Appunti dal corsi di diritto del lavoro - giappichelli.it · dell’economia curtense. Lo statuto...

13
PREMESSA Questo libro contiene la rielaborazione delle mie lezioni di Diritto del lavoro, materia che insegno da quasi vent’anni al corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università di Siena, e sono quindi destinate sostanzialmente a fornire un supporto agli studenti che affrontano l’esame. Non si tratta, perciò, di un classico manuale, ma di appunti ragionati, che evidentemente risentono sia delle “passioni” dell’autore sia delle specifiche esigenze didattiche del corso in questione. Infatti, sotto il primo punto di vista, una cospicua parte – che riprende un libretto uscito nel 2013 – è dedicata all’esame dello sviluppo storico della materia, allargato peraltro a più ampi contesti ideologici, eco- nomici, politici e di costume; sotto il secondo punto di vista, non viene trattato il lavoro pubblico e vengono fatti solo riferimenti basi- lari ai profili eurounitari, penalistici o processualistici della materia (per tacere delle relazioni industriali e della previdenza sociale, assen- ti anche nei manuali più “accorsati”): tutte discipline oggetto di spe- cifici corsi svolti da altri colleghi, rispetto ai quali non ho alcuna in- tenzione di operare invasioni di campo, né soprattutto la competenza per farlo. Si tratta poi – in controtendenza rispetto alla montante ipertrofia della materia, e di riflesso della manualistica – di un testo denso e asciutto (almeno nelle intenzioni), volto a cogliere l’essenziale, senza naturalmente ridursi a una sintesi riepilogativa in stile Bignami o giù di lì; al contrario, sono svolti tutti gli approfondimenti parsi ne- cessari, sostanzialmente quelli che aiutino a capire più i “perché” che i dettagli di un istituto. Non ci sono, perciò, “voli” eccessivi, adatti a un lettore più “maturo”; non ci sono quei particolari destinati a esse- re dimenticati dal più bravo degli studenti cinque minuti dopo l’esa- me; non c’è alcuna ansia di completezza (se non altro per non dover riscrivere il testo ogni mese); non c’è il retropensiero “scrivo dieci pa- gine perché lo studente ne impari almeno due”: ne ho scritte due per- ché lo studente le impari tutte e due, senza “saltare” niente e intrec- ciando le varie parti di una materia estremamente interconnessa. A questo proposito, nelle parentesi quadre ho operato frequenti rinvii ai vari paragrafi, che per comodità sono numerati progressivamente e non ricominciando daccapo a ogni nuovo capitolo: circostanza

Transcript of Appunti dal corsi di diritto del lavoro - giappichelli.it · dell’economia curtense. Lo statuto...

PREMESSA

Questo libro contiene la rielaborazione delle mie lezioni di Diritto del lavoro, materia che insegno da quasi vent’anni al corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università di Siena, e sono quindi destinate sostanzialmente a fornire un supporto agli studenti che affrontano l’esame. Non si tratta, perciò, di un classico manuale, ma di appunti ragionati, che evidentemente risentono sia delle “passioni” dell’autore sia delle specifiche esigenze didattiche del corso in questione. Infatti, sotto il primo punto di vista, una cospicua parte – che riprende un libretto uscito nel 2013 – è dedicata all’esame dello sviluppo storico della materia, allargato peraltro a più ampi contesti ideologici, eco-nomici, politici e di costume; sotto il secondo punto di vista, non viene trattato il lavoro pubblico e vengono fatti solo riferimenti basi-lari ai profili eurounitari, penalistici o processualistici della materia (per tacere delle relazioni industriali e della previdenza sociale, assen-ti anche nei manuali più “accorsati”): tutte discipline oggetto di spe-cifici corsi svolti da altri colleghi, rispetto ai quali non ho alcuna in-tenzione di operare invasioni di campo, né soprattutto la competenza per farlo.

