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GIOVANNI GOBBER APPUNTI DALLE LEZIONI DI LINGUISTICA GENERALE

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Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)

web: www.unicatt.it/librarioISBN: 978-88-8311-684-1

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GIOVANNI GOBBER

APPUNTI DALLE LEZIONI DI LINGUISTICA GENERALE

II semestre dell’anno accademico 2008-2009

Milano 2009

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© 2009 EDUCatt Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215 e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione) web: www.unicatt.it/librario ISBN: 978-88-8311-684-1

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Sommario

PARTE PRIMA

STRUTTURE E FUNZIONI Aggiunte al IX capitolo della Comunicazione verbale di E. Rigotti-S. Cigada

CAPITOLO PRIMO Una nota sulla sintassi............................................................................................. 7

CAPITOLO SECONDO Una nota di pragmatica linguistica Sulle funzioni pragmatiche (o illocuzioni) e sui ruoli argomentativi delle sequenze testuali.................................................................................................................. 25

PARTE SECONDA LA DIMENSIONE EMPIRICA

CAPITOLO TERZO Appunti di sociolinguistica ....................................................................................59

CAPITOLO QUARTO Geografia storico-comparativa delle lingue, con attenzione alle famiglia indo-europea.....................................................................................71

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PARTE PRIMA

STRUTTURE E FUNZIONI Aggiunte al IX capitolo della Comunicazione verbale

di

E. RIGOTTI-S. CIGADA

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CAPITOLO PRIMO

Una nota sulla sintassi

Queste pagine servono per chiarire alcuni aspetti del rapporto fra le relazioni grammaticali (p.es. soggetto, predicato verbale, oggetto…) e le unità linguistiche che svolgono le relazioni grammaticali (p.es. pronomi personali, forme verbali, forme nominali ecc.).

Premessa di metodo

Come in tutte le scienze, anche in linguistica si distingue tra il fenomeno studiato e il modello che rappresenta il fenomeno studiato (si rilegga il capitolo 3 del volume La comunicazione verbale). La realtà studiata è osservabile oppure è non osservabile (non si confonda “non osservabile” con “non reale”!). Einstein ha concepito la relatività – prima ristretta, poi generale – facendo complessi ragionamenti, formulando ipotesi, lavorando ogni volta con un “esperimento mentale”. Anche nella teoria linguistica vi è una fase di “lavoro” di questo tipo. Per esempio, il principio che presiede alla capacità dei foni di opporsi allo scopo di distinguere significati è una realtà non osservabile. Di osservabile, c’è la diversità fra suoni. La realtà non osservabile è descritta nella scienza attraverso un costrutto. Così, il “fonema” è un costrutto, cioè è un oggetto della teoria scientifica. Esso viene introdotto per spiegare una porzione di realtà non osservabile. Ancora: le concrete forme di una parola – osservabili nella parole – rinviano a una forma di parola nella langue (non osservabile). Il signifiant del segno di langue è il modello per la realizzazione – grafica o fonica – di un elemento nella parole. Un elemento delimitato in una sequenza di discorso (p.es. perchance in To sleep, to die, perchance to dream) è preso, per ipotesi, come la realizzazione di una unità del sistema linguistico. Limitiamo tale affermazione al signifiant: la portata semantica di quel perchance può variare a seconda dell’interpretazione data dall’attore che ricopre il ruolo di Hamlet, e/o

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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a seconda dell’interpretazione che a quel verso dà il lettore o il critico… Così è, a ben vedere, per tutte le unità di una lingua. La langue stabilisce le predisposizioni all’uso di un elemento; ma è nel discorso, nella parole, che si determina il contributo degli elementi al senso del testo. Osserva in proposito un linguista belga: “Pour ce qui est de la contribution des mots à la phrase, elle se limite à […] leur pouvoir signifiant. Ce n’est pas la ‘signification’ des mots qui contribue au sens ou à la signification de la phrase, puisqu’au contraire c’est la phrase et plus largement le discours qui leur assigne une signification. La signification du mot, c’est son emploi actuel dans le discours”1. Consideriamo un altro aspetto della teoria linguistica – quello del rapporto fra morfi e morfemi, entro la dinamica del sistema linguistico. Si può dire che anche l’idea di ricondurre una serie di morfi alla molteplice manifestazione di un medesimo “morfema” è un passo di una teoria linguistica che fornisce l’“analogo” di una porzione di realtà non osservabile. I morfi del sistema sono non osservabili; li si ipotizza per spiegare il fatto che i parlanti realizzano, nella realtà del discorso (dati osservabili), certe produzioni foniche alle quali concordemente attribuiscono una certa funzionalità. A ben vedere, questa prospettiva (teoria come “sostituto”, come “analogo funzionale” della realtà non osservabile) riguarda tutto l’edificio della langue. La langue è una teoria; la langue non è osservabile, ma se ne postula l’esistenza per spiegare la comunicazione. Dunque, la langue da una parte è postulata come esistente – ed è una. Dall’altra, essa è descritta da uno studioso, e la descrizione dipende dal punto di vista che egli sceglie; la langue postulata è una realtà indipendente dalla teoria; la langue descritta è un costrutto teorico – e vi possono essere diverse “presentazioni” della langue a seconda di chi ne fa la descrizione. È dunque chiaro che la realtà non osservabile viene postulata allo scopo di spiegare (di mostrare come si ottengano) i dati osservabili. Ma quando si tratta di parlare del non osservabile, occorre prendere posizione e formulare una ipotesi. Per descrivere la realtà non osservabile è necessaria una teoria. La teoria è un discorso rigoroso che si pone il compito di spiegare una porzione di realtà, di mostrare come una certa realtà funzioni.

1 Robert Franck, Langue, discours et significations, Louvain, p. 321.

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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Una teoria può essere configurata come un costrutto, cioè un oggetto ideale che “sta per” il non osservabile. Posso cioè costruire con un “esperimento mentale” un oggetto ideale come, per esempio, un meccanismo che dia luogo alle costruzioni delle frasi di una lingua. Distinguiamo dunque gli osservabili e i costrutti. 1. I costrutti non appartengono alla realtà studiata, ma alla teoria che

rappresenta la realtà studiata non osservabile. 2. Gli osservabili sono gli elementi del fenomeno dati all’osservazione. In questa prospettiva, i dati osservabili sono i prodotti di una realtà non osservabile. Il costrutto della scienza sta per la realtà non osservabile; esso ha il compito di funzionare come la realtà non osservabile; deve cioè essere un analogo funzionale della realtà non osservabile. In altre parole: un costrutto è un modello. Per modello si intende un analogo della realtà studiata. La verifica dell’adeguatezza del modello avviene mediante l’adozione di un metodo chiamato ipotetico-deduttivo. 1. Il punto di partenza è il riscontro dei dati empirici. 2. Segue la formulazione di un’ipotesi. 3. Si considerano poi i risultati prodotti dall’ipotesi. Tali risultati sono messi a

confronto con i dati, nella fase della verifica. Il termine sintassi può avere due significati: può indicare la realtà non osservabile che dà luogo alle costruzioni delle frasi di una lingua; oppure può indicare una teoria, un modello che serve per produrre come risultati degli elementi che funzionano come le costruzioni delle frasi di una lingua. In altre parole: in una frase come Dio invisibile ha creato il mondo visibile si pone l’esistenza di una costruzione. Ma tale costruzione non è osservabile. Di osservabile vi è la stringa (= “successione ordinata”) di elementi Dio + invisibile + ha + creato + il + mondo + visibile. Come spiegare il fatto che, per un parlante italiano, tale frase è correttamente costruita, ossia è ben formata? Anzitutto posso immaginare che vi sia uno “schema”, un pattern ricorrente nelle frasi dell’italiano. Lo schema potrebbe essere SOGGETTO + PREDICATO. E il PREDICATO si può immaginare come articolato in VERBO + OGGETTO. Il SOGGETTO concorda con il VERBO nella persona e nel numero. Proprio la

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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concordanza con il verbo è la caratteristica del SOGGETTO. L’OGGETTO, in italiano, di solito non concorda con il VERBO. La concordanza mette in rilievo un sintagma privilegiato rispetto agli altri: il soggetto si può considerare come il “primo argomento” del verbo predicato. Si ottiene così una dicotomia fondamentale “Soggetto – Predicato”, che è alla base di tanti modelli di descrizione della sintassi. Peraltro, la medesima frase Dio invisibile ha creato il mondo visibile si può descrivere in altro modo: ha creato è il verbo, che domina due gruppi di parole: il primo argomento è Dio invisibile e il secondo è il mondo visibile. Non vi è, qui, una dicotomia fondamentale fra soggetto e predicato, bensì una organizzazione fra un predicato – il verbo – e i suoi argomenti, che si integrano nella struttura aperta del verbo, secondo le restrizioni stabilite dal posto argomentale che essi occupano (ha creato presuppone come soggetto un agente: non potrei avere Il caso ha creato il mondo visibile; allo stesso modo, l’oggetto deve costituire qualcosa di nuovo, non pre-esistente all’atto di creazione: ha creato questo sasso è poco probabile, mentre è congruo con le attese ha creato quest’opera). Riprendiamo le due valenze di sintassi, che indichiamo come sintassi1 e sintassi2. a) Nel sistema della lingua, la sintassi1 riguarda un complesso di processi che

servono a costruire e a combinare sintagmi tra loro. Nel testo (= nell’uso) si ha la produzione di “stringhe” di elementi ben

formate. (Si ricorda che stringa significa una successione di elementi organizzata: p.es. Edoardo studia i libri antichi è una stringa, mentre*libri i studia antichi Edoardo è solo una successione, poiché non vi è organizzazione fra gli elementi).

b) In linguistica, sintassi2 è un modello. Tale modello si propone di spiegare come le parole si combinino per formare unità maggiori (sintagmi, frasi): fondamentale è qui l’ipotesi dell’esistenza di una struttura (di una costruzione). La struttura si colloca sull’asse sintagmatico (asse delle combinazioni fra elementi) e per questo è detta struttura sintagmatica. Compito della struttura è l’integrazione dei sintagmi nell’intero di cui fanno parte. L’intero maggiore è la frase: questa è dunque una gerarchia di

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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relazioni che costruiscono unità complesse e strutturalmente autonome sull’asse sintagmatico.

Nella più nota teoria sintattica del secondo Novecento – la Grammatica Universale di Noam Chomsky – la teoria linguistica studia la grammatica come competenza che il parlante ha della struttura. In tale teoria, la grammatica è un dispositivo della mente umana. Il parlante è capace di produrre frasi corrette perché dispone della competenza sulla struttura grammaticale; e tale competenza è nella mente. Chomsky dice che la struttura non si osserva nei dati, che si presentano come successioni di elementi. Poiché non è nei dati, deve essere da qualche parte, e questa parte non può essere che un modulo della mente umana. Si potrebbe osservare che, anche se non è osservabile nei dati, la struttura si può ipotizzare come esistente nei dati stessi. In altre parole: la sintassi è una proprietà delle espressioni di una lingua; è un dispositivo presente nei sistemi delle lingue, ed è un dispositivo che il parlante acquisisce nel tempo; così come egli apprende le “irregolarità” di un sistema, egli può acquisire la “competenza” sulla struttura della sintassi. Del resto, un bambino apprende rapidamente a fare le operazioni dell’aritmetica. P.es., una moltiplicazione è un’operazione che parte da alcuni elementi (come i numeri naturali) e dà come risultato altri elementi (altri numeri). L’operazione sottostà a determinate regole, e il tutto (elementi di partenza, operazione, regole) è un dispositivo di facile apprendimento. Non diversamente avviene per la sintassi. In linguistica vi sono due grandi tipi di modelli della sintassi: 1) le grammatiche “dependenziali” 2) le grammatiche a struttura sintagmatica.

1. La grammatica delle dipendenze

Nel primo caso, al vertice della struttura è il verbo. Esso è preso come un predicato a più valenze (in modo simile alla struttura di un elemento della tabella di Mendeleev). A saturare le valenze sono gli argomenti. Alcune valenze sono esigono di essere saturate affinché la struttura abbia autonomia. Intervengono in tal caso argomenti che sono detti attanti. Le valenze presenti,

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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ma non sempre, e che possono non essere saturate, hanno per argomenti dei circostanti. I primi tendono verso l’obbligatorietà, i secondi verso la facoltatività. Per esempio, se il verbo è dare, gli attanti sono tre: l’espressione dell’agente, del beneficiario, della cosa che viene data. Nella struttura della frase si avranno allora un soggetto (agente), un oggetto indiretto (beneficiario), un oggetto diretto (ciò che è dato). Se il verbo è mangiare, vi può essere un attante solo oppure due, a seconda della semantica del verbo. Se in una frase vi è un solo attante, quell’attante concorda con il verbo: per questo si parla di “primo attante”; nella grammatica tradizionale si parla di soggetto. Il “secondo attante” è l’oggetto diretto, il “terzo attante” è l’oggetto indiretto (o complemento di termine). Il verbo è il vertice sintattico: tutti gli altri elementi dipendono da esso e senza verbo non si ha la struttura di una frase. Inoltre, il verbo è vertice semantico: da solo, è capace di indicare la situazione espressa. La grammatica delle dipendenze è attenta alla gerarchia degli elementi: per esempio, un attante dipende dal verbo (in Trolls hate water, trolls e water dipendono da hate); entro un attante nominale, un aggettivo dipende da un nome (in hot water, hot dipende da water). La grammatica delle dipendenze distingue le informazioni sulla struttura – sui rapporti fra gli elementi della frase – dalle informazioni sull’ordine degli elementi nella catena: non fa parte della nozione di “primo attante” l’informazione sulla sua posizione rispetto al verbo. La nozione di primo attante è “non lineare”. Tutta la grammatica delle dipendenze è “non lineare”. Essa è infatti pluridimensionale: il modello della struttura da essa proposto è simile a una figura geometrica. Per una presentazione sintetica della sintassi dependenziale, riprendiamo ora alcuni aspetti del modello di Tesnière.

LUCIEN TESNIERE e la Syntaxe structurale

Alle origini della sintassi delle dipendenze si pone la Syntaxe structurale (1959), opera postuma di Lucien Tesnière (1893-1954), studioso di lingue classiche e moderne (fra queste in particolare delle lingue slave). Questa opera può a buon diritto essere considerata il source book dei modelli delle dipendenze sviluppati nella linguistica europea di questo secolo. Per lo studioso francese, la sintassi è lo studio dei processi di costituzione della frase

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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intesa come un insieme organizzato di elementi, le parole; queste sono indagate non tanto per la loro struttura interna, che riguarda piuttosto la morfologia, quanto per le funzioni che esse svolgono nella frase. Ma tali funzioni emergono solo considerando la frase come una unità complessa di cui le parole sono momenti; la struttura è una totalità e le parti prendono valore solo all’interno di essa. In questa prospettiva, la frase è l’intero; il o i sintagmi nominali, il sintagma verbale, i sintagmi preposizionali (cioè complementi con preposizioni, p.es. con il mitra in Luigi spaventa Maria con il mitra) ecc. sono quello che sono in quanto si caratterizzano nel rapporto con le altre parti e nel rapporto con l’intero di cui sono parte. Per Tesnière, infatti, la funzione sintattica di una parola si recupera solo entro l’intero di cui è un momento, ossia nella connessione con le altre parole. Lo scopo, la ragion d’essere della connessione è l’espressione del pensiero; la costruzione della frase è infatti un’attività dinamica, «c’est mettre la vie dans une masse amorphe de mots en établissant entre eux un ensemble de connexions»2. Ma la mise en ordre stabilita dalle connessioni non va confusa con l’ordine lineare proprio della manifestazione della frase. Tesnière distingue infatti un ordine strutturale – «celui selon lequel s’établissent les connexions» (“quello secondo il quale si stabiliscono le connessioni” Eléments, p. 16) e un ordine lineare – «celui d’après lequel les mots viennent se ranger sur la chaîne parlée» (“quello in base al quale le parole si dispongono sulla catena parlata” Eléments, p. 18). La frase si manifesta nell’ordine lineare, ma si costituisce nell’ordine strutturale, che Tesnière considera l’ambito «dinamico e vivente» (Eléments, p. 49) della lingua. Questo però non è semantico, anche se il senso è, «in ultima analisi, la ragion d’essere della struttura» (Eléments, p. 40): «La syntaxe est la forme de l’expression de la pensée, non la pensée qui en est le contenu» (“La sintassi è la forma dell’espressione del pensiero, non è il pensiero che di essa è il contenuto” Eléments, p. 42): secondo Tesnière l’autonomia nei confronti della semantica emergerebbe dalla possibilità di costruzioni sintattiche corrette con enunciati privi di senso (e porta l’esempio seguente: Le silence vertébral indispose la voile licite. Si tratta di una frase ben costruita secondo la sintassi, ma priva – a suo avviso – di un significato).

2 Lucien Tesnière, Eléments de syntaxe structurale, Klicksieck, Paris 1965 (deuxième édition

revue et corrigée), p. 12.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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Oltre che alla semantica, la sintassi si oppone alla morfologia intesa come insieme di marquants (“indicatori”, ingl. markers), ossia indicatori di funzione sintattica: l’autonomia nei confronti della morfologia è dimostrata dal fatto che spesso una connessione sintattica non è manifestata da alcun marcante morfologico: Tesnière porta come esempio vôtre jeune frère, dove egli rileva due connessioni: la prima, fra jeune e frère è espressa dalla contiguità nella sequenza, mentre quella fra vôtre e frère è priva di marcante, ossia ha marcante zero. Contrariamente a quanto Tesnière afferma, la correttezza sintattica dell’esempio da lui portato (Le silence vertébral indispose la voile licite) è fondata semanticamente: il livello di sensatezza presente nell’esempio risulta infatti dalla combinazione del significato generico di ciascuna delle parti del discorso rappresentate dalle parole che compaiono nella frase alle quali Tesnière attribuisce precise funzioni sintattiche (il significato generico di “nome”, di “aggettivo”, di “verbo” ecc.). La congruità dell’espressione è resa possibile dalla compatibilità dei significati generici delle parti del discorso che intervengono nella frase: il nome indica una sostanza, l’aggettivo una qualità, il verbo un evento (stato o processo) e la combinazione congrua di tali significati rende possibile la correttezza sintattica anche di frasi nei quali vi sia incompatibilità nel significato specifico dei morfemi lessicali (i significati generici – “nome”, “aggettivo”, “verbo” – sono compatibili, quelli specifici – silenzio, vertebrale ecc. – non è compatibili).

“Forma” dell’espressione del pensiero?

Tesnière non afferma che la sintassi sia la forma del pensiero: egli dice che la sintassi è la “forma” dell’espressione del pensiero. Ossia: senza connessioni tra parole non si può esprimere un significato complesso e unitario. Le parole, significati semplici, si combinano grazie ai nessi sintattici: è per questo che, secondo Tesnière, un legame sintattico è anche l’espressione di un legame semantico.

***

L’ordine strutturale della frase secondo Tesnière si costituisce come una gerarchia di connessioni, che lo studioso raffigura con un particolare grafo ad albero, chiamato stemma. La connessione può essere un rapporto di uno a

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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molti, come già abbiamo visto per vôtre jeune frère, dove frère domina allo stesso tempo vôtre e jeune. Vediamo un altro esempio: se in Luigi canta il verbo determina un solo sostantivo, in Luigi ama Maria il verbo domina due elementi contemporaneamente. La relazione di dipendenza ama (Luigi, Maria) procede lungo la dimensione verticale, mentre nella dimensione orizzontale si pongono gli elementi Luigi e Maria che compaiono con la medesima funzione sintattica:

Il verbo ama, in quanto è una parola dominante, costituisce un nodo, del quale fanno parte anche le parole dominate. Un nodo verbale come quello formato da ama domina direttamente, come nel precedente esempio, o indirettamente, come nello stemma che soggiace a Il famoso scrittore ama la ricca ereditiera, tutti gli elementi di una frase. Per questo esso è definito il nodo centrale: «Il est au centre de la phrase, dont il assure l’unité structurale en en nouant les divers éléments en un seul faisceau. Il s’identifie avec la phrase» (Eléments, p. 15). Oltre al nodo verbale, Tesnière considera altri tre nodi, che si distinguono per la parola dominante: il nodo nominale (casa nuova, con casa che domina), quello aggettivale (piuttosto freddo, dove freddo è dominante) e quello avverbiale (troppo tardi, con tardi dominante). Per Tesnière, le parole che dominano i quattro nodi accanto alla funzione sintattica hanno anche una funzione semantica, e sono per questo chiamate “parole piene”; per Tesnière invece parole come le congiunzioni e le preposizioni sono vuote, ossia svolgono solo funzione sintattica: più precisamente viene loro assegnato il compito di «modificare l’economia» della frase (Eléments, p. 80). La modificazione è quantitativa, se intervengono procedimenti di giunzione, che incrementano la frase senza modificarne la struttura sintattica; pensiamo all’uso della congiunzione e. La modificazione è poi qualitativa, se intervengono procedimenti di TRASLAZIONE, nei quali un TRASLATIVO (una parola vuota) agisce su un TRASFERENDO (l’entità linguistica

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prima del procedimento) modificandone la funzione sintattica. Ad esempio, la preposizione di può agire su un nome come Luigi trasferendolo nella funzione sintattica propria dell’aggettivo; questo procedimento è costitutivo del nodo nominale che, linearizzato, è espresso in La casa di Luigi. Altri traslativi sono le congiunzioni subordinanti come che: la frase Il vicino di casa dice che i trolls detestano l’acqua calda (oltre a essere piuttosto improbabile) contiene come attante di dice il risultato di una traslazione (che i trolls detestano l’acqua calda): il traslativo è che, il trasferendo è la frase I trolls detestano l’acqua calda. La frase è stata trasferita nella funzione sintattica di attante. Anche i pronomi relativi sono un tipo di traslativo: nella frase Gli hobbit che hanno salutato Luigi parlavano bretone c’è una subordinata relativa che hanno salutato Luigi. Questa è il risultato di una traslazione, e che è il traslativo, mentre una frase come (Quegli) hobbit hanno salutato Luigi è il trasferendo. Il relativo si riferisce a un attante – gli hobbit – presente nella frase dominante. Così, una frase (Quegli hobbit hanno salutato Luigi) è trasferita nella funzione sintattica di modificatore dell’attante: è la funzione sintattica dell’aggettivo in I piccoli hobbit. Ma torniamo al verbo, la cui importanza è decisiva per la costituzione della frase. Tesnière descrive il funzionamento del nodo verbale come l’espressione di un petit drame, cui di solito partecipano degli attori in certe circostanze (come il luogo, il tempo, il modo): il verbo esprime il dramma e agli attori corrispondono gli attanti; a seconda delle caratteristiche semantiche del verbo si possono avere fino a tre attanti, che sono espressi da sostantivi dominati direttamente dal verbo. Tesnière stabilisce una gerarchia degli attanti («un numéro d’ordre») (Eléments, p. 108), basata su un principio implicativo, per il quale una data costruzione sintattica comporta la presenza di un dato attante: così, il terzo attante compare solo negli enunciati con tre attanti; il secondo è presente negli enunciati con tre e con due attanti, mentre il primo attante compare in tutti gli enunciati con almeno un attante. Per Tesnière, gli attanti «fanno corpo con il verbo» (Eléments, p. 128) perché spesso il loro senso è indispensabile per completare il senso della parola che domina la struttura della frase; ad esempio, colpire richiede generalmente due attanti. Invece, i circostanti, a differenza degli attanti, non «fanno corpo col verbo» perché sono «essenzialmente facoltativi»; per questo, a seconda

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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del verbo dominante, si possono avvicinare ai circostanti anche gli attanti dotati di un indice più elevato del primo: ad esempio, la frase Alfredo cammina può sussistere anche se non si indica con chi egli cammina, come in Luigi cammina con Pietro, o di che cosa ha bisogno per camminare, come in Luigi cammina con il bastone. Come si vede, Tesnière riconosce che per distinguere fra attanti e circostanti bisogna ricorrere al senso del verbo: la sintassi del nodo verbale, dunque della struttura fondamentale della frase, presenta una forte componente semantica. La stessa centralità del verbo nella sintassi è, a ben vedere, motivata semanticamente: il verbo è l’elemento che rappresenta la situazione (il «petit drame»). Semantico è anche il concetto di attante: è l’elemento che esprime un partecipante della situazione. In altre parole: gli elementi fondamentali della sintassi della frase sono definiti dalla loro funzione semantica. Dunque la sintassi di Tesnière è in realtà un livello formale del piano semantico. E l’esigenza di integrazione semantica del verbo, soddisfatta dagli attanti, ribadisce la semanticità della correttezza sintattica. Un passaggio cruciale della riflessione di Tesnière riguarda la riflessione sulla valenza semantica della connessione (Eléments, pp. 42-43): egli osserva infatti che nella sintassi l’elemento dominato in realtà svolge una funzione semantica più importante del nodo che lo domina. La connessione è dunque l’aspetto sintattico di una determinazione semantica.

