Aprile 2014 - V(u)oti a perdere

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Il 5 aprile il popolo afghano è stato chiamato a votare il successore di Hamid Kerzai, che da tredici anni guidava il governo della repubblica centroasiatica. Giunti a metà dello spoglio, la commissione elettorale ha reso noti i dati che decretano la provvisoria vittoria di Abdullah Abdullah col 44,4 % dei voti, seguito da Ashraf Ghani al 33,2 % e dallo staccatissimo Zalmai Rassoul, di poco oltre il 10%. Benché i risultati definitivi, su cui si annunciano prevedibili accuse di brogli, siano attesi solo per il 15 maggio, appare ormai inevitabile un ballottaggio tra i due candidati di testa, che aprirebbero la strada ai giochi di alleanze. Abdullah, di origine mista tagika e pashtun, già sfidante di Kerzai nel 2009 ed ex Ministro degli Esteri, sembra essere gradito agli Stati Uniti che lo sostennero cinque anni or sono; ma a Washington e agli europei sembra piacere anche l’economista Ghani, ex ministro delle finanze, che nel 2009 racimolò solo il 3% dei voti, ma che gode oggi del supporto del discusso ex signore della guerra uzbeko Rashid Dostum, e in un eventuale ballottaggio potrebbe raccogliere soprattutto nel sud del Paese molti voti pashtun andati ad altri candidati nel primo turno. Anche Abdullah deve parte del consenso ricevuto al sostegno di un warlord (Mohammad Mohaqiq) e all’appartenenza etnica nelle aree tagika e hazara, mentre Rassul ha ricevuto il sostegno di parte dell’establishment perché vicino a Kerzai, a riprova di una generica immaturità di un sistema politico afghano incapace di rigenerarsi, ancora strettamente ancorato ad etnicismi regionali e a figure estranee al gioco democratico financo legate ad azioni violente. Nonostante il massiccio impiego di forze di sicurezza non si è riusciti ad evitare che le minacce talebane di far fallire le elezioni si tramutassero in realtà, e gli attentati che hanno insanguinato la giornata di voto ricordano agli afghani e alle forze internazionali come, benché incapaci di prendere le redini dell’intero Paese, le forze insurrezionali possano colpire in qualsiasi momento. Tuttavia, proprio a fronte V(U)OTI A PERDERE L’Afghanistan alla prova delle urne con un occhio al disimpegno militare. Tra talebani, signori della guerra, narcotraffico e dipendenza dagli aiuti 1

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Il 5 aprile il popolo afghano è stato chiamato a votare il successore di Hamid Kerzai, che da tredici anni guidava il governo della repubblica centroasiatica. Giunti a metà dello spoglio, la commissione elettorale ha reso noti i dati che decretano la provvisoria vittoria di Abdullah Abdullah col 44,4 % dei voti, seguito da Ashraf Ghani al 33,2 % e dallo staccatissimo Zalmai Rassoul, di poco oltre il 10%. Benché i risultati definitivi, su cui si annunciano prevedibili accuse di brogli, siano attesi solo per il 15 maggio, appare ormai inevitabile un ballottaggio tra i due candidati di testa, che aprirebbero la strada ai giochi di alleanze. Abdullah, di origine mista tagika e pashtun, già sfidante di Kerzai nel 2009 ed ex Ministro degli Esteri, sembra essere gradito agli Stati Uniti che lo sostennero cinque anni or sono; ma a Washington e agli europei sembra piacere anche l’economista Ghani, ex ministro delle finanze, che nel 2009 racimolò solo il 3% dei voti, ma che gode oggi del supporto del discusso ex signore della guerra uzbeko Rashid Dostum, e in un eventuale ballottaggio potrebbe raccogliere soprattutto nel sud del Paese molti voti pashtun andati ad altri candidati nel primo turno. Anche Abdullah deve parte del consenso ricevuto al sostegno di un warlord (Mohammad Mohaqiq) e all’appartenenza etnica nelle aree tagika e hazara, mentre Rassul ha ricevuto il sostegno di parte dell’establishment perché vicino a Kerzai, a riprova di una generica immaturità di un sistema politico afghano incapace di rigenerarsi, ancora strettamente ancorato ad etnicismi regionali e a figure estranee al gioco democratico financo legate ad azioni violente. Nonostante il massiccio impiego di forze di sicurezza non si è riusciti ad evitare che le minacce talebane di far fallire le elezioni si tramutassero in realtà, e gli attentati che hanno insanguinato la giornata di voto ricordano agli afghani e alle forze internazionali come, benché incapaci di prendere le redini dell’intero Paese, le forze insurrezionali possano colpire in qualsiasi momento. Tuttavia, proprio a fronte della percezione di insicurezza e sovente di lunghi e difficoltosi spostamenti, i cittadini afghani hanno risposto con incoraggiante presenza alla chiamata al voto: su 12mila aventi diritto, stando ai primi dati si sarebbero recati alle urne circa 7,5 milioni di afghani. Va sicuramente tenuto conto dei probabili brogli dovuti all’organizzazione e alle difficoltà nelle attività di controllo (basti pensare che pare siano state distribuite schede elettorali in sovrannumero -circa 20 milioni- e i documenti femminili non presentano fotografia), ma il risultato in termini di partecipazione popolare appare comunque positivamente evidente. Per quanto riguarda la sicurezza le fonti governative e quelle insurrezionali divergono, ma nel complesso si può affermare che importanti passi avanti siano stati compiuti rispetto al 2009, rimanendo ai freddi numeri degli attentati compiuti e delle vittime causate.