Si tratta poi – in controtendenza rispetto alla montante ipertrofia della materia, e di riflesso della manualistica – di un testo denso e asciutto (almeno nelle intenzioni), volto a cogliere l’essenziale, senza naturalmente ridursi a una sintesi riepilogativa in stile Bignami o giù di lì; al contrario, sono svolti tutti gli approfondimenti parsi ne-cessari, sostanzialmente quelli che aiutino a capire più i “perché” che i dettagli di un istituto. Non ci sono, perciò, “voli” eccessivi, adatti a un lettore più “maturo”; non ci sono quei particolari destinati a esse-re dimenticati dal più bravo degli studenti cinque minuti dopo l’esa-me; non c’è alcuna ansia di completezza (se non altro per non dover riscrivere il testo ogni mese); non c’è il retropensiero “scrivo dieci pa-gine perché lo studente ne impari almeno due”: ne ho scritte due per-ché lo studente le impari tutte e due, senza “saltare” niente e intrec-ciando le varie parti di una materia estremamente interconnessa. A questo proposito, nelle parentesi quadre ho operato frequenti rinvii ai vari paragrafi, che per comodità sono numerati progressivamente e non ricominciando daccapo a ogni nuovo capitolo: circostanza

XVI PREMESSA

all’apparenza bizzarra, ma assolutamente in linea con tanti classici, da Barassi in avanti.

Sono grato ai miei collaboratori per le letture critiche che mi han-no voluto dedicare, correggendo in questo modo tante pecche del li-bro (tutte quelle residue sono evidentemente dovute alla mia testar-daggine); agli studenti incontrati in quasi quarant’anni a Salerno, a Napoli, a Catanzaro e a Siena, dai quali – davvero senza retorica – ho imparato molto più di quanto abbia loro insegnato; ad Andrea, Giuseppe e Pietro per il concreto apporto che mi hanno fornito; con loro, a tutto il corso del 2017, senza il cui incoraggiamento non mi sarei mai mosso all’“impresa”. A uno degli studenti di quel corso – e non ho bisogno di dirgli perché – il libro è dedicato.

LORENZO GAETA

Siena, dicembre 2017

LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

2 LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

PRIMA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE 3

I.

PRIMA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE

1. In principio…

Che il lavoro esista dagli albori dell’umanità, non c’è dubbio. Basterebbe ricordare che è proprio quella la punizione che Dio in-fligge ad Adamo per avergli disobbedito nel paradiso terrestre: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane»; «Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto» (Genesi 3: 19 e 23). Ma, appunto, nell’antichità il lavo-ro non è certo considerato un valore: quando Ulisse, sceso nell’A-de, incontra Achille e cerca di consolarlo, dicendogli che lui è di sicuro il re dell’aldilà, l’eroe acheo gli risponde che preferirebbe essere addirittura un lavoratore pur di tornare a essere vivo (Odis-sea, XI, 488-491: «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vor-rei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba, piuttosto che dominare tra tutti i morti de-funti»)! E un retaggio del lavoro inteso come pena, fatica fisica, è rimasto in lingue come il francese, lo spagnolo, il catalano, il por-toghese, dove lavoro è travail, trabajo, treball, trabalho, e in alcuni dialetti italiani; termine che nella nostra lingua designa invece – e non è un caso – il momento, faticosissimo, che precede il parto. Solo modernamente il lavoro è diventato un valore, addirittura quello fondante della nostra Repubblica (art. 1 Cost.).

Possiamo, allora, dire che anche il “diritto del lavoro”, se di questo vogliamo offrire una nozione ampia, tale da includere ogni regola giuridica che disciplini il mondo del lavoro, esiste da tem-pi immemorabili. Leggi che riguardano il lavoro esistono fin da epoche lontanissime: ad esempio, il codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C. (la stele su cui è scolpito è conservata al Louvre di Parigi) regola non solo il lavoro degli schiavi, ma anche quello salariato, con prescrizioni talvolta minute (qualche esempio: «188. Se un artigiano ha preso un ragazzo per farlo crescere con sé e gli insegna il proprio mestiere, egli non può essere chiesto in restitu-zione»; «257. Se qualcuno assolda un lavoratore del campo, gli pa-gherà otto gur di grano l’anno»).

