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Appunti per una ricerca sul problema religioso nel pensiero di C. G. Jung Edmondo d'Alfonso, Milano Sommario PARTE PRIMA Jung e la religione, nel giudizio clella critica - Fondamenti della ricerca. PARTE SECONDA L'individualità, chiave di volta del pensiero junghiano - La vo- cazione all'individualità - L'essenza dell'individualità - Indivi- dualità, archetipo del Sé, immagini archetipiche - Pluralità delle immagini archetipiche, unicità dell'archetipo - L'inconscio col- lettivo - Individualità e individuazione - II processo di individua- zione - Individualità, individuazione, sìntesi degli opposti - Indi- vidualità e malattia dell'anima - Individualità e mondo sensibile. PARTE TERZA Le religioni, allegorie dell'individualità - II significato dell'inter- pretazione allegorica delle religioni - Psicologia e Religione - L'umanesimo junghiano, religione romantica - Verità della reli- gione junghiana - La diffusione della fede junghiana.

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Appunti per unaricerca sul problemareligioso nel pensierodi C. G. JungEdmondo d'Alfonso, Milano

Sommario

PARTE PRIMA

Jung e la religione, nel giudizio clella critica - Fondamenti dellaricerca.

PARTE SECONDA

L'individualità, chiave di volta del pensiero junghiano - La vo-cazione all'individualità - L'essenza dell'individualità - Indivi-dualità, archetipo del Sé, immagini archetipiche - Pluralità delleimmagini archetipiche, unicità dell'archetipo - L'inconscio col-lettivo - Individualità e individuazione - II processo di individua-zione - Individualità, individuazione, sìntesi degli opposti - Indi-vidualità e malattia dell'anima - Individualità e mondo sensibile.

PARTE TERZA

Le religioni, allegorie dell'individualità - II significato dell'inter-pretazione allegorica delle religioni - Psicologia e Religione -L'umanesimo junghiano, religione romantica - Verità della reli-gione junghiana - La diffusione della fede junghiana.

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PARTE PRIMA

Jung e la religione nel giudizio della critica.

Il compito che ci siamo assunti nell'intraprenderequesta ricerca è di esaminare l'opera di Cari GustavJung per appurare se sia possibile ritrovare inessa i lineamenti di una dottrina che possa dirsi abuon diritto appartenente al dominio della religione.La posizione di Jung a riguardo della religione cisembra non sia mai stata chiaramente definita, an-corché da più parti — e con accenti diversi — sisia voluto giudicare del rapporto di Jung con la re-ligione.Nessuna luce su tale rapporto hanno recato coloroche si sono limitati ad accusare genericamente Jungdi essere un mistico e di fare opera di religione, an-ziché di psicologia, per il solo fatto di essersi occu-pato di religioni e del rapporto dell'uomo con lareligione.Critiche del genere sono da considerarsi affatto su-perficiali e prive di ogni fondamento. Onde potere abuon diritto chiamare religiosa una dottrina, occorreprima avere definito cosa debba intendersi per reli-gione, cioè quale ne sia l'oggetto e quali caratteri eproprietà esso debba possedere perché possa vale-re come divino; e poi verificare che la dottrina inesame verta intorno a un oggetto che abbia tali ca-ratteri e tali proprietà.Presso gli autori, invece, che hanno formulato giu-dizi tanto sommari nei confronti di Jung, sembra re-gnare la più desolante confusione circa il concettostesso di religione.L'opinione più diffusa — che di opinione si tratta, nondi dottrina in alcun modo fondata — è che la reli-gione consista nell'illusoria credenza in entità ex-tramondane, alle quali si paga un tributo di preghieree di riti, in cambio della loro benevolenza. Tale illu-soria credenza sarebbe nata nell'uomo dal bisognodi ricevere protezione e soccorso nei pericoli dell'esi-

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stenza e dal desiderio di perpetuare la condizione didipendenza che è propria dell'infanzia. La religionesarebbe dunque un insieme di idee o credenzeracchiuse nella mente dell'uomo, cui non corrispondenulla di oggettivo; oppure, concedono alcuni, lascienza non ha alcuna possibilità di provare l'obiettivarealtà delle potenze divine, dei o demoni che siano,di cui si occupa la religione. Tale posizione dipensiero pretende, insomma, di restringere lareligione nell'ambito della psicologia e di ridurre icontenuti dell'esperienza religiosa a contenutipsichici. È, dunque, per principio incapace didistinguere fra religione e psicologia e non si vedecome possa, nonché intraprendere, anche solo pro-porsi il compito di discernere eventuali contenuti re-ligiosi all'interno di una dottrina, quale quella diJung, che si esprime nei termini della psicologia edella psicopatologia.Solo apparentemente meno superficiale è la posizio-ne di coloro che hanno creduto di identificare inquesto o quell'aspetto del pensiero di Jung un con-tenuto religioso.Fra questi, alcuni considerano Jung un « cristianoeterodosso » specialmente per la sua risposta al pro-blema del male e per la sua concezione di un Dioche non è solo « il buon Dio ». Altri lo ritengono unconvinto sostenitore delle Chiese, poiché annette de-cisiva importanza all'« atteggiamento religioso » nellaterapia delle malattie psichiche; altri, infine, sostan-zialmente un « ateo », poiché concede alla religioneuna funzione terapeutica e alle potenze divine unarealtà solamente psichica.La posizione più singolare è forse quella dei disce-poli e sostenitori di Jung.Coloro che si sono nutriti del suo pensiero, avendoil privilegio di vivergli accanto, e molti di coloro chehanno meditato le sue opere, sono pronti ad affer-mare ch'Egli fu un grande maestro di vita, il testi-mone esemplare di uno stile di esistenza inconfon-dibile. Eppure gli stessi sarebbero riluttanti ad ammet-tere che in tanto egli fu tale, in quanto un preciso

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spirito religioso lo animava. Posti di fronte alla ri-chiesta di indicare quale fede specifica sostenesseil Maestro è lecito supporre che le risposte sareb-bero imbarazzate o evasive.Certo, varie ragioni si potrebbero addurre per ne-gare l'appartenenza di Jung a una specifica fede re-ligiosa.La prima è che Jung stesso si è rifiutato di dirsi as-sertore di una determinata religione, ovvero di unaWeltanschauung, com'egli preferiva dire, perché ama-va piuttosto considerarsi lo psicopompo che aiutava,chi si rivolgeva alle sue cure, a ritrovare una suapropria fede personale.La seconda è che Jung appare soprattutto il polemistapronto a denunciare la decadenza delle fedi dellatradizione, del protestantesimo in particolare, e im-pegnato a indicare la via per intendere in modo nuovoe vivificante i grandi temi del Cristianesimo: l'imita-zione di Cristo, l'Eucaristìa, l'Assunzione della Ver-gine in cielo, il peccato originale, il demonio. Rifor-matore dunque, se si vuole, ma mai fondatore di unanuova fede. In questo senso lo hanno inteso ancheuomini di chiesa, che hanno ravvisato nel suo pen-siero una fonte a cui attingere nei tentativi di rista-bilire le sorti di un Cristianesimo esangue. Sipotrebbe aggiungere, come terza ragione, la piùvolte riaffermata « neutralità » di Jung nei confrontidi tutte le fedi, che lo portava a riconoscere l'impor-tanza dell'atteggiamento religioso per l'equilibrio psi-chico dell'uomo, ma mai a privilegiare una religionein particolare.Si potrebbe infine rammentare che se una fede fusostenuta da Jung, questa è da ravvisarsi nella scien-za e nei dati dell'esperienza empirica; e che soloopera di scienza egli intese fare nelle opere raccoltea formare i suoi « Collected Works ». Eppurel'Autobiografia, dettata ad Aniela Jaffé e non inclusa— per espresso desiderio di Jung — nelle OpereComplete, ci offre un quadro tutt'affatto diverso; cioffre una chiave di lettura dell'intera opera di lui cheè essenzialmente religiosa. Aniela Jaffé non

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esita infatti a dire che questo libro contiene la « pro-fessione di fede » di Jung. Ma di quale fede propria-mente si tratti resta ancora da scoprire.La ragione principale della difficoltà a definire laposizione religiosa di Jung ci sembra risieda nel fattoche viene oggi considerata « religione » soltanto lacredenza in potenze divine extramondane, che è pro-pria delle religioni dell'antichità; e non viene ricono-sciuta la caratteristica di religioni alle fedi umani-stiche moderne che ripongono, in una determinata« idea dell'uomo », il fine dell'esistere, il Sommo Be-ne; ciò per cui l'uomo è veramente uomo e la vitaè degna di essere vissuta.Non ci si avvede che le medesime caratteristiche di« sommo bene » e di « fine » sono, nelle religioni tra-dizionali, attribuite all'Altissimo, e che dunque quellaparticolare « idea dell'uomo » è potenza divina e valeper l'Altissimo; e l'intera concezione che fa dell'uo-mo l'essere supremo, fine ultimo e centro attorno acui si muove l'intera natura, è una religione. A titolod'esempio rammentiamo che tale ideale umano,tale « essenza dell'uomo », è stata riposta nellacontemplazione e nell'attività del pensiero; ovvero nellavoro e nell'accumulo delle ricchezze; o anchenell'uguaglianza fra gli uomini; e parimenti in unaesistenza unica e singolare. Cosa poi in concretosignifichi il vivere secondo intelligenza, o la produzio-ne, o la singolarità deve divenire materia di indagine,perché tali concezioni ricevano contenuti precisi enon rimangano vuote formule. In ogni caso, ci pre-me sottolineare che quell'aspetto umano che viene di-vinizzato e assunto a fondamento di una religioneumanistica, è sempre una idea, e va tenuto distintodall'uomo in carne ed ossa e da ogni altra entità ma-teriale. Anche il lavoro o le ricchezze, assunti a idealidi vita, sono entità ideali: non hanno nulla di sensi-bile (non van confuse con l'oro e gli opifici), ma sonoidee che nelle concrete ricchezze e nelle fabbrichehanno la loro incarnazione.Altrettanto dicasi del rapporto di uomo e di « ideadell'uomo ». L'ideale, che rappresenta il contenuto

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della religione umanistica, deve stare in relazione conl'uomo, poiché questi possa trovare in esso la suaragion d'essere. Anzi, se questo rapporto manca, l'uo-mo non è più uomo, è « alienato » dalla sua essenza,è altro da sé. Ma la relazione di uomo e « idea del-l'uomo » è pur sempre relazione di una entità sensi-bile con un puro intelligibile: cioè relazione fra duerealtà radicalmente distinte.Tornando a Jung, nei confronti di coloro che lo hannodefinito un « cristiano eterodosso », oppure un « a-teo », vanno fatti valere due principi. Il primo vuoleche non si dia una versione « ortodossa » e altrepossibili versioni « eterodosse » di una medesimareligione. Ogni religione è una, immutabile eimmodificabile. Ogni sua parte è in relazione neces-saria con le altre e con l'intero. Mutare un particolaresignifica mutare l'intero. Non esistono, dunque, ete-rodossie, cioè versioni di una religione che differi-scano dall'originale in alcuni particolari. Ogni presuntaeterodossia è da ritenersi una nuova religione. Ilsecondo principio vuole che non si dia « ateismo »,poiché la religione è una dimensione del reale, una« regione » dell'essere, e dunque non è dato di usci-re dalla religione, come non è dato di evadere dallarealtà. Coloro che fin dall'antichità vennero reputati« atei », in tanto erano negatori degli dei tradizionalie li consideravano rifugio della superstizione e del-l'ignoranza, in quanto opponevano ad essi l'ideale del« vivere secondo intelligenza », cioè una fede uma-nistica, una diversa religione. Atea, dunque, può dirsiqualunque religione, ove la si giudichi da un puntodi vista che non è il suo, ossia la si misuri con ilprincipio di una diversa religione. Questo è l'unicosignificato possibile dell'ateismo. Jung dunque nonpuò essere a rigore considerato né un eretico né unateo, quale che sia la sua concezione del divino.Ma non può essere considerato neppure « religioso »semplicemente perché ha considerato la religione unfattore terapeutico. Religioso è colui che è unito aDio, comunque Dio lo si concepisca, ideale umano o

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potenza divina trascendente l'uomo; e religione è ciòche in Dio ha il suo principio e il suo fine. Ogni altrafinalità è estranea alla religione, compresa quella diessere garanzia di equilibrio psichico e medicina del-l'anima.Jung è religioso, e profondamente religioso a nostrogiudizio, ma per tutt'altro motivo: per essersi fatto as-sertore di una religione che ripone nell'individualità laragione suprema dell'esistere, e rientra quindi nelnovero delle moderne religioni umanistiche. Cosa inconcreto sia « individualità », quali contenuti la defi-niscano e la determinino, è ciò che costituisce og-getto della successiva ricerca.

Fondamenti della ricerca.

Prima di rivolgerci allo studio dell'opera di Jung perverificare se possa in essa ravvisarsi il nucleo di unpensiero religioso, dobbiamo preliminarmente porrein chiaro su quali principi fonderemo la nostra in-dagine.Innanzi tutto, che cosa debba intendersi per religione.Il comune modo di vedere intende il vero quando rav-visa la religione ovunque si avverta la presenza diun contenuto che vale come il più degno, di un beneche è quello supremo: un contenuto che può essereun ente sopramondano, ovvero una realtà immanenteall'uomo.Nell'un caso e nell'altro trattasi peraltro di un con-tenuto che non ha nulla di sensibile, è una pura en-tità intelligibile, e ciò importa una prima essenzialedistinzione: di contenuti sensibili, spazio-temporali,quali gli oggetti della natura, uomo compreso, inquanto corpo e psiche; e di contenuti intelligibili, qua-li gli enti della matematica, le potenze divine, gliideali.Tale contenuto intelligibile è peraltro unito in un rap-porto irresolubile con la totalità della natura, e intanto è riconosciuto come divino, in quanto è fonda-mento della natura, è la condizione del suo esistere.In questo senso il divino è il Signore della natura, ilCreatore.

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Ma come la natura non può pensarsi se non nel rap-porto col suo Principio, parimenti il Signore dellanatura non può pensarsi se non nell'unione con lanatura. In questo senso il Signore della natura è in-carnato nella natura, ed essa è la sua manifestazione,divina epifania.Tutta la natura è incarnazione del divino, anche seesso risplende « in una parte più o meno altrove ».Così alcuni enti della natura, piante, animali, uomini,montagne, fiumi, astri, potranno incarnare eminente-mente il divino, a preferenza di altri. Nell'unione colloro Signore, l'uomo e l'intera natura trovano lasalvezza, la redenzione. Vivono nel tempo, mapartecipano dell'eterno; sono esseri sacri, incar-nazioni del divino: « ego dixi, dii estis ». Il divino, ilsacro, è una regione dell'essere, una di-mensione delreale, irriducibile a qualunque altra di-mensione dellarealtà: la morale, il diritto, l'arte, la scienza dellanatura.Uno è il Divino nel suo concetto, ma plurime possonoessere le potenze divine in cui si attua. In realtàplurime sono le religioni e l'una non è riconducibileall'altra. Individualità assolute, in sé chiuse e perfette,senza possibilità di accesso l'una all'altra, le religionisono tutte vere, cioè tutte reali: e nell'affermare ciòil pensiero non si involge in contraddizione alcuna, inquanto esse sono diverse, non contrarie. Ognipotenza divina è una religione, senza riguardo al fattoche si tratti di un « ideale umano », come nelle fediumanistiche, o di una potenza extramondana, comenelle religioni della tradizione. Anche nelle fediumanistiche la « essenza umana », che vale come ilDivino, si manifesta, si unisce alla natura e assicurala sua redenzione.La sfera del sacro è realtà assoluta e ogni tentativodi ridurla ad altro, a prodotto psicologico, sociologico,economico, politico, e simile, è da respingersi.In particolare è da respingere la posizione che pre-tende di ridurre le potenze divine a idee racchiusenella mente dell'uomo, prodotte dal bisogno o dalla

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1) Ci riferiamo all'operamonumentale che è allacase di questa ricerca:3. Minozzi, Introduzionea'; o studio della religio-"e, Firenze, Vallecchi,'970; e, in particolare, al-a Sezione Prima di essa.Der il superamento deldualismo di essere e co-noscere si veda anche,dello stesso Autore: Sag-g o di una teoria dell'es-sere come presenza pura,Bologna, II Mulino, 1960.

paura: posizione che riscuote credito negli ambientidella psicanalisi e della psichiatria. Tale posizionemena vanto di essere scevra da « pregiudizi metafisici» e in realtà si fonda su un presupposto metafisico,quello della vecchia metafisica dualistica, cheafferma: il conoscere è altro dall'essere, le ideesono altro dalle cose reali; il conoscere non attingemai la realtà quale è in se stessa, ma solo l'immaginedel reale quale è racchiusa nella mente dell'uomo.L'uomo deve appagarsi del «fenomeno»: la « cosa insé » gli è preclusa. Conclusione scettica chenecessariamente discende dalla premessa dualisticadell'alterità di essere e conoscere.Corollario di tale posizione è che soggetto del cono-scere sia l'uomo, chiuso nella cerchia della sua sog-gettività o coscienza, oltre il quale sta il mondo inco-noscibile della realtà. Racchiuse nella sua mente sonole idee del divino; con lui nascono e con lui muoiono.Se siano il riflesso di una realtà divina oggettiva nonè dato sapere; miglior partito, per una scienza consa-pevole dei suoi limiti, è ignorare ciò che va oltre ilmero dato soggettivo.Respingere argomentatamente tale posizione, cherende impossibile ogni scienza e riduce il sapere asapere di apparenze, va oltre i limiti di questo lavoro.C'è però chi lo ha fatto in maniera esemplare, ea quelle opere rinviamo il lettore (1). Noi ci limiteremoad enunciare i punti fermi che discendono dalsuperamento della metafisica dualistica erestituiscono agli oggetti della religione realtà as-soluta.Soggetto del conoscere non è la coscienza psicologica,che ha soli contenuti sensibili ed è l'insieme deisentimenti, dei ricordi, delle sensazioni, degli impulsi,dei desideri, che sono propri dell'io individuale. Sog-getto del conoscere è la coscienza assoluta, che èl'orizzonte infinito che abbraccia la totalità del reale,gli oggetti intelligibili e quelli sensibili, include lecoscienze individuali, ed è puro «vedere»: non pos-siede immagini « soggettive » del reale, ma intenziona

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direttamente la realtà. La realtà è presente alla co-scienza cosf intesa nella sua totalità e nella sua as-soluta verità. Nulla è « esterno » alla coscienza: nonesiste dualità di enti conosciuti ed enti reali, ma co-noscere è identico e coestensivo ad essere. Nonesiste una « sensibilità », come facoltà dell'uomo diconoscere le cose. Sensibilità è la cosa percepitastessa, è quella sfera di contenuti dell'esperienza chesi distinguono per la proprietà di essere spazio-temporali, e di mutare. Tali sono gli oggetti dellanatura. Sensibilità coincide dunque con la totalitàdella natura, o mondo sensibile. Non esiste un «intelletto », che sia un modo soggettivo, e quindifittizio, arbitrario, di apprendere gli intelligibili, leidee. Intelletto è la sfera degli oggetti « intelligibili», coincide con l'insieme dei contenutidell'esperienza che non sono spazio-temporali, nonmutano (si pensi agli enti della geometria) e la cuicaratteristica è l'immutabilità. La loro totalità è il mon-do intelligibile, o spirito.L'intelligenza, riguardata come attributo dell'uomo, ènozione psicologica, e i suoi contenuti, a dispetto delnome, sono tutti sensibili, non intelligibili. Tuttol'uomo, non solo in quanto corporeità, ma in quantopsichicità, è realtà sensibile, appartiene alla natura,ed è quindi oggetto, non soggetto del conoscere.Mondo sensibile e mondo intelligibile, natura e spiri-to, stanno in una relazione irresolubile di mutua im-plicazione: non si da esperienza sensibile che nonsia al tempo stesso esperienza dell'intelligibile; e nonsi da esperienza di un intelligibile cui non corrispon-da l'esperienza di un contenuto sensibile. Ciò valeaffermare che gli oggetti intelligibili sono sempre in-carnati nella realtà sensibile, e ogni dato sensibile intanto è conosciuto in quanto è connesso con un intel-ligibile. E poiché conoscere vale essere, si dovrà di-re che il mondo sensibile in tanto è, in quanto hanei mondo intelligibile il suo fondamento, o il suo prin-cipio, il suo significato, che è lo stesso. Nonesistono, dunque, fatti « bruti », che non siano

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(2) « Perché, infatti, siapossibile l'esperienza deltempo, e gli oggetti pos-sano stare tra loro in rap-porti temporali, essereprima o dopo o nellostesso tempo di altri, ènecessario che vi sia, afondamento, nella co-scienza qualcosa di in-temporale, che non dura,non si estende temporal-mente e che con la sua'presenza determina la di-stinzione ed il rapportodei momenti del tempoe, proprio in quanto nonprende posto nella suc-cessione, la rende speri-mentabile ». Lo stesso va-le per il movimento, « ilquale può altrettanto po-co esistere ed essere per-cepito per se stesso, chenon se ne avrebbe alcu-na apprensione, se nonvi fosse a fondamento laesperienza di un essereimmobile e immutabile».Cfr. B. Minozzi, Introdu-zione allo studio della re-ligione, op. cit., pp. 208-209 e p. 219. Per una di-mostrazione della identitàdi natura e spazio-tempo-ralità, che qui è data perpresupposta, cfr. ibidem,pp. 110-11.

(3) J. Jacobi, The way ofIndividuation (1965), Lon-don, Hodder & Stough-ton, 1967, pp. 61 e 1t7.

anche idee: ogni contenuto dell'esperienza è sempreper un lato un dato sensibile e per l'altro un datointelligibile.In particolare, non esisterebbe esperienza della spa-zio-temporalità, e quindi non esisterebbe una « natu-ra », se ciò che trascorre non venisse appreso in re-lazione a ciò che non trascorre e ciò che muta nonrisultasse tale a confronto con una realtà immobile eimmutabile (2): un unico atto, indivisibile,apprende la natura e il suo principio intelligibile.Dire natura è, dunque, dire al tempo stesso Principiodella natura, condizione del suo esistere. Nei ter-mini cari alla tradizione, dire natura è dire al tempostesso il Signore della natura, il Creatore; l'esperienzadell'una è inseparabile dall'esperienza dell'altro.Siamo cosi venuti a riallacciarci a quanto avevamopreso a dire all'inizio, a proposito di ciò che debbaintendersi per « religione ». Intendevamo fissare uncriterio per individuare ciò che appartiene alla reli-gione e distinguerlo da ciò che appartiene ad altre« regioni » della realtà. Possiamo ora concludere af-fermando che altro criterio non esiste se non l'ana-lisi dei contenuti: e ove si presenti un contenuto chevaie come il supremo, comunque lo si chiami, prin-cipio dell'esistere o fine della vita, senso dell'esisten-za o salvezza dell'uomo, esso appartiene alla reli-gione, è potenza divina, trascendente o immanenteche sia. Ad esso va riconosciuta assoluta realtà everità.

PARTE SECONDA

L'individualità, chiave di volta del pensiero jun-ghiano.

« Supremo scopo della vita è per l'uomo diventarela sua vera essenza » (3). Cosi Jolande Jacobi sin-tetizza ciò che Ella considera — e a ragione — la« chiave di volta » del pensiero del Maestro, il « nu-cleo centrale » del suo insegnamento, l'« idea-guida »di tutta la sua opera. Egli stesso, del resto, confes-

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sava nel testamento spirituale dettato ad Aniela Jaf-fé: « Tutte le mie opere sono in relazione a questounico tema » (4).Si è spesso affermato che l'opera di Carl Gustav Jungmanca di unità e di sistematicità, a differenza di quel-la di Sigmund Freud. In realtà si è confuso la formaletteraria dell'opera (un fatto del tutto inessenziale,estrinseco), con la sua struttura concettuale, la suaessenza.È vero che Jung non ci ha lasciato un'opera in cui laforma della trattazione renda evidente l'intrinsecaunità e sistematicità del suo pensiero. Ma ciò nonsignifica che la sua dottrina, diffusa in una grandevarietà dì scritti, estesi e brevi, manchi di unità e dicoerenza.Ove si legga l'opera di Jung badando non all'estrin-seco ma all'essenza, si scoprirà che tutto l'argomen-tare si diparte e si articola da un solo nucleo centralee questo verte appunto intorno al tema dell'essenzadell'uomo.Il Cristianesimo era per Jung una verità incapace ora-mai di accendere gli animi. Fin dalla prima fanciullez-za aveva sperimentato la inanità di una catechesiche gli suscitava soltanto una « noia mortale », men-tre si sentiva portatore di una verità che i sogni pro-fetici dell'infanzia gli avevano fatto intravedere. Glianni dal 1912 al 1916 lo metteranno a diretto con-fronto col « Dio vivente » e saranno esperienze ter-ribili. Le opere che seguiranno avranno tutte le lororadici in quel quinquennio e saranno intese a un me-desimo fine: 1) insegnare agli uomini a reggere alconfronto col Dio vivente, senza rimanerne distrutti: esarà l'aspetto psicoterapeutico della sua opera;2) farsi assertore della nuova verità che lo hafolgorato come Saulo sulla via di Damasco; e saràl'aspetto religioso, nella veste di un umanesimo cheripone nella « individualità », come « pienezza »dell'umano, lo scopo supremo dell'esistere: « il postodella divinità sembra occupato dalla totalità dell'uomo» (5).L'uno aspetto interferisce con l'altro, nel senso chela psicopatologia riesce a dire « sano » e « malato »

(4) C. G. Jung, Memories,Dreams, Reflections, Lon-don & New York, 1961, p.206; trad. ital.: Ricordi, so-gni, riflessioni, Milano, IISaggiatore, 1965, p. 235.

(5) C. G. Jung, Psycholo-gy and Religion (1937),Coli. Works, voi. XI, p.82; trad. ital.: Psicologia

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e Religione, Milano, Ediz.di Comunità, 1962 (2. ed.),p. 124).

(6) C. C. Jung, Psycho-analysis and neurosis(1913), CW. IV, p. 249.

solo in riferimento a quel principio religioso ed etico;né si vede come potrebbe essere altrimenti. Finché siresta nel campo puramente descrittivo dellapsicologia, non è necessario uscire dal campo dellascienza naturale per descrivere fenomeni nella loroconcatenazione e reciproca subordinazione. Maquando si entra nel campo della psicopatologia, ovebisogna agire e per agire occorre valutare, cioè sa-pere cosa è sano e cosa è malato, ci si accorge cheper dire « sano » e « malato » bisogna necessariamen-te fare ricorso ad un principio che non appartienealla scienza naturale, ma è principio che afferma ciòche nell'azione va negato come male affinchè il benesi affermi.Ora, ciò che nella sfera dell'azione è principio delladistinzione di bene e di male, è in se stesso l'Asso-luto, l'Altissimo delle religioni tradizionali o l'essenzadell'uomo nelle moderne fedi umanistiche. Andando,dunque, a ricercare, nell'opera di Jung, la ragione percui gli uomini si ammalano, diventano neu-rotici opsicotici, ci imbatteremo necessariamente in unprincipio etico-religioso che ad un tempo fonda la suapsicopatologia e la sua religione. Risale al 1913 laprima lucidissima introduzione di questo principio, nelsaggio « Psicoanalisi e nevrosi ». La predisposizionenevrotica — vi si legge — è anteriore ad ognipsicologia. Non esiste una etiologia psichica dellanevrosi. I disturbi nevrotici sono fenomeniconcomitanti, non sono la causa della nevrosi. Talecausa appartiene all'ordine ideale, non a quello psi-chico, e consiste nell'essere destinati nonall'adattamento al mondo (al « collettivo »), maa compiti e scopi di natura altamente individuale(6). Questa assoluta individualità, non meglioprecisata al momento, costituisce dunque sia lavocazione suprema dell'uomo, sia la cagione dellamalattia mentale.Abbiamo altrove analizzato in esteso come la vo-cazione all'individualità sia alla base della psicopa-tologia junghiana. Intendiamo perciò in questa sede

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restringerci ad approfondire il significato dell'indi-vidualità, come « scopo della vita », bene supremo.

La vocazione all'individualità.

La vocazione all'individualità si manifesta assai pre-cocemente in coloro che ne sono gli eletti. Il « signumelectionis » si manifesta in una particolare predispo-sizione del carattere, anteriore ad ogni sviluppo dellapersonalità, che rende difficile l'adattamento alle co-muni funzioni dello sviluppo. Persino la funzione nu-tritiva può esserne disturbata, e l'infante nato sotto ilsegno dell'individualità può trovare difficoltà a fruiredel seno materno.Una accentuata « sensibilità » psicologica rende dif-ficile l'adattamento sociale e l'accettazione dei com-piti della esistenza ordinaria a chi è chiamato ad as-solvere compiti « altamente individuali ». Ma se da unlato l'individualità chiama ad una esistenza singolaree diversa, dall'altra la famiglia, la società, l'ambienteimpongono la propria legge, che è legge comune aipiù, legge collettiva, alla quale anche gli uomini-individui debbono inizialmente piegarsi.Il conflitto fra esistenza di tipo collettivo e esistenzaindividuale resta latente per tutta la prima metà dellavita. È il periodo in cui l'individuo accetta le regole delvivere comune ed acquista un suo spazio nella so-cietà: riceve l'educazione comune, forma una fami-glia, inizia un lavoro, intraprende una carriera. Per lopiù accade che l'uomo a tal misura si arrenda allalogica della società in cui vive, ai cosiddetti « valoricollettivi », da divenire totalmente immemore del suodestino individuale.Ormai pensa con la mente di tutti, agisce secondo ilcostume corrente, gli stessi modelli di riferimento cul-turale, che muovono la società, guidano a sua insapu-ta anche le sue azioni.Ciò che meglio caratterizza questa sua resa alla con-dizione umana ordinaria, in questa epoca, è la perditadi ogni contatto col mondo dell'istinto, che è iltratto distintivo della società illuministico-borghese.

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(7) C. G. Jung, The undi-scovered Self (Presentand Future), (1956), CW.X, p. 291; tr. it: Presentee futuro; in: Realtà del -l 'anima, Torino, Borin -ghieri, 1963, pp. 245 -46.

A mano a mano che l'uomo dell'illuminismo, progeni-tore dell'uomo contemporaneo, prendeva possessodella natura, « si ubriacava di ammirazione per lapropria scienza e per il proprio potere, e semprepiù profondo si faceva in lui il disprezzo per ciò cheè puramente naturale e casuale, ossia per il dato ir-razionale - ivi inclusa la psiche oggettiva, che è tutto ciòche non è consapevolezza » (7). Il trionfo dellaRagione ha però portato a una dissociazionenell'uomo: è il divorzio fra intelletto e natura, fraconoscenza e fede, che equivale ad una unilateralesopravalutazione dell'intelletto e ad una negazionedella sfera « naturale », che è tutt'uno con la psicheoggettiva, intesa come la sede degli impulsi profondi,l'istinto creativo artistico e l'istinto religioso.Chiuso in una fede nei poteri della ragione, l'uomoha cosi perso il radicamento profondo alla natura,che racchiude il segreto di ogni destino individuale,e non ha altra alternativa che lasciarsi guidare dalcostume e dagli orientamenti collettivi.Tutto ciò non avviene però impunemente. La naturanegata prende la sua rivincita, e non avendo accessoall'umano attraverso la via della consapevolezza, ir-rompe entro l'umano e ne prende possesso, generan-do disturbi che a livello individuale hanno gradi di-versi di intensità, che vanno dalla nevrosi alla psicosi,e a livello sociale possono ingenerare disordini, chevanno dai conflitti fra i gruppi, ai rivolgimenti istitu-zionali, ai conflitti fra le nazioni. Il momento dellaresa dei conti sopraggiunge per l'uomo individualein quel delicato momento in cui il raggiungimentodei « fini sociali » è compiuto e l'arco della vita volgeverso i « fini culturali »: la conquista del « senso dellavita » e la preparazione alla morte.Per lui, l'insorgenza dei disturbi causati dal divorziocon la « natura », che è la psiche oggettiva, ha ilsignificato di una « chiamata », l'ultimo appello allasua originaria « vocazione ». A questo punto la rinun-cia alla « hybris » dell'intelletto, per cedere all'invitoche gli giunge dal profondo, dal « demone » interiore,

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dal « regno delle madri », si impone come « sceltamorale ».Lo attende un cammino che è periglioso e difficile,pieno di incognite e di rischi mortali, perché il segretodel suo destino individuale è bensì inscritto nellanatura, ma difficile da decifrare; è un tesoro « diffi-cile da raggiungere » perché vigilato da divinità di-voratrici, che rendono incerto l'esito della vicenda.C'è chi in questo cammino si perde e resta vittimadella psicosi. Ma rinunciarvi significa rimanere unamera accidentalità, cui l'immortalità è negata: « chiun-que prende la strada sicura è come se fosse mor-to » (8).L'individualità è dunque quel bene supremo che di-stingue l'uomo dal non uomo; è ciò per cui l'uomopuò veramente dirsi immortale e la vita degna di es-sere vissuta. Al di fuori di essa è la pura esistenzaanimale.

L'essenza dell'individualità.

Non è completo né intero l'uomo quale si sviluppa nel-la prima metà della sua vita, cioè nella fase del suosviluppo sociale. La società lo costringe a sacrificareuna parte di sé, del suo organismo psichico, e a farvalere soltanto quella parte che è « utile» agli scopisociali. In questa società occidentale è utile sviluppa-re, delle quattro funzioni di cui la psiche è capace(intelligenza, sentimento, intuizione, sensazione), sol-tanto l'intelligenza. Le altre rimarranno rudimentali earcaiche, nel senso che sarà reso precario all'indivi-duo l'accesso alla realtà dei sentimenti, delle intui-zioni, delle sensazioni e la realtà per lui fruibile saràestremamente diminuita e impoverita. Questa stessasocietà privilegia, dei due tipi di atteggiamentopossibili, l'estrovertito e l'introvertito, quelloestrovertito, che giova ai rapporti competitivi su cui sibasa la dinamica sociale e la lotta per il potere.L'introversione, che è propensione per gli oggetti in-terni, autoriflessione e distacco dall'esteriorità, vienescoraggiata e punita, quindi sacrificata.

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(8) C. G. Jung, Ricordi,sogni, riflessioni, tr. it.cit., p. 332.

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(8b) C. G. Jung, Ricordi,sogni, riflessioni, tr. it.cit., p. 310.

Uguale sorte riceve la funzione di rapporto con ipropri contenuti profondi, l'« anima », che è nell'uomol'aspetto femminile della sua personalità e che do-vrebbe aiutare l'Io a entrare in relazione con il mon-do della « natura » — la psiche oggettiva — e me-diarne i messaggi, renderglieli accessibili. Il sacri-ficio dell'anima taglia i ponti con la natura e disan-cora l'uomo dai suoi ancoraggi profondi, dal suo ra-dicamento alla natura: recide i legami fra lo e istintoe lascia i due poli della relazione irrelati e nemici. Lasocietà, questa società, mentre costringe l'uomo alsacrificio dell'anima, lo incoraggia a sopravalutare,e a sviluppare oltre il segno, la sua funzione dirapporto con l'esteriorità, col sociale, la sua facciatasociale, la « persona ». Al punto che l'uomo finisceper credere di essere ciò che appare, di essere nien-t'altro che il suo ruolo sociale. In realtà è soltanto undimidiatus vir, in cui l'esteriorità è padrona, e il costu-me, la moda, il « si dice », le attese collettive hannola meglio sulie esigenze della sua vera essenza.L'istintività è bandita e con essa il complesso di at-teggiamenti, impulsi, desideri, inclinazioni, sentimentiche pur fanno parte dell'uomo, ma che questa so-cietà ha farisaicamente disconosciuto e bandito. Cosil'uomo è costretto a rinnegare tutta questa parte disé, a fingere di non possederla e a respingerla ognivolta che gli si ripropone. Ma questa resta come suadannazione che « sempre di nuovo » è alle soglie dellacoscienza e urge per venire alla luce. È la sua«ombra», nel duplice senso che è inseparabile dalui, ed è il suo lato tenebroso.Ma un uomo « che non è passato attraverso l'infernodelle passioni, non le ha mai superate: esse continua-no a dimorare nella casa vicina, e in qualsiasi mo-mento può guizzare una fiamma che può dar fuocoalla casa stessa. Se rinunciamo a troppe cose, se cele lasciamo indietro, e quasi le dimentichiamo, c'èil pericolo che ciò cui abbiamo rinunciato o ci siamolasciati dietro le spalle, ritorni con raddoppiata vio-lenza » (8 b). L'uomo dimezzato è dunque colui cheper essersi

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fatto schiavo del « mondo », ha rinunciato alla com-pletezza, ed è un uomo che ha sviluppato l'intelligen-za, ma è estraneo al mondo dei sentimenti; è proiet-tato al di fuori di sé, ma non riesce a raccogliersi perriflettere su se stesso; ha un ruolo sociale, una fac-ciata, forse estremamente rispettabili, ma è privo diprofondità, non ha contatti con la propria interiorità;è « educato » e « civile », ma si porta addosso unacarica di istintività, potenzialmente esplosiva, tantopiù pericolosa quanto più disconosciuta e abbandona-ta a se stessa.L'uomo intero o totale è colui che vive nel mondo manon si è arreso al mondo; non ha rinunciato alla suaindividualità e perciò persegue la sua « completez-za »: sviluppa tutte le funzioni psichiche, non soltantol'intelligenza, ma il sentimento, la sensazione, l'intui-zione; tempera la estroversione verso il mondo ester-no, con l'introversione verso i propri contenuti infe-riori; ha un ruolo sociale, ma affida alla propria animafemminile il compito di guidarlo entro i segreti delmondo inferiore. Conosce il proprio fondo oscuroed empio, le richieste istintive della propria natura, esa che la liberazione dalle ambizioni e passioni che cilegano al mondo sensibile passa attraverso « l'adem-pimento sensibile delle richieste istintive piuttosto cheattraverso la prematura rimozione di esse gover-nata dalla paura » (9). E in tanto è capace di questoequilibrio, in quanto ha fede nella superiore razio-nalità della natura che gli si rivela attraverso il lin-guaggio cifrato del simbolismo onirico; accoglie que-sto come manifestazione della volontà divina, e per-ciò lo riguarda religiosamente, pone ogni cura nel de-cifrarlo, e ne trae indicazioni per l'orientamento dellapropria vita. L'uomo intero è colui che ha dimesso la« hybris » dell'intelletto e si affida al divino volereche è in lui. A lui è riservata la « divina prerogativa »,l'« indescrivibile esperienza » di essere come un fan-ciullo, « abbandonato ed esposto a tutto, eppure di-vinamente potente» (10).

(9) C. G. Jung, Commen-tary on « The secret ofthè Golden F lower »(1929), CW. XIII, p. 8.

(10) C. G. Jung, The Psy-chology of thè Child Ar-chetype (1940), CW. IX/1,p. 179.

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(11) C. G. Jung, Psycho-logy of thè transference(1946), CW. XVI, p. 321;tr. it.: La psicologia deltransfert, Milano, II Sag -giatore, 1961, pag. 174.

A livello biologico e psicologico ogni uomo si svilup-pa secondo un piano che è ad un tempo universal-mente umano e inconfondibilmente individuale. Cosiè a livello di destino. Ogni esistenza può incarnareuna versione, che sia unica e irrepetibile, del desti-no universale dell'uomo. Prendere coscienza del pro-prio destino particolare, rifiutare i modelli di esi-stenza proposti dalla collettività, trovare in se stessile linee guida della propria esistenza: in ciò con-siste l'individualità per ciò che è unicità. Lacondizione perché ciò si realizzi è che la guidadell'esistenza sia affidata al divino volere che si rivelanel profondo, attraverso il linguaggio delle immaginipsichiche. Solo facendosi natura, docile come lanatura al divino volere, anche l'uomo può parteciparedella infinita varietà del reale, e godere quindi di undestino irrepetibile e unico.Al di fuori della divina invenzione creatrice, all'uomcnon resta che modellare la sua vita sugli schemi delcomportamento sociale, che riducono all'identico ciòche poteva essere diverso, rendono statisticamenteprevedibile ciò che dovrebbe essere imprevedibilee costringono alla monotonia della vita del greggequella che dovrebbe essere la divina avventura del-l'esistere. Tale è la sorte dell'uomo-massa, « che nonsa più cosa sia l'umano e ha perso la propria ani-ma » (11).

Individualità, archetipo del Sé, immagini arche-tipiche.

L'individualità, come principio e scopo dell'esistere,non ha nulla di sensibile, è pura norma ideale. Jungla chiama il Sé, l'uomo totale, l'Anthropos, l'uomo in-teriore, l'uomo eterno, che è modello di vita per l'uo-mo terreno. Per questo non aver nulla di sensibile, ilSé è detto anche « archetipo ». Ma se uno è il Sé,molteplici sono le raffigurazioni psichiche, e quindisensibili, del Sé, che Jung chiama « immaginiprimordiali » o « immagini archetipiche ». Esse sonociascuna una raffigurazione sensibile di un aspettodel Sé. Per questo carattere di rappresen-

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tare il Sé, ma mai compiutamente, per l'impossibilitàdel sensibile di esprimere compiutamente l'intelligi-bile, le immagini archetipiche sono anche dette « sim-boli del Sé ».« Simbolo », dunque, per Jung è diverso da « meta-fora », e sta per «raffigurazione», «figura», «sche-ma » del Divino.Talvolta, peraltro, Jung usa « simbolo » anche per de-notare particolari enti della sensibilità con cui il Di-vino si unisce. Non raffigurazioni, dunque, ma incar-nazioni della potenza divina: cosi il serpente, la vac-ca, i sacri lingham, statue e oggetti sacri, e cosi via.

Pluralità delle immagini archetipiche, unicità del-l'archetipo.

Uno è l'archetipo, molteplici le sue «figure». Que-sto vale per ogni potenza divina. Ogni archetipo di-vino, in sé uno e puro intelligibile, si dirompe, alcontatto con la psiche, in una pluralità di rappresen-tazioni sensibili, ciascuna delle quali ne illustra unaspetto, una proprietà. Non si può quindi ricondurre— come parrebbe essere in Jung — ciascuna imma-gine archetìpica ad un distinto archetipo, bensì sus-sumere sotto il medesimo archetipo la molteplicitàdelle immagini che vi fanno riferimento. Si dovràdunque dire che per ogni religione una è la potenzadivina, ovvero uno è l'archetipo, e molteplici le suefigure.In Jung, solo il Sé è l'archetipo, e tutte le immaginisono sue figure. Parlare dell'archetipo dell'anima, del-l'archetipo dell'ombra, dell'archetipo del puer, dell'ar-chetipo del Saggio, è solo un modo improprio di farriferimento a particolari aspetti dell'unico archetipo,che è l'archetipo del Sé.

L'inconscio collettivo.

Potenze divine, puri intelligibili, sono da ritenersi gliarchetipi, e non prodotti di una comune psiche in-conscia che Jung — com'è noto — chiama inconsciocollettivo. Tutto ciò che è psichico, cioè sensibile,non può produrre l'intelligibile: la relazione dìsensi-

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(12) A tale dottrina abbia-mo fatto riferimento piùsopra quando abbiamoaffermato che il divino,che non ha nulla di psi-chico, cioè di sensibile,nella sua essenza, vieneperaltro raffigurato nellapsiche in immagini e fi-gure, che ne colgono a-spetti e proprietà parzialie che rappresentano l'uni-co mezzo che l'anima hadi possedere a suo modouna parvenza del divino.

bile e intelligibile, di natura e spirito, è quella cheabbiamo tentato di delineare all'inizio di questo la-voro, ed implica l'irriducibilità di uno dei due terminiall'altro.Riconoscere, peraltro, la natura intelligibile dell'ar-chetipo avrebbe significato rendere privo di conte-nuto e quindi inesistente l'inconscio collettivo, cheinvece è nozione — per quanto insostenibile sulpiano speculativo — che svolge una funzione impor-tante nell'economia del pensiero junghiano. PerciòJung, quando si è trovato a dover distinguere tra « ar-chetipo » e « immagine archetipica », che è la distin-zione stessa di ente intelligibile ed ente sensibile, hapreferito rifugiarsi dietro le parole e lasciare irrisoltoil problema della natura dell'archetipo. Chiamandolo,infatti, « psicoide » (quasi-psichico), ha creduto dipoterlo relegare in una sorta di limbo né sensibile,né intelligibile, che in realtà non esiste. L'ipotesi diuna comune psiche inconscia, se non è pensabilecome fondamento degli archetipi, non è neppurnecessaria a spiegare la ricorrenza delle medesimeimmagini archetipiche nella psiche di individuidiversi, in tempi e luoghi diversi, (sempre che ciòeffettivamente avvenga e non si scambi l'analogo perl'identico). A fornire una corretta spiegazione delfenomeno è sufficiente la dottrina della figurazionepsichica del divino (12).Resta dunque da sapere quale funzione svolga lanozione di inconscio collettivo, quale valore essaabbia.La tesi che noi avanziamo è che si tratta di unanozione che non appartiene al dominio della psico-logia e della scienza naturale, ma trova la sua realtàe verità in una diversa sfera del reale. In verità, iltentativo di far passare la nozione di inconsciocollettivo per una realtà « scientificamente » fondata èstato fatto. Solo ammettendo — si è detto — unastruttura psichica comune all'umanità tutta è possibilespiegare la produzione costante, in tutti i tempi epresso i popoli più diversi, di motivi mitici analoghi oaddirittura identici. Senonché. come mo-

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streremo più avanti, nessuna validità scientifica è dariconoscere a quel metodo che intende istituire ana-logie e parallelismi fra i materiali delle fedi dei di-versi popoli. Perciò infondate risultano le dottrine,compresa quella di inconscio collettivo, che riponga-no il loro fondamento sulla validità di tale metodo. Laverità della dottrina dell'inconscio collettivo è dunqueda ricercarsi in un campo diverso dalla psicologia edalle altre scienze della natura. La funzione che atale dottrina va riconosciuta è quella di concorrere aricondurre la pluralità delle religioni all'unica religio-ne del'individualità.Se, infatti, una è la psiche, e se la religione è unafunzione della psiche, una dev'essere anche la reli-gione. A garantire, poi, che quest'unica religione siala religione dell'individualità provvedere la particolareinterpretazione che Jung fornirà delle rimanenti re-ligioni (come vedremo più avanti).Perciò ci sembra di poter affermare che se la dottrinadell'inconscio collettivo non appartiene alla scienzapsicologica, appartiene di diritto al dominio della re-ligione, in quanto svolge una funzione religiosa. Me-diante tale dottrina, infatti, la religione dell'individua-lità si apre la possibilità di risolvere in sé tutte lealtre religioni, vanificando la loro distinta essenza eannullando la loro irriducibile e assoluta individualità.Riconoscendole tale funzione, è possibile dare alladottrina dell'inconscio collettivo la sua esatta collo-cazione e il suo vero fondamento.

Individualità e individuazione.

Individualità è ciò che fa uomo l'uomo; è scopo su-premo dell'esistere, oltre il quale non resta che lospettro di una esistenza sub umana; è l'essenza del-l'umano, che si unisce all'uomo, lo salva dalla puraanimalità, lo fa rinascere nello spirito. Maindividualità è tesoro difficile da raggiungere, èprivilegio di pochi. Questo, dell'essere riserbata apochi, è un aspetto costitutivo dell'individualità. Maè altresì fonte di equivoci per gli esegeti.

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Fuorviati forse dalle immagini, cui Jung fa spesso ri-ferimento, dell'individualità come tesoro nascosto ecustodito dal drago, che l'eroe riesce a conquistareal termine di una perigliosa vicenda, si è indotti acredere che il possesso dell'individualità, che è l'in-dividuazione, sia uno stato che l'uomo raggiunge —se mai lo raggiunge — al termine di una vicenda, ovia, o processo, o come lo si voglia chiamare, lungoe pericoloso, che si conclude con la vita stessa. Enon ci si avvede che tutto quel processo, o cammino,è la vita stessa come manifestazione dell'individualità,è individualità in atto; e in tanto l'uomo riesce apercorrerlo in quanto il divino è in lui, e l'individualità,nonché un premio che lo attende alla fine, è graziache già lo sorregge: « il Regno di Dio è in mezzo avoi ». L'errore che si commette è di trasporre neltempo i caratteri costitutivi dell'individualità cheappartengono all'eterno.La proprietà d'essere via, peregrinatio, cammino, be-ne da ricercare, beatitudine da raggiungere, appartie-ne alla essenza dell'individualità, è interna al suoconcetto. L'eroe che scende agl'inferi, muore e rina-sce, è parabola di questo aspetto dell'individualità;non ha che vedere con l'uomo in carne ed ossa. Perquest'ultimo, l'individualità non è qualcosa che stiaal di là o al di fuori della vita, ma un bene che coin-cide con la vita stessa: poiché ricerca, via, peregri-natio è la vita umana tutta intera, qualora la si ri-guardi come individualità in atto, manifestazione delladivina essenza dell'uomo.Si potrà dire che l'individuazione comporta gradi, nelsenso che la divina essenza dell'individualità s'in-carna in misura diversa negl'individui, più in alcuni,meno in altri, e in misura diversa nei vari momentidella vita. Ma non si da un'epoca della vita in cuil'unione col divino non esiste ed è da realizzare: leconversioni, le metanoie, sono trapassi da un'altra re-ligione in quella dal cui punto di vista si giudica;mai un trapasso da uno stato religiosamente « neu-tro » ad uno stato religioso. Un secondo equivoco,prossimo al precedente, è

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che l'individuazione sia il risultato di un processo,una sorta di procedimento alchemico al termine delquale l'individuazione si produce, come un « preci-pitato » chimico in provetta.In verità, nessun processo può « produrre » l'indivi-duazione, poiché individuazione è unione dell'uomocol divino, e questa unione è in atto da sempre, èopera divina e l'uomo non avrebbe neppure inco-minciato a proporsi l'individualità, a cercare il di-vino, se questo non lo avesse per primo chiamatoe attratto a sé.Si può soltanto affermare che sotto il nome dì pro-cesso di individuazione va considerato un processopsicoterapeutico che verte intorno agli effetti deldivino sulla psiche ed è volto a trasformare tali ef-fetti da pericolosi per l'Io, in salutari, mutando larelazione che con essi intrattiene l'Io. Tale processoterapeutico non può produrre l'individuazione — comegeneralmente si crede — perché la individuazione ècompito di Dio, dell'individualità, non dell'uomo enemmeno della psichiatria. Può soltanto curare lemalattie dell'anima, donare « salute » psichica, cheè tutt'altra cosa dalla « salvezza » che l'individuazio-ne porta all'uomo. Salute psichica e salvezza nonvanno insieme, come è noto da sempre, e può bendarsi di trovare individui psichicamente malati cheincarnano l'individualità, e individui psichicamentesani in cui non si è mai neppure accesa la divinascintilla dell'individualità (13).

Il processo di individuazione.

Nonché produrre l'individuazione, il processo di in-dividuazione la presuppone e i contenuti psichiciche lo caratterizzano, cioè le « immagini archetipi-che», sono i prodotti della psiche sotto l'impressio-ne del divino.L'interpretazione che intendiamo proporre del pro-cesso psichico cui Jung ha dato il nome di « proces-so di individuazione », è di una attività che mira asalvaguardare l'Io dai pericoli cui incorre nell'unione

(13) Questa posizione èsostenuta da A. Guggen-bùhl-Craig; « Nevroticigravi possono essere ' in-dividuati ', andar vicino alsenso della vita; esseripsichicamente sani, spes-so, non hanno alcun rap-porto con la scintilla di-vina che è in noi », in:Rivista di Psicologia Ana-litica, voi. Ili, n. 1, 1972,p. 106.

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col divino, attraverso l'impiego di una tecnica in-tesa a liberare l'Io dal soverchiante dominio del Sée a ristabilirlo in una posizione di relativa autonomianei confronti del suo Principio. Per questo aspetto ilprocesso di individuazione è una tecnica psico-terapeutica e come tale appartiene alla psichiatria.Per altro verso si potrà ancora parlare di processodi individuazione, ma sarebbe più appropriato par-lare di Individualità in atto, a proposito della vitastessa dell'individuo governata dal principio dell'in-dividualità: ed è allora il processo attraverso il qualeil principio divino atteggia la vita dell'individuo,modella la sua psiche, libera i comportamenti, gl'im-pulsi, i desideri, i sentimenti idonei ad incarnarlo, ebandisce gli altri; si pone come criterio di bene edi male, che soppianta ogni altro criterio. A questavita di unione dell'uomo e del suo Principio,attraverso cui la vita dell'individuo si trasforma e siuniforma sempre più al divino ideale, meglio convieneil termine di mysterium coniunctionis, introdotto daJung nelle opere della piena maturità.

Individualità, individuazione, sintesi degli opposti.

Siamo ora in grado di porre in chiaro cosa debbaintendersi per « sintesi degli opposti », un tema con-tinuamente ricorrente in Jung, cui sembra corrispon-dere l'essenza stessa dell'individualità. Noi abbiamodistinto individualità, che è il concetto stesso deldivino, da individuazione, che è l'unione del divino edell'umano, il vivere secondo l'individualità.Abbiamo visto che individualità significa pienezzadell'umano, realizzazione non solo del lato luminosoe positivo dell'uomo, ma di quello « oscuro ed em-pio»; non solo dei suoi caratteri «maschili», maaltresf di quelli « femminili ». Per questo suo carat-tere l'individualità è detta sintesi di « opposti ». Op-posti, s'intende, in senso del tutto empirico: che èquanto dire diversi, contrastanti. Abbiamo altresf vistoche individuazione è la relazio-

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ne irresolubile di individualità e di uomo, di divinoe di umano, dunque di spirito e natura. « Sintesi degliopposti » è, in questo caso, da intendersi l'unionedelle due determinazioni non opposte, ma diverse,della realtà, il sacro e la natura, che nell'in-dividuazione si realizza.« Sintesi degli opposti » ha dunque un duplice si-gnificato: per un lato designa una proprietà dell'in-dividualità, quella di unificare contenuti di espe-rienza che nel comune modo di parlare vengonoindicati come «opposti»; dall'altro sta a significarel'unione del divino e dell'umano, della essenza uma-na — che è l'individualità — e dell'uomo, nellaunità dell'individuazione.