Dal punto di vista politico i risultati sono quelli che ci si aspettava. Il quadro è quello di un Afghanistan il cui futuro leader, chiunque esso sia, difficilmente potrà rinsaldare un’unità nazionale frammentaria, alla luce del previsto disimpegno militare occidentale, delle ingerenze straniere, della ripresa talebana, delle differenze etniche e dei giochi di potere tra i vari signori della guerra e del narcotraffico.

V(U)OTI A PERDEREL’Afghanistan alla prova delle urne con un occhio al disimpegno militare. Tra talebani, signori della guerra, narcotraffico e dipendenza dagli aiuti stranieri.

Comunque vada, il futuro è grigio.

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Lungi dall’essere stati schiacciati, i talebani operano in larghi tratti del Paese e sono pronti a prendere in consegna il territorio alla partenza delle truppe ISAF. Invisi a buona parte della popolazione dopo il 2001, i combattenti sono stati dispersi dalle truppe della missione Onu, ma la porosità del confine col Pakistan, dove hanno trovato protezione, addestramento e nuovi adepti grazie al benestare delle forze armate e dei servizi segreti di Islamabad, tredici anni di occupazione militare con le relative vittime civili e le contraddizioni di un governo corrotto hanno consentito loro di mantenere una base relativamente salda, che ha aspettato il momento giusto e che ora gioca in posizione di forza nei fragili equilibri della regione, potendosi permettere di sedere al tavolo negoziale sicura del progressivo disimpegno statunitense. La “dottrina Petraus” statunitense, che parte dall’idea di separare gli insorti dal resto della popolazione portando quest’ultima dalla propria parte, si è scontrata in Afghanistan con la solidarietà tribale del pashtunvali, il codice d’onore pashtun, legami clanici e di parentela troppo forti per essere spezzati con promesse di sicurezza che non corrispondono, alla luce dell’annunciato ritiro, ai fatti.1 Gli afghani sono già stati traditi dall’Occidente dopo il ritiro sovietico e sanno che dovranno giocoforza fare i conti con gli insorti in futuro, siano essi Taliban, narcotrafficanti o signori della guerra, in una galassia eterogenea di elementi corrosivi che rischia di far precipitare il Paese nella guerra civile dopo il ritiro delle truppe occidentali.Per questo il raggiungimento dell’accordo bilaterale sulla sicurezza (Bsa) con gli USA rifiutato da Kerzai è obiettivo prioritario di Abdullah come di Ghani, e per questo sono state intavolate da tempo trattative coi capi talebani dal governo Usa e dallo stesso ex Premier, intenzionato a mantenere la propria influenza allo scadere naturale del suo mandato.

E’ impensabile per l’Afghanistan un futuro vicino senza gli aiuti Occidentali in generale e statunitensi in particolare. Per il triennio 2015-2017 si calcola serviranno 4.3 miliardi l’anno (contro i 6 attuali), che serviranno a mantenere i 352 mila soldati e poliziotti delle Afghan National Security Forces, prima che il numero venga portato alla “sufficiente e sostenibile” cifra di 228mila soldati, prevista per il 2017. Sinora gli Usa hanno sostenuto il 90% dei costi. 2 Dopo il 2014 gli americani sono disponibili a sostenere da metà ai due terzi della spesa, Kaboul può sostenere circa 500milioni, mentre il resto toccherebbe agli alleati, la maggioranza dei quali con problemi di bilancio. Per ora né gli afghani né gli stranieri sembrano fidarsi delle forze di sicurezza afghane, spesso sostituite da agenzie private che impiegano contractor locali o dall’estero. Il nuovo esercito afghano va addestrato, tenendo presente che buona parte delle reclute necessita prima di tutto di alfabetizzazione. Non va inoltre sottovalutata la portata del “fuoco amico”: sono numerosi i casi di armi di poliziotti o militari afghani addestrati dalla Nato rivolti contro i propri trainer, in quella che viene definita “green-on-blue violence”, siano essi dovuti a crolli nervosi, contrasti culturali o personali o vere e proprie infiltrazioni terroristiche. 3 Resta da estirpare anche il problema della fedeltà delle milizie personali dei signori della guerra, spesso contrapposte alle forze governative. Il Bsa, che Washington intende firmare il prima possibile dopo il mal digerito rinvio di Kerzai, permetterebbe ad un

1 Cfr. ANGELANTONIO ROSATO, L’Afghanistan del dopo Nato non promette nulla di buono, in Limes, n.3 2011, pp.179-184.2 http://temi.repubblica.it/limes/la-nato-e-il-labirinto-dellafghanistan/352943 Cfr. GIULIANA SGENA, Afghanistan. La sconfitta dei vincitori, in East n.44, ottobre 2012, pp.26-30; http://temi.repubblica.it/limes/green-on-blue-lafghanistan-gli-usa-e-il-fuoco-amico/50802

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ancor non specificato numero di truppe americane (intorno alle 10.000 unità4) di rimanere sul territorio afghano fino al 2024 rendendo più “morbida” la fase di transizione militare.