2. Le grammatiche a struttura sintagmatica

Nei modelli tipici della tradizione grammaticale, la struttura fondamentale è binaria. Essa ha diverse varianti: – il modello “soggetto e predicato”; esso comprende nozioni ben note, come

“predicato verbale”, “complemento oggetto”, “complemento di termine” e così via;

– il modello basato sull’analisi per costituenti immediati, sul quale ci soffermiamo brevemente.

L’analisi per costituenti immediati (in seguito: CI) viene applicata a un utterance (“enunciato”: corrisponde all’incirca a “frase”) con procedimenti di segmentazione e di classificazione (Leonard Bloomfield, Language, pp. 158-159), nei quali l’operazione di sostituzione svolge un ruolo assai importante. Il

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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significato intuitivo di tale operazione è il seguente: uomo può sostituire bambino in Un bambino dorme. In questo modo, i morfemi che possono sostituire bambino nel contesto (environment) Un --------------- dorme formano una (e una sola) “classe di morfemi” (morpheme-class). La sostituzione può essere effettuata, oltre che con singoli morfemi, utilizzando successioni di morfemi: ad esempio, sequenze come operaio specializzato, operaio specializzato nella lavorazione di acciai speciali possono sostituire tecnico in Il tecnico lavora. Le sequenze di morfemi possono così venir ridotte allo stato di singoli morfemi, ovvero di classi contestuali (environmental) di singoli morfemi (si veda R. S. Wells, Immediate Costituents, “Language”, XXIII, 1947, p. 82). Un singolo morfema è qui considerato come una sequenza di un solo membro. In generale, due sequenze A e B con uguale numero di morfemi costituiscono una e una sola classe di sequenze morfematiche se il primo membro di A e il primo membro di B appartengono alla stessa classe morfematica, e vale questa stessa relazione tra il secondo elemento di A e il secondo di B, […], tra l’n-esimo elemento di A e l’n-esimo elemento di B. Con il procedimento inverso, è possibile sostituire una sequenza di morfemi con un singolo morfema: ad esempio, consideriamo l’enunciato Il Presidente della Repubblica trasmette il messaggio di fine d’anno. Possiamo sostituire trasmette il messaggio di fine d’anno con legge (Il Presidente della Repubblica legge); Il Presidente della Repubblica può a sua volta venir sostituito da Francesco; otteniamo Francesco legge. Gli esempi ci permettono di ricondurre l’operazione di sostituzione ai concetti di espansione e di modello, che Rulon Wells (Immediate Constituents, “Language”, 1947) definisce nel seguente modo: una sequenza A è detta espansione di B se A contiene almeno tanti morfemi quanti ne contiene B e se A è diversa strutturalmente da B (vale a dire, se A non appartiene alle stesse classi di sequenze alle quali appartiene B). Così, ad esempio, Il Presidente della Repubblica trasmette il messaggio di fine d’anno è un’espansione di Francesco legge: in effetti Il Presidente della Repubblica è un’espansione di Francesco e trasmette il messaggio di fine d’anno è un’espansione di legge. L’enunciato Francesco legge può così venir definito il modello di IlPresidente della Repubblica trasmette il messaggio di fine d’anno. In generale, vale che “se A è un’espansione di B, B è un modello di A” (Immediate Constituents, cit., p. 84). Quest’enunciato può venire segmentato nei

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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costituenti immediati Francesco e legge. Il verbo può subire un’ulteriore segmentazione, dando due costituenti immediati legg-, -e. Francesco, legge, legg-, -e sono i costituenti dell’enunciato preso in esame: il costituente legge è detto anche costituito perché un ulteriore stadio dell’analisi mostra che esso consta a sua volta di due costituenti immediati. Anche l’intero enunciato è un costituente immediato: si tratta di un costituente nel contesto zero; esso è pure un costituito, poiché annovera più costituenti, come l’analisi mette in luce. Ora, Francesco e legge possono venire sostituiti, rispettivamente, da Il Presidente della Repubblica e da trasmette il messaggio di fine d’anno: l’applicazione del principio espansione – modello ci permette così di stabilire l’attore e l’azione, ossia i costituenti immediati, dell’enunciato Il Presidente della Repubblica trasmette il messaggio di fine d’anno. L’analisi procederà ai livelli successivi, fino all’individuazione di tutti i costituenti dell’enunciato. Ad ogni stadio dell’analisi per CI entro una sequenza A data si devono distinguere un fuoco (focus) e un intorno o contesto (environment). Il fuoco è una sequenza B, contenuta in A, che si intende sostituire con altre sequenze; il resto della sequenza A è il contesto della sequenza B. Ad esempio, consideriamo la sequenza Il re di Spagna come il fuoco dell’enunciato Il re di Spagna è amato dai suoi sudditi, allorché sostituiamo questa sequenza con sequenze come L’imperatore del Giappone, Il granduca del Lussemburgo ecc. Viene in tal modo determinata una classe di sequenze-fuoco. La classe delle sequenze che possono sostituire un dato fuoco è detta classe dei fuochi relativa al contesto dato. Per la nozione di espansione è importante distinguere tra grammatica interna e grammatica esterna di una sequenza; ad esempio, le due sequenze dell’inglese little young man e poor old woman hanno la stessa grammatica interna perché sono strutturalmente identiche, poiché i loro costituenti appartengono alle stesse classi di sequenze. Avendo la stessa grammatica interna esse devono avere anche la medesima grammatica esterna, vale a dire, devono appartenere alla stessa classe di fuochi, così che le due sequenze possono occupare la stessa posizione all’interno di uno stesso environment: ad es.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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Ma la relazione inversa non vale sempre: due sequenze con la stessa grammatica esterna non hanno necessariamente la stessa grammatica interna. Ad esempio, man e little young man appartengono alla stessa classe di fuochi, ma non alla stessa classe di sequenze, in quanto tutti i membri di una data classe di sequenze contengono lo stesso numero di morfemi. Date due sequenze di questo tipo (ossia, con diversa grammatica interna, ma identica grammatica esterna) per definizione vale che l’una è espansione dell’altra; in effetti, man sostituisce il fuoco little young man nel contesto This -------------- is sad:

Il metodo dell’espansione risulta possibile perché c’è differenza tra una classe di fuochi e una classe di sequenze: la sostituzione dovrà tener presenti non le classi di sequenze, ma le classi di fuochi. E poiché la sostituzione ha come compito l’individuazione dei costituenti, segue che questi ultimi sono fuochi e non semplici sequenze. Per l’analisi della distinzione tra fuoco e sequenza, e per le nozioni di grammatica esterna e grammatica interna di una sequenza ho seguito l’esposizione presentata da Wells (pp. 83-99, dove il termine sequenza significa semplicemente una “successione” di elementi. La nozione di classe di fuochi è alla base della nozione di sintagma: questo termine indica le classe delle espressioni – semplici o complesse – che possono svolgere una data funzione sintattica. Tale nozione è importante anche nei modelli che – anziché descrivere la costruzione così come si riscontra nei dati – hanno lo scopo di rappresentare l’attività dinamica di costituzione della struttura sintattica. Che cosa significa qui “funzione sintattica”? Nei modelli basati sull’analisi per costituenti immediati si associa la funzione sintattica alla posizione, al posto occupato nella catena. Per esempio, in John hit Bill, John è soggetto

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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perché precede il verbo, non per via del rapporto sintattico che esso – in quanto “primo argomento” – ha con il verbo. La sintassi delle dipendenze di Tesnière (un modello “dinamico”) distingue accuratamente ordine strutturale e ordine lineare: il soggetto è una categoria dell’ordine strutturale e si manifesta in un certo modo nell’ordine lineare. Vi sono due tipi di informazione: strutturale e lineare. Non tutti i modelli delle grammatiche li tengono distinti. Un altro modello “dinamico”, la “grammatica universale” di Noam Chomsky così come era delineata negli anni Ottanta3, è attenta a descrivere le categorie sintattiche in base alle relazioni che esse hanno con le altre categorie entro la totalità della struttura della frase. In tale modello, un sintagma ha una struttura articolata in tre livelli, o barre: X – il livello più alto nella struttura, che dà la categoria sintattica; è il livello

dove si “gestiscono” le concordanze con gli altri sintagmi (p.es. fra sintagma nominale soggetto da una parte e sintagma verbale dall’altra; oppure, all’interno del sintagma nominale, fra articolo e nome);

X – un livello intermedio, nel quale il nucleo – l’elemento indispensabile – di un dato sintagma può essere sviluppato da altri elementi, che ne sono il complemento; per il sintagma nominale, il nome o il pronome è l’elemento indispensabile; a questo livello si ha la concordanza fra nome e aggettivo entro un sintagma nominale;

X (che corrisponde all’inserzione lessicale concreta). Se X è N, allora si ha un sintagma nominale. Il livello N è dato dall’inserzione lessicale, che è il punto di partenza nella generazione della struttura: p.es. casa. Questo è il nucleo del sintagma nominale. Il livello N è dato dall’espansione del nucleo per mezzo di un complemento, che può essere un aggettivo (paterna) oppure un sintagma preposizionale (del padre). Il livello N è dato dalla presenza di una categoria chiamata spec o “specificatore”: si tratta di tutti gli elementi che possono essere articolo o avere una funzione sintattica equivalente ad esso (questo, tutti, alcuni ecc.). Abbiamo così una

3 Per una introduzione, si veda V. Cook – M. Newson, La grammatica universale, Il

Mulino, Bologna 1995.

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struttura che possiamo rappresentare usando una coppia di parentesi quadre per ciascun livello della costruzione: [N [la N [la [N Agg [casa Agg [casa Agg [casa nuova]]]]]]] Oppure:

Così, per esempio, quello che tradizionalmente si chiama “soggetto” è descritto come il sintagma nominale dominato direttamente dalla categoria “frase” (F), mentre il “complemento oggetto” è descritto come il sintagma nominale dominato direttamente dalla categoria V (è il N di V , mentre il soggetto è il N di F):

Per Chomsky, tutti i sintagmi nominali hanno la stessa struttura a due livelli di barre, anche se gli specificatori e i complementi non sono realizzati. (Analoghe considerazioni vanno svolte per gli altri sintagmi: verbale, aggettivale, ma su questi sviluppi non ci soffermiamo, poiché la trattazione richiederebbe molto spazio).

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Capitolo primo – Una nota sulla sintassi

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Come si vede, in Chomsky un sintagma: – è un concetto relazionale; p.es. N (“N con due barre”) di F (sintagma

nominale della frase) è il “soggetto”; N di V (“V con due barre”) è l’oggetto;

– si basa inoltre sulle proprietà lessicali del nucleo, dato che la classe lessicale (la parte del discorso) determina il tipo di sintagma (se il nucleo è verbo, il sintagma è verbale; se è nome, è nominale e così via);

– inoltre, le informazioni sulla struttura sono gestite dalla sintassi insieme al lessico. Fondamentale è il principio di proiezione lessicale: a dare la struttura sintagmatica sono le inserzioni lessicali. In altre parole: la concreta “entrata” lessicale (casa, oppure legge, o altro ancora) si incorpora in un sintagma e incorporandosi in un sintagma “proietta” la struttura: non si dà “prima la sintassi e poi il lessico”; le due parti si danno contemporaneamente, e la struttura sintagmatica consiste in disposizioni di categorie lessicali a differenti livelli di astrazione (rappresentati dalle barre).

Sulla posizione dell’aggettivo rispetto al nome entro il sintagma nominale, l’italiano si comporta in modo diverso dall’inglese o dal tedesco. Qui vige un parametro, chiamato parametro del nucleo (head): il parametro prende il valore “nucleo a destra del complemento” in inglese e in tedesco, mentre in italiano il valore, secondo Chomsky, è “nucleo a sinistra del complemento”. Il parametro prende valori a seconda della lingua concreta. Il dispositivo generale della grammatica non fissa una posizione prima che sia stabilita la lingua per la quale la grammatica – come congegno che fornisce l’analogo della mente umana – sia chiamata a funzionare. Si potrebbe osservare che per l’italiano non è così semplice stabilire se vi sia un parametro di questo genere per la posizione dell’aggettivo: come spiegare il diverso significato di posizioni diverse per aggettivi come diverso o come vecchio? (ho bevuto diversi “numerosi” vini – Abbiamo bevuto vini diversi, “differenti”; Ho incontrato un vecchio amico, ma non è un amico vecchio). Avviene così che la grammatica di Chomsky, attenta a descrivere i sintagmi per le relazioni che hanno fra loro, attribuisce grande importanza, per la costituzione della struttura sintattica, anche alla posizione degli elementi: dato il parametro del nucleo, la struttura del sintagma nominale si costituisce dopo che il parametro abbia ricevuto il valore appropriato – nucleo a destra o a

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sinistra rispetto al complemento. In questo modo, i due livelli di informazione – strutturale e lineare – non sono tenuti distinti.

Una concezione “minima” della sintassi

Fra le numerose concezioni della sintassi, non va trascurata quella abbozzata da Vittore Pisani. Egli osservava che le parole non esistono per se stesse, ma “ricevono vita dalla frase in cui appaiono”, e “che è una unità espressiva corrispondente a una unità d’intuizione” (Pisani, Glottologia indeuropea, Rosenberg & Sellier, Torino 1974). “Fuori della frase” le parole non sono che “segni fonici o grafici capaci di delimitare una certa zona concettuale, nell’interno della quale vengono impiegati, fissandosene volta per volta un preciso valore da chi le adopera nel parlare” (p. 105). Pisani non condivide l’idea saussuriana di sistema. Le frasi sono per lui atti di parola. Le parole sono per lui singolarmente percepite nell’interno della frase, “da chi parla e da chi ascolta”. Tuttavia, egli mostra di condividere un aspetto cruciale della nozione di struttura: le parole per lui sono come pezzi di macchine, distinti fra loro e con funzioni specifiche. Però funzionano solo quando sono riuniti “in un tutto organico”. Vale a dire: gli elementi sono predisposti a funzionare in un certo modo, ma tale funzionamento si riscontra quando sono combinati fra loro secondo congruità (secondo corretta combinazione). A tale punto di vista ci richiamiamo qui, senza impegnarci in ulteriori considerazioni di teoria sintattica. In effetti, la sintassi è uno degli aspetti della langue. Ma non è ancora parole, non è ancora comunicazione verbale.

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CAPITOLO SECONDO

Una nota di pragmatica linguistica Sulle funzioni pragmatiche (o illocuzioni) e sui ruoli argomentativi delle sequenze testuali

In queste pagine vediamo come le frasi, strutture organizzate della langue, sono predisposte a funzionare come enunciati, ossia come sequenze testuali, come unità del testo. Vedremo come nella sequenza testuale vi siano almeno tre livelli di funzionamento: il contenuto proposizionale, l’illocuzione o funzione pragmatica, il ruolo argomentativo1. Anzitutto, distinguiamo le frasi dalle sequenze testuali (o enunciati). La frase è una unità del sistema linguistico. La sequenza è una parte di un messaggio, cioè di un discorso, di un testo concreto, dove testo significa “atto comunicativo”. La frase sta alla langue come la sequenza sta alla parole. Per avere una sequenza sono necessari i fattori fondamentali dell’atto comunicativo: mittente, destinatario, sistema linguistico, canale, contesto2. Inoltre, una sequenza si colloca entro un testo, in collegamento con altre sequenze. Queste ultime sono il co-testo della sequenza presa in considerazione. La frase è una struttura grammaticale, una costruzione, una organizzazione delle unità linguistiche minori in una unità maggiore strutturalmente autonoma (si veda il capitolo nono). Le descrizioni della frase sono diverse da lingua a lingua – e le definizioni variano ovviamente da teoria a teoria. Ma alle diverse definizioni è comune l’idea della “totalità” ora in prospettiva formale ora anche in prospettiva semantica. Una serie di ipotesi considera la frase la

1 Questa distribuzione in tre livelli è stata teorizzata da Sorin Stati, Le transphrastique, PUF, Paris 1990. I termini illocuzione e funzione pragmatica sono da considerare equivalenti, pur appartenendo a teorie diverse. Equivalenti sono anche enunciato e sequenza testuale, i quali pure si riferiscono a teorie diverse (su sequenza si veda Eddo Rigotti, La sequenza testuale, “L’analisi linguistica e letteraria”, I, 1993.

2 Si veda p.es. il noto modello della comunicazione verbale di Roman Jakobson (esposto in R. Jabobson, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966).

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proiezione massima entro la quale hanno luogo relazioni di costruzione; come a dire: è il livello massimo di organizzazione sintattica3. Possiamo aggiungere: una frase è la struttura predisposta a funzionare come sequenza testuale semplice.

Valenze preferenziali delle frasi

Le frasi sono dunque costruzioni sintatticamente autonome le quali sono dotate di un uso tipico, di una valenza preferenziale, che nell’atto comunicativo si manifesta come funzione pragmatica di una sequenza testuale. Nella langue, nel sistema, la frase ha uno o più “usi tipici”, cioè una o più valenze preferenziali. Nella parole, una frase può essere impiegata per manifestare una sequenza che ha funzione pragmatica.

Langue Parole

Frase (costruzione) Enunciato (unità del discorso)

Predisposizione a funzionare Funzione pragmatica Di solito, un appello a rispondere è compiuto tipicamente con una frase interrogativa (p.es. la domanda di Gesù: E voi, chi dite che io sia? cui Pietro dà la seguente risposta: Tu sei Cristo, il figlio del Dio vivente). Una asserzione (“statement”, messaggio con funzione referenziale dominante4) è compiuta tipicamente con una frase dichiarativa5 (We are the campions, my friend).

3 Si veda Giampaolo Salvi, Sintassi, in Lexikon der romanistischen Linguistik, IV, Italienisch,

Niemeyer, Tübingen 1988. 4 Si tenga presente che “funzione” nel senso di Jakobson indica l’orientamento del

messaggio verso un fattore dell’atto comunicativo (e siccome i fattori sono sei, le funzioni del messaggio sono sei, e sono gerarchicamente ordinate). Qui, invece, per funzione pragmatica si intende il “compito” svolto dalla sequenza, la ragione per cui una sequenza compare nel testo, il fine della “action langagière”.

5 Stati (Le transphrastique) distingue le funzioni di asserzione (“informazione nuova per il destinatario”), di rappel o richiamo (“informazione che il destinatario già sa o è tenuto a sapere) e funzione epistemica (nella quale il mittente constata, riconosce un contenuto già noto). Qui possiamo annoverare le tre funzioni nell’unica funzione generica di asserzione.

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Una direttiva è compiuta tipicamente con una frase iussiva (Go and catch a falling star); un auspicio, un desiderio si possono manifestare con una frase ottativa (May their blood turn to water and drown them!). Appelli a rispondere, asserzioni, direttive, auspici, esclamazioni sono illocuzioni, o funzioni pragmatiche e sono associate tipicamente alle frasi sopra indicate. Peraltro, la frase dichiarativa può servire per diverse altre funzioni pragmatiche: Ci rivedremo può non essere una semplice asserzione, bensì una promessa, o una minaccia. Si parla in tali casi di funzione commissiva (da commitment, assunzione di un obbligo). Ma la dichiarativa serve anche in funzione performativa: Lei è licenziato non è un’asserzione, perché non riferisce una situazione, bensì compie, pone in essere una situazione (invece Sono stati licenziati non è performativo, bensì “descrittivo”, è un’asserzione – ma su questo, si veda la nota seguente). Va inoltre osservato che i nessi sopra indicati tra frasi e usi tipici (possibili funzioni pragmatiche) tendono a mantenersi nel passaggio da una lingua all’altra. Si usano frasi interrogative per fare appello a risposte, si usano frasi iussive per impartire direttive, si impiegano frasi dichiarative per funzioni assertive, commissive, performative, e così via. Vi è poi una funzione, chiamata fàtica, che è tipica delle espressioni – frasi di vario tipo – impiegate per stabilire, mantenere, chiudere il canale di comunicazione (Bene, ah eccoci qua, già già; è fatica anche la funzione di Sai che ti dico? (p.es. seguito da: Che chiudo il libro e vado a fare un giro) – il Sai che…? è un introduttore della sequenza vera e propria, come anche in: Sai che cosa è successo a Luigi? Gli hanno rubato l’auto). Una funzione che si coglie solo nel “transfrastico”, cioè tenendo conto del legame con la sequenza di discorso precedente, è la funzione eco: A – Sono stanchissimo. B – Sono stanchissimo! Ma se non hai fatto niente tutto il giorno! La ripetizione di Sono stanchissimo è un “reagire citando”: lo si coglie solo osservando la sequenza precedente. La funzione eco è un fattore di coesione del testo, rende più saldo il collegamento fra sequenze6.

6 Tipicamente, la funzione eco si ha con frasi interrogative, la cui struttura può essere

modificata in alcuni tratti (Se sono arrivati? è un’interrogativa eco, ed è diversa da Sono arrivati? per l’intonazione e per la struttura sintattica, poiché si tratti di una frase strutturalmente dipendente usata autonomamente, cioè senza frase sovraordinata; cfr. francese

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Occorre precisare che le funzioni pragmatiche considerate sono generiche: una “direttiva” può compiersi, specificamente, come un ordine – più o meno perentorio – oppure come un invito, un’esortazione, un suggerimento, anche una proposta (Andiamo! può svolgere tutte queste funzioni; occorre vedere come è il testo concreto). Dunque, più che di funzioni pragmatiche, dovremmo parlare di “classi” di funzioni pragmatiche (il generico circoscrive una classe di elementi specifici). A un tipo di sequenza testuale – la domanda – e alle principali funzioni pragmatiche delle frasi interrogative sono dedicati i capitoli decimo e undicesimo7. Per descrivere la relazione tra una frase e una funzione pragmatica si è più volte usato il termine “tipicamente”. “Tipicamente” significa che, di per sé, qualsiasi frase può servire per qualsiasi funzione; anzi, una funzione pragmatica, per compiersi, non ha bisogno di un’espressione che abbia la struttura della frase: Fuoco! è una direttiva che viene ben recepita, dato il contesto appropriato (il condannato a morte può testimoniare che le cose stanno proprio così). Anche un gesto può bastare per compiere una direttiva o una minaccia, o altro ancora (la mimica ha precise valenze, a seconda della comunità in cui si compie la comunicazione: in molti casi, un cenno del capo “fa” un’asserzione, allo stesso modo di un sì). Un’ultima nota: non si confonda la frase dichiarativa con l’asserzione, o sequenza assertiva, o enunciato assertivo. È una convenzione terminologica, ma nella grammatica italiana si parla ora di frasi dichiarative8. Invece di sequenza, si usa per lo più enunciato, che preferiamo evitare, poiché un “enunciato” è in realtà sempre – o quasi – un momento di un intero maggiore, il testo (o discorso, o atto comunicativo), il quale si articola in più sequenze, fra loro collegate. Il termine “enunciato” risente di una concezione “atomistica”; “isolazionista”, dove non si tiene conto del “transfrastico”.