Individualità e malattia dell'anima.

La religione dell'individualità interferisce con la psi-chiatria di Jung nel senso che il principio dell'in -dividualità fornisce il criterio per valutare ciò che èpsicologicamente sano da ciò che non lo è.Malattia dell'anima è infatti sia la caduta dal Sé,che rende la vita priva di significato; sia l'incontrocol Sé, che può travolgere l'Io, o mediante senti-menti dì timore e terrore, che si esprimono attra-verso immagini terrificanti (le divinità divoratrici),o facendo agire inconsapevolmente determinatiaspetti del Sé: la fanciullezza (il «puer»), la fem-minilità (essere posseduto dell'anima), la persona-lità potente (il delirio di grandezza, l'inflazione).Compito della psicoterapia è dì liberare l'Io da que-sti stati di possessione, interpretando l'invasionedel nume come la sollecitazione a prendere consa-pevolezza dei propri personali aspetti di fanciullo,di anima, di ombra, di potenza. Nell'attività e nelfervore con cui l'uomo tende a rendere a sémanifesti e ad assumere consapevolmente questiaspetti della propria personalità, nello spirito di unareligiosa sottomissione al Sé, si manifesta il «mysterium coniunctionis », l'unione col divino.

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I risultati di questa attività interessano la salute psi-chica, e quindi la psichiatria (qui usata nello stessosenso che psicoterapia); non interessano la religione,per la quale l'uomo si salva, anche se infermo, perla sola fede.

Individualità e mondo sensibile.

Come ogni potenza divina, anche l'individualità siunisce alla natura e si rende manifesta negli indi-vidui. In virtù di tale unione certi uomini possonoapparire « simili agli dei ». In questo senso si spiegaquel fenomeno di religiosa sottomissione alle figureparentali o ai maestri, che Jung interpreta come« proiezione » su di essi dell'archetipo del Sé.Proiezione è fenomeno psichico e concerne il tra-sferimento su altri di certi contenuti psichici, checi appartengono ma sono inconsci. Ora, l'archetipodel Sé non è contenuto psichico, ma è puro intel-ligibile, non ha nulla di sensibile: perciò non puòvenire proiettato.È peraltro unito all'umanità, per la necessità stessadell'incarnazione: nel qual caso la sua presenza èreale, e l'avvertirla non è sinonimo di errore (comesempre nei casi in cui si percepisce un contenutoche è stato inconsciamente proiettato), ma assolutaverità.

PA RT E T E R ZA

Le religioni, allegorie dell'individualità.

Ci volgeremo ora a considerare quell'aspetto del-l'opera di Jung inteso ad isolare alcuni fattori chesi ritrovano in tutte o quasi tutte le credenze e aistituire — mediante l'uso del metodo comparativo —analogie e parallelismi tra i materiali delle fedi deidiversi popoli e la dottrina della individualità. La tesiche sottende tutto quest'aspetto dell'opera di Jungè che tutte le religioni sono, sotto veli allegorici,preannunci della vera fede, poiché in tutte siritrovano simboli di totalità, quali i « mandala »,

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il quadrato, il cerchio, la croce, il numero quattro;ovvero motivi che alludono alla via da percorrere,all'opera da compiere, alla conquista del tesoro na-scosto, alla discesa agl'inferi, alla morte e alla ri-nascita.Per quanto concerne i miti pre-cristiani del vicinoOriente, il compito della loro interpretazione allego-rica fu reso facile a Jung dall'opera di studiosi ro-mantici, come il Frobenius, che già avevano prov-veduto a « interpretarli », atteggiando le azioni diquelle potenze divine a imprese dell'eroe, romanti-camente concepito.Ciò che in quelle azioni vi è di specifico e di irridu-cìbile, viene trascurato, e ciò che viene ritenuto èil generico schema di un viaggio notturno, cioè in-fero, abissale, nel quale l'eroe soffre tormenti, af-fronta pericoli e cimenti mortali, ma raggiunge lameta e conquista il tesoro, poco importa cosa inconcreto esso sia. Il suo ritorno alla luce è una ri-nascita, poiché nell'impresa egli ha conquistato laimmortalità.Del Cristianesimo, nulla di ciò che gli è peculiareè consaputo da Jung: invano vi si cercherebbe lavicenda del Dio di amore, che a tal punto ama l'uomoda morire per lui, « e morire di croce ». L'incarnazio-ne viene per cosi dire messa in parentesi, e il Dioincarnato diventa una pura allegoria dell'uomo to-tale, del Sé. Anzi, diventa tale solo a patto che losi assuma nell'unità con l'Anticristo, poiché il Cristostorico pecca di una imperdonabile unilateralità: èsolo luce e perfezione morale, mentre il Sé è sin-tesi di luce e di tenebre, dì spirito e carne, è Dio eSatana insieme. Il Sé non è perfezione, ma comple-tezza.Delle religioni del lontano oriente ciò che soprat-tutto interessa Jung è la forma geometrica dei lorosimboli religiosi, i « mandala ». Il loro aspetto circo-lare o quadrato, o comunque simmetrico rispettoagli assi passanti per il centro, rivelerebbe, senzaombra di dubbio, che quelle fedi sono antiche pre-corrìtrici della fede nel Sé. Il mandala è un simbolo

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- Cfr. B. Minozzi, In-rduzione allo studio dei-

di totalità, dunque è una raffigurazione del Sé. Jungnon ha dubbi.Con uguale certezza egli vede nel Dio prigionierodella materia, che l'alchimista si studia di liberareattraverso le complicate fasi dell'« opus alchemi-cum », ancora una allegoria dell'uomo intero, del-l'Anthropos, del Sé.In questo modo, le altre religioni, anziché esserecondannate come false, vengono atteggiate a figura,anticipazione, presentimento della propria. Senonchéuna simile conclusione riposa su di un procedimentoaffatto arbitrario, il cosiddetto metodo comparativo,che pretende di istituire analogie e parallelismi fraelementi di fedi diverse, presi isolatamente estaccati dall'unità organica in cui sono immessi.Gli elementi particolari di ogni religione hanno illoro significato solo in relazione agli altri tutti cheformano l'insieme cui appartengono e mercé il po-sto che vi occupano, e presi separatamente nonhanno più senso alcuno, il senso essendo dato dallarelazione, cioè dalla totalità. « Ogni religione è in sestessa un sistema, in cui ciascun elemento occupauna posizione determinata, che non può esserediversa da quella che è, rispetto ai rimanenti, enessuno dei quali esiste anche fuori di lei. L'errore èdi considerare una particolare idea separatamentedalle altre e di perdere di vista l'intero. Uno o piùelementi, separati dalla totalità di cui fanno parte,possono riscontrarsi apparentemente identici nellepiù lontane religioni, ma tutti i raffronti compiuti suquesta base sono illusori perché, riguardatinell'organismo cui appartengono, quegli elementistanno in un ordine che non si ritrova innessun'altra fede. Essendo ognuno di essi infunzione degli altri, ed essendo la loro realtà e il lorosignificato completamente determinati dalle relazioniin cui sono immessi, basta che due religioni mostrinoanche un solo elemento diverso perché siano deltutto differenti » (14). « Se le religioni si potesserorisolvere nei loro ele-

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menti costitutivi senza annullarle e senza mutarel'organismo vivente in un cadavere, si osserverebbeche questi elementi compaiono dovunque tutti, eche le religioni sono perfettamente uguali. Ma nellereligioni cosi come esistono, e non come si dissol-vono con l'astrazione, le varie cose sono differen-temente disposte di fronte a Dio e perciò sono di-verse nel loro valore e nel loro significato. In ognireligione c'è posto per quanto per l'universo sì squa-derna, ma in ognuna in una particolarissima relazio-ne con l'Altissimo, che non si ritrova in nessun'al-tra » (15).La verità che intendiamo far valere contro il metodocomparativo è che è impossibile istituire paragoni oconfronti fra le religioni, poiché le religioni sonoindividualità assolute, cioè realtà a sé stanti, senzaalcuna relazione fra loro. Pertanto, anche la nozione diinconscio collettivo, la cui validità riposa sullapossibilità di istituire confronti e di ritrovare analogìe,che poi vengono tacitamente accolte come identità,fra i motivi delle diverse fedi, si rivela priva di ognifondamento, come già si era detto, ove la si vogliafar valere come nozione scientifica.

Il significato dell'interpretazione allegorica delle re-ligioni.

Se dunque l'assoluta alterità delle religioni dev'es-sere tenuta per ferma e la loro diversità riconosciutairriducibile, in che modo può essere ancora ritenutaconcepibile o giustificabile la posizione di Jung cheatteggia le religioni del passato ad anticipazioni del-la propria, e i loro dei ad allegorie del Sé? Ebbene,la considerazione con cui abbiamo cercato dimostrare come sia insostenibile sul piano speculativoogni tentativo di porre le religioni in una qualunquerelazione fra loro, ha il solo scopo di renderemanifesto ciò che tali tentativi non sono. Essi nonsono dottrine speculative, teorie intorno alla reli-gione, perché come tali sono insostenibili.

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la religione, op. cìt., pp.495-96.

(15) Cfr. B. Minozzi, ibi-dem, pp. 505-6.

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(16) Cfr. B. Minozzi, ibi-dem, pp. 852-53.

(17) Cfr. B. Minozzi, ibi-dem, p. S31.

Se invece, poiché un senso devono pur averlo, li siriguarda come manifestazioni religiose, vita religiosa inatto; non riflessioni sulla religione, ma opera direligione, allora li si accoglie nella loro genuinafisionomia, e come tali essi sono pienamente con-cepibili e giustificabili.Interpretare allegoricamente le altre religioni signifi-ca: in primo luogo privarle di realtà e verità, col di-chiarare che i loro contenuti non erano quali veni-vano consaputi in esse; in secondo luogo atteggiarlecome preannunci della vera fede, sotto veli, anzicome elementi propri di questa, che è universale,l'unica religione esistente, in cui tutte le rimanentientrano in quanto sono davvero religioni (16). Ora,questa negazione religiosa delle altre fedi è propriadi ogni religione: « ogni religione, per affermare sestessa, deve negare tutte le restanti; e questanegazione essa la compie atteggiando i loro oggetticome simbolici, cioè come irreali » (17).Che di negazione religiosa si tratti, e non di altro,non di una operazione ' scientificamente ' fondata,come si è soliti credere, appare chiaro sol che sirifletta che il contrasto non può aver luogo altro chetra termini omogenei, e se la religione è in questocaso oggetto di negazione, religioso deve essereanche il punto di vista da cui la negazione vieneoperata.E, si badi bene, la negazione compiuta mediantel'allegorismo, è totale, proprio nella misura in cui lealtre fedi vengono accolte come parzialmente vere.A ben guardare, infatti, la verità è compiuta e per-fetta solo nella religione dell'individualità: le altresono solo parzialmente vere, e ciò che hanno dispecifico e di irriducibile alla dottrina dell'individua-lità, proprio perché diverso da quell'unica verità,non può che esser falso.Pertanto ogni diversa religione, per ciò che è vera,non è altra ma identica alla fede junghiana; per ciòche è diversa, è falsa, è soluzione « collettiva » alproblema religioso (vedi il caso delle « fedi eccle-siastiche ») Un radicale rifiuto di tutte le altre fedi

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è dunque perentorio in Jung, sotto la superficie diun atteggiamento accattivante. La ragione di taleatteggiamento non è difficile da intendere, ove sirifletta che ogni nuova religione, per facilitarsi ilcompito della penetrazione degli animi, ha semprepreferito presentarsi come continuazione ecompimento delle precedenti, anziché comesovvertimento di ogni precedente credenza.Analogamente non deve stupire che le più appas-sionate professioni di fede scientifica, di empirismo,siano pronunciate da Jung proprio là dove il suodiscorso ha più trasparenti implicazioni religiose.Basterà ricordare che la più diffusa delle fedi mo-derne, l'illuminismo borghese, ha fatto della « scien-za » la propria arma ideologica, e di essa si serveper debellare ogni altra fede che non si presentisotto una veste che possa dirsi «scientifica».

Che il rifiuto delle altre fedi sia totale, al di là diogni superficiale apparenza, diventa palese quandosi passi a considerare il rapporto in cui l'umanesimojunghiano si pone con le fedi umanistiche moderne.Una medesima condanna accomuna l'umanesimoborghese e quello marxista. Entrambi esaltano lospirito scientifico e razionalista, con la sua tendenzaal livellamento statistico; entrambi propongono al-l'uomo scopi collettivi e materialistici; entrambi di-fettano dell'unica cosa che conti « di una idea cheponga il singolo essere umano al centro del mondo,come misura di tutte le cose ». Tutte le fedi mo-derne hanno l'imperdonabile torto di proporre uto-pistici paradisi all'uomo-massa, e di ignorare che lasalvezza del mondo consiste nella salvezza dellasingola anima, e che il più urgente problema, pro-prio in vista dei fenomeni di massa di oggigiorno, èla metamorfosi dell'uomo interiore (18). Le fediumanistiche vengono cosi rappresentate come lanegazione dell'individualità, e dunque negate nell'attostesso in cui questa viene affermata. Nulla di ciòche effettivamente appartiene a quelle fedi

(18) Cfr. C. G. Jung, Theundiscovered Self (Pre -sent and Future) (1957),CW. X, pp. 245-305, pas-sim; tr. it. «Presente eFuturo», in: Realtà del -

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l 'anima, op. cit, pp. 194-262.

19) Cfr. B. Minozzi, op.cit., p. 523.

viene consaputo o esaminato: ciò che viene respin-to, e si dice appartenga ad esse, in realtà è soltantociò che la individualità non è, il suo opposto ne-gativo.La negazione delle altre fedi è, dunque, in realtà unaffermare ciò che l'individualità non è: un definirlanella sua opposizione col non essere. Non un atto,dunque, che ha luogo tra termini tutti reali, tra va-rie credenze, ma un atto interno a quella singolacredenza, tra ciò che essa è e ciò che esclude diessere e che non ha realtà fuori di questa esclu-sione.Sia che respinga in toto, sia che in apparenza ac-colga parti di altre religioni, una religione non escemai di se stessa e ciò che afferma ha realtà soloall'interno di se medesima: « qualsiasi cosa nell'am-bito di una particolare religione si pensi delle altre,è un elemento di quella religione; di qualunque cosauna religione parli, essa parla sempre soltanto di sestessa » (19).Ciò porta a concludere che tutta l'immensa mole dilavoro che Jung sembra offrire come riflessione sul-le religioni, è in realtà opera di religione, pensieroreligioso in atto. In esso non si troverà nulla di de-terminato che riguardi quelle religioni e ne carat-terizzi i'essenza, ma solo i modi in cui l'umanesimojunghiano, dal proprio punto di vista e per proprioconto, ha atteggiato tutte le altre fedi e si è raffigu-rato le credenze diverse da se medesimo: senzache peraltro ciò abbia alcun contatto con i loro realicontenuti. Ogni religione, come sappiamo, è una in-dividualità assoluta, cui è possibile avvicinarsi solocome suoi fedeli; da un'altra religione non è conces-so ad alcuno neppure di scorgerla; qualunque cosavenga detto di ogni religione, da un punto di vistadiverso dal suo, neppure la tocca.

Psicologia e religione.

Prenderemo ora in considerazione le argomentazio-ni che Jung dedica all'essenza della religione, muo-vendo dai rapporti di religione e psicologia.

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lo non mi occupo, egli afferma, delle potenze divi-ne; in quanto scienziato che si occupa di dati em-pirici, io non sono in grado di affermare né che esseesistono, né che non esistono. Affermazioni di que-sto genere esorbitano la sfera di quella scienza em-pirica che è la psicologia, lo mi limito a ciò che direligioso è contenuto nella psiche. A questo mi at-tengo e non pretendo di occuparmi d'altro. Ora,nella psiche, nella psiche inconscia, sono contenuticerti « fattori dinamici » che, proiettati nell'esterio-rità, vengono riconosciuti come 'potenza': spiriti,dei, demoni, ideali, e perciò tenuti in « conside-razione e osservanza scrupolosa », ovvero « devota-mente adorati ed amati ». Tale atteggiamento, pe-culiare della mente umana, è ciò che chiamiamo« religione ». Del resto « religio », nell'uso latino ori-ginario, significa appunto « osservanza accurata escrupolosa » (20).Va innanzi tutto osservato che la posizione, inizial-mente agnostica, circa l'esistenza « oggettiva » dellepotenze divine, è poi di fatto superata dall'affer-mazione che dei e demoni traggono la loro originedalle profondità della psiche inconscia e che la loroesistenza extra-psichica è soltanto il prodotto delmeccanismo psichico della « proiezione ». Dunque,è illusoria. Per una realtà oggettiva, non psichica,della divinità, non c'è spazio. L'affermazione diJung: « Una dottrina degli dei che non sia psico-logica è impossibile da sostenere» (21), toglie in-fine ogni dubbio circa le sue effettive convinzionia riguardo della natura delle potenze divine.Ammesso, dunque, che le potenze divine siano con-tenuti della psiche, ci si domanda perché alcuni diquesti contenuti siano fatti oggetto di adorazione,a differenza di tutti gli altri, e quale sia il principiodella distinzione degli uni dagli altri.La risposta, che i contenuti « religiosi » si distin-guono per il loro carattere « numinoso » non risolvela questione, perché il « numinoso » — come af-ferma Jung — è « essenza o energia dinamica », eciò non vale a distinguere un contenuto psichico

(20) C. G. Jung, Psycho-logy and Religion (1937),CW. XI, pp. 5-8; tr. it. Psi-cologia e Religione, Mila-no, 1962, (2a ed.) pp. 7-11.

(21) Cfr. ibidem, CW. XI,p. 85; tr. it. p. 128.

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da un altro. Tutti i contenuti psichici sono infatti de-terminazioni della energia dinamica, essendo « ener-gia dinamica » una pura variante verbale di « ener-gia psichica ». Se poi si vuole intendere che il con-tenuto numinoso ha una particolare intensità ener-getica, si deve rispondere che la differenza che quiimporta non è di grado ma di essenza, non è quan-titativa ma qualitativa, e perciò una semplice diffe-renza di intensità non risolve il problema. Se,dunque, le potenze divine sono fattori psichici, èper principio impossibile dare ragione del perchéalcuni siano riguardati come il bene supremo e laragione del vivere, cioè divini, a differenza di tutti glialtri, dato che nessuna differenza essenziale di-stingue i contenuti psichici fra loro. Ciò importaconcludere che la dottrina junghiana dell'originepsicologica degli dei, se riguardata come una dottrinasulla essenza della religione, è insussistente,perché, non essendo in grado di definire, ma solodi presupporre, il proprio oggetto, è affatto priva dicontenuto.Con ciò intendiamo semplicemente affermare ciòche tale dottrina non è, onde poter procedere a con-siderare il suo vero significato, ciò che essa positi-vamente è.Noi sosteniamo che essa è la negazione che Jung,in quanto sostenitore di una religione che ha il suocentro nell'uomo, compie delle religioni della tra-scendenza; e la negazione consiste proprio nel ri-durre quest'ultime a proiezioni della psiche, cioè arealtà seconde, prive di una loro distinta e origi-naria realtà.Non dottrina speculativa sulla religione, dunque, manegazione religiosa, e perciò opera di religione, è ladottrina della natura psicologica delle religioni.Una volta ricondotta alla sfera della religione, cuiappartiene, tale dottrina si rivela nonché legittima,necessaria, com'è necessario che ogni religiones'affermi come l'unica verità esistente e neghi tuttele altre. Dobbiamo infine riconoscere che Jung hachiara-

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mente espresso anche il punto di vista del pensieroriflettente sulla religione, là dove ha affermato larigorosa distinzione di religione e psicologia: « Lapsicologia può considerare solo il fenomenoemozionale e simbolico di una religione, il che nonha niente a che fare con l'essenza della religionestessa, essenza che è impossibile cogliere per viapsicologica. Se ciò fosse possibile, la religione po-trebbe essere considerata una sezione della psico-logia » (22).

L'umanesimo junghiano, religione romantica.

La tesi che proponiamo è che l'umanesimo junghia-no appartiene alla cerchia delle fedi romantiche, dicui Nietzsche fu il massimo profeta. È delRomanticismo il riporre nell'individualità enell'assoluta originalità la mèta suprema dell'uomo;è del Romanticismo, nelle sue varie versioni, il con-cepire l'uomo — lo si chiami super-uomo, genio oeroe — come colui che sprezza i vincoli socialiconvenzionali, rifiuta nell'amore i nodi legali, fragilischermi umani all'impeto divino che lo agita; nonha altra misura che i suoi bisogni e la sua potenzadi appagarli; è un ribelle contro gli dei tradizionali,per l'ansia stessa di compendiare in sé tutto il di-vino; opera come la natura, senza estrinseci mo-delli, traendo i suoi prodotti da un fondo oscuro,inesplorato e inesplorabile, con nessun altro scopoche un incoercibile bisogno di manifestare ciò cheè nascosto.Romantico è l'impegno etico a diventare ciò che sìè, secondo la formula di Schleiermacher: « diven-tare sempre più ciò che sono, ecco il mio unicovolere » (23).Romantica è la stessa concezione di conscio e in-conscio, che si oppongono e si uniscono, l'uno cheesprime la oscura produttività della natura, l'altrola forza limitatrice della riflessione, e nella loro unio-ne danno vita a un processo. Romantica è laconcezione che il divenire naturale abbia il suoepilogo nell'uomo, e che questi a sua

(22) C. G. Jung, On thèrelation of Analytical Psy-chology to Poetry (1922),CW. XV, p. 65.

(23) Cfr. Monologen, in:Werke, IV, p. 449.

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(24) Cfr. J. W. Ritter, DiePhysik als Kunste (1806),in: Deutsche Literatur,Reihe Romantik, voi. Vp. 10.(25) Cfr. C. G. Carus, Psy-che (1846) citato in: Lei-brand, Medicina Romantica, trad. ital. 1939, p. 76.

(26) Cfr. G. H. Schubert,Symbolik des Traumes(1814), in Romantische Na-turphilosophie, ed. Ròssle.192.6.(27) Cfr. Gr. Treviranus,Die Zweickmassigkeit desorganischen Lebens, in:Romantische Naturphìloso-phie, op. cit., pp. 286segg.

volta sia un divenire, da forme più oscure ed invo-lute, verso una più ampia consapevolezza di sé. NelRitter si trova l'idea di un corso triadico della storiaumana, dall'incosciente armonia con la natura, alladisarmonia, all'armonia cosciente, con larappresentazione novalisiana dell'uomo come mes-sia della natura e della divinizzazione dell'uno edell'altra nel comune incontro: « Quando il mortaletende a ritornare alla natura che una volta ha la-sciato, è un dio che gli viene incontro e che lo ac-coglie in sé » (24).È del Carus l'affermazione che la chiave per cono-scere l'essenza della vita cosciente sta nella regionedello incosciente (25); dello Schubert la distinzionefra sogni comuni e sogni superiori, i quali ultimihanno un proprio linguaggio simbolico, la cui inter-pretazione ci schiude i penetrali della natura e dellavita (26); del Treviranus l'attribuzione di una azioneteleologia all'istinto, e la concezione di una logicadell'inconscio, caratterizzata da una infallibilità chemanca alla logica del pensiero riflesso (27). Ma èsoprattutto nella concezione del male e della polaritàimmanente all'uomo, che si rivela inequivocabilmentel'appartenenza dell'umanesimo junghia-no allacerchia delle fedi romantiche. In Jung, e neiRomantici in genere, lo spirito del male,Mefistofele, non è più soltanto il Beffardo, il Maligno,il Cinico, il Seduttore; è « l'emissario dello spiritodella Terra », nei cui regni l'uomo ha la sua naturalesfera d'esistenza; è il compagno (der Ge-fàhrte) chel'uomo si ritrova sempre accanto e di cui « non puòfare a meno », perché ha in lui una inalienabile partedi se stesso; è l'altra faccia di Dio. Ciò nondimeno,posto fra i due mondi — quello della natura, tuttogioia dei sensi e possesso del presente, e quellodello spirito, tutto proteso verso l'eterno — l'uomoromantico è rimasto sempre, come Faust nelcolloquio con Wagner durante la passeggiata delgiorno di Pasqua, « l'uomo dalle due anime », chesono eternamente legate l'una all'altra edeternamente divergono.

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Jung, per parte sua, ha talmente sofferto questa po-larità dell'anima romantica, come confessa nell'auto-biografia (28), che nella religiosa sottomissione alSé ha soprattutto ricercato la possibilità di com-porre quella opposizione in una sintesi. Ma nono-stante ribadisca continuamente che nell'individua-zione si realizza la « sintesi degli opposti », perchétutte le istanze naturali e istintive vengono legitti-mate come sante e il dissidio di spirito e natura ècomposto, Jung continua a raffigurarsi la vita se-condo l'individualità come un vivere crocifissi, « cioèsospesi fra gli opposti » (29).

Verità della religione junghiana.

Il principio dell'individualità è in assoluto inconfu-tabile, in quanto quel concetto non entra in con-traddizione con nulia. Ogni critica è per principioimpossibile e una volta riconosciuta la sua appar-tenenza al dominio della religione, cade ogni possi-bilità di giudicarlo, essendo esso il criterio unicodel giudizio, incomparabile con ogni altro. « Se uncerto contenuto viene assunto come divino manca,per principio, ogni elemento su cui far forza peroppugnarlo, poiché in esso è racchiusa ogni per-fezione, e fuori di esso non c'è nulla che gli si possacontrapporre » (30).In particolare, non potrà essere la scienza della na-tura a fornire il principio in base al quale muovereobiezione all'umanesimo junghiano, poiché tra fisicae religione non v'è interferenza ma l'una governauna sfera di oggetti indipendente dall'altra. Népotrà essere la filosofia ad avanzare critica aduna religione, in quanto è compito del pensiero ri -flettente riconoscere la verità di ogni posizione eintendere cosi la positività di tutto il reale.Neppure le rimanenti regioni della consapevolezza,l'arte, il diritto, presentano alcun lato per cui pos-sano essere polemiche verso la religione. Occorreperciò concludere che qualunque obiezione vengamossa all'umanesimo junghiano, questa

(28) Cfr. C. G. Jung, Ri-cordi, sogni, riflessioni, trit. cit, pp. 265-66.

(29) Cfr. C. G. Jung, Aion(1951), CW. IX/2, p. 69.

(30) Cfr. B. Minozzi, op.cit., p. 522.

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non potrà venire che da un'altra religione, ed es-sere quindi espressione di un conflitto religioso, nelqual caso è perfettamente legittima (« il tuo Dio nonè il mio »), anche se neppure sfiora la verità dellareligione che pretende di attaccare.

La diffusione della fede junghiana.

A Zurigo, a Londra, a Roma, a New York, la diffu-sione dell'umanesimo junghiano è avvenuta in unacon la diffusione della psicoterapia analitica. Anzi,è più esatto dire che il pensiero religioso junghianosi è diffuso ad opera di comunità che si dicono in-teressate agli aspetti clinici del pensiero del Mae-stro. Senonché, l'interferenza di pensiero religiosoe psichiatria si riflette in una dualità d'intenti inseno a quelle comunità, che è perdurante motivo diconflitti e scissioni. Le ragioni della conflittualitàvengono ricercate nella psicologia degli individui,nelle difficoltà di carattere, nella diversa fedeltà alpensiero del Maestro: ma tali spiegazioni fallisconoil segno, che dell'attenta e commistione di psichia-tria e religione si tratta, e non d'altro, ed è tale al-terità, nascosta nella commistione e mai esplicitata,la ragione della diversità di intenti. Infatti alcunisono soprattutto attratti dall'umanesimo junghiano esu quella linea si danno ad approfondire gli studidi carattere religioso, le mitologie più varie, e sesvolgono lavoro terapeutico vi portano più uno zelosacerdotale che una consapevolezza clinica; gli al-tri, invece, sono soprattutto interessati alla psicopa-tologia e alla psicoterapia, e a Jung chiedono sol-tanto lumi clinici, insoddisfatti della metodica freu-diana e della sua concezione dogmatica della ses-sualità.Ciò che finora non è mai venuto alla luce, è che afondamento della psichiatria junghiana, come d'ognipsichiatria « che voglia presentarsi come scienza »,vi è un principio etico-religioso, su cui si fonda ladistinzione di sanità e malattia, e che di esso nonsi può fare getto, con la pretesa di fare una psichia-

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tria « neutrale », magari « aperta » ad ibridi connubicon altre psichiatrie.Fintanto che non si sarà compiuta un'opera erme-neutica che ponga in chiaro i principi di carattereetico e religioso su cui riposano — al pari dellapsicologia analitica — la psicoanalisi e tutte le altrepsichiatrie, sarà impossibile anche solo intrapren-dere il tentativo di verificare quali aspetti di una me-todica cllnica possano essere comuni e quali ne-cessariamente divergere. Prima di tale chiarimentopreliminare è aperto solo il campo a confusi eclet-tismi o a dilanianti polemiche che apparentementevertono sulla clinica, in realtà sono conflitti ideolo-gici, guerre di religione, e come tali destinati a nonavere possibilità di soluzione alcuna, e a non farfare alcun passo in avanti alla psichiatria comescienza.

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Scienza e religionenellapsicologia analiticadi Carl Gustav JungJohn A. Sanford, San Diego

Dalla sua comparsa al volgere del secolo, la psico-logia del profondo ha cercato di improntarsi ad unadistaccata oggettività, analoga a quella delle scien-ze fisiche, ma, a dispetto di ciò, il sorgere del nuovomovimento è stato contraddistinto piuttosto da unaserie di manifestazioni che avevano un carattere« religioso ». Lo zelo, ad esempio, che SigmundFreud ispirava nei suoi seguaci, l'entusiasmo mis-sionaristico con cui si diffuse la psicoanalisi, il rap-porto maestro-discepolo che Freud intrattenne condiversi dei suoi seguaci, e l'istituzione di una « or-todossia»: tutto questo fa più pensare ad un movi-mento religioso che ad uno scientifico. Anche nellapsicologia analitica sono presenti questi aspettireligiosi. Le Associazioni di Psicologia Analitica, adesempio, rassomigliano più a delle associazionireligiose, che a dei gruppi scientifici. Si richiedeanche una specie di battesimo — l'analisi —come condizione per appartenervi, ed i membri sonodivisi in « profani » ed « iniziati », dove gli analistiufficialmente riconosciuti costituiscono una

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sorta di classe sacerdotale. A volte gli appartenential movimento della psicologia analitica si sentonodegli « eletti », e danno spesso l'impressione di ri-tenersi in possesso di una dottrina della salvazione.C'è poi l'atteggiamento nei confronti dello stessoJung, che appare riverito come profeta, oltre checome scienziato.Sarebbe facile, sulla base di questi elementi, criti-care la psicologia analitica, accusarla di essere unculto gnostico, mettere in luce, con finalità deri-sorie, il suo carattere non-scientifico. Questo atteg-giamento critico non è però giustificato, in quantoil carattere religioso, che è presente nella psico-logia analitica, a fianco a quello scientifico è deltutto legittimo. Ci sono alcuni fenomeni associatialla psicologia analitica che vengono abitualmenteconsiderati religiosi, e questo perché la psicologiaanalitica è religione oltre che scienza, in quantotratta un particolare campo della conoscenza. Que-sto particolare campo della conoscenza comprendela conoscenza della psiche, ed è affine alla cono-scenza rivelata, in quanto è aperto solo a coloroche hanno fatto diretta esperienza della psiche. Perquesto motivo è comprensibile, ed anche giustifica-bile che il movimento della psicologia analitica ab-bia il potere di evocare una specie di risposta reli-giosa nei suoi aderenti.Lo scopo del presente lavoro è quello di dare unarisposta al seguente quesito: La psicologia anali-tica è una scienza o una religione? La nostra inda-gine si rivolgerà quindi ad esaminare l'epistemolo-gia della psicologia analitica. In che modo la psico-logia analitica procede ad acquisire le sue cono-scenze? Che rapporto intercorre tra la sua meto-dica, ed il rigoroso modello scientifico? Le rispostea questi quesiti ci aiuteranno a comprendere dovefinisce l'aspetto scientifico della psicologia anali-tica, e dove inizia ii suo aspetto religioso.Il modello scientifico rigoroso del processo cono-scitivo è caratterizzato dall'oggettività, l'osservazio-ne, e la ragione. Idealmente, lo scienziato osserva

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la natura e registra i fenomeni. Egli si sforza di ri-manere il più possibile oggettivo, e di escludere ipropri processi soggettivi. Le emozioni non hannoposto nel lavoro dello scienziato. In una fase suc-cessiva, egli elabora delle ipotesi che tengano contodi tutti i dati conosciuti, e cerca di convalidare que-ste ipotesi con dei dati che le confermino. Ilmodello religioso della conoscenza è caratterizzatodalla cosìddetta « rivelazione ». L'idea centrale èche la conoscenza viene rivelata, trasmessa, ma-nifestata ad una persona in grado di riceverla. Lun-gi dall'essere un processo intellettuale, la conoscen-za rivelata si accompagna a manifestazioni emotivedi vario genere, e comporta abitualmente un'espe-rienza numinosa. Nel modello scientifico è l'osser-vatore che da inizio al processo conoscitivo: eglidecide di « scoprire » qualche aspetto della natura,le sue osservazioni mettono in luce dei fatti, ed ilsuo processo intellettuale culmina nella formulazio-ne di determinate ipotesi. Nel modello religioso, in-vece, l'iniziativa è presa da qualche essere divino,o da una realtà spirituale autonoma che « invia » laconoscenza, come una sorta di dono rivelato.

Tesi di questo lavoro è che il processo conoscitivoseguito dalla psicologia analitica comprenda alcuniaspetti derivati dal modello scientifico, ed altri de-rivati dal modello religioso. In molti aspetti la psico-logia analitica segue la metodologia delle scienze.Ma in altri importanti aspetti il processo conoscitivoche ha come oggetto la psiche presenta delle carat-teristiche tipicamente religiose. Più esattamentequesto avviene a livello dell'interazione, dell'inizia-tiva e del processo. Questo significa che: 1) coluiche osserva la psiche viene coinvolto emotivamentedall'oggetto del suo studio; il processo conoscitivoviene avviato non solo dalla mente conscia dell'os-servatore, ma anche dalla psiche stessa; 3) oltre aiprocessi intellettuali, esistono, nella coscienza del-l'osservatore, altri tipi di processi conoscitivi ugual-mente essenziali per la conoscenza della psiche.

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Inizieremo la nostra indagine con un breve riesamedell'epistemologia di C. G. Jung, quale si desumedai suoi lavori scientifici, e vedremo così quello cheè l'aspetto scientifico della psicologia analitica. Sot-toporremo, poi, ad una critica questa epistemologiae cercheremo di dimostrare l'esistenza, in essa, diquelle componenti tipicamente religiose che abbia-mo indicato precedentemente. Infine prenderemo inesame l'epistemologia « non ufficiale » di Jung, evedremo come in effetti Jung stesso capisse l'ina-deguatezza del modello scientifico puro, applicatoalla conoscenza della psiche.

Jung ha elaborato con cura la sua teoria della co-noscenza, e l'ha esposta esplicitamente in diverseoccasioni. Essendo, oltre che psicologo, un eccel-lente filosofo, ha anche sottoposto i suoi metodi adun attento esame critico. Jung ha ripetutamente af-fermato di seguire una metodologia strettamentescientifica, e di basare le sue conclusioni su espe-rienze di carattere empirico. « Sono un empirista »dichiara recisamente (1), e questa sua affermazio-ne è suffragata dai fatti che egli espone nei suoi li-bri a conferma delle sue tesi. Da questo punto divista sembrerebbe che l'epistemologia e la metodo-logia della psicologia analitica siano uguali a quelledi tutte le altre scienze; in esse ritroviamo infattil'osservazione dei fatti, la formulazione di ipotesivolte a spiegarli, e la verifica delle ipotesi in basealla loro capacità a spiegare esperienze ulteriori.Nella metodologia della psicologia analitica è as-sente solo il lavoro di laboratorio, ma questo si spie-ga con il carattere elusivo dei fatti che vengono os-servati: si tratta, infatti, di fatti psichici, ed è diffi-cile, se non addirittura impossibile, riprodurli in la-boratorio.Il carattere empirico della psicologia analitica confe-risce alle affermazioni di Jung l'impronta di una vo-luta cautela. Jung afferma spesso che nel campo del-la psicologia non esistono conclusioni definitive uffi-ciali. Tutte le nostre conoscenze, egli ammonisce, so-no solo delle ipotesi, e noi dobbiamo essere pronti

(1) C. G. Jung, Good andEvil in Analytical Psycho-logy, par. 874. C. W. Voi.10. Princeton, N. J. Prin-ceton University Press.

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(2) C. G. Jung, Su coseche si vedono in cielo.Bompiani, Milano 1960oag. 86.

Edward C. Whitmont"The Symbolic Quest.N.

C. G. Jung Founda-:n. 1969, pag. 32-33.

a modificarle, qualora insorgano dei fatti nuovi che lorichiedono. Jung dice che non dobbiamo considerareil linguaggio della psicologia analitica come un corpodi conoscenze definitive, vincolanti e conclusive, macome un linguaggio che si compone di tanti « comese ». Dobbiamo parlare della psiche « come se » fossecosì, ed evitare affermazioni assolutistiche: « Disicuro non c'è che la nostra profonda ignoranza chenon sa neppure se si sia accostata alla soluzione deigrandi enigmi, oppure no. Soltanto il « salto mortale »della fede — che dobbiamo lasciare a chi ne abbia ildono o la Grazia — conduce oltre il « ci pare come se». Ogni progresso apparente o reale dipendedall'apprendimento di fatti, ed il constatare fatti è no-toriamente uno dei compiti più difficili che lo spiritoumano possa porsi » (2).Edward C. Whitmont esprime lo stesso concetto, quan-do dice che la psicologia analitica da una descrizionedella psiche basata su una serie di « modelli mentali». Questi modelli mentali sono, secondo lui, analoghia quelli adoperati dai fisici. La psiche, infatti, al paridell'atomo, non può essere sottoposta ad un'os-servazione diretta. Tutto quello che possiamo fare ècostruirci nella nostra mente un modello mentale edapplicarlo ai fatti che sono prodotti dall'attività dellapsiche (o dell'atomo), e vedere se il modello mentalesi adatta ai fatti. Se questi modelli mentali si rivela-no utili, possiamo applicarli, ma non possiamo mai di-re che sono « veri », tutt'al più che sono « adeguati ».Infatti, non possiamo mai sapere con certezza ciòche è « al di fuori » della nostra coscienza, sia nelmondo fisico, che nel mondo interiore della psiche,ma per motivi pratici ed operativi, possiamo compor-tarci « come se » le nostre affermazioni sulla psichefossero vere (3).Queste affermazioni sui limiti della conoscenza uma-na sono convalidate dall'atteggiamento, tipicamentefenomenologico, di Jung. Ciò che l'uomo conosce di-rettamente, dice Jung, sono gli eventi o i dati presentinella sua coscienza. I « fatti » con cui l'uomo ha ache fare, sono, in ultima analisi, solo gli eventi pre-

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senti nel campo della sua coscienza. Questo pone unlimite ben preciso a ciò che possiamo aspettarci diconoscere del mondo che presumiamo esistere al difuori della nostra coscienza, come fonte delle nostreimpressioni. Sia che consideriamo le impressioni chearrivano alla nostra coscienza come provenienti daun mondo fisico, e recepite attraverso i sensi, o chele consideriamo provenienti da un mondo psichico erecepite attraverso un'intuizione o percezione imme-diate, non possiamo mai sperare di raggiungere unaconoscenza diretta di ciò che è al dì là della co-scienza. Solo la coscienza può essere conosciuta di-rettamente, mentre le altre dimensioni della realtàpossono essere conosciute solo fenomenologicamen-te. Essenzialmente, la concezione epistemologica diJung riposa sullo stesso dualismo di Kant, per cui l'e-sistenza di una realtà al di fuori della coscienza ri-mane solo un'ipotesi:« Siamo del tutto coscienti che noi non abbiamo unaconoscenza dei fenomeni inconsci superiore a quellache un fisico ha dei processi sottostanti i fenomeni fi-sici. Di ciò che c'è oltre il mondo fenomenico noi nonabbiamo assolutamente alcuna idea» (4). « (Noi)condividiamo il punto di vista fenomenologico dellapsicologia moderna... Si può lamentare questaincapacità della scienza; ma non per questo essasarà in grado di saltare oltre la propria ombra » (5).La condizione dell'uomo nei confronti di ciò che puòconoscere può essere raffigurata con l'immagine del-l'« uomo nella scatola ». È come se l'uomo fosse chiu-so nella propria coscienza come in una scatola, epotesse avere un accesso solo indiretto alla realtà cheè al di là della coscienza. Sia che si tratti del mondofisico, che noi concepiamo come esistente nello spa-zio, e con cui entriamo in contatto attraverso i nostrisensi, o del mondo della psiche, l'uomo ha un rapportosolo indiretto con qualsiasi realtà che non sia ilproprio stato di coscienza, e questo perché egli puòconoscere solo attraverso le percezioni che arrivanonella sua mente, ma non direttamente: « Egli (l'uo-mo) deve rendersi conto che è chiuso nella sua men-

(4) C. G. Jung, Spirit andNature. Eranos Yearbook,pag. 437.

(5) C. G. Jung, La Simbolica dello Spirito. Ei-naudi, Torino, 1959, pag.17-18.

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(6) C. G. Jung, TibetanBook of thè Greal Libera-tion. C. W. Il par. 765-6.

(7) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni. IlSaggiatore, Milano 1965,pag. 336.

18) Ibidem, pag. 330.

fé, e che non può evaderne, neanche nella follia ». Ilcriticismo epistemologico, aggiunse Jung, ha comerisultato:« L'isolamento dell'uomo nella propria mente... tuttociò che egli pensa, sente o percepisce è un'immagi-ne psichica, ed il mondo stesso esiste solo nella misu-ra in cui siamo in grado di produrre un'immagine diesso. Dobbiamo perciò parlare della nostra... prigio-nia, e della nostra limitazione ad opera della psi-che » (6).Coerentemente con l'impostazione kantiana della suaepistemologia, Jung afferma inoltre che la coscienzastruttura le impressioni che riceve dalla realtà fisicae psichica. La mente non è passiva, uno strumentopuramente ricettivo, (una « tabula rasa » come soste-neva Locke), ma è un apparato conoscitivo dai limitiben definiti, che struttura i dati dell'esperienza perpoterli assimilare.

Come dice Jung:« Noi siamo rigorosamente limitati dalla nostra strut-tura innata, e pertanto legati con tutto il nostro es-sere ed il nostro pensiero a questa nostra terra » (7).Come conseguenza, siamo chiusi nella nostra scato-la epistemologica:« Non mi sono mai liberato completamente dall'im-pressione che questa vita sia solo un frammento del-l'esistenza che si svolge in un universo tridimensiona-le, disposto a tale scopo » (8). Con questaimpostazione epistemologica era inevitabile che Jungrifiutasse ogni concetto tradizionale della metafisicae del sovrannaturale. Non esiste alcuna conoscenzametafisica o sovrannaturale, vale a dire un tipo diconoscenza che non sia mediata attraversol'esperienza. Jung si interessa alle speculazionimetafisiche soltanto per il loro significato psicologico,ma respinge la pretesa dei metafisici di essere capacidi raggiungere la conoscenza assoluta, o unaconoscenza di qualsiasi natura che vada oltre ciòche può essere conosciuto empiricamente. Ognuno èlibero, naturalmente, di fare tutte le speculazioni chevuole, ma non bisogna poi confondere queste con la

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scienza, che solo è in grado di fornire delle vere cono-scenze. Quello che la conoscenza metafisica ci diceconcerne la struttura innata, archetipica della mente.Dice Jung:« Non è compito della scienza trarre conclusioni chesuperino i confini della conoscenza empirica » (9).« La psicologia considera tutte le pretese e le asser-zioni metafisiche come dei fenomeni mentali, deigiudizi sulla mente e sulla sua struttura, che derivanoda certe disposizioni mentali inconsce. La psicologiaritiene pertanto che la mente non possa stabilire o as-serire niente che sia al di fuori di se stessa (10). Ognionesto pensatore deve riconoscere l'inconsistenza ditutte le asserzioni metafisiche, ed in particolare ditutti i credo. Egli dovrà anche riconoscere l'il-legittimità di tutte le affermazioni a carattere metafi-sico, e prendere coscienza del fatto che la menteumana non ha nessuna capacità di liberarsi dei suoilacci, e di raggiungere una qualsiasi conoscenzatrascendente» (11).Questo porta Jung a porre anche dei limiti ben defi-niti alla conoscenza che noi possiamo avere di Dio.Noi possiamo fare l'esperienza dell'immagine di Dionella psiche, — egli dice, — immagine che chiamia-mo il Sé, ma non possiamo andare al di là di questaesperienza, e fare delle generalizzazioni sulla naturadella realtà ultima dell'universo. Gerhard Adler ha e-spresso chiaramente questo concetto nel seguentebrano:« II fatto dell'esistenza nella psiche di un archetipo chel'uomo ha denominato « Dio », e la sua attuazioneattraverso l'azione della psiche conscia, rappresen-tano il limite al quale possono giungere le nostre af-fermazioni empiriche e psicologiche. A rigore tuttoquel che possiamo dire è che la religione è un'atti-vità fondamentale della psiche umana, e che esisteun'immagine archetipica della divinità incisa profon-damente e indistruttibilmente nella nostra psiche. Lapsicologia non può provare né l'esistenza né l'inesi-stenza di Dio; ciò che può provare, tuttavia, è l'esi-stenza di un'immagine archetipica di Dio: il « Sé »

(9) C. G. Jung, MysteriumConiunciionis. C. W. 14,par. 273.

(10) C. G. Jung, TibetanBook of The Great Libera-tion. C. W. Il, par. 760.

(11) Ibidem, par. 764.

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(12) Gerhard Adier, Psi-cologia Analitica. Borin-ghieri, Torino, 1972, pag.206.

...Tutto ciò che la psicologia può legittimamente fareè guardare dall'altro versante, accettando la possi-bilità che il « Dio dentro di noi » corrisponda ad unarealtà trascendente » (12).

Questo riassunto dell'epistemologia di Jung ci hadimostrato che essa corrisponde strettamente all'i-deale scientifico. Ma ci sono, ciò nonostante tre im-portanti campi, in cui la conoscenza della psiche vie-ne raggiunta secondo modi che si distaccano da unacorretta metodologia scientifica per avvicinarsi ad unamodalità tipicamente religiosa.

1) L'interazione: Quando la psiche diventa oggetto diosservazione, colui che osserva viene coinvolto emoti-vamente nel processo, perché la psiche (oggetto del-la sua indagine) interagisce con la sua coscienza inmodo tale che il processo conoscitivo assomiglia adun dialogo. È come se nel momeno in cui osserviamola psiche, noi fossimo « afferrati » e « stretti » da essa.Questa non è una condizione accidentale, ma neces-saria, perché solo in questo modo noi saremo in gra-do di vedere la psiche quale essa realmente è. Ciò ècontrario all'ideale scientifico che richiede da partedell'osservatore un atteggiamento strettamente og-gettivo, ed il suo impegno a studiare i fatti nel modopiù neutrale e distaccato possibile, e presenta inveceun'affinità con la modalità religiosa, della cono-scenza, per cui si dice che per conoscere una realtà,bisogna essere afferrati da essa. Si può logicamente,studiare il materiale psichico di seconda mano, erimanere relativamente distaccati. Si possonostudiare la mitologia, i casi clinici di persone che nonsi conoscono, le religioni comparate, ed adoperare iconcetti della psicologia analitica come ipotesiinterpretative, riuscendo a rimanere degli osservatorirelativamente neutrali. Ma le cose cambiano quandoè la propria psiche che si osserva, o anche la psiche diun'altra persona all'interno di un rapporto teraupetico,in cui compaiano degli elementi di transfert. In questicasi già l'atto di osservare i fenomeni psichici basta acambiarci, perché la psiche, per così

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dire, reagisce con la coscienza, e se ne impadronisce.E solo quando si è afferrati dalla psiche si può com-prendere il suo significato. Bisogna lasciarsi coinvol-gere dalla psiche per poterla vedere quale essa è real-mente. Bisogna avere « gli occhi aperti » per potercomprendere ciò che si vede. Per questo motivo, an-che chi vuole limitare il proprio interesse a del ma-teriale psichico relativamente impersonale, come lamitologia e le religioni comparate, deve, se vuole com-prendere in profondità quello che studia, lasciarsicoinvolgere dalla psiche. Questo spiega anche per-ché gli argomenti puramente intellettuali a difesa dellapsicologia analitica sortiscono così poco effetto. Seuno non ha fatto esperienza diretta della psiche, nes-sun ragionamento intellettuale lo convincerà. La psi-che deve essere sperimentata in questo modo, se lasi vuole conoscere, e questa esprienza ha un effettotrasformante sull'individuo.

2) L'iniziativa: nel modello scientifico ideale, la natura si disinteressa completamente di venire o menoconosciuta, ed è soltanto la coscienza dell'osservatore che prova il desiderio di acquisirne coscienza.La conoscenza viene considerata prerogativa esclusiva della coscienza. Ci sono invece motivi per credere che la stessa psiche dia inizio al processo conoscitivo, « prendendo » la coscienza, ed introducendoin essa quello che possiamo chiamare la sua « intenzione » di essere considerata e conosciuta. Non siamo solo noi che studiamo i sogni, ad esempio, sonoanche i sogni che « ci guardano ». Noi non decidiamo: « ora osserverò l'inconscio »; ma è piuttosto l'inconscio che produce una situazione tale, che la coscienza è costretta ad occuparsene.

3) II Processo: Infine, la conoscenza della psiche puòessere ottenuta solo con un atteggiamento che vadaoltre quello puramente intellettualistico. Se il nostroapproccio alla psiche rimane puramente intellettualeed oggettivo, non conosceremo niente della psiche.Per conoscere la psiche, bisogna essere « presi » daessa, e questo accade quando si genera in noi un

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(t3) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni, op.cit. pag. 244.

(14) Ibidem, pag. 244.

determinato atteggiamento emotivo, che è un prelu-dio necessario alla conoscenza. Questoatteggiamento emotivo è affine a quello che laBibbia chiama « fede ». La fede oggi è una parola chenon piace, perché la si identifica con un atteg-giamento non intellettuale, di cieca accettazione.Jung stesso intese la fede in questo senso, e ne par-lò in termini negativi, come un « sacrificium intellec-tus». Parlando di suo padre, che era pastore, egli scriveinfatti:« Voleva contentarsi della sua fede, ma questa lo tra-di. Questa è spesso la ricompensa del « sacrificiumintellectus» (13).

E continua, dando un'interpretazione erronea di unaaffermazione di Gesù:« Non tutti comprendono questa parola, ma quelli soloai quali è stato concesso... ci sono quelli che si sonofatti eunuchi da sé in vista del regno dei cieli. Chi èin grado di intendere, intenda». (Mt. 19,2 ss.).L'accettazione cieca non porta mai ad una soluzione;ma nel migliore dei casi ad una stasi e va a gra-vare sulla generazione seguente » (14). Gesù siriferisce alla necessità per alcune persone, disacrificare la sessualità fisica ai fini di raggiungerel'interiore unità degli opposti e non parla di un sacri-ficio dell'onestà intellettuale. Comprendiamo, natural-mente, quello che Jung vuole dire, e siamo d'accordocon lui che il sacrificio della curiosità e dell'onestàintellettuale porta ad uno sviluppo tronco, ma egliconfonde le cose quando identifica la fede, nel sen-so biblico del termine, con questa intellettualità moz-za, come fa spesso:« La fede... tende a mantenere in una condizione men-tale primitiva basata su elementi puramente sentimen-tali. Non intende rinunciare al rapporto primitivo, in-fantile con figure ipostatizzate che sono una creazio-ne della mente; vuole continuare a godere della sicu-rezza e della fiducia che si accompagnano all'im-magine di un mondo governato da genitori potenti,responsabili e benevoli... La fede, inoltre, entra in

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contrasto con la scienza, ed ha ciò che si merita, per-ché rifiuta di partecipare all'avventura spirituale dellanostra epoca » (15).L'interpretazione che la Bibbia da del concetto difede è completamente differente da un sacrificiumintellectus. La fede è uno stato di coscienza cheemerge dalla relazione con una realtà numinosa,divina. Se la vostra coscienza è stata presa da Dio,allora voi avete la fede; solo allora potrete conoscereprofondamente il vostro cuore e agire di conseguen-za, anche se questa conoscenza non è scaturita daun processo intellettuale.Gli esempi di questo tipo di fede sono numerosi, mail primo che viene alla mente è quello di Abramo. Ildodicesimo capitolo della Genesi ci dice che Jahvé« apparve » ad Abramo, cioè egli venne « preso » dauna esperienza numinosa. Fidando in essa, egli ab-bandonò la sua terra natale, ed intraprese un viaggiopericoloso in un paese completamente sconosciuto.Egli agf come gli dettò la sua fede, una fede che siapprofondf e si accrebbe nel corso di ulteriori espe-rienze che Abramo ebbe di questo fattore numinoso,che gli si manifestò in sogni, visioni, e in voci inte-rrori. (Si veda particolarmente Gen. 15 e 22). NelNuovo Testamento un esempio significativo si trovanella Lettera agli Ebrei: « La fede è... convincimentodi cose che non si vedono » (Eb. 2,1). In altre parole, lafede riposa su di un tipo di conoscenza che deriva daun'esperienza di realtà psichiche (« che non sivedono »), un'esperienza dotata di una tale numinositàda risultare immediatamente convincente. E' mioconvincimento che la « fede » intesa in questo senso èuna condizione necessaria per la conoscenza dellapsiche. La fede è un atteggiamento emotivo chepredomina nella nostra coscienza quando ci siscontra con la numinosità della psiche. Ciò non pre-clude l'attività intellettuale, ma la mette in secondopiano. La fede è la base per la conoscenza della psi-che perché permette alla mente di ricevere impres-sioni psichiche ad un livello che non è aperto ad unatteggiamento puramente intellettuale.