Indipendentemente da come andranno le elezioni, l’accesso a forme di potere formali o informali da parte dei Taliban è ormai considerato necessario da parte della comunità internazionale. Questo non significa però che per il movimento, pashtun, sia facile inserirsi anche in quelle aree etnicamente tagiki, hazara o uzbeki. Avanza allora l’idea di un Afghanistan federale, con Sud occupato da pashtun sostenuti da Pakistan e Arabia Saudita e un nord eterogeneo, sostenuto da attori regionali antagonisti, tra cui Cina, Russia e Iran, sulla base di rispettivi interessi economici. 5

Di Afghanistan federale si è parlato anche a margine del vertice Nato di Lisbona, a seguito della proposta di spartizione di Hillary Clinton: una porzione di territorio comprendente la regione del Balucistan afghano, con capitale Kandahar ed a maggioranza pashtun; ed una parte con capitale Kabul, comprendente i territori settentrionale di maggioranza turkmena, uzbeka e tagika, vicini agli Usa.6 Ovviamente senza dimenticare che i Taliban sono pasthun, ma non è vero il contrario.

Se il rischio maggiore di un troppo rapido addio statunitense e dell’”afghanizzazione” del conflitto è quella di un ritorno agi anni ‘90, già attuale ed evidente è la dipendenza economica dell’Afghanistan dal sostegno occidentale. Alcuni passi importanti negli ultimi tredici anni sono stati compiuti: i Provincial Reconstruction Team e altre iniziative hanno portato alla realizzazione di strutture istituzionali di stampo moderno (nelle città) e alla nascita di opere infrastrutturali sul territorio; rispetto al periodo talebano il numero degli studenti è aumentato vertiginosamente e la situazione è lievemente migliorata anche dal punto di vista sanitario; è emersa una nuova classe media urbana giovane e dinamica; stando ai sondaggi la maggioranza della popolazione si fida delle istituzioni afghane, certo più dei Taliban; l’economia appare in ripresa almeno nei centri cittadini e l’Afghanistan gode teoricamente di risorse minerarie importanti. Tuttavia, la situazione dei conti pubblici è preoccupante, l’attuale budget governativo è costituito quasi interamente da aiuti internazionali7; lo sfruttamento delle risorse sotterranee è appannaggio delle potenze estere; la concorrenza cinese affievolisce il già esausto artigianato locale e solo pochissimi hanno accesso diretto all’acqua potabile. Finanziare la cooperazione militare e allo sviluppo costa sicuramente meno all’Occidente di agire in loco con i propri uomini, ma l’incongruenza tra denaro erogato in oltre un decennio di occupazione militare e risultati ottenuti è sintomatica della corruzione endemica che impedisce lo sviluppo del Paese, e di cui hanno beneficiato oltre ai signori locali anche i vari contractors occidentali. Qualche passo avanti è stato fatto dalla diplomazia afghana, che forse proprio in prospettiva della transizione si è impegnata nello stringere rapporti con nuovi partner, allo scopo di attirarne investimenti e come garanzia rispetto ad un definitivo abbandono occidentale, tra cui la Cina, ma anche l’India, potenze rispettivamente guardinghe e interessate ad investire nella regione.

4 http://america24.com/news/afghanistan-10-000-soldati-il-ritiro-per-gli-usa-dopo-il-20145 http://oltreradio.it/focus/aghhanistan-si-sceglie-dopo-karzai6 http://www.osservatorioafghanistan.org/2014/04/afghanistan-un-incerto-futuro-tra-crisi-e-poverta/7 Secondo la Banca Mondiale oltre il 90% del Pil afgano legale (estraneo al business del narcotraffico) è legato alla presenza di Isaf e agli aiuti stranieri, attraverso ambito civile o militare.

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Per quanto i passi avanti siano stati concreti, sono anche molto relativi e fragili, e ad otto mesi dall’annunciato ritiro l’Afghanistan resta oggetto delle rivalità degli stati vicini, dall’Iran, all’India, al Pakistan, che continua a considerare il Paese come una sua appendice manipolando la guerriglia per aumentare la propria sfera di influenza su Kabul, e senza la cui stabilizzazione interna difficilmente sarà possibile un equilibrio ad Ovest della linea Durand. Quel che è certo è che nonostante libere elezioni l’Afghanistan non è guarito, e la prematura international exit strategy, basata sull’agenda elettorale statunitense anziché sulle reali necessità della regione, dopo anni di guerra e sacrifici rischia di lasciare un Paese non dissimile da quello conosciuto tredici anni fa.

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