S’ils sont arrivés?, ted. Ob sie gekommen sind?, mentre l’inglese non ha una struttura equivalente: Has he come? può essere anche una frase interrogativa eco).

7 Cfr. inoltre Gobber, Pragmatica delle frasi interrogative, ISU, Milano 1999. 8 Cfr. Renzi, Salvi, Cardinaletti, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III, Il

Mulino, Bologna 1995, cap. I, redatto da Elisabetta Fava. (Curiosamente, in più punti del capitolo, dopo aver introdotto la distinzione sopra citata, si parla disinvoltamente di frasi assertive…).

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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La coppia frase-enunciato è un calco della coppia francese phrase-énoncé. L’inglese ha sentence e utterance, il tedesco Satz e Äußerung. Si noti che l’inglese phrase non significa “frase”, bensì sintagma (noun phrase è il sintagma nominale, verb phrase è quello verbale, e così per gli altri sintagmi). Anche in tedesco si usa Phrase (Verbalphrase ecc.). Il termine proposizione, invece, ha un impiego vario: nella grammatica tradizionale, è l’equivalente dell’inglese clause (relative clauses, proposizioni relative). L’uso italiano è ovviamente la ripresa dell’uso francese (proposition finale, proposizione finale). Ma l’inglese ha anche il termine proposition, che viene impiegato per indicare il contenuto proposizionale di una sequenza (su questo concetto, si veda anche in seguito). Per esempio, L’Italia è una repubblica è una sequenza con funzione pragmatica di asserzione e con un contenuto proposizionale, che descrive una situazione (la situazione in cui l’entità chiamata Italia è inclusa nell’insieme caratterizzato dal predicato “essere una repubblica”). La proposizione è dunque la descrizione di una situazione, la quale può corrispondere a un fatto oppure no (La Germania è una monarchia è una sequenza, la cui proposizione descrive una situazione, che tuttavia non corrisponde a un fatto). Anche l’italiano tende a usare proposizione con la valenza dell’inglese proposition. Così, proposizione in italiano è parola ambigua. Per evitare tale ambiguità, si tende a estendere il termine frase anche alle clauses, cioè alle costruzioni frastiche subordinate e coordinate ad altre. Si parla così di frasi relative, temporali, causali. Così, la distinzione tra sentence (frase sintatticamente autonoma) e clause (frase sintatticamente subordinata o coordinata ad altra frase). Nella tradizione grammaticale inglese, clause è una struttura “frasale” – un sentence-like component – che interviene come costituente entro una frase complessa: in He would if he could, il costituente if he could è una clause ipotetica; in He told her he would come he would come è una clause. Anche in She’s reading the newspaper and he’s doing the dishes vi sono due clauses che sono unite da un nesso coordinativo entro una sentence.

Nota – L’illocuzione e gli speech acts

Per meglio comprendere il significato della “funzione pragmatica” di una sequenza testuale, consideriamo brevemente la nozione di speech acts

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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sviluppata nella linguistica anglo-sassone negli anni cinquanta e sessanta da John Austin. Partiamo da un semplice “enunciato”:

Lei mi sta pestando un piede,

dice la signora in piedi in metropolitana al suo vicino, nella ressa della folla che sta per scendere alla fermata successiva. Se guardiamo alla sintassi, la signora ha proferito una frase dichiarativa (il tipo sintattico «non marcato», mentre altri tipi sintattici, come le frasi interrogative e le imperative, sono «marcati»). Siccome è educata, dà del lei al vicino. Ma che cosa ha voluto dire? Se si fosse limitata a descrivere una situazione, dovremmo pensare che alla signora non interessasse comunicare il fastidio per la tortura che il vicino infliggeva ai suoi calli. Che sia una masochista? È una possibile soluzione, però riguarderebbe una minoranza delle persone che in metropolitana sperimentano gli svantaggi dei mezzi pubblici. È chiaro che la signora in questione si è servita di una frase dichiarativa per esprimere una richiesta, cortese ma non per forza amichevole, affinché il suo piede sia liberato dalla pressione fastidiosa esercitata dall’estremità dell’arto del vicino. Tuttavia, non si è servita di una frase imperativa (Per favore, tolga il suo piede dal mio!), che serve tipicamente a manifestare una richiesta (o un comando, o un ordine). Ha usato invece una dichiarativa, e ha posto all’interlocutore il compito di elaborare l’interpretazione corretta. La sintassi tuttavia non aiuta il destinatario di quel messaggio, e neppure il lessico gli dà soccorso. Tuttavia, è probabile che, nel nostro caso, il «colpevole» intuisca il significato («tolga il piede dal mio») e, con mille scuse, verbali e non verbali, soddisfi la richiesta della povera locutrice. Vediamo un altro esempio. Se l’insegnante, che ha il raffreddore, entra nell’aula scolastica e vede che una finestra è aperta, dirà:

La finestra è aperta.

Può darsi che gli studenti l’abbiano fatto apposta (sapevano che lei era raffreddata, e le volevano fare un dispetto). Ma essi comprendono che lei non ha descritto una situazione. Vuole piuttosto che qualcuno la chiuda. Di solito c’è sempre uno studente bravo (o servile), che soddisfa il comando. Ed è una fortuna per lei, che ha presupposto la disponibilità di qualcuno a esaudire la sua richiesta. Ma se tutti fossero compatti contro l’insegnante (che magari è

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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antipatica, spiega male, è noiosa)? Lei avrebbe sbagliato l’atto comunicativo. Ha infatti presupposto che il suo comando sarebbe stato eseguito. Di solito, però, situazioni simili sono rare. L’autorevolezza dell’insegnante, anche solo come figura, comporta la disponibilità degli studenti a ubbidire. Ma non è detto che valga sempre: se la classe è fatta di ragazzi/e «birichini» (e se l’insegnante non gode di particolare prestigio), la tendenza generale non trova conferma perché la realtà particolare funziona diversamente. Ammettiamo comunque che gli studenti siano birichini. Per esserlo, devono tuttavia aver compreso il senso della comunicazione: «voglio che la finestra sia chiusa!». Se non l’avessero compreso, non sarebbero birichini, ma idioti. Tuttavia, per comprendere il senso della frase, non si sono basati sulla semplice struttura sintattica e sul lessico. Hanno fatto appello a qualcos’altro, che è legato alla concreta situazione e alle loro esperienze precedenti che riguardano la loro insegnante. Poniamo, infatti, che l’insegnante non sia raffreddata, ma sia sanissima e inoltre, da atleta allenata, ami il freddo dell’inverno mitteleuropeo. Dicendo

La finestra è aperta

potrebbe esprimere la sua soddisfazione: la temperatura dell’aula è fredda, come piace a lei. Inoltre, le fa piacere constatare che anche ai suoi valorosi studenti piace il rigore invernale. Per lei, vuol dire che si tratta di ragazze e ragazzi temprati nel fisico e nello spirito: veri atleti, pronti a sfidare le avversità (nel frattempo qualche fanciulla è svenuta per il freddo). Di solito, il significato autentico di una frase dipende strettamente dall’uso che di essa viene fatto in un contesto concreto: per comunicare non basta conoscere morfologia, lessico, sintassi, prosodia di una lingua. Occorre sapere usare tutto questo. La linguistica contemporanea ha sviluppato alcune interpretazioni di fenomeni simili a quelli che abbiamo considerato. Ha osservato che la comunicazione funziona perché gli interlocutori sono attenti sia alla lingua (morfologia, lessico, sintassi) sia alle circostanze concrete della conversazione e alla compatibilità fra le scelte linguistiche (sintattiche, lessicali, prosodiche ecc.) e il contesto comunicativo. La grammatica è inscindibile dalla pragmatica. Nella comunicazione verbale, la conoscenza delle strutture sintattiche non basta. Bisogna sapere come e quando usarle. E non sempre si

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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asserisce per informare, non sempre si interroga per domandare, non sempre si ricorre all’imperativo per comandare.

Performatività

Negli anni cinquanta, John Langshaw Austin, noto filosofo inglese, ha elaborato un modello dell’atto linguistico che ha incontrato grande successo nella cosidetta «analisi della lingua quotidiana». Austin9 era partito da una osservazione interessante. Le formule dei sacramenti cristiani, come pure le formule delle sentenze di un tribunale, hanno caratteristiche particolari. Se nel corso di una cerimonia nuziale il sacerdote dice

Vi dichiaro marito e moglie

i due destinatari diventano in quel momento preciso marito e moglie. Lo stesso avviene quando il confessore dichiara:

Ti assolvo dei tuoi peccati

o quando nel battesimo si enuncia la formula rituale Ti battezzo ecc. L’enunciazione di formule simili assomiglia al proferimento di una condanna o di un’assoluzione da parte di un giudice. Tutti questi atti linguistici, osserva Austin, non descrivono, non constatano uno stato di cose, bensì lo pongono in atto. Egli si serve del verbo inglese to perform per descrivere l’evento: chi proferisce sequenze simili a quelle viste sopra esegue, compie un’azione, non si limita a constatare. Invece, una sequenza come

Il gatto è sul divano

descrive una situazione, non la pone in atto. Ma in questo modo John Austin ha aperto la via a una riflessione sulla natura delle frasi comunicate nella situazione concreta. Chi dice qualcosa fa anche qualcosa. Certamente, le formule proferite dal sacerdote o dal giudice sono chiaramente enunciati performativi: dopo il proferimento, la realtà non è più la stessa (c’è un marito e una moglie dove prima c’erano solo dei fidanzati; c’è un assolto o un condannato dove prima c’era solo un imputato).

9 J.L. Austin, How To Do Things With Words, Clarendon Press, Oxford 1962.

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Tuttavia, Austin non era convinto della soluzione trovata. E tutte le altre frasi: sono soltanto constatazioni o domande o comandi? Egli ha continuato l’analisi e si è convinto del fatto che le cose erano molto più complesse. Poniamo infatti, per esempio, che io entri in casa e veda il felino domestico sopra il frigorifero, e dica

Il gatto è in cucina.

È difficile che mi sia limitato a descrivere, asetticamente, una certa situazione. In effetti, le circostanze concrete assegnano a quella sequenza significati che a volta a volta sono diversi:

«Ti avevo detto di lasciarlo fuori» (rimprovero) «Avrà fame» (congettura) «Chissà come avrà fatto a entrare» (meraviglia: non me lo aspettavo) «Speriamo che non abbia combinato disastri» (preoccupazione: vado a controllare)

e così via. Insomma: per stabilire il «significato» di quella sequenza, occorre considerare tutti i fattori della comunicazione.

L’impegno ontologico

La constatazione, la descrizione pura e semplice non esistono nella realtà della comunicazione concreta. Anche quando dico

Quattro per quattro uguale a sedici

ci sono io a dirlo. Poniamo, inoltre, che il mio interlocutore sia un bambino che non conosce l’aritmetica. In tal caso gli dico qualcosa di importante. Poi gli mostrerò perché è vero quello che gli dico. Ma il bambino si fida subito di me. Per lui sono una persona autorevole. E io, dicendo quella sequenza, assicuro che le cose stanno in un certo modo. Di solito, anche fra adulti, la parola di una persona autorevole basta per garantire che le cose stanno in un certo modo. Poniamo che io arrivi in auto in una cittadina a me sconosciuta, e chieda a un passante informazioni sul percorso. Mi verrà risposto, più o meno, così:

Svolti a destra al semaforo: arriverà subito in piazza.

Io, forestiero, mi fido dell’informatore, che si impegna con tutta la sua persona e assicura che le cose stanno in un certo modo (poi magari l’informazione sulla strada da percorrere è sbagliata, ma è un’altra storia). Nell’asserzione è

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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importante l’impegno del parlante. È una vera e propria azione: egli mette in gioco la sua reputazione. Quanto più sono vere le sue asserzioni, tanto più la sua reputazione cresce, e produce autorevolezza. Gli studiosi di filosofia linguistica parlano, a questo proposito, di impegno ontologico (ontological commitment). È un aspetto della comunicazione che viene manifestato all’interlocutore («te lo dico io, dunque, ti puoi fidare»). Tuttavia, tale aspetto è irriducibile al significato dell’enunciato. Chi comprende l’enunciato comprende il fatto che il parlante ha preso un determinato impegno nei confronti della realtà. Ma l’impegno ontologico rimane del parlante, non dell’ascoltatore. L’aspetto semantico è solo un riflesso dell’evento concreto della comunicazione. Senza una persona concreta, che dice, l’enunciato manca di un contesto che lo rende credibile. L’autorevolezza di una persona è, a ben vedere, alla base di una tradizione e di una cultura. Nella comunicazione quotidiana il significato ha bisogno di chi lo comunica: la verità è accolta quando viene enunciata da un io. Ma si può anche abusare della fiducia altrui. Poniamo infatti che io dica

Cinque per cinque uguale a venti.

Il contenuto dell’enunciato è falso. Se conosco l’aritmetica, io, che dico tale falsità, so di dire il falso. Tuttavia, se il mio interlocutore è un bambino che si fida di me, il mio enunciato rischia di essere accettata come vera, proprio per la mia autorevolezza di adulto e, per conseguenza (agli occhi del bambino), di educatore. Le menzogne hanno successo proprio quando sono proferite da una persona di cui l’ascoltatore tende a fidarsi. Il tradimento della fiducia dell’altro pregiudica la comunicazione. Per comunicare bisogna volere bene al proprio destinatario. Da questa disposizione fondamentale della persona segue lo sforzo alla comunicazione di ciò che si ritiene vero.

Atti linguistici

Austin osserva che il proferimento di una sequenza è un’azione come le altre. «Il dire è una delle azioni», diceva già Platone. E Austin, studioso di filosofia antica, aveva riflettuto sulle conseguenze di tale asserzione. Del resto, quando egli sviluppa la sua riflessione siamo alla metà del nostro secolo. Nella

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Mitteleuropa l’analisi dell’atto comunicativo è già molto avanzata: mi limito a citare Karl Bühler e Roman Jakobson. Ma ricordo pure le ricerche delle varie scuole di fenomenologia (Husserl da una parte, Reinach dall’altra). E a Cambridge vi era il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen (Philosophical Investigations). Tuttavia, il modello di atto linguistico sviluppato a Oxford da John Austin è davvero originale. E se la filosofia lo ha poco considerato, la linguistica vi fa tuttora riferimento costante: gli ultimi trent’anni della linguistica generale si sono sviluppati proprio all’insegna della teoria degli atti linguistici, iniziata da Austin, sviluppata da John Searle e da altri. Vediamo i tratti fondamentali. Se proferisco un enunciato come

Il cane morde

eseguo diversi atti. 1) Anzitutto, vi è un atto locutivo: riguarda la fonetica, la fonologia, la

grammatica, il lessico. Viene inoltre stabilito il riferimento a un’entità concreta della realtà (nel nostro esempio «il cane», dove il denota un cane determinato) e si colloca l’entità dentro a un insieme determinato (indicato nel nostro caso da morde. Il cane appartiene all’insieme delle entità per le quali vale: «morde»). L’atto locutivo ha dunque diverse componenti: vi è un atto fonetico (la pronuncia dei suoni), un atto fatico (che abbraccia fonologia, grammatica e lessico) e un atto retico (dal greco rhema «verbo, predicazione»): quest’ultimo atto comprende sia il riferimento all’entità (il cane)sia l’individuazione dell’insieme cui essa appartiene (morde). Nell’atto retico Austin fa rientrare la teoria della denotazione e del riferimento, sviluppata dalla semantica logica classica.

2) Vi è poi un atto illocutivo (dal latino in locutione): avviene mentre proferisco l’enunciato (in saying that utterance): nel nostro caso può essere un avvertimento («Attento! Il cane morde e tu rischi di essere morso dal cane!»). L’illocuzione è l’azione fatta mediante le parole: si compie con il proferimento della sequenza. All’illocuzione è connesso uno scopo: «Ti dò questo avvertimento, affinché tu non ti avvicini al cane». Può darsi che lo scopo non sia raggiunto: il mio interlocutore si avvicina per accarezzare l’alano, che non abbaia, ma morde (e questo fatto verrà accertato in seguito, quando è troppo tardi). Se invece l’avvertimento è compreso in modo adeguato, lo scopo illocutivo è raggiunto e la comunicazione ha avuto

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successo. Il successo o l’insuccesso si valuta guardando al risultato dell’enunciazione della sequenza. Tale risultato va messo in rapporto all’illocuzione: se la comunicazione funziona, il risultato realizza lo scopo pragmatico.

3) Il risultato è considerato parte dell’atto linguistico e viene chiamato atto perlocutivo (lat. per locutionem): l’enunciato è visto infatti come il mezzo per giungere a un certo risultato (by saying that utterance). Tuttavia, data una certa illocuzione, non avrò necessariamente la perlocuzione desiderata o prevista. Una sequenza come

Ci rivedremo, un giorno o l’altro

può essere proferita con l’illocuzione della minaccia («e allora faremo i conti»). Lo scopo illocutivo può essere «spaventare, inquietare» l’interlocutore. Se costui si spaventa per davvero, la perlocuzione effettiva coincide con quella prevista (con lo scopo illocutivo). Ma se l’ascoltatore irride alla mia sequenza, lo scopo non è raggiunto. In tal caso, la perlocuzione non coincide con lo scopo dell’illocuzione.

Atti linguistici indiretti e inferenza

Abbiamo visto che la frase è un elemento del codice linguistico. In un concreto atto linguistico, però, vi è una sequenza, manifestata con una frase. Ma una frase può avere usi imprevedibili; per esempio, il tipo sintattico interrogativo ha tipicamente la forza illocutiva di una domanda. Ma non sempre la forza tipica di una struttura si realizza nella illocuzione concreta prodotta quando l’enunciato è proferito: prendiamo il caso delle cosiddette «domande retoriche», che non sono affatto domande, ma atti linguistici indiretti di asserzione10. Poniamo, ad esempio, che un padre si rivolga al figlio sedicenne, che entra furtivo in casa alle 4 del mattino, con l’enunciato

È ora di ritornare a casa, questa?

Ha usato una frase interrogativa, che però non esprime una domanda, ma un rimprovero, basato su una asserzione indiretta («Questa non è ora di ritornare a casa!»). La forza illocutiva tipica per una frase interrogativa non sempre

10 J. Meibauer, Rhetorische Fragen, Niemeyer, Tübingen 1986, p. 184.

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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coincide con l’illocuzione realizzata nell’enunciato concreto, che dunque ha la forma della frase interrogativa, ma non è affatto una domanda. Un uso retorico di una frase interrogativa rappresenta un caso di atto linguistico indiretto: l’illocuzione non è quella suggerita dalla struttura linguistica, bensì deve essere individuata considerando le circostanze concrete della comunicazione. Anche la richiesta che abbiamo considerato all’inizio di questa discussione (Lei mi sta pestando un piede) è un atto linguistico indiretto. In certi frammenti della comunicazione verbale quotidiana, gli atti indiretti superano per quantità gli atti diretti. Basti pensare a tutte le formule di cortesia che intervengono nella conversazione. Celebre (negli studi di linguistica) è l’enunciato Potresti passarmi il sale? (qui è in italiano, ma lo si può formulare con strutture simili nelle diverse lingue d’Europa). Chi rispondesse Sì, senza passare il sale al richiedente, farebbe la figura del maleducato, o dello stupido, o, nei casi più benevoli, del distratto o del buontempone. A meno che non sia sordo o non sia uno straniero con scarse conoscenze della lingua locale. Il fatto è che quella frase interrogativa è usata in un enunciato che, nella routine di un codice di comportamento verbale cortese, ha l’illocuzione della richiesta. Non tutti gli atti linguistici indiretti sono «indiretti» allo stesso modo. Formule di cortesia come quella appena vista sono facilmente interpretabili in modo appropriato perché l’interpretazione avviene seguendo una precisa convenzione. Si tratta di atti indiretti convenzionali. L’uso indiretto dei modali nel contesto del parlare cortese è infatti previsto dal codice linguistico condiviso dagli interlocutori: è un uso secondario, non prototipico. Per certe combinazioni di strutture linguistiche, anzi, è più abituale l’uso indiretto che quello diretto. Per esempio, in italiano la combinazione tra la forma verbale potresti e la frase interrogativa si usa per formulare una richiesta gentile. Assai raramente è usata per formulare una domanda. A volte, invece, esprime un pressante invito che non è per nulla cortese (Potresti lasciarmi in pace?). Come invece abbiamo visto, la frase

La finestra è aperta

può esprimere enunciati che appartengono ad atti linguistici diversi, con illocuzioni diverse, a seconda delle circostanze comunicative concrete. Non prendiamo in considerazione i casi nei quali la frase compare in un atto linguistico diretto (per esempio, una constatazione). Vediamo invece gli usi

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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come atto indiretto: può trattarsi di una richiesta (Chiudete la finestra) oppure di un rimprovero (Vi avevo detto di lasciarla chiusa) o di altro ancora. Si tratta però di atti indiretti non convenzionali: hanno illocuzioni particolari non previste per quella frase dal codice linguistico. Come si vede, per interpretare l’uso delle parole bisogna far intervenire una molteplicità di fattori non linguistici, ma che sono costitutivi dell’atto di comunicazione e della circostanza concreta in cui esso avviene. Tuttavia, occorre integrare la nozione di illocuzione con la nozione di inferenza. Infatti, chi interpreta in modo appropriato un atto linguistico collega una struttura linguistica a una illocuzione. Ma questo collegamento – diretto o indiretto, convenzionale o non convenzionale – richiede l’elaborazione di informazioni ricavate dal contesto, linguistico o non linguistico. Vengono qui applicati meccanismi inferenziali i quali, dato un certo input, forniscono l’interpretazione pertinente. Per esempio, l’enunciato

Ho fame

può voler dire una proposta (Andiamo a pranzo). Ma se a proferirlo è un povero mendicante, che incontro sulla strada di casa, si tratta piuttosto di una richiesta indiretta di aiuto (Mi dia qualche soldo per mangiare). Vi sono naturalmente altre interpretazioni legittime: se il parlante è un uomo sovrappeso, colto sul fatto da Mac Donald’s mentre interrompe la ferrea dieta con un succulento hamburger corredato di patatine fritte e irrorato da una Pilsner, questo enunciato può essere la giustificazione usata per reagire a un rimprovero (Lo so che devo dimagrire. Ma non ce la faccio più. Ho fame). Ora, nel processo di comprensione il destinatario deve tenere conto del contesto e deve scegliere l’interpretazione pertinente con i fattori non linguistici della comunicazione: il mendicante, che si rivolge a me dicendo Ho fame, non mi propone di andare a pranzo (magari offrendosi di pagare lui). Il contesto da considerare può essere anche quello linguistico: se Ho fame è la sequenza che segue a un rimprovero (Ingordo golosone!) è assai improbabile che essa veicoli una richiesta di aiuto (Dammi i soldi per comprarmi qualcosa da mangiare). La concatenazione tra una sequenza testuale e l’altra è una guida alla corretta interpretazione. In questo modo, l’illocuzione emerge come la funzione pragmatico-comunicativa pertinente per una data sequenza testuale. Ma allora

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l’illocuzione non è più soltanto azione svolta dal parlante. In quanto viene compresa dal destinatario l’illocuzione è anche significato. In quanto è azione, si inserisce nella dinamica dell’attività umana. In quanto è significato, va posta dentro ai processi del ragionamento che presiedono alla comprensione dei testi (di maggiore o minore complessità).

La pertinenza. Il ruolo del contenuto implicito

Dan Sperber e Deirdre Wilson11 hanno proposto un modello per spiegare il funzionamento del principio di pertinenza nella comunicazione. Riprendiamolo brevemente. Secondo i due studiosi, il principio di pertinenza si basa su alcune ipotesi ragionevoli: 1. che ogni enunciato ha una varietà di interpretazioni possibili; 2. non tutte queste interpretazioni sono ugualmente accessibili all’ascoltatore

in qualsiasi occasione data; 3. gli ascoltatori sono provvisti di un solo criterio, molto generico, per

valutare le interpretazioni; 4. questo criterio è potente abbastanza da escludere tutte eccetto una singola

interpretazione possibile. Così l’ascoltatore può assumere che la prima interpretazione che soddisfa il criterio è la sola interpretazione che lo soddisfi.

