito dal “viaggio dei messaggeri”. Essi prima visitano Abramo e Sara (18,1-15), poi Lot e la sua famiglia (19,1-14).

- Essi hanno due messaggi da veicolare: un annuncio di nascita (18,9-15) e un annuncio di distruzione (18,20-21; 19,12-13).

- La nascita del figlio di Abramo e Sara (18,1-15) e la distruzione di Sodoma e Gomorra e delle altre città della piana (18,16 – 19,28), sono i due principali temi di questi capitoli.

- La fine di Gn 19,29-38 descrive le conseguenze di questa distruzione, ovvero l’origine dei Moabiti e degli Ammoniti, i discendenti di Lot che vivono sull’altra riva del Giordano.

- b) Da un punto di vista stilistico, Gn 18,1-8 è parallelo a Gn 19,1-3. Entrambi i capitoli iniziano con una scena di ospitalità.

Il problema delle fonti - I problemi della critica delle fonti su Gn 18,1-15 sono di due tipi: - a) “I due motivi”. Il primo problema è connesso con i due motivi presenti nella narrazione: la

scena di ospitalità in cui divinità in incognito visitano alcune persone (18,1-8) e l’annuncio di una nascita (18,9-15).

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- Per C. Westermann questi due motivi un tempo sarebbero esistiti come storie indipendenti e sarebbero in seguito stati uniti in una singola narrazione.

- Le affermazioni di Westermann implicano un giudizio circa l’unità della narrazione. Per questa ragione, noi tratteremo il problema nell’analisi narrativa del testo e cercheremo di riscontrare se sia possibile ricostruire le due supposte narrazioni indipendenti, complete e in sé coerenti sulla base dell’attuale testo di Gn 18,1-15.

- b) “Il singolare e il plurale”. La presenza dei due motivi letterari ha condotto alcuni esegeti a dividere il testo orizzontalmente in due unità.

- Tuttavia, un altro problema – ovvero l’uso alternato di forme ora al singolare, ora al plurale in riferimento ai visitatori – ha convinto altri esegeti a dividere verticalmente il testo in due unità.

- Per questo secondo gruppo di esegeti, Gn 18,1-15 contiene due strati, ovvero due versioni complete, coerenti e indipendenti dello stesso evento.

- Di nuovo, la bontà di questa ipotesi deve essere riscontrata. Sono queste due “versioni” realmente complete e coerenti dello stesso evento? Di nuovo, l’analisi narrativa si occuperà anche di questo secondo problema.

Analisi narrativa a) Le due scene - Gn 18,1-15 si divide facilmente in due scene: 18,1-8 e 18,9-15. Poiché gli stessi attori sono

presenti dall’inizio alla fine e non ci sono cambiamenti di luogo e di tempo, l’unico reale criterio per la divisione in scende è l’azione (criterio che è anche il più importante).

- Ora, ci sono due diverse “azioni” in questa narrazione.

La scena di ospitalità (18,1-8) - 1) L’azione. Nella prima parte la storia descrive una scena di ospitalità. Tre visitatori appaiono

davanti alla tenda di Abramo; egli li invita per un pasto; essi accettano e, quando gli ospiti sono sotto l’albero a prendere cibo, la scena finisce (v. 8).

- L’invito e la preparazione del pasto occupano la parte centrale della scena (vv. 2-8a). Con il pasto, come detto, la narrazione raggiunge una prima conclusione, la tensione narrativa scende e l’azione arriva ad una pausa.

- Arrivati a questo punto, si deve aspettare un nuovo elemento per riuscire a rimettere in moto l’azione.

- Questo elemento è la domanda riportata nel v. 9. - 2) Stile. Due immagini contrastanti finiscono la scena. All’inizio, Abramo “sta sedendo

all’ingresso della tenda” (v. 1b). Alla fine, “egli sta in piedi sotto l’albero presso i suoi ospiti” (v. 8b).

- C’è una chiara opposizione tra queste due immagini: “stare in piedi” è opposto a “sedere”. Abramo non è più solo all’ingresso della tenda, ma sta occupandosi dei suoi ospiti sotto l’albero.

- La tenda e l’albero sono i due principali materiali scenici sul palcoscenico, anche se le azioni principali hanno luogo sotto l’albero: l’“apparizione” (v. 1a) e il pasto (v. 8b; cf. v. 4b).

- Tra queste due immagini di riposo e di quiete il lettore può osservare una serie di rapidi movimenti.

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- Abramo è il primo a “correre” (v. 2a), comunicando così la sua fretta a tutta la casa (vv. 6.7). - Il verbo rwṣ, “correre”, è usato due volte (vv. 2b.7a) e il verbo mhr, “affrettarsi”, tre volte (vv.

6a.6b.7b). - 3) Attori. Nella prima scena, Abramo è il protagonista principale. Egli è il soggetto di circa 16

verbi. La narrazione è un pochino più importante del dialogo. Quattro versetti e mezzo sono dedicati alla narrazione, mentre tre e mezzo al dialogo.

La promessa di un figlio (18,9-15) - Azione. Nella seconda scena, uno degli ospiti, identificato con YHWH nel v. 13, annuncia ad

Abramo la nascita di un figlio. La scena poi descrive la reazione di Sara (vv. 9b.12-15). - L’attore principale in questa seconda scena è il visitatore che annuncia la nascita. Abramo è più

passivo e Sara entra più nel vivo della narrazione. - Nello scenario, l’albero non viene più menzionato, ma è la tenda a divenire l’elemento-chiave

dell’azione (vv. 9b.10b). - La riaffermazione nel v. 15b: “No, invece tu hai proprio riso” conclude in fretta il dialogo, la

scena e il tutto della narrazione. b) La prima scena (18,1-8) - 1) Le suddivisioni della prima scena - La prima scena può essere facilmente divisa in due parti. Nei vv. 1-5 Abramo vede i suoi

visitatori, li saluta e li invita a trattenersi per il pranzo. - In questa prima parte della scena, gli attori sono i tre visitatori e Abramo. - La struttura di questo primo segmento narrativo è quella di “domanda/risposta”. - Il v. 5b conclude la prima parte con l’assenso dei visitatori all’invito di Abramo. - A questo punto della narrazione c’è un breve momento di ristoro prima della febbrile

preparazione del pranzo, descritta nella successiva sezione narrativa (18,6-8). - In questa seconda parte, Abramo fa quanto aveva proposto ai suoi visitatori. - Altri due personaggi partecipano alla preparazione del pasto: Sara, introdotta al v. 6, e il servo,

un “aiutante” o “agente”, nel v. 7. - Il pasto nel v. 8b conclude questa seconda parte. Di nuovo, nella narrazione c’è un momento di

riposo e di quiete dopo l’adempimento del piano di Abramo.

- 2) L’analisi della prima parte (18,1-5) - v. 1. - Esso ha una doppia funzione: - a) Riassume l’intera azione in un sommario prolettico. In questo modo, il lettore è in una

posizione privilegiata, possedendo informazioni che i personaggi non hanno. In tal senso, la posizione di lettura è a vantaggio del lettore e a svantaggio dei personaggi. L’uditorio conosce l’identità degli ospiti e, perciò, tutta la sua attenzione può concentrarsi sulla reazione di Abramo e di Sara

- b) Il v. 1 dà anche le informazioni necessarie che appartengono alla classica esposizione. L’“azione” è costituita dall’apparizione di YHWH ad Abramo.

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- Tra gli elementi dell’esposizione, alcuni appartengono allo scenario, ovvero le “querce di Mamre” e la tenda di Abramo e Sara.

- C’è anche una indicazione di tempo: “nella calura del giorno”. - Questo versetto, poi, introduce anche i due attori principali, YHWH ed Abramo. Sara sarà

incidentalmente e adeguatamente introdotta nel corso della narrazione, al v. 6. - Stile. Il v. 1a è un “sommario prolettico”, poiché non c’è successione tra i due wayyiqtol nel v.

1a e nel v. 2a: Abramo non vede i tre uomini dopo che YHWH gli è apparso. - L’intera narrazione (vv. 1-15) descrive questa “apparizione”. - La frase wayyērā’ yhwh ’el (cf. 18,1) è frequente nell’AT (cf. Gn 12,7; 17,1; 26,2.24; 1Re 9,2;

2Cr 7,12; cf 1Re 3,5). - Con mal’ak-yhwh, cf. Es 3,2, Gdc 6,12; 13,3. - Con kebôd yhwh, cf. Lv 9,23; Nm 16,19; 17,7; 20,6; cf. Es 16,10; Nm 14,10. - Con ’ĕlōhîm, cf. Gn 35,9. - In parecchi casi, la frase, mediante la preposizione be, indica dove l’apparizione avrebbe avuto

luogo, come in Gn 18,1: be’ēlōnê mamrē’, “alle querce di Mamre”. - Cf. anche Es 3,2 (belabbat-’ēš mittôk haśśeneh, “in una fiamma di fuoco dal mezzo di un

roveto”); Es 16,10 (be‘ānān, “nella nube”); Nm 14,10b (be’ōhel mô‘ēd, “nella tenda del convegno”); 1Re 3,5 (begib‘ôn, “a Gabaon”).

- Anche il tempo (18,1: “nell’ora del caldo meridiano) dell’apparizione viene indicato nelle altre occorrenze: in Gn 26,24 (“in questa stessa notte”); Gn 35,9 (“quando egli stava tornando da Paddan Aram”); 1Re 3,5 (“in un sogno di notte”); 2Cr 7,12 (“di notte”).