(15) C. G. Jung, TibetanBook of thè Great Libe-ration. Op. cit., par. 763.

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Ma se le cose stanno così, allora l'ideale scientificodell'osservatore intellettuale, oggettivo e distaccatonon si può più applicare ad una persona che vogliaacquisire conoscenza della psiche. Il processo cono-scitivo della psicologia analitica deve essere conside-rato come un processo « appassionato », nel sensoche coinvolge il cuore o il sentimento oltre che l'intel-letto. Il suo modello conoscitivo non è quindi il po-sitivismo logico di Ayer, né il razionalismo di Aristo-tele, ma piuttosto l'epistemologia erotica di Piatone,per cui l'intervento del dio Eros era necessario, sesi voleva acquisire conoscenza delle più alte realtàarchetipiche. La conoscenza della psiche, è in effetti,in ultima analisi, una conoscenza iniziatica, una sortadi gnosi interiore, e partecipa così dei caratteri diuna rivelazione.La situazione nei confronti della conoscenza dellapsiche è ancora più grave della situazione del fisicoche intende studiare l'atomo. E' sconcertante per ilfisico scoprire che la condizione dell'atomo viene al-terata nel momento in cui egli interviene con la suaosservazione. Egli non può quindi studiare l'atomonella sua condizione pura, naturale, perché la suaosservazione modifica la condizione di quello che èl'oggetto del suo studio. Ma ancora più grave è lacondizione di chi si propone di conoscere la psiche,perché qui è la condizione dell'osservatore che vienealterata, quando avviene l'incontro tra l'osservatoree l'oggetto delle sue osservazioni (la psiche). Ci siimmagini un po' in che condizione si troverebbe ilfisico se scoprisse che l'atomo che sta osservandolo stia influenzando, abbia afferrato la sua mente edalterato il suo stato di coscienza proprio in coinciden-za col suo atto di osservarlo, e che questa sia l'unicastrada che gli si apra per poter penetrare nei se-greti dell'atomo. Eppure è proprio qualcosa dei ge-nere che accade quando si vuole conoscere la psiche.La particolare, personale interazione tra la menteconscia e la psiche, la risposta emotiva alla psichesono una condizione imprescindibile per la cono-scenza della stessa. Il fatto che sia la psiche a pren-

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dere l'iniziativa nell'avviare il processo conoscitivoconferisce alla conoscenza della psicologia analiticaun carattere religioso. Ma la psicologia analitica ap-plica la metodologia scientifica, quando prende inesame i fenomeni osservati: essa è quindi al tempostesso religiosa (nel senso più ampio del termine) escientifica.Entrambi questi aspetti della psicologia analitica de-vono essere riconosciuti e valutati. Se la psicologiaanalitica perde il suo carattere scientifico, correrà ilrischio di smarrirsi nel culto, o di soccombere al-l'occulto. Vi è un grande pericolo che Jung venga« usato » male da qualcuno che voglia fare un'espe-rienza con la realtà spirituale, ma non voglia poi ri-flettere sulla propria esperienza e quindi integrarla.Le persone di questo tipo si buttano a capofitto inesperienze con l'inconscio, ricorrendo spesso allastimolazione delle droghe, ma essi dimenticano cheJung non era più favorevole « all'amputazione dellatesta di quanto non lo fosse all'amputazione degliistinti » (16). Ignorando la necessità di un atteggia-mento scientifico nell'approccio e nell'integrazionedell'inconscio, molti hanno perso la loro strada, edhanno raggiunto una conoscenza ben poco fruttuosa.D'altra parte anche gli aspetti religiosi della psico-logia analitica devono essere presi in considerazio-ne. Bisogna ricordare sempre che la conoscenza del-la psiche è una rivelazione oltre che un'osservazione.Se non le si riconoscerà questo carattere religioso,la psicologia analitica diventerà sterile, pedante enoiosa, e non acquisirà nessuna nuova conoscenza.La psicologia analitica non riuscirà allora a rispon-dere ai bisogni più profondi dell'anima umana. Neltentativo di rimanere puramente scientifica, di evitareogni critica o censura da parte delle scienze fisiche,con il loro scientismo, la psicologia analitica potrebbefallire in quella che è la sua missione più vera: ilportare la salvezza all'anima ed allo spirito dell'uomo.Fino a questo momento, in questo lavoro ho indagatoe riassunto quella che può essere definita l'episte-mologia « ufficiale » di C. G. Jung e della psicologia

(16) Sono debitore di que-sta frase a James Yan-delk, M. D. di Berkeley,California.

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(17) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni. Op.cit., pag. 230.

18) E. C. Witmont, TheSymbolic Quest, op. cit.,oag. 34.

19) Ibidem, pag. 257.

analitica. Ma a fianco a questa esiste anche una sortadi epistemologia non ufficiale, e la nostra indaginenon sarà completa fin quando non avremo esaminatoe discusso anche questa. I concetti che ho espostoprecedentemente appaiono riconosciuti in una certamisura dall'epistemologia non ufficiale, perché 1)essa riconosce l'intervento di un fattore soggettivonel processo di conoscenza della psiche, e 2) che lapsiche da inizio al processo conoscitivo.

Jung scrive, ad esempio:« La psicologia analitica è fondamentalmente unascienza naturale, ma soggetta ai personali pregiudizidel ricercatore più di qualunque altra scienza. Per-ciò quanto più lo psicologo si fonda su paralleli stori-ci e letterari, tanto meno corre il rischio di com-mettere errori grossolani nei suoi giudizi » (17).Purtroppo Jung non chiarisce quali siano questi pre-giudizi personali dell'osservatore della psiche, masembra suggerire che intervengono dei fattori chepossono fuorviare l'osservatore, se egli non prende ledebite precauzioni. Forse quello che Jung aveva inmente è quanto viene esplicitato da Edward C. Wit-mont, il quale parla dell'« approccio simbolico » del-l'inconscio alla coscienza, mirante alla « formazionedel mitologema », e dice che questo porta ad un tipodi conoscenza, non attraverso l'intelletto, ma attra-verso l'effetto dell'immagine sul sentimento e sull'in-tuizione, rendendosi mediatori quindi, di un altro, eforse più profondo tipo di conoscenza rispetto aquella intellettuale » (18).

Ancora più chiaramente scrive poi:« Ma c'è un tipo di conoscenza che non può esserelasciata in disparte. E il conoscere inteso nel suo si-gnificato originario (come nella fraseologia biblica,ad esempio), dove il conoscere significa penetrare,sperimentare ed amare » (19). Anche Jung notò che ilprocesso con cui si arriva alla conoscenza è ineffetti più complesso di quanto non sia previsto nelmodello scientifico rigoroso. Egli arrivò a ipotizzareche nell'inconscio ci sia già una

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specie di conoscenza pre-esistente, si potrebbe an-che dire che l'inconscio già « sappia », e che il pro-cesso conoscitivo consista nell'acquisizione, da par-te della coscienza di quella « conoscenza » già esi-stente nell'inconscio:

« E' vero che nella natura pare che vi sia disponibileuna conoscenza illimitata, ma in realtà questa puòessere compresa dalla coscienza solo in circostanzedi tempo opportune. Il processo, presumibilmente èanalogo a quello che si verifica nell'anima individua-le: un uomo può portare con sé per molti anni unindizio di qualche cosa, ma riesce a comprenderlacon chiarezza solo ad un certo momento della suavita» (20).Questa concezione della conoscenza risente ancorauna volta dell'influsso platonico; la conoscenza vieneconcepita come « già data », ed il processo cono-scitivo si verifica quando la coscienza si « imbatte »in questa conoscenza, o ne ha la rivelazione in uninsight. La trasmissione della conoscenza dall'incon-scio al conscio è una delle funzioni dei miti. Diceinfatti Jung:« II mito è lo stadio intermedio inevitabile e indispen-sabile tra l'inconscio e la conoscenza cosciente. Cer-to l'inconscio ne sa molto di più della coscienza, masi tratta della conoscenza di una specie particolare,di una conoscenza dell'eternità, per lo più senza rife-rimento al « qui » e all'« ora », senza riguardo al lin-guaggio dell'intelletto » (21).L'ipotesi veramente interessante che Jung fa qui nonè quella relativa alla funzione del mito, ma è l'ideache è l'inconscio che prende l'iniziativa nel processoconoscitivo. E' come se l'inconscio pungolasse, sti-molasse, blandisse o seducesse l'Io spingendoloverso la conoscenza. Siamo molto lontani dal rigidomodello aristotelico, in cui è solo la coscienza che siinteressa alla conoscenza, e conserva sempre uncarattere neutrale. In diverse occasioni, Jung diceche i sui più importanti insight gli vennero per ini-ziativa dell'inconscio. Nella sua autobiografia, ad

(20) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni, op.cit., pag. 344.

(21) Ibidem, pag. 348.

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(22) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni, op.cit., pag. 200.

(23) C. G. Jung, Ricordi,Sogni e Riflessioni, op.cit., pag. 337.

esempio, egli racconta un sogno in cui vide degliuomini morti da lungo tempo che ritornavano in vitae dice che fu questa esperienza a dargli l'intuizionedegli archetipi. Secondo lui, il sogno fu provocatodeliberatamente dall'inconscio per far giungere allacoscienza l'intuizione sugli archetipi (22). Jung è cosfconvinto dell'idea della conoscenza immagazzinatanell'inconscio, che ha elaborato quella che potrebbeessere chiamata la « teoria degli indizi ».L'inconscio è pieno di indizi su cose che non sonoancora note alla coscienza, ed offre questi indizi allacoscienza, come se sperasse che la coscienza liseguirà, ed acquisirà in tal modo delle nuove cono-scenze. Questi indizi, secondo Jung, sono special-mente utili quando riguardano argomenti che sono aldi là del campo abituale di esperienza, come peresempio, il problema della vita dopo la morte. DiceJung:« La mia ipotesi è che possiamo farlo con l'aiuto diindizi che ci vengono dall'inconscio, per esempio neisogni. Di solito respingiamo questi indizi perché sia-mo convinti che il problema non sia suscettibile disoluzione. Replicando a questo comprensibile scetti-cismo, propongo le seguenti considerazioni. Se c'èqualcosa che non possiamo conoscere, necessaria-mente non dobbiamo più considerarlo come un pro-blema intellettuale. Per esempio, io non so per qualeragione l'universo abbia cominciato ad esistere, e nonlo saprò mai; perciò devo mettere da parte il pro-blema, come problema scientifico o intellettuale. Mase mi si offre un'intuizione di esso — nei sogni, o nelletradizioni mitiche — devo tenerne conto. Devo ancheosare di edificare una concezione sulla base di questiindizi, anche se, beninteso, rimarrà sempre ipotetica,e se so che non potrà mai essere avvalorata daprove » (23).

Tutta la conoscenza proviene dali'esperienza. Ma al-cune esperienze sono il risultato dell'intrusione dellapsiche nella coscienza. Queste esperienze « stringo-no » o afferrano la mente cosciente, alterano la suacondizione, e producono un atteggiamento emotivo

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affine alla fede biblica. Il limite del modello episte-mologico scientifico è di non lasciar spazio a espe-rienze di questo tipo. La psicologia analitica, se dauna parte si serve del pensiero scientifico e critico,dall'altra dipende necessariamente dai tipo di espe-rienze che sono avviate dalla psiche, per i fenomenisu cui si basa la sua conoscenza. E' questo che con-ferisce un carattere religioso alla psicologia analitica,e ne fa la custode di un particolare corpo di cono-scenze o di rivelazioni, nella misura in cui i fenomeniin questione non sono alla portata di tutti, ma solodi coloro che sono « iniziati ». Questa non è una defi-cienza della psicologìa analitica, ma semplicementeil riflesso di un fatto: e cioè che in ultima analisi solocoloro che sono stati iniziati ai misteri della psichesono in grado di conoscerla.

(Trad. di SIMONETTA ADAMO)

* Tratto da: Kirsch H. (a cura di), The well-tended tree. G. P.Putnam's Sons, New York 1971.

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Vita interiore:l'inconscio comeesperienza*James Hillman, Zurigo

II terreno che analisi e teologia hanno in comune èl'anima. Ma questa è piuttosto un « non terreno »,dato che né la teologia né la psicoterapia dinamicane fanno il loro principale interesse. Mentre laprima studia Dio e i suoi disegni e la secondal'uomo e i suoi stimoli, il punto di contatto fra i dueè troppo spesso lasciato intoccato. Questo vuoto,che dovrebbe essere per tradizione il luogod'incontro fra Dio e uomo, è diventato il paese dinessuno ove si misurano ecclesiastici e analisti.

Ecco poi apparire le prime nubi semantiche: i termini« uomo », « anima », « Dio », vengono usati dagli psi-cologi in modo estremamente primitivo, senza l'im-menso apparato critico di cui teologi di profondaformazione possono valersi come sostegno. Parlandodell'incontro Dio-Uomo nell'anima, intendo riferirmiall'immagine di Dio che da la psiche, il Dio-immagineconosciuto, sperimentato, sentito, intuito,

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percepito, rappresentato, formulato dall'uomo co-mune.Questo Dio è prima un'esperienza, poi un concetto.Questa immagine o esperienza non è né unica nécostante.Infatti mentre subisce variazioni durante la vita delsingolo uomo, allo stesso tempo cambia in modoestremamente ampio e vario da individuo a individuo.La molteplicità dell'esperienza del divino può portarea confronti psicologici che a loro volta causano asser-zioni di ordine teologico secondo cui alcune immagi-ni sono veritiere, mentre altre sono distorte. Talvoltal'esperienza è assente, talvolta è un'astrazioneconcettuale, talvolta infine il divino è sostituito daimmagini ed esperienze che normalmente non sonoritenute sacre.Spesso, (fatto di interesse teoretico non trascurabile)l'immagine e l'esperienza di Dio sono tanto più di-storte e trasposte, quanto più una persona è psico-logicamente turbata.Per tali ragioni, tanto l'esperienza quanto l'immaginedi Dio continuano a manifestarsi allo psicologo, all'in-terno dell'anima e attraverso di essa senza alcun li-mite, al di là dei confini di qualunque dogma. Imma-gini ed esperienze siffatte sono la rappresentazionecollettiva di noi tutti nella società. C'è un Dio che nonpiace al Vescovo di Wooiwich (John Robinson) quelloche se ne sta assiso lassù in cielo, una sorta di BabboNatale da bambini, vecchio Dharma Dad su di unanuvola, minacciato da rombi supersonici e da uominiche camminano nello spazio racchiusi in armaturescintillanti.

Stranamente l'anima è un'esperienza e un'immaginepiù difficile da chiarire. Come termine è completa-mente scomparso dalla psicologia contemporanea; haun alone di antichità che riecheggia voci di conta-dini sulle lande celtiche oppure che reincarna i teo-sofi. Forse è ancora mantenuto in vita alla stregua dìun organo residuale, da qualche prete di paese odai dibattiti di seminario della filosofia patristica. Ma

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(1) James Hillman, II sui-cidio e l'anima. Astrola -bio, Roma 1972.

2) Ibidem, pag. 35, 37,38.

a stento ancora si trova nelle canzoni popolari: chiancora si strugge con « anima e cuore? » chi mai« mette tutta la sua anima >> in qualcosa? chi è laragazza « con l'anima negli occhi? » chi l'uomo con« un'anima grande cosi? » chi dice di una donna cheè « un'anima buona? ».« Anima » è rimasta l'ultima parola di cinque lettereconsiderata innominabile dalla gente « in ». Nel mio« II suicidio e l'anima », si trova un chiarimento piùampio di ciò che io intendo per anima. Come orienta-mento può servire ribadire un paio di concetti:

« La prima cosa che il paziente vuole dall'analista èdi renderlo consapevole della sua sofferenza e di at-tirarlo nel suo mondo d'esperienza. Esperienza e sof-ferenza sono termini strettamente associati con ani-ma. « Anima » tuttavia, non è un termine scientifico,e compare molto raramente nell'attuale psicologia...I termini « psiche » e « anima » possono essere usatiin modo interscambiabiie, benché ci sia una tendenzaa sfuggire l'ambiguità delia parola « anima » facendoricorso ala più moderna e più biologica « psiche ».« Psiche » è usata più come una concomitante natu-rale alla vita fisica, forse riducìbile ad essa. « Anima »,d'altra parte ha delle sfumature metafisiche e roman-tiche. Condivide le frontiere con la religione... Questaesplorazione della parola dimostra che non abbiamoa che fare con qualcosa che può essere definito; eperciò l'anima in realtà non è un concetto, ma unsimbolo. I simboli, come sappiamo, non sonocompletamente sotto il nostro controllo, e questo ciimpedisce di usare il termine in modo non ambiguo,anche se lo prendiamo per riferirci a quel fattore uma-no sconosciuto che rende possibile il significato,che volge gli eventi nelle esperienze, e che si comu-nica nell'amore.L'anima è un concetto deliberatamente ambiguo cheresiste a tutte le definizioni nello stesso modo deisimboli supremi... ».

Vorrei ora aggiungere al termine anima un'ulteriorequalificazione: « rende possibile la conoscenza, tra-

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sforma gli avvenimenti in esperienze, è comunionein amore ed ha un contenuto religioso ». Vorrei di-mostrare durante l'esposizione, quanto profondamen-te l'analisi sia legata all'anima, e quanto quest'ulti-ma, a sua volta dia luogo ad una implicazione dell'a-nima nella religione e perfino nella teologia, mentreal medesimo tempo la religione immanente, quellasperimentata, ha le sue radici nella psiche umanaed è, come quest'ultima, un fenomeno psicologico.Gli antropologi descrivono un avvenimento tra i po-poli primitivi, detto « perdita dell'anima ». Quando sitrova in questo stato, l'uomo è assolutamente inca-pace di afferrare, al di fuori di sé le relazioni tra isuoi simili, e la relazione che lo lega al suo proprioessere. Non riesce ad essere attore nella società, néa partecipare ai suoi riti e alle sue tradizioni. La suarelazione con la famiglia, con il suo « totem », conla natura è completamente stroncata. Finché nonriacquisterà la sua anima, non è più un vero essereumano. Non è presente a sé stesso. E' come se nonavesse mai ricevuto l'iniziazione, il nome, la suareale identità.Può darsi che la sua anima non sia solamente per-duta, ma forse posseduta, stregata, malata, trasferitain un oggetto o in un animale, in un luogo o in un'al-tra persona. Senza quest'anima ha perduto la facoltàdi sentire la sua appartenenza e la sua comunione conle potenze e con gli dei. Essi non possono più giungerfino a lui ed egli da parte sua non può pregarli né farloro sacrifici né compiere le danze rituali. Il suo mitopersonale e la relazione con il mito più generale dellasua gente, come « raison d'ètre », è perduto. Eppurequest'uomo non ha una malattia fisica, né si può direche abbia smarrito la ragione. Egli ha semplicementeperduto la sua anima e può giungere a morirne. Pernoi c'è la solitudine.

Altri confronti di rilievo con gli uomini moderni nonhanno necessità di essere. Una volta ho assistito adun dialogo con una donna nel famoso ;stituto di Bur-ghòlzi a Zurigo, dove sono nati i termini « schizofre-nia » e « complesso ». La donna debole e anziana sta-

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va su una sedia a rotelle. Affermò di essere morta poi-ché aveva perduto il cuore.Lo psichiatra le fece posare la mano sul petto perchésentisse che il cuore batteva ancora: doveva essercise ella ne riusciva a sentire le pulsazioni. « Quellonon è il mio vero cuore » disse la donna e scambiòuno sguardo con lo psichiatra. Non c'era niente daaggiungere. Come il primitivo e la sua anima perduta,questa donna aveva smarrito la coraggiosa relazioned'amore con la vita che è il vero cuore, non quellostrumento a tic-tac che è ugualmente in grado di bat-tere dentro una provetta.

Questa è indubbiamente una visione della realtà as-sai lontana dalla normalità. Ne è cosi lontana da co-stituire parte della sindrome di alienazione mentale.Ma si può considerare ugualmente comprensibilel'idea della donna affetta da depersonalizzazione psi-cotica, come il punto di vista dell'uomo che cerca diconvincerla che in realtà il cuore è ancora al suoposto.Quanto a me, a dispetto dei complicati e dispendiosimetodi della ricerca medica e della pubblicità delleindustrie della salute e del divertimento, che voglio-no dimostrare che l'unica realtà è quella fisica e chela perdita di mente o cuore è tutta immaginazione,io credo profondamente nel primitivo e nella donnadella clinica svizzera: noi possiamo perdere e vera-mente perdiamo le nostre anime. Sono d'accordocon Jung che ognuno di noi è « un uomo modernoalla ricerca di un'anima ».

Dal momento che l'anima è perduta, fuori dalla suasede o temporaneamente smarrita, i sacerdoti sonostati costretti, imbattendosi in un problema pastorale,a risalire al più stretto parente dell'anima: la ragione.E cosi la Chiesa si rivolge alla psicologia accade-mica e clinica, alla psicodinamica, alla psicopatolo-gia ed alla psichiatria, nel tentativo di capire la menteumana e i suoi meccanismi.Ciò ha portato i sacerdoti a considerare i problemidell'anima come esaurimenti nervosi o alterazioni

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mentali e la cura dell'anima come una specie di psi-coterapia. Ma il regno della ragione (percezione, me-moria, disturbi mentali) è un regno indipendente, unplano diverso con un inquilino che poco ci può spie-gare dell'essere cui il sacerdote si interessa, cioèdell'anima.

Forse si possono giustificare i dogmatisti di tradizio-ne, che mai si serviranno dì queste puntate in campomedicoscientifico e di certe deliberazioni pastorali.Potrebbero semplicemente affermare: « II sacerdotenon ha bisogno della cìnica per trovare l'anima ostudiarne le sofferenze, il « logos » del suo « pathospsichico ». La parrocchia, il mondo stesso sono lasua cllnica. Il nostro interesse non è rivolto alla men-te, alla sua dinamica, alla sua meccanica, alle suedomande, alle sue repressioni e ai primi ricordi, ma èrivolto all'anima dell'uomo e al suo rapporto conDio ».

Eppure lo studio religioso e quello scientifico hannosempre più qualcosa in comune; ad esempio i gio-vani sacerdoti che compiono studi più approfonditicompletano il bagaglio della loro conoscenza leggen-do testi di psicanalisi e lavorando in cliniche psichia-triche. Questo per tenersi al passo con la nuova teo-logia, che il Rev. Harry Williams mi ha una volta de-finito come « ciò che avviene dentro di noi ». Dalsuo discorso capii che secondo lui, quello che av-viene tra la gente in sala da pranzo o in camera daletto, è religione quanto ciò che avviene in chiesa, ilvescovo John Robinson assume la stessa posizione,quando dichiara che le affermazioni a proposito dìDio riguardano in ultima analisi i rapporti personali.Tutto ciò rappresenta una minaccia per gli psicologi,dal momento che quanto avviene dentro di noi erasempre stato chiamato psicologia o fisiologia, e iproblemi dei rapporti personali, sia che fossero ditavola che di letto, sono stati il pane quotidiano del-l'analista. La psicologia, rivendicando sempre piùl'anima come suo campo d'azione, è andata esten-

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dendo la sua influenza a spese della teologia perdecenni, da quando Nietzche proclamo la morte diDio e Freud sostenne che la religione non era altroche un'illusione. Ora improvvisamente i teologi scate-nano l'offensiva nella battaglia per l'anima. Però laminaccia non sta solamente nella questione di chi ab-bia la prevalenza.

Quando il fondamentale diviene l'essere interiore,e il trascendente è l'intero immanente, ecco !! mo-mento in cui il sacerdote deve addentrarsi nella pro-fondità della psiche. Ed è allora che è obbligato a ri-correre alla psicologia. Chi lo spinge in questa dire-zione sono insieme la confusione della sua parroc-chia e della nuova teologia. Ma molto dipende daltipo di incontro che i padri spirituali hanno con lapsicologia del profondo, che (come dimostra l'espe-rienza personale dell'analista), è necessariamente,prima un incontro personale con ii proprio inconscio,e solo in un secondo tempo, vero e proprio lavoroclinico sugli altri o studio accademico.

Certo non ci aiuta a trovare l'anima la proliferazionedi case di cura per malattie mentali con il loro perso-nale competente ed esperto, i programmi cosi effi-cienti, le quiete ed asettiche stanze di consultazione,i gruppi di incontro e i pamphlets perfettamente stu-diati che diffondono la psicologia con l'entusiasmomortalmente tetro di una nuova religione (e intantoricevono sovvenzioni statali). Se l'anima non è impli-cita fin dall'inizio, non apparirà certo alla fine. Nonha importanza la perfezione della nostra salute men-tale, abbiamo sempre bisogno di un'anima. E d'altraparte potremmo chiederci: può qualcuno considerar-si completamente sano di mente se il suo equilibrionon è fondato anche sull'intuizione dell'anima?

Noi tutti soffriamo dell'attuale perdita di anima e ilclero non è escluso. In realtà il problema di molti sa-cerdoti di oggi è di trovare un rapporto interiore conla propria chiamata e di mantenere quest'ultima sem-

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pre viva. Il rapporto verticale, in profondità e verso laradice archetipica della vocazione, sembra troncatoe capovolto. Ovviamente il sacerdote si guarda intor-no prendendo a prestito e imitando i metodi che parefunzionino tanto bene per gli altri. Ma il compito delconsigliere spirituale è essenzialmente diverso daquello dell'analista, dello psicologo clinico e dellopsicologo accademico. E la sua tradizione risale aCristo che si occupava di anime e ne aveva cura inmodi diversi: con i sermoni, con le marce senza unameta, con le visitazioni, con le parabole, con il dia-logo, con le discussioni, con la preghiera, con la spar-tizione di ciò che aveva, con le lacrime, con la sof-ferenza, con la morte, insomma vivendo fino in fondoil proprio destino, fedele alla sua vita. Lasciamo chei preti seguano « l'imitazione di Cristo » piuttosto chetentare di imitare la psicoterapia. Se si abbandonacoscientemente « l'imitazione di Cristo ». la si ritrovanel proprio inconscio trasformata in « identificazionecon Cristo ». C'è poi i! sacerdote che coscientementetenta di seguire una psicologia medica, ma nel sub-conscio è spinto e influenzato da una o più immaginidi quel Cristo di cui si parlava nel capitolo primo (3).I fedeli cosf si sentono mancare il terreno sotto ipiedi, sentendosi insieme malati e peccatori, oggettodi una diagnosi razionale e di una pretesa irrazionale,davanti al loro padre spirituale, che è allo stesso tempo cosi scientificamente aperto, ma allo stesso tempotanto pieno di sicurezza dogmatica.

II parrocchiano va dal sacerdote aspettandosi qualcosa di molto diverso da ciò che si aspetta dall'analista. Il compito del sacerdote non è medico: egli nondeve surare in senso clinico; ma non è neppure ditipo familiare: non deve dare amore paterno. In ultima analisi il suo compito non è neppure strettamente spirituale, se per spirituale si intende che eglidebba sempre essere un esempio di perfezione e disaggezza. Ma come un pastore che guida a Dio le suepecorelle, il suo compito principale è senza dubbio lacura dell'anima e la dedizione ad essa, a cominciaredalla sua. Solo chi è convinto della realtà dell'anima

(3) L'autore fa riferimen-to ad un'altra parte del li-bro da cui il presente ar-ticolo è stato tratto.

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può convincere gli altri. Solo chi è compreso di que-sta realtà psichica, può comprendere i problemi del-l'anima che gli si presentano. Niente, più del credereprofondamente nell'anima, può aiutare a capire l'esi-stenza di essa; è cosi che il problema del consigliospirituale comincia, oggi, dal sacerdote stesso e dalsuo rapporto con la propria anima.

Molti sacerdoti sono coscenti di ciò. Il numero deisacerdoti che con le loro famiglie si sono serviti dellapsicanalisi aumenta, e si fa sentire sempre più forteda altri la necessità di analizzare la vocazione e di« trovare qualche aiuto nella psicologia ». Nel sacer-dote di oggi, come nel religioso di ogni epoca che èin conflitto con la propria fede, c'è quel sincero e ge-nuino dubbio di chi cerca di rimanere coerente allapropria chiamata. Il sacerdote non fa mai parte inmaniera tanto profonda del suo gregge come quandosi verificano insieme lo smarrimento di una pecorellae quello del pastore. La teologia sconvolta e minatada una crisi di fede che dura da anni, sta riscoprendol'anima, e la psicologia ha una parte di notevole ri-lievo in questo processo di ricongiungimento. Tuttii problemi di oggi coinvolgono anche la chiesa; alcoo-lismo, adulterio, omosessualità, psicopatia, evasionefiscale, suicidio. Non c'è più niente che possa proteg-gere il sacerdote dai dubbi interni che lo divorano. Edè per lui difficile nasconderlo. Ma è questo sconvol-gimento alle fondamenta, che ha costretto individual-mente il sacerdote al coraggio e all'incontro perso-nale con se stesso. L'effettivo ricongiungimento frapsicologia e religione, non si deve cercare nel dogma,nei concilii ecumenici o nell'azione; esso si verificaproprio nell'anima del singolo sacerdote in conflittocon la propria chiamata. Non si può provare che ri-spetto e ammirazione per tale conflitto, testimonianzadi qualcosa di più ampio che si avverte dietro il pro-blema personale. Pare stia accadendo nell'animo delclero qualcosa che potrebbe essere un segno di im-portanza storica. In questo contesto la psicologia delprofondo trova un

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aggancio con la nuova teologia. Ciò che interessa noianalisti è l'anima, l'uomo nel suo mito, ne! suo pro-cesso di individuazione nel suo momento storico. Maè pure a questi temi che si interessa il sacerdote.Questi oggi, a causa dei fermenti della nuova teolo-gia, e della sua stessa vocazione, è sotto molti aspettipiù aperto dello psicologo, impedito dalle pastoiecatechistiche della sua semantica dogmatica e rin-chiuso in quella sorta di celle di isolamento che sonole Harley Streets delle grandi città.

La nuova teologia, la nuova moralità e la nuova ri-forma (con la loro discutibile psicologia, di cui trat-teremo più avanti) sono veramente e finalmente nuo-ve. Purtroppo la psicologia dell'inconscio, che com-pie 80 anni dalla sua nascita in un consultorio diVienna, comincia a mostrare qualche lieve sintomodi irrigidimento. Infatti è lo psicanalista e non più ilsacerdote, il barbuto e vecchio protagonista delle cari-cature moderne. Dato che il sacerdote non è più sog-getto all'attenzione pubblica (tranne quando fa il por-tabandiera di crociate popolari) ed è diventato unaspecie di « uomo invisibile », simile al negro di pochianni fa, ci si dovrebbe attendere per legge di com-pensazione, che la figura del sacerdote si stia com-pletamente trasformando. L'aspetto « dell'uomo diDio » sta subendo una trasformazione causata dalleimmagini stesse che si agitano nel calderone del suosconvolgimento individuale. Col riconoscere i cam-biamenti che si verificano inferiormente e con il ri-manervi coerenti, non soltanto la teologia assume unnuovo volto, ma emerge un nuovo modo di conside-rare l'anima e averne cura. Questo è il nuovo atteg-giamento spirituale dei sacerdoti, basato sull'espe-rienza personale. L'ammettere l'esistenza dei muta-menti psicologici e della loro opera di trasformazionesulla personalità, è un compito altrettanto eroicoquanto le battaglie delle chiese moderne fondate sul-l'azione. Il dovere individuale è sempre turbato dadubbi; il suo cammino si snoda nell'ombra e i risul-tati giungono tardi. In conclusione la necessità ditrovare S'anima scotta

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come forse nessun altro problema. Tutti gli altri pro-blemi, il trovare il vero posto di Dio, il significato del-l'amore, il ruolo del sacerdote nella comunità e tuttoil resto derivano da quel primo problema. Chi hasmarrito la sua anima è pronto a trovare Dio dovun-que, in cielo e in terra, vicino e lontano; si attaccheràad ogni parvenza d'amore che incontri sul suo cam-mino mentre rimane in attesa di un « segno ». Senzauna qualche intuizione dell'anima ci saranno ovvia-mente grande confusione morale, incertezza nell'a-zione, decisioni che sembrano logiche, ma che nonhanno validità psicologica. Per tutte queste ragioni,prima di discutere a chi spetti occuparsi dell'anima,bisognerebbe che religione e psicologia tentasseroinsieme di trovarla.

Dalle affermazioni di taluni teologi, sembra che l'a-nima non si trovi nei Sacramenti, nella Liturgia, onelle cerimonie rituali e neppure in Chiesa o nella Si-nagoga. Esse sono ormai divenute dei centri apparte-nenti alla comunità, che provvedono a tutte le neces-sità, tranne a quella dell'anima. Secondo gran partedella più autorevole teologia contemporanea, i luoghitradizionali sono completamente privi di anima; per-fino Dio, che a parere di Schweitzer, Bultman, e Barthnon ha in effetti un posto nella civiltà d'oggi, è uscitodal tempio e si trova ai suoi confini nel suo Lam-barané.

D'altra parte se le chiese si vuotavano, le cllniche siriempivano e gli psicologi — in particolare Jung —apparentemente trovavano l'anima e un'immagine delDio vivente proprio nel campo del loro lavoro. Cosiadesso la teologia si volge in un'altra direzione, sor-retta da una lunga tradizione religiosa. Insieme adessa si volge verso il « fondo dell'essere ». Posto chequesta sia la direzione in cui opera la nuova teologia,allora il primo terreno da esaminare è l'inconscio, dalmomento che la sede fenomenologica dell'inconscioè la profondità e l'interiorità dell'essere. Questa puòesser la via giusta, ed altre vie sono ad essa conse-guenti. La psicologia del profondo, l'esistenzialismo

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e il nuovo indirizzo della teologia sono tutti rivoltiall'interiorità. Il nuovo misticismo è di tipo discen-dente, come ha detto il Rev. Otis Maxfield. Non è unascalata alla montagna delle sette balze, verso le vettedel Carmelo o del Sion, o forse — come dice Jung— il cammino ascendente è divenuto quello discen-dente e viceversa.

Ma facciamo attenzione a non creare confusione, fa-cendo troppo lieve distinzione fra l'itinerario versol'alto e quello verso il basso. Se riusciamo a scopri-re che la sede dell'anima, e l'esperienza di Dio,sono in qualche modo profonde, interiori ed oscuredobbiamo tener conto che il nostro cammino saràirto di pericoli. I luoghi più prossimi al fondo sono ilregno del diavolo e della sua orda di demoni. Ilcammino discendente si snoda attraverso un labirintoe perfino la tradizione teologica ci insegna, che nelviaggio verso l'interiorità ci troveremo a confronto contutto ciò che è stato da secoli respinto verso il basso:la materia, la femmina, il diavolo, il peccato, gliorgani sessuali, la passione. Questa è evidentementela via classica della psicanalisi: il ritornare incontro atutto ciò che abbiamo rimosso. Questo viaggio aritroso può provocare un incontro con il « fondodell'essere », ma Dante, che ha percorso questostesso cammino, ha trovato anche altre cose. E' perquesto che solo attraverso l'inconscio potremoarrivare all'anima e alla sua esperienza di Dio, chenon è altro che un incontro col diavolo e col peccatoe con tutte le inquietudini del possibile, che sono sta-te respinte dalla civilizzazione coscente. Queste sonole ombre che ci sovrastano nel decidere.

L'inconscio è quindi la porta che dobbiamo varcareper trovare l'anima. Esso fa degli esperimenti delleesperienze che si riversano nell'anima; rende il pen-siero limpido e chiaro quando le emozioni ci turba-no; ed è sempre attraverso l'inconscio che molti han-no trovato la via che porta all'amore ed alla religionee sono riusciti ad afferrare in piccola parte ciò che èl'anima. Tutto ciò è continuamente riconfermato dalla

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pratica analitica. Ma per cercare l'anima partendodall'inconscio, è prima necessario trovare quest'ul-timo. Da momento che trovarlo significa riconoscerlodobbiamo oltrepassare il semplice piano empirico,e il punto fondamentale consiste nel come ricono-scere che esiste « quella tal cosa » che si chiama in-conscio. Non riusciremo mai a stabilire la sua esi-stenza o quella dell'anima attraverso la discussione,la lettura o qualunque prova diretta, lo troveremo im-battendoci in esso, quasi inciampando per caso nellanostra psiche inconscia.

Le dimostrazioni classiche dell'inconscio sono tuttecaratterizzate da questa specie di incontro fortuito.L'esistenza dell'inconscio non è dimostrabile attra-verso la logica. L'idea di una mente inconscia portaad una contraddizione logica: perché che cos'è lamente se non coscienza? Quindi la prova dell'esisten-za dell'inconscio non può venire che dall'esperienza:sono un'ipotesi e una deduzione che scaturisconoproprio da un'esperienza di vita. Ma rivediamo qual-cuna delle dimostrazioni classiche dell'esistenza del-l'inconscio. Vale la pena fermarsi su questo punto,perché di questa parola si è cosi abusato negli scrittimoderni, che talvolta il lettore ha l'impressione chead una precisa domanda, gli psicologi abbiano ri-sposto inventando, al posto di dei e fantasmi, una sto-ria ipostatizzata. Adesso vedremo che non è un'in-venzione.

Il « ricordare » e il « dimenticare » provano che lamente può perdere o no qualcuno dei suoi contenuti;essa in realtà li immagazzina semplicemente e poi liporta nuovamente alla luce. Dietro la facciata dellastanza di soggiorno, ci sono una soffitta ed una can-tina dove si accumulano, più o meno a disposizione,gli avvenimenti, dotati almeno della possibilità di di-venire coscenti, anche se non lo sono in quel momen-to. L'abitudine è un'altra prova di tipo fortuito. Quandoguidiamo la macchina, fumiamo una sigaretta, ta>gliamo il pane compiamo queste azioni in parte co-scentemente, in parte incoscentemente. Quanto l'abi-

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tudine sia in gran parte inconscia, lo capiamo allorchéci capita un incidente: quando cade la cenere dellasigaretta o quando ci sfugge il coltello, insommaquando ci rendiamo conto di quel che stiamo facen-do. Questi « lapsus », o come la chiamava Freud que-sta « psicopatologia della vita quotidiana » ci dimo-streranno inoltre che non siamo i soli padroni dinoi stessi, che l'Io non basta a controllare tutto, chea dispetto della nostra volontà, ci capita di dire lacosa sbagliata o di storpiare una parola, dandole unsignificato completamente diverso. E' il timore tipicodi chi deve tenere una conferenza o fare una predica.Ecco, improvvisamente, ci imbattiamo nell'inconscio.

L'esperimento dell'« associazione di parole » è un'al-tra prova dell'esistenza dell'inconscio. All'inizio delsecolo, quando Jung era un giovane psichiatra a Bur-ghòlzli sperimento con l'associazione di parole, unmetodo di indagine che in qualche particolare erastato usato prima di lui in Germania da Wundt. Jungcomunque provò sui suoi pazienti questi esperimentie attraverso di essi riusci a scoprire alcuni aspettiimportanti della psiche. Scopri che se chiedeva dipronunciare al più presto la prima parola che venivain mente, mentre veniva letta ad alta voce una listadi cento parole, i pazienti balbettavano e incespica-vano. Alcune parole venivano pronunciate solo dopomolto tempo, altre erano ripetute e insistite, e nes-suno riusciva ad arrivare alla fine della lista senzadisturbi di associazione. Il centro focale dell'attenzio-ne, il controllo dell'Io del soggetto venivano spazzativia; qualcos'altro interveniva. Esaminando le paroleche causavano questi disturbi, Jung scopri che essesembravano avere una qualche affinità l'una con l'al-tra; tutte insieme formavano un complesso di signi-ficati, come ad esempio: sposa, bianco, paura, madre,morte; e coniò la parola complesso per descriverequesta associazione di idee permeate di sensazioni esentimenti irrazionali, che fanno parte della nostrastruttura psicologica e che non sono completamentesoggette al controllo del conscio. Attraverso la suaricerca personale e indipendente, egli si era sperimen-

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talmente imbattuto nell'inconscio e per questo fu unodei primi ad abbracciare l'ipotesi di Freud di unamente inconscia. I complessi possono dissociarsi inmaniera cosi' profonda dalla personalità dell'Io e per-fino l'uno dall'altro, assumendo una tale forza e untale aspetto da divenire personalità indipendenti. Viè poi un'altra dimostrazione classica dell'esistenzadell'inconscio: lo sdoppiamento di personalità. Sonoben noti i casi di Morton Prince e delle facce di Èvae inoltre il particolare tipo di sdoppiamento di per-sonalità che è proprio dei medium, quando cadono intrance. Non possiamo dunque parlare in questo casodi anima nascosta nell'inconscio? Se esistono nell'in-dividuo molteplici personalità, non parliamo forse, nellinguaggio tradizionale, di una molteplicità di anime,o di un'anima posseduta da diversi demoni o di unadivisione in molte parti che si combattono dentro dinoi? La dissociazione dei complessi e la loro totalenon coscienza, porta a credere negli spiriti, alla proie-zione di parti del nostro essere al di fuori di noi stes-si, simili a fantasmi o entità solo in parte reali. Sottoquesto aspetto possiamo parlare di un'anima predadi fantasmi, proprio a causa della sua non coscienza.

Ma i complessi intesi come « fasci di idee permeatedi sensazioni irrazionali » possono presentarsi ancheavulsi dall'esperimento dell'associazione, senza chela macchina delia verità esamini il terreno su cui sibasava l'esperimento dell'associazione di parole. Ognigiorno possiamo accorgerci dei nostri complessi. Alsemplice apparire di qualcuno che si teme, o versocui siamo debitori, o che abbiamo un tempo amato,tutto il nostro aspetto esteriore cambia, dall'espres-sione del volto all'atteggiamento di tutta la persona.Può capitare di impuntarsi su un nome, come di ar-rossire od essere presi dal tremito. La nostra vocepuò abbassarsi fino ad un sussurro o assumere untono stridulo o nasale. Capita di dire cose che non in-tendiamo affatto, e tutto questo avviene senza checoscientemente lo vogliamo. Nella società tutti sonocostantemente preda dell'inconscio e dei suoi com-plessi, quando cerchiamo di impressionare il pros-

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simo, quando cerchiamo di tirarci indietro, quandoponiamo le nostre assurde domande. I complessiguidano gran parte delle nostre azioni e reazioni, spe-cialmente quelle sproporzionate o di compensazione.Bisogna aggiungere che non dobbiamo necessaria-mente essere in compagnia per accorgerci del nostroinconscio. Lo incontriamo ogni volta che siamo presida uno stato d'animo particolare. E questi stati d'ani-mo arrivano non richiesti, con caratteristiche variee mutevoli. Il segno che l'inconscio si sta mettendo inmoto è un umore incerto e instabile. Non solo gli scop-pi improvvisi, i ripicchi, l'irascibilità, gli scatti che cipermettiamo di fronte a moglie e figli (ma che nonpermettiamo a loro), ma anche gli sbalzi d'umore alivello inconscio le sotterranee e più profonde oscilla-zioni del nostro ritmo interno, i periodi d'inflazionecreativa, di prolungata depressione ed apatia, di noia,di tetraggine e dì malinconia. Se tentiamo di differen-ziare il concetto di umore e di emozione da quello diinconscio e ancora da quello di anima, ci troviamo difronte ad enormi difficoltà, poiché fin dai tempi piùantichi il concetto di emozione e quello di anima sonostati e sono ancora strettamente legati. La ricerca del-la sede dell'anima nel corpo è sempre stata confusacon quella della sede delle emozioni. Perché emozionied anima sono legate cosi intimamente? Soprattuttoperché l'esperienza dell'anima e l'esperienza emo-tiva sono simili. E' attraverso le emozioni che abbia-mo quell'esagerato senso dell'anima, dell'onore, del-l'offesa, dell'ansietà, di noi stessi. Sempre attraversole emozioni ci accorgiamo che non siamo soli in noistessi, che non abbiamo il controllo completo dellanostra interiorità, che c'è un'altra persona, anche sesolo un complesso inconscio, che può influenzare,spesso in misura notevole, il nostro comportamento.Ancora, quindi, il trovar l'anima attraverso l'inconscioè una scoperta del tutto casuale. Siamo preda di emo-zioni, stati d'animo particolari, e scopriamo una nuovadimensione, che come una sorta di liberazione inte-riore, ci guida verso la parte più profonda di noi stessi.Via via che ci addentriamo in profondità, verso il cen-

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tro essenziale del nostro essere, ci accorgiamo che iproblemi personali si allargano fino a raggiungere unadimensione umana generale e che le nostre veritàessenziali, divengono universali proprio come le as-serzioni della teologia.Si ha l'impressione che l'analisi del profondo condu-ca ad un centro oscuro e sconosciuto, in cui è diffi-cile distinguere l'inconscio dall'anima e dall'esperien-za di Dio. E' per questa ragione e non per il capricciodi un improvviso interesse teologico, che l'analisi siaddentra in misura notevole nei problemi religiosi.Noi non siamo preti mancati che hanno perdutola vocazione. L'anima è cosi legata all'inconscio ei problemi religiosi sono per essa di tale importanza,che volenti o nolenti siamo obbligati ad esprimere ilnostro pensiero su Dio, anche se ci limitiamo ad esse-re testimoni della sua confusa scoperta durante un'a-nalisi. Quando Jung afferma che la psiche ha una suanaturale funzione religiosa, non è che voglia far pro-seliti per la religione naturale o perché abbia inte-ressi religiosi di qualunque altro tipo, anche se adessomolti vorrebbero usare Jung a sostegno di tesi peri-colanti. La funzione religiosa naturale è inerente alprocesso stesso di analisi. La misura in cui l'analisicambia una persona e l'evidenza di questo cambia-mento (come guarigione) è simile in modo impressio-nante agli esempi della religione. Caratterizziamo bre-vemente questo processo: l'analisi comincia con l'in-teriorizzazione e il « lavaggio » interno di noi stessi.Questo lavoro prolungato e tortuoso spesso porta aduna rivelazione della verità e ad una nuova visione dinoi stessi con conseguenti cambiamenti esteriori, chesi esplicano con il linguaggio del rinnovamento, dellaconversione, della rinascita. In conclusione tutto ciòè confermato dalla testimonianza e dimostrato nellavita vissuta. E' per tutte queste ragioni che l'analistarivolge il suo interesse alla religione, per una ade-guata comprensione dei fenomeni che incontra nelcorso del suo lavoro.L'inconscio si rivela anche attraverso i « sintomi » dicommozione, di sdoppiamento di personalità, o di

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dimenticanza e lapsus, che sono tutti di natura psico-logica, e inoltre con sintomi di origine fisica di cui nonc'è ragione, né segno, né traccia, né causa logicanel sistema organico. Di più, esistono dei sintomi di-mostrabili organicamente, ma detti psicogeni. Essi ov-viamente non sono causati dalla personalità coscien-te, non dalla nostra volontà, ma dalla personalità in-conscia. Il fatto che questi sintomi possano portarealla scoperta dell'anima è un'affermazione che nonsorprende più. E non intendo parlare dei miracoli daReader's Digest tipo « Come sono giunto a Dio attra-verso la emicrania ». Ma uno stato di sofferenza pro-lungata, che fa sentire la propria carne torturata senzauna ragione plausibile, l'essere tormentati come Giob-be, non è uno stimolo al miglioramento della religio-sità, ma piuttosto una lezione di umiltà che porta alrisveglio dell'anima. I sintomi rendono umili, relativìz-zano l'Io, lo abbattono. La guarigione dei sintomi nonpuò che ripristinare l'Io nella sua precedente po-sizione di predominio. La mortificazione dei sinto-mi è uno dei modi per riuscire ad essere umili, l'im-pronta tradizionale dell'anima. Di umiltà si parla molto,ma poco si dice di come ci si arriva. Non si può essereumili a comando, dato che l'umiltà non è un attodell'Io. Esiste tuttavia un tipo di umiltà positiva, chenon è né rifiuto, né masochismo, né rottura, ma chepuò essere, per quanto possiamo sapere vicinissimaa quella di tipo religioso.Dato che i sintomi conducono all'anima, la guari-gione dei sintomi può venire a coincidere con la gua-rigione dell'anima, liberandola di ciò che sta comin-ciando a mostrarsi, dapprima tormentata e invocanteaiuto, consolazione, e amore. In realtà è l'anima inpreda alla nevrosi che cerca di far sentire la suavoce, di impressionare quella mente sciocca e osti-nata che, come un mulo impotente, non si smuove diun passo dal suo cammino immutabile. La reazionead un sintomo può altresì essere di benvenuto, inveceche di lamenti e richieste di cura, poiché il sintomoè il primo annuncio del risveglio della psiche, che nonpuò tollerare ulteriori abusi. E' per mezzo del sinto-

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mo che la psiche esige attenzione. Attenzione signi-fica dedicarle tutta la nostra attenzione, occuparsenecon delicatezza, e allo stesso tempo aspettare, nonavere fretta, ascoltare. Occorre un po' di tempo euno sforzo di pazienza. Più precisamente ciò di cuiogni sintomo ha bisogno è tempo, attenzione e solle-citudine. Sono esattamente le stesse cose di cui habisogno l'anima per essere sentita e ascoltata. Perquesto spesso ci si meraviglia che bastino un esau-rimento nervoso, una malattia un po' grave, perpoter trarre da ciò esperienze straordinarie, ad esem-pio: una diversa dimensione del tempo, della pa-zienza, dell'attesa; e parlando di esperienza religio-sa, una nuova sensazione di giungere all'essenza, diavvicinarsi alla interiorità più autentica di noi stessi,di lasciarsi tutto alle spalle ed arrivare finalmentea casa.Gli alchimisti hanno un'immagine molto calzante allatrasformazione della sofferenza e del sintomo in unaccrescimento di valore dell'anima. Uno dei traguardidei processo di alchimia era la perla preziosa. Questaperla, all'inizio, non è che un granello di sabbia, unsintomo nevrotico, un disturbo, un segreto irritante enoioso della propria carne, da cui non c'è conchigliache possa proteggere. Questo granello è ricoperto,elaborato giorno per giorno finché diventa perla, maancora deve essere ripescata dall'abisso e acquista-re autonomia. Poi, quando il granello è recuperato,viene indossato. Deve essere portato a contatto colcalore della pelle, perché conservi la sua lucentezza:il complesso liberato, una volta causa di dolore, èostentato davanti a tutti come una virtù. Il tesoro eso-terico, ottenuto con uno sforzo che nessuno conosce,diviene uno splendore esoterico. Liberarsi dei sinto-mi vuoi dire liberarsi anche della possibilità di gua-dagnare qualcosa che potrà un giorno rivelarsi digrande valore, anche se all'inizio è insopportabile ir-ritante, deprimente e da nascondere. Ma la via prin-cipale che porta all'incontro con l'inconscio, la « viaregia » di Freud, è il sogno. Il sogno di per se stessoè già un simbolo, cioè riunisce in sé il conscio e l'in-

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conscio, riunendo l'incommensurabile e l'opposto. Dauna parte la natura: contenuti e processi psichici og-gettivi, naturali, spontanei, non voluti. Dall'altra partela mente: parola, immagini, sentimenti, modelli, so-vrastrutture. E' un ordine privo di senso, come un di-sordine strutturale. Ogni notte è gettato un ponte dal-la parte inconscia della psiche. Ogni mattina per po-chi attimi mentre siamo ancora nel sogno, viviamo ilsimbolo, viviamo in esso, uniti in una realtà esisten-ziale fedele alla vita, come lo siamo noi in quel mo-mento. Questo è uno stato di precarietà. L'urgere delgiorno strappa via l'Io. Il polo conscio della psichesi lascia sfuggire un capo del ponte. Noi incontriamotroppo spesso i sogni, solo per metterli brutalmenteda parte.

L'atteggiamento classico di Jung verso il sogno èmolto bene espresso da un termine che prendo dal-l'analisi esistenziale (gli esistenzialisti sanno usarebene le parole e spesso possono dare un nome aqualcosa che gli analisti fanno da anni ed anni, unaforma ed un'espressione che hanno l'effetto di unanuova scoperta). Il termine è: « essere amici del so-gno ». Partecipare ad esso, entrare nel suo linguag-gio, nella sua vena, volerlo conoscere meglio, capirlo,scherzarci, vivergli accanto, portarselo dietro, cercaredi entrare in confidenza con esso, come si farebbecon un amico. Più sono in confidenza con i miei so-gni, più lo sono con il mio mondo interiore. Chi vivein me? Quali sono le mie vedute interiori? Che cosac'è di ricorrente e quindi che cosa continua a ritor-nare in me per viverci? Questi sono gli animali e lepersone, i luoghi e gli interessi che vogliono la miaattenzione, la mia amicizia, la mia confidenza. Vo-gliono essere conosciuti come lo verrebbe un amico.Esigono la mia sollecitudine e il mio interesse. Que-sta confidenza, dopo un po' di tempo, fa si che ci sisenta a proprio agio ed in identità con una famiglia in-teriore, che altro non è che l'affinità e l'unità col pro-prio lo o a livello profondo di ciò che si può anchechiamare « l'anima del sangue ». In altre parole l'u-

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nione interna con l'inconscio ci riporta ad una intuizio-ne dell'anima, ad una esperienza di vita interiore, adun luogo ove si trova la comprensione. Quando queipezzi e quelle parti prima slegati, sono riallacciati gliuni agli altri, sono approfonditi ed ampliati, la dimo-ra per ospitare la vita religiosa, di cui parlavamo al-l'inizio, comincia a formarsi.