Il criterio si sviluppa da una ipotesi di base sulla conoscenza umana. L’ipotesi dice che la conoscenza umana è relevance-oriented. Prestiamo attenzione solo all’informazione che ci sembra pertinente. Qualsiasi atto di comunicazione inizia come una richiesta di attenzione. Come risultato esso crea un’attesa di pertinenza. Principio di pertinenza: l’informazione comunicata crea un’attesa di pertinenza. Lungo questa attesa di pertinenza si costruisce il criterio pragmatico.

11 Nel celeberrimo volume Relevance. Communication and Cognition, Blackwell, Oxford

1986, 19952.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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La pertinenza è definita in termini di effetti contestuali e di sforzo nell’elaborazione dell’informazione. Gli EFFETTI CONTESTUALI sono raggiunti quando l’informazione nuova interagisce con un contesto di ipotesi o assunzioni esistenti e interagisce in uno di questi tre modi: – rafforza un’ipotesi esistente (p.es. A – Fuori piove e B, il quale immaginava

che piovesse, vede confermata la sua ipotesi); – contraddice ed elimina un’ipotesi già data (p.es. A – Fuori piove e B, il quale

pensava di uscire a fare un giro in bici, è costretto a rettificare le sue conoscenze e a cambiare i suoi piani per il pomeriggio);

– si combina con un’ipotesi già data e dà luogo a un’implicazione contestuale: ossia una implicazione logica che deriva non dall’informazione esplicitata nella sequenza, né dal “contesto” (insieme di conoscenze “convocate” per interpretare la sequenza proferita), ma dalla combinazione dei due (A – Ti piace la Audi di mio cugino? B – Tuo cugino ha buon gusto, e ha anche il grano. Beato lui – da qui si inferisce che la Audi piace a B (la sequenza proferita da B convoca una serie di proposizioni implicite – “Chi ha buon gusto fa buone scelte” – e combinando queste con il contenuto esplicito si inferisce una asserzione positiva: a B la Audi piace). L’informazione esplicita è pertinente in un “contesto” se e solo se raggiunge effetti contestuali in quel contesto, e quanto maggiori sono gli effetti contestuali, tanto maggiore è la pertinenza.

Però gli effetti contestuali non si producono liberamente: per essere derivati essi richiedono uno SFORZO MENTALE. Questi sforzi mentali utilizzati per calcolare gli effetti contestuali di un enunciato dipendono da tre fattori principali: – la complessità linguistica dell’enunciato; – l’accessibilità del contesto; – lo sforzo inferenziale necessario calcolare gli effetti contestuali

dell’enunciato nel contesto scelto. Qualsiasi incremento di sforzo processuale fa diminuire la pertinenza. Dunque, quanto minore è lo sforzo processuale, tanto maggiore è la pertinenza. L’effetto e lo sforzo mirano alla pertinenza ottimale:

UN ENUNCIATO IN UNA INTERPRETAZIONE DATA È PERTINENTE IN MISURA OTTIMALE SE E SOLO SE:

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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a raggiunge effetti in quantità sufficiente a meritare l’attenzione dell’ascoltatore;

b non espone l’ascoltatore a sforzi inutili (gratuiti) per raggiungere questi effetti.

Per quanto riguarda gli effetti: si attende che l’ascoltatore vada a cercare effetti sufficienti perché l’enunciato valga la pena di compiere lo sforzo di interpretazione. In generale, questo significa che egli si aspetterà da quell’enunciato più effetti di quelli che otterrebbe da qualsiasi altra informazione che si sarebbe potuto processare in quel momento. E questo dipende da quanto avviene nella circostanza della enunciazione concreta. Per esempio poniamo che un tipo entri nell’aula consiliare durante una importante riunione della giunta comunale e dica:

Signore e signori, mi corre l’obbligo di annunciarvi che l’edificio è in fiamme

l’edificio è un sintagma che denota un unico oggetto nella realtà; a seconda dell’oggetto indicato, si avranno diversi tipi di effetto contestuale. La prima ipotesi: l’edificio si riferisce all’edificio in cui ha luogo la seduta della giunta. ergo l’enunciato, data qs. interpretazione, avrebbe effetti sufficienti per meritare l’attenzione dell’uditorio, le menti degli ascoltatori sarebbero immediatamente occupate da pensieri su come uscire. Dato per scontato che in una seduta di giunta le menti siano interamente assorbite da quello che l’oratore dice, p.es. un assessore, è difficile vedere quale altra interpretazione avrebbe effetti sufficienti per giustificare questa interpretazione. in queste circostanze, questa interpretazione è fondamentalmente la sola interpretazione che il parlante poteva ragionevolmente aver inteso comunicare implicitamente e che gli ascoltatori dovevano scegliere. In altre circostanze si potrebbe pensare che l’interpretazione intesa potrebbe essere più difficile da individuare. ci potrebbero essere diverse combinazioni di contenuto e di contesto e tutte queste potrebbero dare abbastanza effetti contestuali per far sì che l’enunciato meriti l’attenzione dell’uditorio. E qui entra in gioco la clausola b della definizione di pertinenza ottimale. Infatti, in generale un parlante che voglia evitare rischi di fraintendimenti deve assicurarsi che non ci sia interpretazione che sia allo stesso tempo 1) più accessibile all’ascoltatore dell’interpretazione che il parlante voleva che

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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l’ascoltatore elaborasse e 2) dotata di sufficienti effetti affinché meriti l’attenzione dell’ascoltatore, dato che quest’interpretazione porterebbe fuori strada l’ascoltatore. La clausola b, che esclude sforzi gratuiti nel recupero degli effetti contestuali intesi. essa riguarda proprio questi casi: ossia, esclude la possibilità che ci si attenda che l’ascoltatore recuperi, elabori e accetti l’interpretazione errata prima di raggiungere quella intesa. Segue da b che un parlante che miri alla pertinenza ottimale deve cercare di formulare l’enunciato in modo tale che la prima interpretazione possibile che si presenti all’ascoltatore sia l’interpretazione che egli intendeva veicolare. Questa clausola ha un’immediata conseguenza pratica. dopo che egli abbia trovato un’interpretazione che soddisfi le sue attese di pertinenza in un modo che il parlante probabilmente aveva previsto, egli non ha bisogno di continuare la ricerca. La prima interpretazione così e così è la sola interpretazione così e così ed è la sola che l’ascoltatore doveva scegliere. En passant va osservato che per essere accettabile e comprensibile un enunciato non ha bisogno di essere realmente rilevante in maniera ottimale. P.es. X sta uscendo di casa. Y – la moglie di X – dice a X: Sta piovendo. Ma in quel momento X lo sa già. La proposizione espressa da Y non avrà effetti contestuali e non sarà pertinente per X. Tuttavia, l’enunciato di Y è comprensibile e accettabile per X nella misura in cui – as long as – X è in grado di vedere come Y probabilmente si attendesse che esso fosse pertinente per X. Per spiegare questo bisogna prendere in considerazione il seguente criterio di coerenza con il principio di pertinenza:

“Un enunciato, in un’interpretazione data, è coerente con il principio di pertinenza se e solo se è probabile che il parlante ragionevolmente avesse atteso che l’enunciato fosse pertinente in modo ottimale per l’ascoltatore, data quell’interpretazione”.

Per quanto il criterio possa sembrare vago, esso è in grado di tener conto di un fatto che altre teorie non considerano. Questo segue dalla clausola b del principio di pertinenza ottimale e dalla sua conseguenza per cui la prima interpretazione verificata e trovata coerente con il principio di pertinenza è la sola interpretazione coerente con il principio di pertinenza. Poniamo che, interpretando un enunciato, un ascoltatore inizi con un contesto iniziale “piccolo”, che è il lascito dell’elaborazione di un enunciato precedente. Egli calcola gli effetti dell’enunciato in questo contesto iniziale. Se questi non

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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bastano perché esso meriti attenzione, egli espande il contesto, ottiene effetti ulteriori, e ripete il processo finché ha effetti a sufficienza perché l’enunciato sia pertinente in modo ottimale nel modo presumibilmente previsto dal parlante. A questo punto l’ascoltatore ha raggiunto un’interpretazione coerente con il principio di pertinenza e potrebbe fermarsi. O almeno, se va avanti lo fa per conto proprio, ma non è tenuto a ipotizzare che il parlante gli volesse comunicare altro. In altre parole, tutto quello che l’ascoltatore è tenuto a considerare per raggiungere l’interpretazione “preferita” dal parlante è il contesto minimale (ossia il minimo, il più accessibile) e l’insieme di effetti contestuali che sarebbero sufficienti perché l’enunciato meriti attenzione. Peraltro, le inferenze utilizzate nell’applicazione del principio di pertinenza erano ben note alla logica medievale. La dottrina classica del sillogismo è infatti uno strumento utile per spiegare i nessi semantici fra le parti di un testo. Sperber e Wilson hanno così ribadito una certezza antica: il significato di un testo è individuato grazie ai meccanismi inferenziali che sono lo specchio dei processi logici che lo hanno costruito. Esempio:

Luigi: Vuoi una tazza di caffè? Maria: Il caffè mi tiene sveglia.

prima interpretazione: si adotta la premessa seguente: Maria deve studiare la notte. Ha bisogno di stare sveglia. Questo è noto a Luigi. Legando la premessa all’enunciato, Luigi inferisce la risposta Sì (Maria accetta il caffè). seconda interpretazione: si adotta la premessa seguente: È sera, Maria è stanca, ha bisogno e desidera dormire. Legando la premessa all’enunciato, Luigi inferisce la risposta No. Il significato è relativamente indipendente dalle strutture linguistiche usate per manifestarlo. La dicotomia signifiant-signifié, cara allo strutturalismo classico,

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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non riguarda il significato del testo12. Il codice può informarci sugli usi tipici o non tipici di una certa struttura linguistica: ne può indicare le possibilità d’uso. Ma la funzione concreta dipende, in ultima analisi, dalla considerazione della totalità dei fattori costitutivi del concreto avvenimento comunicativo.

Alcune funzioni nella sequenza in funzione di asserzione Le nozioni di tema e di rema

Dopo aver visto le funzioni pragmatiche principali e il ruolo decisivo svolto dal senso implicito nell’interpretazione del testo, concentriamoci ora sulle frasi dichiarative, impiegate per compiere asserzioni. Uno studioso americano, Wallace Chafe, afferma che il contenuto proposizionale della sequenza può essere “impacchettato” (wrapped up) in modi diversi, e questi modi diversi dipendono dal “peso”, dalla rilevanza diversa assunta dagli elementi del contenuto. Prendiamo, per esempio, il famoso incipit del Manifesto di Marx ed Engels (“Uno spettro si aggira per l’Europa – è lo spettro del comunismo”; ted. Ein Gespenst geht um in Europa – das Gespenst des Kommunismus). La sequenza va pronunciata con accento principale su Uno SPEttro (Ein GeSPENST). La scena europea è agitata da uno spettro: questo è la porzione rilevante di informazione: Quello che si aggira per l’Europa è… è la parte bisognosa di integrazione, è l’argomento, mentre uno spettro è il predicato della sequenza. La sua comparsa “soddisfa”, dà senso all’asserzione, che viene posta all’inizio del testo, come annuncio di un fatto meritevole di trattazione. In altre parole: il predicato della sequenza è collegato alla funzione pragmatica della sequenza. L’asserzione è rilevante – è congrua con le attese suscitate – se è rilevante il predicato che la contiene. Nella sequenza vi è di solito almeno un predicato. E per predicato si intende qui una componente del senso, non un sintagma verbale. Oltre al predicato (uno spettro), vi è, di solito, anche l’argomento su cui verte la predicazione (si aggira per l’Europa). Nella sequenza sopra riportata, vi è inoltre una continuazione, una ulteriore predicazione, che specifica uno spettro (… è lo spettro del comunismo).

12 E. Rigotti, Principî di teoria linguistica, capitolo I.

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Per indicare le funzioni di queste componenti nella sequenza vi è una terminologia varia. Gli americani parlano di topic (argomento) e di comment, e il comment è considerato l’elemento in posizione di focus, cioè l’elemento che reca l’accento di sequenza (nell’es. sopra riportato, uno spettro è in posizione di focus). La tradizione europea, invece, parla di tema (argomento) e di rema (predicato). Tema contiene la radice greca thē – che significa “porre” – mentre rema risale al greco rhēma, che indicava il verbo in quanto predicato nell’asserzione. A dire il vero, nella tradizione linguistica europea si è parlato anche di soggetto e predicato logici o psicologici (soprattutto nell’Ottocento), e di punto di partenza e scopo del discorso (point de départ e but du discours, sempre nell’Ottocento). La Scuola di Praga (primo Novecento) parla, con Vilém Mathesius, di base e nucleo (základ e jadro) dell’enunciazione. Di tema e rema si parla con Hermann Ammann (1929) e con Karl Boost (1955). Per descrivere le nozioni di tema e di rema si impiegano diverse dicotomie:

TEMA REMA

Ciò di cui si dice Ciò che si dice

Ciò che è dato Ciò che è nuovo

Ciò che è noto Ciò che non è ancora noto

I termini dato e nuovo si riferiscono al piano del testo: un elemento dato è già istituito nel co-testo anteriore. Un elemento nuovo è introdotto in quella sede. I termini noto e non noto si riferiscono al piano del con-testo, e per contesto intendiamo l’insieme delle proposizioni (sapute, credute) che costituiscono il “mondo del testo” (la nostra “enciclopedia”). Si deve a questo punto osservare che l’inizio di un testo contiene molte unità note, ma non unità date – visto che il testo è appena cominciato. Ma anche la prima sequenza di un testo può avere un tema. Dunque, l’articolazione in dato e nuovo non è convincente. Inoltre, spesso è tematica una unità nota, ma non ancora data nel co-testo (Il Presidente della Repubblica Ciampi è in visita in Francia: qui il Presidente della Repubblica Ciampi è unità nota dal contesto, ma può essere non data nel co-testo, anche nel caso in cui la sequenza non sia in apertura di discorso). Allo stesso modo, può essere rematica una unità già data, già istituita nel co-testo (Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio compare nella Costituzione, là

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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dove il Presidente del Consiglio è già dato dal co-testo anteriore; tuttavia, in questa sede il Presidente del Consiglio è rematico). Vediamo dunque come quelle descrizioni – noto verso non noto, dato verso nuovo, ciò di cui si dice verso ciò che si dice – siano quanto mai vaghe, e soprattutto non siano applicabili nella realtà del discorso, dove la distribuzione dell’informazione richiede, non di rado, l’introduzione di una griglia molto più articolata di componenti (su questo, si veda Eddo Rigotti, La sequenza testuale, “L’analisi linguistica e letteraria”, I, 1993).

Osservazioni sulla disposizione dei costituenti, sulle dislocazioni, sulle frasi scisse e sulle strutture del passivo

Ci limitiamo, in questa sede, a indicare alcuni aspetti della struttura linguistica che ci consentono di individuare ora il tema ora il rema: abbiamo detto che l’accento di sequenza si porta sul rema, ma anche l’individuazione di tale accento è ardua. Più facile è descrivere a) disposizioni marcate – statisticamente meno frequenti – dei costituenti; b) strutture sintattiche particolari. a) Per disposizione marcata intendiamo, più semplicemente, un ordine delle parole che è diverso da quello atteso nella frase dichiarativa. Consideriamo il rapporto fra l’ordine delle parole e la morfologia dei casi (p.es. nominativo, genitivo, dativo, accusativo in tedesco; il latino ha anche l’ablativo e il vocativo; il polacco ha anche il locativo, lo strumentale e il vocativo; e così via per altre lingue). Le lingue con la morfologia dei casi hanno un ordine più mobile rispetto alle lingue prive di declinazioni, nelle quali l’ordine è fisso: in inglese Boys love girls la funzione di soggetto è segnalata dalla posizione di boys prima di love; la funzione di oggetto è segnalata dalla posizione di girls dopo love. Invece, le seguenti frasi (frase, non sequenza, perché si tratta di esempi “inventati”, sono “aspiranti sequenze” qualora siano usate nel discorso) del latino hanno la stessa costruzione sintattica, ma diverso ordine delle parole:

Pueri puellas amant Amant pueri puellas Amant puellas pueri

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Pueri amant puellas Puellas pueri amant Puellas amant pueri

In queste frasi, i ruoli sintattici (soggetto, oggetti) sono segnalati dai morfi della declinazione (nominativo pueri, accusativo puellas), quindi la posizione è meno rilevante che in inglese. Dunque, in inglese la posizione è un indicatore del ruolo sintattico. Solo in alcuni casi il soggetto può seguire il verbo: Only after many hours could he manage to get out of the damaged car. Vi è dunque una solidarietà fra la posizione del sintagma nominale prima del verbo (anche non a diretto contatto con il verbo: è sufficiente che esso preceda il verbo) e il ruolo di soggetto. A volte, la morfologia dei casi non è indicatrice del ruolo sintattico, a causa di sincretismi fra nominativo e accusativo. È noto l’esempio – di Roman Jakobson – del russo Mat’ ljubit doč’ che equivale al tedesco Die Mutter liebt die Tochter (“la madre ama la figlia”). In questo caso, sia il russo sia il tedesco hanno lo stesso morfo per i due casi di declinazione. In tal caso, ossia quando i morfi flessionali non sono operanti nella manifestazione della opposizione fra soggetto e oggetto, viene attivata la posizione dei sintagmi: il soggetto precede, l’oggetto segue il verbo. A volte, peraltro, il significato del lessema verbale consente di individuare soggetto e oggetto, senza che sia necessario il ricorso alla posizione: cfr. ted. Das Buch liest das Kind und die Zeitung die Mutter (“il libro, lo legge il bambino e il giornale la madre”), dove das Buch è oggetto e non soggetto, ma questo si coglie grazie al significato lessicale del verbo liest – “legge” – che seleziona un soggetto agente animato e quindi esclude che das Buch – inanimato – sia soggetto. In italiano, vi è di solito l’ordine S + V + O. A volte – per lo più con verbi transitivi – vi è l’ordine V + S, come in Cade un fulmine: colpita una mucca. Questo ordine è tipico delle sequenze senza tema espresso: cade un fulmine è interamente rematico, e colpita una mucca è un rema ulteriore. A volte, soprattutto in varietà “connotate” in diafasia come formali, si trova anche l’ordine O + V + S, p.es. in Simili provvedimenti prende l’autorità in circostanze eccezionali, oppure in Grandi cambiamenti annunciano i quotidiani della domenica. Non è difficile vedere che nel primo esempio il rema è eccezionali, che è in ultima posizione, mentre nel secondo esempio il rema è grandi

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cambiamenti che è in prima posizione. Dunque l’ordine dei costituenti non serve qui a segnalare né il ruolo sintattico (indicato, piuttosto, dal significato lessicale del verbo, che seleziona soggetto e oggetto) né il rema. b) Consideriamo ora alcune interessanti strategie, tipiche di varietà non formali, peraltro appartenenti allo standard: – la frase scissa, – la dislocazione a sinistra e a destra. La frase scissa ha la struttura è X che p, dove X è rematico, mentre p indica il resto della proposizione, che è tematico. È Luigi che ha sfasciato la Golf è una sequenza “trasparente” per quanto riguarda il rema: si tratta di Luigi. Potremmo parafrasarla con A sfasciare la Golf è stato Luigi, La Golf è stata sfasciata da Luigi, LUIGI ha sfasciato la Golf, dove le maiuscole indicano l’accento di sequenza. Forse le differenze sono di ordine diafasico: il passivo è più orientato verso il polo del registro formale, la sola intonazione (LUIGI) è caratteristica del parlato informale, o anche di una varietà connotata diatopicamente (non è italiano regionale del Settentrione). Peraltro, pur nella diversità – individuabile in prospettiva “variazionista” – le diverse formulazioni permettono di cogliere come rema l’elemento Luigi. Pertanto, la frase scissa, la diàtesi (la voce) passiva, il costrutto A + infinito +(oggetto) + è X, l’intonazione sul primo elemento sono strategie equivalenti dal punto di vista dell’articolazione testuale. Teniamo dunque presente che la frase scissa serve a segnalare un elemento rematico: esso compare nella prima componente di tale struttura, che si chiama scissa per una ripresa dell’inglese cleft sentence (cfr. francese phrase clivée, clivage; ted. Spaltsatz: tutte riprese per calco strutturale della terminologia inglese). L’elemento rematico della frase scissa è spesso introdotto per contrastare un rema che viene scartato: Sono i miei amici che arrivano domani (e non i tuoi). Peraltro, un rema può sempre comportare un contrasto (Luigi legge libri – intendendo: non fumetti). Consideriamo ora la dislocazione. Essa può avvenire a destra:

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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L’ha letto Luigi, il libro Luigi l’ha letto, il libro.

Ma può avvenire anche a sinistra:

Il libro, lo legge Luigi. Il libro, Luigi lo legge. Luigi, il libro, lo legge.

Nella dislocazione, un elemento è sintatticamente estrapolato – dislocato – dalla struttura della frase. Entro la frase, un clitico coreferenziale riprende l’elemento dislocato. Nel nostro caso, è il pronome lo. Nella dislocazione, l’elemento dislocato è sempre non rematico. Peraltro, di solito, nella dislocazione a sinistra l’elemento dislocato è dato dal co-testo precedente (Il libro, lo legge Luigi è congruo con uno sviluppo del discorso nel quale il libro sia già stato introdotto). Per l’elemento non rematico in dislocazione a destra, il carattere di dato è meno tipico (Come va? Te le racconto dopo, le cose che mi sono successe. Adesso facciamoci una birra) e piuttosto emerge il carattere di “noto”, ossia di recuperabile dal contesto. Il termine dislocazione viene anch’esso dall’inglese (right, left dislocation). Il tedesco parla di Rechtsversetzung e di Linksversetzung. Con questo, non si è data che una sommaria descrizione di alcune strutture capaci di segnalare unità rematiche – la cleft sentence – o non rematiche – la dislocation. Anche la diàtesi passiva può svolgere un ruolo a questo proposito. Il passivo ha infatti due valenze fondamentali: a) la cancellazione dell’agente, b) la collocazione in posizione rematica del soggetto dell’attiva. a) In molti testi, soprattutto nelle lingue di specialità (languages for special

purposes) l’agente non è rilevante. È necessaria una descrizione generale di un procedimento: Quando il corpo è immerso nell’acqua, esso riceve una spinta dal basso verso l’alto… È del tutto indifferente indicare chi immerga il corpo nell’acqua. Inoltre, l’oggetto dell’attiva, diventando soggetto nella passiva, lascia, per così dire, la posizione rematica, che non gli compete.

b) Il cambio del ruolo sintattico, da oggetto a soggetto, serve per portare il soggetto in posizione rematica, nel ruolo di complemento d’agente: Il

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nuovo romanzo di Umberto Eco sarà pubblicato dalla più nota casa editrice ciociara. Nella versione attiva (La più nota casa editrice ciociara pubblicherà il nuovo romanzo di Umberto Eco) il soggetto non è rematico (a dire il vero, sarebbe possibile il caso in cui tutta la sequenza è rematica, p.es. in risposta a: Che cosa è successo? Ma escludiamo qui questo caso, per non rendere la descrizione troppo complessa).

c) Si noti tuttavia che sono possibili sequenze come la seguente: Questo romanzo è stato scritto da Umberto Eco per ricordare gli anni difficili del collegio. Qui è evidente che da Umberto Eco non è rematico. Ma allora la frase attiva parrebbe equivalente per quanto riguarda l’articolazione testuale (Umberto Eco ha scritto questo romanzo per ricordare…). Eppure, una differenza si coglie: essa sta nell’attenzione riportata sulla componente Questo romanzo nella sequenza con frase passiva: la funzione di tema comporta un incremento di attenzione su un elemento, che verrà in seguito determinato dal rema.

d) Ma è possibile anche una struttura come la seguente: Sono stati sequestrati cinquanta chili di cocaina. Qui l’agente è cancellato – dal co-testo è recuperato come i carabinieri / le forze dell’ordine ecc. Tuttavia, l’elemento rematico – cinquanta chili di cocaina – è il medesimo della frase attiva – I carabinieri hanno sequestrato cinquanta chili di cocaina.

