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L’AMERICA IN PANNE Apollo 13 7 I L «NUOVO SECOLO AMERICANO» È MAL PARTITO. OGGI GLI STATI Uniti sono meno potenti e molto più insicuri di quanto fossero allo scadere del Novecento. Il disastro iracheno scuote il paese. La guerra al terrorismo sembra invincibile. Peggio, infinibile. L’antiamericanismo serpeggia ovun- que. Gli alleati si defilano. Su scala globale la «superpotenza solitaria» è sfi- data da stelle vecchie (Russia) e nuove (Cina). Antagonisti regionali come Iran e Venezuela sconvolgono gli equilibri a stelle e strisce nelle aree decisive per l’approvvigionamento petrolifero degli Usa. La vulnerabilità energetica e finanziaria di un paese che si illudeva indipendente dal resto del mondo oscura l’orizzonte dell’American way of life: più di uno stile di vita, l’auten- tico patto sociale su cui si fonda la nazione dell’ottimismo e del progresso. L’élite di Washington oscilla fra depressione e autoesaltazione. «Failure is not an option» – «il fallimento non è un’opzione» – recita il mantra stile Apollo 13 di Bush e associati. Vero: non è un’opzione. È un fatto. L’America è stata battuta tre volte in cinque anni. L’11 settembre 2001, quando un commando suicida la colse con la guardia bassa e scos- se d’un colpo le certezze di chi si sentiva intangibile in casa propria. E ne- gli ultimi tre anni in Afghanistan e in Iraq, dove i soldati americani, dopo il miraggio della vittoria lampo, non riescono a domare le guerriglie e i terrorismi interni e d’importazione. Tre gravi sconfitte, da cui potrebbe scaturire una disfatta strategica. Non è facile ammettere di aver perso, specie quando si è abituati a vincere. Tanto più se si tiene al verdetto della storia. E Bush, uomo di sin- cera fede, è troppo imbevuto di messianismo per trascurare i posteri. Nel frattempo, deve evitare al suo partito la débâcle alle elezioni presidenziali del novembre 2008. È quindi sullo sfondo di una campagna elettorale se- mipermanente che conviene leggere il confronto politico-mediatico su co- me recuperare la sicurezza perduta. Bush ha poco più di un anno per

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IL «NUOVO SECOLO AMERICANO» È MAL PARTITO. OGGI GLI STATIUniti sono meno potenti e molto più insicuri di quanto fossero allo scaderedel Novecento. Il disastro iracheno scuote il paese. La guerra al terrorismosembra invincibile. Peggio, infinibile. L’antiamericanismo serpeggia ovun-que. Gli alleati si defilano. Su scala globale la «superpotenza solitaria» è sfi-data da stelle vecchie (Russia) e nuove (Cina). Antagonisti regionali comeIran e Venezuela sconvolgono gli equilibri a stelle e strisce nelle aree decisiveper l’approvvigionamento petrolifero degli Usa. La vulnerabilità energetica efinanziaria di un paese che si illudeva indipendente dal resto del mondooscura l’orizzonte dell’American way of life: più di uno stile di vita, l’auten-tico patto sociale su cui si fonda la nazione dell’ottimismo e del progresso.

L’élite di Washington oscilla fra depressione e autoesaltazione. «Failureis not an option» – «il fallimento non è un’opzione» – recita il mantra stileApollo 13 di Bush e associati. Vero: non è un’opzione. È un fatto.

L’America è stata battuta tre volte in cinque anni. L’11 settembre2001, quando un commando suicida la colse con la guardia bassa e scos-se d’un colpo le certezze di chi si sentiva intangibile in casa propria. E ne-gli ultimi tre anni in Afghanistan e in Iraq, dove i soldati americani, dopoil miraggio della vittoria lampo, non riescono a domare le guerriglie e iterrorismi interni e d’importazione. Tre gravi sconfitte, da cui potrebbescaturire una disfatta strategica.

Non è facile ammettere di aver perso, specie quando si è abituati avincere. Tanto più se si tiene al verdetto della storia. E Bush, uomo di sin-cera fede, è troppo imbevuto di messianismo per trascurare i posteri. Nelfrattempo, deve evitare al suo partito la débâcle alle elezioni presidenzialidel novembre 2008. È quindi sullo sfondo di una campagna elettorale se-mipermanente che conviene leggere il confronto politico-mediatico su co-me recuperare la sicurezza perduta. Bush ha poco più di un anno per

convincere il pubblico che in Iraq e negli altri fronti di guerra il peggio èpassato. Impresa non impossibile. L’America non è condannata al decli-no. Ma il primo passo della risalita è ammettere il fallimento attuale. Sen-za rimozioni (repubblicane) né catastrofismi (democratici).

2. Due scuole si affrontano oggi nel dibattito strategico americano suIraq e dintorni. La prima punta sul rilancio, la seconda sulla limitazionedei danni. Al netto della retorica elettorale, i due schieramenti – trasversa-li alle correnti politiche e ideologiche – sono forse meno antipodali diquanto amino apparire. Vediamo.

I fautori del rilancio, guidati da Bush, si annidano alla Casa Biancae nei think tanks amici, a cominciare dall’American Enterprise Institute edalla Heritage Foundation. Vi aderisce più o meno convintamente il gros-so del Partito repubblicano. I suoi esponenti più intrepidi sono il vicepresi-dente Dick Cheney e il senatore John McCain, aspirante successore di Bu-sh. Pentagono, Dipartimento di Stato e agenzie di intelligence sono comed’abitudine percorse da furiose lotte di fazione – quasi una guerra civilefredda, corresponsabile del caos concettuale e operativo nei teatri bellici –ma sono tenuti a seguire l’impulso del comandante in capo, non fosse cheper lealtà e dovere d’ufficio. E l’orientamento di Bush è chiaro, almenonelle intenzioni: «Da voi voglio sentire come vinceremo, non come ce neandremo» – così il presidente ha ammonito un gruppo di generali convo-cati ad inventare qualcosa per salvare la campagna d’Iraq 1. La vittoria èpossibile. Anzi, doverosa.