- v. 2. - Esso introduce due importanti cambiamenti nella narrazione - a) Primo piano e secondo piano. Come abbiamo visto nelle note filologiche, YHWH occupa il

primo piano nel v. 1 (wayyiqtol), mentre i tre visitatori sono al secondo piano (qotel). Abramo, invece, che è nel secondo piano al v. 1b, passa ad essere nel primo piano nel v. 2a.

- Egli diviene il personaggio principale e attivo dal v. 2 al v. 6. Questo cambiamento di ruolo nella narrazione è manifestato dalla costruzione dei versetti:

A. Primo piano: “e YHWH gli apparve” B. Secondo piano: “mentre egli stava sedendo all’ingresso della tenda” A’. Primo piano: “ed egli alzò i suoi occhi e vide” B’. Secondo piano: “ed ecco, tre uomini stavano in piedi di fronte a lui” - Dal punto di vista dei soggetti, la costruzione appare essere chiastica: A. YHWH B. Abramo B’. Abramo A’. I tre uomini - b) Nei vv. 1-2 si assiste anche ad un cambio di prospettiva tra il v. 1 e il v. 2. Nel v. 1 la

prospettiva è quella del narratore. Il narratore, come si sa, è onnisciente. È per questo che egli

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può dire che è YHWH ad apparire ad Abramo, e non semplicemente tre uomini, come viene detto al v. 2.

- Tuttavia, al v. 2 noi “vediamo” l’apparizione esattamente come la vede Abramo, “con gli occhi di Abramo”: egli vede semplicemente “tre uomini”.

- La particella (con congiunzione) wehinnē, “ed ecco”, viene spesso impiegata come segnale stilistico per un cambio di prospettiva.

- Nella frase: “ed ecco, tre uomini stavano di fronte a lui”, noi abbiamo un discorso libero indiretto.

- In tal tipo di discorso, c’è una differenza tra la voce che narra e la percezione di chi percepisce quanto viene narrato. La voce è quella del narratore onnisciente. Abramo, infatti, non avrebbe detto: “tre uomini stavano di fronte a lui” (‘ālâw), bensì “...di fronte a me” (‘ālây).

- La percezione, d’altro canto, è di Abramo, poiché egli vede tre uomini. Il narratore avrebbe detto: “ed ecco, YHWH stava di fronte a lui”.

- Alcune caratteristiche stilistiche mostrano il legame e il contrasto tra i due versi. a) la radice

r’h, “vedere”, lega il v. 1 e il v. 2. Nel v. 1, YHWH “si fa vedere” (wayyērā’; niphal: voce riflessiva). Nel v. 2, è detto per due volte che Abramo “vede” (wayyar’; qal: voce attiva), dal momento che egli diviene attivo da questo momento in poi.

- b) Il participio yōšēb, “sedente” (v. 1b), contrasta con l’altro participio: niṣṣābîm, “essenti in piedi” (v. 2).

- c) Le due parole ’ēlâw (“a lui”) e ‘ālâw (“di fronte a lui”) corrispondono e mostrano la posizione di Abramo in relazione a “YHWH” o ai “tre visitatori”.

- Il v. 2 contiene la silente richiesta dei visitatori e la prima risposta di Abramo. In realtà,

secondo i costumi del tempo, fermarsi e stare di fronte ad una tenda significa richiedere implicitamente ospitalità. È un po’ l’equivalente di bussare ad una porta. Quando la gente non intende fermarsi, essa passa semplicemente ad una ragionevole distanza.

- La prima risposta di Abramo è un gesto di benvenuto. Egli abbandona l’ingresso della tenda, corre incontro ai “tre uomini” e si prostra fino al suolo, sebbene egli sia un uomo vecchio e il caldo sia molto forte (v. 1b).

- La prostrazione non è necessariamente un gesto di adorazione dinanzi ad una divinità. Per questo, cf., ad es., Gn 33,3.7 (Giacobbe dinanzi a Esaù; Lea, Rachele e i loro bambini dinanzi a Esaù); Es 18,7 (Mosè dinanzi a Ietro); 1Sam 25,23.41 (Abigail dinanzi a David).

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Lezione 20 - vv. 3-5. - Il discorso di Abramo nei vv. 3-5 contiene la risposta alla silenziosa richiesta dei tre uomini al

v. 2b, ovvero, l’invito a rimanere per il pasto. Si noti, al proposito, che i vv. 3-4 contengono un discorso esortativo, con forme imperativali, iussive e coortative.

- Il discorso di Abramo è racchiuso dalle espressioni: “non passare oltre dal tuo servo” (v. 3b) e “perché è ben per questo che siete passati dal vostro servo” (v. 5a).

- Il discorso di Abramo è molto garbato e contiene parecchie formule di cortesia: a) l’epiteto ’ădōnāy, “miei signori”;

- b) in contrasto con l’epiteto ’ādôn, “signore”, molto probabilmente usato per il più importante dei tre visitatori, Abramo usa per due volte la parola ‘ebed, “servo”, per descrivere se stesso: “non passare oltre dal tuo servo” (v. 3b), “perché è ben per questo che siete passati dal vostro servo” (v. 5a);

- c) l’espressione mṣ’ ḥēn be‘ênê..., “trovare grazia agli occhi di...”; - d) il triplo uso della particella di supplica –nā’; cf. v. 3b: ’im-nā’; ’al nā’; v. 4a: yuqqaḥ-nāh. - e) egli presenta la sua offerta agli ospiti minimizzando i termini: yuqqaḥ-nā’ me‘aṭ mayim,

“lasciate che si porti un po’ d’acqua” (v. 4); we’eqḥâ pat-leḥem, “lasciate che vada a prendere un boccone di pane.

- (Si noti che la parola peh significa “bocca”: la parola pat proviene dalla stessa radice e significa “boccone”, ovvero la quantità che si può mordere in una sola volta).

- Si noti che al v. 4 la frase usa il passivo. Abramo non dice: “lasciate che vada a prendere un po’ d’acqua” (we’eqḥâ me‘aṭ mayim). Questa potrebbe essere un’altra formula di cortesia. In realtà, Abramo non lava i piedi dei visitatori: egli, al contrario, invita i visitatori a compiere da soli tale gesto (v. 4a). Lavare i piedi, infatti, faceva parte dei doveri di uno schiavo (cf. 1Sam 25,41). Ora, Abramo è un buon ospite, ma non uno schiavo.

- La risposta dei visitatori al v. 5b è tanto concisa quanto il discorso di Abramo è stato ridondante (il v. 5b è un altro discorso esortativo).

- 3) L’analisi della seconda parte (18,6-8) - La seconda parte descrive la preparazione del pasto (vv. 6-8a) e il pranzo stesso (v. 8b). - In questa seconda parte c’è più azione che “discorsi”. L’unico discorso si trova al v. 6b. - Ora analizzeremo due punti tipici di questo segmento narrativo: a) il ritmo narrativo; b) alcuni

dettagli circa la preparazione del pranzo. - a) Il ritmo narrativo - Se si compara il tempo della storia e il tempo del racconto, il primo è molto più lungo del

secondo. - Si impiega una grande quantità di tempo della storia a impastare tre “misure” di farina, a

macellare e a preparare un vitello e a portare l’intero pasto ai tre visitatori. Tuttavia, il tempo del racconto necessario per raccontare queste azioni è solamente quello di tre versetti.

- Sembra che la fretta di Abramo sia così comunicativa che anche la stessa narrazione si affretta per preparare il pasto il prima possibile.

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- Come abbiamo visto, il verbo mhr (“affrettarsi”: v. 6a e v. 6b: 2x; v. 7b: 1x) e il verbo rwṣ (“correre”: v. 7a: 1x; cf. v. 2b) danno a questa sezione la sua particolare tonalità e il suo peculiare ritmo.

- La rapidità dell’azione è sottolineata anche dalla costruzione chiastica dei vv. 6-7, che presenta le azioni di Abramo come simultanee (cf. sopra).

- E il tutto sotto la calura del sole meridiano! - b) Alcuni dettagli circa la preparazione del pranzo

L’ordine di Abramo a sua moglie è brusco e il tono è assai diverso da quello usato con i suoi ospiti. Il v. 6b contiene ancora un tipico discorso “esortativo” con tre imperativi.

- Questa caratteristica stilistica può essere spiegata semplicemente dal desiderio di Abramo di preparare il pasto il più velocemente possibile.

- Le focacce (v. 6). Abramo domanda a Sara di impastare tre misure di farina. La parola qemaḥ è il tipico termine usato per “farina”. In ogni modo, è anche presente in due testi in cui si parla di offerte (Gdc 6,19; 1Sam 1,24).

- La parola sōlet significa “farina fine”, “fior di farina”: è la farina che accompagna le offerte in testi recenti (Es 29,2.40; Lv 2,1.4.7; 5,11; ...).

- 1Re 5,2 distingue i due tipi. Poiché il termine sōlet è piuttosto recente, alcuni autori considerano che sia un’aggiunta tardiva. Qualche editore deve aver trovato offensivo che Abramo abbia offerto della farina ordinaria, e non quella rituale, più raffinata (sōlet).

- Tre misure di farina/fior di farina. Non è semplice conoscere esattamente quanto potesse contenere un se’āh, abitualmente tradotto con “misure”. Molti esegeti, ad es., non definiscono il preciso ammontare di farina contenuto in “tre misure”.