L'abitudine di esaminare i sogni per rendere abitabileil mondo interiore, può cominciare proprio dalla fa-miglia. A tavola, o parlando di ciò che è accaduto ascuola, o al telefono, o leggendo quanto è scritto sullascatola dei cereali, si può parlare di un frammento odella scena di un sogno, lasciando che anche l'incon-scio, apertamente e con semplicità, entri nella famiglia.Non è che si debbano interpretare i sogni dei bam-bini o mettersi a spiegare a tutti i vari significati deisogni. Basta che il sogno sia portato a contatto dellavita di tutti i giorni, che la realtà soggettiva del sognosia accolta ed ammessa, valutata nel mondo oggettivodella famiglia. Interpretazioni e spiegazioni troppospesso sono razionalizzazioni, e d'altronde, perchési deve dare al bambino la sensazione che i suoi so-gni siano pazzi, misteriosi e cattivi tanto da farlo ver-gognare di essi?

I significati che scaturiscano dal sogno non possonoessere gli stessi dell'Io. Se lo fossero non ci sarebbeprogresso, ma solamente una inflazione dell'Io. Unanuova « pax romana », cui tutti gli elementi alieni edestranei devono sottostare. Il vecchio detto che « unmodesto sapere è cosa pericolosa » non è mai statocosi appropriato come nel caso delle interpretazionidel sogno. I sacerdoti sembrano istintivamente sa-perlo, se ripetono continuamente che loro « i sognili lasciano stare », come se questi fossero troppo pro-fondi, difficili e tali da richiedere una particolare cono-scenza ed esperienza per interpretarli.Ciò è vero senz'altro, però se il sacerdote è tenutoad essere un pastore di anime, come può ignorarequesta essenziale voce dell'anima, considerandola un

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messaggio che può essere capito solo dai seguaci dìFreud, dagli psichiatri e dai seguaci di Jung?Per tutte queste ragioni esìste un altro modo di ac-costarsi al sogno, una via non riservata agli esperti,ma un modo pratico e valido, sia a tavola che in par-rocchia.

Dobbiamo prima convincerci che non siamo tenuti adobbedire alla affermazione di Freud: « dov'era l'Esdovrà essere l'Io ». Attribuire ad un sogno i signifi-cati di una mente razionale significa esattamente so-stituire aI!'« Es » l'Io. L'interpretazione del sogno con-siste allora nell'ammucchiare e trasportare tutto ilmateriale da una parte all'altra del ponte. Questa ope-razione spezza l'unità del simbolo, che è il legame trale due parti della psiche. Trasformerebbe il sogno inun qualcosa di conosciuto, un sogno convenzionale,un'etichetta. Questo è un sostituto della madre, que-sto animale è la tua carica sessuale, quelle collinee valli sono la culla delia tua infanzia e dei tuoi desi-deri infantili). Queste interpretazioni che tendono arazionalizzare mentre cercano di sostituire l'Es conl'Io, in realtà contribuiscono a rendere sterile l'incon-scio, a diminuire la sua ampiezza, a svuotarlo dei suoicontenuti. Tutti questi atti sono da considerarsi dan-nosi. Non è questo l'essere amici dei sogni. Il sognospezzato fra contenuto irrazionale e significato razio-nalizzato diviene una frattura della psiche. Il sognoche ogni mattina ci offre l'opportunità di una buonacura della nostra casa, con la divisione è violato, lenostre ferite restano aperte sempre umide e in disor-dine al di sotto, sempre asciutte ed in ordine allasuperficie. E cosi l'inconscio diviene il mio nemicoda plasmare e propiziare mediante tecniche analiti-che, oppure è considerato ed osservato da un puntodi vista favorevole e vantaggioso. Ma soprattutto glisi deve togliere il suo potere. In realtà, vi sonosituazioni che i sogni riproducono come uno stampodi fango: la paura degli animali, un mare tempestoso,una cucina in disordine; per cui si deve ricorrere aspiegazioni razionali, chiarificazioni e chiarezza di

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vedute. Ma ciò che è più importante è il rapportocon il sogno, influenzato in parte dall'atteggiamentoche assumiamo nei suoi confronti.

L'amicizia implica che si mantenga la relazione apertae scorrevole. La prima cosa da fare quindi in questoprimo passo non interpretativo verso il sogno è diconcedergli tempo e pazienza, senza saltare a con-clusioni, senza imbalsamarlo nelle soluzioni. L'atteg-giamento amichevole verso il sogno comincia conuno sforzo sincero di ascoltarlo, fermando sulla car-ta o su un apposito diario dei sogni ciò che essodice, esprimendosi con il suo stesso linguaggio. Bi-sogna tener particolarmente conto della sfumaturasensitiva, irrazionale del sogno, dallo stato d'animoal risveglio, di gioia, di paura e di sopresa. Amiciziasignifica anche una disponibilità sensibile nei confrontidel sogno, per cui si deve essere bene attenti nelricevere le sensazioni in esso contenute, come sefosse un essere vivente con cui ci accingiamo a strin-gere amicizia. In secondo luogo bisogna prestare at-tenzione a ciò che l'amico intende dire, di che cosavoglia parlare e il luogo di tutto ciò. Le scene delsogno si limitano generalmente a poche figurazioni,spesso quattro in tutto, per ciò è solo questo messag-gio specifico ad essere trasmesso. Se per qualchenotte di seguito sono soprattutto uomini ad apparirenei miei sogni, ne deduco che qualcosa sta accadendonella parte maschile di me stesso, che ognuno di essiincarna un insieme particolare di caratteristiche, uncomplesso che rappresenta un carattere saliente dellamia personalità. Uno è particolarmente ambizioso, unaltro è un eroe del football con un corpo che sprizzapotenza, un terzo è poco chiaro ed ha occhi sfuggenti.Queste sono tutte possibilità aperte per me, parti dime stesso, complessi che fanno parte della mianatura e che influenzano il mio comportamento. Imiei sogni possono innalzarmi a compagnie di altorango, farmi trovare all'aeroporto pronto a partire adogni istante, farmi trovare in stanze d'albergo im-personali, né qua né là, o portarmi a sfrecciare con

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gli sci giù per una pista, felice e congelato sui mieitrespoli di metallo. In ogni caso il sogno continua adire: « osserva dove sei e con chi sei ». E più si ripe-tono i particolari dominanti, i luoghi, le persone, piùil sogno esige la nostra attenzione. Forse che si igno-ra un amico?

E il racconto di un amico ha un inizio, una metà, unafine come tutti ì romanzi ed i drammi. Cosi devo co-minciare ad ascoltare il sogno proprio dall'inizio,perché è li che si trovano le premesse all'interessedel sogno, esattamente come in un programma tea-trale sono stampati il tempo e il luogo dell'azione: almattino di un giorno dell'infanzia, di sera nell'ufficiodopo che tutti se ne sono andati e siamo rimasti soloio e l'ufficio, nella mia camera matrimoniale. Debboaltresì notare in che modo il sogno manipola gli svi-luppi dell'azione per giungere ad una certa atmosfe-ra, talvolta indicata dalla parola « improvvisamente »;ed infine il sogno arriva al termine, bruscamente ocambiando o perché ci si sveglia. Sebbene sianonecessari anni di esperienza per interpretarecorrettamente i sogni, dato che è veramente un lavoroda specialisti, un mestiere e allo stesso tempoun'arte, non ci vogliono invece una acutezza o unaconoscenza particolare per divenire amici dei sogni.Si può sempre lasciare che questo amico cada infantasie facendo scorrere il sogno a tutta velocità; edanche l'osservatore può divagare, facendo associazionied amplificazioni, ricordando avvenimenti, giuo-chi diparole, paralleli presi dalla Bibbia, dalla mitologia, daifilm. Parlare e lasciar parlare invece di analizzare edinterpretare. In questa conversazione si da unindirizzo allo stato emozionale ed alle immagini delsogno e lo si incoraggia a proseguire il suo racconto.A questo punto bisogna stare molto attenti a rispet-tare l'atmosfera del sogno e dare dignità e validitàalle immagini, cosa che si può fare meglio di tutto conreazioni coraggiose ai sogni, come del resto corag-giosamente si deve reagire in una amicizia. Incorag-giando il sogno a raccontare la sua storia gli dò la

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possibilità di mostrare il suo reale messaggio, il suotema mitico, e cosf mi avvicino maggiormente ai mitiche sono in me, alla mia storia: quella della mia vitavista dal di dentro, invece che quella del mio casovisto dal di fuori. Vengo ad essere il mitologo dime stesso che è poi in origine « colui che raccontadelle storie ».

Sotto questo profilo il sacerdote può cominciare aprestare attenzione ai sogni, come alle altre storieche ha occasione di sentire nel corso del suo lavoro.Il racconto onirico è semplicemente l'aspetto inte-riore del racconto esteriore. A forza di ascoltare i so-gni l'orecchio del sacerdote si fa più sensibile nel co-glierli, come accade a chi racconta novelle o barzel-lette. In questo modo ascoltarono Daniele e Giuseppe;ma il sacerdote può ascoltare ancor meglio se rinun-cia a identificarsi con gli interpreti biblici dei sogni,il che significa non ceder alla tentazione di dare in-terpretazione arbitrarie.

Questo tipo di avvicinamento al sogno non è da psi-cologia per dilettanti perché i sogni non fanno partesolo del campo della psicologia. Una volta erano gliuomini di Dio ad essere addetti alla loro interpreta-zione, ma in realtà essi appartengono tanto allo psi-cologo quanto al religioso, se si considerano comeil Rev. John Sanford nel titolo omonimo del suo libro,« II linguaggio dimenticato di Dio ». Sarebbe inveceda dilettanti avvicinarsi al sogno servendosi di stru-menti psicologici di cui non abbiamo la padronanza;oppure arrischiare interpretazioni analitiche senzaquella specie di completa dedizione al sogno, quellaresponsabilità verso l'inconscio e quella conoscenzadel materiale simbolico oggettivo, che è il contestodella formazione del sogno ed è la scienza dell'arte.Poiché il sogno è universalmente considerato un mes-saggio di grande importanza, talvolta addirittura di-vino, l'interprete doveva essere un uomo particolaredato che era investito dei poteri provenienti dallarivelazione. Tutto ciò non è fondamentalmente cam-

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biato malgrado tutti i seri studi scientifici sui sogni,d'altra parte l'essere semplicemente in amicizia con ilsogno non risolve certo il suo linguaggio oscuro chesolleva tanta perplessità. Si continua a preannunciareil futuro attraverso i sogni e a volte è un avvenimentofunesto ad essere predetto e ben poco si può fareper schiarirlo. Malgrado tutti questi enigmi, rimanesempre meno dilettantesco l'atteggiamento amichevo-le verso il sogno, lo scherzare con esso il fantasti-carvi sopra, dato che questo tipo di indagine includeil sogno con tutto il suo piano di immagini, e gli dala possibilità dì chiarificarsi in un secondo tempo. Isogni fanno parte dell'umanità ed è meglio avvicinarlida uomini comuni prima di ricorrere a tecniche par-ticolari. Quando il sacerdote moderno comincia adascoltarli, egli assolve, ancora una volta ad uno deisuoi compiti di curatore delle anime. Avere a cuorel'anima, oggi significa avere a cuore l'inconscio. Ilsacerdote può fare tutto ciò rimanendo fedele al suo« background » primitivo e tradizionale, senza doverricorrere ai metodi clìnici e al linguaggio psicopato-logico della psicologia.

Se il sacerdote deve per forza scegliere tra l'occu-parsi dei sogni di una persona da dilettante oppuremandarla dallo psichiatra per un « aiuto professionale», che sia pure abbastanza audace da farne un e-sercizio non impegnato. Questa specie di giuoco puòse non altro mantenere viva l'anima. Il dilettante con-sapevole di non fare sul serio, lo è anche della suaignoranza, e lascia che sia il sogno a guidare lui; cosipuò causare meno danni di un professionista che ten-de a trascurare il sogno o l'anima a favore delle teo-rie psicodinamiche e le medicine. Fintanto che il sa-cerdote da ascolto ai sogni se non altro ascolta anchel'anima della persona, anche se non è in grado difare un resoconto di ciò che sta accadendo servendosidel linguaggio professionale. Il sacerdote che si con-sidera un dilettante può trarre conforto dal fatto cheil sogno è per sua stessa natura, un enigma oscuroe assurdo come quello degli oracoli, esso ha bisogno

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di un interprete che cerchi di analizzarlo con la manoprofessionale della semplicità. Lo psicologo dilettante,« amante della psiche » proprio a causa della suaaperta mancanza di conoscenza specifica e del suoatteggiamento di umiltà nei confronti del sogno, ha lapossibilità di confermare la sua validità, di ricono-scere la sua importanza a prescindere dal contenutovero e proprio del sogno. Solo con il suo atteggia-mento può confermare e riconoscere questo prodottodell'anima e perciò dare importanza e validità all'ani-ma stessa, alla sua funzione creativa, simbolica estupefacente. Se questa è una benedizione per l'ani-ma, ancor di più per la psiche del sogno (e per chisogna), lo è l'essere affermata e riconosciuta in que-sti termini.

Nei sogni allarmanti e pieni di terrore, di immagini or-ribili e di crudeltà, spesso dimentichiamo che l'incon-scio mostra la faccia che noi mostriamo a lui, comein uno specchio. Se io fuggo, inseguo; se sono inalto, sotto di me c'è un abisso; se sono di animotroppo nobile, ciò mi procura cattivi sogni; se voltole spalle mi attrae e mi induce a voltarmi a guardarecon immagini allettanti. Il vuoto tra il conscio e l'in-conscio diminuisce se siamo capaci di sentire comelui sente, di dedicarci a lui, se riusciamo insomma avivere con esso come con un amico. Il continuo im-mergersi nel proprio mondo interiore porta ad avereesperienza dentro, con e per quel mondo. Tali espe-rienze possono avere un rapporto molto indiretto o ad-dirittura inesistente con la vita esteriore o ideaziona-le. Con questo intendo dire che esse possono non gè-nerare immediatamente nuove idee o progetti, o por-tare la soluzione di un problema matrimoniale o dilavoro. Sono esperienze che si limitano ad avveni-menti riguardanti la propria vita, più propriamentesono un rinnovamento della capacità di avere espe-rienze, di essere una persona capace di esperienze.Scompaiono le emozioni, gli abbattimenti, le ricerchead essi legati. Con l'aumentare della capacità diavere esperienze e di amare la vita cosi com'è, si

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sente il bisogno di un minor numero di avvenimentiproprio a causa del maggior numero di esperienze.Questa incapacità e questo ampliamento riguardanoanche l'anima come io l'ho descritta, cioè: ciò cherende possibile la conoscenza, trasforma gli avveni-menti in esperienze, è l'elemento di comunione inamore ed ha un contenuto religioso.

Il contenuto religioso è tutt'altra cosa da quello dog-matico e teologico, poiché questi ultimi obblighereb-bero ad assumere le esperienze in posizioni presta-bilite di vita mentale o esterna, a farne uso e con-sumo, a gettare l'anima nel giuoco professionale. In-vece il contenuto religioso della psiche giunge sottoforma di simboli spontanei che hanno il loro corri-spondente nella rappresentazione religiosa, come adesempio la croce degli opposti, il fanciullo in peri-colo, il giardino, la montagna, il cancello con il guar-diano, il posto dell'acqua, il vento, il deserto, il bo-schetto degli alberi sacri, tutte immagini frequenti deisogni. Oppure ricava da motivi religiosi, immagini chesi esplicano nell'importanza dell'amore, nella battagliacon il diavolo, nell'uccisione del drago, nella guari-gione miracolosa. Il contenuto religioso è presenteanche sotto forma di affermazioni di immortalità, dieternità, di metempsicosi e di problemi di morte, dialdilà, di giudizio dell'anima, di che cosa sia giustoper essa, di dove sia, di dove sarà. In altre parole ilcontenuto religioso è una manifestazione spontaneadi ognuno di noi, non conseguente al ritrovamentodell'anima.

Ma anche il dogma e la teologia assumono un nuovosignificato; infatti da una parte le immagini dell'ani-ma trovano il loro alimento nel background della reli-gione tradizionale; dall'altra, questa sensazione dirisveglio delle esperienze, porta un'ondata di freschez-za alla tradizione e le da nuovi significati e nuovi attri-buti di religione in continuo sviluppo e rinnovamentodi se stessa. In altre parole la rivelazione ha termineogni volta che si perde l'anima e che essa non è più

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in grado di cogliere l'esperienza e il significato deimiti basilari, dei simboli, delle forme, delle prove. Perlo psicologo prima viene l'anima e poi la religione;ma allo stesso tempo anche per la psicologia, l'animanon raggiunge la sua pienezza, se manca la realiz-zazione del suo contenuto religioso. Forse non è pos-sibile fare una graduatoria fra psicologia e religione.L'attitudine simbolica della psicologia, che provienedall'esperienza dell'anima conduce ad un senso dinascosta presenza del divino, mentre il credere inDio porta ad una visione simbolica della vita che cimostra il mondo carico di « segni » e di significatiparticolari. E' come se l'anima non facesse una sceltafra psicologia e religione, dal momento che esse siincontrano naturalmente.

In questo capitolo ho esaminato le prove classichedell'esistenza dell'inconscio per dimostrare la basesperimentale, empirica e fenomenologica su cui sifonda il nostro diritto ad usare il termine « inconscio ».Ma in realtà il mio scopo è stato duplice: spero anchedi essere riuscito a suggerire che attraverso l'incon-scio si finisce per incontrare anche l'anima. Da questoincontro scaturiscono nuovi termini di paragone enuovi significati; si avvertono sensibilmente i nostrivitali legami col passato, sia con quello strettamentepersonale, sia con quello della famiglia, sia con quel-lo che include tutta l'umanità. Appaiono le immaginimitiche di tutta l'umanità: il mito personale, quellopaterno, quello dell'eroe, del discepolo o del maestro,del passatore, dello schiavo, dell'imbroglione, e conemozione ci accorgiamo che tutto ciò è importante,davvero molto importante! ed altrettanto importantisono le nostre scelte.Ed ancora, ciò che riusciamo a fare di noi stessi, delnostro corpo, del nostro cuore, della nostra mente hauna tale importanza, che il valore personale, la di-gnità, l'entità della propria individualità, la mia stessapersona, sono accresciuti da ogni nuovo incontro conl'inconscio. In altre parole, con la mia esperienza del-l'inconscio, posso giungere all'anima. In particolare

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essa viene ad occupare un posto più importante nellamia vita ed acquista un maggior peso nelle mie deci-sioni, cioè si arricchisce di una più concreta realtà,con i sogni, con le fantasie, con l'accogliere il mondointeriore.

Accanto alla familiare realtà dell'attività mentale( in-trospezione, turbamenti, progetti, osservazioni, rifles-sioni, schemi) e alla realtà oggettiva delle cose, puònascere una terza dimensione, una sorta di conscio-inconscio. Essa non è diretta, non è ordinata, non èoggettiva né è soggettiva, non ha neppure una realtàconcreta. E nemmeno è esattamente me stesso, mapiuttosto qualcosa che accade a me stesso. Non mela porto dentro come potrei fare con un progetto ocon l'introspezione, né posso immediatamente colle-garla con il mondo esterno ed oggettivo. E' un'entitàa sé stante, non soggettiva, né oggettiva, ma un po' ditutte e due. Questa terza realtà è una realtà psichica,un mondo di esperienze, di emozioni, di fantasie, diumori, visioni, sogni, dialoghi, sensazioni fisiche, unospazio largo ed aperto, libero e spontaneo: il regnodella scoperta dei significati. In questi stati d'animopossiamo sentire i legami con la natura e con noistessi. Possiamo piangere ed adirarci, lasciareliberi i freni della sensualità, combattere con Dio,esprimere l'imponderabile; e senza ricorrere all'LSD oad altre esperienze di droga, senza coercitivemeditazioni, senza severo rigore, scoprire che stanascendo una nuova vita interiore. Non so comedescrivere in modo appropriato l'entrata in questoterzo regno della realtà psichica, a metà fra mente emateria, e che forse influenza entrambe conprocessi che ancora non conosciamo, se nonricorrendo a Jung. In pratica, afferma quest'ultimo, lavia giusta non è tanto di fare un'analisi, quanto dientrare col paziente nel sogno e in questopartecipare a tutto lo sviluppo del mito. Laconclusioni cui perveniamo nella scoperta dell'animaattraverso l'inconscio, presenta un contenuto ad untempo teologico e religioso; il primo è evidentequando cerchiamo di esprimere in formule questa vita

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religiosa interna con tutte le sue complessità contrad-dittorie e di farla risalire ai dogmi ufficiali sulla na-tura di Dio; la seconda appare con la risvegliata pre-senza del mito interno e del senso del destino, edella propria finalità. La finalità implica un poteretrascendente che influenza, sceglie e indirizza l'indi-viduo, un potere insomma che da un senso alle cose.

Il legame interno con la propria vita come rito e conla propria entità come simbolo dell'umanità comunea tutti, rida un significato mitologico al corso deglieventi, riaccostandosi all'elemento mondano arricchitodi un senso del divino. Questo legame interno ci daaltresì' la possibilità di gettare un ponte verso l'in-teriorità degli altri uomini che ricorrono al nostro aiutospirituale; il mondo interiore del sogno, della sof-ferenza, del dolore è purtroppo legato all'umanità diognuno, tragicamente uguale per tutti, senza distin-zione di educazione, colore ed origine geografica. Lamorte di un bambino, la gelosia quando si ama, il ter-rore del buio, la vecchiaia, la colpa e il rimorso: que-ste esperienze del mio animo, lo sono anche del tuo.Questo campo della realtà psichica, che è immanen-te ad ognuno di noi, trascende le differenze individua-li e ci da un linguaggio universale che ci accomunanelle nostre esperienze. Attraverso l'inconscio abbia-mo tutti qualcosa che ci lega l'uno all'altro, mentretutti partecipiamo ad una parte delle immagini e delleemozioni comuni.

Queste osservazioni pratiche ci portano obbligatoria-mente alla seguente conclusione di ordine teologico:lo sforzo di togliere alla religione il suo aspetto mito-logico, cercando di adattarla al nostro arido raziona-lismo, è evidentemente errato. Da questo punto divista Dio è realmente morto. Ma il Dio morto è quelloprivato della sua componente mitologica, un Dio cui èstata strappata la parte affettiva ed emozionale, un'a-strazione mentale priva di realtà psichica. Una siffattareligione può forse essere più convincente da un pun-to di vista razionale, ma anche questo è da vedersi.

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Ciò che invece è fuori di dubbio è che una simile re-ligione non riesce a giungere all'anima, principalmenteperché prescinde dall'inconscio. E' necessario de-mitologizzare la religione perché l'uomo moderno pos-sa incontrarsi con essa e trovarla attuale? Non po-tremmo invece scegliere l'alternativa dell'implicazionecon l'inconscio e in questo modo riconciliare e ricon-giungere l'uomo moderno con i suoi miti? Forse inquesto modo di nuovo ci incontreremo con la suaanima ed il suo conseguente e naturale contenutoreligioso.

(Trad. di CATERINA PICCOLOMINI BALLARATI)

* Tratto da: James Hillman: Insearch: Psychology and Religion.Charles Scribner's Sons, New York 1967.

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Chassidismo.Note sul significatopsicologicodi un'esperienzareligiosa*Mario Trevi, Roma

La religione infatti non è che l'attenta osservazione dei dati. »C. G. Jung

1. PREMESSA

Esistono almeno cinque buone ragioni per occuparcidel Chassidismo in questa sede. La prima è quella —abbastanza ovvia e immediata — fondata sul valoregenerale del Chassidismo nella fenomenologia dellavita religiosa e nello sviluppo del sentimento misticodell'età moderna. Per quanto poco noto all'uomo dicultura non specializzato, il Chassidismo rappresentasenz'altro l'ultima grande fioritura della misticaebraica e come tale costituisce un capitolo assaiimportante della storia delle religioni in generale edella storia del misticismo in particolare. Dato percerto che uno dei compiti dello psicologo è laricognizione delle forme di vita religiosa intesecome fondamento in gran parte inconscio della psi-che individuale e collettiva, un'analisi anche somma-ria della mistica chassidica potrà per lo meno nonessere inutile.

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La seconda ragione — più specifica e pertinente —riguarda la particolare natura di questo movimentoreligioso. Come si vedrà, nel Chassidismo si assom-mano e nello stesso tempo giungono a singolareespressione motivi mistici dispersi nella lunga tradi-zione religiosa ebraica, e in modo particolare i mo-tivi dominanti della gnosi kabbalistica. Ora, il misti-cismo ebraico s'impone all'attenzione dello studiosointeressato agli aspetti psicologici della fenomenolo-gia religiosa come un particolare atteggiamento dipensiero e di azione implicante una risposta antropo-centrica alla dimensione unilateralmente teocentricadella religione rabbinica ufficiale. In altre parole,nella mistica ebraica, dagli Esseni ai Chassidim, èdata la possibilità di rintracciare, per cosi dire, un at-teggiamento compensatorio inconscio dell'animaebraica alla eccessiva predominanza dell'elementomaschile, conscio, razionale, al peso quasi insoppor-tabile del dio tradizionale. In questo senso, il Chassi-dismo (come anche la Kabbala e gli altri atteggiamentimistici di cui il Chassidismo si alimenta) attrae l'atten-zione dello psicologo per un particolare interesseche è — fatte le debite differenze — analogo a quelloche spinse Jung ad occuparsi ad esempio del misti-cismo taoistico, di quello eckartiano e, infine, di quelloalchimistico. In tutti questi atteggiamenti veniva ela-borata una particolare dimensione dell'uomo e so-prattutto una particolare visione della vita psichicaimplicanti la nozione di centralità dell'uomo nell'uni-verso e di unione paradossale di umano e divino co-me fondamento di una rinnovata vita spirituale ecome meta di una trasformazione dell'individuo chela psicologia analitica ha poi chiamato processo diindividuazione.Anche nel Chassidismo (in quanto ultimo risultatomaturo di un atteggiamento implicito in tutto l'ebrai-smo) sarà possibile riscontrare quella particolare di-mensione di centralità dell'uomo, di unione del divi-no e dell'umano, di totalità teandrica che è il nocciolodelle forme mistiche care alla ricerca junghiana. Vatuttavìa subito aggiunto che, come elemento specifi-

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(1) M. Buber, Werke, I.Schriften zur Philosofie.Monaco 1962. M. Buber,!! principio dialogico.Milano 1959. M. Buber,L'eclissi di Dio. Milano1952.

co del Chassidismo, e in questo senso differenzianterispetto alle altre forme di mistica, sarà dato ritro-vare in esso un atteggiamento irriducibilmente ebrai-co, un'intuizione dell'uomo che resta il contributopiù singolare che l'ebraismo ha portato alla storiadell'umanità.Una terza ragione, ancora più pertinente e specifica,consiste nel fatto che nell'analisi di soggetti ebraicio comunque con radici ebraiche, è facile, anzi moltoprobabile, incontrare talvolta uno strato d'ordine re-ligioso rivelantesi, ad un'osservazione attenta, dellastessa natura del filone mistico che corre sotterra-neamente a tutto l'ebraismo e che si palesa storica-mente nei due movimenti, in certo senso comple-mentari, della Kabbala e del Chassidismo. Il recipro-co bisogno di Dio e dell'uomo, la paradossale com-presenza della redenzione dell'uomo da parte di Dioe di Dio da parte dell'uomo, la ricerca appassionatadel « senso » dell'universo e dell'uomo, il destino diquest'ultimo ritrovato nella sua capacità di dar « sen-so » all'originario « non-senso » del cosmo, sono qua-si sempre reperibili nel fondo dell'anima ebraica e,nel lavoro analitico, sono le forme simboliche porta-tricidel processo di integrazione dell'individuo, i veicolidella redenzione dalla nevrosi. Nel Chassidismos'incontrano, come in un diagramma esemplare, que-ste forme simboliche segrete della psiche ebraica.Una quarta ragione, certamente meno essenziale, con-siste in una motivazione culturale, per altro non tra-scurabile. Non solo il Chassidismo e la riscoperta deisuoi valori originari al principio del nostro secolo han-no permesso di introdurre una nuova dimensione nellostudio e nella comprensione dell'anima ebraica, madal terreno del Chassidismo s'è alimentata tutta unacorrente di largo interesse filosofico e antropologicoche ha il suo più cospicuo rappresentante nel teolo-go ebreo Martin Buber (1). Poiché al giorno d'oggile tesi fondamentali di questo filosofo vengono utiliz-zate, direttamente o indirettamente, persino nel ver-sante antropologico della psicopatologia, è facilecomprendere quale interesse possa comportare, al-

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meno per il fenomenologo e l'antropologo, la risco-perta del filone mistico del Chassidismo. Infine unaquinta ragione ci porta nel cuore stesso della finalitàdi questa lettura: i testi chassidici, suscettibili disvariate interpretazioni di interesse psicologico, sonostati visti in questa sede soprattutto in connessionealla fenomenologia dell'archetipo del « senso » comecorrelato del raggiungimento della metadell'individuazione. In questa prospettiva, ilChassidismo offre un terreno quasi infinito di medi-tazione e di scoperta: il motivo della giustificazionedell'uomo e della sua redenzione dal non-senso co-smico è il filo conduttore della sparsa e disparata te-stimonianza chassidica. Quel che di più profondo,in sede psicologica, il Chassidismo ha cercato di ela-borare è una particolare dimensione umana per cuil'individuo si schiude continuamente alla rivelazionedella propria giustificazione e del significato del mon-do, sia nel sentimento di dipendenza da un Dio giu-stificatore, sia, e più ancora, nel sentimento dell'in-dispensabilità dell'uomo nell'opera di eterna reden-zione e ricostruzione di Dio. Sappiamo dalla psicolo-gia analitica che il risultato più tangibile dell'indivi-duazione conquistata è il profondo sentimento di giu-stificazione sperimentato dall'uomo, il sentimento diriscatto dall'insignificanza, dal non giustificato, daltorpore del non-senso: il Chassidismo è uno dei ter-reni religiosi più prossimi a noi in cui è riscontrabile,come in una proiezione di dimensioni tanto grandiquanto multiformi, uno dei contenuti più profondi del-l'anima umana.

M. Buber, Sette discor-si sull'ebraismo. Firenze1924.M. Buber, Immagini delbene e del male. Milano1965.H. Kohn, Martin Buber,sein Werk und seine Zeit.Hellerau 1930. S.Maringer, Martin Bu-ber's Metaphysik der Dia-logik. Colonia 1936. W.Nigg, Martin Buber'sWeg in unserer Zeit. Ber-no 1940.

2. IL CHASSIDISMO MODERNO (2).

Verso la metà del 700 nasce, in seno all'ebraismo po-lacco, un movimento mistico che trae il suo nomedalia parola ebrea « hàsid » (chassid) che significagenericamente pio, fedele, pieno di fede. Questomovimento non ha nulla a che fare col più vasto egenerico chassidismo medioevale, al di fuori dellenaturali costanti ebraiche riscontrabili in entrambi.

(2) M. Buber, Deutungdes Chassidismus. Berli-no 1935.M. Buber, Die chassidi-schen Bùcher. Hellerau1928.M. Buber, I racconti deiHassidim. Milano 1962. S.Dubnow, Geschichte desChassidismus. Berlinot931.S. H. Dresner, The Zad-dik, An inspired study ofthè mystical spiritual lea-

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der in Eighteenth -Centu-ry Hassidism. New York1931.L. Gulkowitsch, Der Hasi-dismus, religioes wissen-scheftlich Untersucht. Lip-sia 1927.L. Gulkowitsch, DieGrundgedanken der Chas-sidismus aìs Quelle sei-nes Schicksals. Tartu1938.L. Gulkowitsch, Das kultr-historisches Bild desChassidismus, Tartu 1938.S. A. Horodezki, Leadersof Hasidism. Londra 1928.L. J. Newman, The Hasi-dic Antology. New York1934.G . G. Sc ho lem, LesGrands courants de lamyst ique juive. Parigi1950.

Le determinanti storiche del Chassidismo polacco,sono molteplici: da una parte la profonda miseriamateriale delle plebi ebraiche dei piccoli e grandicentri della Polonia e le sofferenze dovute alle perio-diche persecuzioni da parte di autorità politiche divario livello spingevano naturalmente il credente atrovare conforto in una superiore vita spirituale, inuna forma di immediata comunione con Dio, che, co-me si vedrà, rappresenta il polo fondamentale dellamistica chassidica. D'altra parte la delusione suscita-ta dal fallimento dei molteplici movimenti messianicisuccedutisi nel seicento e nella prima metà del sette-cento, a cominciare da quello dovuto alla personalitàprestigiosa di Shabbetay Sewi per finire con quello diJakob Frank, entrambi figure di pseudo-messia, e ilperdurare tuttavia di una fervida attesa messianica,di una sorta di intima inquietudine dell'anima ebraicadell'Europa orientale, spingevano il religioso ebreoad una specie di ripiegamento mistico che spostasseil polo dell'attesa messianica verso l'immediata frui-zione di una comunione diretta con Dio: il messia con-creto viene sostituito con un messia interiore: valea dire la perenne rivelazione del divino che l'animasperimenta nella vita quotidiana e nella preghiera. Ilmovimento fu essenzialmente popolare, sorto dalleplebi e diretto alle plebi, e fu severamente osteggiatodal rabbinismo ufficiale. Ciò non toglie che le sueradici intellettuali si debbano ritrovare sia nel filonecentrale della tradizione ebraica biblico-talmudica,sia nella ricca tradizione mistica del giudaismo checulmina con la fioritura della Kabbala. Si può direanzi che il Chassidismo fu il vero continuatore dellamistica kabbalistica e insieme tradusse in termini disemplice prassi quotidiana, di comportamento etico-religioso, di morale spicciola e di liturgia mistica ilprezioso materiale di intuizioni, miti, simboli poliva-lenti, figurazioni gnostiche, folgorazioni soprarazionaliche è il contenuto più specifico della Kabbala teorica.Come si vedrà, alla base dei fondamentali atteg-giamenti etici, religiosi e psicologici del Chassidismocontinuano a fermentare i più importanti miti della

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grande età kabbalistica. Il merito del Chassidismoconsisterà appunto nella sua capacità di convertirein prassi quotidiana le grandi intuizioni mistiche dellakabbala, altrimenti riservate alla pura contemplazionedi un numero limitato di iniziati. Fondatore delmovimento si considera Israele Ben Eliezer, detto ilBaal-Shem-Tow (il Signore del Buon Nome), maestrodi scuola e taumaturgo. Da lui derivano, direttamente oindirettamente, nell'arco di un secolo o poco più, unacinquantina di altri maestri chassidici. Taluni di essilasciano trattati mistici di derivazione kabbalistica eoperette mistico-biografi-che sui predecessori; ma lavera, profonda linfa del chassidismo ci è tramandataattraverso la tradizione dell'aneddoto, del raccontobreve e della leggenda, tradizione che solo nei primidecenni del nostro secolo verrà fissata nelle grandiraccolte di Newman e dì Buber.Tenendo conto dell'interesse prevalentemente psi-cologico di questa lettura, le caratteristiche fonda-mentali del movimento possono essere cosi delineate:

a) un acceso anti-intellettualismo che sposta l'accento della formazione del religioso dallo studio della tradizione giudaica all'immediata esperienza deldivino nella vita quotidiana: Dio non vuole dall'uomopio lo studio faticoso, ma l'amore: l'entusiasmo dellacarità e l'intuizione amorosa che rivela la continuapresenza del divino nel mondo.

b) Un altrettanto acceso antiascetismo: le praticheascetiche non servono ad avvicinare l'uomo a Dio; alcontrario, l'allontanano da lui per il naturale collegamento psicologico tra la privazione e l'orgoglio dell'asceta. Dio non vuole dal fedele il martirio del corpo,ma la semplice, spontanea adesione immediata alleforme della vita, il ritrovamento in esse della lororadice divina.

c) La prassi mistica della gioia: il sentimento del-l'entusiasmo gioioso, l'esperienza di una naturale le-tizia congiunta alla spontaneità e alla semplicità è ilcompito psicologico quotidiano del chassid, la sua

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intima liturgia. Il servizio di Dio va compiuto con fer-vore pieno di letizia: la tristezza, la preoccupazione,la cura ci allontanano da Dio: Dio vuole dal fedelela serena gioia della vita.

d) II superamento della distinzione tra la sfera delsacro e quella del profano. Tutto è fonte di collegamento con Dio; tutto è materia di liturgia: gli atti piùumili, le cose più insignificanti rivelano ai chassidla loro natura divina quanto i gesti più alti della liturgia tradizionale. Dio è presente in ogni aspetto delmondo.

e) II paradossale congiungersi dell'atteggiamentoteologico pantelstico con il rigoroso trascendentismoebraico; la compresenza della teologia negativa delDio assolutamente ineffabile e della teologia pantelstica del Dio continuamente sperimentabile nell'immanenza. Come si vedrà, il fondamento di questa« contradictio » ingenuamente vissuta sta nella tradizione mistica kabbalistica che permette di contemplare, accanto a un dio irriducibilmente trascendente,una « presenza divina nel mondo » d'origine neopla-tonico-emanatistica.

f) II valore assoluto dell'individuo: II singolo è irriducibile a valori collettivi, esso stesso costituisceun valore assoluto: la specificità dell'anima umana, lasingolarità dei suoi attributi costituisce insieme il rischio e il valore dell'individuo. Come tale l'uomo è posto di fronte all'eterno, non come modello impersonale. Dio vuole dall'uomo l'attuazione della sua singo-rilatà irripetibile, non l'adeguamento ad uno schemacollettivo.

g) La prassi pedagogica dello zaddik. Zaddik significa giusto. Zaddikim venivano detti i maestri attraverso la cui mediazione l'uomo diventa Chassid. Manon l'insegnamento (in senso tradizionale) dello zaddik aveva valore di redenzione, bensì la sua stessaesistenza era strumento di conversione e liberazione.Anche qui il particolare anti-intellettualismo chassi-dico rivela la sua applicabilità al rapporto pedagogi-

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co: è la presenza umana dello zaddik, la compresenzaspirituale di maestro e allievo, che converte il disce-polo, non il mero insegnamento intellettuale.

h) La teologia mistica della « giustificazione: il com-pito dell'uomo è la scoperta quotidiana del «senso»del mondo e della giustificazione dell'individuo. Il si-gnificato intimo di questa giustificazione sta nella re-ciprocità del rapporto uomo-dio: non solo l'uomo habisogno di dio, ma anche dio dell'uomo. Dio non èsolo la sostanza iniziale, chiusa nella sua autosuffi-cienza, è anche il risultato finale dell'operare dell'uo-mo. « II divino è assopito nelle cose e può essere ri-svegliato solo da colui che accoglie le cose in san-tità e si santifica con esse. La realtà sensibile è divina,ma deve essere realizzata nella sua divinità da chivive veramente » (M. Buber).

3. I GRANDI MITI KABBALISTICO-CHASSIDICI (3)

Dice Gershom Scholem che « l'ideologia mistica delChassidismo derivò dall'eredità kabbalistica ma lesue idee si volgarizzarono in una tendenza inevitabileverso l'inesattezza terminologica ». E' probabile tut-tavia che proprio questa inesattezza chassidica ab-bia permesso ai grandi simboli spirituali della kabba-la di continuare a vivere sotto forma di prassi misticae di etica. In effetti non si può cogliere nel Chassidi-smo un nucleo speculativo-mitologico ben preciso ecostante che faccia da polo di riferimento teoreticoagli atteggiamenti pratici dei chassidim, tuttavia i nu-clei fondamentali del mist icismo speculativo dellaKabbala continuano ad essere presenti nel movimentoreligioso polacco: un breve e affatto incompletoelenco di dottrine e di temi mitologici può fornireuna visione anche sommaria del terreno simbolico sucui si instaura la pratica mistica del Chassidismo.

1) La paradossale compresenza di un Dio assolu-tamente trascendente e ineffabile, l'« En Sof », rag-giungibile solo per via di teologia negativa e di unDio presente nel mondo, manifestantesi continuamentein lui, che è tipica della speculazione kabbalistica, èpresente, come sappiamo, anche nell'ambito del

(3) G. G. Scholem, Lesgrands courants de la my-stique juive. Parigi 1950.R. B. Z. Bosker, Fromthè World of thè Cabba-lah. New York 1954. Ch.D. Ginzburg, The Kabbala.Londra T865. G. Vajda,Introduction à la penséejuive du moyen àge.Parigi 1947. G. G.Scholem, On thèKabbalah and its Symbo-lism. Londra 1965. J.Abelson, Misticismo e-braico. Torino 1929.

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Chassidismo con una particolare accentuazione del-l'aspetto immanente dì Dio. La questione tante voltediscussa di un probabile panteismo kabbalistico siripropone in seno al Chassidismo con le medesimeambiguità: la presenza di Dio nel mondo non escludela sua trascendenza. Vale appena ricordare che que-sta ambiguità è il nocciolo e la forza di ogni posi-zione mistica: esso è irrisolvibile al lume di una puraspeculazione razionale.

2) Per altro, Dio è creatore del mondo, e questo ètratto dal nulla secondo il dogma della tradizioneebraica. Ma poiché il nulla anteriore a Dio costituirebbe una limitazione dell'essere, la mistica kabba -listica contempla la dottrina dell'autolimitazione diDio nell'atto della creazione, quasi un suo « contrarsi » per far luogo a quel nulla, platonicamente intesocome « me on », non essere, « materia » su cui potrà poi esercitarsi la potenza plasmatrice divina. Questa dottrina (detta dello « tsintsum ») è probabilmenteuno dei nuclei più originali della gnosi kabbalistica:come ogni sistema gnostico, anche la Kabbaia è interessata al problema della giustificazione della materia, del caos precosmico, ma la soluzione kabbalistica differisce da ogni altra soluzione di carattere gnostico per un rigore in certo senso ineguagliabile; l'essere di Dio non è compromesso nella sua assolutezza e infinità dalla presenza di un non-essere che serva poi da sostrato alla creazione: l'ambiguità neoplatonica delle tenebre che circondano l'essere e inevitabilmente lo limitano è accuratamente tolta di mezzo: il sostrato materiale della creazione è esso stessorisultato dell'operare di Dio nel suo « contrarsi », enon preesistente a lui. Né è compromesso il drammacosmico della finale redenzione in Dio, concepita come restituzione dello stato iniziale dell'essere, scomparsa del nulla, reintegrazione dello stato precosmico.

3) La dottrina delle dieci Sefirot.Dio si manifesta attraverso una serie di dieci istanze,le Sefirot, di derivazione gnostica e neoplatonica, lecui complesse interrelazioni costituiscono la parte

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più cospicua della speculazione teosofica della Kab-bala. Le Sefirot non vanno intese tanto come ema-nazioni in senso neoplatonico, quanto come « modi »,manifestazioni, aspetti sensibili e intelligibili di Dioche, come En Sof, è ineffabile e al di sopra di ogniumano tentativo di comprensione. La loro interpreta-zione filosofica più coerente culminerà con la dot-trina spinoziana degli « attributi ». L'ultima delle Se-firot è praticamente identificabile con la Shekinà, lapresenza di Dio nel mondo, che ha tanta parte nellamistica chassidica. Essa è la manifestazione costantedi Dio nelle cose e negli eventi mondani; è la divinapresenza che il chassid deve poter cogliere in tuttociò che lo circonda e gli si manifesta. Si nota qui perinciso che la Shekinà, la presenza divina nel mondo,è di natura femminile; è anzi l'unica istanza femminiledella teologia mistica ebraica. Provvidenza, natura,« anima mundi », « natura creata nec creans », la She-kinà è il veicolo del ricongiungimento dei mondo conDio; ma ben più interessante, dal punto di vista dellafenomenologia degli archetipi, rappresenta il compa-rire di un elemento femminile, ctonio, animico, nelcosmo unidirezionalmente maschile, celeste, spiritua-le della psiche ebraica.Nella teologia mistica della Shekinà è racchiuso an-che il senso del problema del male. Il peccato origi-nale di Adamo è consistito nella separazione dellaShekinà dalle altre Sefirot e pertanto nella interruzionedella corrente vitale che scorre da Sefirà a Sefirà. Daquesto momento s'è creato uno scisma nel mondo ela Shekinà è in esilio. Il senso del bene operato dal-l'uomo nel mondo è il ricongiungimento della She-kinà a Dio, la redenzione della Shekinà dal suo esilio.Questo fonda anche la dignità dell'uomo: col suo ope-rare egli diventa un elemento centrale del drammacosmico: a lui spetta la reintegrazione di un ordineche il peccato originale ha infranto.

4) Parallelo, apparentemente contrastante, sostan-zialmente complementare alla dottrina della Shekinàè il mito delle « scintille divine » disperse in tutte lecose, che è centrale nella prassi mistica del chassi-

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dismo. Ogni aspetto del mondo sensibile racchiudeuna particeila del divino che va in un certo senso re-denta dalla sua prigionia. L'operare dell'uomo nelmondo è appunto un lavoro di continua scoperta eredenzione dell'elemento divino che è nelle cose;l'anima stessa dell'uomo è una particeila dell'AdamoPrimitivo, dell'Adam Kadmon, la cui unità sarà rein-tegrata quando il dramma cosmico sarà compiuto.Ma la reintegrazione dell'ordine divino ha appunto bi-sogno dell'opera dell'uomo. Dio non è soltanto già-dato nella sua compiutezza, è anche una realtà a ve-nire al cui compimento è indispensabile l'operare del-l'uomo. Il mito delle scintille divine disperse nelle coseè ancora un tentativo gnostico di interpretazione delmistero del male e della natura del mondo materiale.In questo caso non è invocato un peccato originarioma una sorta di originario « disastro » cosmico acca-duto all'atto della creazione, per cui i « recipienti »della divina saggezza non avrebbero potuto contene-re, quasi per un mistero di sovrabbondanza della gra-zia, il loro contenuto, e, infranti, avrebbero permessoil « fluire » dell'elemento divino nei mondi inferiori,la diffusione della luce, il disperdersi dell'originariaunità nelle cose materiali. Il mito è tanto affascinantequanto ambiguo. Esso ha tuttavia il valore di una pro-fonda intuizione antropologica; nella sua oscurità si faluce una nuova dimensione dell'uomo: accanto al-i'uomo« creato » da Dio si fa strada l'immagine dell'uomo «creatore » di Dio; accanto ai Dio-sostanza, chiuso nellasua compiutezza, si delinea il Dio in fieri; accantoall'uomo caduto e redimendo, l'uomo redentore.L'ambiguità dei miti kabbalistico-chassidici potràcostituire un serio problema per lo storico dellereligioni, ma diventa secondaria di fronte all'evidenzadelia nuova dimensione antropologica che essi impli-cano e che attraverso essi si fa strada nella coscienzadell'ebraismo e dell'umanità.Ai fini di questa lettura è praticamente necessaria edirettamente utilizzabile solo questa originale intuizio-ne dell'uomo sottesa alla straordinaria varietà e di-scordanza dei miti e del materiale simbolico.

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4. IL SIGNIFICATO DEL MITO EBRAICO (4)

In un breve saggio che resterà probabilmente fonda-mentale nella storia del sentimento religioso del giu-daismo, M. Buber si domanda quale sia l'intima na-tura del mito ebraico, il suo significato più profondo.Una ricerca di questo genere implica, tra l'altro, unaesatta definizione e chiarificazione del concetto dimito nel suo valore più universale ed esteso. In questosenso occorre dare al mito il significato di unafunzione della mente primitiva, e tuttavia semprepresente nell'uomo civile, che, in contrasto con ilprincipio di collegamento causale, accoglie e collegatra di loro gli eventi sulla base della loro singolarità,del loro « senso », della profonda significanza cheessi acquistano in riferimento all'uomo e alla sferadel divino, come espressioni di un « concatenamentomisterioso», supercausale. Il mito s'instaura cosiogni qualvolta il prepotente bisogno di dare « senso »agli eventi da parte dell'uomo interrompe o lacera laserie delle correlazioni causali e stabilisce una corre-lazione orientata e significante. « Questa facoltà didare ai fatti qualità di mito e forma di mito » non èsolo dell'uomo primitivo, ma « si conserva nell'uma-nità posteriore nonostante tutto lo sviluppo della fun-zione di causalità. In tempi d'alta tensione ed inten-sità della vita interna l'uomo quasi si libera dalle ca-tene della funzione di causalità, e interpreta il feno-meno del mondo come un fenomeno supercausale,pieno di senso, come l'espressione di un senso cen-trale che non può più essere afferrato col pensiero,ma con la potenza desta dei sensi, e colla vibrazioneardente di tutta la personalità, come una realtà evi-dente che si offre in ogni molteplicità ». Il mito èdunque il prodotto di un'alta attività simbolicadell'uomo che instaura accanto alla dimensionecausale degli eventi un collegamento metacausale ca-pace di dar senso alle cose, liberandole dal tessutodelle determinazioni meccaniche, o meglio, sollevan-do questo tessuto all'altezza di un « significato ».Puntualizzato in tal modo il valore generale del mito,c'è ora da chiedersi quale sia la natura specifica del

(4) M. Buber. Sette di-scorsi sull'ebraismo. Fi-renze, 1924.

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mito ebraico, quale particolare forma di collegamentometacausale ha portato nel mondo la millenaria at-tività simbolica dell'anima ebraica. Ora Buber affer-ma che tutti i libri narrativi della Bibbia hanno un unicocontenuto: « la storia degli incontri di Dio col suo popolo». La compresenza, nel dialogo, di uomo e Dio,l'amicizia o la lotta, l'amore o il rancore, l'appello ap-passionato o il diniego, il patto o la rottura del patto,comunque sempre lo stare-assieme-compresenti-in-un-dialogo-infinito, questo è il senso del mito ebraico.Questo è il simbolo instauratore di senso che l'animaebraica incessantemente produce nella storia delmondo. Anche quando, dopo i grandi incontri conl'uomo dei libri biblici, Dio « dalla visibilità della colon-na di fuoco e dalla percettibilità del tuono sul Sinai,entra nell'oscurità e nel silenzio dell'insensibilità,questa continuità del racconto mitico non si spezza;certo, Dio non può più essere percepito, ma possonoessere percepite tutte le sue manifestazioni nella na-tura e nella storia. Da queste è formato l'oggetto in-finito del mito postbiblico ».Se tale è il nucleo profondo e originario del mitoebraico — il dialogare ininterrotto di Dio con l'uomoe per conseguenza l'acquistar senso da parte del-l'uomo mediante questo dialogo, — si potrà ora pene-trare ancora più addentro a tale nucleo e scoprireche nella dinamica del colloquio i due poli, l'uomoe Dio, dipendono reciprocamente l'uno dall'altro eche il destino dell'uno è condizionato dal destino del-l'altro. Allora il contributo più originale che il mitoebraico porta nella storia spirituale dell'uomo saràquel che Buber chiama << la concezione dell'influssodell'uomo e della sua azione sul destino di Dio ».Questo nucleo mitico fondamentale permea, sia purein maniera più o meno esplicita, tutta la religiositàebraica — ove s'intenda per religiosità l'elemento ber-gsonianamente vitale, dinamico, individuale e creativodella religione, contrapposto alla fatale tendenza allasclerotizzazione, codificazione dogmatica, istituziona-lizzazione devitalizzata. Nella fenomenologia di questareligiosità sarà dato rintracciare come tre strati suc-

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cessivi e progressivamente profondi: lo strato dell'i-mitazione di Dio, lo strato della collaborazione tra Dioe uomo nell'eterna opera della creazione, lo strato infinedella « liberazione di Dio » per mezzo dell'operadell'uomo, della « realizzazione » di Dio attraversol'influsso dell'uomo.In questo ultimo strato compare una nuova e scon-volgente intuizione di Dio, che probabilmente solo dapoco ha cominciato ad emergere dal fondo inconsciodell'umanità; non più il Dio-sostanza, già dato, con-segnato alla sua chiusa perfezione, rispetto alla qualeil travaglio della creazione è puramente accidentale,ma il Dio venturo, in lenta e incessante gestazionemediante l'opera dell'uomo, la divinità in fieri che,per essere, chiede il contributo dell'umanità, il Dio-omega in cui il travaglio del mondo acquista senso.La Kabbala e il Chassidismo sono fra le più importantimatrici occidentali di questo Dio. In particolare ilChassidismo « insegna che il divino è assopito nellecose, e può essere svegliato solo da colui che acco-glie le cose in santità e si santifica in esse. La realtàsensibile è divina, ma deve essere realizzata nellasua divinità da chi vive veramente. La maestà di Dioè bandita nei recessi della realtà, essa giace legatasul fondo di ogni cosa, e viene redenta in ogni cosadall'uomo che contemplando e operando riscatta l'a-nima di questa cosa. Cosi ognuno è chiamato a de-terminare con la sua propria vita il destino di Dio;cosi ogni vivente sta profondamente radicato nel vi-vente mito ».