Ci siamo limitati ad alcuni cenni su certe strategie adatte a segnalare elementi rematici, o tematici. Delle numerose altre qui non considerate, ricordiamo l’uso di certi avverbi: il restrittivo solo, il rafforzativo proprio che, p.es., in Solo Luigi ha passato l’esame / Proprio tuo nonno è stato arrestato segnalano che il soggetto è rematico. Vi è poi una costruzione interessante, chiamata ci presentativo, che introduce un rema articolato in due momenti: il primo momento è chiamato da Rigotti 1993 “rema cataforico” (“che rinvia al seguito”) e annuncia il “compimento di rema”. Nell’esempio C’è un cane che è entrato in giardino, un cane è rema cataforico, entrato in giardino è il compimento di rema. Questa struttura non va confusa con la struttura presente in Nella nostra casa ci sono molte stanze, che è un ci “esistenziale”, e corrisponde al costrutto ingl. There is / are (There are many rooms in our house – dove il costrutto è rematico e precede l’elemento non rematico in our house). L’uso del ci presentativo in italiano si osserva soprattutto quando il soggetto ha

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un articolo indeterminativo, e come tale introduce un elemento nuovo – cioè non dato nel co-testo anteriore.

I ruoli argomentativi13

Un enunciato distribuisce il suo apporto comunicativo su almeno tre livelli: il contenuto proposizionale, la illocuzione o funzione pragmatica, la posizione nella strategia argomentativa. Il “contenuto proposizionale” è la porzione di senso che serve per descrivere “situazioni”. Per “situazione” si intende, a un di presso, l’espressione di una “scena” secondo una certa prospettiva14. Per esempio, immaginiamo di vedere un signore recarsi all’edicola vicina a casa per acquistare un quotidiano – naturalmente “politically correct”. Il rivenditore saluta e sorride; dopo aver visto il denaro in mano all’acquirente sorride ancora di più, riceve i soldi e consegna il quotidiano. Potremmo scegliere una certa prospettiva e dire: “Il signor Rossi ha acquistato la Repubblica”. Non si è parlato né del rivenditore, né del denaro passato di mano, né dell’edicola. Avremmo potuto dire “Alfredo ha venduto un’altra copia del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari”. La prospettiva sarebbe mutata, ma la scena “di riferimento” non sarebbe cambiata (posto che Alfredo sia l’edicolante). La situazione è la “messa in prospettiva” di un aspetto di una scena. La situazione è descritta nella proposizione. Parliamo peraltro di contenuto proposizionale e non semplicemente di proposizione. Occorre infatti evitare il rischio del parallelismo “un enunciato – una proposizione”. Osserva in proposito il linguista americano Ronald W. Langacker:

The correlation between […] clauses and components of meaning is at best imperfect […] While the surface clauses of a complex sentence almost invariably correspond to semantic propositions, not every semantic proposition is realized as a separate clause in surface structure15.

13 Cfr. S. Stati, Le transphrastique, PUF, Paris 1990. 14 Le nozioni sono sviluppate da Charles Fillmore, cfr. The case for case reopened, in Types of

lexical information, F. Kiefer ed., Reidel, Dordrecht 1979. 15 Ronald W. Langacker, Language and its structure, Harcourt Brace Jovanovich, New York

19732, p. 109. Langacker parla di sentences. Bisognerebbe invece parlare di utterances, di enunciati.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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Prendendo come esempio l’enunciato Pete fainted after the nurse took his temperature. Langacker osserva che

The conceptual structure of this sentence [sic; si legga utterance] involves at least three separate proposition, that Pete fainted, that the nurse took his temperature, and that the first of these events followed the second.

Però nell’enunciato vi sono soltanto due componenti frasali: Pete fainted e after the nurse took his temperature. A questo punto, Langacker osserva che la parola after da sola “conveys the meaning of one proposition; this word is part of a clause, but it is not a clause in its own right”. Vi sono dunque parole che manifestano tutta una componente proposizionale implicita (after = “the first event is following the second”). Allo stesso modo, osserva sempre Langacker, è possibile considerare le funzioni pragmatiche come il significato di enunciati di livello superiore, che vengono facilmente individuati nell’interpretazione: Chiudi la porta! equivale secondo lui a “Ti ordino di chiudere la porta” e “Ti ordino di…” è un enunciato di livello superiore che viene segnalato dall’intonazione e dal tipo di frase iussivo. Questa ultima osservazione è certo interessante. Bisogna tuttavia far presente che la funzione pragmatica non è indicata in modo univoco dalla struttura linguistica: nel caso considerato può essere “Ti ordino di …”, oppure “Ti supplico di…”, “Ti esorto a …” e molte ancora. È interessante considerare ancora la seguente affermazione di Langacker:

We see, then, that the conceptual structures of sentences are often more complex than their surface structures would indicate. Semantic components that could be expressed as separate clauses sometimes surface instead as smaller units, or have no direct surface realization at all. In fact, it is not unreasonable to speculate that every sentence has a complex conceptual structure with more than one component proposition, even though many sentences are noncomplex on the surface16.

A ben vedere, molte proposizioni raggiungono la “superficie” a fatica: vengono manifestate da un solo elemento. Per esempio, in I soccorritori li hanno fortunatamente raggiunti, l’espressione fortunatamente può essere parafrasato con un enunciato di livello superiore È stata una fortuna che … In altre parole: fortunatamente ha per contenuto una proposizione, che in parte rimane implicita.

16 p. 110.

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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Vediamo dunque che, dato un enunciato, non è data una sola proposizione. Per questo, si preferisce, di solito, usare il termine contenuto proposizionale per riferirsi a tutta quella porzione del senso che descrive situazioni.

***

È rimasto in ombra, finora, il livello dei ruoli argomentativi, cui dedichiamo ora una breve nota, e facciamo riferimento particolare alla concezione del linguista rumeno Sorin Stati (Le transphrastique, Presses Universitaires de France, Paris 1990). Tale livello riguarda la capacità di un enunciato di contribuire alla dinamica della persuasione o della dissuasione. A questo livello, non si tratta di informare, ma di convincere. Si può organizzare il testo per informare, per domandare ecc., ma anche per persuadere: si tratta di due livelli diversi di organizzazione del senso. E la persuasione è congrua (va “d’accordo”) con l’informatività: un’informazione presentata in modo convincente ha maggiore incisività. Per i classici (ma anche per la tradizione britannica, si veda p.es. Adam Smith), l’argomentare, il persuadere è strumento della verità17. La funzione pragmatica è compiuta in una sequenza, è una proprietà di un enunciato: è un’azione compiuta con quell’enunciato. Invece, il ruolo argomentativo è una relazione fra sequenze. Non basta una sola sequenza: ne occorrono almeno due. Il “ruolo” è un “concetto relazionale”18: p.es. Dorme perché è stanco contiene una sequenza – perché è stanco – che giustifica dorme. Ma perché è stanco ha il ruolo di “giustificazione” grazie al legame con dorme. Se tale legame non ci fosse non si avrebbe questo specifico ruolo argomentativo. I ruoli argomentativi sono di tipo positivo – se servono a sostenere una tesi – o di tipo negativo, se servono a combatterla.

17 La modernità ha scisso i due livelli, e ritiene che la persuasione allontani pericolosamente

dall’informatività, quasi a dire che dietro i procedimenti della argomentazione vi sia sempre l’inganno: vi può certo essere, e in tal caso si tratta di manipolazione.

18 Sorin Stati, Le transphrastique.

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Ruoli positivi

1) l’assenso è tipicamente dialogico: A enuncia una tesi (Fa freddo oggi) e B la convalida (Vero), oppure dichiara di essere d’accordo (Sono del tuo parere);

2) la giustificazione sostiene una tesi portando argomenti a favore, oppure prepara una conclusione. Di solito è una mossa che si compie tipicamente nel monologo: Luigi è arrivato. Sento il rumore del suo fuoristrada (la seconda sequenza è argomento a favore della prima, che prende ruolo di tesi). Oppure: Sento abbaiare il doberman di Luigi. Avrà azzannato il postino, come al solito. Qui la prima sequenza è un argomento a favore della seconda, che prende il ruolo della conclusione. Congiunzioni come perché, dal momento che ecc. sono tipici segnali della giustificazione.

3) La concessione è un accordo provvisorio che prepara una obiezione. A dice: Che peccato. Oggi fa così freddo… B replica: Hai ragione. Fa freddo, però c’è un sole magnifico. Nella replica di B compare un assenso (Hai ragione) seguito da una concessione (Fa freddo,…), che inizialmente si può interpretare come un ulteriore assenso, rafforzativo di Hai ragione. Tuttavia, esso è seguito da una obiezione: però c’è un sole magnifico (sull’obiezione si veda in seguito).

Ruoli neutri

4) La tesi e la conclusione – appena incontrati – sono i due ruoli ai quali fanno riferimento tutti gli altri.

Ruoli negativi

5) Il contrario dell’assenso è la rettifica, pure tipicamente dialogica. La rettifica è una tesi che cancella, annulla un’altra tesi. A dice: Oggi è lunedì. B ribatte: Oggi è martedì!

6) L’obiezione, tipicamente dialogica, è il portare un argomento contrario a una tesi. A dice: Oggi è lunedì. B replica: Ma se domani è sabato! La sequenza proferita da B ricorda (funzione pragmatica) che sabato non può seguire a lunedì, dunque è un argomento contrario alla tesi Oggi è lunedì. È

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Capitolo secondo – Una nota di pragmatica linguistica

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anzi un argomento a favore della tesi contraria Oggi non è lunedì. (Oggi non è lunedì. Infatti, domani è sabato).

7) La contestazione – ruolo tipicamente dialogico – è la ripresa in forma negativa di una tesi sottoposta ad attacco. A dice: Fa freddo. B replica: Falso / No / Non sono d’accordo. Di solito, la contestazione è seguita da una rettifica. A dice: Luigi è laureato. B replica: Falso. È solo ragioniere. A controreplica: Vero, è solo ragioniere, però sta per comprare la Fiat. Nella replica di B troviamo una contestazione seguita da una rettifica (è solo ragioniere, che cancella è laureato). Nella controreplica vi è un assenso (Vero) seguito da una concessione (è solo ragioniere…) seguito da una obiezione (però sta per comprare la Fiat).

8) Infine, la critica è mossa direttamente al parlante, più che al contenuto proposizionale. A dice: Non ci sono più le stagioni di una volta. B ribatte: Ti sbagli. Fa freddo come è normale in inverno. La replica di B è aperta da una critica (Ti sbagli) seguita da un’obiezione. A dice: Ho pagato io tutti debiti di gioco della nonna. B replica: Menti. È falso. Ha pagato quasi tutto la zia. Non si dicono le bugie. La replica di B contiene una accusa (tipo di critica: Menti) seguita da una contestazione (è falso) e da un’obiezione (Ha pagato quasi tutto la zia), con rimprovero finale (non si dicono le bugie, che è un’altra critica, compiuta con un enunciato che ha funzione pragmatica di rappel, richiamo a un contenuto noto).

Questi sono alcuni dei principali ruoli argomentativi, così come sono individuati da Sorin Stati. Si potrebbe osservare che, a volte, una sequenza è implicita, l’altra è esplicita e l’interpretazione ammette un ruolo argomentativo. Per esempio, A dice: Ho comprato una Rolls per il nonno. B replica: L’ha comprata lo zio! Ed è implicita una critica (del tipo: Menti!).

***

Con queste note, la complessità dell’organizzazione del senso nel testo è solo accennata. Tuttavia può essere sufficiente per far prendere coscienza dell’irriducibilità del senso alle strutture linguistiche. Non tutto il senso di un testo è manifesto, è esplicitato. Parte dell’apporto comunicativo è inferito, è ricavato per ragionamento (Usciamo? – Piove). Un’altra parte della comunicazione è action langagière, azione compiuta con le espressioni, e di tale

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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azione si coglie la direzione (la forza) solo considerando la posizione e gli scopi degli interlocutori (Ci rivedremo, prima o poi: promessa o minaccia?):

[…] La signification des phrases ne leur vient pas des mots qui les composent, mais du ‘discours’ où elles surviennent: c’est-à-dire des rapports qui s’instaurent entre les […] constituants du discours. Prétendre que les phrases ont une signification au niveau du langage, prétendre juger de leur validité sans s’écarter de ce que l’on dit, c’est méconnaître qu’elles ont aussi un sens, c’est méconnaître leur fonction qui est non pas de se signifier elles-mêmes, mais de signifier ce dont elles parlent, celui qui les dit, ce que l’on a pu dire déjà de ce dont elles parlent, et celui ou ceux à qui elles s’adressent”19.

La langue propone, il parlante dispone.

19 Robert Franck, Langue, discours et significations, Louvain, p. 321.

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PARTE SECONDA

LA DIMENSIONE EMPIRICA

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CAPITOLO TERZO

Appunti di sociolinguistica

La lingua, in quanto ha valenza sociale, è un fenomeno storico, legato alla realtà in cui è impiegata. La lingua è sensibile alla variazione di certi fattori della realtà sociale. Possiamo dire che ogni lingua è in realtà un complesso repertorio di varietà, che fanno riferimento ad una varietà chiamata standard. La varietà standard è quella che viene descritta in grammatiche e in vocabolari, viene usata come lingua ufficiale ed amministrativa e ha tutte le funzioni sociali di prestigio. La varietà standard è la norma di riferimento. In molte riflessioni sul linguaggio si fa riferimento alle strutture viste entro il sistema standard delle diverse lingue. Non di rado, si tralascia di precisare che la loro configurazione è suscettibile di variazione, a seconda delle circostanze concrete in cui ha luogo la comunicazione verbale. La variabilità sociale della lingua emerge soprattutto nell’oralità. Lo scritto, invece, è sede privilegiata dell’uso della varietà standard.

1. Assi di variazione

Introduciamo a questo punto alcune nozioni intorno alla varietà del repertorio di una lingua1. Nella socio-linguistica (studio della lingua come strumento che manifesta e che costituisce rapporti sociali) rientrano varie prospettive e varie sotto-discipline. Qui consideriamo la prospettiva variazionista: essa studia la variazione linguistica in rapporto alla variazione di fattori sociali. Una prima, semplice classificazione articola le varietà del repertorio linguistico nei tipi seguenti2:

1 I riferimenti fondamentali sono Brigitte Schlieben-Lange, Soziolinguistik, Kohlhammer,

Stuttgart 19913 e G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Bari 1995.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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a) diatopico: fattore della variazione è il luogo (tópos). In diatopia distinguiamo, per l’italiano, un dialetto (p.es. il bergamasco, come una varietà dialettale riconducibile alla comunità urbana della città di Bergamo), un gruppo di dialetti (o koiné dialettale : p.es. il “bergamasco” come koiné della provincia bergamasca), un italiano regionale e un italiano standard.

Si osservi che il termine dialect ha valenze diverse a seconda delle lingue considerate. Negli USA, indica la varietà regionale della lingua nazionale. Lo stesso vale, ad un di presso, per gran parte del territorio britannico e francofono; ma in Francia vi sono ancora diversi patois (dialetti, a volte strutturalmente distanti dal francese: si vedano le parlate franco-provenzali e provenzali). La situazione tedesca, invece, è analoga a quella italiana: i dialetti sono distanti dalle varietà regionali della lingua nazionale. La massima uniformità in diatopia è raggiunta dall’ungherese, che non presenta variazioni di rilievo nello spazio;

b) diastratico (da greco strátos, “popolo”): esso emerge là dove certe scelte espressive sono rapportate a un gruppo sociale: vi sono group languages, varietà di una cultura underground (“linguaggi della mala” e così via);

c) diafasico (cfr. gr. phásis, “espressione”; sull’asse diafasico si collocano le variazioni del modo di esprimersi): tra i fattori della variazione vi sono il rapporto fra gli interlocutori (familiare, informale, formale, freddo) e il rapporto degli interlocutori verso l’argomento del discorso (linguaggi per scopi speciali, caratterizzati ciascuno da terminologie specifiche; per esempio, nella lingua del discorso giuridico si distinguono terminologie legate alla lingua del diritto amministrativo, alla lingua del diritto processuale civile ecc.; vi sono poi caratteristiche sintattiche e morfologiche che, soprattutto nel discorso scritto, si presentano tipicamente in testi di un

2 La terminologia diatopico, diastratico, diafasico è introdotta da Eugenio Coseriu: egli parla

di “Unterschiede in der geographischen Ausdehnung oder diatopische Unterschiede, Unterschiede zwischen den sozial-kulturellen Schichten der Sprachgemeinschaft oder diastratische Unterschiede; und Unterschiede zwischen den Typen der Ausdrucksmodalität oder diaphasische Unterschiede” (Structure lexicale et enseignement du vocabulaire, tr. ted. in Einführung in die strukturelle Betrachtung des Wortschatzes, Narr, Tübingen 1970, p. 32). Il termine diatopico è proposto da Alberto Mioni (Quelques aspects de la grammaire de variation: applications italiennes, cit. in B. Schlieben-Lange, Soziolinguistik, p. 158).

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Capitolo terzo – Appunti di sociolinguistica

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certo ambito specialistico: si veda, per esempio, l’uso del passivo nelle descrizioni delle esperienze di laboratorio; l’uso della terza persona del presente indicativo in gran parte dei discorsi specialistici è legata all’esigenza di generalizzazione descrittiva; altri fenomeni ancora si caratterizzano in rapporto con classi concrete di testi specialistici di vario ambito);

d) in prospettiva sociolinguistica si può studiare anche il fattore diamesico: alla variazione del méson – la sostanza impiegata – fonica (parlato) vs. grafica (scritto) – può essere correlata una variazione delle scelte espressive.

In generale, i modelli grammaticali elaborati in linguistica sono ipotesi sulla struttura sintattica della lingua scritta. La lingua parlata, invece, ha una «grammatica» che organizza le unità del discorso in blocchi comunicativi (fra gli elementi di una sequenza di testo vi è diverso grado di rilevanza): in particolare, la prosodia (ritmo, durata, pause, andamento melodico, intensità) svolge funzioni essenziali nella delimitazione delle unità discorsive. Per questo, una successione di espressioni come ecco, sì, dunque, ma... direi, dal punto di vista dell’analisi del parlato è un segmento del discorso con precise funzioni (mantenere il turno, prendere tempo ed altro ancora); la sintassi dello scritto vi vedrebbe soltanto un mucchio di parole cui corrisponde un cumulo di significati inarticolati. È evidente che la ragione di tali scelte sfugge alla descrizione sintattica della grammatica tradizionale. «Deviante» è allora non la produzione linguistica orale, bensì la teoria grammaticale, che pretende di spiegare la sintassi senza considerare il fenomeno linguistico nella totalità dei suoi fattori. Possiamo svolgere alcune osservazioni: – un parlante ha una competenza attiva di più varietà del repertorio; non di

rado ha una competenza passiva di ulteriori varietà (le sa riconoscere, ma non le usa: p.es. si può avere competenza attiva di una varietà di italiano settentrionale, e avere competenza passiva di altre varietà diatopiche; così, anche chi usa mal di testa sa riconoscere e comprende l’espressione mal di capo; oppure, un lombardo sa riconoscere l’uso del passato remoto come marca di varietà diatopica non settentrionale; egli tuttavia non usa il passato remoto);

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– ogni lingua è in realtà una complessa rete di sotto-sistemi, corrispondenti alle varietà del repertorio.

– Il quadro è reso ulteriormente complesso dal fatto che i confini della varietà sono sfumati. Varietà si può considerare come un “tipo esemplare” entro una porzione – non ben delimitabile – del continuum pluridimensionale di variazione. Più agevole individuare assi di variazione (diatopico, diafasico, diastratico) che delimitare le varietà (Se l’avessi saputo, l’avrei detto è più formale di Se lo sapevo lo dicevo. Ma come si può caratterizzare la variazione tra Se lo sapevo, l’avrei detto e Se lo sapevo, lo dicevo? Entro una o più varietà?).

– Anche in un semplice segmento conversazionale, soprattutto quando è parlato spontaneo, non elaborato, il locutore può alternare una varietà all’altra (si parla in tal caso di code-switching), come quando una conversazione avviata in italiano prosegue in dialetto. Il locutore può anche mescolare una varietà all’altra, e si avrà un code-mixing (enunciazione mistilingue): p.es. parole del dialetto si possono inserire in una conversazione svolta in italiano regionale.

– Le varietà si intersecano e si sovrappongono: una varietà può collocarsi all’incontro di più assi di variazione. Per esempio, l’uso del dialetto basso tedesco è avvertito come una varietà diafasica familiare, informale, non adeguata alla variazione verso l’alto in diafasia. Una gamma maggiore verso l’alto ha invece, lo Schwyzertytsch; questo vale anche per il veneziano. Un dialetto può avere inoltre una valenza diastratica: può avvenire che, in presenza di uno o più estranei, gli individui ricorrano alla parlata che li “connota” come appartenenti ad una comunità ristretta; il dialetto contribuisce alla “in-groupness”, ossia alla dinamica che accresce la coesione verso l’interno e l’esclusione verso l’esterno3.

2. Lingua e dialetti

Una “lingua” e un “dialetto” non si distinguono da un punto di vista strutturale: si tratta pur sempre di sistemi, ossia di insiemi organizzati di elementi, fatti per essere gestiti da una comunità di parlanti. In generale,

3 Su questa categoria, si veda B. Schlieben-Lange, Soziolinguistik, pp. 38-40.

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Capitolo terzo – Appunti di sociolinguistica

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possiamo dire che una lingua è un “dialetto che ha fatto carriera”4. Vittore Pisani propone di considerare “lingua” un “tipo esemplare”5 di una varietà di dialetti (è forse la definizione più realistica e rispettosa della realtà). Una lingua è una varietà che ha un elevato grado di “elaborazione” (Ausbau), ossia è la varietà standard. In quanto tale, essa è codificata (ha grammatiche e vocabolari), è lingua ufficiale, svolge tutte le funzioni sociali di prestigio, “copre” tutte le varietà che ad essa fanno riferimento e non è “coperta” da alcun’altra varietà del suo repertorio. Fra di loro, le “lingue” sono in relazione di “distacco” (Abstand) maggiore di quanto non siano i dialetti fra loro. Guardando alla situazione dialettale su un territorio, si osserva un continuum; osservando la distribuzione delle lingue, si nota una realtà discreta, segmentabile. Così, francese e italiano standard sono in distacco, mentre i dialetti dei confini sono in un continuum di progressiva differenziazione6.

3. Bilinguismo, diglossia, dilalia, dialettia sociale

Un breve cenno a queste quattro categorie è utile per comprendere le caratteristiche dei repertori di varietà di molte lingue. Seguiamo qui la classificazione operata da Gaetano Berruto7: a lui dobbiamo tra l’altro l’introduzione della categoria denominata dilalia, nella quale egli fa rientrare casi che molti annoverano fra tipi “marginali” di diglossia. Il bilinguismo sociale (che comprende per convenzione anche le situazioni di plurilinguismo sociale) si ha quando una comunità gestisce due o più lingue che hanno elevata “elaborazione” e sono in rapporto di “distacco”. Il bilinguismo può essere monocomunitario – come in Lussemburgo con francese, tedesco, lussemburghese – oppure bicomunitario, come in Belgio o in Sud Tirolo / Alto Adige: qui vi sono due comunità autonome, e al loro interno gli individui di ciascuna comunità comunicano con la propria lingua (un

4 Così Berruto (Fondamenti di sociolinguistica). 5 Si vedano le osservazioni in V. Pisani, Introduzione allo studio delle lingue indoeuropee,

Rosenberg & Sellier, Torino 1985. 6 Su Ausbau e Abstand si veda Kloss 1976, citato in bibliografia da Berruto, Fondamenti. 7 Seguo qui le distinzioni operate da G. Berruto, Fondamenti, soprattutto i capitoli dedicati

alla “Sociologia del linguaggio”.