4 LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

Senonché, ogni epoca ha avuto il suo “diritto del lavoro”, di vol-ta in volta diverso, anche profondamente, rispetto agli altri, in re-lazione ai differenti rapporti tra i soggetti coinvolti, ai differenti modi di produrre, al differente contesto storico e ideologico nel quale doveva operare. Quello attuale è, perciò, uno dei tanti “diritti del lavoro” che si sono succeduti nei secoli, e la fondamentale dif-ferenza rispetto a quelli che lo hanno preceduto sta nel fatto che per la prima volta il suo elemento centrale non è il lavoro ma il la-voratore: è il diritto del lavoro industriale, che, peraltro, si sta av-viando anch’esso verso la fine, per essere gradualmente sostituito da uno nuovo, di cui si cominciano già a scorgere i connotati.

2. Il lavoro nel diritto romano

Naturalmente, l’esperienza giuridica più interessante del mon-do antico è quella del diritto romano. Nell’antica Roma è domi-nante il lavoro servile degli schiavi, sui quali il padrone gode di un vero e proprio diritto reale. Il primo passaggio, nell’evoluzione del lavoro servile, si ha con l’emersione della locatio servi, cioè la ces-sione temporanea del proprio schiavo come lavoratore ad altri; una figura contrattuale successivamente estesa anche al libertus, lo schiavo liberato, la cui prestazione di opere può essere ceduta a terzi dall’ex padrone, in quanto il liberto resta obbligato a lavorare in favore di quest’ultimo.

Il lavoro degli uomini propriamente liberi ha invece una rile-vanza minima nel diritto romano. Solo alcune tipologie di presta-zioni sono previste e regolamentate, e, nell’ambito di un generale contratto di locatio conductio (rei et operis), sono essenzialmente riconducibili alla locatio operarum, con cui un soggetto si obbliga a porre le proprie energie lavorative a disposizione di un altro, in cambio di un corrispettivo (merces: le fonti giurisprudenziali par-lano di mercennarius per indicare genericamente il lavoratore libe-ro che loca le proprie prestazioni); da tale contratto sorgono azioni a tutela delle posizioni tanto del lavoratore che della controparte. Accanto ad esso, si ritrova la locatio operis, con cui il soggetto as-sume l’obbligo di assicurare un risultato compiendo una specifica attività. Le due forme di locazione rappresentano – anche se solo per suggestione – i capostipiti della moderna coppia del lavoro su-bordinato ed autonomo [98]. A parte si collocano, invece, le pro-fessioni “liberali”, affidate a modalità contrattuali diverse.

Nell’epoca tardoantica, una particolare forma di rapporto di la-voro è rappresentata dal colonatus, che sostituisce progressiva-

PRIMA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE 5

mente l’attività servile in ambito agricolo, creando figure di lavora-tori sempre più legati alla terra e aprendo così la strada alla servi-tù della gleba delle età successive.

3. Dal medioevo alla Rivoluzione francese

Nel medioevo, domina il sistema economico corporativo, con l’affermazione dell’associazionismo professionale nel contesto del-la società comunale. Fulcro del sistema è la bottega artigiana, in-gresso obbligato nel mondo del lavoro qualificato: il maestro pos-siede i segreti dell’arte e accanto a lui i discepoli lavorano sostan-zialmente per apprenderla, nel tipico contesto chiuso e limitato dell’economia curtense. Lo statuto corporativo regola le relazioni gerarchiche tra maestro e allievo, così come disciplina il rapporto di concorrenza tra gli artigiani, sia nella fase produttiva sia in quella di commercializzazione dei prodotti, cercando di garantire un equilibrio sociale nell’ambito di un’arte o di un mestiere. Più che al rapporto tra chi offre e chi presta il lavoro, si guarda, in-somma, al lavoro come fattore che incide sul rapporto tra produt-tori; perciò, il lavoro è visto anzitutto come materia prima di cui è consentito un utilizzo conforme all’equilibrio sociale prefissato. Anche gli statuti comunali contengono riferimenti al lavoro, per lo più in un’ottica di ordine pubblico.