5. I TEMI FONDAMENTALI DELLA MISTICACHASSIDICA

A) L'Ombra

II tema centrale della mistica chassidica, quale sirivela attraverso la tradizione popolare del racconto,è senz'altro il tema del « senso » e della giustifica-zione dell'uomo, del suo riscatto dall'insignificanzamediante il rapporto con Dio: attorno a questo temasi strutturano con un ordine segreto, nonostante l'ap-

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parente disordine, gli altri valori fondamentali. Daquesti si deve cominciare, con un movimento che vadalla periferia al centro, se si vuole cogliere il si-gnificato psicologico degli atteggiamenti fondamentalidella vita chassidica.Il primo tema è quello che potremo chiamare, sfrut-tando una terminologia dichiaratamente psicologica,dell'« ombra ». Sappiamo che il negativo che è in noinon va rifiutato ma in qualche modo ricercato, ac-colto e trasformato, e che solo questa opera di rico-gnizione e metamorfosi conduce alla rigenerazioneinteriore che la psicologia conosce col nome di « in-dividuazione ».« Rabbi Abramo diceva: « dalle guerre di Federicodi Prussia ho imparato un nuovo modo di servizio. Perattaccare il nemico non c'è bisogno di avvicinarglisi:si può, fuggendo davanti a lui, circondarlo mentreavanza e prenderlo alle spalle, fino a che si arren-da. Non ci sì deve avventare contro il male, ma riti-rarsi sulla originaria forza divina e di li circondarloe piegarlo e trasformarlo nel suo opposto ». L'ombradeve essere nello stesso tempo accolta edepotenziata; il negativo che è in noi ha un pesoinsopportabile solo quando non è relazionato al cen-tro positivo dell'essere. Ma quando il senso di unaesistenza è raggiunto anche il male perde il suo po-tere e può persino essere dissolto dalla potenza re-dentrice dell'ironia che scaturisce dal senso conqui-stato.« Dimorando una volta a Mesritsch, il Raw di Kolbi-schow vide un vecchio venire dal Magghid a chieder-gli una penitenza per i suoi peccati. « Va a casa »,disse il Magghid, « scrivi tutti i tuoi peccati su un fo-glio e portamelo ». Quando l'uomo glielo portò eglivi gettò appena uno sguardo, poi disse: « Ritorna pu-re a casa, va bene ». Più tardi il Raw vide però cherabbi Bar leggeva il foglio e a ogni riga rideva sono-ramente. Questo gli dispiacque: come si può rideredei peccati? Per anni non seppe superare questo ri-cordo, fino a che non senti riferire questo detto delBaalshem: « E' noto che nessuno compie un peccato

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se non è entrato in lui lo spirito di follia. Ma che fa ilsaggio quando viene da lui un folle? Egli ride di tuttele sue follie, e mentre rìde passa sul mondo l'alitodell'indulgenza, la severità si distrugge, ciò che pesa-va si fa leggero ». Il Raw riflette. « Ora comprendoil riso del santo Magghid », disse nell'anima sua ». Difronte alla presenza redentrice del senso la stessanozione teologica di male perde il suo valore assolu-to: anche il cattivo ha la sua giustificazione. RabbiPhinas diceva: « II rapporto di Dio verso i cattivi sipuò paragonare a quello di un principe che oltre aisuoi splendidi palazzi possegga anche ogni sorta dipiccolissime case di campagna nascoste nei boschie nei villaggi, dove talvolta egli va per cacciare oper riposarsi. La dignità dei palazzi non è maggioredi una di tali dimore occasionali; perché l'aspetto degliuni non è come l'aspetto delle altre, e ciò che compiequel luogo modesto non lo può compiere quelloimportante. Cosi avviene anche per il giusto: perquanto grande sia il suo valore e il suo servizio, eglinon può compiere ciò che il cattivo compie in un'orain cui prega e fa qualcosa in onore di Dio, e Dio, cheosserva i mondi della confusione, si rallegra di iui.Perciò il giusto non si creda di più del cattivo ».L'imitazione di Dio deve spingersi allora fino a sapervedere in ciascuno soltanto la sua luce e a permettereun appressamento dell'uomo all'uomo sulla basedella santità potenziale dell'individuo: anche nell'am-bito del giudizio morale l'ombra non risolta nella lucedel senso individuale può allontanare dalla verità. «Rabbi Wolf non vedeva il male in nessuno e chiamavagiusto ogni uomo. Un giorno che due litigavano e sicercò di metterlo contro il colpevole, egli rispose: «per me valgono tutti e due lo stesso, e chi può ardiredi intromettersi tra due giusti? ». Ad un certo punto de!proprio processo di redenzione dal non-senso devepotersi scoprire il valore positivo del preteso peccato.In quel momento anche il peccato diventapreparazione al bene. « Un giorno un chassid accusòpresso Rabbi Wolf certuni che facevano di nottegiorno giocando a carte.

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« Questo è bene », disse lo zaddik. « Come tutti gliuomini essi vogliono servire Dio e non sanno come.Ma ora imparano a tenersi svegli e a perseverare inun'opera. Quando raggiungeranno la perfezione inquesto, avranno soltanto bisogno di convertirsi, e cheservitori di Dio saranno allora! ».Il saper vedere in ciascun uomo la parte individualedi luce che redime l'ombra e riscatta la negatività delmale è lo scopo del vero zaddik. « II giovane Sussjaera un giorno in casa del suo maestro, il grandeRabbi Bar, quando un uomo si presentò a questo elo pregò di consigliarlo e aiutarlo in un'impresa. MaSussja, vedendo che quell'uomo era pieno dipeccato e non toccato dal pentimento, si adirò e lorimproverò dicendogli: « Come può uno come te,che ha commesso questo e quel misfatto, ardire dipresentarsi al cospetto di un santo senza vergognané desiderio di penitenza? ». L'uomo se ne andòsenza dir nulla, ma Sussja si pentì subito di quantoaveva detto, e non sapeva che fare. Allora il suomaestro lo benedisse: che d'ora in poi egli vedessenegli uomini soltanto il bene, anche se peccavanosotto i suoi occhi ». La potenza redentrice del sensodeve poter risolvere il male fino a mostrarnel'insignificanza. Ciò è vero anche nel caso dellasofferenza e del lato apparentemente negativo di undestino. « Quando Rabbi Shmelke e suo fratelloarrivarono dal Magghid di Mesritsch, dissero: « i nostrisaggi ci hanno lasciato una massima che non ci dapace, perché non riusciamo a comprenderla. E'questa: che l'uomo deve lodare e ringraziare Dioper il male come per il bene e accoglierlo con lastessa gioia. Diteci, Rabbi, come dobbiamointenderla? « II Magghid rispose: « andate allascuola, vi troverete Sussja che fuma la pipa. Egli vidarà la spiegazione ». Andarono alla scuola esottoposero la loro questione a Rabbi Sussja. Questirise: « Avete proprio trovato la persona giusta!Dovete rivolgervi a qualcun altro e non a uno comeme che non ha sofferto il male in vita sua ». Ma quellisapevano che la vita di Sussja, dal giorno

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della sua nascita fino a quel giorno, non era stata al-tro che miseria e patimento. Allora compresero checosa voglia dire accogliere la sofferenza con amore ».D'altra parte tutto il peso del male è risolto nel mo-mento che se ne comprende il significato dinamico:la redenzione ha bisogno del peccato. « Una voltaRabbi Sussja, la vigilia del giorno del perdono, sentinella Sinagoga un cantore cantare in modomeraviglioso le parole « ed è perdonato ». Allora gridòa Dio: « Signore del Mondo, se Israele non avessepeccato, come ti sarebbe risonato un tale canto? ». Siconosce il peso che nel rapporto individuale del tipoanalista-analizzando ha l'accettazione del latod'ombra del secondo da parte del primo. Nessunaoperazione di trasformazione è possibile, se non sullabase della profonda solidarietà dell'analista con laparte oscura del paziente.« Rabbi Shlomo diceva: « se vuoi sollevare un uomodalla melma e dal fango, non credere di poter re-stare in alto e accontentarti di stendergli la manosoccorrevole. Devi scendere giù tutto, nella melma enel fango. Allora afferralo con forti mani e ricondu-cilo con te alla luce ».L'ombra non può essere presa di petto, deve esserebensi trasformata. Nel commento di Wilhelm all'I King(sentenza del segno Kuai, lo Straripamento) si dice,a un certo punto, testualmente: « finché ci si accapi-glia con i nostri errori essi rimangono sempre vitto-riosi. Il miglior modo di combattere il male è proce-dere energicamente sulla via del bene ». « Ungiovane dette al Rabbi di Rizin una supplica in cuichiedeva l'aiuto di Dio per riuscire a piegare i cattiviistinti. Il Rabbi lo guardò ridendo: « vuoi piegare gliistinti? Spalle e reni ti spezzerai, ma l'istinto non lopiegherai. Ma prega, studia, lavora seriamente e ciòche è cattivo nei tuoi istinti svanirà da solo ».

B) L'individuo

Strettamente connesso al tema dell'ombra è quellodeìla irriducibilità del valore individuale, l'assolutezzadel singolo, l'unicità e l'irripetibilità della persona.

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Questa individualità senza confronti l'uomo deve por-tare davanti a Dio, non altro. Il compito straordinariodell uomo è appunto la scoperta e l'accoglimento delsuo valore individuale. Questo è anche la sua mis-sione religiosa.« Prima della sua morte Rabbi Sussja disse: « nelmondo a venire non mi si chiederà: « perché non seistato Mosé? » Mi si chiederà: « perché non sei statoSussja? ».Nei rapportarsi a Dio, nello stabilire il dialogo che dasenso alla sua esistenza, nell'aprirsi al Tu che dafondamento alla vita e rende uomo l'uomo, l'individuodeve sopportare il peso e il privilegio della sua uni-cità.« Chiesero a Rabbi Phinas: « perché sta scritto: ilgiorno che Dio creò un uomo sulla terra, e non: ilgiorno che Dio creò l'uomo sulla terra? ». Egli spie-gò: « tu devi servire il tuo creatore come se sullaterra non ci fasse che un uomo solo, tu solo! ». Mala ricerca e l'accoglimento della propria irriducibilesingolarità implica la rinuncia all'eredità paterna, nelsenso evidente del rifiuto degli elementi nonindividuali del destino.« Dopo la sua morte, il Magghid apparve a suo figlio,e per il comandamento che impone di onorare i ge-nitori, gli ordinò di abbandonare la sua vita di per-fetto ritiro dal mondo: « che era una vita pericolosa ».Abramo rispose: « lo non conosco alcun padre secon-do la carne, ma solo un padre pietoso in tutti i vi-venti ». « Avendo accettato la mia eredità », disse ilMagghid, « mi hai riconosciuto come padre anchedopo la mia morte ». « lo rinunzio all'eredità paterna »,gridò Abramo. Nello stesso istante scoppiò un incen-dio in casa, che distrusse il modesto retaggio del Mag-ghid a suo figlio, e quello soltanto ». Questa rinunciava condotta fino all'estrema conseguenza di unaradicale spoliazione dei residui kar-mici. La scopertadell'individualità, la scoperta della autogenerazionespirituale e la restituzione al padre carnale deglielementi del suo destino che non possonoappartenerci deve essere radicale.

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« Quache tempo dopo il cognato di Abramo gli portòin dono la sopraveste di seta bianca che il Magghidindossava nei giorni di festa grande. Alla vigilia dellafesta del perdono Abramo la indossò per rendere ono-re a suo padre. Le lampade della sinagoga erano giàaccese. In un movimento appassionato lo Zaddiksi curvò su una di esse, la sopraveste prese fuoco egliela strapparono di dosso. Con uno sguardo inten-so, la guardò farsi cenere ».Persino la tradizione religiosa può essere di peso:una condizione da rifiutare sulla via della scopertaindividuale e della ricerca del rapporto irriducibil-mente sìngolo con Dio. La religione tende a farsistatica, mero involucro collettivo, quando perdiamodi vista l'unicità del dialogo tra l'io umano e il tudivino.« II Baalshem diceva: « Noi diciamo: « Dio di Abramo,Dio di Isacco e Dio di Giacobbe », e non diciamo« Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe »; poiché Isaccoe Giacobbe non si appoggiarono sulla ricerca e ilservizio di Abramo, ma ricercarono da se stessi l'u-nità del creatore e il suo servizio ». Dal punto di vistadel « singolo » non c'è altra paternità che quellaspirituale. L'eredità corporea che ci trasmette glielementi karmici del destino va considerata come unasorta di condizionamento naturale che l'individuodeve imparare a dominare e trasformare. La « primamateria » che si offre al riordinamento spirituale dellaquotidiana opera demiurgica dell'individuo.« II Rabbi Shmelke disse: « secondo i nostri saggi, treprendono parte alla creazione di ogni essere umano:Dio, padre e madre. La parte di Dio è tutta santa; lealtre possono venire santificate e rese simili a quella.E' questo che intende il comandamento: Voi sietesanti eppure dovete ancora diventar santi; cosi dovetetenere l'eredità paterna e materna in Voi, che si op-pone alla santificazione, e non soggiacerle, ma pa-droneggiarla e plasmarla ».Il trovare se stessi, la scoperta della irriducibilità delvalore individuale è tutt'uno con il trovare Dio; in ter-

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mini moderni l'individuazione e la scoperta della pro-pria dimensione religiosa si trovano in un rapportodi mutuo condizionamento. E' probabile anzi che ladistinzione tra i due movimenti spirituali abbia un va-lore meramente formale ed esteriore. « QuandoRabbi Baruch arrivava alle parole del salmo: « nondarò sonno ai miei occhi né riposo alle palpebre finoa che non abbia trovato una dimora a Dio », sifermava e diceva a se stesso: « fino a che trovo mestesso e faccio di me una dimora pronta ad accoglierela Shekinà ».Poiché ogni evento umano ha valore in quanto as-sume forme individuali, anche il linguaggio delia ri-velazione quotidiana di Dio all'uomo è individuale,si dirige al singolo nella sua irriducibile unicità. «Rabbi Pinchas diceva: « il primo deli'anno Dio è inquella forma di occultamento che viene chiamata« stare sul trono » e ciascuno lo può vedere, ciascunosecondo la propria natura: uno nel pianto, uno nellapreghiera e uno in un canto di lode ». Non solo illinguaggio del rivelarsi quotidiano del divino all'uomoha il carattere dell'assoluta individualità, ma anche illinguaggio che lega l'uomo ali'uomo, se è linguaggioautentico, fondato sulla comunione individuale, recasempre i segni di una esclusività che non consentesostituzioni dei destinatari del messaggio. In questosenso, la parola del maestro è mul-tidimensionale ed èaccolta da ciascuno come comunicazione individuale.« Quando una sera i visitatori del Baalshem se neandarono, dopo aver sentito la sua parola, uno di lorodisse al suo compagno che le parole che il Baaishemgli aveva rivolto gli avevano fatto molto bene. L'altrolo ammoni che non dicesse sciocchezze: erano pureentrati insieme nella stanza, e per tutto il tempo ilmaestro non aveva parlato ad altri che a lui. Un terzoche udf questo si mischiò sorridendo nel discorso;come stranamente sbagliavano tutti e due, il Rabbiper tutta la sera si era intrattenuto confidenzialmentecon lui. La stessa cosa disse un quarto, un quinto,

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e infine tutti assieme confessarono ciò che era loroavvenuto. Ma un attimo dopo tutti ammutolirono ».

C) Relativizzazione dell'Io

Coordinato e complementare al tema del valore asso-luto dell'individuo è il tema della relativizzazione del-l'Io. Il fondamento dell'individuo non è nell'Io, al con-trario l'Io, qualora venga assoiutizzato, può porsi co-me barriera tra l'uomo e ia sua natura profonda. Nelmovimento di autenticazione religiosa l'Io deve impa-rare ad autolimitarsi e a relazionarsi con istanze psi-chiche che lo trascendono senza tuttavia annullarlo.« A proposito delle parole della scrittura: « lo sto trail Signore e voi », Rabbi Michal diceva: « L'Io sta traDio e noi. Se l'uomo dice « lo » e sì arroga la paroladel suo creatore, si separa da iui. Se invece offre ilsuo « lo » davanti a lui non c'è più una parete divi-soria. Perché di lui è scritto: « lo sono del mio amicoe verso me va il suo desiderio ». Se il mio « lo » èdiventato del mio amico, il suo desiderio si rivolge ver-so di me ».Finché l'uomo non sente altro fondamento di sé cheil suo lo, egli rimane escluso dal movimento di au-tenticazione di sé che lo porta alla fondazione delianuova totalità psichica rispetto alla quale l'Io è uni-camente parte. In un racconto tratto dalla tradizionemistica sufita si narra che un discepolo non potevavenire accolto dal suo maestro perché ogni volta chesi presentava alla porta di quest'ultimo, dopo un'in-tenso periodo di preparazione spirituale, rispondevaalla domanda « chi è » con la parola « lo ». Solo quan-do potè superare questo ostacolo psicologico e, sullabase di un'interiore preparazione, rispondere « tu »alla domanda del maestro, vide aprirsi la porta dellacasa nella quale desiderava ardentemente essere ac-colto.Cosf nella tradizione chassidica si racconta che « unoscolaro del grande Magghid, recatosi di notte a tro-vare Rabbi Aronne di Karlin, suo amico, battè allafinestra illuminata. « Chi chiama? » chiese la vocefamiliare e, poiché era sicuro che anche la sua voce

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sarebbe stata riconosciuta non rispose altro che:« lo ». Ma la finestra rimase chiusa e dall'interno nonvenne altro suono per quanto battesse un'altra epiù volte. Finalmente, turbato, gridò: « Aronne, perchénon mi apri? ». Gli rispose allora la voce dell'amico,ma cosi grave e solenne da sembrargli quasi estra-nea: « Chi è che osa chiamarsi " lo ", come spettasolo a Dio? ».La relativizzazione dell'Io è il segreto insegnamentodella Kabbala. Il fine dell'uomo è rendersi disponibile,accogliere, permettere che la trascendenza sconvol-ga, permei e riordini secondo un principio diversole chiuse strutture dell'Io.«A uno scrittore che lo interrogava sulla Kabbala, ladottrina segreta, Rabbi Moshe disse: « Osserva beneche la parola Kabbala deriva da Kabbel, che signi-fica accettare, accogliere. Perché il fine di tutta lasapienza della Kabbala è: prendere su di sé il giogodella volontà di Dio ».Il rendersi disponibile è tutt'uno con il dimenticarsidi sé. Quando il centro dell'individuo si è spostatodall'Io al Sé, allora e solo allora è possibile il dialogotra l'umano e il divino.« II Magghid disse un giorno ai suoi scolari: «voglioindicarvi il modo migliore di dire la Torà. Bisognanon sentire più affatto se stessi, non essere più cheun orecchio che ascolta ciò che il mondo del verbodice in lui. Ma non appena si comincia a sentire lapropria voce si cessi ».

D) II nulla

La relativizzazione dell'Io e l'incontro con una realtàpsichica più vasta e dinamica è coordinata ad unmovimento di annullamento e di rinascita, ad un ra-dicale cambiamento di segno nell'atteggiamento del-l'Io, ad un rovesciamento dei valori consci che lapsicologia analitica conosce sotto il nome di « enan-tiodromia ». La corsa all'incontrano esige che il fon-damentale fattore qualitativo del movimento, la di-rezione, cambi di segno, passi dunque per il puntozero, per il nulla. Appunto il tema del nulla potremo

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chiamare una particolare costante della prassi mi-stica chassidica che ha il suo corrispettivo, nell'am-bito della tradizione cristiana, nell'atteggiamento spe-culativo e pratico che si impernia nella parabolaevangelica del seme che muore. Ogni cominciamentosorge dall'annullamento dello stato interiore, ogninuova realtà psichica implica la distruzione dellacondizione che precede. « II Magghid di Mesritschdiceva: nessuna cosa al mondo può passare da unarealtà ad un'altra realtà se prima non è passata per ilnulla, cioè per la realtà dello stato intermedio. Là essaè nulla e nessuno può afferrarla; poiché è giunta algradino del nulla come prima della creazione. Eallora essa viene trasformata in una nuova creatura,dall'uovo al pulcino. Nell'attimo dopo che è terminatala distruzione dell uovo e prima che sia incominciatoil divenire del pulcino, è il nulla.La « noche oscura del alma » di S. Giovanni dellaCroce è il più evidente, seppure certamente non l'u-nico, riferimento cui può ricorrere il nostro pensieroabituato ad esempi della tradizione cristiano-occi-dentale.Rabbi Pinchas diceva: « Ogni creatura si rinnova nelsonno, anche le pietre e le acque, e l'uomo, se vuoleche la sua vita sempre si rinnovi, deve prima addor-mentarsi, spogliarsi della sua forma e raccomandarea Dio la sua anima nuda: allora essa sorge e ricevenuova vita ».Trasferito in termini di psicologia, il passaggio peril puro nulla come condizione della rinascita è larelativizzazione dei valori dell'Io. Nella mistica chas-sidica tale momento ha come due piani dì realizza-zione: da una parte esso rappresenta un vero e pro-prio momento enantiodromico nel destino del singoloe della collettività.« Fu chiesto a Rabbi Pinchas: « perché, come ci ètramandato, il Messia deve nascere nell'anniversariodella distruzione del Tempio? ». « II grano seminatonella terra », rispose egli, « deve perire perché ger-mogli la nuova spiga. La forza non può risorgere se

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non si ritira nella grande oscurità. Spogliare forma,rivestire forma, questo avviene nell'attimo del puronulla. Nel calice dell'oblio cresce il potere della me-moria. Questa è la forza della redenzione. Il giornodella distruzione, la forza giace nel fondo e cresce.Perciò in quel giorno andiamo alle tombe, perciò inquel giorno nascerà il Messia ». Dall'altra parte questo« passaggio per il nulla » rappresenta un momentoextra-temporale inscritto nella struttura stessa dellaesistenza, quasi una interna disponibilità al nulla chepermetta l'ingresso del divino nell'umano, larealizzazione della condizione teandricafondamentale." II figlio minore di Rabbi Sussja diceva: « Gli zaddi-kim che nel loro servizio vanno sempre di santuarioin santuario e di mondo in mondo, devono ogni voltagettar via da sé la propria vita per ricevere uno spi-rito nuovo, cosi che ogni volta aleggi su di loro unanuova illuminazione ".(E' interessante — o per lo meno curioso — notare aquesto punto quale grande valore attribuissero i chas-sidim al sonno come strumento di relativizzazionedell'Io — e di una sorta di fondamentale disponibilitàal nulla che sembra caratterizzare l'autenticità del-l'esistenza — e al sogno come relativizzazione deivalori dell'Io: Una volta che Rabbi Moshe Teitlbaumebbe detto a se stesso: « Grazie a Dio, ho fatto tuttol'anno ciò che era retto, rettamente ho studiato, ret-tamento ho pregato... », la stessa notte in sogno glifurono mostrate tutte le sue opere buone: erano strac-ciate, a pezzi, deturpate).

E) Anti-intellettualismo

Al tema del nulla, dell'enantiodromia e delia relati-vizzazione dell'Io, sono strettamente collegati i temidell'antiascetismo e dell'anti-intellettualismo chassidi-co. Ascetismo e intellettualismo, nella loro apparentediversità, sono entrambi radicati nella volontà e nellacoscienza, nascono come conseguenza della impo-stazione unidirezionale della vita psichica, incentratanell'Io e separata dalla forza vitale delle istanze in-

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consce. Entrambi allontanano l'uomo dalla sua fontespirituale e lo condannano all'isterilimento. IlBaalshem diceva: « quando io sono ad un altogrado di conoscenza, so che in me non è neppureuna lettera dell'insegnamento di Dio e che non hofatto neppure un passo nel servizio di Dio ». Lo studioè diversione dal colloquio con Dio, cade in ta! casosotto la categoria pascaliana del « divertimento »,della « distrazione », allontanamento dell'uomo dallasua sede originaria, dispersione della natura autenticanella banalità mondana. « Moshe Hajim Efraim, ilnipote del Baalshem, si consacrò in giovinezza allostudio e divento un grande studioso, fino a deviare unpoco dalla via chassi-dica. Suo nonno, il Baalshem,teneva a passeggiare spesso con lui fuori di città, equello lo seguiva, anche se con qualche riluttanza,perché gli dispiaceva perdere il tempo che avrebbepotuto dedicare allo studio. Una volta incontraronoun viandante che veniva da un'altra città. IlBaalshem gli chiese di uno dei suoi concittadini. E'un grande studioso, rispose quello. Gli invidio la suaapplicazione allo studio, disse il Baalshem. Ma chedebbo fare? lo non ho tempo di studiare perché devoservire il creatore ». Da quell'ora Efraim si rivolsedi nuovo con ogni forza alla via chassidica ».

F) Antiascetismo

Ma se l'intellettualismo distrae « pascalianamente »l'uomo dal dialogo con l'eterno Tu, l'ascetismo sem-bra avere il torto ben peggiore di distrarlo dalla quo-tidiana fruizione di Dio nelle cose, dalla serena eimmediata liturgia della gioia. « Quando RabbiShmelke ritorno dal suo primo viaggio dal Magghid egli chiesero che cosa avesse imparato, egli rispose:fino a ora avevo mortificato il mio corpo affinchèpotesse sopportare~ì'anima. Ora ho visto e appresoche l'anima può sopportare il corpo e non ha bisognodi separarsi da esso. E' questo che ci è detto nellaSanta Torà: « io stabilirò la mia

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dimora in mezzo a voi, e la mia anima non vi aborrirà». Poiché l'anima non deve aborrire il suo corpo ».L'unico ascetismo possibile è quello inconsapevolee involontario, non fondato dunque sull'Io, ma sulcentro originario della personalità. « Nella suagiovinezza il Baalshem, quando, terminato il sabato,andava per tutta la settimana al luogo del suo ritiro,soleva prendere con sé sei pani e una broccad'acqua. Un venerdf, quando volle sollevare da terrail suo sacco per tornare a casa, si accorse che erapesante, lo apri, e vi trovò ancora tutti i pani. Allora sene meravigliò. Digiunare in questo modo è permesso».L'ironia chassidica s'appunta talvolta contro la morti-ficazione della carne sorprendendone l'interiore con-traddizione fondata sull'ipervalutazione dell'Io. «A unuomo noto per il suo timore di Dio e per le suesevere penitenze, Rabbi ludel, che lo visitava, ilMagghid di Zloczow disse un giorno: « ludel, tu portiun cilicio sul corpo. Se tu non fossi un iracondo nonne avresti bisogno. E poiché tu sei un iracondo, nonti serve a nulla ».L'accento più penetrante e nello stesso tempo piùaspro dell'antiascetismo chassidico è raggiunto daNa 'hum di Stepinescht che diceva: « io non so checosa è un pio, e anche da mio padre non ho appresonulla in proposito. Ma penso che sia una sorta diabito; la stoffa di fuori è fatta di orgoglio e la foderadi rancore, ed è cucito col filo della malinconia ».Infine l'immagine dell'uomo che la mistica antiasce-tica del Chassidismo può fornire proprio in base alsuo rifiuto del ripudio della terrestrità, della carne,della fenomenologia del quotidiano e della fruizionedella materia è l'immagine di una creatura salda-mente ancorata alla terra proprio per il suo tendereal cielo, coerentemente immersa nell'immanente pro-prio per il suo naturale volgersi alla trascendenza.« A proposito delle parole della Scrittura: « una sca-la, appoggiata sulla terra, e il suo capo tocca ilcielo », Rabbi Aronne di Karlin diceva: « se l'uomo di

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Israele si tiene unito e sta saldo sulla terra, allora ilsuo capo tocca il cìelo ».

G) II motivo della gioia

Liberata dall'intellettualismo e dall'ascetismo, la vitareligiosa dell'uomo, — ma, come vedremo, per laradicale indistinzione tra sacro e profano intrinsecaal Chassidismo, la vita dell'uomo tout court — sirisolve nel sentimento mistico della gioia. RabbiGiacobbe Giuseppe, soleva dire che « preoccupazionee tristezza sono le radici di tutte le forze del male », eanche che « la Shekinà, (la presenza divina nelmondo) non aleggia sulla tristezza, ma sulla gioianella preghiera ». Preoccupazione e tristezza sono ilrisultato di un ancoramento dell'uomo ai limiti delpuro lo, scaturiscono direttamente dall'identificazionedell'individuo con l'Io e dal conseguentedepauperamento della vita psichica. Un Rabbi solevadire: « non bisogna preoccuparsi. Un'unica preoccu-pazione è permessa all'uomo: di non preoccuparsi ».La perdita della ricchezza della totalità originaria del-l'anima e la riduzione al principio dell'Io è anche ilmotivo dell'incomprensione della gioia nell'altro. «Un suonatore di violino suonava un giorno con tantadolcezza che tutti coloro che lo sentivano si metteva-no a danzare, e chi soltanto giungeva nell'ambito del-la musica, era preso anche lui nella danza. Ed eccovenirsene un sordo che non sapeva nulla di musica;e ciò che vide gli sembrò un comportamento dapazzi, senza senso e senza gusto ». La gioia è larivelazione del divino nel mondo; ogni forma di gioiapertanto è da considerarsi veicolo della presenza,persino l'umorismo e lo scherzo. Rabbi Pinchasdiceva: « tutte le gioie vengono dal paradiso, anchelo scherzo, se è detto in vera gioia ». Al contrario, laperdita della gioia è il segno del ri-dursi dell'anima aimeri confini dell'Io e del suo chiudersi all'esperienzadei Tu. « Ci viene detto: « Se tu dimentichi la gioia ecadi in malinconia, tu dimentichi il Signore, tuo Dio »,« Poiché sta scritto: « Forza e gioia sono nella suadimora ».

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H) II rapporto maestro-scolaro

II diventare Chassid, s'è visto, è un processo di tra-sformazione della personalità che implica almeno al-cune delle tappe fondamentali dell'individuazione: laricognizione, l'accettazione e la dinamizzazione del-l'ombra; il riconoscimento della irriducibilità del va-lore individuale; il superamento e la relativizzazionedell'Io; il momento enantiodromico e la rinascita spi-rituale. Non dobbiamo dimenticare che questa tra-sformazione si attua in seno ad un rapporto di mae-stro e discepolo e solo mediante questo giunge amaturazione. Sappiamo che il maestro chassidico nonimpartisce dottrina, non ha nulla da donare sul pianodell'intelletto e della cultura; nondimeno egli consen-te l'attuarsi di un mutamento radicale della perso-nalità nell'allievo, rende possibile il passaggio dalladispersione all'unità, dal non senso al senso. Si trattadi un rapporto particolare in cui il dialogo non è fontedi comunicazione, ma di modificazione psicologica; laparola non è segno, ma simbolo attraverso cuiviene attinta l'energia necessaria alla trasformazione.Conosciamo dalla psicologia del transfert le moda-lità per cui l'essere assieme presenti in un dialogopermette la trasformazione e il riordinamento dellapersonalità. Alcune di queste modalità sono impli-cite nel rapporto chassidico di maestro-allievo.Innanzi tutto l'intima adesione all'ombra dello sco-laro, la simpatia per l'aspetto oscuro della sua esi-stenza che già conosciamo in particolare dall'aned-doto di Rabbi Shlomo il quale asseriva la necessitàdi scendere nel fango per soccorrere un uomo ca-duto nel fango. Ma più in generale, quando lo sco-laro ha perso il suo rapporto con il senso originariodall'esistere religioso, è caduto nella disperazionedel non-senso, il maestro deve aderire a lui proprioin questa negatività; solo cosi lo può trarre fuori,rifarsi all'inizio della sua strada verso il senso e ri-condursi allo stesso dolore originario. « RabbiHanoch raccontava: « Per un anno intero desideraiardentemente di andare dal mio maestro, RabbiBunam, e di parlare con lui. Ma ogni volta che

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entravo in casa non mi sentivo da tanto. Finalmenteun giorno che camminavo piangendo per i campi, aun tratto non potei fare a meno di correre subito dalRabbi. Egli chiese: « perché piangi? ». « lo sono pureuna creatura dei mondo » dissi, « e sono creato contutti i sensi e tutte le membra, ma non so chi sono,a che sono stato creato, e a che servo in questo mon-do ». «Scioccherello», diss'egli, «è lo stesso chio-do che ho anch'io. Stasera cenerai con me ». Aderireintimamente all'ombra del discepolo per com-prenderne il significato vuoi dire anche mostrare laluce potenziale occultata in seno all'oscurità, lavirtuale positività dell'ombra. In questo senso ognicondanna moralistica spezza il dialogo, annulla il va-lore del rapporto trasformatore. Questo è probabil-mente il significato profondo dell'aneddoto sopra ci-tato relativo a Rabbi Sussja e al suo momentaneorifiuto del male nell'altro.Il maestro non insegna alcunché, almeno nel sensocomune della parola; né l'allievo deve ricevere altroall'infuori della pura presenza umana nell'ambito delrapporto. Questo è trasformatore, non la comunica-zione come tale.« Rabbi Lòb, figlio di Sara, lo zaddik segreto che, se-guendo il corso delle acque, vagava sulla terra perredimere le anime dei viventi e dei morti, raccontava:« se io andai dal Magghid non fu per ascoltare inse-gnamenti da lui, ma solo per vedere come egli si slac-cia le scarpe di feltro e come se le allaccia ». Peraltroil « parlare bene », la ricerca della parola èl'impedimento più evidente al vero dialogo, alla purapresenza del Tu.« Un dotto che un sabato era ospite alla tavola diRabbi Baruch gli disse: « diteci parole di insegna-mento, Rabbi, voi che parlate cosi bene! ». « Primache io parli bene », rispose il nipote del Baaishem,« che io ammutolisca! ».

I) II << Senso »

Attraverso il rapporto trasformatore maestro-allievo,il destino intimo di quest'ultimo viene avviato alla se-

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greta rivelazione del « senso ». Viene posta cioè inmoto quella profonda attività simbolica interiore cheriesce a sostituire all'insignificanza del rapporto cau-sale tra gli eventi il significato di un finalismo giusti-ficatore. Non più le pure serie causali, le determina-zioni meccaniche collegano tra di loro gli aspetti delmondo e gli eventi psichici, ma il nuovo tessuto dicorrelazioni incentrato nel rapporto uomo-Dio; allageometria dei rapporti deterministici è sostituita unageometria spirituale incentrata nella condizione tean-drica. Naturalmente la causalità fìsica non è abolita,al contrario viene integrata da un valore per l'innanzisconosciuto, appunto il « senso ». L'uomo non èpiù oggetto fra gli oggetti, evento anonimo di serietemporali irreversibili, ma è soggetto di un divenirecosmico incentrato in lui.La mistica di tutti i tempi non ha elaborato, a benguardare, altro che le condizioni e la fenomenologiadell'instaurarsi di questa nuova geometria del senso,ma anche la filosofia occidentale si è cimentata conquesto problema proprio nei suoi momenti cruciali:non per nulla la fase ancora attuale della speculazio-ne moderna si apre con il tentativo kantiano della« Critica del Giudizio » di sostituire la geometria delsignificato alla geometria senza senso del rapportodeterministico.Naturalmente la conquista del senso è fondata sullanatura peculiare dell'uomo, sulla categoria della pos-sibilità, la conquista del senso deve contemplare lasua possibilità negativa, la perdita del significato, ilrovesciamento nel non-senso. Allora la geometria del-l'anonima causalità riprende il sopravvento e la lucedel significato si oscura.« Rabbi Baruch disse una volta: « che mondo buonoe chiaro è pur questo, se non ci sì perde in esso,eppure che mondo cupo è quando in esso ci siperde! ».Ma appunto questo non perdersi nel mero aspettotemporale delle cose e saper cogliere la presenzadivina al di là di esse fonda la sostanziale differen-za tra il sapere mondano e il conoscere religioso.

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Nessuno dubita della superiorità quantitativa del pri-mo, ma esso rimane privo delia struttura del senso,della qualità della giustificazione. Mosé Maimonideha ragione nel ritenere Aristotele superiore a Eze-chieie nella scienza del cielo. Ma il Rabbi di Rizzincommenta:« Due uomini entrarono nel palazzo di un re. L'unosi fermava in ogni sala, osservava con occhio di in-tenditore le stoffe sontuose e gli oggetti preziosi enon poteva saziarsi di guardare. L'altro attraversavale sale e sapeva soltanto: questa è la casa del re,questa è la veste del re, pochi passi ancora e iovedrò il re mio signore ».Il farsi presente all'uomo del senso, della giustifica-zione del mondo e dell'umano, comporta come primorisultato il superamento della dimensione temporalee il superamento della preoccupazione escatologica:se Dio è presente, il mondo futuro e la redenzionenon hanno ragione di esistere; l'uomo è già nelladimensione del senso, non deve attendere il sensoda un movimento futuro. La presenza del significato10 redime dalla insignificanza del mondo: ai di là diquesta ricchezza non c'è alcunché da cercare o daaspettare.« Una volta Salman interruppe la preghiera e disse:« io non voglio il tuo paradiso, io non voglio il tuomondo futuro, io voglio te solo ». Poiché il « serviziodi Dio » è la fruizione del senso nella suaintemporalità, sembra che la abolizione del futuro siala condizione dell'avvento del senso. (E quiabolizione del futuro significa probabilmente ancheliberazione dalla cura, dalla « Sorge » heideg-gerianache impedisce ogni rivelazione del significato).Quando una voce annunciò al grande Magghid di averperso la sua parte nel mondo futuro per aversospirato a causa della sofferenza materiale del suobambino, egli rispose: « bene, la ricompensa è aboli-ta, ora posso veramente incominciare a servire ». In-fine è del Baalshem la frase: « se amo Dio che biso-gno ho del mondo futuro? ».11 servizio divino è, nella sua natura più profonda,

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fruizione del senso e nello stesso tempo contributoumano all'instaurazione del simbolo unificatore chesostituisce la geometria incentrata nel rapporto uo-mo-Dio (e pertanto carica di significato) alla ano-nimia disperante delle serie spazio-temporali. Nelpunto in cui il senso si fa incontro all'uomo questodiventa davvero il collaboratore di Dio, risponde al-l'invito di Dio con la continuazione dell'opera dellacreazione.« II Rabbi di Rizzin diceva: « questo è il servizio del-l'uomo in tutti i suoi giorni, trasformare la materia infigura, purificare il corpo e far penetrare la luce nellatenebra, cosi che la tenebra stessa splenda e non visia più separazione tra l'una e l'altra ». Ma il serviziodi Dio come testimonianza del senso devecontemplare la sua possibilità negativa, i! na-scondersi di Dio all'uomo, e la rinunzia dell'uomoalla ricerca. La dinamica del senso è sostenuta pro-prio da questo nascondersi di Dio cui l'uomo deve ri-spondere con la ricerca. Rabbi Baruch al nipotino chepiangeva perché, giocando a nascondino, il suo com-pagno lo aveva lasciato nascondere e non lo avevapiù cercato, rispondeva commosso: « cosi dice ancheDio: io mi nascondo ma nessuno mi vuole cercare ».L'incontro con il senso non esautora l'uomo, al con-trario lo impegna nella sua opera quotidiana di ri-cerca del significato di ciò che solo apparentementeè insignificante, nell'opera di ricostruzione infinitadella geometria del senso, nella scoperta della ra-dice divina dell'evento.« Gli scolari del Baalshem sentirono parlare di untale come di un saggio. Alcuni di essi desideraronoandarlo a trovare e ascoltare i suoi insegnamenti. Ilmaestro diede loro il permesso, ma essi gli chiesero:« da che cosa possiamo riconoscere se è un veroZaddik? ». « Pregatelo di consigliarvi, rispose il Baal-shem, come dovete fare perché i pensieri profaninon vi disturbino durante la preghiera e lo studio. Sevi da un consiglio, allora saprete che è un uomo dap-poco. Perché il servizio dell'uomo nel mondo, finoall'ora della morte, è appunto quello di lottare volta

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per volta con le cose estranee e volta per volta disollevarle e imperniarle nella natura del nome di-vino ».Quale è l'esatta accezione dell'espressione « le coseestranee? », Le cose sono estranee fino a che sonodestituite del loro significato, fino a che esulano dalcoordinamento a-causale della geometria de! senso.Da questo punto di vista, nulla è virtualmente senzasenso, nulla dunque è per sua natura estraneo; mala fatica dell'uomo sta nella ricerca e nella scopertadel senso nascosto delle cose, nella esumazione dellaradice teocentrica degli eventi. Questo atteggiamentoè la traduzione sul piano dell'etica del mito delleparticene disperse. Ogni cosa racchiude unaparticella di luce che deve essere redenta, rivelata;vale a dire che ogni cosa deve poter mostrareall'uomo il suo significato giustificatore nell'ordinedel senso.La libertà dell'uomo resta intatta nell'ordine del sensosotteso alle cose perché a lui rimane la scelta tra ilrivelare e il non rivelare, tra il cercare Dio e il noncercarlo, tra la dimensione meramente causale e ladimensione del significato. L'aneddoto paradossaledi Rabbi Baruch e delle medicine racchiude in unadensità vertiginosa tutto il problema della libertà edel senso.« Una volta Rabbi Baruch aveva comperato nel ca-poìuogo medicine per la sua figliola malata. Il servole aveva deposte sul davanzale della finestra dellalocanda. Rabbi Baruch camminò in su e in giù perla stanza, fissò le boccettine e disse: « se è la vo-lontà di Dio che mia figlia guarisca non c'è bisognodi medicine. Ma se Dio manifestasse il suo poteremiracoloso agli occhi di tutti, nessun uomo avrebbepiù !a scelta: poiché tutti saprebbero. Perché agliuomini resti la scelta, Dio da alla sua azione la ve-ste della natura. Cosi ha creato le piante medici-nali ». Poi camminò di nuovo su e giù per la stanzae domandò: « ma perché sono veleni quelli che sisomministrano ai malati? » e rispose: « le scintilleche al tempo della creazione originaria caddero ne-

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gli involucri ed entrarono nelle pietre, nelle piantee negli animali, attraverso la santificazione dell'uomopio che in santità lavora le pietre, in santità si servedelle piante, in santità si ciba degli animali, risal-gono tutte alla loro sorgente. Ma come possono es-sere redente le scintille che sono cadute negli ama-ri veleni e nelle erbe velenose? Perché esse nonsiano reiette, Dio ha destinato i veleni ai malati, aciascuno quelli che contengono scintille che appar-tengono alla radice della sua anima. Cosi il malatostesso è un medico che risana i veleni ».

Corollari: a) La presenza.

Al tema del senso sono coordinati alcuni corollarifondamentali che precisano e articolano il puntocentrale della prassi chassidica. Ognuno di questitemi implica la dimensione psicologica del « senso »ed è incomprensibile senza di essa. Il primo corol-lario è quello che si potrebbe chiamare della pre-senza di Dio.Il senso schiude la presenza del divino nelle cose enegli eventi, santifica il mondano in ogni suo aspet-to; allora il mondo diventa epifania continua e acqui-sta la dignità di uno strumento multiforme della pre-senza. Solo l'abitudine, la sclerosi delle facoltà in-timamente religiose dell'uomo, può oscurare la pre-senza, il compito dell'uomo diventa allora il libe-rarsi dell'abitudine, la somma di atteggiamenti inau-tentici che si frappongono tra l'uomo e Dio. « IIRabbi di Kobrin insegnava: « Dio parla all'uomo comeparlava a Mosè: ' Togliti i calzari dai piedi ', toglil'abitudine che cinge il tuo piede, e riconosceraiche il luogo su cui stai ora è luogo sacro. Perchénon vi è gradino dell'esistenza su cui non si possa,in ogni luogo e in ogni tempo, trovare la santità diDio ».La presenza implica la responsabilità dell'uomo, poi-ché questo può « sprecare » la presenza, ignoran-dola e banalizzandola: le scintille divine incluse intutte le cose chiedono la loro liberazione mediantel'opera di santificazione ininterrotta che l'uomo deve

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compiere di ogni aspetto del mondo che gli si faincontro.« Una volta, durante un pranzo del sabato, RabbiMoshe disse: « non dal pane materiale viene la vitadell'uomo, ma dalle scintille di vita divina che vi sitrovano. Se volete sapere dove è Dio guardate que-sto pane. E' qui. Per mezzo della sua vita vivifican-te, ogni cosa esiste, e se si sottrae ad una di essequesta va in rovina e si distrugge ». In realtà èimpossibile per l'uomo che s'è dischiuso alladimensione del senso immaginare un solo attimodel divenire mondano senza la presenza di Dio. Ilmistero della presenza ha una priorità anche ri-spetto alla carica di valori spirituali connessi aigrandi dogmi escatologici: questi non avrebberosenso se la presenza potesse venir meno o fallire.« Rabbi Abramo diceva: « Signore del mondo, se sipotesse immaginare un attimo senza il tuo influssoe senza la tua provvidenza, a che ci servirebbe an-che l'altro mondo, a che ci servirebbe anche la ve-nuta del Messia, e a che ci servirebbe anche la re-surrezione dei morti, che gioia potrebbe dare tuttoquesto e quale scopo avrebbe? ». Nella dimensionedel senso l'uomo è ospite di Dio. Dio diventa il «luogo » dell'esistere umano, lo spazio che consenteogni suo mutamento e ogni sua decisione.« Rabbi Bunam diceva: « l'uomo sensibile deve sen-tire Dio cosi come sente il luogo su cui sta. E comeegli non può pensarsi senza luogo, cosi deve in tut-ta semplicità riconoscere il luogo del mondo, quel-io manifesto, che lo contiene; ma nello stesso tempoche Egli è la vita nascosta che lo riempie ». Eancora più esplicitamente:« A Rabbi Pinchas fu chiesto: « perché Dio vienechiamato ' luogo '? Certamente Egli è il luogo delmondo; ma allora si dovrebbe chiamarlo cosi e nonsemplicemente ' luogo ' ». Egli rispose: « l'uomo de-ve entrare in Dio cosi che Dio lo circondi e diventiil suo luogo ». Rispetto al tema della presenzaanche il mito gno-

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stico delle Sefirot acquista un significato immedia-to: tutte le qualità, gli attributi, le modalità percepi-bili e intelligibili di Dio sono presenti in ciascunevento mondano. Solo l'uomo può renderne vana lapresenza: e il fondamento della vanificazione èl'oblio, la chiusura che l'uomo opera su di sé nelladimensione del non senso.« Rabbi Pinchas diceva: « in ogni parola e in ogniazione sono riunite le dieci Sefirot; poiché esseriempiono tutto il mondo. E non come la gente cre-de, che la grazia sia un principio a sé e che la po-tenza un principio a sé, ma in ogni cosa sono con-tenuti i dieci poteri di Dio. Se uno abbassa la mano,questo avviene nel mistero della luce irraggiante; seuno solleva la mano, questo avviene nel misterodella luce riverberante. L'intero movimento, abbas-sare e sollevare, questo è il mistero di grazia e po-tenza. Non vi sono parole che in sé siano vane enon vi sono azioni che in sé siano vane. Ma si pos-sono rendere vane parole e azioni se vanamente sidicono e vanamente si fanno ». Ancora al tema dellapresenza è riferibile lo strano aneddoto di RabbiPinchas, il quale raccontava: « una volta mi dolsicol mio maestro di come riesca difficile, a chi si trovinell'avversità, conservare intatta la fede nellaprovvidenza divina per ogni singola creaturaumana. A questi sembra veramente che Dionasconda il suo voito. Che si dovrebbe fare perrafforzare la propria fede? ». « Se si sa, rispose ilRabbi, che è un nascondere, allora non è più unnascondere ».Infatti il nascondersi di Dio non è assenza, ma ap-punto un nascondersi, che sembrerebbe implicarela ricerca umana. L'avversità che travaglia l'uomonon può ledere la presenza, l'uomo deve solo accet-tare ia dialettica del Dio nascosto e svelato e com-prendere che il movimento di Dio implica la colla-borazione dell'uomo.

b) Superamento della distinzione tra sacro e profano.

L'altro grande corollario del tema del senso comecondizione psicologica fondamentale del chassid è

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il superamento della distinzione tra sacro e profano.Sembra talvolta che proprio questo atteggiamentosia !a parola chassidica che più riesca a colpirel'uomo moderno immerso in un processo di dissa-crazione del mondo e corrispettivamente di riduzio-ne del sacro ad un isolamento che lo rende fittizio.Nella dimensione del senso ogni distinzione perdesignificato perché non c'è elemento della vita o de!cosmo che possa considerarsi totalmente profano,vale a dire privo di senso, non riconducibile allageometria del significato e del fine. Questo atteg-giamento porta l'uomo ad una sorta di gioioso reali-smo antiplatonico: questo che io tocco e vedo havalore, ciò che mi si muove incontro nell'ambito delquotidiano, poiché in questo io devo ritrovare il di-vino e da questo il chassid deve liberare le scintilledisperse.«II Raw chiese un giorno a suo figlio: « con chepreghi? » il figlio comprese il senso della domanda:« su quale meditazione fondasse la sua preghiera ».Rispose: « con la massima: ogni altezza si inchinidavanti a te ». Poi chiese al padre: « e con che pre-ghi tu? ». Egli disse: « con il pavimento e con lapanca ».Di Rabbi Shmelke, che non teneva altri discorsi chenon fossero quelli abituali, ingenui, forse persinovolgari, dell'usuale commercio tra gli uomini, si di-ceva che « quali che fossero i discorsi che egli te-neva tutto il giorno con la gente che si rivolgeva alui per le sue faccende mondane, in realtà ognunadelle sue parole aveva un significato segreto e unasegreta intenzione e operava nei mondi superiori, eil suo spirito poteva perseverare tutto il giorno intale servizio ».Di un altro Zaddik del quale si era chiesto ad unallievo quale fosse per lui la cosa più importante,fu risposto presso a poco: « ciò di cui si occupavolta per volta». Il riferimento a Chìuang-Tze e alloZen è in questo caso cosi ovvio da diventare su-perfluo.Nella dimensione del senso i pretesi « due mondi »

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si unificano, l'uno finisce per trasparire nell'altro co-me la luce in un mezzo che la riceve per rivelarla.« Rabbi Hanoch diceva: « anche i popoli della terracredono che ci siano due mondi: ' in questo mon-do', dicono. La differenza sta in questo: essi cre-dono che i due mondi siano distinti e divisi unodall'altro; Israele invece riconosce che i due mondisono in fondo uno solo e devono diventare unosolo ».

e) Compenetrazione di natura e provvidenza.

Il terzo corollario della dimensione de! senso è lacompenetrazione di natura e provvidenza o identitàdi causalità e miracolo, che è cosi tipica della mi-stica chassidica. All'atteggiamento che tende aespungere il miracolo dalla natura, il chassid ri-sponde con l'atteggiamento che tende ad identifi-care l'uno e l'altra.« Uno studioso della natura venne di lontano a tro-vare il Baalshem e gli disse: « dalle mie ricercherisulta che nelle ore in cui i figli di Israele attraver-sarono il Mar Rosso, esso dovesse dividersi per ra-gione naturale. Che rimane del famoso miracolo? ».Il Baalshem rispose: « non sai che Dio ha creato lanatura? e l'ha cosi creata che nell'ora che i figli diIsraele attraversarono il mar Rosso esso dovessedividersi. Questo è il grande e famoso miracolo ».La connessione causale non è abolita, è identificatacon quella del fine. La dignità del determinismo na-turale non viene intaccata, ma la determinazione èletta in chiave di rivelazione.« Fu chiesto a Rabbi Baruch: « perché nell'inno Dioviene chiamato ' creatore delle medicine, principedelle lodi, Signore dei miracoli '? E' giusto che lemedicine stiano accanto ai miracoli e anzi li prece-dano? ». Egli rispose: « Dio non vuole essere lodatocome il Signore dei miracoli soprannaturali. Perciòattraverso le medicine è introdotta e messa primala natura. Ma in verità tutto è miracolo ».

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d) II tempo.

Un quarto corollario importante delladimensione del senso è il riscatto dell'uomodall'insignificanza della temporalità mondana el'instaurarsi di una intuizione del tempo comemuoversi-verso-Dio. Nella dimensione del sensol'uomo può, in ogni attimo della sua vita,chiedersi a che punto si trova del suocammino verso Dio, a che punto è giunto il suomovimento verso l'autenticità. Il non sensoconnesso alla disperante vacuità delle serietemporali, deve potersi risolvere di fronte allarivelazione della direzionalità del tempo.« Fu chiesto a Rabbi Salman: « come è daintendere che Dio, l'Onnisciente, dica aAdamo: ' Dove sei? ' ». « Credete Voi, rispose ilRaw, che la Scrit tura sia eterna e che in essasiano compresi ogni generazione e ogni uomo?». « Lo credo », disse quello. « Ebbene, disselo Zaddik, in ogni tempo Dio grida all'uomo: 'dove sei tu nel tuo mondo? Tanti anni e tantigiorni di quelli a te destinati sono trascorsi, e ache punto sei intanto arrivato nel tuo mondo? '.Cosi, ad esempio, Dio dice ' hai vissuto 46anni, a che punto sei? ' ».(Sembra che l'incauto e nello stesso tempofortunato interlocutore di Rabbi Salman avesseappunto 46 anni e rimanesse sbigottito dellarisposta).

e) Preghiera e simbolo.

Infine, nella dimensione del senso, l'uomosperimenta il valore autenticamente simbolicodella preghiera. Poiché avere un simbolo, faruso di un simbolo, possedere un'attivitàsimbolica non è sosti tuire ad una realtà unsegno vicariante, ma speri mentare direttamentequella realtà attraverso un suo elemento fruibile,appunto il simbolo. Il segno, sostituendo, ciallontana dal reale significato, lo abo liscenell'atto di indicarlo; il simbolo permette lafruizione diretta di quel reale, perché ne è parte.La natura simbolica nell'uomo consiste nella s uacapacità di esser parte mediante il simbolo dialtre realtà. Il segno procede dal simbolo enon viceversa.