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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proprio repertorio di varietà), mentre ricorrono alla lingua degli “altri” quando la comunicazione valica i confini delle comunità. Un terzo tipo di bilinguismo si ha poi in territori come il Québec, dove la comunità di lingua francese “québecoise” è compresa entro la comunità anglofona. I francòfoni, all’esterno, usano l’inglese. La diglossia si rileva quando due codici si usano in domini distinti (cioè non si sovrappongono funzionalmente), e uno tiene i domini “alti”, l’altro quelli bassi; la lingua “alta” è codificata come uno standard e non è lingua della conversazione quotidiana, la lingua “bassa” ha un grado basso di codificazione. Inoltre, i due codici sono fra loro distanti strutturalmente. Il caso tipico è dato dalla diglossia fra il tedesco standard e il dialetto (lo “Schwyzertytsch”) nella Svizzera. Altro caso tipico si ha a Haiti, con il francese e il creolo (su questo termine, si veda anche in seguito). La dilalia è simile alla diglossia: vi è distanza strutturale e i domini alti sono coperti da una lingua codificata. Tuttavia, vi è una parziale sovrapposizione funzionale: i casi sono molti, soprattutto in Italia (con l’esclusione della Toscana e forse di Roma) e in Germania. La lingua “alta” è l’italiano standard, o l’italiano regionale, che è anche lingua della conversazione quotidiana; la lingua “bassa” è il dialetto del territorio osservato. Lingua e dialetti possono a volte sovrapporsi ed è frequente la commutazione di codice. La dialettia sociale è simile alla dilalia, ma fra i due codici vi è vicinanza e continuità strutturale; in altre parole, la lingua bassa non è avvertita come un codice “diverso” dalla lingua alta. È il caso del rapporto fra italiano e varietà locali in Toscana (e forse a Roma); ma la dialettia sociale caratterizza anche il rapporto fra l’inglese e i suoi dialects, tra il francese standard e molte varietà locali della lingua nazionale, come pure tra l’ungherese standard e le parlate locali.

4. Norma e varietà standard

Il sistema è dinamico, e la sua organizzazione aderisce alle circostanze sociali della comunicazione. Si hanno così diversi sottocodici, a seconda delle varietà diafasiche, diamesiche, diatopiche e diastratiche della lingua sul territorio, nella società, nelle scelte individuali. In questa prospettiva, la norma non è una formulazione di precetti: se mira ad individuare un modello linguistico

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Capitolo terzo – Appunti di sociolinguistica

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chiamato italiano standard, la norma è piuttosto la gestione ragionevole di una varietà linguistica adatta a svolgere le funzioni sociali di prestigio e capace di assorbire apporti di altre varietà, senza peraltro che le sue funzioni specifiche ne siano complessivamente pregiudicate. La norma ha una portata socio-linguistica, là dove si considera il ruolo dei fattori sociali nella variazione degli usi linguistici. Ma, una volta scelta una varietà linguistica data, la norma ne descrive il sistema tendenziale8, ben sapendo che il sistema cambia a seconda della varietà di lingua (italiana) osservata: una varietà substandard in diafasia («Se lo sapevo lo dicevo») non è organizzata come il modello standard. Inoltre, la norma dell’italiano standard può essere modificata nel tempo, da scelte che partono da una varietà linguistica e si affermano nell’uso generale, fino ad essere recepite dalla grammatica descrittiva. La norma socio-linguistica può servire per motivare variazioni della norma grammaticale. Si riscontra, negli ultimi decenni, una progressiva diminuzione delle distanze tra le varietà “alte” e quelle “basse” sull’asse diafasico e fra l’uso comune e le varietà marcate sull’asse diastratico9. Così, ad esempio nella varietà cosiddetta dell’italiano “popolare”, sono accolte scelte espressive altrimenti sanzionate come “volgari”: molte forme già considerate “parolacce” sono ormai usurate al punto che, non di rado, hanno perso la valenza originaria. Del pari, nell’uso comune compaiono forme che originariamente appartenevano ad una varietà diastratica: è il caso di molte espressioni provenienti dal linguaggio dei tossicodipendenti (Sono fuso, scoppiato; è fuori di testa ecc.)10. Anche in questo caso la valenza originaria è persa.

8 Per una descrizione delle strutture nell’italiano odierno si veda Introduzione all’italiano

contemporaneo, 2 voll., A.A. Sobrero ed., Laterza, Bari 1993. 9 In proposito, si vedano gli Atti dell’ottavo Congresso della Società di Linguistica Italiana

(Bressanone, 1974): Aspetti sociolinguistici dell’Italia contemporanea, R. Simone – G. Ruggiero ed., Bulzoni, Roma 1977.

10 Per una ricostruzione dei percorsi di queste espressioni dal gergo alla varietà di italiano popolare chiamata “linguaggio giovanile”, si veda E. Banfi – A.A. Sobrero, Il linguaggio giovanile degli anni Novanta, Laterza, Bari 1992.

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Nota. – Le varietà non standard in inglese

Molte lingue sono pluricentriche, ossia hanno più di uno standard (più di una varietà pienamente elaborata)11. Questo si verifica soprattutto quando una lingua è riconosciuta come ufficiale in diversi Stati: è il caso dell’inglese, del tedesco (Germania, Austria, Svizzera), del francese (Francia, Svizzera, Belgio, Canada), del neerlandese (olandese, fiammingo), dello svedese (che è lingua ufficiale anche in Finlandia). L’inglese, in particolare, è lingua pluricentrica in grado maggiore delle altre citate: vi è lo standard britannico, quello americano, vi è lo Hiberno-English (Irlanda), l’inglese australiano (che p.es. impiega shewn come “Past participle” di show: I have shewn invece di I have shown), l’inglese nigeriano, quello del Sud-Africa, l’inglese dell’India, quello di Giamaica e le varietà di altri Stati, un tempo colonie britanniche. In diversi Stati, quali, per esempio, il Sud-Africa e l’India, l’inglese è affiancato da altre lingue ufficiali.

5. Intorno alle caratteristiche dei pidgin e dei creoli

Discutendo lo statuto di lingue come l’inglese o il francese nelle ex-colonie dei continenti africano, americano, asiatico, è necessario considerare quegli idiomi caratterizzati come pidgin o come creoli12. Il pidgin è un sistema di comunicazione limitato a certe funzioni, sorto in situazioni di contatto linguistico e usato da persone che non parlano la stessa lingua. Il pidgin non rappresenta la lingua nativa. Quando vengono meno le funzioni – l’interazione in settings limitati e con temi limitati – viene meno

11 Il concetto di pluricentricità è discusso da Michael Clyne (Pluricentric languages,

Mouton de Gruyter, Berlin 1991). Si veda anche U. Ammon, Die deutsche Sprache in Deutschland, Österreich und der Schweiz, de Gruyter, Berlin 1995.

12 La bibliografia sul tema è assai vasta. Tra le monografie più significative è P. Mühlhäusler, Pidgin and Creole Linguistics, Blackwell, Oxford 1986; J. Holm, Pidgins and Creoles, 2 volumi, Cambridge University Press, Cambridge 1988-1989; J. Arends, P. Muysken, N. Smith, Pidgins and Creoles: An Introduction, Benjamins, Amsterdam/Philadelphia 1995. Una rassegna accurata dei diversi modelli esplicativi dei fenomeni di pidginizzazione è svolta nella Tesi di laurea di Tommaso Maria Milani, Per un bilancio del “Russenorsk”, Anno Accademico 1996/97 (relatore Giovanni Gobber).

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Capitolo terzo – Appunti di sociolinguistica

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anche il pidgin (o perché vengono meno le ragioni di comunicazione o perché una comunità impara la lingua dell’altra). Dedichiamo una nota al concetto di setting. Nella prospettiva aperta dalle ricerche di John Gumperz (Discourse strategies, University Press, Cambridge 1982; si veda inoltre B. Schlieben-Lange, Soziolinguistik, pp. 44-45) si distinguono tre fattori: – setting (il luogo dell’interazione comunicativa, per esempio un porto

marittimo, un negozio, un ambiente scolastico), – situation (costruita dalle persone che interagiscono) e – event (costruita intorno a un certo tema su cui verte l’interazione) P.es. una conversazione al bar svolta fra commercialisti sulla sconfitta dell’Inter nella partita di Champions): il setting è il bar; la situation è il fatto che al bar si svolge un dialogo fra due commercialisti; l’evento è il fatto che il dialogo fra commercialisti al bar riguarda la sconfitta dell’Inter. Il processo di formazione di un pidgin ha tre aspetti: – riduzione: nei pidgin vi sono meno strutture linguistiche che nel sistema di

una lingua storica (come l’inglese, l’italiano ecc.); – convergenza: la struttura di una delle due lingue che entrano in contatto

viene trasferita sull’altra (che ne fa però una ripresa solo parziale); – semplificazione: le irregolarità sono tolte. Per economia, si evitano le

ridondanze (p.es. in he works il pronome he e il morfo -s informano che il verbo è alla terza persona: vi sono dunque due elementi che convogliano una sola informazione e questa può essere considerata una ridondanza. In un’ipotetica pidginizzazione si potrebbe togliere -s: l’informazione sarebbe allora affidata a he soltanto) e le varianze (gli infiniti in -are, -ere, -ire si possono ricondurre a un unico morfo per le tre classi, p.es. -are).

La riduzione è l’effetto di un’acquisizione incompleta, di una riduzione di funzioni sociolinguistiche. La convergenza e la semplificazione sono effetti di un’acquisizione imperfetta. I pidgin si possono caratterizzare come stabili oppure, soprattutto nella fase di formazione, come instabili. Essi inoltre sono ristretti oppure espansi:

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– sono ristretti se il loro uso non va oltre gli ambiti comunicativi ridotti per i quali sorgono. Quando le circostanze che motivano la nascita e l’esistenza di un pidgin vengono meno, muore anche il pidgin ristretto;

– un pidgin si espande quando diventa di vitale importanza in una data area e viene usato al di là delle funzioni che lo hanno fatto sorgere.

I pidgin hanno tendenzialmente una sola base (la lingua che ha il ruolo fondamentale). Le maggiori sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese, l’olandese13. In base alle circostanze storico-geografiche distinguiamo: – pidgin “marittimi”; – pidgin “commerciali”; – lingue interetniche di contatto, legate p.es. alla comunicazione politica o

alle cerimonie religiose fra persone di lingue diverse; – work force pidgins, che erano usati nella comunicazione fra

l’amministrazione coloniale e la forza lavoro o entro gli esponenti di una forza lavoro multietnica, p.es. gli schiavi deportati dall’Africa verso le Americhe.

Quando un pidgin espanso si assesta, può aver luogo una fase di ulteriore espansione. Il bagaglio lessicale aumenta, cresce il numero di funzioni sociali e il pidgin si avvicina allo statuto di una lingua non standard. A quel punto, può avvenire che, entro una comunità che gestisce un pidgin espanso, emerga una generazione che acquisisca tale idioma come prima lingua. Il pidgin evolve e diventa un creolo.

Nota – Il termine creolo

Pare che in America Centrale il termine crioulo – di provenienza portoghese – indicasse, in epoca moderna, le persone appartenenti alla comunità dei

13 La citata Tesi di laurea di T.M. Milani è invece dedicata a un pidgin ristretto a base doppia (le due lingue su cui si costruisce sono il russo e il norvegese). Le ricerche fondamentali sul Russenorsk sono contenute in I. Broch, E.H. Jahr, Russenorsk – et pidginspråk i Norge, Novus Forlag, Oslo 1984. Per altra bibliografia, si veda T.M. Milani, Per un bilancio del “Russenorsk”.

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Capitolo terzo – Appunti di sociolinguistica

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colonizzatori di origine europea; probabilmente, la parola ha la radice del termine italiano cristiano, preso nella valenza di “persona”. Possiamo dunque considerare il creolo come un pidgin espanso che si è evoluto fino a diventare lingua materna di una generazione entro una comunità. In diverse comunità linguistiche (in particolare nelle Antille, a Haiti, in Giamaica, nella Martinica, nel Golfo di Guinea), una varietà creola è la lingua “bassa”, mentre la lingua “alta” (cioè che copre i domini di prestigio) è una lingua come p.es. il francese o l’inglese. Di solito, la lingua “alta” è un’evoluzione della lingua di base, che a suo tempo diede luogo al pidgin, poi evoluto in creolo. Il creolo può assestarsi e guadagnare posizioni, quando maturano le condizioni affinché diventi la lingua di una comunità (e cresce la contrapposizione polemica con la lingua dei colonizzatori di un tempo). Può anche avvenire l’inverso. Per l’influsso del modello di prestigio, il creolo – varietà “bassa” – inizia allora un lento e costante avvicinamento allo standard. Alcuni studiosi hanno sviluppato un modello che spiega questo processo di avvicinamento allo standard (la lingua di base dell’originario pidgin) come una decreolizzazione. Si sono individuate le tappe seguenti: – punto di partenza è il basiletto – la parlata creola; – si sale verso il mesoletto – una parlata mediana tra creolo originario e varietà

non standard della lingua base – – per giungere all’acroletto, ossia alla parlata che si colloca più in alto nel canale di

decreolizzazione. – L’acroletto non si distingue da una varietà non standard della lingua base. Così,

per esempio, in passato si è discusso – ma si discute tuttora – intorno allo statuto della varietà di inglese usato – con connotazione diastratica – dalle comunità afro-americane degli Stati Uniti. Alcuni ritengono che sia un sistema di acroletto, con riferimento alla progressiva integrazione sociale dei parlanti. Questa tesi tuttavia non sembra reggere di fronte all’evidenza che i caratteri tradizionali del cosiddetto “Afro-American English” o “Ebonics” (come l’assenza di -s nella III persona singolare del presente) sono presenti in molte varietà non standard dell’inglese americano. Non vi sarebbe stato un creolo – poi salito verso l’acroletto – ma una gestione di varietà di inglese non standard, condivisa dalle comunità afro-americane e da quelle di origine europea.

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CAPITOLO QUARTO

Geografia storico-comparativa delle lingue, con attenzione alle famiglia indo-europea

In glottologia si considerano alcuni criteri per classificare le lingue. Vi è un criterio detto storico-comparativo, perché dalle somiglianze sistematiche fra più lingue formula ipotesi sulla loro parentela. Vi è poi un criterio tipologico, che considera le somiglianze fra strutture (fonetiche, sillabiche, morfologiche, sintattiche, lessicali, pragmatiche); se vi è somiglianza fra idiomi che – pur non essendo geneticamente imparentati – sono a contatto su un medesimo territorio, si parla di “lega linguistica”. Un caso tipico è dato da una serie di lingue della Penisola Balcanica (in particolare, il greco, il bulgaro, l’albanese e il rumeno): pur appartenendo a famiglie e a gruppi linguistici diversi, esse presentano alcuni tratti strutturali comuni (p.es. l’infinito dei verbi è sostituito da una perifrasi formata da una congiunzione più una forma verbale). In seguito, consideriamo il punto di vista storico-comparativo e proponiamo una semplice descrizione della cartina geo-linguistica d’Europa. Dedichiamo poi alcuni cenni alle lingue di altri continenti. L’esposizione procede in maniera semplificata: si considerano per lo più le lingue standard, i “tipi esemplari” che “coprono” ciascuno un repertorio di varietà. Inoltre, la descrizione tiene conto soprattutto della situazione geo-linguistica odierna. Nel nostro Continente sono rappresentate due grandi famiglie linguistiche: la indeuropea e la uralica, o ugro-finnica.

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1. Le lingue indeuropee nell’Europa odierna

La famiglia linguistica indeuropea viene tradizionalmente1 articolata in diversi gruppi, che qui consideriamo brevemente.

1.1 Le lingue indo-iraniche

Cominciamo con il gruppo indo-iranico, che annovera: – le lingue indeuropee dell’India: fra queste, di più antica attestazione è la

lingua dei libri Veda, che risale al secondo millennio a. C. Nel IV secolo a. C. visse il grammatico Panini, che offrì una compiuta descrizione grammaticale del sanscrito (da sam-skrta, “elaborato”), lo stadio più maturo della lingua letteraria dell’India antica. Fra le lingue indeuropee maggiori parlate nell’India di oggi ci limitiamo a ricordare l’hindi, che è lingua ufficiale, e il bengali;

– le lingue iraniche: la più anticamente attestata è la lingua degli Avesta, il libro sacro dei discepoli di Zarathustra (VI-V sec. a. C.). Fra quelle oggi parlate ricordiamo il persiano, lingua ufficiale dell’Iran, il curdo, il tagiko (parlato in Tagikistan, un’ex-repubblica dell’Urss), il pashto (che insieme al farsi – una varietà del persiano – è lingua ufficiale dell’Afghanistan) e l’osseto (parlato nella caucasica regione dell’Ossezia, oggi divisa in una provincia georgiana e in una repubblica autonoma della Russia);

– nel gruppo indoiranico sono annoverate anche le diverse parlate degli zingari, che costituiscono dunque le lingue indo-iraniche d’Europa2.

1.2 L’armeno

L’armeno, lingua ufficiale della repubblica d’Armenia, posta nel Caucaso e avente per capitale Erevan, è attestato a partire dal V secolo d.C. Prime attestazioni sono traduzioni dei testi sacri della Cristianità. Fino alla prima

1 Un panorama aggiornato è offerto dalla silloge di contributi, curata da Emanuele Banfi, La formazione dell’Europa linguistica. Le lingue d’Europa tra la fine del I e del II millennio, La Nuova Italia, Firenze 1993.

2 Sulla storia linguistica delle comunità zingare e sulla parentela delle loro lingue con lo hindi e il sanscrito si veda G. Soravia, Dialetti degli zingari italiani, Pacini, Pisa 1977 (Profilo dei dialetti italiani a cura di Manlio Cortelazzo, XXII) e il panorama europeo di G. Manzelli, Un caso a sé: le parlate degli Zingari (le lingue indoiraniche d’Europa), in La formazione dell’Europa linguistica, cit., pp. 339-349.

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Capitolo quarto – Geografia storico-comparativa delle lingue, con attenzione alle famiglia indo-europea

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guerra mondiale, la lingua armena era diffusa in tutto l’impero ottomano: infatti, il termine “Armenia storica” non indica il territorio della repubblica d’Armenia, ma la regione attorno al lago di Van, che si trova verso i confini della Turchia con l’Iraq. Della presenza armena in quelle terre si è cancellata ogni traccia: negli anni fra il 1916 e il 1918 fu perpetrato un genocidio, deciso dalle autorità turche ed eseguito da milizie irregolari, per lo più curde. Morirono circa un milione e mezzo di armeni. Da allora, gli armeni di Turchia sopravvissuti al genocidio vivono sparsi per l’Europa occidentale – soprattutto in Francia; molti vivono anche in Italia – e per le Americhe. Peraltro, antiche isole linguistiche armene sono tuttora vive nel Medio Oriente (importanti, dal punto di vista religioso e culturale, quelle della Siria e dello Stato di Israele che, unica democrazia nel Medio Oriente, è un caleidoscopio di lingue e di culture, ben lontano dallo stereotipo di “Stato ebraico”, diffuso presso l’opinione pubblica in Occidente).

1.3 Il tocario o tocarico

Un gruppo isolato era costituito dal tocario, una lingua morta che viene divisa solitamente in due dialetti, chiamati A (tocario dell’est) e B (tocario dell’ovest). Sono attestati in manoscritti di testi buddisti che risalgono alla seconda metà del primo millennio e provengono dal Turfan (Turkestan cinese).

1.4 Lingue anatoliche

Il gruppo di più antica attestazione – ma del tutto estinto – è quello anatolico, con l’ittita (i cui resti sono del secondo millennio a.C.) e il luvio. Altre lingue anatoliche sono il licio, il lidio e il cario, che sono attestate dal primo millennio a.C.

1.5 Il greco

Per la storia culturale della Cristianità d’Oriente e d’Occidente e, di conseguenza, di tutta la cultura europea moderna, sono fondamentali gli idiomi del gruppo greco, soprattutto i dialetti ionico, attico, dorico, eolico. L’attico costituì la base della “lingua comune” (koiné diálektos) diffusasi con l’impero di Alessandro il Grande (IV a.C.). Nel nostro secolo, accanto al dimotikí, che è l’attuale lingua ufficiale scritta e parlata, il greco ha anche una

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Appunti dalle lezioni di linguistica generale

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varietà di lingua “alta”, chiamata katharévusa (la lingua “pura”), che è solo scritta e mantiene caratteristiche arcaizzanti: ha avuto una funzione rilevante nel secolo scorso, con il rinascimento culturale e il sorgere dello Stato nazionale greco, ma viene oggi utilizzata soltanto in ambito ecclesiastico e militare e nei tribunali.

1.6 L’albanese

A se stante è anche l’albanese, che forse è riconducibile a un gruppo chiamato illirico, anticamente rappresentato da altre parlate, fra le quali viene annoverato il messapico, di cui si hanno numerose attestazioni frammentarie nei territori della Puglia meridionale. L’albanese è diviso abitualmente nelle varianti del ghego (al nord dell’Albania) e del tosco (nell’Albania meridionale). Comunità di lingua albanese sono presenti in Sicilia e nell’Italia meridionale, e anche in Grecia. Ma le più forti comunità albanesi fuori d’Albania sono in Macedonia e nel Kosovo, che fa parte del territorio dello Stato serbo: nel Kosovo il 90% circa della popolazione parla albanese come prima lingua.

1.7 Le lingue dell’italia antica. Il latino e le lingue romanze

Il gruppo italico comprendeva anticamente numerosi idiomi attestati sul territorio della nostra Penisola: anzitutto i diversi dialetti latini, dai quali si sviluppa la lingua letteraria di Roma; vi sono poi le varietà dell’osco-umbro3 e attestazioni frammentarie di altre lingue. Dal latino dei primi secoli prima e dopo Cristo, parlato nei diversi territori dell’Impero romano, è sorto il gruppo delle lingue romanze. Con il termine Romània si intende il vasto territorio linguistico delle parlate romanze. La si distingue tradizionalmente in Orientale e Occidentale. Un confine tra i due territorî si pone nelle parlate italiane: a nord della cosiddetta linea Spezia-Rimini vi sono dialetti romanzi occidentali; a sud della cosiddetta linea Roma-Ancona vi sono dialetti romanzi orientali. Le parlate mediane – tra le quali vi è il toscano fiorentino, da cui si è sviluppato l’italiano – costituiscono un’area di sutura fra Románia occidentale e orientale.

3 Per accostare l’osco-umbro e le attestazioni frammentarie di lingue non indeuropee della

Penisola si può cominciare da V. Pisani, Le lingue dell’Italia antica oltre il latino, Rosenberg & Sellier, Torino 1964 (seconda edizione).

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1.7.1 La Romània Orientale

Essa comprende – i dialetti italiani a sud della linea Roma-Ancona; – le parlate latine della penisola balcanica. Gli studiosi distinguono due

gruppi: le lingue dalmatiche e le lingue rumene.

1.7.1.1 Le lingue dalmatiche

La serie delle parlate dalmatiche è romanza orientale, ma in posizione periferica e di raccordo con le lingue romanze occidentali. Sono così chiamate perché si parlavano sulle coste di Dalmazia e nelle isole vicine: si andava dall’isola di Veglia (oggi Krk) a nord fino alle Bocche di Càttaro a sud. Per ultimo si estinse il dialetto vegliota: l’ultimo parlante, Antonio Udina Burbur, di Veglia, morì nel 1898. Ma fra questi dialetti spicca per importanza un idioma utilizzato ancora nei secc. XV-XVI: il dalmato-raguseo, lingua ufficiale della Repubblica di Ragusa, gloriosa città-stato nell’orbita veneziana che fra il Quattrocento e il Seicento sviluppò un’importante letteratura plurilingue (in latino, croato, veneziano e raguseo) e conservò l’indipendenza fino all’inizio dell’Ottocento.