Ma come? Donald Rumsfeld, capro espiatorio della disfatta mesopota-mica, amava ripetere: «Se non riesci a risolvere un problema, allargalo».Bush traduce: se non riusciamo a stabilizzare l’Iraq, destabilizziamo l’I-ran. Proviamo a rovesciarne il regime. O almeno mettiamolo all’angolo,per costringerlo a ridimensionare le sue ambizioni egemoniche sul Golfo ea rinunciare all’arsenale atomico. Se poi a Teheran qualcuno decidesse difar fuori Ahmadi-Nejad per trattare con noi, tanto meglio. Appendere loscalpo del presidente iraniano alla Casa Bianca – metaforicamente, s’in-tende – avrebbe un effetto ritemprante sul morale della nazione, riscatte-rebbe in parte i rovesci in Iraq e in Afghanistan e varrebbe probabilmentequalche punto per il candidato repubblicano alla successione di Bush.

Un rilancio da scommettitore che ha perso quasi tutto e getta le ultimefiches su un piatto impossibile? Forse. Ma paradossalmente potrebbe fun-zionare. Sia sul fronte interno (elettorale) che su quello mediorientale. Incasa, perché l’ostinazione di Bush è molto americana. Come ricorda lostorico John Lewis Gaddis, quando è in pericolo l’America inclina a crede-

1. Cfr. D.E. SANGER, M.R. GORDON, J.F. BURNS, «Chaos Overran Iraq Plan in ’06, Bush Team Says», TheNew York Times, 2/1/2007.

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re che «la salvezza venga dall’allargamento piuttosto che dalla contrazio-ne della sua sfera di responsabilità». Se di fronte alla minaccia molte altrenazioni «si comportano come la maggior parte degli animali, trincerando-si in difesa o rendendosi quasi invisibili», gli americani invece rispondono«passando all’offensiva, facendosi più grossi», perché «l’espansione è pernoi la via alla sicurezza» 2.

Ma per sollecitare questo riflesso occorre una grande strategia medio-rientale. È quanto Bush ha cercato di definire negli ultimi mesi. Ancoranon ha trovato un’esplicita sistemazione, ma il nuovo approccio si basasui seguenti postulati.

A) L’Iran è il nemico principale. La Siria, Õizbullåh e Õamås i suoi al-leati più pericolosi. Teheran può oggi aspirare a dominare il Golfo, mi-nacciandovi i vitali interessi Usa. Quel regime è particolarmente perversoin quanto animato dall’intenzione di liquidare Israele e di sovvertire i re-gimi arabo-sunniti più o meno vicini a Washington – dall’Egitto all’Ara-bia Saudita – facendo leva soprattutto sulle rispettive minoranze sciite.Inoltre la sua influenza radicata nell’Afghanistan occidentale e nell’Iraqcentro-meridionale è una diretta minaccia ai soldati e agli interessi ame-ricani nei due teatri più caldi della guerra al terrorismo. O meglio, delbraccio di ferro Usa-Iran.

B) Tutte le mosse sullo scacchiere mediorientale (e oltre) vanno dun-que calibrate allo scopo di sconfiggere l’Iran. L’obiettivo massimo è di so-stituire al vigente un regime filoamericano. Quello minimo, di indurreTeheran a rinunciare all’arma atomica. E insieme limitare le sue ambi-zioni di controllo sull’Iraq e sull’intera regione del Golfo, ma anche sul-l’Afghanistan e sul Libano. Infine, l’Iran deve disinteressarsi dei Territoripalestinesi e mettere la sordina alla retorica antisraeliana e antisemita.Anche per rassicurare Gerusalemme, che altrimenti potrebbe essere tenta-ta da uno strike aereo preventivo contro le installazioni nucleari irania-ne. Idem per gli alleati arabi e sunniti, timorosi di essere abbandonati dalgrande protettore a stelle e strisce, garante della loro sopravvivenza.

C) In vista di questi obiettivi gli Usa promuovono il contenimento dell’I-ran. Come Truman inventò la Nato (1949) e Nixon mobilitò la Cina (1972)per chiudere la morsa attorno all’Unione Sovietica, così oggi Bush intendestringere un anello al collo dei mullah persiani. Contro questo nemico – spe-rano alla Casa Bianca – si può ricorrere alla deterrenza. Tornano le carevecchie regole della simmetria di potenza. La guerra si riconvenzionalizza.E su questo terreno gli Usa si sentono imbattibili.

Contrariamente all’Iraq – un caos di territori contesi – l’Iran ha infat-ti un consolidato profilo istituzionale e una sua rete di relazioni interna-

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92. J.L. GADDIS, Surprise, Security and the American Experience, Cambridge MA-London 2004, HarvardUniversity Press, p. 13.

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zionali più o meno classiche. Nel confronto con questo soggetto si può agi-tare il bastone sopra il tavolo ed esibire qualche carota sotto (discreti ca-nali di comunicazione restano aperti fra Washington e Teheran). E a dif-ferenza di al-Qå‘ida – una nebulosa terroristica, per definizione non ter-ritorializzabile né terrorizzabile – l’Iran è un nemico visibile, relativa-mente omologo. Perché è un regime. Di più: una poliarchia. Poteri diversi,diversamente legittimati – da Dio e dal popolo – e fra loro concorrenti. Edè un paese multietnico e multiculturale, in cui le minoranze arabe, curde,baluci e turchesche – sperano alcuni strateghi Usa – possono essere sobilla-te contro la maggioranza persiana. Nei suoi vertici politico-religiosi convi-vono faticosamente misticismo apocalittico e calcolo razionale. Di normaprevale quest’ultimo. Insomma, l’Iran è sensibile alla pressione. Può essereindotto al compromesso, se non alla resa, dall’accerchiamento geopolitico,economico e militare.

Sul primo fronte, la diplomazia Usa sta pazientemente allestendo un«asse sunnita» che comprende Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait,Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman. Un raggruppamento arabocuriosamente allineato con Israele dal comune timore della Persia sciita.Quasi una riabilitazione postuma di Saddam, che negli anni Ottanta eral’avamposto dell’Occidente contro la repubblica di Khomeini, e che sul pa-tibolo ancora ammoniva: «Non fidatevi dei persiani» – categoria da luiestesa agli sciiti iracheni.