- H. Gunkel dice che 12 litri poteva essere l’equivalente di una misura. - R. de Vaux dà equivalenze diverse, pur senza giungere ad alcuna certezza: 8,4 litri nell’antica

Babilonia; 13,4 litri in Assiria; 15,30 litri durante l’epoca romana. - Quello che è certo è che Abramo abbia chiesto a Sara di preparare una quantità davvero

enorme, decisamente sproporzionata, di focacce per i tre visitatori. È quanto egli aveva chiamato: “un boccone di pane” (pat-leḥem: v. 5a)...!

- La carne (v. 7). Se Sara deve preparare le focacce, Abramo si occupa della carne. Impastare è il lavoro normale delle donne, mentre macellare è quello normale degli uomini.

- Di nuovo, il vitello ingrassato in questo genere di narrazioni (cf. anche Lc 15...) è sempre un cibo molto speciale e prelibato. Tuttavia, continua ad essere sempre molto sproporzionato per sfamare solo tre persone...

- D’altra parte, si dovrebbe anche ricordare che in quelle regioni, dal clima torrido, non sarebbe stato possibile conservare la carne fresca per lungo tempo. È anche per questo, forse, che andava macellato e cucinato in una sola volta l’intero capretto...

- Il latte e il formaggio (v. 8a). La parola ḥem’āh, significa “latte acido”, probabilmente una sorta di cagliata o di yoghurt. Ḥālāb, invece, significa “latte fresco”.

- Per quale motivo Abramo non offre vino? La spiegazione più ovvia è che Abramo e Sara sono rappresentati come Beduini, abitanti sotto le tende. Ora, i Beduini non hanno vigneti. I Recabiti di Ger 35 vivono sotto le tende e – si dice espressamente – non bevono vino: essi non seminano né hanno vigneti, per il fatto che essi vogliono rimanere fedeli ad un ideale nomadico di vita (Ger 35,6-11).

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- Quando gli israeliti nel deserto mandano alcune spie ad investigare la terra, le spie portano indietro ciò che i nomadi avrebbero normalmente portato, ovvero un enorme tralcio con grappoli (Nm 13,22-24).

- D’altro canto, Melchisedek, re di Salem, offre ad Abramo pane e vino (Gn 14,18). Melchisedek, infatti, vive in una città, ed è il re di una popolazione sedentaria (probabilmente di cananei).

- Dove sono le focacce al v. 8? Quando Abramo presenta il pasto ai suoi ospiti, le focacce non sono menzionate. È possibile spiegare molto semplicemente questo dettaglio. Le focacce, rotonde e basse (‘ūgôt) preparate da Sara sono simili a quelle comuni nei paesi arabici. Esse vengono usate per prendere cibo: in altri termini, servono da piatti, ma anche da forchette o da cucchiai.

- Chiaramente nessuno menzionerebbe i piatti insieme al cibo! È per questo motivo che le focacce non sono menzionate.

Conclusione - La scena di ospitalità (18,1-8) mostra dunque quattro caratteristiche del comportamento di

Abramo: a) la sua cortesia; b) la sua diligenza nel preparare il cibo; c) l’abbondanza di cibo; d) il fatto che egli mette a disposizione il cibo migliore di cui dispone.

- Agisce in questo modo perché ha intuito la reale identità dei suoi visitatori? Niente è nel testo per poterci assicurare in questa supposizione.

c) La seconda scena (18,9-15) 1) L’azione - In questa scena non ci sono chiare suddivisioni. L’intera scena è incentrata sulla promessa di un

figlio. Uno dei tre visitatori al v. 10 promette un figlio. - Questa prima promessa provoca la segreta risata di Sara al v. 12, con una conseguente catena di

susseguenti reazioni. - Tuttavia, la promessa è ripetuta una seconda volta al v. 14b. Questa volta Sara tenta di negare la

precedente risata, anche se il visitatore insiste che ella abbia davvero riso (v. 15b). - In tal modo, l’azione della scena è strutturata in questo modo: A. Promessa (vv. 9-10) B. Reazione di Sara (risata) (vv. 11-12) A’. Ripetizione della promessa (vv. 13-14) B’. Sara nega di avere riso (v. 15a) A’’. Il visitatore conferma che Sara ha riso (v. 15b) 2) Analisi di Gn 18,9-15 v. 9. - Questo versetto introduce il dialogo tra i visitatori e Abramo. Il plurale wayyō’merû può

semplicemente significare che la questione era stata posta durante la conversazione. Secondo le grammatiche, potrebbe essere compreso come un impersonale: “si disse”.

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- La stessa domanda – Dov’è Sara, tua moglie? – è sorprendente: - a) Come fanno gli ospiti di Abramo a conoscere il nome di sua moglie? Forse Abramo e Sara

erano conosciuti in quella regione (cf. B. Jacob). O, forse, i visitatori sono come l’angelo di YHWH in Gn 16,8, che conosceva il nome di Agar (cf. ancora B. Jacob). Se così fosse, questo potrebbe essere una possibile traccia della particolare natura di questi visitatori.

- b) Oggi, tra i Beduini e i musulmani, un ospite non dovrebbe mai chiedere della moglie del suo ospitante (cf. H. Gunkel). Abramo, comunque, non ne risulta offeso. Anzi, risponde immediatamente. In questa risposta, viene di nuovo menzionata la tenda, dal momento che, vedremo, questo dettaglio sarà particolarmente importante per la corretta comprensione dell’azione nei vv. 11-13.

v. 10. - In questo versetto noi ci occuperemo di quattro punti: a) il parallelismo coi vv. 1-2; b) la

distinzione tra primo piano e secondo piano; c) la ragione dell’origliare di Sara; d) l’annuncio di una nascita.

- a) Si nota un parallelo molto interessante tra il v. 10 e i vv. 1-2. - 1) nel v. 2 Abramo “vede” (r’h); nel v. 10b Sara “ascolta” (šm‘). In questo modo, ella è

coinvolta nell’azione, così come lo fu Abramo appena egli si vide davanti i tre visitatori. - 2) Sia Abramo che Sara sono all’ingresso della tenda (petaḥ hā’ōhel). - 3) Si nota anche un contrasto tra la diligenza di Abramo e la risata di Sara. - b) Il v. 10 suppone la distinzione tra primo piano e secondo piano (vv. 1-2). Nel primo piano,

uno dei visitatori annuncia che Sara avrà un figlio (v. 10a). Il verbo principale è un wayyiqtol (wayyō’mer); il discorso è predittivo (šôb ’āšûb: “io di certo tornerò...”).

- Nel secondo piano, Sara sta origliando. Il verbo è un qotel (šōma‘at). Questa costruzione esprime anche una simultaneità: il visitatore parla mentre Sara sta ascoltando.

- In narratore spiega nel dettaglio la posizione di Sara: l’ingresso della tenda (o la tenda stessa) è dietro il visitatore. Questo significa che il visitatore che parla non può vedere Sara. Di nuovo, questo dettaglio è importante per la comprensione di ciò che segue (v. 13).

- c) Perché Sara sta origliando? È forse curiosa? Come dice H. Gunkel nel suo commentario:

“Frauen sind überhaupt neugierig” (“le donne sono curiose”)! - C’è, tuttavia, un’altra spiegazione di questo fatto, di ordine più narratologico. L’annuncio di

una nascita non soltanto riguarda il futuro della madre, ma è a lei stessa che le nascite sono normalmente annunciate (Gn 16; Gdc 13; 1Sam 1; Lc 1...!).

- In Gn 18 Sara deve udire il discorso del visitatore, e il v. 10 è un modo brillante e astuto di coinvolgere Sara in questa azione, sebbene, secondo i costumi del tempo e di quella società, lei non avrebbe potuto essere presente ad un pranzo con uomini.

- d) L’annuncio di una nascita è in se stesso sorprendente, come mostrerà il resto della scena. v. 11. - In questo versetto il narratore interrompe il flusso della narrazione per informare direttamente il

lettore circa alcuni particolari dell’azione. Nel linguaggio tecnico dell’analisi narrativa questo è chiamato “intrusione”.

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- In quanto tale, potrebbe appartenere all’“esposizione” della narrazione; tuttavia, il narratore sceglie di informare il lettore di questi particolari nella misura in cui occorrono nell’azione.

- L’informazione circa l’età di Abramo e di Sara serve a un doppio scopo: a) spiega la reazione di Sara al v. 12. Entrambi hanno sorpassato l’età “genitoriale”. Sara è stata sterile da molto tempo ed ora ha pure sorpassato l’età per una gravidanza. L’intervento del visitatore al v. 10a è dunque letteralmente “incredibile”. b) Prepara la dichiarazione di YHWH al v. 14: “C’è qualcosa di difficile per YHWH?”. Al v. 11 il narratore mostra gli ostacoli che devono superarsi prima che la nascita promessa possa essere possibile. Ma soltanto YHWH in persona può superare detti ostacoli. È per questo che la narrazione si prepara per rivelare la vera identità del visitatore.

v. 12. - Sara ride tra sé (beqirbāh). Questo significa che i visitatori non possono udire né vedere la sua

risata. Il suo è un “monologo interiore”: le’mōr, in questo caso, non significa esattamente “dicendo”, quanto “pensando”.