1.7.1.2 Le varietà rumene

Le lingue rumene sono rappresentate soprattutto dal romeno, lingua ufficiale della Romanìa. Il moldàvo, lingua ufficiale dell’omonima repubblica già sovietica, va considerato a tutti gli effetti una variante del romeno letterario. La sua autonomia dal romeno – proclamata dal potere sovietico nel secondo dopoguerra – aveva motivi politici: il governo sovietico doveva attribuire una peculiarità linguistica e culturale alla Moldavia, allora appena sottratta al Regno di Romania, alleato della sconfitta Germania. Nei secoli passati, popolazioni romene si stanziarono in Istria, nelle regioni oggi greche del Meglen (a nord di Salonicco), e del Pindo. Questi idiomi sono chiamati dai glottologi istroromeno, meglenoromeno e aromeno. Sopravvivono in comunità assai ridotte di parlanti. Sono usate per lo più come codici bassi, in situazioni di diglossia con il greco (megleno-romeno e aromeno) e il croato o l’italiano (istroromeno).

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1.7.2 La Romània Occidentale

Essa comprende il francese, il catalano, lo spagnolo, il gallégo, il portoghese, le parlate italiane a nord della linea Spezia-Rimini, il ladino o reto-romanzo. Si può considerare l’italiano – sorto dalle parlate italiane mediane – come lingua di raccordo fra le due Románie.

1.7.2.1 Il francese

In Europa, il francese è parlato anche in Vallonia ed è lingua ufficiale della Federazione dei belgi. È parlato anche nei cantoni svizzeri di Neuchâtel, Ginevra, Vaud, Giura, Vallese (per metà tedesco) e costituisce la seconda lingua della Confederazione elvetica. Fuori d’Europa, il francese è lingua ufficiale di molti Stati africani, ex-domini coloniali di Parigi, e del Québec, Stato canadese. L’influsso culturale e linguistico francese è oggi ancora molto forte nell’Europa centrale ex-sovietica, soprattutto in Polonia e Romania. Ricordiamo che il francese è stato la lingua veicolare diplomatica e amministrativa per tutto il XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale fu la lingua comune dell’aristocrazia europea.

1.7.2.2

Nel Cantone svizzero dei Grigioni si parla il romancio, che è l’insieme dei dialetti occidentali del ladino; i dialetti centrali, parlati nelle valli Badia, Gardena, Fassa, Marebbe, nel Livinallongo e nell’Ampezzano, sono separati dal romancio da un cuneo tedescofono (nella valle dell’Adige e in val Venosta, dove fino al XVII secolo sussistevano parlate ladine), mentre un cuneo dialettale alto-italiano (nella valle del Piave) li separa dal ladino orientale, o friulano.

1.7.2.3

Il portoghese, oltre che nell’originaria terra lusitana, è lingua ufficiale dello Stato del Brasile, ma anche in questo caso vi sono molte differenze con la lingua parlata in Portogallo. Il portoghese è parlato ancora in Angola e in Mozambico, che fino agli anni settanta furono colonie di Lisbona.

1.7.2.4

Lo spagnolo, oltre che nella Penisola iberica, è parlato nell’America latina, ma le varianti americane si allontanano dallo spagnolo castigliano all’incirca come l’inglese d’America è distante dal “british english”. Il gallego è riconosciuto

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come lingua amministrativa nella Galizia, la regione spagnola a nord del Portogallo. In Catalogna, nelle Baleari e nel territorio di Valencia, il catalano è lingua ufficiale insieme allo spagnolo castigliano. Poco nota è la vicenda del ladino (che non va confuso con il ladino dolomitico!), o “giudeo-spagnolo”. Era la lingua parlata dagli Ebrei di Spagna, chiamati sefarditi (in ebraico Sefarad è la penisola Iberica). La presenza ebraica nella Sefarad risaliva all’epoca dell’Impero Romano. Essa conobbe una prima fioritura culturale e sociale nell’Andalusia conquistata dai Mori. Dal dodicesimo secolo, la presenza ebraica si diffuse in tutta la penisola, e le lingue romanze iberiche dell’epoca (portoghese, castigliano, aragonese, catalano, leonese) divennero lingue parlate dagli ebrei sefarditi. Come lingue scritte, però, utilizzavano l’alfabeto ebraico. Nel 1492 (il 31 marzo), i re Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia emisero un editto, per il quale gli ebrei o si convertivano, o erano forzati all’esilio. Molti lasciarono i territori dei due regni, ed emigrarono un po’ ovunque nell’Europa cristiana e – in gran parte – nell’impero Ottomano. Conservarono però la lingua, che era – grosso modo – una varietà di spagnolo castigliano. Questa lingua continuò a essere usata fino al Novecento in molte città dell’Impero Ottomano (soprattutto nella Bulgaria, in Grecia e nell’Asia minore). Il “ladino” è considerato da molti studiosi come il terzo grande esponente del patrimonio letterario ispanico (dopo la Spagna e l’America latina)4.

1.8 Il gruppo baltico

Le lingue baltiche sono oggi continuate dal lituano e dal lettone, lingue ufficiali dei rispettivi Stati. Fino al XVII secolo, nella regione che nel Seicento prese a chiamarsi Prussia orientale – ossia il territorio di Königsberg (oggi Kaliningrad, in Russia) e di Allenstein (oggi Olsztyn, in Polonia) – si parlava il prussiano, che i glottologi chiamano “prussiano antico”. Ci restano alcuni testi religiosi della confessione evangelica. Gradualmente, i parlanti del prussiano abbandonarono la loro lingua in favore del tedesco5.

4 Ricavo le notizie da Beatrice Schmid, Ladino (Judenspanisch) – eine Diasporasprache, Schweizerische Akademie der Geistes-und Sozialwissenschaften, Bern 2006.

5 Con la fine dell’Unione Sovietica lettoni e lituani hanno riconquistato l’indipendenza, che negli ultimi secoli godettero solo nei vent’anni fra le due guerre mondiali. All’inizio della seconda guerra mondiale, in seguito ad un accordo segreto con la Germania, l’Urss occupò la

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1.9 La Slavia linguistica

Le lingue slave sono ripartite in orientali, occidentali e meridionali6. – Orientali sono il russo, il bielorusso e l’ucraino. Le tre lingue sono vicine

per la grammatica, ma nel lessico il bielorusso e l’ucraino rappresentano un ponte verso il polacco, da cui furono largamente influenzati dal Cinquecento al Settecento. In epoca medievale e fino al XV-XVI secolo la Slavia orientale si articolava in grandi aree dialettali, la russa occidentale (bielorussa), l’ucraina e la russa centrale e orientale. Il russo occidentale cancelleresco fu tra l’altro la lingua amministrativa del Granducato di Lituania fino alla fine del XVI secolo, quando fu soppiantato dal polacco. Il russo si costituì come lingua letteraria a partire dal Cinque-Seicento e si perfezionò durante il Settecento, con una fioritura straordinaria nell’Ottocento. Peraltro, solo alla fine del XIX secolo si può dire che il russo si avviò a diventare la lingua materna anche dell’aristocrazia e dei ceti dirigenti, che si servivano del francese. Ucraino e bielorusso si costituirono in lingue letterarie più tardi, nel corso del XIX secolo.

– Le lingue della Slavia meridionale sono il bulgaro e il macedone, lo sloveno e il serbo-croato (o croato-serbo); quest’ultimo, più che una lingua, è un coacervo di parlate, due delle quali, il dialetto di Zagabria e quello di Belgrado, sono assurte nei secoli a lingue letterarie: la prima, però, usa l’alfabeto latino, perché i croati per cultura e religione appartengono alla Cristianità occidentale; la seconda usa l’alfabeto cirillico, perché i Serbi fanno parte della Cristianità orientale.

– Le lingue slave occidentali oggi parlate sono il polacco, il cèco, lo slovacco e il lusaziano. Quest’ultimo, nelle due varietà di lusaziano inferiore e superiore, rappresenta, con circa centomila parlanti, l’ultima testimonianza

Polonia orientale e gli Stati baltici. Vi furono allora uccisioni e deportazioni in Siberia dei ceti professionali e della dirigenza dello Stato. Molti si sottrassero a questo destino riparando in Occidente e in America, dove raggiunsero lituani delle ondate migratorie europee della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Chicago è oggi la città con la più numerosa comunità lituana al mondo (circa 600 mila cittadini, più della popolazione di Vilnius, capitale lituana).

6 Sulle lingue slave rinvio a A. Cantarini, Lineamenti di filologia slava, La Scuola, Brescia 1979.

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della millenaria presenza slava nei territori fra la Oder e l’Elba7, all’incirca la ex-DDR8.

Di queste lingue, il cèco e il polacco sono le più ricche di storia letteraria: il cèco conosce una grande fioritura nei secoli XIII-XIV, che continua nel Cinquecento, fino alla decadenza nel Seicento. Nel secolo successivo si ha la rinascita illuministica e romantica. È ad un cèco, Josef Dobrovský, che dobbiamo la nascita della moderna filologia slava.

Il polacco fiorisce invece nel Cinquecento, il “secolo d’oro”, durante il quale furono strettissimi i contatti con gli umanisti italiani, e diventa a tutti gli effetti l’unica lingua letteraria nel Seicento, soppiantando anche il latino.

– Peraltro, i testi slavi di più antica attestazione sono nella lingua di cui si servirono i tessalonicesi Costantino (Cirillo) e Metodio per tradurre il Vangelo, i Salmi e i testi liturgici da loro usati nell’evangelizzazione della Grande Moravia, intrapresa nel IX secolo su mandato dell’imperatore di Bisanzio. Tale lingua è chiamata paleoslavo o slavo ecclesiastico antico, ed è sviluppata da dialetti dell’area bulgara, parlati nella città portuale di Tessalonica (Salonicco). Lo slavo ecclesiastico detto recente (per distinguerlo da attestazioni più antiche) è la lingua liturgica della Slavia ortodossa.

1.10 Il gruppo celtico

Delle lingue indeuropee minori oggi parlate, quelle celtiche sembrano più di altre minacciate di estinzione, dato il prestigio dell’inglese. – Il celtico si divideva anticamente in insulare e continentale: quest’ultimo

comprendeva idiomi parlati nelle Gallie, nella Penisola Iberica, nell’odierna Germania: si ritiene che si siano estinte tutte entro il 500 d. C., anche se hanno influito sulle lingue romanze e germaniche.

– Il celtico insulare è suddiviso in due tronconi: il gaelico, con due lingue, l’irlandese e lo scozzese, e il britannico o brittonico, con il gallese e il bretone

7 E oltre l’Elba: fino alla metà del Settecento ad Hannover e nella vicina regione di

Luneburgo vivevano ancora parlanti del polabo (che significa “lungo l’Elba”), idioma slavo attestato dal XVI secolo. L’ultimo parlante morì ad Hannover verso il 1750 e lasciò un diario dove raccontava, in tedesco, di non trovare più alcuno con cui conversare nella lingua materna.

8 Si veda in proposito G. Gobber, Una minoranza slava nella Germania unita: i Serbi della Lusazia, “Vita e Pensiero”, 1991.

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(intorno al V secolo una popolazione celtica insulare emigrò nella penisola, allora detta Armorica, che prese appunto a chiamarsi Bretagna). Un’altra lingua brittonica, il cornico, si parlò in Cornovaglia fin al XVIII secolo. L’idioma gaelico dell’isola di Man (il manx) si è invece estinto nel nostro secolo. Delle lingue celtiche, la più viva è il gallese: nel censimento del 1981 vi erano oltre 500.000 parlanti (il 20% della popolazione del Galles). Dal 1967 nei territori del Galles il welsh è lingua ufficiale alla pari dell’inglese. Invece l’irlandese, sebbene la Costituzione dell’Irlanda lo dichiari prima lingua della nazione, è parlato come prima lingua solo da circa 100.000 persone (il 4% della popolazione dell’Irlanda)9.

1.11 Le lingue germaniche

Le lingue germaniche sono suddivise tradizionalmente in orientali, occidentali e settentrionali.

1.11.1 Il gotico

Fondamentale è la testimonianza del gotico che offre i testi germanici di più antica attestazione (soprattutto con la Bibbia tradotta dal vescovo Ulfila, nel IV secolo). Invece, le altre lingue germaniche orientali sono sostanzialmente prive di documentazione. Molte informazioni sui Goti vengono dalla Historia Gothorum dello storico gotico Iordanes, che fu redatta nella prima metà del VI secolo. Iordanes – o Giordane – riprendeva un testo di Cassiodoro (perduto), il quale disponeva di fonti di prima mano (saghe, canti eroici ecc.). Nella Historia si afferma che la terra di origine dei Goti è l’attuale Götaland (regione meridionale della Svezia). In proposito, va segnalato che, in effetti, dal I secolo a.C. si registra un impoverimento dei reperti archeologici nel Götaland. Questo fatto è stato invocato come indizio a sostegno di uno spopolamento della regione, avvenuto in quel periodo. In base alla narrazione di Iordanes, nel I sec. a.C. i Goti raggiungono il corso inferiore della Vistola. Vi si fermano fino al I sec. d.C. E quel territorio fu chiamato Gotiscandza. Oggi, per questo nome si propongono due etimologie, che riflettono due diverse analisi lessicali:

9 Ricavo queste notizie da P. Cuzzolin, Le lingue celtiche, in E. Banfi, La formazione dell’Europa linguistica, cit.

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– Goti-scandja (con deformazione di <dj>, dovuta a Iordanes; da Scandi-navia; fu chiamato Scandia il territorio europeo nel quale i Goti si insediarono);

– Gotisc-andza (con alterazione del termine germanico andja “parte terminale, litorale”: “il litorale abitato dai Goti”).

Nel I sec. d.C. vi fu una divisione tra Visigoti (“Goti dell’Ovest”) e Ostrogoti (“Goti dell’Est”). Il confine era rappresentato dal fiume Dnepr. Avvene in quel periodo che i Visi entrarono in conflitto con l’impero. E nel 274 Aureliano assegnò loro la Dacia. Proprio in Dacia, agli inizi del quarto secolo, naque Wulfila. Egli era dunque un Visigoto. Trilinguismo: peraltro, a quanto pare, aveva anche antenati greci (un’antenata di Wulfula era stata rapita dai Visi in Asia Minore nella II metà del III secolo); crebbe poi in un’ambiente latino, ma dentro a una comunità di lingua e cultura gotica. Wulfila morì verso il 380-385. Egli tradusse l’intera Bibbia (come affermano i biografi) eccetto i libri dei Re (Filostorgio dice che si evitò di renderli perché di contenuto cruento) e la lettera agli Ebrei (dove si afferma che Gesù è figlio di Dio e si insiste sulla divinità di lui: per gli ariani, Cristo è “homòios”, di natura simile, ma non “hòmos”). Il testo è conservato in documenti della seconda metà del sesto secolo. La catagolazione dei manoscritti è la seguente: – Codex Argenteus: era un lezionario, reca i testi dei Vangeli (oltre alle

lettere degli Evangelisti). Scritto in caratteri argentei e d’oro su pergamena in color porpora, il manoscritto fu redatto tra la fine del quinto e l’inizio del sesto secolo in Italia, nell’abbazia di Bobbio. Oggi è conservato nella biblioteca dell’Università di Uppsala, in Svezia. Dei 330 fogli originari, che contenevano i quattro Vangeli (nell’ordine Matteo, Giovanni, Luca, Marco) sono rimasti 187. Tutti i brani evangelici in gotici a noi pervenuti sono contenuti in questo manoscritto.

– Codex Gissensis (era conservato nella biblioteca dell’università di Giessen – perduto in seguito alla guerra: risulto infatti rovinato a causa di infiltrazioni d’acqua nel caveau della banca dove era conservato; ne resta copia fotografata). Rilevante perché consta di due fogli, con testo bilingue gotico-latino (forse usato da ariani bilingui). È un frammento del vangelo di Luca. Fu ritrovato nel 1906 in Egitto.

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– Codex Carolinus, in 4 fogli, con brani dell’epistola di Paolo ai Romani. È un codice bilingue gotico-latino.

– Infine, vi sono i due Codices Ambrosiani. Scoperti in Ambrosiana dal card. Angelo Maj nel 1817, contengono tutte le epistole, eccetto la lettera agli Ebrei.

La denominazione di gruppo germanico orientale viene dalla sede geografica – all’incirca il territorio, oggi polacco, fra la Oder ad occidente e il Bug ad oriente, e soprattutto lungo la Vistola – attribuita a popolazioni come i Vandali, i Burgundi, i Gepidi, gli Eruli, prima delle loro migrazioni, che coincisero con la fine dell’Impero di Roma. Peraltro il gotico presenta diverse affinità con le lingue germaniche settentrionali: come abbiamo visto, la tradizione gotica stessa – con lo storiografo Iordanes – considerava la regione scandinava dello Jutland (Göta-land) come la sede originaria, prima che, intorno all’inizio della nostra era, i Goti passassero sulla terraferma.

1.11.2 Lingue germaniche occidentali e settentrionali

Tuttora parlate sono lingue del sottogruppo occidentale e quelle del sottogruppo settentrionale.

1.11.2.1

Le lingue germaniche settentrionali sono l’islandese, lo svedese, il danese e il norvegese. L’islandese è la lingua germanica più conservativa. Nella storia politica dell’Europa moderna, l’influsso svedese si è espanso verso est, nella regione baltica – ancora oggi, in Finlandia lo svedese è la seconda lingua ufficiale ed è parlata da una percentuale di popolazione prossima al venti per cento. Il danese, a sua volta, si è espanso verso ovest, dalla Norvegia fino alla Groenlandia (che è ancora oggi possedimento danese). Il norvegese presenta una storia complessa, che risente della dominazione danese. A tutt’oggi in Norvegia vi sono due lingue, il bokmål – che si sviluppa dal danese letterario – e il nynorsk, una koiné costruita a partire dalla metà del XIX secolo sulla base dei dialetti norvegesi. Oggi, tuttavia, in seguito a numerose riforme ortografiche e al definitivo distacco dallo Stato danese, le due lingue differiscono fra loro ben poco. Dal 1380 al 1814 la Norvegia era unita al Regno di Danimarca. Nel corso di questi secoli, ma soprattutto dopo l’introduzione della confessione evangelica

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nel 1536, il danese si diffuse sempre più in Norvegia, soprattutto nelle regioni meridionali, vicine alla Danimarca. La lingua scritta danese veniva però pronunciata secondo le caratteristiche fonetiche dei dialetti di Norvegia. Anche con lo scioglimento dell’unione con la Danimarca, la lingua danese mantenne e anzi aumentò il suo influsso, perché essa continuava ad essere utilizzata negli atti amministrativi e nell’insegnamento scolastico. In reazione a queste circostanze si iniziò a pensare a una lingua nazionale norvegese. Ma le proposte andavano in due direzioni diverse: da una parte si puntò a “norvegizzare” il danese ereditato, e nacque così il riksmål (la lingua cancelleresca), in seguito chiamata bokmål (composto di bok, “libro”, e mål, “lingua”: è la “lingua dei libri”, distinta dal “sermo cotidianus”). Dall’altra si sostenne l’elaborazione di una lingua nuova, il landsmål, che era basata sul patrimonio comune dei dialetti norvegesi. Intorno al 1850 nacque così il nynorsk, il “norvegese nuovo”. La disputa fra i propugnatori del bokmål e del nynorsk (i termini sono ufficiali a partire dal 1929) terminò con l’equiparazione delle due lingue, sia per l’insegnamento che per la redazione degli atti amministrativi. Oggi il bokmål è la lingua principale di circa quattro quinti degli scolari (soprattutto nelle regioni settentrionali e sud–orientali, oltre che nelle città), per gli altri è il nynorsk (soprattutto nelle regioni occidentali e nell’interno del Paese).

1.11.2.2 Le lingue germaniche occidentali

Il neerlandese, con le due varietà dell’olandese e del fiammingo10, il tedesco e l’inglese sono tutte e tre lingue pluricentriche, ossia, hanno più di una varietà standard: il tedesco ha tre standard (quello tedesco-federale, quello austriaco e quello svizzero); il neerlandese ha i due standard fiammingo e olandese; l’inglese ha un gran numero di standard: dal British English, all’American English, allo Hiberno-English (Irlanda), allo Australian English, e così via.

1.11.2.2.1 Afrikaans e frisone Si può considerare varietà del neerlandese anche l’afrikaans, parlato nel Sud Africa dalla comunità di origine olandese. Alcuni studiosi peraltro ritengono

10 Al neerlandese fa riferimento anche l’afrikaans, parlato nel Sud Africa dalla comunità di origine neerlandese. Nel territorio settentrionale – per lo più insulare – dello Stato dei Paesi Bassi e nelle zone del Land tedesco della Bassa Sassonia prossime ai confini con i Paesi Bassi si parla il frisone, che è una lingua distinta dal neerlandese.

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che l’afrikaans sia piuttosto un creoloide nativo (una lingua influenzata da un creolo; questo creolo è una lingua sorta per evoluzione da un pidgin che aveva per base una varietà di olandese: vedi supra, Elementi di sociolinguistica). Nel territorio settentrionale – per lo più insulare – dello Stato dei Paesi Bassi e nelle zone del Land tedesco della Bassa Sassonia prossime ai confini con i Paesi Bassi si parla il frisone, che è una lingua distinta dal neerlandese. Si può dire che il frisone è un codice “basso” in rapporto di diglossia con il neerlandese e il tedesco, che funzionano come codici “alti”.

1.11.2.2.2 Il tedesco Le parlate del tedesco sono tradizionalmente suddivise in alte (alemanne e bavaresi, a sud, nei territori montuosi), medie (franconi, al centro) e basso-tedesche (a nord, nella pianura). Storicamente, le parlate meridionali fino alla metà del secolo undicesimo costituiscono l’antico alto tedesco; da esso, con la mediazione di alcuni dialetti tedeschi centrali, si è sviluppato il tedesco moderno11. Un idioma basato su dialetti medio-tedeschi medievali è lo yiddish (o jiddisch), la lingua degli Ebrei dell’Europa centrale e orientale, che finì con l’Olocausto (lo yiddish è usato da alcune comunità minori negli USA e in Israele).

1.11.2.2.3 L’inglese Da una serie di parlate settentrionali del gruppo germanico occidentale provengono gli idiomi degli Angli, dei Sassoni e degli Juti, che nel corso del VI secolo si stabilirono in quella che fu poi chiamata Inghilterra (da Engla-land, la “terra degli Angli”, e si intendevano tutte le popolazioni germaniche insediatesi nell’isola)12. Si parla di antico inglese per il periodo che precede l’arrivo dei Normanni. Fino a circa la metà del 700 predomina l’elemento

11 Dialetti tedeschi, soprattutto alemanni e franconi, sono parlati ancor oggi in Kazachstan

e in Siberia: sono gli idiomi originari dei Russlanddeutsche, emigrati in diverse regioni della Russia Europea a partire dalla fine del Settecento, e deportati nell’Asia sovietica da Stalin durante la seconda guerra mondiale. Oggi buona parte dei tedeschi di Russia parla il russo come prima lingua, come risultato del decennale divieto, da parte del potere sovietico, di aprire scuole tedesche per i Russlanddeutsche e di usare il tedesco per funzioni amministrative locali.