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La preghiera autentica è attività simbolica perchénon è segno evocatore di una realtà, bensf partedella realtà evocata: nella preghiera la realtà evo-cata è direttamente e completamente presente. Aproposito delle parole della Scrittura « Egli è il tuosalmo ed egli il tuo Dio », Rabbi Pinchas disse: «Egli è il tuo salmo; ed egli, lo stesso, è il tuo Dio.La preghiera con la quale l'uomo prega, la preghie-ra stessa è divinità. Non come tu chiedi qualcosaal tuo compagno: un'altra cosa è lui, un'altra la tuaparola. Non cosi nella preghiera che unisce le es-senze. Colui che prega e crede che la preghiera siaqualcosa di diverso da Dio è come il supplicante acui il Re fa porgere ciò che ha chiesto. Chi invecesa che la preghiera stessa è divinità, è simile al fi-glio del Re che prende dai tesori del padre ciò chedesidera ».

6. CONCLUSIONE

Lo psicologo del nostro tempo indaga, con l'aiutodello storico, del fenomenologo e dell'antropologo,le forme della vita religiosa per ritrovare in esse imodelli della integrazione psicologica, o meglio, lestrutture fondamentali secondo le quali una vita as-sume il suo significato e si redime in una forma,passa dal non-senso al senso, dalla dispersioneall'unità, dall'insignificanza alla giustificazione. Leforme della vita religiosa, da questo punto di vista, sirivelano nella loro natura di modelli dei possibiliprocessi di individuazione, e, nel campo dellapsicologia clinica, di modelli del riscatto dalla ne-vrosi e della guarigione psicologica come realiz-zazione dì sé.Queste forme, per essere assunte dall'indagine psi-cologica a modelli interpretativi di un'esistenza, eper manifestarsi come veicoli possibili dell'autenti-cazione di una vita, debbono essere sottratte al con-testo contingente e depurate del linguaggio tipico etemporale del loro avvento storico, fino a poterneintravvedere il semplice scheletro di « possibilità

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fondamentali dell'esistere » necessariamente intem-porale.Nel compiere una tale indagine, lo psicologo evitala tentazione più forte del nostro tempo: quella diimpiegare i concetti e i giudizi della ricerca scien-tifica naturalistica anche nel campo dell'umano, disostituire la metodologia delle scienze della naturaalla metodologia delle scienze dello spirito, lo spie-gare all'intendere, l'interpretazione alla compren-sione.Le forme della vita religiosa, considerate come lestrutture fondamentali secondo le quali l'esisteregiunge alla giustificazione e si riscatta dall'inautenti-co, implicano una comprensione dell'uomo nella di-mensione che gli è propria, quella dell'apertura sul-l'altro, quella della comunicazione, quella del trascen-dersi. Se la psicologia del nostro tempo perdessedi vista questa dimensione, ricadrebbe inevitabil-mente nella descrittiva naturalistica e la compren-sione dell'uomo le sarebbe interdetta. IlChassidismo si porge alla meditazione dello psi-

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aperto nel dialogo, l'Io in lotta contro le forze chetendono a isterilirlo nella soddisfatta dimensione dellachiusura, infine l'Io consapevole della sua incom-pletezza, del suo fondamento ontologico come man-canza e bisogno, della sua ricerca appassionatadel tu.Questa immagine dell'Io è la norma verso cui ten-de la guarigione psicologica. L'uomo del nostrotempo può legittimamente rifiutare l'ipotesi teolo-gica del Chassidismo: il Dio che chiede l'opera del-l'uomo per esistere, e la splendida sovrastrutturamitologica di questa ipotesi. Non può rifiutare lamodalità fondamentale dell'Io che le è sottesa: l'an-dare incontro all'essere che lo trascende per rice-verne un senso.

* Redazione del seminario tenuto nell'aprile del 1963 pressol'Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica,Roma. Il testo viene pubblicato immutato. Per la citazione deitesti chassidici è stata utilizzata la traduzione di Gabriella Bem-porad della « Erzàhlungen der Chassìdim » di M. Buber (Milano,Longanesi Editore, 1962). Per i vocaboli « Chassid », « chassi-dico », « Chassidismo », ecc, benché sia più corretta la grafia« Hasid », ecc, si è preferito mantenere quella più in uso nellalingua tedesca perché recentemente adottata da vari editoriitaliani.

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L'uomo che trasformala coscienza. I mitiprofondi di M.Buber, P. Tillich e C.G. Jung*Ira Progoff, New York

Nel 1965 ci vennero a mancare due grandi uominidel mondo dello spirito, Martin Buber e Paul Tillich;il primo mori in giugno, il secondo in ottobre. Inpassato avevano parlato entrambi qui ad Eranos.Entrambi condividevano l'orientamento spirituale cheè l'idea fondamentale di Eranos, poiché avevano,ciascuno secondo il suo modo di vedere, una pro-fonda consapevolezza del fatto che i simboli nonsono oggetti da usare e che non bisogna trasfor-marli in dogmi costrittivi. Sapevano piuttosto che isimboli sono mezzi, mezzi per potere entrare in dia-logo con la vita. Compresero che uno dei mezziche l'uomo moderno ha per uscire dall'impasse spi-rituale del nostro tempo è quello di intraprendereun dialogo impegnato con i simboli fondamentalidella storia: attraverso questo dialogo l'uomo mo-derno può sviluppare una profondità e sensibilitàdi coscienza tali da diventare capace di vedere inuna nuova luce gli annosi problemi della esistenzaumana.

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(1) Ira Progoff The Ideaof Eranos. Journal of Re-iigion and Health, Octo-ber 1966, Voi. 5, No. 4.

Fondamentalmente esiste uno stretto legame tral'interesse che muove le opere di Buber e Tillich, el'idea su cui si basa la Eranos Tagung (1). Tutti e tremirano a trasformare la qualità di coscienza chedomina l'era moderna. Ma mentre Martin Buber ePaul Tillich erano esseri umani individuali, la Era-nos Tagung è una situazione sociale. Dal momentoche una istituzione sociale, oltre ad offrire un con-testo sociale per alcune attività, ha il potere di di-ventare essa stessa un simbolo vivente, Eranos èdiventato molto di più che un posto in cui si pos-sono studiare i simboli storici, è diventato esso stes-so un simbolo attivo con una vita da diffondere nelmondo.

E' molto importante distinguere tra esseri umani in-dividuali che trasformano la coscienza dei loro si-mili, esseri umani come Buber, Tillich e Jung, e luo-ghi ed istituzioni che hanno questo stesso compito.Ogni periodo storico ha bisogno sia di persone chedi luoghi, e nel nostro periodo storico in modo par-ticolare si ha un enorme bisogno di entrambi. Miripropongo di approfondire in altra sede le impli-cazioni psicologiche e culturali coinvolte nello svi-luppo di istituzioni che possono servire come illuogo sociale di incontro in cui si può portare avantiil lavoro personale e profondo di evoluzione spi-rituale. Oggi invece vorrei fermare la nostra atten-zione su quegli individui che sentono intimamenteche il significato della loro vita, cioè il loro mitoprofondo, è quello di conseguire una trasformazioneche non si limiti solo alla loro coscienza, macoinvolga la coscienza dei loro simili.

Non c'è bisogno di dire che vivere secondo un talemito profondo è una cosa puramente soggettiva ameno che non trovi riconoscimento e non vengacorrisposta da parto degli altri. E ciò vigno indicatoinevitabilmente dal fatto che nelle persone della co-munità qualcosa viene scosso e modificato in segui-to all'incontro con quella persona il cui mito pro-fondo è quello di essere un uomo che trasforma lacoscienza. Se vogliamo studiare la fenomenologia

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di questo mito profondo per potere chiarire le suediramazioni psicologiche, esistenziali e sociali, dob-biamo osservare con attenzione le vite di quelle per-sone che oltre ad avere una intuizione soggettivadel loro ruolo, hanno trovato una oggettiva confer-ma al loro mito profondo attraverso la risposta dialtre persone, che testimoniano di averne subitol'influenza. A questo scopo vorrei parlarvi oggi diPaul Tillich e Martin Buber quali esempi di uominimoderni che vissero la loro vita come trasformatoridi coscienza. Siccome poi scopriremo che ci sonosomiglianze considerevoli, basate su una identità ditipo — o dinatipo (2), che è il termine che io usoa questo riguardo — esamineremo anche come pa-ragone la vita e l'opera di C. G. Jung per potertrarre dal loro confronto utili insegnamenti. Deveessere chiaro che anche Jung appartiene alla ca-tegoria di quegli uomini che trasformano la coscien-za, ma egli rappresentò questo ruolo nella sua vitain un modo completamente diverso da come lo vis-sero Buber e Tillich.Nella seguente discussione mi ripropongo di esa-minare ed approfondire i meccanismi necessariperché l'uomo moderno compia una trasformazioneo un accrescimento, di coscienza, poiché ho la cer-tezza che solo quando il mondo interiore dell'uomooccidentale avrà raggiunto un suo ordine, potremomigliorare durevolmente gli aspetti esteriori della ci-viltà occidentale. Già nell'estate del 1963, fu solle-vato questo problema qui ad Eranos, quando ci in-teressammo del significato di Utopia. Ma oggi vo-gliamo esaminare più da vicino i fattori psicologicidinamici socialmente e storicamente coinvolti nellatrasformazione della coscienza moderna. Per que-sto scopo, studieremo alcuni esempi tipici dell'uomoche trasforma la coscienza.

(2) Con i! termine dina-tipo, indico l'aspetto atti-vo di una immagine ar-chetipica che si svolgementre viene rappresen-tata dall'individuo nel cor-so della sua vita. Nei mioscritto di Eranos del 1964.The Integrity of Life andDeath, Eranos-Jahrbuch.Rhein-Verlag, Zurich 1965,ci sono esempi del dina-tipo dell 'Eroe e del di -natipo del Salvatore. TheImage of an Oracle, He-lixPress, New York 1964,contiene una discussionedettagliata su un dinatipoin azione. Vedi ancheDepth Psychology andModern Man, Ju l ianPress, New York 1959, pp.t82 sgg.

Usiamo questa espressione per indicare che l'uomoche trasforma la coscienza è una categoria o tipo diessere umano che si trova universalmente in ognisistema sociale, sia in civiltà primitive che in civiltà

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Unodegliscopifondamentalidelladiscussionechesegue èdiintrodurreaiproblemi di lunga portata implicati nella trasformazionesociale della coscienza. Fin da ora si comprenderà,comunque, che non sarà possibile trattare, in modoesauriente o solo adeguato le vite e le opere diquesti tre uomini nel breve tempo destinato aquesta discussione, li nostro scopo è quindipuramente introduttivo: è quel-

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progredite. In questo senso, si può dire che la categoriade l’uomo che trasforma la coscienza ha una qualitàarchetipica.Nello stesso tempo,essendo archetipica e quindiuniversale, è una categoria molto diffusa. Essa non puòessere portata a compimento come un archetipo ma solonelle forme particolari di esistenza individuale. A questopunto vediamo che, essendo gli archetipi soltantopossibilità o tendenze nel comportamento umano,quando arrivano ad essere rappresentati nella esistenzaumana concreta, non possono fare a meno di fran-tumarsi in particolari forme e modelli individuali e storici.Al punto in cui gli archetipi diventano specifici siesprimono in forme che vengono vissute indivi-dualmente ma che presuppongono al loro sviluppouno sfondo ed un modello storico.Equeste sono le immagini del seme, o dinatipi,nell'uomo,che procurano le forme ed i modelli storicispecifici attraverso i quali si compiono le tendenzedell'archetipo.Cosi scopriremo che, per quanto Buber, Tilliche Jung sono tutti esempi moderni della figura archetipica, l'uomo che trasforma la coscienza, le formespecifiche dell'archetipo attraverso le quali ciascuno di essi rappresenta il suo ruolo, sono diverse.Cosi, mentre il principio archetipico fondamentaleche determina il modello delle loro vite è lo stesso,le forme particolari di questa espressione, i loro dinatipi sono diversi. Le somiglianze e le differenzedi stile che caratterizzano lo svolgimento della lorovita sono molto importanti, specialmente in rapportoa possibili trasformazioni nella qualità didi coscienza dell'uomo moderno.

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lo di offrire una prospettiva, che permetta una va-iutazione più completa della vita e delle opere diTillich, Buber e Jung. Devo riservare questo studiopiù profondo per un'altra sede per ragioni di neces-sità, ma in questo contesto possiamo almeno, intro-durre i problemi.Poiché ciascuno dei tre uomini di cui parliamo èautore di una ricchissima produzione letteraria, ci èchiaramente impossibile presentare qui un esamecompleto della loro opera. Poiché non ci è possi-bile chiarire come vorremmo, in una forma intellet-tuale adeguata i nostri metodi interpretativi, piut-tosto che intraprendere una presentazione sistema-tica della loro opera, ho scelto un altro metodo,meno diretto, che potrebbe essere anche molto piùadatto agli scopi introduttivi di questo scritto. Trat-terò di Buber, Tillich e Jung confrontandoli fra diloro. Seguiremo per quanto possibile un punto divista aneddotico, cercando di comprendere i treuomini attraverso quei momenti della loro vita cheessi non dedicarono al lavoro intellettuale. Questopunto di vista aneddotico è volutamente asisiema-tico, ma, ciononostante, potrebbe permetterci di ac-costarci più direttamente ai miti profondi che cia-scuno di essi viveva nella realtà. Alla morte diMartin Buber, Paul Tillich pronunziò un discorso insuo onore alla Cerimonia Commemorativa che sitenne nella Sinagoga di Park Avenue in New YorkCity (3). In questo discorso Tillich si espresse contutto il suo essere. Rese onore a Buber entrando indialogo con lui, come aveva già fatto quattro anniprima alla Cerimonia Commemorativa per C. G. Jungtenutasi in New York City (4). Anche allora Tillichespresse il suo elogio nella forma più autenticapossibile, come un incontro aperto e senza riservecon quell'aspetto dell'opera e della vita di Jung cheaveva avuto in lui maggiore risonanza.In verità Tillich nel discorso in memoria di MartinBuber non parlò solo di Buber, ma indirettamenteanche di se stesso. Guardando retrospettivamente

(3) Pastora! Psychology,Seplember 1965, Voi. 16.No. 156, pg. 52.

(4) Paul Tillich, discorsoal Memorial Meeting forC. G. Jung. December 1.1961, pubblicato dallaNew York Association forAnalytical Psychology, pp.28-32.

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(5) " Pastoral Psycholo-gy ", op. cit. p. 53.

questo discorso che Tillich pronunziò solo tre mesiprima di morire, si potrebbe pensare che lo avevascritto anche per sé. E' molto comprensibile dal no-stro punto di vista psicologico, che ciò sia avve-nuto, in quanto Buber e Tillich espressero nelle lorovite lo stesso dinatipo. Ci potevamo quindi giusta-mente aspettare che esperienze profonde delle lorovite avessero molto in comune. Non era invece daaspettarsi che, vivendo lo stesso dinatipo, avesserouno stretto ed armonioso dialogo anche nei lororapporti personali e nelle loro opere. Difficilmenteci saremmo aspettata una cosa simile, dal momentoche le persone che vivono la stessa immagine divita sono più spesso in competizione ed in contra-sto fra loro che non in dialogo, come abbiamo avutotutti occasione di constatare nella storia del pen-siero. Il fatto che essi fossero in armonia tra di loroe non in competizione indica indubbiamente unacaratteristica della personalità di Buber come diTillich; ma esprime anche una qualità importantedel loro dinatipo. La capacità di dialogo sembraessere una caratteristica fondamentale dell'uomoche trasforma la coscienza nel mondo moderno. Neldiscorso in memoria di Buber, Tillich ricordò dueincontri che essi avevano avuto negli anni precedenti.Il primo risaliva agli anrìMn cui entrambi vivevano inEuropa. Il secondo avvenne dopo la loro partenzadall'Europa, quando Tillich si era già stabilito inAmerica e Buber si trovava di passaggio a NewYork (5).Si incontrarono per la prima volta, racconta Tillich,in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale quandoentrambi partecipavano al movimento di SocialismoReligoso. Durante una di queste riunioni Tillich ebbeil compito di esporre alcuni concetti fondamentaliper il movimento, in una forma che potesse soddi-sfare i gruppi di diverse tendenze che partecipa-vano alla riunione, gli umanisti ed i tradizionalisti.Per raggiungere questo scopo Tillich cercò di evi-tare l'uso dei termini religiosi più convenzionali,come per esempio Dio. Al suo posto usò frasi come

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realtà assoluta o interesse assoluto, che essendotermini più precisi da un punto di vista intellettuale,gli sembravano neutri sul piano emotivo e quindipiù sicuri da un punto di vista tattico. Buber allorarivolse a Tillich una critica che produsse in lui unaimpressione duratura. Buber affermò, secondoquanto riferisce Tillich, che i concetti intellettualierano soltanto una « facciata astratta » cheoffuscava il significato basilare delle attivitàreligiose e politiche. Alcune parole, disse, hanno unsignificato primordiale che non consiste nel riferirsi aqualche cosa, ma è inerente alle parole stesse. Anzinon solo alle parole ma alla loro stessa pronunzia.Tale è la parola Dio. Essa ha in sé una forzaprimordiale dalla quale riceve una vita ed un poterepropri. Cosi, anche se un intellettuale cerca dinascondere la parola Dio sotto una frase comeinteresse assoluto, il potere innato di questa parolapenetra attraverso quel concetto, che sta cercandodi nasconderla. Questo potere è infatti tanto grandee fondamentale — tanto inerente alla natura del-l'uomo, e quindi primordiale — che anche se si par-la, come fecero Nietzsche, o Dostoevski ed oggifanno alcuni giovani teologi Americani, di « la mor-te di Dio », la pronunzia della parola perfino in ter-mini di morte fa si che ne derivi qualcosa di vivo.Di qui il paradosso che parlare della morte di Dioproduce un effetto di risveglio spirituale e che quelliche pronunziarono questa frase in realtà contribui-rono in modo positivo alla vita spirituale dell'uomomoderno.

La realtà di questo fatto è il punto essenziale deldiscorso di Buber. La parola Dio ha, come egli so-steneva, una forza primordiale superiore ad ogniconcetto o contenuto intellettuale che le si possaattribuire. La parola stessa ha un suo proprio po-tere; il fatto quindi che essa venga usata in sensopositivo o negativo non è tanto importante quantoil fatto stesso di essere stata pronunziata. A questopunto non possiamo fare a meno di notare che

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l'aspetto primordiale della parola Dio di cui parlaBuber corrisponde, sul piano di una psicologia delprofondo, al fatto che la parola Dio esprime un fat-tore archetipico nella psiche umana. Essa è proprioli nell'uomo; è una esperienza innata nell'esistenzaumana; esiste, sia che la affermiamo o la neghia-mo. Cosi Buber espresse, a modo suo una conqui-sta alla quale C. G. Jung era giunto per una stradadiversa.

Per quanto riguarda Tillich, egli comprese, con lasua caratteristica apertura mentale il significatodell'argomento di Buber e lo accettò dicendo: « Bu-ber aveva ragione, ed io imparai la lezione ». Neglianni seguenti, dopo aver approfondito attentamentel'atteggiamento di Buber, Tillich lo applicò nella co-struzione e formulazione dei suoi concetti. In se-guito Tillich riconobbe che ne era stato influenzatoin modo particolare nello stile di liguaggio con cuicercava di comunicare nei suoi sermoni e nelle le-zioni meno ufficiali. Comprendendo questo fatto pos-siamo chiarire e comprendere più pienamente unadelle ambiguità che più colpiscono nell'opera diTillich: il contrasto tra le sue categorie strettamenteintellettuali e l'uso drammatico, spesso poetico, ditermini destinati ad interessare un pubblico laico.Nella teologia sistematica di Tillich, che per la suanatura richiede una struttura intellettuale, troviamotermini concettuali ben precisi; nei sermoni invece,che esprimono un suo tentativo maturo di raggiun-gere i suoi simili, Tillich segue il consiglio di Bubere parla con parole primordiali. E' un fatto stranoche, per potere stabilire un dialogo è necessarioparlare con parole primordiali. Superficialmente sipotrebbe pensare che non debba essere cosi. Leparole primordiali sono cosi vaste. Investono aspettidell'esperienza umana cosi profondi ed ampi, dafare pensare che proprio perché sono cosi' generalinon siano adatte a portare avanti un dialogo, inquanto un dialogo richiede qualcosa di piùparticolare ed anche di più oggettivo. Ma

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non è cosi. Le parole primordiali — come Dio eAmore — esprimono qualcosa di essenziale perogni persona, poiché fanno parte del profondo in-distinto dell'uomo. Qualcosa nell'intimo dell'uomo,indipendentemente dalle forme culturali o dalle dif-ferenze sociali, da alle parole primordiali una na-tura particolare tale che gli uomini possono com-prendersi tra di loro quando le pronunziano, qua-lunque sia la lingua particolare in cui venganoespresse. Per mezzo di queste parole, gli esseriumani possono comunicare tra di loro in quantoc'è di essenziale nella loro natura. Cosi si può sta-bilire un dialogo ad un livello profondo. Fu proprio diquesto argomento che Tillich discusse con Buber nelcorso dì quel loro secondo incontro che tantaimportanza ebbe per lui. Questo avvenne in unmomento posteriore della loro vita, quando siincontrarono in America, e questa volta fu Tillich asollevare il problema di come Buber concepiva lanatura del dialogo. Il punto principale del problemadi Tillich sembra che consistesse nell'osservare chela relazione che un uomo ha con un altro essereumano è sempre una relazione con un individuoparticolare, e che questo è inevitabilmente un indi-viduo con particolari caratteristiche, per esempio,svizzero, protestante, moderno, cittadino, di menta-lità scientifica e cosi via. Queste, diceva Tillich,sono caratteristiche oggettive. Cosi, nella misurain cui una persona si riferisce ad esse nell'altra per-sona, si riferisce a ciò che c'è di oggettivo nell'altrapersona presa come un oggetto, non come un sog-getto. A questo livello, quindi, si sviluppa tra i dueuna relazione Io-Esso, invece della relazione pri-mordiale lo-Tu di cui parla Buber.Tillich chiedeva quindi a Buber se la relazione trauomo e uomo non venga sempre tanto condizionatada fatti particolari di esistenza da dovere diventarenecessariamente una relazione Io-Esso. E doman-dava inoltre se in realtà la apertura incondizionatadella relazione lo-Tu, di cui parla Buber, non esistasoltanto in una relazione con ciò che è incondizio-

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(6) Presumo una familia-rità con i concetti fonda-mentali di Buber, alla lu-ce dello scritto su Buberpresentato precedente-mente agli incontri Era-nos dal prof. GershomSholem. Il lavoro classi-co di Buber su questoargomento è L'Io e ilTu, contenuto nell'ope-ra antologica edita dalleEdizioni di Comunità, Mi-lano 1959, con il titolo IIprincipio dialogico.

nato, cioè Dio. In questo modo Tiliich poneva a Buber una chiara distinzione intellettuale. Intendevache la relazione Io-Esso con tutti i suoi limiti è propria della esistenza condizionata degli esseri umani, che l'uomo incontra l'uomo solo nei limiti dellecircostanze della sua vita, e che la relazione lo-Tunon si riferisce alla relazione che l'uomo ha conl'uomo, ma alla relazione che l'uomo ha con Dio.La risposta di Buber a questo quesito e l'effetto prodotto su Tiliich furono caratteristici dei due uomini.Naturalmente per Buber è essenziale che la relazione lo-Tu venga considerata un fatto totale in sestesso (6). Sì può riferire a Dio come all'uomo comeanche ad un oggetto inanimato. E' un problema cheriguarda la profondità e la qualità della esperienzacon cui ci si accosta all'altro. Cosf una personapuò rivolgersi a Dio con l'atteggiamento di chi prega sperando che venga soddisfatto qualche suoparticolare desiderio; oppure può ricorrere a Dio inun momento di debolezza e paura per ricevere unsostegno emotivo. In ciascuno di questi casi si staservendo di Dio come un oggetto. Come dice Mei-ster Eckhart, è come se Dio fosse una candela cheun uomo accende in una camera oscura per potercercare qualcosa. Ma non appena ha trovato ciòche cercava, spegne la candela e la nasconde inun cassetto mettendola da parte per la prossimavolta che ne avrà bisogno. Questo atteggiamentodi usare Dio è la relazione Io-Esso nei riguardi diDio. /Noi sentiamo chiaramente che questa relazione conDio è imperfetta. Ma perché? Evidentemente per-ché l'idea che l'uomo occidentale ha di Dio è cheDio sia solamente soggetto. Sembrerebbe che Til-iich avesse in mente proprio questa idea nel porrela sua domanda. In quel momento considerò Diocome il soggetto infinito, come il Tu Eterno; e glisembrò che la relazione lo-Tu fosse il modo concui Buber parlava della relazione dell'uomo con Dio.In seguito però alla risposta di Buber ed al discorsoche ne derivò, Tiliich riusci a comprendere qual-

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cosa di diverso. Il che lo condusse ad una espe-rienza che fu per luì nuova e trasformatrice. Dallarisposta di Buber Tillich comprese che possiamopronunziare la Parola primordiale Dio, in ciascunodei due modi possibili: possiamo pronunziarla comeuna relazione Io-Esso o come una relazione lo-Tu.Dio in se stesso non è essenzialmente l'una o l'al-tra. Il problema consiste in come noi siamo capacidi rivolgerci a Dio.Si potrebbe dire la stessa cosa per una relazionecon un altro essere umano, o con un oggetto inani-mato, un albero, un pezzo di legno che stiamo scol-pendo, un compito che ci è stato affidato. Con tuttopossiamo entrare o in una relazione Io-Esso o inuna relazione lo-Tu. Il fattore determinante non con-siste nella natura del secondo elemento del dialogo,né nel fatto che ci rivolgiamo a Dio, o ad un uomo,o ad un albero. Il fattore determinante è la qualitàdi coscienza della persona che stabilisce la relazio-ne, l'Io capace di renderla una relazione Io-Esso olo-Tu.A questo punto si pongono due problemi. Il primoe più importante problema, che ha bisogno di es-sere esaminato in una prospettiva più ampia possi-bile, riguarda ciò che è necessario da un punto divista psicologico per conseguire quella qualità dicoscienza che rende possibile una relazione lo-Tu.Il secondo problema riguarda la natura stessa dellarelazione lo-Tu. Tillich comprese che essa non siriferisce puramente ad un fatto sociale. Compreseanche che implica molto di più di un atteggiamentoda seguire nella condotta etica. lo-Tu sembra es-sere essa stessa una parola primordiale. Le pro-fonde risonanze emotive che suscita indicano cheè un concetto che racchiude nel suo intimo un po-tere numinoso, nella stessa misura di un simboloarchetipico. Nella relazione lo-Tu non ci sono unsoggetto ed un oggetto, bensi due soggetti. Il chesignifica che una persona come è cosciente dellapropria realtà ugualmente è cosciente della realtàdell'altro, sia esso Dio, una persona, o un albero.

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(7) Pastora! Psychology,op. cit. p. 53.

Ma mentre ciò avviene, nell'atto di prendere co-scienza della realtà propria e dell'altro, viene allaluce un fatto nuovo che prima non c'era. Interviene,allora nella situazione una forza numinosa che esi-ste senza dubbio, ma è difficile definire. Emerge, inquesto aspetto della relazione lo-Tu, una realtà spi-rituale.Possiamo dire che a questo punto il concetto diBuber si rivelò a Tillich particolarmente suggestivo.Scrisse infatti: «Questo dialogo fu uno dei più im-portanti dialoghi che io abbia mai avuto » (7). Com-prese che la relazione lo-Tu ha in sé quella numi-nosità religiosa che generalmente viene identificatacon Dio; ma comprese anche che la relazione lo-Tunon è identica a Dio. Essa ha in sé il potere, ma inrealtà è molto più libera nella portata delle sue pos-sibilità. Giunge più lontano e permette a questo po-tere di accedere nelle piccole cose dell'esperienzaumana, in particolar modo nelle zone laiche delmondo moderno in cui Dio ha difficoltà a penetrare.Fu cosi che Tillich scopri nella realizzazione di undialogo lo-Tu e particolarmente nella qualità di co-scienza che lo rende possibile, l'essenza di ciò cheegli prima considerava la forza del divino, il Sacro.Questa fu per Tillich una esperienza trasformatrice.Fu per lui di una enorme importanza in quanto glioffri una dimensione particolare che gli permise dimettere a fuoco nella vita del mondo il suo concettodi Dio; concetto che precedentemente era statotroppo astratto ed elevato per poter essere usato.Ora poteva comprendere che la relazione lo-Tuesprimeva e racchiudeva quell'aspetto del suo con-cetto di Dio in cui risiede il potere, in modo chepossa essere vissuto dinamicamente e concreta-mente nella vita del mondo. Tillich stesso disse chequesto per lui significò « intuire che l'imperativomorale con il suo carattere assoluto è la stessacosa che richiedere che io riconosca ogni personacome una persona, ogni tu come un tu, e che iovenga riconosciuto nello stesso modo ».

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Questa consapevolezza del potere spirituale che siattualizza nel dialogo tra due Tu, diventò un puntofondamentale ed una esperienza costante nell'operadi Tillich. E' interessante notare che il termine dia-logo viene usato pochissime volte nei suoi scritti.Ma intanto il concetto e particolarmente l'esperien-za che esso rappresenta sono sempre sottintesi.Come se, una volta assorbito profondamente in sestesso il concetto di Buber relativo alla relazionelo-Tu, non dovesse più parlarne. Parlarne era statocompito di Buber. Proprio come avviene tra duepartner in affari; se uno cura le vendite e l'altro sioccupa della fabbrica, l'uno è complementare all'al-tro ed il lavoro è produttivo. Questo intendeva Til-Yicn quando nel suo discorso commemoraìwo tììsseche ricordava Buber come « un partner in un dia-logo ». Essi infatti lavorarono come partner, in unmodo privo di formalità, spontaneo, senza altra re-gola che i bisogni della loro vita interiore. Il loro èveramente un esempio ottimo ed utile di come pos-sa operare nel mondo moderno la relazione lo-Tu.Il concetto della relazione lo-Tu e della vita di dia-logo assume un significato particolare per coloroche pensano che nell'uomo non è importante sololo spirito ma anche la sua esistenza sociale e sto-rica. La relazione lo-Tu è un ponte tra l'aspetto spi-rituale e quello sociale. Sembrerebbe infatti che Bu-ber stesso sentisse fortemente il bisogno di trovarequesto legame. Ragioni profonde lo spingevano aricercare un legame concreto e che potesse esserevissuto tra Dio e uomo, divino ed umano. Sembrache questo fosse un bisogno del dispiegarsi dellasua immagine di vita, del suo dinatipo e del suomito profondo.Potremmo prendere come esempio di quanto ab-biamo detto una discussione molto interessante te-nuta da Buber riguardo al tanto drammatizzato ri-fiuto che Kierkegaard fece della sua fidanzata Re-gina. Non si trattò soltanto delle responsabilità eco-nomiche del matrimonio e di quanto avrebbero op-

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(8) Martin Buber, BetweenMan and Man, tradottoda R. G. Smith, Beaconpaperback, New York1955, p. 52.

(9) Ibid. p. 52.

(10) Ibid. p. 52.

presso il giovane filosofo. Ci saranno stati certa-mente anche altri problemi, romantici, fisici e dialtra natura; ma Kierkegaard trasformò il suo rap-porto con Regina in un principio filosofico. Scrisseinfatti « Per poter arrivare all'amore ho dovuto ri-muovere l'oggetto » (8).Per Buber un simile atteggiamento significa voltarele spalle al mondo proprio al punto in cui dovrebbeavere inizio la vita. Se rimuoviamo gli oggetti nonabbiamo modo di metterci alla prova. Buber scrive:« La creazione non è una barriera sulla strada cheporta a Dio. E' la strada stessa » (9). Ancora unavolta la relazione lo-Tu con la vita comporta, quan-do sia compresa e sperimentata profondamente,una trasformazione radicale nella qualità della co-scienza individuale. Quando consideriamo l'oggettodi un atto, sia esso amore, lavoro o qualunque altracosa, come qualcosa che si pone di fronte a noi,come un nemico da combattere, l'unica nostra pos-sibilità è di combattere valorosamente. Tale lottainfatti può essere pericolosa e perfino fatale. PoichéKierkegaard aveva questo atteggiamento, forse fecebene ad evitare di lottare tutta la vita con Regina.Ciò avrebbe potuto significare per lui una morteancora più prematura. Potremmo d'altra parte sug-gerire l'ipotesi, che se avesse accettato la lotta, lasua filosofia avrebbe acquistato un tono molto di-verso.Buber considera di grande importanza questo argo-mento, ed afferma con fiducia: « Dio vuole che noiarriviamo a Lui per mezzo delle Regine che Egli hacreato, e non rinunziando ad esse » (10). Per mezzodei compiti che incontriamo nella vita, e delle per-sone che rappresentano questi compiti quando noile consideriamo come responsabilità: questo Buberintende vivere la vita di dialogo. Le Regine del mon-do rappresentano le occasioni per stabilire dellerelazioni e per vivere la vita. Sono le condizioniperché avvenga la relazione lo-Tu. « Rimuovere l'og-getto », come fece Kierkegaard, significa rimuoverel'occasione di entrare nella vita e di ricavarne qual-

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che cosa; significa rimuovere l'occasione di avereun incontro lo-Tu. Produce un vuoto, e l'unico ri-sultato possibile è una vita puramente soggettiva.L'altra possibilità è quella di accettare la presenzadell'altro come un oggetto per la nostra vita e cer-care di entrare in un rapporto cosi profondo con luida trovare il Tu che quello racchiude, in modo chequesta persona che per noi era un oggetto, diventaun soggetto. Questo Buber intende per un atto spi-ritualmente creativo.

Nel racconto di una sua esperienza personale Bu-ber ci da una indicazione ulteriore di come ve-deva l'importanza di essere sempre pronti a coglie-re il Tu nell'altra persona. Racconta che un giornoun giovane andò a fargli visita per porgli alcunedomande. Mentre Buber parlava con lui era distrattoda altri pensieri e non si rivolse al suo interlocutorecon tutto se stesso. Senza rendersi conto del gradodi disperazione e confusione che aveva spinto il gio-vane a chiedergli un colloquio, lo lasciò andare via.In seguito Buber seppe che dopo la visita il giovanesi era suicidato; allora ne soffri molto, dando lacolpa a se stesso. Sentiva che se fosse riuscito araggiungere il Tu nell'altra persona, quella non sisarebbe suicidata (11). Se dal punto di vista dellapsicoterapia possiamo dire con certezza che Buberfu ingiusto con se stesso addossandosi questa col-pa, possiamo d'altra parte comprendere il suo pun-to di vista. Senti questo fatto come una prova fattapersonalmente in vita del significato della filosofia.Ogni volta che un essere umano ci avvicina, ab-biamo il dovere di essere attivamente presenti. Ab-biamo il dovere di entrare in dialogo per il solo fattoche un nostro simile ci è venuto incontro. Dobbia-mo essere presenti con tutte le nostre capacità cosiche il nostro lo possa entrare in relazione piena-mente con il Tu dell'altro.Questo fatto, che racchiude in sé una percezioneprofonda di grande importanza, ci offre una indi -cazione fondamentale per comprendere il mito pro-

(ti) Ibid. pp. 13-14.

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(12) Buber Martin, Eclissi di Dio. Edizioni di Comunità, Milano 1961.(13) Buber Martin, ToHallow This Life. Antologia edita con una introduzione di Jacob Trapp,Harper and Brothers, NewYork 1958.

fondo che guidò Buber. Egli si senti chiamato a vi-vere in mezzo al mondo, a raggiungere il Tu inmolti altri uomini. Anche il suo modo di parlare inpubblico, che era un tentativo di iniziare un dialogofra molti dei presenti contemporaneamente, ne erauna dimostrazione. Senti inoltre l'importanza di par-lare in posti in cui si potessero incontrare personedi ogni livello di vita, oltre che nelle università edaltri circoli intellettuali. Anche a questo riguardoMartin Buber e Paul Tillich si trovarono concordied agirono come partner.Nelle prime pagine dell'opera Eclissi di Dio Buberci descrive un'altra esperienza personale che si ri-ferisce a questo suo atteggiamento. Un operaio cheseguiva attento e riflessivo le sue lezioni di reli-gione rispondeva ripetendo continuamente la frase« So per esperienza che per sentirmi veramente amio agio nel mondo non ho bisogno dell'ipotesi" Dio " ». Buber replicò approfondendo ed esami-nando ampiamente il problema, fino a che l'operaionon fu d'accordo con lui. Ma anche questo nonera sufficiente per Buber. Desiderò accompagnarel'uomo nella fabbrica per dimostrare li nel mezzodel mondo industriale cosa intendeva per il Dio delDialogo (12).A questa si ricollega una storia Chassidica che Bu-ber racconta in uno dei suoi libri (13). Uno studentedel Talmud che si alza molto presto la mattina perpoter terminare gli studi, nota che il fabbro di fron-te sta già lavorando nel suo negozio con la luceaccesa. La mattina seguente lo studente si alza pri-ma per potersi mettere al lavoro prima del fabbro,ma la mattina successiva il fabbro si è alzato an-cora prima e si è messo al lavoro prima di lui. Lecose continuano in questo modo ed ognuno dei duecontinua ad alzarsi sempre prima per poter accen-dere la luce ed essere al lavoro prima dell'altro.Alla fine, arrivati al punto che non c'era quasi piùtempo per dormire, lo studente decise che era ne-cessario parlare con il fabbro ed avere una spie-gazione.

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Presa questa decisione andò a trovare il fabbro alsuo negozio, gli spiegò lo scopo dei suoi studi econ molta serietà concluse « Devi capire quello chesto facendo ». Al che il fabbro con pari serietà ri-spose « E tu devi capire quello che sto facendo io ».Buber condivideva questo riconoscimento chassidi-co del valore del Tu in ogni esser umano. Ogni per-sona ha la sua propria integrità, il suo bisogno diuna vita autentica, che devono essere rispettati co-me qualcosa che ha un suo proprio valore. Questoè il Tu nell'altra persona, e non dipende dagli aspettiesterni della società o dai casi della condizionesociale. Il Tu del fabbro non vale meno di quellodello studente. Entrambi hanno i loro compiti daportare a termine ed i loro limiti di orgoglio e diansia, fra gli altri limiti interiori, da superare. En-trambi hanno lo stesso valore se si considera que-sta dimensione di esperienza, la dimensione del Tu.Nel momento in cui diventa possibile l'incontro deiTu, tra lo studente ed il fabbro o tra qualunquealtri due Tu, l'incontro diventa un fatto che ha unvalore spirituale perenne. In questa occasione qual-cosa di nuovo viene creato, qualcosa di nuovo vie-ne alla luce: esiste ora una nuova realtà. Una voltapoi che è venuta alla luce ed è stata aggiunta allealtre esperienze umane, vi rimane per sempre. Unnuovo potere è venuto al mondo e ciò avviene ognivolta che si realizza una autentica relazione lo-Tu.Un significato spirituale penetra nel mondo attra-verso questo tipo di dialogo fra Tu. Cosi il fatto ditrovare un punto di contatto con il Tu dell'altro siarricchisce di una importanza sociale e spiritualeoltre che personale. Per Buber fu un fattore fonda-mentale nel senso della sua vocazione profonda;ed ebbe un ruolo molto importante nel suo mitoprofondo.

Ancora nel libro Eclissi di Dio, Buber ci raccontauna seconda esperienza simile all'incidente conl'operaio tedesco. Questa volta l'interlocutore fu unvenerabile professore di filosofia nella cui casa Bu-

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(14) " Eclissi di Dio ", op.cit. p. 7.

ber era ospite (14). Una mattina Buber gli lesse unparagrafo di un nuovo libro che stava scrivendo.Dopo che ebbe finito di leggere, il vecchio profes-sore prese la parola per esprimere il suo parere.Il tono con cui si espresse era cordiale ma diventòsempre più emotivo durante il suo discorso. Disse:« Come puoi arrivare a ripetere tante volte la pa-rola ' Dio '? Come puoi immaginare che i tuoi let-tori diano a questa parola il significato che tu vor-resti? Ciò che tu intendi col nome di Dio è qualcosache supera la comprensione umana, ma parlandonetu la hai abbassata al livello della concettualizzazio-ne umana. Quale altra parola del linguaggio umanoè stata cosi abusata disonorata, profanata! Tutto ilsangue innocente che è stato versato per lei l'haprivata del suo splendore. Tutte le ingiustizie che èstata costretta a coprire hanno cancellato i suoi li-neamenti. Quando sento chiamare ' Dio ' l'altissimo,mi sembra quasi una bestemmia ». Queste furonole parole del vecchio.Il punto di vista sostenuto dal professore era, in so-stanza, un'eco dell'atteggiamento di Tillich nel suoprimo incontro con Buber. Che cioè la parola Dio,in seguito a tutti gli abusi sociali che ha sopportatoe a tutte le errate implicazioni emotive che ha ac-quistato lungo il corso dei secoli, ha perso la suautilità. Sarebbe molto meglio usare al suo postoqualche espressione /intellettuale nuova e più pre-cisa, li professore riconosceva quanto fosse grandeed incommensurabile ciò che Buber cercava diesprimere con la parola Dio, e proprio per questaragione l'uso di questa parola lo turbava. Egli sen-tiva qualcosa di offensivo e di sacrilego in questouso dal momento che in questo periodo storico lapersona comune non darà alla parola lo stesso si-gnificato attribuitole da Buber.

E' da notare che proprio il modo in cui il profes-sore espresse la sua critica era una dimostrazionedi quanto Buber aveva sostenuto nella risposta dataa Tillich, argomento che Tillich accettò ed incor-porò nel suo pensiero. Che cioè la parola Dio è una

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parola primordiale — una parola archetipica, sepreferiamo — e perciò ogni volta che qualcuno haa che fare con essa, sia in modo positivo che ne-gativo, si producono necessariamente una grandeenergia ed un intenso effetto emotivo. Cosf il pro-fessore, mentre intellettualmente non può tollerarel'uso della parola Dio, mostra, con la sua reazioneuna profonda religiosità. La sua frase ' quasi unabestemmia ', impedendo un vero dialogo, indica cheegli identifica la parola Dio soltanto con la bontà ela perfezione.La risposta di Buber al professore fu molto interes-sante, ed egli riusci a fare un passo avanti rispettoalla risposta data a Tiliich nel loro primo incontro.Per prima cosa, ammise che la parola Dio è forte-mente sovraccaricata di associazioni estranee e cheporta con sé ancora molti fra i più seri errori e con-fusioni della storia; ma, soggiunge Buber, « Non po-trei abbandonarla » solo per questa ragione. A cau-sa di tutte le sovrastrutture connesse con la parolaDio, le persone che sentono Buber parlare ed usarela parola Dio comprendono qualcosa di diverso daciò che egli intende esprimere attraverso di essa:esiste quindi un problema di comunicazione, cheperò sussiste in realtà solo ad un livello superficiale.La comunicazione viene impedita solo alla super-ficie, bloccata da forme sociali di pensiero. Ad unlivello più profondo invece, la comunicazione puòprocedere con assoluta libertà senza tener contodelle associazioni coscienti, poiché la parola Dio,in quanto parola primordiale ed archetipica, è pre-sente in ognuno come potenzialità di conoscenza.E' presente nelle profondità della psiche di tutti;aspetta soltanto di essere richiamata. Per Buberquesta non è una affermazione puramente accade-mica, o filosofica, o di psicologia teoretica. Egli neè coinvolto con tutta la persona, facendone vera-mente il principio fondamentale sulla base del qualevisse gran parte del suo mito profondo. Poiché leconfusioni sono solo superficiali mentre nelprofondo della psiche di tutti gli uomini c'è

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(15) Ibid. p. 8.

(16) Ibid. p. 61.

questa unica immagine, la comunicazione è possi-bile senza tener conto di come « le razze umanehanno fatto a pezzi il mondo con le loro discordiereligiose » (15), come dice Buber. Bisogna quindiperseverare nell'usare la parola Dio. Bisogna per-severare nell'usarla ma non come un dogma bensìcome una affermazione di ciò che è presente nel-l'uomo, per quanto ricoperto dalla polvere della sto-ria. Se si persevera con pazienza l'uso di questaparola produrrà infine delle trasformazioni nella co-scienza dell'uomo in quel periodo storico in cui lasi pronunzia. Questa era la fede personale e fon-damentale di Buber. Era il punto centrale del mitoprofondo che lo sosteneva.Fu proprio per questa fede che gli veniva dalla con-sapevolezza della immagine che si svolgeva nellasua vita, che Buber potè rispondere come fece alvecchio professore. Quando gli fu rivolta l'accusadi parlare di un Dio diverso da quello immaginatodai suoi ascoltatori, potè rispondere con forza edaffermare che veramente parlava dello stesso Diodi tutti gli uomini. Disse: « In verità, io intendo quel-lo che le generazioni di uomini tormentate dall'in-ferno e all'assalto del paradiso intendono. E' vero,disegnano caricature e vi scrivono sotto ' Dio '; siuccidono gli uni con gli altri e dicono ' nel nome diDio'; ma quando ogni follia e delusione cadono inpolvere, quando si presentano di fronte a Lui nelletenebre più solitàrie e non dicono più ' Egli, Egli 'ma sospirano, gridano ' Tu, Tu ' tutti quell'unica pa-rola, e quando poi aggiungono ' Dio ', non implo-rano tutti il vero Dio, il Solo Dio Vivente, il Dio deifigli dell'uomo? Non è proprio Lui che li ascolta?E non è proprio per questa ragione che laparola ' Dio ' la parola della supplica, la parola cheè diventata un nome, è sacra per sempre in tutte lelingue umane? » (16).Cosi replicò Buber e ci racconta che in risposta ilprofessore lo abbracciò dicendo: « Diventiamo amici». Evidentemente la parola essenziale era statapronunziata. Ma cosa voleva dire veramente Buber

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con ciò? E cosa rivelava di se stesso cosi? Per pri-ma cosa faceva capire che secondo lui le diffe-renze nelle concezioni intellettuali di Dio sono dipoca importanza. Esse infatti, come per esempioquelle tra il punto di vista del professore ed il puntodi vista della persone comune, hanno poco a chefare con Dio.Dio non si interessa di ciò che uno pensa di Lui,ma di come uno entra in rapporto con Lui. E' que-sto che determina se avverrà o non una relazionelo-Tu, ed è per mezzo di questa relazione che ilpotere della divinità può penetrare nel mondo. Que-sto è il contatto con il Tu di un altro che genera ilpotere centrale di ciò che noi percepiamo ed indi-chiamo come divinità nel mondo. Dalla risposta cheBuber dette al professore possiamo comprenderequale significato attribuiva alla sua esistenza, qualecompito sentiva di dovere adempiere nella sua vita.La cosa più importante che si può dire su Dionell'era moderna, oltre al fatto che vi sono moltimodi contrastanti di conce-pirLo e che il Suo Nomeè molto misconosciuto, è che l'uomo moderno tendea vivere fuori della relazione con Dio. Ciononostante,come Buber aveva capito, la parola primordiale Dio èsempre presente. L'immagine archetipica è sempreli. Per qualche intuizione, che secondo me deriva daldinatipo che impersonava, era convinto che lacondizione di vita dell'uomo moderno èessenzialmente instabile. Le sue dinamicheprofonde la condurranno alla distruzione. Cosidobbiamo considerare transitorio dal punto di vistastorico il fatto che l'uomo nell'era moderna havissuto senza una reale relazione con Dio. Questamancanza di relazione dovrà infine cadere ed essererimpiazzata da una relazione reale e positiva. Laragione è semplicemente questa: poiché l'immaginedi Dio, che corrisponde alla parola primordiale Dio, èsempre presente nell'uomo, la sua immagineprofonda sopravvivrà sicuramente alle condizionisociali in cui nessuna relazione con Dio è vissuta. Ilvuoto verrà infranto, quando la pa-

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rola primordiale si farà pronunziare con una forzacapace di annullare le sue circostanze storiche.Questa fu una percezione intuitiva di Buber, cheesprimeva la inclinazione naturale del suo dinatipoed il mito profondo che egli viveva.

L'intuizione di Buber su come ciò avverrà corri-sponde a quella di Jung, quando Jung cercò unarisposta che chiarisse come un individuo che hauna frattura nella sua psiche viene spinto versol'integrazione. Jung arrivò alla conclusione che ilprimo passo è il peggioramento del disturbo. A que-sto seguirà, quando sarà diventato abbastanza se-rio, una ulteriore trasformazione che darà inizio alcapovolgimento. Allo stesso modo Buber compreseche quando l'uomo moderno avrà sofferto abbastan-za per la sua alienazione dalla vita, vista come ri-sultato della mancanza di relazione con Dio, i nega-tivi si negheranno a vicenda e la parola primordiale,l'archetipo, si ristabilirà come un fatto di esperienzaumana. Allora, fuori dagli abissi della disperazione,la parola sarà pronunziata in modo tale che sapre-mo che qualcuno l'ascolta. Allora, inoltre, la rela-zione con Dio tornerà ad essere lo e Tu. Cosi av-verrà. Alla fine dovrà avvenire. Che Buber intuiscaciò e vi creda è fondamentale per comprenderecome egli concepiva il suo destino, il compito par-ticolare della sua vita. Egli vide^^se stesso comeuna persona cui fu ordinato di continuare a pro-nunziare la parola primordiale durante questo pe-riodo intermedio finché non arrivi il momento in cuil'uomo moderno, preparato dalla storia, sarà capacedi pronunziarla ancora una volta da solo per suobisogno e per suo desiderio. Allora sarà stato por-tato a termine il compito principale della storia mo-derna e del destino personale di Buber, il compitodi ristabilire tra uomo e Dio il dialogo lo-Tu.

Da come ho descritto il modello del pensiero diBuber, possiamo vedere che il suo modo di pen-sare era qualcosa di molto più antico della psico-

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logia del profondo. Rappresenta quel modello ci-clico esposto da Mosé nella sua profezia della sto-ria che è il prototipo di tutte le profezie storichedella civiltà occidentale. E' il modello fondamentaledi profezia secondo cui l'uomo dimenticherà Dionei periodi di benessere e ritornerà a lui in tempodi sofferenza. Esprimendo questo modello Buberimpersonava nuovamente in forma moderna il dina-tipo del profeta. Ma dobbiamo osservare che lo ar-ricchiva anche di una nuova dimensione. Buberaggiungeva la dimensione del dialogo. Ciò eraveramente già implicito nella profezia che ri-guardava la relazione dell'uomo con Dio; ma ilmodo con cui Buber la formulò rende accessibilein modo più specifico all'uomo moderno il poteredell'incontro con Dio. La chiave di ciò consiste es-senzialmente nel fatto che Buber comprese che l'as-senza di potere nella storia è l'assenza di contatto,la mancanza di relazione, l'incapacità di un lo dipercepire un Tu al di fuori di se stesso con il qualestabilire un rapporto. Ma questo non può essereforzato. Bisogna aspettare il momento del dialogo.Bisogna aspettare che arrivi, ma nello stesso tem-po si può anche preparare la sua venuta parlando,pronunziando quella parola che giace nel profondodell'uomo aspettando il momento adatto per venirefuori.Nel pensiero di Buber è implicito che nel momentoin cui questa parola, che è la parola primordiale, èmaturata nell'uomo al punto di parlare, allora sonostate poste le basi del dialogo. Quando la parolaparla nell'uomo, è avvenuto il rapporto con il Tu.Secondo Buber ciò accade inevitabilmente di tantoin tanto nella storia, ma è necessario che nei pe-rìodi intermedi vi siano alcune persone tanto iden-tificate con la vita di Dio nel mondo, da testimoniarela continuità del Tu di Dio mentre altre persone cre-dono ed agiscono come se la parola non esistessepiù. La parola continua ad esistere anche se sepoltao nascosta. Alla fine farà in modo di essere pro-nunziata, ed è questo il valore del dinatipo rappre-

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sentato da Buber, il dinatipo dell'uomo che pronun-zia la parola di Dio. Quando arriva il momento incui la parola è pronta ad esprimere il suo bisognodi parlare nella storia dal profondo dell'uomo, ilfatto che qualcuno, anche nel periodo di silenzio,abbia continuato a pronunziarla agisce come unpunto focale per il nuovo dialogo e rende più facileil risveglio.La nuova dimensione ed il grande contributo offertida Buber non si limitano al fatto che egli pronunziala parola primordiale, Dio. Molti, infatti, potrebberofarlo in un contesto o in un altro, con maggiore ominore autenticità. Il suo grande contributo consistenell'avere mostrato all'uomo moderno che ciò chel'uomo cerca quando cerca Dio, non è contenutoin nessuna verità oggettiva; piuttosto è un avveni-mento profondo che dipende dalla qualità di rap-porto con il Tu in mezzo al mondo. Se dirigiamol'attenzione sul rapporto facciamo in modo che Diopossa diventare presente per noi. Su questo sfondopossiamo dare alla persona di Buber un ruolo difigura profetica. In tale definizione, come fecenotare Tillich, c'è del vero e del falso. Che Buber inalcuni suoi manierismi, si sia servito di qualcheornamento superficiale di stile profetico, fu una cosasoltanto esteriore e di poca importanza. Di maggiorrilievo per il ruolo di profeta fu il senso della storiache Buber possedeva. E' interessante a questoriguardo conoscere come Tillich definisce il profetico.Dice: « Profetico significa esprimere la presenzadivina in una situazione particolare ». L'aspettoprincipale di tale definizione è forse il suo porrel'accento sulla necessaria adattabilità. Buber fumolto consapevole di ciò. Cosf, avendo compresoche i simboli di Dio hanno perduto il loro valorenella forma di espressione convenzionale, richiamòl'attenzione sul potere intrinseco della relazione pri-mordiale lo-Tu, in quanto questa stabilisce un con-tatto che porta nel mondo la presenza della Divi-nità, ma non dipende affatto dal credere in simboliparticolari. Ne consegue che Buber potè accettare

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con estremo realismo il laicismo del mondo mo-derno ed essere inoltre assolutamente convinto chenon c'è niente di profano attualmente che non pos-sa essere santificato quando arriviamo ad una pro-fondità tale da poter entrare in rapporto con il Tuche è in esso.A questo punto l'intuizione di Buber ebbe enormiconseguenze sul lavoro che lo stesso Tìllich stavafacendo. Parlando di Buber Tillich disse: « Mi sonosempre trovato d'accordo, in nome di quello che hochiamato il Principio Protestante, su questa aper-tura verso ciò che è secolare; essa precorreva unatteggiamento su cui la fase più recente della teolo-gia Protestante ha posto l'accento: la libertà dallareligione, incluse le istituzioni religiose, in nome diquello che è lo scopo della religione» (17). Com-prendiamo a questo punto che per Tillich Buberimpersonava quella tensione critica con la qualeegli stesso dovette lottare prima di potere arrivaredalla posizione che aveva nel Cristianesimo ad unaposizione che gli permetteva di affermare la vitadello spirito per l'uomo moderno, o che gli permet-teva di passare dalla fede in un Dio legato ad unadottrina particolare ad una denominazione profeticadi quello che chiamò « Dio oltre Dio ». Cosi PaulTillich continua: « Questo atteggiamento spiegal'enorme influenza che Martin Buber esercitò sulmondo laico, specialmente sui giovani i quali ormaiconsiderano prive di significato le attività e le affer-mazioni delle chiese e delle sinagoghe. Egli avevacapito che non possiamo continuare a servirci diqueste come se niente fosse cambiato nella storia.Ciò fa di lui un teologo autentico ». Con questafrase, Paul Tillich rende a Martin Buber il suo tributodefinitivo rivelando nello stesso tempo a noi il suopersonale mito profondo. Secondo il pensiero diTillich essere un teologo autentico equivale ad essereun profeta di Dio in mezzo ad un mondo laico. Maper poter valutare esattamente il significato di questaespressione dobbiamo comprendere come Tillich sirappresentò l'immagine di

(Y!) " Pastoral Psycholo-gy ", op. cit. p. 54.