Anche il Pakistan di Musharraf dovrebbe associarsi, per minare gli in-teressi iraniani in Afghanistan e premere sul fronte orientale, nella zonadi instabilità a prevalenza baluci. Mentre sul versante occidentale la Tur-chia, paese sunnita e partner Nato, non è certo in condizione di offriresponde ad Ahmadi-Nejad.

Inoltre, gli Stati Uniti sono riusciti a imporre sanzioni Onu, sia purblande, all’Iran. È stato fissato un principio importante, che nelle intenzionidi Bush prelude a misure più cogenti. Fino a colpire le esportazioni petroli-fere iraniane, provocando il collasso economico del paese. Sempre che russi,cinesi (e francesi) siano disponibili a partecipare allo strangolamento dellaPersia. Non pare probabile. Sicché gli americani hanno stabilito unilateral-mente nuove penalità finanziarie, a scoraggiare gli investimenti in Iran, so-prattutto nel settore energetico. Misure che mordono (carta a colori 1).

Sul versante militare, lo schieramento delle portaerei Stennis e Ei-senhower con i rispettivi gruppi navali nelle acque prospicienti l’Irancompleta il minaccioso arco terrestre disegnato dalle basi e dalle truppeamericane in Medio Oriente e in Asia centrale (carta a colori 2). Già oggiBush può scatenare un’offensiva aerea 24 ore su 24 per 40 giorni conse-cutivi contro migliaia di bersagli iraniani – nucleari, industriali, istitu-zionali – individuati nella pianificazione del Pentagono. Agenti specialioperano da tempo sul territorio persiano per raccogliere informazioni,

preparare attentati e agitare le acque del separatismo etnico, soprattuttonel Khuzistan (Arabistan), regione energetica chiave a forte insediamentoarabo. Parallelamente, il Mossad sta tentando di liquidare alcuni scien-ziati nucleari di punta: prima vittima, a quanto pare, l’ingegner ArdeshirHassanpour, morto misteriosamente a metà gennaio. Se la RepubblicaIslamica crollasse, Washington avrà pronta la sua alternativa: alla Cia silavora alla mappa di un «Iran delle regioni», uno Stato federale molto la-sco, impalcatura geopolitico-istituzionale del futuro regime amico.

A) Bisogna spegnere i riflettori sull’Iraq prima che la campagna presi-denziale entri nel vivo. L’obiettivo proclamato – farne un paese stabile e de-mocratico – è rinviato a un futuro indefinibile. Nel frattempo occorre dimo-strare agli amici dell’asse sunnita e a Israele che l’America non getta laspugna. Resta in Medio Oriente, resta in Iraq. Non si fida troppo dell’attualegoverno – al-Maløkø è al sicuro solo nella zona verde di Baghdad – e ancormeno delle truppe irachene. Ma conta di riportare una parvenza di ordinenella capitale e nella provincia di Anbår, cuore dell’insorgenza sunnita,entro la fine dell’estate. Aree in cui Bush sta rafforzando il contingenteamericano con altri 21.500 uomini, secondo un progetto pubblicamentesponsorizzato dall’American Enterprise Institute (carte a colori 3 e 4) 3. Se ilsurge avrà successo, l’offensiva americana permetterà di avviare entro unanno il rientro di buona parte delle truppe. E di smussare l’arma propa-gandistica con cui i democratici contano di aprirsi la strada verso la CasaBianca. In ogni caso, gli Usa intendono conservare in Iraq alcune basi mi-litari e una percepibile influenza sui destini politici ed energetici del paese,come confermano l’espansione della mega-ambasciata Usa a Baghdad,l’interesse per una legge sul petrolio che apra alle compagnie internazionalie soprattutto per le enormi riserve di greggio custodite nel ventre del desertooccidentale, stimate fino a 200 miliardi di barili.

Il nuovo approccio all’Iraq deve accentuare l’isolamento dell’Iran.L’America non può tollerare che Teheran costruisca un suo protettoratomesopotamico. Per questo Bush ha dato ordine di colpire i pasdaran infil-trati sul territorio iracheno – vasto programma – e di scoraggiarvi la pene-trazione economica persiana, simboleggiata dalla prossima apertura diuna banca iraniana a Baghdad.

B) Nel breve-medio periodo, il contenimento o meglio ancora la resadell’Iran e il raffreddamento del dossier iracheno dovrebbero convincere iprotagonisti emergenti (o riemergenti) della scena globale che la crisiamericana è una parentesi. E che quindi conviene riallinearsi, piuttostoche tentare di penetrare i vuoti di potenza aperti dai fallimenti Usa nelGrande Medio Oriente.

3. Cfr. Choosing Victory. A Plan for Success in Iraq. Phase I Report, a cura di F.W. KAGAN, AmericanEnterprise Institute 2006, www.aei.org/publications/pubID.25292/pub_detail.asp

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C) Più in generale, gli Usa vogliono mantenere l’offensiva contro i ter-roristi, in un conflitto che Bush immagina durare almeno una generazio-ne (carta a colori 5). Lo dimostra, fra l’altro, l’intervento in Somalia a so-stegno degli etiopici, con bombardamenti non troppo mirati che avrebberodovuto liquidare i terroristi di al-Qå‘ida incistati nelle Corti islamiche. Ela disponibilità a rafforzare il fronte afghano, cercando di spingere gli al-leati recalcitranti, Italia inclusa, ad anticipare l’offensiva di primaveradei taliban.

Anche l’annunciato reclutamento di altri 92 mila soldati e la creazio-ne di un Corpo della riserva civile, oltre all’ipotesi di reclutare una sortadi Legione straniera pari al 20% delle Forze armate nazionali, ventilata alPentagono, si inscrivono nell’orizzonte della guerra lunga 4.