- Nel suo discorso, ella ripete con sue proprie parole ciò che il narratore aveva detto al v. 11. Ella aggiunge solo l’idea di “piacere” (‘ednāh).

- Chi può udire o vedere Sara? La disposizione del palcoscenico narrativo non permette che i visitatori la vedano o la odano. Eppure la narrazione rivela ogni cosa all’uditorio che, perciò, è in una “posizione privilegiata” (il lettore sa più di almeno uno dei personaggi).

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Lezione 21 v. 13. - A questo punto ha luogo un inaspettato cambiamento di eventi. - È YHWH in persona a parlare. Tuttavia, si dovrebbe notare che questa informazione è donata

solo al lettore, dal momento che la frase wayyō’mer yhwh è indirizzata all’uditorio e non appartiene al dialogo tra i personaggi.

- In altre parole, il narratore, per il lettore, identifica lo speaker con YHWH. Non è affatto detto che Abramo o Sara lo identifichino come tale.

- La questione di YHWH rivela che egli ha udito Sara ridere, sebbene ella fosse dietro di lui, all’ingresso della tenda, e avesse riso e parlato “a se stessa”.

- Allo stesso tempo, tutti gli ostacoli scompaiono e la scena diviene trasparente. Allo stesso tempo, lo speaker, ovvero YHWH, si trova a conoscere tanto quanto conoscono l’uditorio e il narratore.

- Nel suo discorso YHWH non ripete alla lettera le parole di Sara. a) Sara aveva parlato di “piacere”, mentre Dio dice: “Sara ha riso, dicendo: ‘Davvero dovrò partorire?’”. Questo linguaggio più concreto evidenzia il vero problema di Sara. b) Nella seconda parte del suo discorso Sara aveva detto: “Il mio marito è vecchio” (v. 12b: wa’dōnî zāqēn), mentre nelle parole di YHWH Sara avrebbe detto: “Io sono vecchia” (v. 13b: wa’ănî zāqantî). Qui YHWH ripete le parole di Sara ad Abramo in un modo decisamente diplomatico e pieno di tatto... I rabbini hanno detto che YHWH non voleva mettere in turbamento la pace della coppia (cf. Bereshit Rabba 48,21)!

v. 14. - Ancora una volta troviamo una chiara indicazione dell’identità dello speaker: “C’è forse

qualcosa di troppo difficile per YHWH?”. - Tuttavia, questo discorso rimane ambiguo poiché YHWH parla di se stesso alla terza persona.

Il testo, quindi, non dice: “C’è forse qualcosa di troppo difficile per me?”. In tal senso, Abramo e Sara possono comprendere che il loro ospite sta dicendo che egli non è YHWH...

- Nel contesto, la frase “C’è forse qualcosa di troppo difficile per YHWH?” può essere capita in due modi diversi: a) Il primo significato è il più ovvio: “È forse impossibile per YHWH dare un figlio a Sara?”; b) il secondo significato è legato al primo: “È forse impossibile per YHWH prevedere il futuro?”. Tuttavia, si dovrebbe anche notare che in questa narrazione un visitatore già aveva fatto qualcosa che sembrava impossibile: egli aveva indovinato che Sara aveva riso tra sé, nella tenda, dietro di lui.

- La seconda parte del versetto ripete la predizione del v. 10. Questa volta, comunque, è divenuto chiaro che la nascita sarà opera di YHWH. Questo è essenzialmente diverso dal v. 10a

v. 15. - Ora che Sara sa che la nascita di un figlio sarà un’opera di YHWH, ne rimane spaventata. - Al v. 15b YHWH si indirizza direttamente a Sara, mentre fino ad ora egli ha parlato al solo

Abramo. - Che la narrazione debba concludersi con la parola di Dio a Sara è certamente intenzionale.

Così, da questo punto di vista, c’è una progressione nella narrazione.

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- Questo breve dialogo ha uno scopo particolare. Il verbo šḥq, “ridere”, è ripetuto due volte in questo versetto, e quattro volte nei vv. 12-15.

- Ora, il nome del figlio di Sara e di Abramo sarà “Isacco”, yiṣḥāq, che significa: “egli rise” (Gn 21,1-7). Questa narrazione, dunque, è una nascosta eziologia del nome di Isacco.

- La narrazione finisce improvvisamente al v. 15b. Molte questioni rimangono aperte. La più importante, comunque, è in particolare una: Abramo e Sara hanno riconosciuto i loro visitatori (il loro visitatore)? A differenza di Gn 16,13-14; 28,16-18; 32,31; Gdc 6,21-24; 13,20-23; cf. Es 3,6; Gs 5,14; 1Re 19,13, qui non c’è un chiaro momento di “riconoscimento” (anagnórisis).

- Ci sono comunque sufficienti elementi per provvedere una risposta a questa questione. Nondimeno, la narrazione finisce senza alcun indizio di un possibile riconoscimento da parte di Abramo o di Sara.

- La conclusione appartiene ancora una volta al lettore e la narrazione, con la sua conclusione aperta, è vicina a quanto viene normalmente chiamato “parabola aperta”.

- L’attuale conclusione della narrazione è diversa. Gen 18,1-15 termina quando YHWH ha confermato la sua promessa e ha ribadito la risata di Sara a motivo della sua promessa.

- Il narratore sembra deliberatamente evitare tutto quanto potrebbe distrarre il lettore dal punto principale della narrazione.

- Infine, si può asserire che la naturale continuazione di Gn 18,1-15 sia il racconto della nascita di Isacco in Gn 21,1-7.

d) Problemi di interpretazione 1) La relazione della prima scena con l’intera sezione - La narrazione è unificata? In cosa consiste il legame tra la scena dell’ospitalità e l’annuncio

della nascita? Alcuni autori ritengono che la narrazione non sia unificata e che i due motivi un tempo esistessero indipendentemente.

- i) La scena di ospitalità nella Bibbia, nel Vicino Oriente antico e in Grecia. - Per risolvere questo problema è necessario studiare il motivo della theoxenia, ovvero

dell’ospitalità offerta a ignoti visitatori che sono, in realtà, divinità camuffate, in incognito. - Ci sono parecchi paralleli di questo episodio biblico nei testi ugaritici, greci e latini. In qualche

modo, Gn 18,1-15 è simile anche a diverse narrazioni in cui è l’“angelo di YHWH” ad apparire.

- Nella Bibbia, il parallelo più chiaro è 2Re 4,4-17. - In questa narrazione il profeta Eliseo è costantemente ospitato da una coppia senza figli a

Shunem. Dopo un po’, la moglie chiede al marito di costruire un piccolo appartamento per il profeta sul terrazzo della loro casa. Come ricompensa della loro ospitalità, il profeta promette alla moglie un figlio. La moglie ha un momento di dubbio e chiede al profeta di non ingannarla (cf. v. 16). Di fatto, il figlio nascerà precisamente un anno dopo essere stato annunciato.

- Queste due narrazioni hanno molto più di un solo motivo in comune: a) una coppia senza figli; b) l’ospitalità data a persone o a una persona con una speciale relazione a YHWH; c) l’annuncio della nascita di un figlio; d) c’è un momento di dubbio nel credere alla “serietà” della promessa; e) la promessa si adempie secondo quanto era stato predetto.

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- Accanto alle similarità nella struttura e nel contenuto, 2Re 4,4-17 e Gn 18,1-15 hanno due importanti espressioni in comune: lammô‘ēd, “al tempo fissato” (Gn 18,14; 2Re 4,16), e kā’ēt ḥayyāh, “il prossimo anno” (Gn 18,10.14; 2Re 4,16.17).

- L’uso di questa seconda espressione, come abbiamo visto, è limitato a questi due testi. - Per altre simili scene di ospitalità, cf. Gn 19,1-3; Gdc 6,19-21; 13,15-23. - Gn 19,1-3 è molto vicino a Gn 18,1-8, sia nel vocabolario che nella struttura: le corrispondenze

letterali sono numerose. Inoltre, Abramo e Sara, Lot e la sua famiglia saranno ricompensati per la loro ospitalità. Sodoma sarà distrutta a causa della sua malvagità, ma essi saranno salvati.

- Nella letteratura ugaritica, ci sono due paralleli a Gn 18,1-15. Nel primo, il vedovo e senza figli

Kirta implora il dio El di restituirgli sua moglie, così che egli possa avere un figlio. Nella sua risposta, il dio El gli chiede di preparare un pasto sacrificale. Più avanti nella narrazione, El benedice Kirta con la coppa di vino provvista da un eroe.

- Il secondo testo è più vicino a Gn 18,1-15. Nel mito di Aqhat e Danel, Danel, padre di Aqhat, e Donatay, sua madre, preparano un banchetto e, in conseguenza, il dio Kothar-wa-Hasis regala un arco a loro figlio.

- Il tema delle due storie è diverso, poiché il problema della mancanza di figli è assente nell’epica ugaritica. Nondimeno, molti elementi sono comuni a entrambi. a) All’inizio della narrazione, sia Danel che Abramo sono seduti; b) appaiono uno o più esseri divini; c) Sia Abramo che Danel offrono ospitalità e la loro offerta viene accettata; d) l’uomo chiede a sua moglie di preparare un pasto; e) l’ordine è eseguito in fretta; f) i visitatori mangiano e riposano; g) l’ospitalità è ricompensata (con un arco in Aqhat; con un figlio in Gn 18); h) i visitatori partono. Inoltre, da un punto di vista stilistico, sia il testo ugaritico che quello ebraico usano la stessa espressione idiomatica quando l’eroe intravede i suoi visitatori: “alzare i propri occhi e vedere” (cf. Aqhat V,9 con Gn 18,2).