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un teologo e come questa si formò e si sviluppò nelcorso della sua vita e del suo lavoro.

(18) Tillich Paul, " On thèBoundary ", Charles Scrib-ner 's Sons, New York1966, p. 59.

Ci potremmo domandare come mai, in questa epo-ca di scienza e di filosofia della scienza, qualcunopossa aspirare ad essere in primo luogo un teologo.Questo problema riguarda non solo il punto da cuil'individuo parte e quello che vuole raggiungere, maanche da un punto di vista storico da dove partee dove vuole arrivare l'umanità. Il punto di partenzadi Tillich era nella situazione religiosa del Cristia-nesimo, non solo perché il padre era un ministroprotestante, ma anche perché egli vide il Cristiane-simo come la situazione fondamentale dell'uomo oc-cidentale. Questo indica dove l'uomo occidentale è;verso quale direzione si muova è poi un altro pro-blema.Che vi fossero inoltre coinvolti fattori di gusto sog-gettivo e di esperienze personali, lo possiamo rile-vare dal suo scritto autobiografico, in cui leggiamo:« II mio amore per le chiese, con la loro atmosferamistica, per la liturgia la musica ed i sermoni, perle grandi festività cristiane che influenzano la vitadella città per giorni ed anche per settimane du-rante l'anno, produsse in me una sensibilità incan-cellabile per ciò che è ecclesiastico e sacramen-tale. A ciò bisogna aggiungere i misteri della dot-trina cristiana e l'impronta che lasciano nella vitaprofonda di un ragazzo, il linguaggio delle Scritture,e le esperienze stimolanti della santità, della colpae del perdono. Tutto ciò ebbe un ruolo determinantenella mia decisione di diventare e continuare ad es-sere un teologo » (18).Questi fattori che fanno parte di un gusto perso-nale, sono come i canali lungo i quali incomincia ascorrere il piccolo fiume della personalità. Sonoespressioni del sé ambientale. Il sé ambientale èquella parte della personalità che attingiamo dalloesterno di noi stessi, dalle abitudini e dallo stile divita che ci circondano, in mezzo ai quali viviamo,imitando inconsciamente l'ambiente ed identifican-doci con esso come se esso fosse noi stessi.

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Mentre alcuni conformano tutta la loro vita a que-sti fattori ambientali, per altri il sé ambientale è soloil punto di partenza di fronte al quale si sviluppaquella parte della personalità che ha in sé il signifi-cato più ampio della vita dell'individuo. Per questepersone il sé ambientale mentre offre le prime pos-sibilità di sviluppo, in seguito diventa come un gu-scio che bisogna spezzare perché la vera vita del-l'individuo possa emergere. Nella vita di personecreative ritroviamo ogni volta questo modello fon-damentale; che quel seme che nasconde dentro disé il potere e la unicità della personalità individuale,perché possa stabilire le condizioni che permettanoil suo sviluppo totale, deve aprirsi un passaggio at-traverso il guscio delle sovrastrutture ambientali.Questo processo, comunque, di aprirsi un passag-gio ed irrompere fuori del guscio del sé ambientalenon avviene rapidamente, ma richiede tutta una vita.Richiede un movimento costante avanti e indietroin cui gli opposti che sono nella persona si muo-vono continuamente l'uno contro l'altro formandopoco alla volta nuove integrazioni. Cosi si svolge ilprocesso dialettico della psiche. La sensazione chela persona ha di se stesso, durante lo svolgimentodi questo processo, è quella di vivere contempora-neamente in due mondi e di dovere andare conti-nuamente avanti e indietro passando dall'uno all'al-tro. Cosi molto giustamente Tillich pubblicò con iltitolo On thè Boundary (19) un resoconto autobio-grafico della sua vita.Senti la sua vita come un susseguirsi di situazionidi limite che erano innate nelle contraddizioni dellasua esistenza, come i temperamenti diversi del pa-dre e della madre, l'aspetto urbano e quello ruraleche coesistevano in lui, il contrasto tra Luterane-simo e socialismo, tra il dottrinale e l'universale, trail tradizionale e l'utopistico. Sentendo di esseresempre sul limite di queste ed altre situazioni divita, riconobbe che la sua vita ed il suo lavoro po-trebbero essere compresi come un tentativo di con-ciliare gli opposti dentro di sé e di rendere la si-

(19) Ibid.

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tuazione di limite una occasione per la scoperta ela creazione di un significato nella vita. Nelle ricercheche abbiamo fatto nelle vite di persone creativeabbiamo ritrovato questo modello ricorrente:l'enorme sforzo compiuto dal seme per aprirsi unvarco attraverso il suo guscio ambientale. Ciò vienetalvolta vissuto come una opposizione totale in cui ilvecchio sé ricevuto dall'esterno ed il sé in germeche cerca di svilupparsi dall'interno combattono unalotta di vita o di morte. Spesso la violenza di questalotta è rappresentata nei sogni che mostrano cheuno degli opposti, l'ambientale o il potenziale deveessere fatto fuori.Nella psiche di alcune persone questa contraddizio-ne è mediata dalla immagine del seme, che in se-guito, si svilupperà nel dinatipo individuale, che sifissa sulla situazione ambientale con la quale sta-bilisce un rapporto. Il dinatipo, che a questo puntoè ancora ad un primo stadio del suo sviluppo, inseguito si serve della circostanza ambientale e laadatta ai suoi scopi più vasti; mitigando in questomodo l'intensità del conflitto e diminuendo di solitoquella parte di sofferenza estrinseca dovuta allosviluppo della vita creativa. Può accadere purtroppo^che, nell'adattare un aspetto ambientale, producaimpressioni ingannevoli per se stesso e per gli altri.In tal caso, allora diventa necessario un nuovo pro-cesso di definizione perché le sovrastrutture am-bientali possano essere eliminate ed il dinatipo possaemergere in tutta la sua integrità. Tillich era moltocosciente di questo movimento avanti e indietronella sua vita, e lo considerava l'essenza dellasituazione di limite alla quale attribuiva tantaimportanza. Considerò la sua vita come una lottaper superare e riformare limiti, vedendo la ricerca dinuovi limiti nell'esistenza personale come l'attocreativo fondamentale nella vita di una persona.Scrisse: « Vivere alla frontiera nella situazione dilimite significa tensione e movimento. In verità nonè uno stare immobile, ma piuttosto un superare edun ritornare, un ritornare ed un superare con-

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tinuo, un andare avanti e indietro, i! cui scopo èquello di creare una terza zona al di là dei territorilimitati, una zona in cui ci si può fermare per unpo' senza essere rinchiusi in stretti confini. La con-dizione di frontiera non è ancora quello che si puòchiamare «pace»; eppure è la porta attraverso laquale ogni individuo deve passare, e ogni nazionedeve passare, per potere raggiungere la pace. Per-ché pace significa essere in Ciò che Tutto Com-prende (Obergreifenden) che è lo scopo di questopassare e ripassare le frontiere. Soltanto colui chevive sui due fronti di una linea di confine può ser-vire Ciò che Tutto Comprende e, quindi, la pace— non quello che preferisce stare al sicuro nellaquiete di stretti confini —. La pace appare — nellavita personale come in quella politica — li dove unvecchio limite ha perso il suo valore e quindi il suopotere di disturbo, anche se sussiste come un li-mite secondario » (20).Questo senso di movimento continuo, una calmache racchiude in sé un conflitto dialettico, è fonda-mentale per comprendere lo sviluppo personale diTillich. E' particolarmente evidente nello sviluppoe nel cambiamento avvenuti durante la sua vita delruolo di teologo e nel modo in cui si svolse ed in-fine si trasformò il concetto che egli aveva del si-gnificato di questo ruolo. Tra le cause ambientaliche influenzarono la sua vita riconosciamo il fattodi essere il figlio di un ministro attivo e di successo,la sensazione di calore e piacevoli ricordi legati ariti religiosi, ed in modo particolare la convinzione,instillata in lui nel corso di molti anni, che tutti i pro-blemi importanti debbano alla fine trovare una so-luzione nell'ambito del Cristianesimo. Quest'ultimoatteggiamento fu decisivo perché Til lich entrassenegli studi teologici. Anche se nei suoi primi anniaveva mostrato un forte interesse per la filosofiacome pure una profonda sensibilità per i problemisociali della storia, egli non si permise di diventaresolo un filosofo, né di concentrarsi su studi socialio politici. La ragione che glielo impedi

(20) Tillich Paul, " TheFuture of Religions ", Edto da Jerald C. Braue-Harper and Row, Nev.York 1966.

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(21) Paul Tillich, Si scuo-tono le fondamenta. Astro-labio, Roma 1972.

sembra riguardare essenzialmente il suo sé ambien-tale, con particolare riferimento al punto di vista dicui abbiamo parlato secondo il quale tutti i pro-blemi essenziali debbono trovare una risposta defi-nitiva nell'ambito del Cristianesimo. Fu dunque lanatura del suo interesse ambientale che lo portò asviluppare il suo pensiero nel contesto del Cristia-nesimo; e ciò significava che il cammino che la suavita e la sua opera dovevano percorrere era quellodi un teologo.All'inizio questo non comportò nessun problematranne che essere un teologo significava operarenel contesto del Cristianesimo. In Si scuotono lefondamenta dice esplicitamente: « La teologia nonesiste fuori della comunità di coloro che affermanoche Gesù è il Cristo, fuori della Chiesa, assembleadi Dio» (21). In altre parole è una vocazione chepresuppone una fede Cristiana. Questo è il puntodi partenza ambientale. Il filosofo però e l'uomo diinteressi sociali hanno anche altre necessità, e que-ste diventando più forti entrarono sempre più afare parte della sua vocazione di teologo. Ad ognistadio successivo diventava dunque necessario de-finire il significato del ruolo del teologo; ed attra-verso queste nuove ripetute definizioni noi possiamoseguire l'evoluzione e lo svolgimento dell'immaginedi vita di Tillich.

I suoi interessi sociali furono tra i primi a ricon-giungersi con quelli teologici; cosa che in realtàavvenne molto facilmente nella sua giovinezza, for-se troppo facilmente. Entrò a fare parte del movi-mento Socialista Cristiano, ed in quel periodo av-venne l'incontro con Buber che abbiamo descrittoprima. Ma Tillich aveva bisogno di alcune dimen-sioni che mancavano ad un Socialista Religioso;aveva bisogno di costruire una interpretazione dellastoria, ed in seguito metterla in relazione con il con-testo del Cristianesimo. In conseguenza, Tillich feceuna distinzione tra un teologo di chiesa e un teo-logo di cultura. Il teologo di chiesa era limitato sot-

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to tutti gli aspetti dal fatto di interessarsi di dottrinaecclesiastica, mentre il teologo di cultura aveva ilcompito di approfondire tutti gli aspetti della cul-tura e di trame una interpretazione, che non dovevacoincidere necessariamente con i preconcetti del-i'insegnamento cristiano. Il teologo di cultura do-veva essere un uomo dalla mente completamentelibera; fermo restando, comunque, il suo impegnoteologico di metter in relazione le sue scoperte, unavolta portati a termine i suoi studi culturali, con iproblemi della chiesa. Ma anche questa nuova de-finizione del ruolo del teologo rappresentò un at-teggiamento temporaneo. Tillich aveva bisogno diuna nuova prospettiva; come fece notare James Lu-ther Adams quando scrisse nel suo libro su Tillich:« Le opere posteriori di Tillich non conservano ladistinzione tra ' teologo di cultura ' e ' teologo dichiesa ' » (22).In realtà oltre all'aspetto sociale e a quello dottri-nale, c'erano molti altri aspetti di cui Tillich avevabisogno; tra gli altri la dimensione artistica e quellaletteraria, aspetti questi della sua mentalità umani-stica. Ma il più importante tra i suoi vasti interessiera quello della filosofia, in particolare il bisognoche aveva di interessarsi dei problemi assoluti dellaesistenza umana. Mentre voleva affrontare le veritàdella vita umana esaminandole alla luce della eter-nità, era anche consapevole del fatto che la dottrinaCristiana ed il suo impegno personale nei confrontidella religione Cristiana comportavano un contestomolto preciso contrassegnato da limiti storici bendefiniti. Sapeva bene che il Cristianesimo presentaun sistema di simboli che permette di comprenderegli aspetti eterni dell'esistenza umana, ma che nonè esso stesso eterno. Aveva quindi bisogno di co-struire un ponte che gli permettesse di superare illimite di separazione tra il suo interesse per i valoriassoluti della filosofia ed il suo impegno verso lareligione cristiana. Anche questo passo implicavauna ulteriore nuova definizione di che cosa significaessere un teologo. Ciò viene chiarito in quello che

(22) Adams John Luther," Paul Till ich's Philoso-phy of Culture, Science,and Relig ion ", Harperand Row, New York 1965p. 89.

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(23) Paul Tillich, " Syste-matic Theology ", voi. I,The University of Chica-go Press, Chicago Illinois.1951, p. 62.

Tillich defini Metodo di Correlazione che è certa-mente il metodo fondamentale dell'opera di Tilliche la chiave per comprendere il suo pensiero. Permostrarvi più chiaramente possibile cosa intendeTillich con il suo Metodo di Correlazione, vi riporteròun brano del primo volume della sua TeologiaSistematica, in cui egli dice: « La teologiasistematica, nell'usare il metodo di correlazione,procede in questo modo: attraverso una analisidella condizione umana porta alla luce i problemiesistenziali e dimostra che i simboli del messaggiocristiano sono le risposte a questi problemi. L'analisidella condizione umana viene fatta in termini cheal giorno d'oggi vengono chiamati ' esistenziali ',ma analisi di questo tipo sono molto più antichedell'esistenzialismo, in realtà sono vecchie come ilpensiero dell'uomo che si rivolge su se stesso efin dal sorgere della filosofia hanno trovatoespressione in varie forme di concettualizzazio-ne.L'uomo che si è rivolto ad esaminare il suomondo, vi ha ogni volta ritrovato se stesso comeuna parte di esso; ma ha anche compreso nellostesso tempo di essere uno straniero nel mondo de-gli oggetti, incapace di penetrarlo oltre un certolivello di analisi scientifica. In seguito ha realizzatodi essere egli stesso la via di ingresso a livelli diconoscenza più profondi, che può trovare nella pro-pria esistenza l'unico mezzo possibile per accostarsialla esistenza in sé. Ciò non significa che l'uomo èpiù adatto degli altri oggetti ad essere esaminatocome materia di ricerca scientifica, anzi è proprioil contrario! Significa invece che l'esperienza im-mediata della propria esistenza personale rivelaqualcosa della esistenza in generale » (23).!n questa affermazione possiamo vedere quali ef-fetti psicologici produsse su Tillich la costruzionedi una teologia sistematica. In verità ci si potrebbechiedere come mai un uomo che aveva uno spiritocosi libero ed aperto dovesse sentire il bisogno dicostruire un sistema. L'idea stessa di un sistemasembrerebbe fuori luogo per un uomo simile, in

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quanto un sistema tende ad irrigidire il pensiero diuna persona. Tuttavia Tillich aveva bisogno di unsistema e questo doveva essere rigido proprio comedeve essere rigido un ponte. Questo deve esserealmeno tanto forte da permettere alle persone che10 attraversano di arrivare in salvo all'altro lato; lateologia sistematica di Tillich ebbe il compito particolare di essere il ponte che gli permettesse di oltrepassare il limite tra filosofia e religione.Il Metodo di Correlazione è fondamentale per comprendere ciò. Alla sua base c'è la consapevolezzache « l'uomo stesso rappresenta la via di ingressoa livelli di conoscenza più profondi, e che nella suastessa esistenza può trovare l'unico mezzo per accostarsi alla esistenza in sé ». Le implicazioni contenute in questa frase sono tanto vaste quanto quelle che si possono trovare nella psicologia dei profondo. Tillic realizzò che un uomo che guarda nellasua individualità ad un livello abbastanza profondoarriverà ad afferrare gli universali della vita; e naturalmente ed anche molto ingegnosamente, Tillichconcluse che questa operazione si può eseguire inentrambe le direzioni possibili: si può andare dall'individuale all'universale, e si può andare dall'universale all'individuale. Nel caso della religione, si puòandare dagli universali della condizione umana allerisposte particolari della religione cristiana, ammesso che si sia arrivati ad un livello abbastanza profondo per penetrare la dimensione simbolica delCristianesimo. Proprio attraverso la dimensione simbolica del Cristianesimo, andando da ciò che è universalmente esistenziale verso ciò che è particolarmente cristiano, si può realizzare il Metodo diCorrelazione.Secondo Tillich questo lavoro deve essere compiu-to da un teologo, e soltanto in un modo sistematico,cioè sostenuto e diretto da una struttura fissa. No-tiamo che il Metodo di Correlazione di Tillich eraun ponte che conservava il suo legame con il Cri-stianesimo, mantenendo cosi la sua immagine delseme in svolgimento, il suo dinatipo creativo, an-

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cora nel contesto protettivo del suo sé ambientale.A questo fatto è connessa una grande tensionepsicologica, in modo particolare per il tipo crea-tivo. Cosi scopriamo una certa ostinazione, comese qualcosa dentro di lui lo minacciasse continua-mente di distruggere il suo sistema. In realtà nonsarebbe troppo sbagliato dire che Tillich, negli anniseguenti esplose veramente fuori del suo sistema,e che le migliori espressioni della sua creatività letroviamo fuori del suo sistema, particolarmente neisuoi sermoni ed anche negli scambi che ebbe conaltri pensatori creativi del nostro tempo.Devo aggiungere comunque che per quanto il mag-gior contributo di Tillich sia al di fuori della suaTeologia Sistematica, esso fu reso possibile soltantodal fatto che egli si era per prima cosa assogget-tato a costruire la struttura. E' strano, ma talvoltaun uomo può costruire un ponte per potere andareavanti e indietro fra due rive per scoprire poi che ilponte porta ad una terza riva di cui egli non sapevaniente ma che in realtà è proprio quella che egliavrebbe voluto raggiungere da sempre. Questo po-trebbe essere accaduto molto verosimilmente a Til-lich, come accadde ad altri costruttori di sistemi.Naturalmente, dopo che il ponte ha portato una per-sona sulla terza riva, questa non ha più bisogno delponte, il quale comunque, potrebbe essere ancorautile ad altri.Ho accennato che una delle attività più creative diTillich nel periodo seguente della sua vita implicòuno scambio con alcuni pensatori indicativi. Tillichdisse, e potrebbe essere stato vero, di essere riu-scito a produrre ì sermoni soltanto con l'aiuto diquello che Buber gli aveva insegnato sul dialogo,ma in realtà egli stesso al livello più profondo eramolto dotato per il dialogo. Uno di questi dialoghidi cui Tillich parlò nei suoi scritti, e che sembra ve-ramente avere avuto una importanza fondamentaleperché egli potesse giungere alla sua successivainterpretazione del significato del ruolo del teologonel nostro tempo, fu quello che ebbe con Mircea

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Eliade, un uomo che per molti anni ha presentatoqui ad Eranos contributi di grande interesse.

Questo dialogo non riguardava solo l'uomo Eliade,ma la storia delle religioni in generale. Per Tillich,come per molte persone in questi ultimi anni, Eliadeè giunto a rappresentare la personificazione dellostudio della storia delle religioni. Sembra che peralcuni anni precedenti il suo incontro con Eliade,Tillich si stesse preparando a venire a patti con lastoria delle religioni, e ciò era implicito nellaostinazione che manifestava nell'essere un teologorinchiuso nei confini ambientali del Cristianesimo.L'immagine profonda del suo lavoro richiedeva unastruttura più vasta; ed il Metodo di Correlazioneall'interno della sua Teologia Sistematicarappresentava un principio elaborato con molta curaper equilibrare l'universale e la tradizione. Sembrachiaro che Tiilich per un lungo periodo senti di averebisogno di qualche altra cosa; ma ho l'impressioneche non riusci a compiere quel passo avanti che ilsuo lavoro richiedeva finché non si incontrò facciaa faccia con Eliade all'Università di Chicago enon si scontrò con il tipo di lavoro di Eliade.Se esaminiamo le possibilità che avrebbe potutoavere precedentemente, vediamo chiaramente chenon furono molto stimolanti per Tillich. L'incontrocon Rudolph Otto, di cui ci parla, non fu sufficienteper lui. Da un altro punto di vista Tillich si interessòmolto di psicoanalisi, particolarmente del lavoro diKaren Horney al tempo in cui visitò il Giappone perfare ricerche sullo Zen. Ma è chiaro che quel ge-nere di psicologia del profondo non aveva i mezziper fare luce sul tipo di problemi che Tillich avevabisogno di porre. Probabilmente solo Jung, tra glipsicologi del profondo, aveva vedute tanto ampieda potersi incontrare con Tillich sullo stesso piano.Sembra però che Tillich avesse una resistenza neiconfronti di Jung per diverse ragioni; in parte perragioni politiche e sociali, in parte perché l'atteg-

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giamento di Jung verso i simboli religiosi gli sem-brava ambiguo, in parte perché l'idea degli arche-tipi di Jung gli sembrava troppo vaga e « poco rigo-rosa ». Per quanto in seguito Tillich superò gli aspettipersonali della sua resistenza e lo fece con gran-dezza d'animo nel discorso che tenne alla cerimo-nia commemorativa in onore di Jung, riconosciamoche nella sua resistenza alla idea degli archetipi,c'è un aspetto oggettivo che merita un esame piùapprofondito.

Chi di voi conosce le opere di Eliade saprà cheegli si serve di un concetto degli archetipi che ve-ramente è completamente diverso da quello di Jung,e che si potrebbe definire un concetto esistenzialedegli archetipi più che un concetto di psicologiadel profondo. Il concetto che ne ha Jung promettedi asserire e di dimostrare molte più cose di quellodi Eliade; e per questa ragione è chiaro che investeun numero molto maggiore di problemi ed incontrauna resistenza molto più grande. Dopo tutto Jungsostiene che nelle strutture biologiche dell'essereumano sono innati modelli di comportamento insie-me con processi psicologici di sviluppo conflitto edecadenza, che si riflettono in strutture corrispon-denti di modelli simbolici che definisce archetipi. Illavoro di Jung in questo campo, per questo suonuovo concetto che gli archetipi non sono solo psi-cologici ma anche « del mondo », cioè espressionidel macrocosmo nel microcosmo, poneva problemiontologici troppo stimolanti per Tillich. Anche suquesto piano Tillich aveva delle riserve nei con-fronti di Jung, poiché, come Buber, non compren-deva bene la natura dell'impegno personale di Jung.Secondo me ciò era dovuto ad una diversità di tipi,in particolare sia Tillich che Buber davano vita adun dinatipo diverso da quello di Jung ed avevanoquindi una visione diversa della realtà assoluta. Matorneremo fra poco su questo punto. Tillich potevaaccettare come una ipotesi l'idea di Jung dellabase unitaria, cioè biologico/psicologica,

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0 psicoide secondo la definizione di Jung, degli archetipi; ma come una ipotesi da sottoporre ad unostudio più approfondito dal punto di vista scientifico.Di fronte ad un punto però dell'opera di Jung, sifermò: quello che si potrebbe definire « la denominazione degli archetipi ». Nel discorso commemorativo infatti Tillich disse: « Talvolta mi sembra chela denominazione degli archetipi fatta da Jung sia...in un certo qualmodo poco rigorosa e priva di unprincipio selettivo » (24). Anche altre persone naturalmente, pur riconoscendo alla ipotesi degli archetipi di Jung implicazioni di enorme portata, hannomosso questa stessa critica nei confronti della suaformulazione cosi vaga e poco dettagliata da lasciare adito ad abusi ambigui ed irresponsabili. Suciò si fondavano le riserve che Tillich e molti altriavevano verso l'idea degli archetipi di Jung. lo penso di non sbagliare dicendo che, se il concetto diarchetipo avesse avuto una formulazione più precisa convalidata da prove che fosse possibile studiare in termini di categorie già formulate al di fuoridel campo di lavoro di Jung, le implicazioni dell'ideafondamentale di Jung diventerebbero molto più significative per persone che oggi lavorano in varicampi di studio.In ogni caso si vede chiaramente che per Tillich1 uso che Eliade fa del termine e delconcetto diArchetipo, che contrastava con quello di Jung, fudi importanza particolare nel permettergli di compiere quei passo verso l'universalismo che avrebbesoddisfatto in più ampia misura la sua immagineprofonda del significato del ruolo teologo nel mondo moderno. Una prima ragione di ciò è semplicemente che il concetto di archetipo di Eliade affermamolto meno di quello di Jung, e quindi ha bisognodi dimostrare di meno ed è quindi meno espostoalle critiche. Una seconda ragione, che sembra lapiù importante, è che la qualità esistenziale dellaformulazione di Eliade corrispondeva molto da vicino al Metodo di Correlazione che Tillich avevausato, come abbiamo visto, per costruire il ponte

(24) Discorso commemo-rativo di Tillich per Jung,op. cit. pp. 32.

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tra la filosofia esistenzialista ed il Cristianesimo.Cosi per Tillich fu un passo naturale intraprenderecon Eliade un dialogo che estendesse il suo pontealla storia delle religioni in generale. Il concettooperativo degli archetipi usato da Eliade, e descrittoin Cosmos and History, si fonda sul principio cheesistono alcuni tipi di situazioni che ricorronospontaneamente proprio a causa della natura dellaesistenza personale e sociale dell'uomo, e che sirivelano attraverso sogni, miti ed altre espressionisimboliche. Eliade sostiene inoltre che l'uomo adogni livello di cultura fin dal più arcaico e primitivocercò costantemente di comprendere i misteri dellasua esistenza per poter trasformare le condizioni divita profonde ed esterne della sua vita, e chequesta ricerca tende a manifestarsi in strutture disimbolismo che si concentrano su alcuni temi chenel corso della storia ricorrono come variazioni su untema. Questi sono gli archetipi. Essi hanno a chefare con il tempo, i suoi cicli le sue ripetizioni e conl'escatologia. Hanno a che fare con il sacro vistocome una dimensione di vita e con il non sacro, ilprofano. Hanno a che fare con il ciclo di morte e dirinascita che viene sperimentato e simbolizzato neiriti di iniziazione. Queste situazioni archetipiche sonomateria di studio per Eliade, che non cerca dicostruirvi intorno un sistema analitico. Il suo scopoè semplicemente quello di descriverle e dicomprenderle per quello che sono in se stesse e dientrare in corrispondenza con esse più profon-damente possibile. Cerca di trame le implicazioniesistenziali che sono portate come illuminazioni con-fuse e spesso profondamente intuitive nell'internodelle strutture simboliche che si formano spontanea-mente e si presentano nei diversi miti e riti.Esaminando tutto ciò, vediamo come questo me-todo di lavoro di Eliade si adatta armoniosamentecon il Metodo di Correlazione di cui Tillich si eraservito nel particolare contesto del Cristianesimo.Egli aveva tratto dalla filosofia i problemi universalied eterni, cercando di metterli in relazione con le

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risposte ottenute dalle dottrine e dai simboli delCristianesimo. A questo punto, l'opera di Eliade glioffriva una sorgente nuova ed abbondante sia diquesti problemi esistenziali eterni che di una varietàdi possibili risposte presentate in forme simbolichecomplicate ed illimitate. Era proprio come se Eiiadegli avesse permesso di entrare in una miniera chesi sarebbe dimostrata una sorgente inesauribile dimateriali grezzi. A questo punto il metodo di corre-lazione poteva veramente diventare utile nel co-struire una teologia. Ma quanto diversa avrebbe do-vuto essere questa teologia! Prima di morire Tìllichaveva appena incominciato ad andare attivamentein questa direzione. Nello scritto in onore di Tillich,Eliade osserva molto giustamente, che la morte locolse proprio quando aveva iniziato un nuovo svol-gimento di pensiero. Dal nostro punto di vista, que-sto fu veramente un nuovo inizio, ma se avesse po-tuto vivere tanto da portarlo a termine, avrebbe rap-presentato il compimento del mito profondo che egliaveva personificato nel corso della sua vita matura.Con questo nuovo materiale sarebbe stato capacedi formulare il significato del ruolo del teologo nell'eramoderna.Nell'ultima lezione che tenne in pubblico, intitolataThe Significance of thè History of Religions for Syste-rnaticTheologian, Tillich indicava la direzione che questiavrebbe preso. Per il teologo Cristiano signi-ficherebbe per prima cosa un cambiamento nel suoatteggiamento fondamentale. Dovrebbe accettareTidea che esperienze valide di rivelazione religiosanon sono necessariamente riservate al Cristianesimo,ma sono, secondo una espressione di Tillich, possi-bilità « universalmente umane ». Significherebbe,continua Tillich, riconoscere che l'uomo riceve la ri-velazione nei termini delia condizione limitata dellasua umanità. Potrebbe quindi essere giusta, e po-trebbe essere sbagliata. In altre parole dobbiamo es-sere aperti ad accettare ciò che c'è di valido inogni tipo di esperienze religiose, ma dobbiamo an-che stare attenti ed assumere un atteggiamento cri-

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tico nei loro confronti. Questo cambiamento di mododi vedere implica una constatazione ulteriore, che ledifferenze di rivelazioni tra i diversi popoli del mondopotrebbero contenere nel loro aspetto complessivoun processo di rivelazione religiosa in continuo svi-luppo. Questa idea è in se stessa di grande impor-tanza per venirci presentata anche solo come unsuggerimento da un uomo che trascorse la sua vitacome un teologo cristiano. Tillich comunque, pro-segue affermando che dobbiamo riuscire a com-prendere che il processo di rivelazione religiosa, cheavviene in tutto il genere umano nel corso della sto-ria, non comprende soltanto gli avvenimenti che han-no luogo nei confini formali delle religioni, ma anchequelli che avvengono nel campo secolare. Dice cheil sacro, ed il suo significato qui si può ampliare siadal punto di vista di Buber che da quello di Eliade,« non si trova a fianco del profano, ma nelle profon-dità di questo ».Cosa possiamo dedurre da simili affermazioni? Til-lich le presentava come contributi per la TeologiaSistematica, in particolare come i fondamenti peruna nuova Teologia Sistematica. Chiaramente questateologia non sarebbe stata limitata al Cristianesimo;e non solo non sarebbe stata limitata al Cristiane-simo ortodosso nella sua forma attuale, ma non sa-rebbe stata ristretta al campo dell'esperienza reli-giosa cristiana nel suo complesso. Allora cosa saràun teologo? Non sarà più colui che offre una ela-borazione intellettuale sistematica della dottrina cri-stiana. Avrà perduto il suo carattere particolarmentecristiano; ma quando questo gli accadrà, verrà chia-mato con un nome riportato alla radice originaledella parola. Diventerà un teonomo, un uomo che haDio come legge profonda, un uomo che ha comeprincipio profondo di vita quello di rendere testimo-nianza alla presenza della divinità nel mondo. Aquesto punto abbiamo veramente compreso il si-gnificato che Tillich dava al suo mito profondo, alsuo essere un teologo. Ma durante gli anni in cuiadattava questa immagine del seme, questo dinatipo

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del teonomo nel contesto della sua base ambientaledel Cristianesimo, quando cercava di immergere lasua immagine del seme nel suo sé ambientale, nonruisci mai ad essere un teonomo non importa qualealto riconoscimento accademico possa avere rag-giunto. Non potè essere allora un teonomo, ma sol-tanto un teologo cristiano. Da qui la grande ten-sione di una urgenza profonda presente in Tillichdurante tutta la sua vita, che lo fece vivere sempresu un limite, sentendo anche nei momenti di mag-giore successo che qualche cosa di fondamentaleimportanza nella sua vita rimaneva incompiuta. Parlòdi se stesso come di un teologo e questo termineper lui indicava l'elogio più grande, come quandoparlò di Martin Buber. Ma si capiva che quandousava la parola teologo in questo modo, parlava diuna visione non di un fatto. Bisognerebbe dire nonancora un fatto; perché un sogno è un fatto che è ar-rivato appena un pò prima del tempo. Il ponte cheaveva costruito tra filosofia e Cristianesimo, arrivòveramente ad una terza terra, ad una terra teono-ma, in cui il nome di Dio poteva essere pronunziatoin varie forme, moltiplicando la testimonianza edampliando il significato. Questo passo mentre por-tava a compimento il mito profondo verso il qualeTillich aveva indirizzato tutta la sua vita, richiedevaanche un reale capovolgimento nel modo di defi-nire la sua vocazione cosi come l'aveva vissuta pertanti anni. Qualcosa doveva veramente morire per-ché potesse nascere in Tillich un Nuovo Essere cheportasse a compimento lo scopo del suo lavoro edella sua vita. E' simbolico che nell'ultimo discorsodella sua vita egli profetizzò un nuovo tipo di teo-logia che avrebbe inevitabilmente trasformato la suavecchia teologia sistematica, ma che sarebbe statoreso possibile soltanto da tutto il lavoro che egliaveva compiuto con passione.

Ho già detto prima che il modello delle vite e delleopere di Buber e Tillich racchiudeva una somiglianzàmolto forte, al punto tale che possiamo dedurre cheimpersonavano nelle loro vite lo stesso dinatipo.

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Lo deduciamo anche dal fatto che le cose che Til-lich disse nel parlare di Buber nel suo discorso com-memorativo su Buber, si possono adattare ugual-mente a lui stesso. D'altra parte, quando Tillich pro-nunziò il discorso in memoria di C. G. Jung dimostròcalore e simpatia, gli offrf anche l'omaggio supremodi impegnare un valido dialogo con i concetti fon-damentali della sua opera. Per quanto parlò con ilmassimo ardore e sincerità, in questo discorso nontroviamo affatto la comunione di sentimenti, la pro-fonda simpatia fatta di comprensione e di identifica-zione, che ritroviamo nel discorso su Buber. Sipotrebbero suggerire ragioni personali di poca im-portanza per spiegare questa differenza di tono, mahanno veramente poco valore. La ragione fondamen-tale di questa differenza è da ricercarsi nel fattoche Buber e Tillich esprimevano lo stesso dinatipo,mentre Jung ne esprimeva uno diverso. Una indica-zione ulteriore di questa differenza si potrebbe ri-cercare nel fatto che sia Buber che Tillich non riu-scirono mai a comprendere veramente e profonda-mente l'esperienza del significato spirituale dellarealtà psichica cosf come Jung la espresse nellasua Risposta a Giobbe. Anche questo è un soggettoche non posso trattare dettagliatamente in questasede; lo cito per dimostrare che i diversi dinatipiportano con sé differenze di temperamento e diffe-renze nella capacità di percezione a vari livelli. Spessone deriva che una persona è incapace di vedere qual-cosa che un'altra persona di intelligenza uguale trovadel tutto chiara.

Possiamo citare molti ed evidenti esempi di que-sto fatto. Per esempio quando Sigmund Freudcercò di accostarsi al problema della religione, conparticolare riguardo a ciò che defini il « sentimentooceanico », disse che rispettava questa esperienzanegli altri, poiché conosceva alcune persone degnedi rispetto che sostenevano di averla provata, mache da parte sua era « incapace per temperamento »di sperimentarla. Se Freud descriveva veramente cosi

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i suoi sentimenti concreti, dobbiamo dedurre chela spiegazione su basi di temperamento che egli dadella sua incapacità indica che sentiva che ciò eracausato da qualcosa che apparteneva alla sua stessanatura, cioè dalla sua immagine di vita o dal suodinatipo. Il dinatipo impersonato da Freud era sicu-ramente molto diverso da quello di Jung. Conoscia-mo bene, in altri campi di esperienza ma in modosimile, la situazione in cui una persona può vederecolori e forme aprirglisi spontaneamente e trasfor-marsi attraverso il suo occhio della mente, mentreun'altra persona dotata della stessa intelligenza pra-ticamente non vede proprio niente né all'esterno néall'interno. Un'altra persona ancora può udire tona-lità e ritmi formare modelli e strutture che rimangonodel tutto inaccessibili per qualcun altro. Ciò è in re-lazione con facoltà, sensibilità e capacità proprie diparticolari dinatipi, in questo caso il dinatipo del-l'artista figurativo e del musicista. Ogni dinatipo ècaratterizzato da un suo stile e da una propria ca-pacità di percepire la realtà e di entrare in relazionecon essa, i quali gli offrono sia i mezzi per esprimersiche i mezzi per raggiungere un più completo sviluppo.Queste capacità e modi di percepire sono, comun-que, originari del modello contenuto in ciascun di-natipo. Da ciò possono derivare grandi difficoltà dicomunicazione negli scambi tra persona che hannodinatipi diversi; ed è in questo senso che ho citatole differenze tra Buber e Tillich da un lato e Jungdall'altro.I problemi che Tillich trovò nel concetto di archetipidi Jung consistono proprio in questo; ma ciò nono-stante ii concetto rimane di una certa validità ed uti-lità. Da un punto di vista pragmatico, non ha alcunaimportanza per quale via si arriva all'ipotesi degliarchetipi. Qualcuno vi può arrivare su un piano pu-ramente sociale, osservando che alcuni modelli dicomportamento sorgono universalmente per ragionifunzionali. Qualcun altro vi può arrivare osservandoche la vita umana produce in tutti i tempi e culturealcuni modelli di espressione attraverso i quali l'uo-

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mo cerca di scandagliare le profondità della suaesistenza. Qualcuno può considerarla in termini dipredisposizioni biologiche o come modelli di compor-tamento in cui l'uomo è un microcosmo che rifletteun macrocosmo più vasto. Qualcun altro ancorapuò considerarla in termini delle complessità dellapsicologia del profondo e delle classificazioni ana-litiche di uno Jung o con il più diretto ed esistenzialepunto di vista di un Eliade. Qualunque sia la viaseguita per giungere a ciò, rimane il fatto che al-cuni modelli di comportamento si ripresentano ognivolta che la vita umana arriva ad un livello signifi-cativo di sviluppo sociale.

Il termine « archetipo » si riferisce a questo fattogenerale. Si può riferire anche a qualche cosa di piùspecifico, ma ciò implicherà sempre usi particolari.In se stesso il termine si riferisce a quanto c'è digenericamente universale come potenzialità nel-l'uomo. Si riferisce anche al livello del profondo nel-l'esperienza umana, a ciò che è fondamentale edessenziale più che superficiale, a ciò che è primor-diale più che recente ed a ciò che si trova nellaparte più intima ed irrazionale della psiche piuttostoche al limite esterno della coscienza. Allora com-prendiamo che il termine archetipo, nel suo uso piùfondamentale ed assolutamente indispensabile, siriferisce ad una qualità di coscienza. In questo sensodovremmo veramente usare il termine archetipocome un aggettivo piuttosto che come un nome. Po-tremmo parlare allora del livello o qualità archeti-pica della psiche o della coscienza, non degli arche-tipi. Potremmo parlare di tendenze archetipiche nellapsiche, non di particolari archetipi che fanno que-sto o quello. Facendo cosi, ci lasciamo prendere nelgioco di denominare gli archetipi. Ciò produce ildoppio effetto di allontanare persone come Tillich eBuber che hanno una conoscenza autentica, acqui-stata con le loro personali esperienze profonde, de-gli aspetti archetipici della psiche; e di rendercisempre più difficile arrivare ad una comprensione

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convalidata dall'esperienza dei fattori operanti nelleprofondità della psiche.

Mi sembra che per raggiungere questo scopo ab-biamo bisogno di semplificare invece che compli -care i metodi di classificazione. Abbiamo infatti bi-sogno di un metodo per chiarire il problema degliarchetipi su un piano concettuale per poterlo trat -tare da un punto di vista sperimentale e descrittivo,lo mi servo come strumento di ricerca in questa dire-zione di una formula di classificazione che è quan tomai semplice e pratica. Considero il concetto diarchetipo come un termine aggettivale utile ad orien-tarci verso il livello profondo della psiche. Non cercodi fare una classificazione in particolari archetipi,essenzialmente perché mi sembra necessario dif-ferenziare i diversi aspetti del livello archetipico dellapsiche prima di poter cominciare a dargli un nome ea classificarlo. Alcune delle accuse di « tendenzaalla confusione » mosse giustamente contro la no-menclatura junghiana sono dovute all'avere man-cato di osservare questa precauzione. Studiando ifattori archetipici della psiche, scopriamo che sisuddividono in due tipi principali:

1) Quei modelli e quelle immagini che presentanola potenzialità di riconoscere e conoscere la realtàin forme particolari. Queste sono le categorie innatedella conoscenza, che ho quindi denominate cogni-tipi (25).2) Quei modelli o potenzialità che debbono essereespressi o impersonati dinamicamente nella vitadell'individuo. Questi vengono percepiti come immagini di vita, o immagini del seme, che si svolgonoo crescono ed offrono la direzione ed il contenutodel destino dell'individuo. Questi li ho denominatidinatipi.

La distinzione tra conoscenza e sviluppo dinamicodella vita è di importanza enorme se si vuole de-scrivere quanto avviene nella profondità della psi-che. Molto spesso un'unica immagine si presenta

(25) Per una discussionepiù completa sui cogni-tipi vedi Progoff, " DepthPsychology and \Moder-Man ", Julian Preis, Nev.York t959.

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come un cognitipo ed un dinatipo contemporanea-mente, ed è decisivo comprendere la differenza difunzione. Si può presentare per esempio una figuradi un sogno, che per le sue qualità potrebbe esseredescritta come il vecchio saggio in quanto presentauna capacità di intuizione nella vita dell'individuo. Inquanto portatrice della qualità di conoscenza alprofondo della psiche, l'immagine del vecchio saggio èun cognitipo. In quanto portatrice della potenzialitàdi essere rappresentata ne! corso della vita del-l'individuo, sarebbe un dinatipo. Nei due casi la suafunzione ed il suo significato sarebbero completa-mente diversi. Nei sogni della maggior parte dellepersone, la figura del vecchio saggio sarebbe un co-gnitipo; ma nel caso di una persona come C. G.Jung, o Suzuki o Heidegger sarebbe un dinatipo per-ché sarebbe una immagine del seme sviluppantesidinamicamente nel corso della vita della persona.In realtà i dinatipi sono le particolari forme socialidi potenzialità in esseri umani individuali. In ognisocietà ci sono particolari possibilità per le funzionisociali, e particolari dinatipi che le porteranno acompimento. La figura del vecchio saggio è uno deidinatipi, come il profeta, o teonomo; altri dinatipisono: il poeta vate, il prototipo dei quali è Omeromentre Kazantzakis ne è un esempio moderno; lamadre che nutre; l'eroe, come Re Artù, o John Ken-nedy; il legislatore politico-spirituale, come Mosè oGandhi o Lincoln; il ricercatore della verità nellanatura (cioè lo scienziato); il musicista; l'artistafigurativo; e molti altri ancora. Ho già detto che ognidinatipo ha in sé i suoi talenti caratteristici ed il suostile espressivo. Penso che sarebbe scioccochiedere se l'artista figurativo diventa tale perché haun talento per il colore; ci si potrebbe ugualmentechiedere se un fiore diventa una rosa perché ha ipetali rossi. Questo è semplicemente il modo in cui ilsuo essere totale deriva da tutti gli aspetti che sidispiegano dal suo seme.

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Quanto accade per un fiore accade anche per unessere umano.Tuttavia, il processo di crescita presuppone in unuomo una immagine del significato e della direzionein cui sia procedendo. Questo è il mito profondo del-l'individuo che accompagna sempre lo sviluppo di undinatipo. E' la percezione soggettiva del processodi crescita nell'interno di una persona mediante ilquale si svolge la sua potenzialità. Questo non av-viene sempre come ci si aspettava o come si deside-rava, ma avviene comunque. Ne abbiamo visto unvalido esempio nella vita di Tillich. Questo mitoprofondo una volta espresso, conduce in una dire-zione di cui ha dato delle indicazioni, ma di cui nonvi era precedentemente alcuna certezza. Esso offread ogni dinatipo uno stile caratteristico di percepirela realtà, che è nello stesso tempo un segno di-stintivo ed una limitazione. Nel caso di intellettualispecialmente c'è una tendenza verso forme parti-colari di espressione che accompagnano il mitoprofondo. Queste sono come sogni concettualiz-zati che servono come un punto focale attraversoil quale convogliare il dispiegarsi della immagine delseme. Nel caso di Buber era la relazione lo-Tu; inquello di Tillich era il metodo di correlazione; inquello di Jung era la teoria dell'Individuazione.

Il termine immagine del seme è un buon sinonimoper dinatipo, poiché indica un processo di crescitala cui origine è nascosta nel profondo, cioè nellepotenzialità del seme della persona. Il processo dicrescita implica da parte della immagine del seme odinatipo la lotta per aprirsi un passaggio attraversole sovrastrutture del sé ambientale. Un esempiointeressante di questo processo lo abbiamo vistonella vita di Paul Tillich. Un processo molto simileviene descritto nella autobiografia di Jung, in cuiJung descrive lo sviluppo della sua vita. Iniziò comeun ragazzo svizzero, figlio di un pastore protestante,che andò a scuola, fu apprezzato dai suoi professo-ri, studiò medicina, cercò di fare tutto ciò che po-

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tesse soddisfare le persone del suo ambiente. Inquesto modo costruì' e cercò di esprimere il suo séambientale, ed in verità conservò per tutta la suavita alcuni atteggiamenti caratteristici di uno sviz-zero. Ma c'è un'altra esperienza che Jung descrive,e questa costituf la base della sua vita profonda.Mentre il suo sé ambientale cercava di fissare lasua vita esteriore, si venivano ad inserire nella suavita sogni e visioni, impulsi ad agire in modo impre-vedibile. Essi si presentavano senza essere chia-mati e sembravano incomprensibili al suo lato con-venzionale. In realtà ciò avveniva nei momenti piùsconvenienti dal punto di vista del sé ambientale,cosi da distruggere i piani sociali che egli avevafatto. In questo modo creavano nella psiche di Junguna tensione che lo inquietava e lo spaventava.Questa fece sorgere una pressione inferiore ed uncaos, come egli lo chiamò, che solamente il suoimpegno totale nel lavoro psicologico riusci a ri-solvere.Procedendo nei suoi studi teorici, Jung arrivò allaconclusione che queste incursioni che sconvolge-vano la sua personalità conscia, irrompendo comefacevano nel suo sé ambientale, dovevano essereintese come espressioni del suo inconscio. Com-prese che esse erano portatrici di un messaggioper lui e che egli aveva il compito di stabilire unarelazione con loro a livello conscio. Continuando inquesto processo, improvvisando tecniche che siadattassero ai suoi bisogni personali man mano cheandava avanti, questi contenuti del suo inconscio siespandevano e si sviluppavano e si rivelavano informe sempre più interessanti. Diventarono in realtàla fonte continua dalla quale lo sviluppo creativo dellavita di Jung attingeva. Da un lato diventarono icontenuti della sua vita profonda, che, in modo par-ticolare nel caso di Jung, era il significato della suaesistenza; e dall'altro lato diventarono man manoche lavorava su di essi e li trasformava in opere edattività esterne, la base su cui si formò la sua vitacreativa.

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Possiamo vedere con questa prospettiva una dellecaratteristiche essenziali di quello che Jung alloradescriveva come il suo inconscio. Ciò che è in-conscio è presente, ma è presente in una formache non esprime ancora ciò che è capace di diven-tare. Cosi la fantasia che disturbava la psiche diJung durante i suoi primi anni portava in sé in con-creto le potenzialità di tutto il suo sviluppo futuro.Ma a quel tempo egli non poteva saperlo. Sapevasolo che gli era estranea, che non si adattava alresto della sua vita, che era sconcertante e che loturbava. Aveva quindi veramente ragione allora adescriverla come inconscio; ma dal punto di vistadel futuro, avrebbe potuto anche chiamarla poten-zialità. Potenzialità è inconscio fintanto che non haancora trovato la forma che essa implica. Per que-sta ragione i processi della psiche che sono inrealtà processi di crescita e di sviluppo vengono per-cepiti come processi inconsci. Non hanno ancoraportato a compimento le loro forme latenti, ma nesono alla ricerca; e proprio a causa di questa ricercasono inconscio e processi nello stesso tempo. Quandol'inconscio irruppe nel sé ambientale di Jung,conteneva in realtà le potenzialità dello svolgimentodella sua vita. Questo fatto ci spinge a fare unaaffermazione ulteriore che cioè il processo impli-cato era simile ad un processo di sviluppo fuori daun seme. Conformemente, la forma di personalitàche alla fine emerge da questo processo è unaimmagine del seme o, con il termine che abbiamousato, un dìnatipo. Il dispiegarsi di una psiche indi-viduale implica in questo modo il sorgere di unaimmagine del seme, o dinatipo, di fronte al sé am-bientale; ed il caos che Jung provò è la confusionepersonale che inevitabilmente deriva dalla lotta trai due.Trovo molto interessante che Jung, quando si tro-vò a descrivere questo processo nella sua stessavita, gli unici termini che senti di dovere usare eche non aveva mai usato prima, furono personalitàn. 1 e personalità n. 2. Questi termini sono di una

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semplicità assoluta accentuata dalla anonimia deinomi numerici che diede loro. In essi non c'è nessu-na delle qualità drammatiche, antropomorfiche deitermini usati precedentemente, come ombra, perso-na, anima. Mi è sembrato infatti che quando Jungsi trovò a trattare con una psiche veramente im-portante, cioè con la sua stessa psiche non conquella di un paziente, si ridusse all'essenziale. Nonsi servi dei vecchi termini che erano stati importantimentre costruiva il suo sistema di pensiero. Se nesarebbe servito se essi non avessero causato tantierrori e confusioni. Per questo quando arrivò a de-scrivere lo svolgimento creativo della sua persona-lità, si servi di termini che non appartenevano alsistema precedentemente creato. Secondo me i ter-mini personalità n. 1 e personalità n. 2, nell'uso cheJung ne fa, corrispondono perfettamente ai terminisé ambientale e dinatipo, o immagine del seme, cheio sto usando ormai da qualche anno. Devoconfessare che non è un caso che queste due serie ditermini corrispondono l'una all'altra; e che ciò èdovuto ad alcune deduzioni che avevo fatte altempo in cui studiavo con Jung. Ero giunto allaconclusione che il sistema di concetti e la termino-logia che costituivano il fondamento della sua psico-logia analitica, appartenevano al periodo precedentedella sua opera, e che rappresentavano sempre piùun ostacolo, che impediva alla sua psicologia diandare verso quella direzione che sembrava esserlenecessaria da un punto di vista logico. Mi sembrò,particolarmente nel corso delle nostre conversazioni,che lo stesso Jung aveva superato di molto il siste-ma; ma avevo anche notato che dovunque le sueteorie e la sua pratica venivano insegnate come unapsicologia specificamente junghiana, veniva posta inevidenza la struttura di pensiero con il suo sistemadi termini e di concetti. Capii che una ragione diquesto fatto era che i termini almeno potevano veni-re insegnati mentre non si poteva insegnare la con-sapevolezza potentemente diretta che Jung avevaraggiunto, meno che mai agli studenti che si pre-

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sentavano chiedendo che venisse loro insegnata.Ciononostante, mi sembrava che questo falsificaval'opera di Jung e che si dovesse abbandonare questaabitudine. Finché un giorno, nel corso delle nostreconversazioni, parlai a Jung di ciò che pensavo suquanto avevo osservato a Zurigo. Egli considerò conmolta attenzione le mie critiche ed accolse ilproblema che gli ponevo e che si riferiva ad unosvantaggio fondamentale insito nel suo metodopsicologico che rendeva difficile compiere quei finiparticolari richiesti dalle sue concezioni. Dopoavere discusso per un pò gli aspetti soggettivi dellapsicoterapia, l'importanza di stabilire tecniche chepossano essere insegnate, provate ed ampliate,esaminammo di contro le falsificazioni che avvengo-no inevitabilmente quando si costruisce un puntodi vista e lo si presenta come un procedimento si-stematico che altri debbono usare. Esaminammo en-trambi gli aspetti del problema, soppesammo i duepunti di vista, ed infine ci trovammo d'accordo nel-l'ammettere che questo è un dilemma con cui dob-biamo pure venire ad un accordo, dal momento chedobbiamo imparare a convivere con esso. Dopo cheavemmo esaminato tutte le possibilità del problema eio ero soddisfatto della sua risposta ma ancorainquieto per le difficoltà che esistevano nel problema,alla fine riprovai e gli chiesi: « Supponi di esserelibero da tutti i problemi che il costruire unaformulazione intellettualmente valida dei tuoi metodicomporta; supponi di poterla affermare senza curartidelle incomprensioni e degli abusi degli altri.Supponi di poterla esporre in una forma che si adattiai tuoi più autentici sentimenti nei suoi confronti,quale sarebbe allora? ». Mentre parlavo il dr. Jungincominciò a fregarsi il mento, e sulle sue labbraspuntò il suo caratteri-stico mezzo sorriso. Unsorriso ironico e pensoso insieme. Infine disse: «Ah!,sarebbe troppo strano». E lasciando cadere le maniin quel suo modo strano come se si arrendesse econsegnasse tutte le sue

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difese, continuò: « Sarebbe troppo strano. Sarebbeun rapporto Zen ».Cosa intendeva Jung riferendosi ad un rapportoZen? Non intendeva naturalmente che la praticadello Zen doveva rimpiazzare la psicoterapia. Misembrava piuttosto che volesse dire, primo che illavoro doveva essere ridotto all'essenziale, e se-condo che il lavoro da compiere si trovava al di làdella sfera razionale. Ora domandiamoci: chi è ca-pace di conseguire una guarigione al di là della sferarazionale mediante un rapporto Zen? Non il medicogenerico; e non lo psichiatra, né lo psicoterapista, maun vecchio saggio. Ma un vecchio saggio è un dinatipoparticolare, che rappresenta uno stile particolare diessere uomo. Come ho notato precedentemente, lafigura del vecchio saggio che appare nei sogni è unmezzo di conoscenza e quindi un cognitipo; maquando appare come la figura che si porta avanti nelcorso della propria vita è un dina-tipo, chesvolgendosi nei sogni e nelle azioni di quellapersona, diventa la personificazione del suo mitoprofondo.Si potrebbero dire molte altre cose al riguardo, manon penso di dovere insistere nel mostrare che ilmito profondo di C. G. Jung era nel dinatipo delvecchio saggio. Ciò che mi preme indicare è chequesto è un dinatipo diverso da quello vissuto daBuber e Tillich vale a dire quello del teonomo, o,per usare un termine più comprensibile, il dinatipodel profeta, l'uomo che pronunzia la parola pri-maria, Dio.Quali sono allora le caratteristiche dei due tipi difigure, per quanto possiamo dedurre dalla nostradiscussione? Il dinatipo del profeta, o teonomo, èl'uomo che è portato dal suo mito profondo a cercaredi trasformare la propria coscienza e quella dei suoisimili nella storia e in relazione con la storia. E' lapersona che sente svolgersi dentro di sé continua-mente il compito di rendere accessibile alla storia,in termini sociali e nelle forme sempre mutevoli cheessa richiede, la dimensione del divino.