3. Il rilancio di Bush è ad alto rischio. Se non funzionasse, la prima-zia degli Stati Uniti in Medio Oriente e nel mondo ne soffrirebbe in modoforse irreversibile. Per questo, i «realisti» dell’establishment militar-strategi-co-diplomatico (gli orfani di Powell), insieme con alcuni repubblicani,capeggiati dal senatore Chuck Hagel, e ai democratici moderati, non sisono limitati a criticare il surge ma hanno abbozzato una strategia diffe-rente. Non seccamente alternativa, però, come vorrebbero i liberals a tuttotondo, gli isolazionisti d’ogni colore e gli oppositori antemarcia di qualsia-si guerra, risorti dalle ceneri del pacifismo storico, che invocano il ritiroimmediato delle truppe dal fronte iracheno – e a seguire, magari, dal restodel mondo. Quanto ai presidenziabili democratici, Hillary Clinton in te-sta, evitano di esporsi troppo ma sostanzialmente condividono la ricetta«realista». Già accennata nel rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq 5 – fir-mato da due pesi massimi dell’establishment washingtoniano, l’ex segreta-rio di Stato James A. Baker III (repubblicano) e l’ex presidente della com-missione Esteri della Camera Lee H. Hamilton (democratico) – tale piat-taforma si ispira alle priorità seguenti.

Lasciamo perdere la vittoria in Iraq. Anche se è difficile ammettere lasconfitta – può sembrare antipatriottico e non aiuta a coagulare il consen-so – conviene preoccuparsi di limitare i danni di una guerra radicalmentesbagliata. Secondo il presidente del Council on Foreign Relations, RichardHaass – transfuga della prima amministrazione Bush – «l’èra del primatoamericano nel Medio Oriente è prematuramente finita». La regione è «peri-colosa per se stessa, per gli Stati Uniti e per il mondo». L’Iraq è un «ibridonon attraente: un misto di guerra civile, Stato fallito e conflitto regionale» 6

4. M. BOOT, «How Bush Can Ensure No More Iraqs», Los Angeles Times, 31/1/2007. 5. J.A. BAKER III, L.H. HAMILTON (copresidenti), The Iraq Study Group Report. The Way Forward: ANew Approach, New York 2006, Vintage Books.6. Cfr. la testimonianza al Senato di R.N. HAASS, 17/1/2007, www.cfr.org/publication/12435/prepa-red_testimony_before_the_senate_committee_on_foreign_relations.html?breadcrumb=%2Fregion%2F397%2Fmiddle_east

(carta 1). La ricetta non è il surge, che equivale a riamenicanizzare il con-flitto: più morti e più responsabilità per noi. Al contrario: conviene irachiz-zare la guerra e plasmare una cornice diplomatica che coinvolga tutti i vi-cini e impedisca la destabilizzazione dell’intero Medio Oriente. Un segnalepotrebbe venire dall’annunciato vertice di marzo a Baghdad fra iracheni epartner regionali, Siria e Iran inclusi. Lo scontro fra sunniti e sciiti non de-ve scavalcare i confini iracheni. Per gli Usa significherebbe costringere leproprie guarnigioni a un indecoroso ritiro o a restare prigioniere nella re-gione come vittime e/o strumento di progetti altrui.

Conviene quindi estrarre i soldati dalle città irachene e dalle provincepiù pericolose (Baghdad, Anbår, Diyålà e Salåõ al-Døn), riportarne ilgrosso a casa e piazzare il resto alle frontiere mesopotamiche, insieme aglialleati e agli amici disponibili, per bloccare le infiltrazioni siriane e ira-

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1-LA SPARTIZIONE DELL’IRAQ

Karbala

Amara

NasiriyyaK H U Z I S TA N

( A R A B I S TA N )

I R A N

S I R I A

A R A B I AS A U D I T A

T U R C H I A

K U WA I T

I R A Q

Abadan

Nagaf

al-Kut

Falluga

Zahu

Città multietnica a statuto speciale

Città sante sciite

Giacimenti transfrontalieri

Oleodotto Bassora-Abadan

Output 2010

Kurdistan

Aree disputatee rivendicate dai curdi

Grande Bassora(Chalabi, al-Yassin, Fadhila)

Sciistan (Sciri)

Area disputata

Repubblica islamica di Iraq,rivendicata dalla guerrigliasunnita, o Sunnistanconfederato.Capitale: Baghdad

Samarra

al-Rutba

Sulaymaniyya

4MBG

niane e lasciare che l’incendio si esaurisca. Poi gli americani accorreran-no a conforto del vincitore, chiunque egli sia. Qualcuno, come l’ex crem-linologo Dimitri K. Simes, sogna «l’emergere di un leader duro ma relati-vamente benigno che affermi legge e ordine» 7. Muqtadà al-Âadr?

Se Bush si preoccupa di contenere l’Iran minacciandolo, i suoi criticimoderati puntano a contenere l’incendio che devasta l’Iraq, armando ipompieri locali. Se funziona, bene. Se no, la responsabilità principale puòessere addossata agli iracheni. I seguaci di Baker-Hamilton non voglionosfidare l’impero dei pasdaran, ma reclutarlo fra i vigili del fuoco. Nonperché si fidino dell’Iran, ma perché attaccandolo finirebbero per ricom-pattarlo intorno ad Ahmadi-Nejad.

In ultima analisi, gli Stati Uniti possono convivere con un Iran nu-cleare. Giacché costerebbe più interdire la Bomba ai pasdaran che inclu-derli nell’equazione di deterrenza che finora impedisce a chi ne disponedi usarla (con la notevole eccezione Usa).