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Lezione 22 - I paralleli greci e latini sono numerosi. Omero nell’Odissea (xvii, 485-487) dice: “Sì, e gli dèi

come stranieri di terre lontane assumono ogni genere di forma, e visitano città per vedere la violenza o la giustizia degli uomini”.

- Ovidio, nei Fausti V,495ss., racconta la storia di Hyrieus, un anziano contadino di Tanagra. Egli viene visitato da tre divinità in incognita: Zeus, Poseidone e Hermes. Egli offre loro ospitalità e, dopo il pasto, le divinità vogliono ricompensarlo. Perciò essi lo invitano a esprimere un desiderio. Il vecchio, che è un vedovo senza figli, chiede loro un figlio. Dopo dieci mesi un figlio, di nome Orione, verrà miracolosamente alla luce.

- Nelle Metamorfosi, VIII,616ss., sempre Ovidio narra la storia di Filemone e Bauci. Questi contadini, anziani e poveri, vivevano nella Frigia. Sotto le sembianze di semplici viaggiatori, Zeus e Hermes visitano il loro villaggio. Nessuno li riceve, ad eccezione dell’anziana coppia. Gli dèi, adirati, mandano un diluvio per distruggere il villaggio, risparmiando tuttavia la casa dei due anziani, che viene trasformata in un tempio. Dopo la loro morte, essi divengono due alberi, così che, secondo il loro desiderio, non verranno mai separati.

- Al proposito, ci si ricordi di Atti 14,8-18, in cui è possibile vedere una probabile allusione alla leggenda di Filemone e Bauci. Paolo e Barnaba, guariscono un paralitico, e gli abitanti della città, ovvero Frigi, pensano che Zeus e Hermes siano tornati per visitarli. Così essi chiamano Barnaba “Zeus” e Paolo “Hermes”.

- Come si vede, ci sono parecchie similitudini tra Gn 18 e queste due leggende, specialmente la

prima. Tuttavia, è ugualmente chiaro che non c’è alcuna relazione di dipendenza tra queste leggende greche e la Bibbia.

- Una cosa è certa: la scena di ospitalità (theoxenia) nella Bibbia e anche in altre culture richiede un epilogo, ovvero, una sorta di ricompensa, laddove viene offerta ospitalità, o una sorta di punizione, laddove questa viene negata.

- Nel linguaggio della semiotica, questo epilogo viene chiamato “sanzione”. Più semplicemente, la scena di ospitalità è una sorta di “test” e la narrazione deve aiutare a stabilire se esso venga superato o no.

- In Gn 18,1-15 è quindi impossibile separare la scena di ospitalità da quella dell’annuncio di una nascita, poiché, come ora meglio sappiamo, l’annuncio di una nascita è la concreta e reale ricompensa per la generosa ospitalità data da Abramo e Sara nella prima parte della narrazione.

- ii) Lo stretto legame tra i vv. 9-15 con i vv. 1-8 - Una lettura attenta di Gn 18,1-8.9-15 ci mostra, dunque, che non è possibile distinguere due

storie separate in questa narrazione senza distruggere la sua logica interna. - J. Van Seters tenta di distinguere una storia di nascita (13,18; 18,1a.10a-14; 21,2.6-7) da un

frammento narrativo costruito attorno al tema del dio che, in incognito, esamina le opere degli uomini al fine di ricompensare i giusti e gli ospitali e di punire gli empi (18,1b-9).

- Il v. 15 sarebbe un’aggiunta tardiva. - Van Seters è solamente interessato alla “storia della nascita”, tentando così di separarla dalla

narrazione così come sta. Egli non analizza il “tema dell’ospitalità” in quanto tale.

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- Ci sono, comunque, parecchie difficoltà con la sua analisi. - a) Per sopprimere tutti i legami tra la scena di ospitalità e l’annuncio della nascita, Van Seters

deve cancellare il v. 10b dalla seconda parte della narrazione. Per questo, ritiene che questo mezzo versetto sia un’aggiunta tardiva (“E Sara stava ascoltando all’ingresso della tenda che era dietro di lui”).

- Per Van Seters, questo versetto è problematico e pure ridondante, in vista del fatto che Sara ride “dentro se stessa” (v. 12). Sempre per lui, esso potrebbe essere un’aggiunta intesa a collegare questa scena in modo più stretto a quella della visita dei tre stranieri.

- Quella di Van Seters, tuttavia, è una procedura arbitraria e circolare, oltre che ideologica. Per gli stessi motivi, infatti, non si potrebbe supporre che quella intenzione, invece che di un tardivo redattore, fosse proprio dell’autore della narrazione?

- In altri termini, Van Seters elimina dal testo gli elementi che non si sposano con la sua teoria. - b) Nella sua analisi, Van Seters trascura il parallelismo tra 18,1-2 e 18,10, ovvero: 1) il

contrasto tra primo piano e secondo piano; 2) il fatto che al v. 2 Abramo “vede”, mentre al v. 10b Sara “ode”; 3) entrambi sono all’“ingresso della tenda” (v. 1b.2b e 10b): Abramo all’inizio della prima scena e Sara all’inizio della seconda; 4) c’è un contrasto tra le risposte di Abramo e di Sara: da una parte, Abramo è veloce e diligente, ricevendo i suoi ospiti con grande generosità, mentre Sara ride alla promessa.

- c) Altri elementi, comunque, fanno la teoria di Van Seters assai instabile. - Ad esempio, nella narrazione di Van Seters Dio appare in un luogo sacro, Hebron, dove

Abramo costruisce un altare (13,18) e dove gli annuncia la nascita di un figlio. - Tuttavia, nell’annuncio del v. 10 il visitatore dice: “Certamente tornerò il prossimo anno e Sara

avrà un figlio”. Questo “ritorno” non può significare un’altra teofania, poiché non si dice: “Ti apparirò il prossimo anno”. È di certo più logico che qui sia implicata una (altra) “visita”, esattamente come è stata descritta nei vv. 1-6. E poi, per quale motivo Dio dovrebbe “ritornare”, se tutto è già stato detto in una “apparizione”?

- d) Quando Van Seters dice che al v. 1a c’è la chiara dichiarazione di una teofania e che essa, in quanto tale, non può accordarsi con la storia di un dio che viaggia in incognito, dimostra chiaramente di non capire la strategia narrativa di questi versetti. Il v. 1a, infatti, come sappiamo, è un “titolo”, ovvero un “sommario prolettico”, scritto per il lettore e non per i personaggi. Ad es., Es 3,2; Gdc 6,11-12; 13,3 usano la medesima strategia.

- e) La reale forza dei vv. 10-14 viene a perdersi quando si isolano questi versetti dal resto della narrazione.

- Gn 18,1-15 per la maggior parte è una narrazione tessuta e finemente lavorata. La proposta di Van Seters non fa che distruggere le sue qualità stilistiche e drammatiche. Egli, infatti, tende a ridurre la narrazione a uno schizzo assai asciutto, a una semplice comunicazione verbale. Una buona narrazione, come la nostra, non è fatta solo di uno scheletro, ma anche di carne: entrambi le sono necessari.

- f) Lo stretto parallelismo con 2Re 4,14-17 collega ospitalità e annuncio di una nascita in entrambe le narrazioni.

- In conclusione, la teoria di Van Seters non è convincente, soprattutto perché ignora la reale natura di Gn 18,1-15.

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2) Il problema del singolare e del plurale - L’uso del singolare o del plurale quando il testo parla dei visitatori è un fenomeno assai

particolare. - Da una parte, i vv. 1a.3.10.13-15 sono al singolare; i vv. 1a.13.14 menzionano esplicitamente

YHWH; i vv. 2.4-5.8-9 sono invece al plurale. - Parecchi esegeti hanno tentato di dividere il testo in due strati sulla base di questo criterio. Tra i

recenti tentativi in questa direzione, si dovrebbero ricordare quelli di R. Kilian e di Chr. Levin. - i) Secondo la ricostruzione di R. Kilian, queste sono le diverse componenti del testo: - La versione plurale (l’elemento “albero” appartiene a questa versione): - v. 1b: Abramo stava sedendo [...] nell’ora più calda del giorno sotto l’albero.

v. 2: Egli alzò i suoi occhi e vide, ed ecco, tre uomini stavano in piedi davanti a lui. Egli li vide, corse loro incontro [...] e si prostrò a terra. v. 3: Ed egli disse: [...] “Signori, non passate oltre dal vostro servo”. v. 4: “Lasciate che sia portata un po’ di acqua, lavatevi i piedi e riposatevi sotto l’albero”. v. 5: “Lasciate che vi porti un boccone di pane e ristoratevi. Dopo proseguirete, poiché è per questo che siete passati dal vostro servo”. v. 7: Al gregge corse Abramo e prese un vitello tenero e buono, lo dette all’inserviente e si affrettò a prepararlo. v. 8: Ed egli prese latte acido, latte fresco e il vitello che aveva preparato e li mise di fronte a loro. Egli stava in piedi di fronte a loro sotto l’albero, mentre essi mangiavano. v. 9aa: Ed essi dissero: “...”. v. 16: Gli uomini partirono da là e contemplarono Sodoma. Abramo camminava con loro per congedarli.