12 Rinvio, per notizie dettagliate, al volume di D. Pezzini, Storia della lingua inglese, La Scuola, Brescia 1981.

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linguistico anglico (parlato dalle comunità insediate a nord del Tamigi). Dal 750 circa la varietà di prestigio è il sassone occidentale (a sud-ovest del Tamigi), grazie all’autorevolezza del re Alfredo, che avviò un processo di unificazione dei territori in cui si divideva allora la Britannia anglo-sassone13. Le invasioni vichinge nel corso del X secolo interruppero questo processo. La battaglia di Hastings (1066), con la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni, determina i successivi profondi mutamenti della lingua, con il passaggio dall’antico al medio inglese. Alla fine del Quattrocento, e agli inizi del Cinquecento, si hanno ulteriori profonde modifiche per la fonologia, soprattutto nel vocalismo: comincia così a crescere l’inglese moderno. Nel corso dei secoli l’inglese diventa lingua internazionale e si dirama in numerose varietà standard, alquanto diverse dal “British English”. Oltre alla variazione geografica (l’inglese d’America, del Canada, d’Australia ecc.: ciascuno con uno standard e una gamma di varietà non standard) vi è una variazione che riguarda le funzioni sociali: il globish, una sorta di inglese “lingua franca” internazionale è usata per le relazioni trans-nazionali e internazionali di carattere sia pubblico sia privato. Non va dimenticato, poi, il cosiddetto inglese dell’Estuario (sottinteso: del Tamigi): è la varietà che ben rappresenta lo sviluppo in corso della lingua d’uso a Londra. Il destino dell’inglese assomiglia a quello del latino: da lingua germanica sta diventando la matrice genetica di un gruppo linguistico (dove la lingua franca internazionale, per funzione, ricorda il latino medievale e moderno).

1.12 La famiglia linguistica uralica o ugro-finnica

La famiglia uralica è di solito divisa in due gruppi: il gruppo siberiamo e quello ugro-finnico. Del gruppo ugro-finnico fanno parte diversi sottogruppi. I più importanti sono l’ugro e il balto-finnico. – Il gruppo ugro è rappresentato dall’ungherese, o magiaro. Vi sono poi

lingue minori, come il vogulo e l’ostiaco, con comunità assai ridotte (intorno a diecimila parlanti) nel territorio siberiano settentrionale a

13 I toponimi Sussex, Wessex, Essex contengono, nella prima sillaba di ciascuno, le forme che

oggi corrispondono, rispettivamente, a South, West e East. Segue la sillaba che indica i “sassoni” (seaxa). Questi tre nomi si riferiscono a quelli che furono i tre regni sassoni del sud, dell’ovest e dell’est.

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ridosso degli Urali. Gli Ungheresi, la cui regione d’origine era forse in territori compresi fra il Volga e gli Urali, giunsero nell’Europa centrale durante il IX secolo.

– Del gruppo balto-finnico fanno parte il finnico e l’estone, che sono lingue ufficiali dei rispettivi Stati. Vi appartengono inoltre lingue con un numero esiguo di parlanti14.

– Vi sono poi lingue ugro-finniche di altri gruppi minori: ricordiamo il gruppo sami (chiamato anche “lappone”), articolato in vari dialetti parlati da comunità sparse nei territori subartici della Scandinavia e della Russia (in tutto sono meno di cinquantamila parlanti). Un altro gruppo è il permiano, che comprende le lingue siriena e votiaca, parlate in regioni vicine alla città russa di Perm’, vicina al nord degli Urali. Nel bacino del Volga vi sono idiomi del gruppo ceremisso e di quello mordvino15.

1.13 Altre lingue d’Europa

Non rientrano nelle due grandi famiglie linguistiche d’Europa: – il basco, parlato in regioni pirenaiche degli Stati spagnolo e francese: è la

continuazione nella nostra era degli idiomi dell’Aquitania16, che sussistevano in epoca pre-romana;

– le lingue turche, che oltre al turco propriamente detto, lingua ufficiale dello Stato con capitale Ankara, storicamente e geograficamente cerniera fra Asia ed Europa, comprendono numerosi idiomi parlati nella Russia europea (tatáro, ciuvascio, baskiro) e in quella asiatica, che vedremo in seguito;

– il maltese, una lingua semitica originaria del Maghreb, che ha però subito influssi assai forti dalle lingue romanze e dall’inglese (dall’inizio del XIX secolo al 1964 l’isola è stata territorio britannico). Sulle lingue semitiche, si veda in seguito.

14 Una di queste è il vepso, parlato nella regione di San Pietroburgo. Per comprendere

l’esiguità di questa e di altre comunità linguistiche balto-finniche, basti considerare che, alla data del censimento della popolazione, effettuato nel 1979 nell’allora Unione Sovietica, il vepso era usato come prima lingua da circa 770 parlanti. Rinvio in proposito a G. Gobber, La politica linguistica dell’Urss, “Vita e Pensiero”, 1986.

15 Si veda Gábor Bereczki, Fondamenti di linguistica ugrofinnica, Forum, Udine 1998. 16 Oggi non si ritiene più che il basco rappresenti la sopravvivenza delle lingue iberiche pre-

romanze: si veda in proposito G. Manzelli, Il basco, in E. Banfi, cit., p. 481.

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2. Di alcune altre lingue dell’Asia e dell’Africa

Ci limitiamo, in seguito, a indicare alcune famiglie di lingue dell’Asia e dell’Africa settentrionale, che hanno particolare rilevanza per le testimonianze culturali e storiche da esse veicolate.

2.1 Le lingue uraliche

Abbiamo già incontrato le lingue ugro-finniche e si è già detto che appartengono a una famiglia più ampia, chiamata uralica, divisa in due rami: oltre alla famiglia ugro-finnica (vedi sopra) vi è la famiglia delle lingue siberiane o samoiede: oggi rimangono cinque lingue, parlate a oriente degli Urali, nella Siberia nord-occidentale. Gábor Bereczi (Fondamenti di linguistica ugrofinnica, Udine, p. 32) cita la lingua nenets, parlata dagli jurachi (nell’Artico, a est degli Urali, con circa 30 mila parlanti: è ritenuta la lingua samoieda con il maggior numero di parlanti. Vi sono poi: il samoiedo enets – o samoiedo del fiume Enisej, con circa 200 parlanti; il samoiedo tavghi o nganasan, con circa 1000 parlanti; il samoiedo ostiaco o selcupo, con circa 3500 parlanti. Bereczi nota che «una parte dei popoli samoiedi meridionali si è turchizzata o russificata nel corso degli ultimi duecento anni. L’ultima donna kamassina, che si ricordava ancora la sua lingua materna, morì nel 1989. i karagassi, koibali, motori e taigi fanno parte oggi dei popoli turchi della montagna Sajan, ma sappiamo che alla fine del ‘700 e all’inizio dell’’800 parlavano ancora una lingua samoieda» (ibidem)

2.2 Le lingue altaiche

Sono articolate in tre famiglie: – lingue turche. Ricordiamo, in particolare, le seguenti: il turco, l’azero,

l’uzbeko, il kazako, il kirghiso, il turkmeno, il tatáro, il baskiro, il ciuvascio, lo iacuto. Le prime cinque sono lingue ufficiali di altrettanti stati (Turchia, Azerbajdžan, Uzbekistan, Kazachstan, Kirgizistan). Il tatáro è parlato nella regione autonoma del Tatarstan, nella Russia Europea. Anche il baskiro e il ciuvascio sono parlati nella Russia Europea. Lo iacuto è parlato nella grande regione della Iacuzia (Siberia nord-orientale).

– lingue mongoliche, parlate nella Mongolia e in regioni attigue in Siberia. I più antichi testi in lingue mongoliche risalgono al XIII secolo;

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– lingue tunguse, nella Siberia centro-orientale (a Est del fiume Enisej) e nella Manciuria (il mancia è attestato dal secolo dodicesimo).

2.3 Le lingue sino-austriche

Seguiamo, qui, la classificazione proposta da Louis Hjelmslev17, che fa rientrare in un’unica grande e articolata famiglia una serie di lingue che altri studiosi considerano separatamente.

2.3.1 Le lingue sino-thai

Essa comprende: – le lingue cinesi18 – le lingue thai (nell’Indocina).

2.3.2 Le lingue tibetane e birmane

2.3.3 La famiglia austrica

Essa è articolata in due gruppi: – le lingue maleo-polinesiane: le principali sono il malgascio (in Madagascar),

il giavanese (isola di Giava), una serie di lingue parlate nelle isole dell’Indonesia; infine, il malese;

– le lingue austro-asiatiche: le principali sono le lingue munda (in India), il mon-khmer (in Cambogia) e il vietnamita.

2.3.4 Le lingue camito-semitiche

Hanno grande importanza storico-culturale. Sono articolate in due famiglie:

2.3.4.1 La famiglia camitica

Essa comprende, in particolare: – l’egiziano (la lingua delle iscrizioni geroglifiche); – il copto (estinto nel XII secolo); da esso viene la lingua liturgica della

Chiesa copta (in Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea); – il berbero; parlato nella regione dell’Atlante (soprattutto in Marocco e in

Algeria, in parte in Libia), è in diglossia con l’arabo, lingua di maggiore

17 L. Hjelmslev, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1970, pp. 89-91 (ed.orig. Sproget, 1963). 18 Per approfondimenti, si veda M.Biasco – M. Wen – E. Banfi, Introduzione allo studio

della lingua cinese, Carocci, Roma 2003.

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prestigio. Si tenga presente che un terzo dei marocchini è berbero – e usa l’arabo come codice “alto”);

– il cuscitico (diffuso in Etiopia e nel Corno d’Africa).

2.3.4.2 La famiglia delle lingue semitiche

È così articolata: – l’accadico (lingua antica, parlata nella Mesopotamia, a un di presso,

l’odierno Iraq); – le lingue semitiche del nord. Esse comprendono:

• il gruppo cananaico, di cui fanno parte il fenicio e l’ebraico antico (l’ebraico moderno, parlato dal 1948, ne è ripresa parziale);

• l’aramaico (che sostituì l’ebraico dopo che gli Ebrei tornarono dalla deportazione a Babilonia);

– le lingue semitiche del sud, che si articolano in due gruppi: • le lingue arabe (l’arabo classico ne è il massimo rappresentante) • le lingue etiopiche, fra le quali vi è l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia.

2.3.5 Le lingue nigero-kordofaniane

Si tratta di un insieme di famiglie linguistiche, distribuite nell’Africa sub-sahariana. Tra queste vi sono le lingue nigerocongolesi, tra le quali vi sono, in particolare, le lingue bantu; delle lingue bantu; ricordiamo lo xhosa, lo zulu e lo swahili. (ba-ntu è il plurale di mu-ntu, che significa “persona, essere umano”). Tra le lingue camito-semitiche e le lingue bantu vi è poi la famiglia delle lingue sudanesi, parlate, all’incirca, nell’area meridionale del Sahara, fino al Congo e alla regione dei grandi laghi.

3.

Delle altre lingue del mondo ci limitiamo a osservare come esse appaiano «geneticamente isolate», oppure costituiscano «famiglie molto limitate»19. Sono isolate lingue come il giapponese (per il quale, va detto, si ipotizza anche un legame con le lingue maleo-polinesiane20) e il coreano. Nel Caucaso, in uno

19 Ibidem, p. 92. 20 John Hinds, Japanese, in W.S. Chisholm (ed.), Interrogativity, Benjamins, Amsterdam

1984, p. 145.

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spazio ristretto, si riscontrano decine di lingue, prive di alcuna parentela fra di loro. Peraltro, sempre nel Caucaso si trova un esempio di «famiglia molto limitata»: sono le lingue cartveliane, tra le quali vi è il georgiano21. Peraltro, già Hjelmslev, nel 1963, scrive che le lingue fin qui citate (con l’esclusione di queste ultime, indicate al punto 3.) annoverano ben oltre gli «otto noni» della popolazione terrestre. È lecito ritenere che, oggi, la percentuale sia ulteriormente cresciuta.

Nota sulla prima rotazione consonantica

Consideriamo alcune serie consonantiche in latino e in altre lingue indeuropee (in seguito abbreviato in ie.), e si osserva come, nelle lingue germaniche, non vi siano le medesime consonanti. In effetti, è stato ipotizzato che, per queste serie consonantiche, le lingue germaniche presentino mutamenti fonetici sistematici. A tali mutamenti prestò attenzione la glottologia agli inizi dell’Ottocento. In particolare, Rasmus Rask descrisse per primo il fenomeno, e Jakob Grimm lo presentò elaborando un quadro di corrispondenze sistematiche22, che in italiano è stato chiamato “prima rotazione consonantica”23 (ted. erste Lautverschiebung).

21 Cfr. Alice C. Harris, Georgian, in Interrogativity, cit., p. 63. 22 Per notizie sui primi studi relativi alle corrispondenze consonantiche tra lingue

germaniche e altre lingue indeuropee, si veda Paolo Ramat, Introduzione alla linguistica germanica, Il Mulino, Bologna. V. inoltre Vittore Pisani, Glottologia, Rosenberg & Sellier, Torino (qualsiasi edizione).

23 In tedesco è erste Lautverschiebung (“primo spostamento dei suoni”), chiamata anche germanische Lautverschiebung, perché interessa le lingue germaniche nel loro complesso, le quali sono messe a confronto con le altre lingue indeuropee.

Una seconda Lautverschiebung interessa le parlate tedesche centro-meridionali (alto-tedesco antico), le quali si distinguono dalle altre parlate germaniche per un ulteriore sviluppo del consonantismo. I dialetti centro-meridionali dell’area tedesca sono formati dai gruppi bavarese (all’incirca nell’area che comprende Baviera, Tirolo, Austria), alemanno (Svevia, Svizzera tedesca, propaggini occidentali dell’Austria e della Baviera), e alcuni dialetti francone (a nord del territorio di lingua bavarese). La seconda rotazione consonantica interessa: – le occlusive sonore. All’inizio di parola diventano occlusive sorde: [b], [d], [g] passano,

rispettivamente, a [p], [t], [k]. Questo sviluppo interessa soprattutto le dentali: cfr. antico ingl. don > ingl.mod. do, antico alto-ted. tuon > ted.mod. tun; a.ingl. drifan > mod. drive,

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In seguito, si rilevano le corrispondenze fonetiche sistematiche tra gli esiti del latino (e di altre lingue ie.) e gli esiti germanici. A questo scopo, si fa riferimento alle forme nelle attestazioni più antiche di queste lingue. Valgono le abbreviazioni seguenti: got = gotico a.ingl. = antico inglese (VI d.C. – 1066) a.a.t. = antico alto tedesco (ca. IX d.C. – 1100) a.nord. = antico nordico o antico islandese o norreno (cfr. ingl Old Norse) lat = latino gr = greco scr = sanscrito rus = russo lit = lituano Queste corrispondenze sono spiegate in glottologia come esiti di un mutamento fonetico regolare. Da qui si prende avvio, di solito, per sviluppare ipotesi ricostruttive di ciò che è stato chiamato “Indeuropeo”.

a.alto-ted. triban > mod. treiben. Invece, [b] e [g] tendono a diventare sorde in alemanno merid. e in bavarese, mentre rimangono sonore negli altri dialetti e sono sonore nel ted.moderno, cfr. a.ingl. bi > mod. by, a.a.t. bi > mod. bei; a.ingl. giefan (dove il grafema <f> corrisponde al fono [v]) > mod. give, a.alto-ted. geban > mod. geben;

– le occlusive sorde [p], [t], [k]. All’inizio di parola diventano affricate: [p] diventa [pf] (cfr. inglese mod. pan, ma tedesco

mod. Pfanne; ingl.mod. pound, ted.mod. Pfund; ingl.mod. pepper, ted.mod. Pfeffer); [t] diventa [ts] (cfr. ingl.mod. town, ted.mod. Zaun ‘recinto’; ingl.mod. two, ted.mod. zwei, in dialetti merid. zwo; ingl.mod. ten, ted.mod. zehn; ingl.mod. token, ted.mod. Zeichen); solo in alcune aree alemanne (ossia, in dialetti svizzeri meridionali) [k] passa nell’affricata post-palatale [kx].

Quando le occlusive sorde sono all’interno della parola, vi sono esiti diversi: in alcuni casi, diventano fricative: ingl. open, ted. offen; antico ingl. hopian (ingl.mod. hope), ted.mod. hoffen; a.ingl etan (ingl.mod. eat), ted.mod. essen (< aat. ezzan); ant.ingl. macian > ingl.mod. make, antico alto-tedesco mahhon > machen. Peraltro, nella gran parte dei casi, diventano affricate: [p:] diventa [pf]: ingl.mod. apple, ted.mod. Apfel; [t:] passa in [ts]: cfr. antico ingl. sittan (ingl.mod. sit), ted.mod. sitzen; antico ingl. settan (ingl.mod. set), ted.mod. setzen.

Alla fine di parola, diventano fricative sorde: ingl. up, a.a.t. uf > mod. auf; a.ingl. ut > mod. out, a.a.ted. uz > mod. aus; a.ingl. boc > mod. book, a.a.t. buoh > mod. Buch.

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Le corrispondenze fonetiche regolari tra le lingue germaniche e le altre lingue indeuropee

Le occlusive sorde indeuropee

Come punto di partenza consideriamo i tre suoni indicati da [p], [t], [k]. Si tratta di simboli fonetici, che si riferiscono a suoni, non a “lettere” dell’alfabeto. In particolare, [p] è il suono iniziale di pere, [t] è l’iniziale di tavolo, [k] è il suono iniziale di casa. a) Sono consonanti sorde, perché sono prodotte senza la vibrazione delle

corde vocali (senza l’attivazione del cosiddetto meccanismo laringeo). b) In base al modo di articolazione: sono consonanti occlusive, perché l’uscita

dell’aria è bloccata da un ostacolo totale, detto occlusione. c) In base al luogo di articolazione – ossia in base al luogo in cui si produce

l’ostacolo: a. p è bilabiale b. t è alveo-dentale c. k è post-palatale.

[p] lat. pater : got fadar lat plenus : got fulls, a.ingl full lat piscis : a.nord. fiskr, a.ingl fisc [t] lat trēs : got þreis, a.ingl þrī lat mentum : a.ingl mūþ lat tū : a.ingl þū (> thou) [k] lat pecus : got faíhu, a.ingl feoh (> fee)

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lat centum : a.ingl hund [+ red cfr got raþjō (cfr lat ratio) = hundred “numero di cento”] Come si può osservare, ai suoni p t k corrispondono altri suoni. Non sono occlusivi, ma fricativi, perché l’ostacolo all’uscita dell’aria è parziale. Per il luogo di articolazione, [f] è labiodentale, [θ] è interdentale, [x] è postpalatale e [h] è laringale. Tutte sono sorde. [p] trova corrispondenza in [f] [t] trova corrispondenza in [θ] [k] trova corrispondenza in [x] / [h]

Occlusive sonore indeuropee

Consideriamo ora [b] [d] [g]. Sono occlusive sonore, ossia prodotte con attivazione del meccanismo laringeo (con vibrazione delle corde vocali). Sono i corrispettivi sonori di [p] [t] [k]. Abbiamo cioè le coppie di occlusive seguenti: sorda sonora

[b] [p] labiali

[d] [t] dentali

[g] [k] postpalatali

Cerchiamo corrispondenze anche per questi suoni. [b] lat labrum, labium : a.ingl lippa (> lip) Forse anche lat labor < ie. *slab- (‘debole’) : a.ingl. slæpan (> sleep) [d] lat decem : a.ingl (dial anglico) tēn lat duo : a.ingl twā (nt e femm)

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[g]

lat ego : got ik a.ingl iċ

Giungiamo così alla conclusione seguente: “Le occlusive sonore ie. corrispondono a occlusive sorde germaniche”. Infatti:

– [b] trova corrispondenza in [p] – [d] trova corrispondenza in [t] – [g] trova corrispondenza in [k]

Le occlusive sonore aspirate del sanscrito e le loro corrispondenze nelle lingue germaniche, slave, baltiche, e nel greco

Per le considerazioni seguenti si citano elementi consonantici del sanscrito, che è lingua del gruppo indo-iranico (v. sopra). La serie fonetica ora considerata è quella delle consonanti che per convenzione sono rappresentate dai simboli bh, dh, gh. Non si tratta, peraltro, di una simbologia fonetica vera e propria. Piuttosto, si tratta di simboli alfabetici semplificati. Questi segni grafici rappresentano consonanti – occlusive (luogo di articolazione) – sonore (con attivazione del meccanismo laringeo) – pronunciate con un’aspirazione. In fonetica si rendono spesso con i simboli [bh] [dh] [gh]; in modo simile si rendono p.es. le occl.sorde aspirate ingl [ph] [th] [kh] in attacco di parola (pan tan can). Il primo elemento delle corrispondenze sotto indicate è dato da parole del sanscrito. Seguono i corrispettivi delle lingue germaniche. [bh] scr bhrātar- : a.ingl brōþor, got brōþar scr bharami : a.ingl beru (> bear)

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[dh] scr bandhati (con radice *bhendh-: in scr., quando due sonore aspirate in sillabe successive, la prima passa a sonora semplice; con bh > b, si ha bandati): a.ingl bindan (> bind) [gh] scr stighnoti : got steigan, a.ingl stigan, a.a.ted. stigan (> steigen) Una prima conclusione è la seguente: “Alle occlusive sonore aspirate del sanscrito corrispondono, nelle lingue germaniche, occlusive sonore semplici: [bh] [dh] [gh] : [b] [d] [g] Abbiamo considerato brevemente la prima rotazione consonantica (che rende in italiano l’espressione tedesca Lautverschiebung, introdotta da Jakob Grimm). Essa riguarda la resa, nelle lingue germaniche, di tre serie di occlusive indeuropee: le sorde, le sonore, le sonore aspirate. In questa esposizione, dapprima si sono registrate alcune corrispondenze sistematiche tra l’elemento consonantico germanico – illustrato attraverso diversi esempi – e l’elemento consonantico di altre lingue indeuropee. Per le occlusive sorde e sonore si è considerato, come termine di paragone rappresentativo delle lingue ie, il latino. Per le occlusive sonore aspirate, invece, si è presa – come termine di paragone rappresentativo delle lingue ie. – la serie consonantica sanscrita, e la si è opposta alla serie consonantica corrispondente nelle lingue germaniche. Peraltro, la serie delle occlusive sonore aspirate – ben attestata nel gruppo indo-iranico – è rappresentata variamente in diversi altri gruppi ie: in greco vi sono occlusive aspirate sorde: scr [bh] : germ [b] : gr [ph] scr bharami, a.ingl beru : gr phero scr [dh] : germ [d] : gr [th]

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a.ingl dohtor : gr thygatér a.ingl rēad (> red) : gr erhythrós scr [gh] : germ [g] : gr [kh] a.ingl gōs, a.a.ted. gans : gr khān / khēn. Nelle lingue slave – come in quelle germaniche e nelle lingue baltiche – vi sono occlusive sonore semplici: scr [bh] : germ [b] : gr [ph] : sl [b] scr bharami, a.ingl beru, gr phero : rus beru scr [dh] : germ [d] : gr [th] : sl [d] : lituano [d] a.ingl rēad, gr erhythrós : ceco rudý : lit raudonas scr [gh] : germ [g] : gr [kh] : sl [g] a.ingl gōs, gr khān / khēn : rus. gus’ Ma nelle lingue slave e baltiche vi sono anche occlusive sonore che continuano occlusive sonore semplici indeuropee. Si ricordi lat decem : rus desjat’ con la corrispondenza d : d, laddove lat decem : a.ingl tēn, con la corrispondenza d : t: nelle lingue slave, una unica serie – le occlusive sonore – continua due serie indeuropee. In tal modo, in ambito slavo viene meno la distinzione tra le due serie fonetiche ie:

IE GRUPPO SLAVO

Occlusive sonore aspirate e

Occlusive sonore

:

Occlusive

sonore

Occlusive sorde : Occlusive sorde

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Le lingue germaniche, invece, mantengono le tre serie, pur cambiando la sostanza fonica:

IE GERM

Occlusive sonore aspirate : Occlusive sonore

Occlusive sonore : Occlusive sorde

Occlusive sorde : Fricative sorde

In altre parole: le lingue germaniche hanno innovato nella sostanza, non nella forma. Il sistema delle differenze fonologiche non è mutato.

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finito di stampare nel mese di maggio 2009

presso la LITOGRAFIA SOLARI Peschiera Borromeo (MI)

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EDUCattEnte per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica

Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)

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