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Il dinatipo del vecchio saggio è l'uomo che vienespinto dal suo mito profondo a cercare di trasfor-mare la propria coscienza e quella dei suoi simili,ma in quantità molto minore che nel caso del pro-feta. Tende a concentrare questo lavoro completa-mente sull'individuo al di fuori della storia, al di làdella storia, e in alcuni casi a dispetto della storia esfidando la storia. Mi riferisco con questo a queimaestri spirituali che vissero in tempi in cui il lavorodi trasformazione della coscienza doveva essereportato avanti in segreto e non lo si poteva mo-strare al mondo. Ma il tempo in cui viviamo è privodi simili tenebre. Fortunatamente in questo periodostorico uomini dì entrambi i tipi, quello profetico equello del vecchio saggio hanno avuto la possibilitàdi portare avanti le loro opere e di vivere le loroimmagini.

Questi dinatipi sono entrambi aspetti di un'unicafigura archetipica, l'uomo che trasforma la coscienza.Di tanto in tanto tutte le culture, quelle primitivecome quelle progredite, hanno bisogno che sorganoin mezzo a loro simili figure, ma la nostra civiltàsembra averne un bisogno particolare. Ciò è dovutoin parte al fatto che viviamo in un perìodo di grandecrisi storica in cui si viene decidendo della soprav-vivenza della umanità; in parte al fatto che in questoperiodo storico siamo sulla soglia di una nuova era.Se l'uomo civile sopravvivrà a questo periodo stori-co nel futuro sarà possibile una qualità di vita piùnuova e più ampia, ed in vista di ciò è necessariocomprendere meglio ciò che è coinvolto nella tra-sformazione della coscienza.A cosa mira dunque la trasformazione della co-scienza? Dopo tutto lo scopo non è la trasforma-zione come fine a se stessa. Non è il cambiamentoper il cambiamento. Piuttosto è lo spostamento delcentro della consapevolezza verso un punto dellapsiche lontano dal legame con le cose e le atti-vità soggettive; è un cambiamento nello stile di con-sapevolezza che la porta ad entrare in contesti sim-bolici e ad un livello più essenziale di quello della

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ragione. Le parole di Jung che la quintessenza delsuo lavoro psicologico era un rapporto Zen, signi-ficavano questo. Significavano spostare il punto fo-cale della consapevolezza, cosa che può essereottenuta in diversi modi.Il modo seguito dal vecchio saggio per spostare illivello di consapevolezza si compie in maniera carat-teristica attraverso un programma di disciplina pre-sentato agli individui. Questa è la via seguita daimaestri spirituali di tutti i tempi, da Budda a Naga-rjuna attraverso i rabbini cabbalistici e chassidici aidirettori spirituali del Cristianesimo ed infine a mae-stri come Jung nel campo della moderna psicologiadel profondo. Per quanto riguarda Jung, il metododa lui svolto come stile particolare di espressionedel suo dinatipo è rappresentato nella formulazionedella sua teoria dell'individuazione. E questa, dob-biamo notare, ha una formulazione particolare: ilmodello di stadi determinati durante il processo;l'equilibrio degli opposti che culmina nella unitàsimmetrica di un mandala. In questa formulazionel'equilibrio di una unità simmetrica intorno ad unpunto centrale assume un particolare significato inquanto simbolico della immagine del vecchio saggio.Il vecchio saggio rimane al centro. Parte della suaautodisciplina implica che egli diventi sempre piùcapace di portarsi in questo centro e di rimanervi. Ilprototipo di questo è il detto di Lao Tse che unuomo può rimanere sulla soglia della sua capanna,e qui gli verrà incontro tutto quello che gli serviràper vivere. Pensiamo soltanto al valore che Jungattribuì al fatto di essere svizzero, ed ecco ilsimbolismo del fatto che rimase li al centro del mon-do, in Svizzera, a Kusnacht ed a Bollingen. Avevaragione ad affermare che il mondo avrebbe trovatoda solo la strada verso di lui al centro del suo man-dala; perché il dinatipo ha un suo potere innato, eJung impersonava lo stesso dinatipo di Lao Tse, ilvecchio saggio.Il dinatipo del profeta invece, diversamente da quellodel vecchio saggio, si dirige dal centro verso il mon-

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do. Si fonda sulle conoscenze che ha acquistatostudiando con persone appartenenti al tipo del vec-chio saggio, particolarmente su una conoscenza delprocesso centripeto, del modo di penetrare nel pro-fondo di se stesso. Ma fondamentalmente, l'uomoche impersona il dinatipo del profeta opera !o spo-stamento nel punto focale della consapevolezza de-gli altri mediante il dispiegarsi della sua immaginelatente, ed il raggiungimento del suo essere totale.Ciò è chiaramente visibile nella vita di Martin Bu-ber. Rappresentare il suo dinatipo lo portò continua-mente ad entrare in rapporto con il mondo, e gliincontri che vi fece perfezionarono sempre più lasua capacità di dialogo fino al punto in cui la suaformulazione della relazione lo-Tu gli rese possibileapportare nel mondo una nuova dimensione spiri-tuale. Mentre ciò avveniva, influenzò e trasformò lacoscienza degli altri con il suo essere. Una differenzaconsiste nel fatto che mentre il vecchio saggiosviluppa le sue capacità fondamentalmente in sestesso e ritirandosi in se stesso, l'uomo cheappartiene al dinatipo del profeta tende a sviluppare lesue capacità in mezzo al mondo ed in rapporto con glialtri. Ne abbiamo visto un esempio nello svilupparsidella consapevolezza di Tiilich stesso mediante ilcontatto personale ed immediato che ebbe conBuber e poi con Eliade. Una qualità della figura delprofeta è la sua apertura verso gli altri. Egli da, mamentre riceve. Il vecchio saggio, mantenendosi alcentro, tende più a dare come risultato dell'esserechiuso in se stesso. Il dinatipo del profeta inquanto figura aperta è particolarmente adatto aldare ed avere del dialogo. Cosi fu proprio in seguitoai suoi dialoghi che Tiilich riusci a dire al mondo unaparola trasformatrice più efficace. E' chiaro che i duedinatipi di cui parliamo non si oppongono l'unoall'altro, ma sono complementari e si sommano traloro. Cosi, se li esaminiamo insieme, possiamo trarrealcune conclusioni riguardo a quanto è essenzialeper i passi successivi nello

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sviluppo spirituale dell'uomo moderno. Credo chetutti e tre sarebbero d'accordo su questi punti:1) E' essenziale che la parola primordiale, la parolaarchetipica, Dio, si fissi nella coscienza moderna conrinnovato vigore.2) La realtà del divino deve essere rivelata da nuovimezzi che non si limitino alle tradizioni del passato.Ne è un esempio l'esperienza del dialogo lo-Tu, aggiungendovi forse la dimensione del profondo offerta dalla psicologia.3) Lf dove i simboli tradizionali si sono irrigiditi indogmi, c'è bisogno di una nuova religione universalista attinta dalla storia delle religioni. Tillicharrivò a questa idea universalista ed esistenzialista,intendendo con ciò non una soppressione delle differenze tra le religioni, ma un lavoro integrale difondo per giungere al prossimo passo evolutivo nellacoscienza dell'uomo.

Inoltre, a fondamento e a coronamento di questi trepunti c'è la realizzazione del livello profondo diesperienza, la consapevolezza che il reale è sim-bolico e che il simbolico è reale. E' necessario cheavvenga un capovolgimento dall'interno verso l'esternodella coscienza perché possa venire percepita ladimensione interiore di realtà e possano venire ri-conosciute le sue ingannevoli dinamiche. Nelle vitedei tre uomini di cui abbiamo parlato, il potere de!simbolo in svolgimento operava come un fattoreformativo interiore. Operava in essi perché opera nelmondo. E' chiaro che è qualcosa che si svolge nelnostro tempo, che si serve delle vite di alcune figureper rappresentare ciò che sta avvenendo; ma cheporta l'uomo moderno, per mezzo dello sviluppo dimolte persone, verso una qualità di coscienza chepotrebbe alla fine trasformare gli avvenimenti delnostro periodo storico.

(Trad. di GABRIELLA IACCARINO)

* Relazione letta agli incontri Eranos 1966 e pubblicata in:Eranos-Jahrbuch, voi. XXXV.

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Jung, Bultmanne la psicoterapiaHèléne Erba, Roma

La giustificazione per mezzo della sola Fede è siail fondamento del Protestantesimo, sia l'idea che di-vide il Protestantesimo dal Cattolicesimo. Inoltreessa diventa il cosiddetto principio materiale dellaChiesa protestante, mentre la norma biblica ne è ilprincipio formale.« Questo principio della sola fede non si riferiscesoltanto alla vita religioso-morale, ma anche allavita religioso-intellettuale », scrive Paul Tillich, unodei rappresentanti più noti del Protestantesimo mo-derno. « Non solo colui che vive ' nel peccato ', maanche chi vive nel dubbio viene giustificato dallaFede ». (Quanto lontani siamo qui da Luterò!) « Nonc'è nessuna necessità che la situazione del dubbio,perfino del dubbio su Dio, ci separi da Lui. In ognidubbio profondo si nasconde una fede: la fede nellaverità stessa, anche se l'unica verità che possiamoesprimere è la nostra mancanza di verità. È questo,scrive Tillich, che mi ha permesso di rimanere teo-

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(1) Paul Tillich, Der Pro-testantismus als Kritik undGestaltung (EvangelischesVerlagswek GmbH, Stutt-gart I. Auflagt, 1962.Schriften zur Theologie I.Gesammelte Werke BandVII).

logo e mi ha dato un profondo senso di liberazione.Non si può trovare Dio attraverso lo sforzo di pen-sare in un determinato modo o attraverso un sacri-ficium intellectus o mediante la sottomissione adun'autorità estranea e una dottrina della Chiesa odella Bibbia. Ma anche nel dubbio si è nella verità.E nei momenti in cui si dispera del senso della vita,allora proprio la serietà del dubbio è di per se stessal'espressione di questo senso. Tale serietà incon-dizionata è la manifestazione della presenza del di-vino nell'esperienza della totale separazione daesso. È proprio questa interpretazione radicale delladottrina della giustificazione per mezzo della solaFede che ha potuto fare di me un Protestante co-sciente » (1).

Per il protestante non esiste una sfera sacra, unaverità sacra che sia in sé verità divina. Ogni prote-stante, laico o pastore, deve decidere da se stessose una dottrina è vera o falsa, se un profeta è unprofeta vero o falso. Neppure la Bibbia può solle-varlo da questa responsabilità, perché anche la Bib-bia è sottoposta all'interpretazione. Il contributo piùimportante che il Protestantesimo ha portato almondo è, secondo Tillich, il principio della protestaprofetica contro ogni potere che si arroghi uncarattere divino, sia che si tratti di una chiesa, diuno Stato, di un partito o di un Fùhrer. (« profetica», nel senso di P. Tillich, significa una critica nonrazionale, ma che emerge dalla Fede, dall'ai di là diquesto mondo).

Da questa negazione del carattere divino di qual-siasi verità o autorità sulla terra, risulta che nonesiste mai una posizione assicurata, un possessocerto della verità. Da ciò è ovvio che il Protestante-simo deve di continuo riaffrontare il contenuto dellasua Fede: Dio, Cristo, Chiesa. « Ecclesia semper re-formanda ». Con l'evoluzione dell'uomo si trasformaanche la sua comprensione del messaggio evan-gelico.

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Il Protestantesimo è aperto allo spirito del tempo ese ne serve per l'interpretazione della Bibbia: teo-logia e filosofia sono necessariamente in un rappor-to reciproco. « Colui che con spirito critico riflettesui concetti che utilizza, — scrive Bultmann —, inqualsiasi campo, della fisica o della teologia, si av-vicina con analisi critica alla filosofia e si serve dellesue opere ».

Il dialogo fra teologia e filosofia si snoda attraversotutto il nostro Cristianesimo. Per comprendere Bult-mann è bene soffermarsi rapidamente su questo ar-gomento.Dice Gerhard Ebeling:« La teologia e la filosofia rappresentano due cor-renti di tradizione, di origine e mentalità del tuttodiverse l'una dall'altra: la Fede cristiana, la cui ori-gine storica risale al mondo ebraico del Vecchio Te-stamento, e il pensiero greco, nel quale si manifestain un modo unico la libertà dello spirito umano spin-to ad indagare razionalmente l'Essere e le sue ori-gini. L'unione di queste due correnti cosi diverse ditradizione ha creato il complesso storico più potentee differenziato, senza mai perdere però il caratteredi una dualità piena di tensioni. Non si tratta di unmiscuglio di due correnti che si potrebbero ulterior-mente dividere. Per quanto la Fede cristiana sia le-gata al Vecchio Testamento, non vuoi essere peròcompresa come una forma della religione israelitico-giudaica. Infatti già all'inizio del Cristianesimo si eravenuti ad un chiarimento decisivo in merito alla Fedecristiana, quando ci si persuase che i pagani eranoammessi alla Fede senza dover prima divenireGiudei.Paolo conserva lo stesso atteggiamento tanto difronte agli Ebrei quanto ai Greci; apertura di mentee dedizione, ma anche prontezza nel contraddire; nel-la certezza che la divisione fra Giudei e non Giudei,Greci e barbari, era risolta nella Fede. (Poiché iGiudei chiedon dei miracoli e i Greci cercansapienza; ma noi predichiamo Cristo croci-

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(2) Gerhard Ebeling, Lu-ther Einfùhrung in seinDenken. J. C. B. Mohr(Paul Siebeck) Tubingen1964.

(3) C. J. Jung, Ricordi,sogni, riflessioni. Il Sag-giatore, Milano t965, pag.105.

fisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili paz-zia), (1 Cor. 1, 22). La penetrazione del messaggiocristiano nel mondo greco-ellenistico non è un casoné un avvenimento problematico per la purezza dellaFede cristiana... Il fatto che il Nuovo Testamento nonsia scritto in ebraico, come il Vecchio Testamento,ma in greco, ha un significato profondo. L'incontrodella Fede cristiana con il mondo greco, checostituisce l'essenza vitale del Cristianesimo, si con-figura, infatti, soprattutto come adesione all'esponen-te principale del pensiero ellenico, la filosofia » (2).

Non accennerò, neppure brevemente, alle varie fasidel Protestantesimo dovute all'influenza delle diversecorrenti filosofiche, da Luterò in poi, mentre ritengodi dovermi soffermare su un movimento teologicole cui radici affondano nell'Illuminismo, nei concettidi Kant ed Hegel, nel razionalismo. È la teologialiberale che ha dato una profonda impronta a uo-mini come Jung, Albert Schweitzer, Rudolf Bultmann,Tillich, ecc.

Dalle allusioni fatte nei confronti della propria fa-miglia, particolarmente a proposito del padre, si puòdedurre che Jung è cresciuto in un ambiente d'unProtestantesimo ortodosso, altrimenti non avrebbemai potuto scrivere che si trovava solo con la suaopinione, che Gesù era un uomo (3). Il problema delGesù storico è un frutto dell'Illuminismo, epoca incui Raimarus, nel 1778, scrisse il suo famoso libroche presentava Gesù come un Messia politico ebreo.Nel 1900 era molto in voga la teologia liberale, se-condo la quale Gesù è certo l'apportatore di unarivelazione, ma non ha significato assoluto; egli po-teva essere cioè il rappresentante più puro e insignedi una vita spirituale, l'incarnazione di un ideale chedorme in ogni essere umano e si risveglia attraversol'incontro con Lui, ma non, come nel Protestantesimoortodosso, il Figlio Unico e Redentore.

Ciò che caratterizza la teologia liberale è la predo-minanza dell'interesse storico. Il suo merito non sta

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tanto nell'indagine e nel chiarimento della figurastorica di Gesù, quanto soprattutto nell'allenamentoalla critica, cioè alla libertà e veridicità. Scrive Bult-mann: « Noi che veniamo dalla teologia liberale, nonavremmo potuto divenire o rimanere teologi, se nellateologia liberale non avessimo incontrato la se-rietà della verità radicale; la teologia accademicaortodossa ci dava, invece, l'impressione di svolgersinel compromesso » (4).

Ora, dove conduceva la via della teologia liberalestorico-critica? La speranza che la critica, una voltaliberata dal fardello della dogmatica, ci avrebbe con-dotti alla conoscenza della vera immagine di Gesù,fondamento della Fede, si rivelò rapidamente un'il-lusione. Albert Schweitzer scrive verso la fine delsuo libro: « L'indagine sulla vita di Gesù ha avutouna strana sorte. Partf per scoprire il Gesù storicocredendo di poterlo mettere, tale e quale, come « LaVita e Salvezza » nella nostra epoca. Sciolse i vin-coli che lo legavano da secoli alla rocca della dot-trina ecclesiastica e sì rallegrò quando vide che lasua figura riacquistava vigore e vitalità e che Gesùle veniva incontro come uomo storico. Ma egli nonsi fermò: oltrepassò il nostro tempo e ritornò nelsuo ».

Per A. Schweitzer è stata la delusione per la man-cata Parusia, l'avvento del Regno di Dio, che indusseGesù, il rabbi e profeta ebraico, ad accettare la viadel dolore, della croce, per forzare in questo modola Parusia. Albert Schweitzer s'indirizzò verso l'amo-re del prossimo e fondò Lambarené. Trovò la sua so-luzione sul piano etico.

Il problema del rapporto fra il Cristo kerygmatico,cioè il Cristo come è annunciato dalla Chiesa, e ilGesù storico, determina oggi in gran parte l'indaginescientifica del Nuovo Testamento. Ovviamente esisteuna differenza fra la predicazione di Gesù e il mes-saggio annunciato dalla comunità primitiva. Gesù, ilrabbino e profeta ebraico, predicò l'avvento del Re-

(4) Rudolf Bultmann, Glau-ber) und Verstehen. ErsterBand Fùnfte, unverànderteAuflage 1964. J. C. B.M o h r (Paul Siebeck).Tùbingen. Zweiter BandDritte, unverànderte Au-flage 1961. Dritter Band:Zweite, unveràndtrte Au-flage 1962.

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(5) C. G. Jung, op. cit.,pag. 104.

6) C. G. Jung, La sim-bolica dello spirito. Ei-

gno di Dio. La comunità primitiva predicava Gesùcome il Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, lasua venuta alla fine dei tempi. L'Annunciatore di -venne l'Annunciato. Come possiamo comprenderequesto?

Quando Jung scrive di appartenere all'ala sinistradel Protestantesimo, ciò significa precisamente cheegli condivide la concezione liberale, secondo cuiGesù è un uomo, un rabbi ebreo e profeta, senzaessere però soddisfatto della teologia liberale domi-nante nel periodo della sua gioventù, che era quelladi Ritschl (5).

Nella sua conferenza all'Eranos del 1940 sulla psi-cologia della Trinità, Jung allude alla problematicadelle indagini sulla vita di Gesù; e inoltre parladell'influenza esercitata dalla Gnosi e dalle religionidei misteri sul Cristianesimo primitivo, i cui conte-nuti furono proiettati su Gesù, rendendo la sua per-sonalità addirittura irriconoscibile. (Il libro di Bult -mann « Gesù » era uscito nel 1925).

Sappiamo che Jung giunse alla convinzione che suGesù furono proiettati gli attributi dell'eroe comefigura collettiva. « II contenuto di tali immagini sim-boliche è la rappresentazione di un essere superio-re, universale perfetto o completo... Poteva averequest'effetto rivelatore perché e in quanto era unDio eterno — cioè non storico — e poteva agire intal modo soltanto grazie al consensus generalis...Questa rappresentazione corrisponde ad una com-pletezza esistente nell'uomo come immagine dell'in-conscio. E questo archetipo del Sé ha risposto in ognianima al messaggio, cosf come il rabbi concretoGesù è stato rapidamente assorbito dall'archetipoassimilato. In tal modo Cristo realizzò l'idea del Sé.Se avesse conservato la sua figura storica, umana,Gesù sarebbe molto probabilmente, dice Jung, allivello di un Pitagora, Socrate o Apollonio di Tya-na» (6). Quest'ultima frase riflette l'immagine di Gesùcom'è vista dalla teologia liberale.

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L'aspettativa del Messia, del Salvatore era in quel-l'epoca particolarmente viva, e fu attivata dalla per-sonalità storica di Gesù come archetipo universale.In tal modo la figura del Messia o Kyrios venne proiet-tata su Gesù. In altre parole: il linguaggio miticopossiede un'affinità con processi che si svolgono nel-la profondità dell'anima umana; e possiede dunqueun rapporto esistenziale che non va cercato nel pia-no razionale, ma nel piano dell'inconscio collet-tivo.

naudi, Torino 1959, pag.233-234.

Certo, anche la risposta di Jung solleva problemi.In ogni modo, se Jung compiange la perdita deisimboli e riti nel Protestantesimo, mi pare che lofaccia piuttosto per gli altri, in quanto egli non eradestinato alla via della Fede, ma al pensiero comepresa di coscienza.

Vediamo ora come Bultmann, anch'egli figlio di unpastore protestante come Jung, abbia reagito allateologia protestante liberale e come abbia inter-pretato il mito del Cristo.

Il libro di Miegge può dare alcuni dati essenzialisulla tesi di Bultmann: Gesù, figura storica, rabbie profeta ebraico, annuncia l'imminenza dell'avventodel Regno di Dio, e chiede una cosa: un amore in-condizionato a Dio, con una dedizione assoluta. Nonsi può dire se Gesù abbia avuto coscienza di essereil Messia, egli ha comunque avuto la coscienza cheil segno decisivo di tale evento era la sua persona.Gesù è stato crocifisso, e questo è un evento storico.La risurrezione invece non è un fatto storico; faparte del mito. La risurrezione non è altro che lafede nella croce come avvenimento salutare (Heilse-reignis), nella croce come croce di Cristo. Non sipuò credere prima in Cristo e poi nella croce; macredere in Cristo significa credere nella croce comecroce di Cristo. Non è l'evento salutare perché è lacroce di Cristo, ma è la croce di Cristo perché èl'evento salutare.

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(7) " Kerygma und My-thos " Theologische For-schung 1960. HerbertReich Evangelischer Ver-lag GmbH Hamburg-Berg-stedt.(8) Karl Jaspers, Die Fra-ge der Entmythologisie-rung. Rudolf Bultmann, R.Piper & Co. Verlag, Mun-chen 1954.

All'infuori di questo è soltanto la fine tragica di unuomo nobile (7).

Nel dialogo « Karl Jaspers, Rudolf Bultmann: DieFrage der Entmythologisierung »(8) Bultmann poneil problema molto chiaramente: il compito dell'ese-geta è quello di presentare la dottrina dell'Evangelo,la Parola di Dio, al pastore e al curatore delle ani-me, conformandosi alle ricerche scientifiche più re-centi e, contemporaneamente, alle esigenze dell'uo-mo moderno. Solo tale atteggiamento può consen-tire di superare il rischio additato da Luterò, criti-cato da Jung in suo padre, vivo per ogni Protestante,che il messaggio dell'Evangelo venga annunciato co-me Parola di Dio e non come parola dell'uomo. Nondimentichiamo che nel culto protestante non c'èaltro se non la Parola, o almeno tutto è centrato nellaParola. Poveri pastori! In definitiva, si tratta dunque,come dice Bultmann, di rendere visibile, tangibile, ciòche è la Fede cristiana per l'uomo di oggi. Ecco ilproblema.Ora, l'interpretazione di un testo resa in tal modoche questo testo tocchi me, concerna me, è un pro-blema ermeneutico che per Bultmann diventa unproblema centrale. Non esiste per Bultmann un'ese-gesi neutrale, un pensiero distaccato, perché nonstiamo di fronte alla storia come di fronte alla na-tura; facciamo parte della storia. Abbiamo già vistol'importanza che aveva questo atteggiamento perLuterò. Questo atteggiamento, che aveva già unanotevole importanza in Luterò, è la prerogativa es-senziale di Bultmann, che nelle sue opere (citeròsoprattutto « Glauben und Verstehen, Das Pro-blem der Hermeneutik », « Adam, wo bist Du ») mettein rilievo la differenza fra filosofia greca e pensierobiblico, quali fonti di due diverse concezioni dellavita (v. ad es. il suo brillante « Das Urchristentum imRahmen der antiken Religionen », in italiano « IICristianesimo primitivo », Milano, Garzanti 1964).

Nell'ideologia greca, il cosmo viene oggettivato nelpensiero razionale, compreso come unità ordinata,

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sottoposta alla legge; e l'universale atemporale è inquesta filosofia il vero Essere, accessibile alla ra-gione, il Reale, contrapposto alla sfera del diveniree dell'appassire, appartenenti all'attuale ed indivi-duale. Nel cosmo, rappresentato in analogia d'un'ope-ra d'arte, sotto il punto di vista dualistico della for-ma e della materia, l'uomo si considera un anello,inserito organicamente nel nesso oggettivo del mon-do e oggettiva se stesso come fenomeno dellanatura.In una tale ideologia, la storia nel senso del dive-nire, della « Geschichtlichkeit » dell'individuo, nonesiste. Di fatto, Tucidide ricerca nella storia intesacome una successione di fatti oggettivi, compiuti,appartenenti al passato, ciò che è permanente, cer-ca di estrarre l'invariabile dal variabile, l'invariabileessendo per Tucidide la ricerca del potere, l'ambi-zione. Anche se i Greci non ignoravano il divenire, laGenesi, non le davano nessuna importanza.

Anche nel pensiero moderno, la storiografia ha cer-cato, fino a questi ultimi tempi, di vedere fatti sto-rici come fatti naturali, fatti del passato, e ne haricercato la connessione, la legge. La soggettivitàdello storico, un giudizio di valore, dovevano essereevitati. Il libro di Spengler: « II declino dell'Occiden-te » (9), è la perfetta espressione di questo mododi vedere un fatto storico come un fatto naturale.Anche la teologia liberale tende a vedere la realtànelle idee generali: amore, ethos, ecc. Ma lastoriografia oggettiva non vede che un fatto storiconon è soltanto, anzi non è essenzialmente un fattonaturale. In altre parole: l'avvenimento storico non èmai finito e il suo senso ne sarà svelato sol tanto allafine dei tempi. Certo, che Luterò, per esempio, abbiaaffisso le sue novantacinque tesi alla porta dellachiesa di Wuttenberg, è un fatto passato; ma il suosenso non lo è, e determina ancora la nostraesistenza. Non si conoscerà prima della fine dellastoria il significato dell'azione di Luterò, perché leconseguenze si svolgono ancora nel mondo di oggi.L'essere umano stesso è storicità. Il passato non

(9) Oswald Spengler, IIdeclino dell'Occidente.Longanesi, Milano 1970.

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è soltanto un passato morto, ma anche un presenteo meglio un futuro che lo chiama, si indirizza a lui,ha qualcosa da dirgli. Noi siamo responsabili di ciòche potremmo chiamare il futuro del passato. OgniProtestante, per esempio, è responsabile del futurodel passato protestante, che non è chiuso, ma aper-to, e il presente è il momento della decisione, nelladecisione attuale è colto il frutto del passato e scel-to il significato del futuro. Cosi si stabilisce un rap-porto dialettico fra passato e futuro nella decisionedel presente.

Questa interpretazione esistenziale della storia è diorigine biblica, e come il concetto greco della storiaè soltanto un aspetto della filosofia greca, cosiil concetto biblico della storia è soltanto unaspetto, anche se centrale, del pensiero biblico. Perla Bibbia, gli avvenimenti non sono cose finite; iperiodi storici non sono cicli isolati. Avvenimenti eperiodi sono legati da un'intenzione. Un episodio nonè mai compiuto; lo sarà soltanto quando il piano diDio in questo mondo sarà realizzato. Un fatto sto-rico non è mai soltanto un fatto oggettivo, ma portain sé un significato che lo oltrepassa. Il popolo è re-sponsabile del futuro del suo passato che gli porte-rà benedizione o castigo, secondo la sua obbedienzao disobbedienza. Nella storia (Geschichte) Dio siindirizza all'uomo, lo provoca al dialogo e aspetta lasua risposta. Questo è il concetto che domina la sto-riografia biblica: la vera realtà è la storia. Non è nellanatura cosmica che l'uomo si trova inserito — anzile sta piuttosto di fronte — bensì nella storia,nella quale, grazie alle sue decisioni e ai suoidestini, conquista la sua impronta individuale. Lavera vita dell'uomo matura, dunque, nella sferadell'individuale, nell'attualizzarsi degli incontri. Ènella decisione del momento, e non nel volo deisuoi pensieri verso il mondo divino atemporale, cheegli sta di fronte a Dio.È qui, nell'avvenimento concreto storico che si ve-rifica l'incontro con Dio, come con Colui che esige,giudica e giustifica. Per l'uomo biblico l'indagine del-

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la verità è l'indagine del senso dei'incontro attuale,l'indagine di ciò che è richiesto e dato. Ora,torniamo all'interpretazione di un testo biblico. Èchiaro che secondo la comprensione che l'interpreteavrà della vita, di se stesso, di Dio, interrogherà iltesto in modo diverso; il suo rapporto con il testomuterà e il testo risponderà diversamente. Bultmannchiama « Vorverstàndnis », comprensione prelimina-re, questo insieme di presupposti che non è mai pos-sìbile eliminare per avere un cosiddetto atteggia-mento neutro. Esigere ciò sarebbe assurdo. Ma noidobbiamo essere coscienti di questi presupposti.D'altra parte, il testo stesso è stato scritto con unacerta intenzione e da qualcuno che aveva, anche lui,una comprensione sua del rapporto con Dio, del mon-do, ecc..., cioè un « Vorverstàndnis » suo. Ora, piùl'interprete si avvicina al testo con la stessa com-prensione preliminare, più domanderà al testo ciòche esso ha intenzione di dire, e più la compren-sione del testo si avvicinerà a ciò che si può chiamareuna comprensione oggettiva. Nel senso che l'in-terprete si mette il più possibile in condizioni talida lasciar parlare il testo e lasciargli dire ciò che ave-va veramente intenzione di dire. Per esempio, se noici avviciniamo ad un testo biblico con le categoriedel pensiero greco, razionale, oggettivante, nonsiamo nelle condizioni preliminari adatte, percomprendere il testo che vuoi parlare di un Dio cheordina e che non è mai oggetto del pensiero umano.Secondo Bultmann, l'uomo ha un sapere di Dio cheè un « nichtwissendes Wissen », un sapere che nonsa (potremmo dire forse l'archetipo di Dio in noi).

Ora, se, per parlare come Luterò, la rivelazione siindirizza non a pietre e oche, ma all'uomo, questopresuppone una cosa: essere uomo, e questo signi-fica avere una comprensione preliminare corretta,giusta, di ciò che la Bibbia ha da dirci. Certo, Bult-mann richiede il Vorverstàndnis corretto non a qual-siasi persona — si può fare l'esperienza di Dio senzaesso — ma all'esegeta. Per esempio, come si spiega

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che la teologia classica consideri l'evento della sal-vezza un atto giuridico, un sacrificio, e la teologialiberale una esperienza mistica? Come si spiega cheil peccato venga considerato talvolta sul piano dellamagia, e talvolta su quello dell'etica o sul piano re-ligioso? Perché queste interpretazioni si basano sudiverse comprensioni preliminari. Perciò è indispen-sabile sottoporre le categorie con le quali ci avvici-niamo al messaggio biblico ad un'analisi critica, peresaminare fino a che punto questa concettualità siacorretta e adeguata in considerazione di ciò chequesto messaggio ci vuole dire.

A me pare che lo psicoterapeuta si trovi di fronte aproblemi molto simili. La sua comprensione del pa-ziente — il suo testo — non può essere separato dal-la comprensione di se stesso. Perciò facciamo unaanalisi personale: per non proiettare sui pazientii nostri contenuti psichici. D'altra parte, non esisteun vero rapporto analitico fintantoché il paziente èun mero oggetto, fintantoché non riconosciamo ilsuo « Anspruch », i! suo diritto su di noi. In altreparole, anche noi dobbiamo renderci conto delladistinzione fra situazione esistenziale e situazioneesistentiva, cosi essenziale per comprendere Bult-mann. Per divenire psicoterapeuti dobbiamo tuttiprepararci; e sappiamo anche che l'interpretazionedei sogni e in generale la terapia sarà diversa a se-conda del genere della preparazione (Freud, Jung,ecc). Per esprimerci col linguaggio di Bultmann,noi dobbiamo avere un « Vorverstàndnis », una com-prensione preliminare, giusta, adatta o anche cate-gorie adeguate. Questa comprensione preliminare èla situazione esistenziale.

Nel momento dell'incontro con il paziente, Jung ciraccomanda di dimenticare tutto ciò che abbiamoimparato. Noi tutti abbiamo fatto l'esperienza di quan-to sia difficile raccontare all'analista di controllo losvolgersi di una seduta. Possiamo raccontargli i so-gni e le nostre interpretazioni, ma, per quanto im-portante ciò sia, non è l'essenziale. L'essenziale sta

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nella situazione di transfert con tutto l'intreccio deirapporti, cioè nella situazione esistentiva. Certo, ilpaziente è anche oggetto per noi, un oggetto perquanto possibile scientifico, e deve esserlo; cosiquando proviamo a classificarlo in una delle cate-gorie note, quali la nevrosi coatta, ecc. Ma nell'in-contro, nel transfert, il rapporto soggetto-oggetto do-vrebbe cedere il posto ad un altro rapporto, ad unaapertura, cioè all'incontro esistentivo. E quest'in-contro cambia anche l'analista. Sono due modi di-versi di vedere la stessa cosa (che non è affattopiù la stessa): l'una è razionale, greca, l'altra esisten-ziale, biblica.

Queste considerazioni sono secondo il mio pareremolto fertili se rapportate al problema dei miracoloe del «Wunder» (Bultmann usa la parola « Mira-kel », miracolo, per un evento contro natura, peresempio cambiare l'acqua in vino, mentre utilizzala parola « Wunder », per la quale in italiano esistesolo la parola « miracolo », per indicare un'azione diDio percepita solo da me, che per gli altri sarà unanello nella catena della causalità).

L'azione di Dio è celata, come « Wunder », per coluiche non vede Dio in essa. Poiché il Wunder nonè precisamente un'azione che si possa legittimarecome azione di Dio in una qualcosa che può esserpercepita come un evento logico entro il mondo. L'af-fermazione che un avvenimento sia un Wunder nonè in contraddizione con la constatazione che sia unevento di questo mondo. Comprendo bene che cosasignifica «Wunder»: è l'agire di Dio. (Una tale vi-sione abolisce il mondo come natura). L'impossibilitàdi riconoscerlo come manifesta azione di Diosignifica per me anzitutto che Dio è nascosto a me.Parlare del Wunder significa parlare della miaesistenza, cioè dire che nella mia vita Dio è divenutovisibile. Esiste dunque soltanto un « Wunder»: quellodella rivelazione in quanto avvenimento: non comeidea, ma come azione di Dio. La Rivelazionesignifica perciò grazia di Dio per l'empio.

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Rivelazione è rivelazione soltanto in actu e nondiviene mai una cosa rivelata. Perché Dio non puòessere trattenuto nella Fede cosi che il credente pos-sa ritornare sulla sua Fede come su una decisionepresa una volta per tutte. Dio rimane sempre al dilà di ciò che è stato afferrato, o, in altre parole: lamia decisione di Fede è genuina soltanto se attuatadi volta in volta. « Dio è l'ospite che procede sem-pre » (Rilke). In nessun momento presente può es-sere afferrato come Colui che rimane; ma essendocolui che esige sempre di nuovo le mie decisioni, stasempre dinanzi a me, come Colui che viene, e que-sto suo essere sempre nel futuro è il suo esserenell'ai di là.

Ora, la rivelazione, la rivelazione biblica, utilizza illinguaggio umano secondo il suo vero senso, cioèin un aprirsi alla trascendenza. Però non sempre cor-rettamente. L'uomo naturale, con la sua tendenza al-l'oggettivazione, distorce il suo senso. E questogià nel Cristianesimo primitivo. Il mito autentico èorientato verso la trascendenza, come un potere cheesige riconoscimento e obbedienza. Il mito esprimel'idea che l'uomo non è signore del mondo e dellasua vita e che il mondo nel quale egli vive è pienodi problemi e di oscurità. Il mito è molto di più diuna scienza primitiva. Ma il mito della dipendenzaoriginaria dell'uomo da un « Tutt'altro », dalla tra-scendenza, non è mai puro, perché l'uomo non puòsopportare il dominio del trascendente. L'esperienzasempre ripetutasi di colui che vive nell'immediatezzadella trascendenza è l'isolamento. E l'uomo, tantoquello primitivo quanio quello moderno, non è capa-ce di sopportarlo. Perciò anche l'uomo religioso co-nosce la tentazione di oggettivare queste potenzedella trascendenza irrompenti nella nostra vita, diallontanarle per eliminare il loro « Anspruch », illoro diritto sull'uomo. Van der Leeuwe enumera imezzi seguenti per dominare i poteri trascendentali;l'uomo da loro forma, nome, eternità, culto. Diamosoltanto un esempio: presso i Greci l'immagine do-mina la religione, mentre manca in Israele. Il greco

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vede l'immagine e la tiene a distanza, mentre Israeleascolta il suo unico Dio che dispone completamentedel suo popolo.

Attraverso le sue ricerche esegetiche, Bultmann mo-stra come nel mito gnostico e nei misteri che Paoloincontra nella sua attività missionaria, domini, mai-grado la ioro elevatezza spirituale, una comprensio-ne preliminare rispetto a quella della rivelazione delmessaggio evangelico. E osserva come egli cerchi diutilizzare a modo suo i concetti familiari agli Gnosticinella sua predicazione deìl'Evangelo. Questo spiegale contraddizioni concernenti la morte di Gesù comesacrificio e come avvenimento cosmico, il vedere inGesù il Messia e il secondo Adamo, ecc. Masoprattutto la critica viene provocata da unastrana contraddizione che si manifesta in iutto ilNuovo Testamento: da una parte, determinazionecosmica dell'uomo, dall'altra egli è chiamato aprendere decisioni; talvolta il peccato è consideratofato, talvolta colpa, ecc. Cosi il senso dei mito èparzialmente celato da una comprensione prelimi-nare inadeguata, e questo si manifesta già nel Cri-stianesimo primitivo. Dobbiamo rilevare la frase diBultmann in « Kerygma e Mito », che non è statacompresa abbastanza chiaramente: « Nel mito stessoè contenuto il motivo della critica di se stesso, cioèdelle sue rappresentazioni oggettivanti, in quantoil carattere oggettivante delle sue affermazioni ini-bisce e occulta la sua vera intenzione di parlare diun potere trascendente, a cui sono sottomessi mon-do e uomini ».

Certo, Malet, oltrepassa il pensiero di Bultmann,quando interpreta la mitologia come il logos delmito, come la sua razionalizzazione su un pianoprimitivo, quando, per esempio, l'ai di là di Dio vienerappresentato come lontananza spaziale (10). PeròMalet ha visto qualche cosa di giusto allorché sotto-linea che Bultmann non ha mai parlato di demitiz-zazione, ma sempre di demitologizzazione; Bultmannnon vuole affatto eliminare il mito, né razionalizzar-

(tO) Andre Malet, My. -et Logos. La penséeRudolf Bultmann. Ed : :Labor et Fides, Ge'1962.. (Nouvelle sèrie :-logique, n. 14).

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lo, ma vuole invece, reintegrarlo nel suo suo verosenso. In ogni modo non vuole eliminarlo, quandochiama « mitico » il parlare dell'agire di Dio e del suointervento decisivo escatologico nella nostra esi-stenza.

Ora, se il senso del messaggio evangelico viene ce-lato da una comprensione preliminare inadeguata,da categorie non adatte, ci si deve domandare qualisiano le categorie corrette, per reinterpretare ilmito cristiano.

Bultmann dice: « Esso deve essere interpretato se-condo la comprensione dell'esistenza inerente almito stesso, cioè deve essere interpretato esisten-zialmente ». Per la Bibbia l'uomo, come sappiamo, èstoricità. Non ci si deve dunque stupire se Heidegger,per indagare il « fenomeno umano » dal punto divista ontologico, abbia studiato il messaggio rive-lato e la tradizione Cristiana in certe rappresenta-zioni che hanno particolarmente messo in luce lastruttura esistenziale dell'uomo, come Agostino, Lu-terò, Kierkegaard. Heidegger non ha mai fatto mi-stero dell'influenza profonda esercitata su di luidalla Bibbia e anche da Luterò giovane. Ora, datoche Heidegger, sul piano ontologico, è rimasto piùfedele al Nuovo Testamento di molti esegeti e pro-fessori di teologia, Bultmann ha potuto servirsi dellesue analisi delle strutture formali, trovando in luiprecisamente ciò che aveva scoperto attraverso i suoilavori esegetici e teologici nel Nuovo Testamento enella tradizione protestante. « Non significa dipen-denza dalla dottrina filosofica di Heidegger se traia-mo insegnamenti dalla sua analisi dell'esistenza, per-ché in essa viene affrontato lo stesso problema, cheè posto alla teologia, cioè il problema delia storicità,divenuto acuto per la comprensione storica dellaBibbia. Nello sforzo di chiarire il rapporto dell'es-sere umano con la storia e di utilizzare quindi lacomprensione storica per uscire dallo schema abi-tuale soggetto-oggetto, la teologia può imparare daHeidegger. È ovvio che non necessariamente ci si

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deve rivolgere a Heidegger, se si crede di impararlomeglio altrove, va bene. Ciò che conta è che deveessere appreso » (11). (11) Jaspers - Bultmann,

cit, pag. 60.

Bultmann ha delineato una reinterpretazione del mi-to cristiano in « Kerygma e Mito ».

Per chiarire la comprensione cristiana dell'essere nelNuovo Testamento, egli espone anzitutto ciò che si-gnifica l'essere umano senza Fede nel Nuovo Testa-mento, poi l'essere umano nella Fede, ma senza unaFede specifica in Cristo.Si pone a questo punto il problema se oggi la filo-sofia esistenziale non giunga per via profanaalla stessa ideologia elaborata dal Nuovo Testamento,prescindendo, tuttavia, da Cristo, che del NuovoTestamento era il nucleo. L'evento cristico risulte-rebbe, in definitiva, un resto mitologico, la cui eli-minazione sancisce l'avvento della filosofia al postodella teologia pionieristica che avrebbe esaurito ilsuo ruolo.Cosicché, fra l'altro, la teoloqia Dotrebbe essereconsiderata una pioniera della filosofia che, inquanto tale, oggi ha esaurito il suo ruolo. Potrebbesembrare cosf che nell'evento cristico si tratti d'unresto mitoloqico che deve essere eliminato. Questoproblema deve essere affrontato con tutta serietà,se la fede cristiana vuole essere sicura di se stessa.Poichè essa può guadagnare la certezza di se stessasolo se pensa fino in fondo alla nossibilità della sua,impossibilità ed inutilità. La filosofia è persuasa cheè necessario solo dimostrare la « natura », cioè l'esi-stenza autentica, quale fattore ad essa appropriatoper avviarne la realizzazione. In questa autofiduciaconsiste la profonda differenza fra Nuovo Testa-mento e filosofia, poiché il Nuovo Testamento affer-ma che l'uomo non può liberarsi dalla sua effettivavocazione al mondo, se non attraverso un'azionedi Dio. Il suo « messaggio » non è una dottrina re-lativa alla « natura », all'esistenza autentica dell'uo-mo, ma appunto il messaggio di questa azione libe-

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ratrice di Dio, il messaggio dell'evento salvifico com-piuto da Cristo.Ora Bultmann spiega l'evento di Cristo, la croce diCristo, che, quale evento cronistorico innalzato adimensione cosmica, diventa un evento escatologico;cioè per il credente resta sempre presente. Invecela Resurrezione, in contrasto con la crocifissione,non è in nessun caso un evento cronistorico, non èun miracolo di conferma che giovi a chi chiede dipoter credere con certezza in Cristo.

Bultmann ha assolutamente ragione quando affermache la Risurrezione di Cristo significhi molto di più;o, meglio ancora, esprime qualche cosa di assoluta-mente diverso dai ritorno di un morto nella vita diquaggiù. Ciò significherebbe soltanto che la vitaindividuale non cessa con la morte e non sarebbedavvero un evento salvifico. Questa grande disputarelativa alla cronistoricità della Risurrezione di Gesùderiva da un malinteso. Il Risuscitato, in quanto ilTutt'aitro, è una nuova comprensione dell'uomo, chedistrugge l'autosufficienza dell'uomo peccatore, se-parato e nemico di Dio. Il mondo, attraverso la Ri-surrezione, diviene di nuovo creatura di Dio, a cuiè data la vita eterna. Per operare questa trasfigu-razione radicale, ci vuole ben altro che un esseresoprannaturale che sa compiere il miracolo di tor-nare alla vita. Ci vuole l'azione salvifica di Dio; civuole un'autentica Alterità, cioè una nuova compren-sione dell'uomo. Il Risuscitato è tale soltanto inquanto mi resuscita; altrimenti, è un mero prolunga-mento di me come qualsiasi realtà oggettiva. Proprioperché non è risorto oggettivamente, Gesù è risortorealmente, cioè escatologicamente, divenendo il mio« Signore ». Si comprende allora che la Risurrezioneè il senso della croce, la sua realtà profonda. Migliaiasono stati crocefissi. I fatti oggettivi in se stessi nonsono niente; il loro vero essere è il loro senso.

Morte e Risurrezione come evento salvifico di Cristosignificano la mia liberazione dall'autosufficienza, ilmio ritorno cosciente alla mia origine, attraverso

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l'azione di Dio, sotto il mistero della croce, per cuiil dolore acquista il suo senso. La fede, come dedi-zione all'amore di Dio, è allo stesso tempo l'ab-bandono della mia vecchia autocomprensione inquanto giustizia propria, il cui rovescio è semprel'angoscia; nella Fede mi capisco completamentequale figlio della grazia di Dio. Ma l'atto di Fedeva sempre rinnovato, l'uomo è teso fra autosuffi-cienza e Dio, tra legge e rivelazione: l'evento salvi-fico — la croce, la Risurrezione — è un eventoescatologico.

Il dramma della vita archetipica di Cristo ha un ri-ferimento ad un evento psichico vivo e universalmenteesistente. È l'archetipo dell'individuazione, quindidi quel processo di mutamento della psiche, a cuil'uomo deve esporsi quando vuole raggiungere lapiena realizzazione di se stesso. Espressoteologicamente sarebbe: « Le vere parole di Fedesono sempre anche parole relative all'uomo e al suodivenire uomo. Non si può credere al figlio nato daDio, senza credere alla propria vocazione di esserefigli di Dio». (R. Stahlin: « Wer ist dieser » («Chi èquesti?», citato da Uwe Steffen) (12).

Il mito di Cristo contiene il motivo di Giona dellamorte e della risurrezione, ma non come motivo cheritorna ciclicamente, in contrasto con la morte e larisurrezione degli antichi dei della natura: Attis-Ci-bele, Mitra, Adone, ecc, che del resto non possonoprovare una realtà storica. Non possiamo qui inda-gare quale sia il rapporto tra il mito di Cristo e gliantichi misteri. Rimando al libro di Uwe Steffen.

L'affermazione di Jung che la teologia annuncia unadottrina che non si capisce ed esige una Fede chenon si riesce a trovare, senza che la teologia sisforzi di renderla comprensibile, non è certo validaper Bultmann, anche se la sua via è tutta diversa. Sipotrebbe soltanto domandarsi fino a che punto Bult-mann ne abbia facilitato la comprensione! Quasi rin-cresce che egli non si sia servito degli scritti di

(12) Uwe Steffen, Das My-sterium von Tod und Au-ferstehung Formen undWandlungen des Jona -Motivs, Vandenhoek & Ru-precht, Gòttingen 1963.

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(13) Kerygma e Mito, cit.,pag. 46.

Jung, perché la sua affermazione: « Non perché èla croce di Cristo, è l'evento salvifico, ma perché èl'evento salvifico, è la croce di Cristo » (13) trova unsostegno nella scoperta di Jung degli archetipi: unaspiegazione del fatto che la morte e la Risurrezionedi Cristo trovano tanta risonanza nell'uomo, scuoten-dolo profondamente. Come pure quando Jung scri-ve: « Se non esistesse un'affinità tra la figura delSalvatore e certi contenuti del'inconscio, uno spiritoumano non avrebbe mai potuto vedere la luce inCristo e comprenderla con fervore ».

Ma arrivando all'ultimo punto, si capisce che nonpoteva andare d'accordo con Jung. Che io sappia,Jung e Bultmann non si citano mai vicendevolmen-te, benché si avvicinino nelle loro ricerche, per quan-to diverse. Una differenza profonda li separa. Ed èl'ultimo argomento che affrontiamo: l'assolutismo delmessaggio evangelico. Per Bultmann, la rivelazioneè l'evento che si attualizza ora e per me nell'incon-tro con Dio come il mio Dio, attraverso la Parolaannunciata oggi dalla bocca di un uomo, il pastore.Questa rivelazione è legata ad un avvenimento sto-rico di duemila anni fa, cioè la crocefissione di Gesùe la fede pasquale della prima comunità cristiana,che legittima il pastore a parlare cosi. Ora, come diceJaspers, perché questo evento dovrebbe essere l'uni-co valido per la rivelazione di Dio? Non sarebbepossibile che altre rivelazioni siano date all'uomo,per esempio attraverso i Veda per i Rishis, attraver-so i libri di saggezza cinese ecc? Anzi, non po-trebbe la rivelazione essere intesa in un modo moltopiù vasto? Jaspers non allude qui ad una soggettivitàarbitraria, ma ad una fede filosofica.

Per quanto poco piacevole sia il dialogo Jaspers -Bultmann, secondo il mio parere Jaspers qui haragione. Data la posizione teologica di Bultmann,con la sua demitologizzazione, l'obiezione di Jaspersè inevitabile e la tesi di Bultmann in questo puntodifficilmente sostenibile. Evidentemente si tratta quidi una decisione di fede, della quale non si può di-

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scutere. Forse è cosi che Bultmann, in quanto vec-chio luterano, che ha dedicato una lunga vita allaParola di Dio, è talmente legato al mito cristico, anzivi si è identificato, da ritenerlo semplicemente laRivelazione.

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