- La versione singolare (l’elemento tenda appartiene a questa versione): - v. 1b (aggiunta): ...all’ingresso della tenda...

v. 2 (aggiunta): ...dall’ingresso della tenda... v. 3 (rielaborazione): “Mio Signore, ...ai tuoi occhi... dal tuo servo...”. v. 6: E Abramo corse alla tenda, da Sara, e disse: “Presto, impasta tre misure di farina [senza “fior di farina”] e fanne delle focacce!”. v. 9abb: [?] Ed egli disse: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Ed egli disse: “Là, nella tenda”. vv.10-15 [in toto]

- Ulteriori aggiunte: v. 1a e v. 6 [sōlet] - Ci sono parecchie difficoltà con questa ricostruzione, pur lasciando perdere la spesso arbitraria

metodologia usata per raggiungere il suo risultato. - a) Nessuna di queste due versioni può stare da sola. Nella prima, viene del tutto perso il

messaggio e, dunque, il senso della visita dei visitatori. Nella seconda, l’introduzione è solo abbozzata; inoltre, Sara prepara le focacce, ma non si dà menzione di alcun pasto.

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- b) Nella versione plurale, il pasto consiste di carne, ma non di focacce. Ora, carne e focacce sono mangiate insieme (cf. 1Sam 28,24-25).

- c) La reale difficoltà soggiace nel v. 9. R. Kilian vuole assegnarlo alla versione singolare. Questo, tuttavia, può solo significare che la versione plurale rimane troncata. Il problema è semplice: per R. Kilian, l’albero e la tenda devono appartenere a due diverse versioni. Ora, nel v. 9, Abramo e gli uomini sono sotto l’albero (v. 8), essi chiedono di Sara, e Abramo risponde che ella è nella tenda...!

- d) Nell’introduzione (vv. 1b-2), R. Kilian ha altre difficoltà. Solamente la versione plurale è completa. Quella singolare è il prodotto di una rielaborazione editoriale.

- In conclusione, è difficile seguire la proposta di Kilian, dal momento che non aiuta il testo ad essere più comprensibile. Al contrario, si trova a creare più problemi che soluzioni.

- ii) Anche la proposta di Chr. Levin è alquanto complicata. - Egli distingue una fonte pre-Jahwista, una redazione Jahwista e due serie di aggiunte post-

Jahwiste: - a) fonte pre-Jahwista: vv. 1b-2.3 (fino a ’ădōnāy).4-5aa.8aa (fino a wehālāb).8abb.16a: - “1b [...] Ed egli stava sedendo all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno. 2 Alzò i

suoi occhi e vide, ed ecco, tre uomini stavano in piedi davanti a lui. Quando li vide, corse dall’ingresso della tenda per incontrarli e si prostrò a terra, 3 e disse: “Miei signori [...], 4

lasciate che sia portata un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e riposatevi sotto l’albero, 5aa mentre io vado a prendere un boccone di pane, così che voi possiate ristorarvi. Dopo potrete proseguire il cammino [...]”. 8aa Poi egli prese latte acido e latte fresco [...] 8abb e li mise di fronte a loro. Ed egli stava di fronte a loro, mentre essi mangiavano [...]. 16a Poi gli uomini partirono da là ed essi guardarono verso Sodoma”.

- b) Redazione Jahwista: vv. 1a.3b (da ’im).5abb.6 (senza sōlet).9.10 (senza wehû’

’aḥăr’âw).11a.12-14: - 1a E YHWH gli apparve alle querce di Mamre... 3b ...“se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non

passare oltre dal tuo servo... 5abb ...perché per questo sei venuto dal tuo servo”. Così essi dissero: “Fa’ come hai detto”. 6 E Abramo si affrettò nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, prepara tre misure di farina..., impastala e fanne focacce”. 9 Essi gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Ed egli disse: “È nella tenda”. 10 Il Signore disse: “Io ritornerò sicuramente da te a primavera, e Sara, tua moglie, avrà un figlio”. E Sara stava ascoltando all’ingresso della tenda... 11a Ora Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni... 12 Così Sara rise in se stessa, dicendo: “Dopo essere diventata vecchia, mentre mio marito è (pure) vecchio, dovrò provar piacere?”. 13 Il Signore disse ad Abramo: “Perché Sara ha riso, dicendo: ‘Dovrò io essere incinta, ora che sono vecchia?’. 14 C’è forse qualcosa di troppo difficile per YHWH? Al tempo prefissato, io tornerò da te, in primavera, e Sarà avrà un figlio”...

- c) Il vv. 11b è una prima aggiunta: “era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle

donne”. - d) C’è anche una seconda serie di aggiunte molto tardive nei vv. 6 (sōlet).7.8aa (da ûben-).10

(wehû’ ’aḥărâw).15: - v. 6: farina fine.

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- v. 7: E Abramo corse al gregge e prese un vitello, tenero e buono, e lo detto all’inserviente, che si affrettò a prepararlo.

- v. 8: e il vitello che egli aveva preparato. - v. 15: Ma Sara negò, dicendo: “Non ho riso”, perché ella aveva timore. Ma egli disse: “No,

invece hai proprio riso”. - Questa seconda serie di aggiunte vuole trasformare il pasto in una vera offerta sacrificale.

Abramo presentò non solo focacce, latte acido e latte fresco, ma anche un sacrificio rituale. - Levin osserva che la parola sōlet , “farina fine”, “fior di farina” e ben-bāqār, “vitello”,

appartengono al vocabolario cultuale. - Questo tentativo di divisione del testo non è impeccabile, al punto che possono essere fatte

parecchie obiezioni contro di esso: - a) È difficile immaginare che il testo possa iniziare col v. 1b. Il minimo che si può dire è che

questo modo sarebbe una introduzione non usuale ad una narrazione biblica, persino se si dovesse connettere a Gn 13,18.

- Di per sé, il participio avrebbe dovuto essere preceduto da un wayhî o da un nome (1Sam 31,1), non da un pronome.

- Gdc 6,11, un altro testo che descrive un’apparizione, contiene una costruzione molto simile a quella di Gn 18,1, ovvero un wayyiqtol seguito da un qotel: “E l’angelo di YHWH venne (wayyābō’) e si sedette (wayyēšeb) sotto il terebinto di Ophrah, che apparteneva a Joash, l’Abiezrita, mentre su figlio Gedeone stava trebbiando (ḥōbēṭ) il grano nel tino per salvarlo dai Madianiti”.

- b) D’altro canto, Gn 18,1a è la tipica introduzione di scene simili: cf., ad es., Es 3,2; Gdc 6,12; 13,3 (sommari prolettici). In Es 3,2 si trova addirittura la medesima sequenza di Gn 18,1-2: wayyērā’... ’ēlâw... wayyar’ wehinnēh. Inoltre, l’informazione data in 18,1a è destinata solo, come si sa, al lettore, ed è parte di una ben nota strategia narrativa.

- c) La cosiddetta “fonte pre-Jahwista” offre un testo troncato: quale sarebbe lo scopo di questa scena di ospitalità? Dove sarebbe la “sanzione” di questa narrazione?

- d) Molte operazioni sembrano arbitrarie. Ad es., per quale motivo Abramo offre solo focacce, latte acido e latte fresco nella versione “originale” (1Sam 28,24)? Perché il vitello è una aggiunta posteriore?

- Come R. Kilian, Chr. Levin arguisce che l’inversione nel v. 7a è anomala (we’el-habbāqār rāṣ ’abrāhām). Il testo aspettato sarebbe piuttosto stato wayyāroṣ ’abrāham ’el-habbāqār. In realtà, come abbiamo visto, le diverse azioni sono presentate come simultanee attraverso una voluta costruzione chiastica.

- Levin aggiunge che l’espressione ben-bāqār viene usata solo testi tardivi, specialmente sacerdotali, e sempre in testi che parlano di sacrifici animali. Tuttavia, quali altre possibilità sarebbero state possibili? L’altra parola che avrebbe potuto essere usata è ‘ēgel. In ogni modo, ‘ēgel significa “giovane toro”, piuttosto che “giovane vitello”. Si veda 1Sam 28,24, in cui la negromante di En-Dor prepara un “giovane toro” per Saul.

- In Lv 9,2, la parola ben-bāqār è aggiunta alla parola ‘ēgel, per amore di precisione: il giovane toro deve essere un giovane vitello.

- Per questo, l’uso della parola in Gn 18,7-8 non ha necessariamente connotazioni cultuali o sacrificali. Al contrario, sottolinea che Abramo scelse un animale giovane, “tenero e buono”.

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- In parole semplici, la differenza tra ‘ēgel e ben-bāqār non è quella che c’è tra un animale da sacrificio e uno non da sacrificio, bensì consiste in una differenza di età. Il ben-bāqār è più giovane dello ‘ēgel, e può essere sia maschio che femmina, mentre lo ‘ēgel è solo maschio.

- In conclusione, la teoria di Levin si dimostra non soddisfacente, poiché non è in grado di ricostruire una versione coerente (cf. la sua “fonte pre-Jahwista”) e le sue operazioni letterarie sono troppo spesso soggettive e senza un sufficiente appiglio al testo.