B) Lasciamo stare la democratizzazione del Medio Oriente. Non è pos-sibile. E nemmeno augurabile, se spinge al potere i peggiori nemici dell’A-merica. Invece, coinvolgiamo tutte le potenze regionali nel compromessofra Israele e mondo arabo-islamico. Il principio resta terra in cambio di pa-ce. La Siria riavrà il Golan, i palestinesi uno Stato a Gaza e in Cisgiorda-nia con qualche scambio di territori e senza «diritto al ritorno» dei profu-ghi, il Libano una frontiera sicura purché neutralizzi Õizbullåh. Tutti do-vranno riconoscere Israele e dimostrare nei fatti di non minacciarne la si-curezza. Una forza di interposizione a base Nato veglierà sui confini piùcaldi, dalla Valle del Giordano a Gaza. Nella sua versione più conseguen-te, tracciata da W. Patrick Lang sul National Interest, la Bibbia dei «realisti»conservatori, le cinque grandi potenze – Cina, Russia, Francia, Gran Bre-tagna e Stati Uniti – dovrebbero convocare un nuovo Congresso di Viennacapace di affrontare e risolvere insieme i maggiori dossier mediorientali 8.

C) L’Iraq non è l’ombelico del mondo. L’America non può concedersiil lusso di farne ancora una priorità. Più tempo passa nella missione im-possibile di vincere a Baghdad, più ne godono i suoi concorrenti nel cam-pionato globale della potenza, a cominciare dalla Cina. Questa guerra hadistratto enormi risorse umane, economiche, intellettuali e morali, impe-dendo agli Stati Uniti di affrontare le sfide strategiche cui non possono sot-trarsi. A cominciare dall’affermazione dell’Asia-Pacifico come nuovo cuo-re economico – e in prospettiva geopolitico – del pianeta.

4. L’Iran sente la stretta di Bush. Non passa giorno senza che voci criti-che si levino contro Ahmadi-Nejad, accusato di incompetenza economica e

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147. D.K. SIMES, «No More Middle East Crusades», Los Angeles Times, 9/1/2007.8. W.P. LANG, «A Concert of the Greater Middle East», The National Interest, 28/12/2006.

di avventurismo geopolitico. Esponenti del clero l’accusano di ingerirsi ne-gli affari religiosi. Non sono solo i riformisti o i conservatori pragmatici ca-peggiati da Rafsanjani a denunciare il dilettantismo del presidente. Cento-cinquanta parlamentari hanno firmato in gennaio un documento di seve-ra censura della politica economica governativa. La stessa Guida suprema,Ali Khamenei, si è smarcato da Ahmadi-Nejad e dai pasdaran che conti-nuano a sostenerlo. E tiene a far sapere al mondo che resta lui il decisorestrategico, non un presidente che nella gerarchia della Repubblica Islamicaè storicamente paragonabile a un primo ministro nel sistema gollista.

Nelle stesse file dei guardiani della rivoluzione si comincia a sentireodore di fronda. Specie dopo che il popolo ha sconfessato il presidente nel-le elezioni per il Consiglio degli Esperti – sorta di collegio cardinalizio de-putato a eleggere e a revocare la Guida suprema – e nel contemporaneovoto amministrativo (15 dicembre 2006).

Malgrado le promesse e gli slanci volontaristici del presidente, la crisieconomica peggiora. Inflazione e disoccupazione crescono a ritmo soste-nuto. I prezzi dei generi di prima necessità aumentano ogni giorno, col-pendo proprio quei ceti svantaggiati che nel giugno 2005 avevano votatoAhmadi-Nejad. Peggio: la rendita petrolifera sta evaporando, mentre siimpennano i sussidi energetici (30 miliardi di dollari l’anno) che pesanosul bilancio statale per il 15% del pil. Sotto la pressione americana, alcu-ni investitori europei hanno rinunciato a finanziare progetti energeticilocali. E nel caso di sanzioni internazionali contro le importazioni diprodotti petroliferi raffinati (il 40% del consumo interno), la crisi sarebbedevastante.

Forse nelle previsioni americane di imminente collasso economico ira-niano c’è una dose di wishful thinking. Ma a questo punto solo la guerrasembra poter salvare Ahmadi-Nejad. Non stupirebbe se lui stesso la provo-casse: può bastare un «incidente» che coinvolga i militari Usa in Iraq o inAfghanistan. Così come non si può escludere che a un certo punto Bushe/o Olmert decidano di forzare il gioco e infliggere ai persiani una lezionedestinata a riportarli indietro di qualche decennio. C’è insomma un pa-rallelismo nelle mosse dei «falchi» e dei «pragmatici» iraniani e americani.

Fra i «realisti» di Teheran c’è sicuramente Khamenei. Il suo obiettivo,condiviso da Rafsanjani, è di impedire la saldatura dell’asse sunnita spon-sorizzato da Bush. Di qui l’ambiguo quanto improbabile tentativo di rap-prochement con l’avversario saudita, espresso nell’incontro fra i rispettiviresponsabili della Sicurezza nazionale, Ali Larijani e Bandar bin Sul¿ån.Khamenei stesso ha scritto a re ‘Abdullåh, assicurandolo di non voler sof-fiare sul fuoco delle frustrazioni della minoranza sciita insediata nelloheartland petrolifero della monarchia wahhabita. Con un gesto inusuale,la Guida suprema è apparsa a reti televisive unificate mentre ricevevaesponenti della minoranza sunnita iraniana e leader religiosi provenienti

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da paesi arabi sunniti. E li ammoniva sulla priorità dell’unità musulma-na, contro i sobillatori nemici che vorrebbero dividerli per linee settarie.

Recentemente, emissari di Khamenei e di Bush si sono scambiati lette-re riservate per sondare le possibilità e le condizioni di un compromesso.Se non è solo fumo, lo vedremo presto in Iraq e in Afghanistan, dove Tehe-ran potrebbe contribuire alla pacificazione in cambio del riconoscimentoamericano del suo rango di potenza regionale e della reintegrazione nelcircuito economico globale.

Ma il clima fra Usa, Israele e Iran è talmente saturo di gas bellici chebasta una scintilla per scatenare la guerra. Quando Ahmadi-Nejad pro-clama che il suo paese sta diventando una «superpotenza», guarda soprat-tutto alla prospettiva che gli Stati Uniti siano prima o poi costretti ad ab-bandonare il Medio Oriente, semplicemente perché l’hanno troppo desta-bilizzato per poterlo controllare.