Nel mondo feudale, il lavoro agricolo si consolida come vincolo perenne che lega il contadino alla terra, obbligata fonte di sosten-tamento e al tempo stesso invalicabile status di asservimento al do-minus. Tale vincolo si evolve lentamente dalla servitù della gleba dell’alto medioevo alla mezzadria della stagione comunale, conno-tata da un persistente servilismo, rielaborato però in chiave con-trattuale: nasce così il modello della ripartizione degli utili, carat-terizzato dal rapporto di lavoro tra la famiglia contadina e il pro-prietario, inquadrato dai giuristi medievali nello schema societa-rio. Fuori dallo schema associativo, il lavoro contadino di fatto si confonde per lo più con quello domestico, come prestazione lavo-rativa prettamente “muscolare” di irrilevante qualificazione pro-fessionale, svolta da un soggetto socialmente marginale, alla co-stante ricerca di sostentamento e di protezione.

Con l’età moderna, il corporativismo cambia in parte natura e funzione, seguendo le logiche riformatrici del moderno Stato asso-luto: a partire dal XVI secolo, esso si formalizza sempre più in chiave pubblicistica, perdendo i tratti dell’originaria autonomia. Il corporativismo continua ad essere, peraltro, lo schema ordinante

6 LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

della regolazione del lavoro, pur senza ricomprendere tutte le for-me lavorative del tempo: alla sua statica regolazione sfuggono, in particolare, le prestazioni di servizio svolte per una famiglia, sia all’interno della dimora signorile che nella bottega artigiana: un fenomeno diffuso, in bilico tra servizio domestico e lavoro salaria-to, la cui bassa qualificazione lo rende assimilabile a un rapporto di dipendenza para-servile, implicante una sottomissione totale che va oltre ogni profilo contrattuale. Il lavoro artigianale, che si diffonde anche nelle case dei singoli lavoratori, viene, poi, sempre più spesso supportato da un mercante, che presta i capitali in cambio di una partecipazione agli utili della bottega, realizzata anche mediante il commercio dei suoi prodotti: si tratta del cosid-detto Verlag, antenato del rapporto di lavoro, perché di lì a poco il mercante quasi sempre si trasformerà in datore di lavoro.

Nel Settecento, il controllo corporativo sul mercato viene sem-pre più visto come un intralcio alla circolazione della ricchezza, mentre lo sviluppo di nuove tecniche e delle prime forme di capi-talismo pervade anche l’agricoltura, con la diffusione di lavoro in-dustriale di matrice agricola, svolto da lavoratori che cominciano a dividersi tra campi e opifici.

In definitiva, nell’ancien règime il lavoro è caratterizzato da un delicato equilibrio tra situazioni di fatto, che trovano la loro rego-lazione nelle prassi, e incisive norme pubblicistiche, il cui intreccio ci restituisce, comunque, ancora l’immagine di un lavoro non libe-ro, o perché imprigionato nella dimensione corporativa o perché legato a relazioni ataviche di sottomissione. Sarà questo lavoro che la Rivoluzione francese mirerà a liberare.

II.

I PRIMI DECENNI DELL’ITALIA UNIFICATA E IL DIRITTO “SELVAGGIO”

4. La rivoluzione industriale

L’unificazione dell’Italia si realizza non senza problemi nel 1861. Gli anni che seguono, al netto della retorica risorgimentale, non sono particolarmente felici: gli italiani spesso non si sentono tali, in un contesto connotato da secoli dalle autonomie; la politica è saldamente borghese e liberale, dominata dalla Destra storica (Minghetti e Ricasoli), in un sistema nel quale vota meno del 2% della popolazione, cioè i maschi ricchi. Comincia a emergere un forte disagio sociale, che non è soltanto quello della popolazione meridionale, emblematizzato ed esasperato dal brigantaggio, ma interessa vasti strati della popolazione, che vivono in condizioni di indigenza oggi inimmaginabili e disposti, per disperazione, a cer-care fortuna emigrando in America. Lo scenario mondiale è domi-nato da grandi squilibri di classe, fino ad allora accettati con pas-siva rassegnazione, acuiti dagli sconvolgimenti economici che dal-l’Inghilterra di metà Settecento arrivano adesso anche in Italia.