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Lezione 23 - iii) La soluzione proposta. - a) L’ipotesi di H. Gunkel è quella di una rielaborazione (Überarbeitung) editoriale - Gunkel aveva già mostrato che Gn 18,1-15 forma una narrazione unica e che, quindi, non è

possibile dividere il testo in due storie separate e coerenti. - Gunkel preferisce parlare di una “rielaborazione” del testo. - Per lui, il plurale “tre uomini” un tempo poteva avere alcune connotazioni politeistiche, così

che alcuni editori provarono a correggere il testo secondo le loro concezioni monoteistiche. - Il testo più antico usava solo il plurale, mentre questi editori, in tempi più tardivi, introdussero

il singolare solo in certi luoghi. - In questo senso, è possibile che la narrazione possa aver avuta una origine politeistica, anche se

è impossibile da provare. - C’è un’altra debolezza nella teoria di Gunkel: se gli editori vollero cancellare gli elementi

politeistici, perché non corressero l’intero testo? Perché avrebbero lasciato dei passi al plurale? In questo senso, avrebbero potuto essere più coerenti nella loro rielaborazione.

- Nonostante le sue debolezze, la proposta di Gunkel è migliore delle altre teorie finora osservate.

- Si dovrebbero solo aggiungere alcune sfumature. Con E. Blum, pensiamo che il testo sia una unità, e che solo in certi luoghi si possono osservare le tracce di una rielaborazione editoriale.

- b) L’estensione e la logica della rielaborazione editoriale in Gn 18,1-15 - Secondo H. Gunkel, non c’è logica nell’uso del singolare e del plurale. Per lui, tutto questo

accadrebbe “a caso” (wahllos). - Eppure, una lettura più attenta del testo conduce ad una opinione leggermente diversa. - Il singolare appare all’inizio (vv. 1.3) e alla fine della narrazione (vv. 10.13-15). Nel centro, la

narrazione usa il plurale (vv. 2.4-5.8-9). - Si nota ancora che i passi al singolare e al plurale si alternano in modo chiastico:

Singolare: v. 1a Plurale: v. 2a Singolare: v. 3 Plurale: vv. 4-5.8-9 Singolare: vv. 10.13-15

- Inoltre, la narrazione usa il singolare in tre circostanze speciali: nel “titolo” o “sommario

prolettico” (v. 1a), nel saluto di Abramo (v. 3), nell’annuncio della nascita di Isacco (vv. 10.13-15).

- È facile comprendere la ragione per cui la narrazione usa il singolare nel “titolo” e nell’annuncio della nascita di Isacco:

- a) In Gn 18,1, come in altre teofanie, la narrazione specifica nell’introduzione alla narrazione che YHWH apparirà (cf. Es 3,2; Gdc 6,11-12; 13,3).

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- b) La promessa di un figlio deve provenire da YHWH in persona, così come in parecchi altri testi. Questa procedura è ugualmente comune anche nei testi in cui “l’angelo di YHWH” appare per comunicare un messaggio (cf. Gn 16,7-14; 21,7-21; 22,11-18; Es 3,1-15; Gdc 6,11-24; 13,1-24). In tutti questi casi, la narrazione confonde la distinzione tra il messaggero e YHWH che lo manda.

- c) È in qualche modo più difficile spiegare perché Abramo usi il singolare al v. 3 e il plurale immediatamente dopo nei vv. 4-5a (la narrazione continua con il plurale in 18,5b).

- Alcuni esegeti pensano che Abramo distingua tra il visitatore che sembra comportarsi da leader e gli altri due che sembrerebbero essere i suoi attendenti (cf., ad es., Dillmann).

- Al v. 3 egli si indirizza al leader e lo invita a fermarsi. Ai vv. 3-4 egli offre ospitalità ai tre uomini, che sono tutti invitati a lavarsi i piedi, a riposarsi e a mangiare.

- Questa opinione è basata in gran parte sulla continuazione della narrazione in cui YHWH viene distinto dai due altri “messaggeri” che scendono verso Sodoma (18,16.22; 19,1).

- Tuttavia, questa teoria non resiste ad un esame più attento. - Ad esempio, per quale motivo i tre uomini rispondono insieme alla proposta di Abramo nel v.

5b? Solo il leader avrebbe dovuto rispondere (cf. Gunkel). Durante il pasto (v. 8), Abramo tratta gli ospiti come “pari grado” (cf. comunque 1Sam 9,22, in cui Saul e i suoi servi sono invitati insieme a un pasto da Samuele; cf. anche Lc 17,7-10).

- Al v. 3 il Pentateuco samaritano potrebbe aver conservato il testo originale, ovvero il plurale. - Gli editori del c. 18 volevano evidentemente che Abramo salutasse e accogliesse YHWH in un

modo speciale, dal momento che nel resto della narrazione YHWH viene distinto dagli altri due viaggiatori, e che la promessa di un figlio proviene direttamente da lui.

- Per gli ultimi redattori era difficile ammettere che il padre di Israele non riconoscesse in alcun modo YHWH.

- Inoltre, la parola ’ădōnay (“signori”, con pataḥ; cf. 19,2) risulta essere molto vicina ad ’ădōnāy (con qameṣ), il nome divino per “Signore”. La pronuncia non è certamente molto differente.

- Si dovrebbe anche ricordare che il testo non era vocalizzato fino all’intervento dei Massoreti, verso il V sec. d.C. Una vola che la parola ’ădōnay fu compresa come “Signore”, il resto della frase avrebbe dovuto essere al singolare.

- In altri termini, il testo originale era al plurale, attraverso i vv. 3-5, e il Samaritano conserva la versione originale del v. 3.

- D’altro lato, i LXX seguirono la tendenza di identificare uno dei visitatori con YHWH. È per questo che la versione greca ha il singolare nei v. 5b e 9.

- Questo lavoro editoriale ebbe luogo molto probabilmente dopo la composizione del Pentateuco samaritano e prima della traduzione dei LXX. Nell’evoluzione del testo, la versione massoretica occupa un posto intermedio tra le altre due versioni.

- È probabile che il lavoro editoriale abbia avuto luogo al tempo delle riforme di Esdra e di Neemia, quando l’attuale Pentateuco fu compilato.

- Gn 18,1a potrebbe essere stato rielaborato allo stesso tempo. - Il pronome ’ēlâw, “a lui”, invece di ’el-’abrāhām, “ad Abramo”, e la specificazione be’ēlōnê

mamrē’, “alle Quercie di Mamre”, sono forse segnali di un lavoro editoriale. - Il pronome collega 18,1 col c. 17, o con un’altra narrazione, dove Abramo viene esplicitamente

menzionato. - La specificazione “alle Quercie di Mamre”, come visto, lega 18,1 a 13,18.

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- Il resto della narrazione parla generalmente di “un albero” (‘ēṣ). - Questa, tuttavia, è solo una congettura e l’indicazione “alle Querce di Mamre” potrebbe essere

originale: le “Querce di Mamre” è il nome di un luogo; l’“albero” è un albero concreto. Conclusione - Dopo questa lunga discussione circa la preistoria di Gn 18,1-15, possiamo tracciare alcune

principali conclusioni: - a) Sulla base dei paralleli, in special modo Es 3,2 e Gdc 6,11, Gn 18,1a, il “titolo” della

narrazione, è molto probabilmente originale. Questo titolo potrebbe essere stato leggermente rielaborato per meglio adattarlo al suo attuale contesto (cf. Gn 13,18; 17).

- b) Il v. 3 era originariamente al plurale: in questo modo Abramo si indirizza ai suoi visitatori col titolo ’ădōnay, “miei signori” (al plurale).

- c) La parola sōlet, “fior di farina”, quella usata per il culto, al v. 6, è una glossa tardiva. Il suo scopo è quello di qualificare il più neutro qemaḥ, “farina ordinaria”, facendo così intuire che Abramo si fosse accorto dell’origine divina dei suoi visitatori.

- d) Al di là di queste evidenze, non ci sono altri chiari segnali di fonti, redazioni o rielaborazioni editoriali in Gn 18,1-15.

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Lezione 24 ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI SULLA DIACRONIA DI GN 16,1-16 Intercettazione degli interventi redazionali in Gn 16 v. 3 - Il v. 3 sembra appartenere ad una tradizione diversa rispetto alla Grundschrift del capitolo,

segnatamente alla fonte P. - a) Il piano di Sara nel v. 2 trova la sua realizzazione nel v. 4: l’ordine di Sara (“va’ dalla mia

serva...” (v. 2) viene eseguito alla lettera al v. 4 (“ed egli andò da Agar”). - b) Il v. 3 interrompe questa sequenza per introdurre una formula giuridica circa la traditio

puellae. - Secondo il v. 3, l’iniziativa di Sara crea una nuova relazione tra Agar e Abramo, poiché Agar

diviene moglie legittima di Abramo. - La formula del v. 3 è la formula giuridica usata per la conclusione di un matrimonio: ntn ’et X

le’iššāh, “dare X a qualcuno come moglie”. - Tuttavia da nessuna parte nella narrazione Agar è considerata moglie di Abramo. Al contrario,

è costantemente chiamata “schiava/serva” (šipḥāh), anche dall’angelo di YHWH (16,8). - c) Il vocabolario giuridico, con la sua insistenza sui “titoli” di ogni personaggio (Sara, moglie

di Abramo; Agar, l’egiziana, sua schiava; Sara dà a lei Abramo, suo marito, come moglie...), prepara 16,15-16 e 17,18.20, ugualmente P, in cui Ismaele viene presentato come figlio legittimo di Abramo.