A un attacco americano e/o israeliano l’Iran può opporre una quan-tità di contromisure: chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui passa il12% del fabbisogno petrolifero americano (e il 25% di quello europeo),lancio di razzi õizbullåh e operazioni terroristiche di Õamås e della Jihådpalestinese contro Israele, attacchi alle truppe Nato in Afghanistan, atten-tati alle installazioni e alle istituzioni americane e israeliane – e dei loroeventuali alleati – ovunque possibile.

I pasdaran considerano l’Iraq come prima linea di difesa in caso di in-vasione da terra. Ipotesi molto improbabile, ma non si mai. I guardianidella rivoluzione hanno segretamente facilitato l’attacco americano al loronemico storico, Saddam. Fra l’altro infiltrando migliaia di uomini in terri-torio iracheno, a cominciare dai reparti di élite della Forza Qods, che an-cora oggi addestrano e armano diverse milizie sciite locali. E consolidandoi rapporti con i partiti sciiti, ma anche curdi. Una rete diffusa, pronta ascattare come una molla contro gli americani se questi attaccassero l’Iran.

Soprattutto, Teheran conta sul fattore tempo. Per quanti giorni o setti-mane la democrazia americana può reggere un’offensiva contro le instal-lazioni nucleari e industriali iraniane, con un’opinione pubblica dome-stica e internazionale esasperata dall’avventura irachena? E come pensaBush di arginare lo tsunami antiamericano che sconvolgerebbe l’interoarco islamico, minacciando quegli stessi regimi sunniti che la diplomaziaUsa ha allineato contro l’arcinemico sciita? Non è solo propaganda né de-lirio di onnipotenza, insomma, a spingere i pasdaran ad esibire certezzadi vittoria, se l’America attaccherà.

5. Vista dall’Italia, la parabola della guerra americana al terrorismo,nelle sue mutevoli configurazioni e nei suoi esiti deprimenti, accentua ilsenso di rassegnazione con cui noi ne subiamo le conseguenze.

Più tempo passa dall’11 settembre, più gli Stati Uniti restano impanta-nati nel Grande Medio Oriente, meno gli italiani e gli altri europei sonodisposti a capirli e a sostenerli. A differenza degli americani, non abbia-mo mai pensato di essere davvero in guerra. Se alcuni alleati hanno se-guito gli Usa fin nelle piane babilonesi, è stato per necessità più che perconvinzione – britannici inclusi. In Francia, poi, è la grande ora dei grilliparlanti – «ve l’avevo detto io!». Ricordando come Donald Rumsfeld nel-l’autunno 2001 sbattè la porta in faccia ai colleghi europei disposti a of-frire qualche battaglione nel Blitzkrieg contro Osama e il mullah Omar, eosservando come il suo successore Robert Gates cerchi oggi disperatamentedi spedire al fronte quegli stessi alleati, indisponibili a morire per impedireil ritorno dei taliban a Kabul, in alcune cancellerie veterocontinentali sistenta a reprimere una gioia maligna.

Qualsiasi opinione si abbia dell’America, per italiani ed europei nonc’è motivo di godere delle sue disgrazie. Entro certi limiti, la perdita di po-tenza del turbo a stelle e strisce può rallegrare cinesi e russi in quantoconcorrenti (ma anche partner) nella competizione globale, oltre ai rogueStates variamente inquadrati nel mirino di Bush. Il nostro destino è inve-ce legato a quello degli Stati Uniti. Peggio: quando butta male, Washing-ton può scaricare parte dei suoi problemi sugli europei. I rapporti di forzaglielo consentono. Chiamiamola socializzazione della sconfitta: se l’Ame-rica perde, perdiamo tutti. Il nostro problema, semmai, è impedire chequando l’America vince vinca solo l’America. In quel caso ci dovrebberoessere dividendi da distribuire, si spera anche ad «alleati e amici». Per in-tercettarne una quota servono due ingredienti: la lungimiranza america-na e quel rispetto di noi stessi che ci permetta di stabilire ciò che possiamodare e ciò che intendiamo ricevere dal nostro partner strategico. Condi-zioni entrambe lontane, specie la seconda.

Non era così ai tempi della guerra fredda: contro il nemico sovieticogli interessi vitali dei partner atlantici erano identici. Nel mondo reso sem-pre più anarchico dal fallimento della guerra americana al terrorismo,ognuno tende a fare per sé. Noi italiani, e con noi quasi tutti gli altri eu-ropei (meno, con qualche bemolle, francesi e inglesi), abbiamo rinunciatoad ogni ambizione egemonica dopo la guerra civile continentale (1914-1945) che ci ha drasticamente espulso dal girone dei Grandi, ormai tuttiamericani o asiatici. L’Italia e fino al 1990 la Germania hanno persinorinunciato a declinare il proprio interesse nazionale, che non fosse quelloprimario di proteggersi all’ombra degli Stati Uniti. Con i quali abbiamostabilito un rapporto decisivo (per noi) quanto malsano (per entrambi).Siamo stati e restiamo un po’ servi un po’ traditori. Non siamo né siamomai stati alleati paritari – in dignità, certo non in potenza.

Oggi non possiamo più concederci questo lusso. O pensiamo il nostrorapporto con l’America – e naturalmente con il resto del mondo – a parti-

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re dai nostri interessi, o contiamo nulla. E siamo quindi candidati a subi-re più di altri la ripartizione delle perdite americane nella crisi. Basta get-tare un’occhiata alla carta del Grande Medio Oriente per renderci contoche il caos è alle porte di casa nostra, in pieno Mediterraneo allargato: nelbreve come nel lungo periodo, destabilizzazione, miseria, guerre e terrori-smo toccano noi prima dei maggiori partner europei, per tacere degliamericani. Non abbiamo un oceano dietro cui ripararci.