La rivoluzione industriale cambia radicalmente il mondo del la-voro e si impone con forza anche da noi come nuovo modo di pro-durre, soppiantando in pochissimo tempo il secolare assetto artigia-nale, in un contesto comunque ancora sostanzialmente agricolo: nel 1861, i lavoratori dell’agricoltura costituiscono il 70% di tutti gli oc-cupati e quelli dell’industria appena il 18%; il rapporto si sposta di poco nel 1881, quando i primi sono il 65% e i secondi il 20%.

La rivoluzione industriale è legata allo sviluppo della macchina, posta al centro di un processo destinato alla produzione in serie; una macchina diversa da quelle rudimentali del mondo artigia-nale, che, con il rapido sviluppo della tecnologia, diventa sempre più complessa, costosa e ingombrante. Ciò comporta, innanzitutto, che un tale strumento può essere acquistato e gestito solo da un soggetto ricco, che non è più il mercante investitore dell’età mo-derna, ma il “nuovo” imprenditore capitalista, il quale organizza e dirige il lavoro altrui ricavandone profitto. Per utilizzare efficien-

8 LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

temente la macchina, inoltre, c’è bisogno di una struttura del tutto nuova, la fabbrica; verso la metà dell’Ottocento, il tessuto produt-tivo passa perciò, molto rapidamente, da tante piccole botteghe ar-tigiane disseminate sul territorio e nelle abitazioni dei lavoratori a poche grandi fabbriche concentrate nelle maggiori città.

L’artigiano, sia esso il capo della bottega che il semplice lavo-rante, anche a domicilio, se vuole continuare a lavorare per so-pravvivere con la propria famiglia, è costretto a cercare il lavoro in città e a deprofessionalizzarsi, cioè a trasformarsi in operaio della nuova fabbrica. Analoga sorte attende il contadino, erede del servo della gleba, non più in grado di sostentare la famiglia con le sole risorse dei campi.

Nasce, così, un mondo nuovo, popolato da lavoratori assai di-versi dal passato, i quali operano con ritmi massacranti e salari da fame, in grado di assicurare la mera sopravvivenza, in condi-zioni ambientali e igieniche spaventose, che non garantiscono al-cun rispetto della salute, dell’integrità psico-fisica, della dignità. Nel lavoro di fabbrica sempre più spesso sono utilizzati donne e bambini, anche molto piccoli, che costano di meno e talvolta so-no in grado di svolgere lavori che gli uomini farebbero peggio (nelle manifatture tessili come nelle miniere di zolfo). La situa-zione viene immortalata nella sua tragicità da tanti testi letterari, a partire da quelli di Dickens, Zola e Gorkij fino ad arrivare a quelli dei nostri veristi, Verga in testa.

In Italia, tuttavia, l’attività industriale decolla piuttosto lenta-mente; essa si concentra nel nord del paese, mentre il sud rimane sganciato dai processi di industrializzazione. Eppure, il Regno delle Due Sicilie ha avuto fino all’unità una buona vocazione in-dustriale (nel 1855 pare sia addirittura il terzo paese industrializ-zato del mondo, dietro solo a Regno Unito e Francia; nel 1861 i lavoratori dell’industria sono 1.600.000 al sud e 1.100.000 nel re-sto d’Italia). Ma dopo l’unità, guidato essenzialmente da una clas-se dirigente aristocratica composta da ricchi proprietari terrieri, il sud resta alle prese con un’agricoltura basata sul latifondo, che col tempo si rivelerà arretrata e fattore di decadenza. Nasce la “questione meridionale”, con un sud che si sente depredato, sfrut-tato e colonizzato a vantaggio di un nord sempre più ricco, moder-no e industrializzato.

Il diritto si fa trovare impreparato davanti all’impetuosa affer-mazione dell’industria e dei suoi apparati tecnologici, di modo che si assiste alla utilizzazione strumentale di istituti contrattuali tra-dizionali, così da assecondare le nuove strategie produttive.