- Tuttavia, nella narrazione questo motivo non viene presentato e, inoltre, il lettore conosce già i personaggi e i loro “titoli” (cf. 16,1).

- d) Si potrebbe obiettare che il verbo ntn, “dare” (16,3), ricompare in 16,5 (“io metto [ntn] la mia schiava nel tuo grembo”). In quest’ultimo caso, comunque, il verbo non è più parte della formula giuridica di matrimonio e significa semplicemente “mettere”.

- e) L’indicazione di tempo e di luogo nel v. 3a (“dopo che Abramo aveva vissuto dieci anni nella terra di Canaan”) appartiene al sistema cronologico di P.

- In conclusione, a causa del suo linguaggio giuridico, la sua cronologia e il suo specifico interesse per la genealogia e per la posizione di Israele (e anche per il suo interrompere il flusso narrativo tra i vv. 2 e 4), Gn 16,3 deve essere attribuito a P.

v. 7b - La seconda parte del versetto (‘al-hā‘ayin bederek šûr, “la sorgente sulla via per Shur”) è una

glossa tardiva: - a) l’indicazione circa questa via sarebbe dovuta apparire al v. 6b, piuttosto che al v. 7b. - b) c’è un’altra spiegazione su quel luogo al v. 14. - c) la ripresa (Wiederaufnahme; resumption; reprise) della parola ‘al-‘ên (hammayim) del v. 7a

nel v. 7b (‘al-hā‘ayin), tipico segno di rielaborazione editoriale.

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vv. 9-10 - Le tre conseguenti e identiche introduzioni, wayyō’mer lāh mal’ak YHWH, “Un angelo di

YHWH le disse”, nei vv. 9.10.11, sollevano dei fondati sospetti sulla originarietà di questi versetti. Ci sono tuttavia altre ragioni per sospettare l’intervento di un redattore, specialmente ai vv. 9 e 10. v. 9

- a) Nel v. 9 l’angelo domanda ad Agar di tornare dalla sua padrona e di restarle sottomessa. - La narrazione che segue, tuttavia, non descrive il ritorno di Agar da Sara o la sua sottomissione. - I vv. 15-16 suppongono che Agar sia tornata nella casa di Abramo, anche se questo non è mai

esplicitamente detto. - b) C’è una tensione tra il v. 9 e i vv. 11-12. Nell’ultimo oracolo l’angelo di YHWH dice di aver

udito il lamento di Agar. L’ovvia interpretazione di questo versetto è che l’angelo prometta di mettere fine al lamento di Agar.

- La radice ‘nh, presente nel sostantivo “lamento”, “afflizione” (‘onî), compare al v. 6: watte‘annehā, “e Sara la maltrattò”. Questa premessa non è facile da riconciliare con l’ordine di tornarsene da Sara (v. 9).

- La spiegazione del nome di Ismaele (v. 11b) e la descrizione della sua vita futura (v. 12) suppongono piuttosto che la madre e suo figlio debbano essere liberi dall’oppressione.

- c) Il v. 9 non ha alcuna reale funzione nel resto della narrazione. Il suo scopo è quello di spiegare il perché Agar possa essere espulsa una seconda volta in Gn 21.

- Al contrario, per alcuni esegeti (cf., ad es., J. Van Seters), il v. 9 si sposerebbe bene nel contesto e senza di esso la domanda posta al v. 8 sarebbe alquanto senza senso.

- Tuttavia, la questione del v. 8, “da dove vieni e dove vai?”, è il normale modo nella Bibbia di salutare uno straniero e di far partire una conversazione (cf., ad es., Gn 29,4; 32,18; 42,8; Gdc 13,6; 17,9; 19,17; 1Sam 30,13; 2Sam 1,3; 2Re 5,25; Gb 1,7; 2,2; Gio 1,8).

- La connessione tra il v. 8 e il v. 9 è così più sciolta di quanto, ad es., Van Seters pensi. - Quando l’angelo di YHWH domanda: “Da dove vieni e dove vai?” (v. 8a), la sua intenzione

non è esattamente quella di sapere qualcosa circa la rotta del viaggio di Agar, quanto solo qualcosa circa la sua difficile situazione. Questo, infatti, è proprio quanto Agar rivela nella sua risposta al v. 8b, mentre l’angelo affronterà il problema ai vv. 11-12.

- L’editore del v. 9, dunque, ha usato questo contesto in modo molto astuto.

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Lezione 25 Intercettazione degli interventi redazionali in Gn 16 (segue) - v. 10 - a) I vv. 9-10 non menzionano la gravidanza di Agar. Il v. 10, comunque, di sicuro suppone

l’annuncio della nascita di Ismaele nei vv. 11-12. - b) Al v. 10 Dio parla alla prima persona singolare, mentre i vv. 11-12 parlano di YHWH alla

terza persona. - c) Il vocabolario del v. 10 si trova alla lettera in 22,17 (harbāh ’arbeh ’et-zar‘ēk welō’ yissāpēr

mērōb, “moltiplicherò grandemente la tua discendenza, così che non possa essere contata per la quantità”).

- Ora, Gn 22,17 è parte di una tardiva aggiunta a Gn 22. - Gn 16,10b è simile a 13,16 e a 32,13. Anche 15,5 usa un linguaggio analogo. - Lo scopo di questo versetto è forse quello di riconciliare Agar con l’idea di tornarsene dalla sua

padrona. - Ma per quale motivo c’è una seconda formula di introduzione al v. 10a (wayyō’mer lāh mal’ak

YHWH)? - Molto probabilmente, al v. 10 cambia l’argomento e questo versetto tenta di integrare la

discendenza di Agar all’interno della benedizione di Abramo. - In alcuni testi, Dio promette ad Abramo di farlo padre di una moltitudine di nazioni (17,2: P),

tra cui ci sono anche gli Ismaeliti (17,20: P; 21,13). - Per questa ragione, diviene ugualmente necessario che Ismaele nasca nella casa di Abramo.

vv. 15-16 - La narrazione originaria potrebbe aver contenuto una conclusione che raccontava la nascita di

Ismaele nei pressi di Beer-Lahai-Roi. - Nella narrazione presente, Ismaele nasce da Abramo, anche se è opportuno ribadire che i vv.

15-16 appartengono ad un’altra fonte. - a) Questi versetti presuppongono che Agar sia tornata da Abramo, sebbene questo non venga

raccontato. - b) Nel v. 15 Abramo dà al bambino un nome, mentre al v. 11 l’angelo aveva detto che sarebbe

dovuta essere Agar, la madre, a compiere questa azione. - c) Sara è completamente assente da questi versetti, così come assente è il motivo del conflitto

tra le due donne. - Il vocabolario giuridico dei vv. 15-16 richiama quello del v. 3. Infatti, il v. 3 e i vv. 15-16

hanno il medesimo comune interesse nel legittimare la nascita di Ismaele. - Il v. 3 descrive il primo gradino di questa operazione giuridica. Attraverso l’iniziativa di Sara,

Agar diviene legittima moglie di Abramo. Al v. 15 il figlio nasce e Abramo gli dà un nome, Ismaele (“Abramo chiamò suo figlio, che Agar gli aveva partorito, Ismaele”).

- La frase registra, come farebbe un ufficiale di stato civile, il nome del padre, Abramo; il nome della madre, Agar, e il nome del figlio, Ismaele.

- In altri termini, Abramo riconosce ufficialmente Ismaele come suo figlio legittimo.

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- Il v. 16 conclude questa notizia di archivio usando ancora un linguaggio legale, con la data dell’evento. La formula è simile a quella di 12,4b. Inizia con il nome del patriarca, preceduto da we; è seguita dalla data con ben- e da un infinito costrutto con be: we’abrām ben-šemōnîm šānāh wešēš šānîm beledet-hāgār ’et-yišmā‘ē’l leabrām, “Abramo aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele”.

- Al v. 3 il nome di Abramo è ripetuto per tre volte; ai vv. 15-16 quattro volte, due per ciascun versetto.

- Negli stessi vv. 15-16 il nome di Agar è ripetuto per tre volte e il nome di Ismaele per due. - Questi versetti formano una stretta unità, con il medesimo intento genealogico e lo stesso

vocabolario. - Contro coloro che vogliono attribuire il v. 15 all’editore del v. 9, si deve obiettare che il v. 15 in

alcun luogo fa riferimento al ritorno di Agar e alla sua sottomissione alla sua padrona. Inoltre, ai vv. 15-16 il nome di Sara non viene mai menzionato.

- Nella versione Sacerdotale di Gn 16 la narrazione è ridotta a un archivio giuridico, in cui si

registra il matrimonio di Agar con Abramo e la nascita di Ismaele. D’altro lato, si dovrebbe notare che non c’è alcuna allusione a un possibile conflitto tra Sara e Agar.

- Nella sua versione della storia di Israele, lo scrittore sacerdotale elimina attentamente molti dei conflitti presenti nelle più antiche narrazioni.

- Questo accade in Gn 16* ma anche in Gn 27 / 28,1-9 (Giacobbe ed Esaù). Inoltre, in Es 14* la versione P non usa il vocabolario della guerra santa; in Nm 13* – 14* gli “esploratori” non spiano la terra per preparare la futura invasione, bensì viaggiano attraverso il paese per prenderne giuridicamente possesso.

- In conclusione, in Gn 16 il testo originario dovrebbe rintracciarsi nei vv. 1-2.4-7a.8.11-14.