Se e quando decideremo di occuparci del vincolo con gli Stati Unitiguardandolo dal nostro osservatorio, dovremo anzitutto sciogliere l’equi-voco Nato. Che cos’è oggi il Patto atlantico? Dal punto di vista americano,svolge due funzioni principali: impedire un’Europa potenza autonoma oaddirittura alternativa agli Stati Uniti (ma questo è l’incubo di qualcheanalista d’Oltreoceano più che un effettivo progetto europeo); offrire alleForze armate Usa un magazzino di risorse militari cui attingere quandonon se ne può fare a meno (quello che noi amiamo classificare come«multilateralismo», quasi fosse un’ideologia). Un utensile di impiego globa-le, in omaggio al motto «out of area or out of business». Quella che noichiamiamo pigramente alleanza – ma gli americani hanno voluto chia-marla «organizzazione», e chi voleva intendere intendesse – vista da Wa-shington è una struttura al servizio della sicurezza nazionale. E oggi Bu-sh ha più bisogno che mai di forze altrui da proiettare in teatri remoti afini propri o comuni. Nei pensatoi dell’Esercito americano c’è addirittura

Colorado Springs

Brasilia

Johannesburg

Amman

Bruxelles

Pechino

Delhi

SUPER-NATO (+ FED. RUSSA)

“NATO” DELL’ASIA-PACIFICO

“NATO” SUDASIATICA

“NATO” MEDIORIENTALE

“NATO” AFRICANA

“NATO” SUDAMERICANA

“NATO” NORDAMERICANA 2-LE SETTE “NATO”

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chi sostiene che una sola Nato non basti, e ne vagheggia altre sei: per Nor-damerica, Sudamerica, Africa, Asia-Pacifico, Asia meridionale e MedioOriente, con quartier generale rispettivamente a Colorado Springs, Brasi-lia, Johannesburg, Pechino (sic), Delhi e Amman 9 (carta 2).

Non c’è nulla di malizioso né di moralmente riprovevole nell’uso ame-ricano della Nato. È quanto farebbero gli altri alleati se fossero loro i piùforti. Ma non lo sono. Non lo siamo. Conviene quindi stabilire se e comeadattarci. Purtroppo il «dibattito» sull’allargamento della base Usa di Vi-cenza, con il tentativo di spacciarlo per fenomeno urbanistico, non pro-mette bene. Continuiamo ad oscillare fra il «non si può dire no agli ameri-cani» (forse ci bombarderebbero?) e l’antiamericanismo viscerale, dagliechi vagamente mussoliniani.

Riportato ai suoi termini freddi, concreti, il rapporto con gli Stati Unitisi rivelerebbe probabilmente anche a molti dei suoi critici nostrani comeun moltiplicatore di sicurezza e di benessere al quale sarebbe folle rinun-ciare. E poi, quale alternativa? Lo splendido isolamento? Più utile alloraconcentrarsi sulla qualità di tale vincolo. Per stabilire che questa Nato me-rita di essere rivisitata alla luce delle necessità nostre oltre che altrui. Forsequalcuno arriverà alla conclusione che saremmo meglio protetti da unpatto bilaterale con gli Stati Uniti – se non altro chiariremmo lo status deiloro militari in Italia. Certo sarebbe imperdonabile attendere che siano al-tri a stabilire quale Nato conviene a noi. O forse è proprio questo che sperala piccola parte della nostra élite che ancora pensa il mondo e giunge alladisperata conclusione che non ne vale pena.

9. J.R. NUÑEZ, «One NATO Is Not Enough», International Herald Tribune, 29/1/2007.

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LE BASI USA IN ITALIAa cura di Alfonso DESIDERIO

1. La base militare di Camp Ederle a Vicenza ospita dal 1965 il comando della SouthernEuropean Task Force (Setaf), istituita nel 1951 da un accordo tra Italia e Stati Uniti. Qui so-no ospitati i paracadutisti della 173a brigata dell’Esercito americano, impiegati nell’Iraqsettentrionale nel 2003 e poi nell’Afghanistan meridionale.La creazione di Camp Ederle 2 – sui 450 km2 dell’ex aeroporto militare Dal Molin, tra Col-dogno e Vicenza, a 12 chilometri da Camp Ederle e a 5 dal centro storico di Vicenza –consentirà di riunire la 173a brigata, oggi in parte dislocata in Germania, nell’ambito delprogramma americano di trasformazione delle truppe e delle basi in Europa. Da truppe pe-santi e grandi basi in Germania e lungo la cortina di ferro a basi più piccole e truppe piùleggere in Europa orientale e meridionale, retroguardie logistiche per l’impiego nelle zonecalde (Medio Oriente, Caucaso, Asia centrale e Africa). Nella doppia base di Vicenza, inti-tolata a Carlo Ederle, eroe della prima guerra mondiale, i militari americani passerannoentro il 2010 dagli attuali 2.700 (più 860 dipendenti civili americani, 750 italiani e circa 8mila familiari) a 4.500 (più circa 15 mila civili tra dipendenti e familiari), su un totale dicirca 16 mila soldati americani in Italia. Gli investimenti americani per l’ampliamento sa-ranno di quasi 500 milioni di euro, mentre il budget di spesa annuale passerà dagli attuali176 a 304 milioni di euro a progetto ultimato. Il secondo caposaldo dell’Esercito americano in Italia è Camp Darby, tra Pisa e Livorno, es-senzialmente un grande deposito di munizioni conservate in 125 bunker.La base di Vicenza è collegata funzionalmente con la base di Aviano, vicino Pordenone,principale insediamento dell’Aeronautica americana. Aviano ospita uno stormo di F-16 ecirca 4 mila soldati americani. È stata il perno degli attacchi aerei della Nato in Jugoslaviaall’epoca della guerra del Kosovo (1999). Qui (e probabilmente anche a Ghedi vicino Bre-scia) sono conservate alcune decine di testate nucleari americane. Nel 1998 un aereo Usain addestramento violò le regole e tranciò la funivia del Cermis provocando 20 morti.Nel Sud Italia invece la protagonista è la Marina americana. Gaeta ospita il comando dellaVI Flotta, responsabile per il Mediterraneo e il Vicino Oriente. Una parte delle strutture del-la VI Flotta è a Napoli, insieme alle truppe americane presenti nell’ambito del comandoNato del Sud Europa, di stanza appunto nel capoluogo partenopeo.In Sicilia la base di Sigonella – a 16 chilometri da Catania – è invece il più importante sca-lo dell’aviazione della Marina americana nel Mediterraneo. È la principale struttura logisti-ca della VI Flotta, testa di ponte americana verso Africa e Medio Oriente. Nel 1985 i mili-tari italiani a Sigonella costrinsero gli americani a lasciar partire l’aereo del palestineseAbu ‘Abbas, considerato dagli Usa (ma non dalla magistratura italiana) responsabile delsequestro dell’Achille Lauro e costretto ad atterrare a Sigonella dai caccia americani. In fase di smantellamento è invece la base di appoggio per i sottomarini nucleari in Sar-degna, a Santo Stefano nell’arcipelago di La Maddalena, che chiuderà il 29 febbraio2008. Altri piccoli contingenti americani sono poi dislocati nei quartier generali e nei cen-tri di telecomunicazione della Nato in Italia e nei centri d’ascolto e di intelligence in altrebasi italiane.