I PRIMI DECENNI DELL’ITALIA UNIFICATA E IL DIRITTO “SELVAGGIO” 9

5. Il contratto e la fasulla eguaglianza delle parti

Dopo l’unificazione politica del 1861, l’Italia promuove l’unifi-cazione legislativa; è del 1865 il codice civile unitario, che, in real-tà, rappresenta una buona traduzione del codice napoleonico del 1804, improntato ai principi cardine del liberismo e dell’individua-lismo usciti trionfatori dalla Rivoluzione francese. Il nuovo codice, autentico monumento alla proprietà fondiaria, appare impotente davanti al terremoto della rivoluzione industriale, pur agli albori nel nostro paese. Esso contiene in pratica due soli articoli riferibili al lavoro di fabbrica, il 1627 e il 1628: il primo definisce il tipo di locazione «per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio»; il secondo precisa che tale contratto non può essere sti-pulato a tempo indeterminato, intendendo così ribadire il supera-mento dei rapporti servili a vita, retaggio dell’età feudale e moderna.

In effetti, i principi della Rivoluzione francese hanno liberato il lavoro dalle catene dell’ordine corporativo e della dipendenza ser-vile, trasformando radicalmente i rapporti giuridici su cui esso si fondava – riconducibili all’appartenenza rigida e immodificabile a uno status (non “si fa” il lavoratore, “si è” lavoratore) – in rapporti tra soggetti liberi ed eguali, che regolano a loro piacimento le ri-spettive relazioni giuridiche mediante uno strumento antichissi-mo, ma sempre vitale, il contratto. Ed è questo il motivo per cui i codici borghesi ottocenteschi ritengono di non doversi occupare della disciplina dei rapporti di lavoro: essi lo reputano un campo nel quale l’autonomia privata deve agire indisturbata e dove lo Sta-to deve limitarsi a garantire l’ordine pubblico.

Senonché, il sistema della libera determinazione delle parti con-trattuali, trasportato così com’è nel campo delle relazioni di lavo-ro, mostra una profonda mistificazione di fondo. Chi cerca lavoro ha molta più necessità di trovarlo di quanta ne abbia chi è in cerca di chi possa lavorare per lui: quindi, proporre lo strumento del contratto tra soggetti eguali in una relazione profondamente dise-guale quale quella di lavoro – con un imprenditore capitalista che, in quanto proprietario dei mezzi di produzione, è in grado di eser-citare il suo potere determinante su coloro che hanno bisogno di lavorare per vivere – non può avere altro significato che accrescere quella diseguaglianza, fornendo la tranquillizzante benedizione del diritto. Così, è nel nome della libertà di concorrenza che il «pa-drone» – per chiamarlo come fa il codice civile – “propone” a una persona di stare in fabbrica anche diciotto ore al giorno in condi-zioni disumane, di accontentarsi di quei pochi centesimi appena necessari per non morire di fame, di rinunciare ad ogni tutela

10 LAVORO E DIRITTO: UN PERCORSO STORICO

della propria salute, di rassegnarsi ad essere mandato via senza alcun motivo. Ed è sempre in nome di questa libertà che quella persona “accetta” di sottoscrivere un tale contratto: un po’ come il clochard di Anatole France, che, dopo tutto, ha liberamente de-ciso di passare le sue notti sotto i ponti della Senna. È il primo devastante impatto del diritto eguale in un sistema diseguale, che contrassegna il nascente diritto del lavoro, e che, in verità, lo contrassegnerà nel tempo a venire: il lavoratore dell’industria ri-sulta sin dalle origini un contraente estremamente debole, fuori e dentro il rapporto di lavoro.

Rispetto al lavoratore preindustriale, d’altro canto, quello indu-striale perde due connotati essenziali, ovvero il possesso della tec-nica (cioè del saper fare una cosa: oggi diremmo il know-how) e del tempo (cioè della libera gestione dei tempi di lavoro e non la-voro). La nuova organizzazione del lavoro industriale richiede che tutti lavorino nello stesso luogo e con gli stessi tempi: viene creato un orario di lavoro omogeneo, scandito dal suono delle sirene (è cu-rioso ricordare come l’Italia si dia un orario unico su tutto il terri-torio nazionale, basato sul meridiano di Termoli, solo nel 1886, e adotti il sistema internazionale dei fusi orari nel 1893); il lavorato-re diviene sempre più mero ingranaggio di una produzione via via più parcellizzata, ed è spesso del tutto inconsapevole di quel che produce, oltre che di come lo produce.

6. La nascita delle associazioni dei lavoratori

Rispetto a questa nuova realtà, il diritto vigente prospetta una situazione di forte chiusura nei confronti di un fenomeno che, al-meno in Italia, è ancora in una fase embrionale, ovvero l’associa-zionismo dei lavoratori. Da poco sono nate, quasi esclusivamente al nord e in Toscana, le società di mutuo soccorso, le leghe di resi-stenza, le società operaie, prevalentemente come associazioni di mestiere (prima in Italia quella dei tipografi), aventi l’obiettivo di tutelare i diritti degli associati e di promuovere la solidarietà di classe. Ma esse si trovano a fare i conti con uno dei principi base dell’ideologia borghese, diretto corollario dell’abolizione dell’ordi-namento corporativo: il divieto di entità intermedie tra l’individuo e lo Stato. Uno dei primi atti della Rivoluzione francese è la legge Le Chapelier del 1791, che proibisce le corporazioni e ogni coali-zione tra lavoratori (ma anche in Gran Bretagna un provvedimen-to simile, il Combination Act, è approvato nel 1799). Da noi, le cor-porazioni sono sciolte con la l. 1797/1864 (prima ancora, comun-

I PRIMI DECENNI DELL’ITALIA UNIFICATA E IL DIRITTO “SELVAGGIO” 11

que, la loro abolizione è prevista da tutte le costituzioni “giacobi-ne” degli Stati italiani preunitari tra fine Settecento e inizio Otto-cento), ma è il codice penale – quello del Regno di Sardegna del 1859, esteso dopo l’unificazione in tutta Italia (tranne che in To-scana, dove continua a vigere il più liberale codice di Leopoldo II del 1853) – a sanzionare «tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa»: così l’art. 386 c.p., che opera malgrado lo Statuto albertino del 1848 riconosca «il diritto di adunarsi pacificamente e senz’ar-mi», fuorché «in luoghi pubblici, od aperti al pubblico» (art. 32). L’associazionismo, in un contesto di liberismo puro, viene visto, cioè, come intollerabile ostacolo al libero spiegarsi delle regole del-la domanda e dell’offerta nella determinazione dei salari.

In Inghilterra e in Francia, non a caso i paesi più industrializza-ti, si sviluppa già nella prima metà dell’Ottocento una rudimentale legislazione di tutela, animata più da obiettivi di razionalizzazione della produzione che da reali intenti protettivi dei lavoratori: si tratta, infatti, di provvedimenti per lo più rivolti a regolare la dura-ta della giornata lavorativa, in particolare delle “mezze forze”, co-me vengono chiamati donne e fanciulli (nel Regno Unito, nel 1802 si interviene sui lanifici, nel 1819 e nel 1831 sui cotonifici, nel 1833, 1844 e 1847 sull’intera industria tessile, disciplinando la durata della giornata lavorativa per donne e minori, la salubrità e la tutela della moralità nell’ambiente di lavoro; la Francia emana una legge generale sul lavoro dei minori nel 1841). Nel nostro paese, forse perché meno industrializzato, non c’è nulla di questo, se esclu-diamo interventi circoscritti a singole realtà (ad esempio, per l’Ita-lia preunitaria, il minuzioso codice del 1789 di Ferdinando IV, che disciplina la vita, anche extra lavorativa, dei dipendenti della sete-ria di San Leucio, presso Caserta).

Il primo diritto del lavoro dell’Italia liberale mostra perciò il volto di un diritto selvaggio, duro almeno quanto quello, ben più famoso, che negli stessi anni anima il mitico West dei pionieri americani. Si tratta di un diritto pensato per tutt’altre situazioni e che, trapiantato nel campo dei nuovi rapporti di lavoro, risulta del tutto inadeguato a regolarli. Fondato com’è sul dogma dell’egua-glianza formale dei contraenti e completamente cieco davanti all’evidentissima diseguaglianza sostanziale dei rapporti di produ-zione nel lavoro industriale, l’applicazione del diritto civile a que-st’ultimo non può che avere, come conseguenza, quella di travol-gere e mortificare chi lavora per altri, assoggettato al potere di questi, come e peggio che cent’anni prima.