2. La presenza di truppe americane in Italia risale alla seconda guerra mondiale e alla suc-cessiva guerra fredda. Il principale contributo dell’Italia all’Alleanza atlantica si è concretiz-zato attraverso la disponibilità all’uso di basi sul nostro territorio. Di fondamentale impor-tanza fu ad esempio la decisione di schierare gli euromissili in Sicilia, a Comiso – base og-gi chiusa – nonostante le titubanze degli altri paesi europei. La questione delle basi è quindilo specchio dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti, che è sempre stata gestita sia sul piano mul-tilaterale della Nato sia su quello bilaterale, mantenendo una certa ambiguità sulla distin-

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zione dei due piani, per motivi di politica interna e perché durante la guerra fredda i duepiani spesso coincidevano.Gli americani in Europa hanno sempre mantenuto i rapporti su tale doppio binario. Riflessodi questa ambiguità è il ruolo del comandante delle truppe americane in Europa che è an-che il comandante supremo delle truppe alleate (Saceur) della Nato. Ad esempio, durantela guerra della Nato contro la Jugoslavia i bombardamenti aerei erano gestiti in sedeatlantica mentre quelli missilistici solo dal comando americano (che così poteva aggirareeventuali veti degli alleati su determinati obiettivi serbi).L’alleanza militare tra Usa e Italia è regolata sul piano multilaterale dal Trattato del NordAtlantico (4 aprile 1949), dal Trattato di Londra (19 giugno 1951, più noto come Sofa, Sta-tus of Forces Agreement) e dal protocollo del 28 agosto 1952 sullo status dei quartier gene-rali della Nato; sul piano bilaterale dall’Accordo di Washington (27 gennaio 1950) e dal-l’Accordo di Roma (7 gennaio 1952) rispettivamente sull’assistenza difensiva reciproca esulla sicurezza reciproca. I due piani si confondono e si legittimano reciprocamente. L’ac-cordo chiave sulle basi concesse in uso alle forze Usa in Italia, il cosiddetto Bia (Accordobilaterale italo-statunitense sulle infrastrutture) del 20 ottobre 1954, è un accordo segretomai ratificato dal parlamento italiano perché considerato un documento tecnico in attuazio-ne del ratificato Trattato del Nord Atlantico che istituiva la Nato. L’accordo del 1954 è unaccordo quadro che disciplina le infrastrutture concesse agli americani e presenta 11 alle-gati tecnici riferiti alle basi di allora. Questi allegati sono stati di volta in volta aggiornaticon il passare degli anni e la chiusura o il cambiamento d’uso o la creazione di nuovi basi.Limes ha pubblicato nel 1999 il testo di due articoli del trattato segreto: l’articolo 2 obbligagli Usa ad avvalersi delle basi nel quadro della collaborazione atlantica e a non servirsi didette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni Nato o accordi con il governo ita-liano; l’articolo 4 stabilisce che le installazioni sono poste sotto comando italiano e i co-mandi Usa detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni (cfr. A. Deside-rio, «Paghiamo con le basi la nostra sicurezza», Limes, «A che ci serve la Nato», n.4/1999, pp. 27-41). Diversa è la questione delle cosiddette basi Nato. Le forze della Nato sono infatti la sommadelle truppe messe a disposizione dai paesi membri, quindi si tratta semplicemente di basiitaliane assegnate a compiti Nato. Il loro numero può quindi variare, come è successo nellaguerra del Kosovo quando sono state utilizzate dagli alleati 12 basi aeree italiane per lan-ciare gli attacchi contro la Jugoslavia. Le uniche strutture dell’Alleanza sono i comandi e iquartier generali, le installazioni radar e di telecomunicazione e alcune strutture di forma-zione o rappresentanza.Dopo la fine della guerra fredda non si è ritenuto opportuno rivedere le caratteristiche del-l’alleanza tra Italia e Stati Uniti. Nel 1995 però veniva firmato un memorandum d’intesa trai due paesi con cui venivano aggiornati i rapporti in materia di difesa e l’attuazione del-l’accordo del 1954. Tale memorandum è stato poi reso pubblico dal governo D’Alema do-po la tragedia del Cermis, ma per gli aspetti più interessanti rinviava all’accordo del 1954e successivi aggiornamenti, che rimanevano segreti. Il secondo comma dell’articolo 1 delmemorandum stabilisce: «La collaborazione per la difesa comune si svolgerà a livello bila-terale e nei limiti del Trattato del Nord Atlantico». Il memorandum d’intesa non ridefinisce le caratteristiche dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti,rifugiandosi nella conferma del rapporto atlantico nel nuovo scenario internazionale.In definitiva, alla luce di quanto si conosce dell’accordo del 1954, se l’uso delle basi avvie-ne in ambito Nato, dove l’Italia partecipa alla decisione collettiva, la disponibilità della ba-se è automatica, se invece avviene sulla base di decisioni unilaterali americane in teoria ènecessario l’accordo con il governo italiano. In pratica però il braccio di ferro di Sigonellae la tragedia del Cermis hanno dimostrato che almeno in quei casi la prassi americana da-va tale assenso per scontato.