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“La questione palestinese e l’opinione pubblica mondiale” Trascrizione dell’incontro con Pier Giovanni Donini del 13 marzo 2002, nell’aula A8 di Monte Sant’Angelo. Riveduta, corretta e ampliata dal prof. Donini, che non poté licenziarla nella sua versione finale per la sopravvenuta malattia che lo portò in breve tempo ad una morte prematura il 21 maggio 2003, all’età di 67 anni. Per questo motivo non era stata pubblicata sulla pagina-web del Dipartimento di Fisica. Ora, a quasi vent’anni e in memoria dello studioso e dell’amico, appare importante che venga pubblicata. Buona sera, mi fa piacere vedere un’aula così piena. Bene. Risulta da recenti sondaggi che oltre metà della popolazione di Israele è schierata su posizioni che possiamo in prima approssimazione identificare con quelle del Primo Ministro dello Stato ebraico, Ariel Sharon. Noi siamo giustamente colpiti quando pochi, ma coraggiosi, cittadini di Israele alzano la voce e fanno come quelle centinaia, circa 400, tra ufficiali e militari di truppa dell’esercito, che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati o come, per esempio, il prof. Daniel Amit, che pubblicamente li sostiene. Ognuno di loro merita l’ammirazione e il nostro rispetto per il coraggio di cui dà prova in una situazione di questo genere, ma non ci possiamo nascondere che sono una piccolissima minoranza. Una minoranza che avrebbe anche bisogno di essere incoraggiata da noi, perché ognuno di quelli che firmano, che rifiutano, che si dichiarano obiettori di coscienza, va incontro a procedimenti disciplinari e quindi anche a spese per avvocati (c’è un sito 1 in cui si invita alla solidarietà concreta, a mandare soldi per un fondo di difesa). Sono purtroppo una piccolissima minoranza. Non siamo più, in Israele, ai tempi degli anni ‘80, quando i massacri di Sabra e Chatila, svoltisi sotto gli occhi e con la passiva complicità dello stesso Sharon dei nostri giorni 2 , avevano fatto scendere in piazza almeno 200mila persone, che per un paese piccolo come Israele è come per noi due milioni, forse di più. Rispettiamo dunque questi cittadini israeliani, ma ricordiamoci che sono una goccia nel mare. Il loro peso sull’opinione pubblica mondiale e all’interno di Israele è per forza di cose limitato. Rimane il valore della loro testimonianza morale e, benché io mi professi ateo, vorrei citare a questo proposito un brano della Bibbia 3 , quello in cui Abramo, di fronte alla notizia che il Buon Dio si prepara a distruggere Sodoma per punire i suoi abitanti dediti al vizio, si impietosisce e obietta: “Ma ci sarà pure qualche buono, qualche onesto in questa città”. E Dio gli dice: “Trovamene cinquanta e la città sarà salva”. Allora lui comincia a mercanteggiare con il Padreterno e dice: “Beh, forse cinquanta non ne trovo...”, “Trovamene quarantacinque ed io salverò la città.” E così via, finché il Padreterno si accontenta di dieci persone. Va bene… la Bibbia è all’origine di molte barzellette con cui gli stessi ebrei hanno rallegrato la cultura mondiale. Adesso veniamo invece al tema del mio intervento e, siccome alcuni di voi sono studenti di facoltà scientifiche, dovrò precisare fin dall’inizio che più che uno storico del Medio Oriente io sono uno storico del Vicino Oriente. Non è il caso di preoccuparsi troppo della distinzione tra Vicino e Medio Oriente, che in prima approssimazione interessa soltanto gli accademici 4 , alcuni dei quali si devono presentare come professori di qualche materia del Vicino Oriente, ed altri del Medio Oriente. Mi ricollego a quanto detto, nella presentazione iniziale, sul filmato girato da Pier Paolo Pasolini nel 1963 durante il sopralluogo in Palestina, in vista dell’inizio della lavorazione del 1 [Il sito-web seruv.org.il, purtroppo, oggi non è più raggiungibile, ma si può vedere il sito, tutt’ora attivo, www.breakingthesilence.org.il , NdR 2020] 2 È stato appena ripubblicato un prezioso volumetto che descrive dettagliatamente la strage: Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila. Inchiesta su un Massacro, Pistoia, CRT, 2002. Vedi il sito: www.petiteplaisance.it. 3 Genesi 18, 24-33. 4 I termini della questione sono riassunti in Pier Giovanni Donini, Il mondo arabo-islamico, Roma, Edizioni Lavoro, 2002. Cfr. anche Ettore Rossi, “Sulle denominazioni «Vicino Oriente» e «Medio Oriente»”, in Oriente Moderno, XX, 1940, p. 209.

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“La questione palestinese e l’opinione pubblica mondiale” Trascrizione dell’incontro con Pier Giovanni Donini del 13 marzo 2002, nell’aula A8 di Monte Sant’Angelo. Riveduta, corretta e ampliata dal prof. Donini, che non poté licenziarla nella sua versione finale per la sopravvenuta malattia che lo portò in breve tempo ad una morte prematura il 21 maggio 2003, all’età di 67 anni. Per questo motivo non era stata pubblicata sulla pagina-web del Dipartimento di Fisica. Ora, a quasi vent’anni e in memoria dello studioso e dell’amico, appare importante che venga pubblicata.

Buona sera, mi fa piacere vedere un’aula così piena. Bene.

Risulta da recenti sondaggi che oltre metà della popolazione di Israele è schierata su posizioni che possiamo in prima approssimazione identificare con quelle del Primo Ministro dello Stato ebraico, Ariel Sharon. Noi siamo giustamente colpiti quando pochi, ma coraggiosi, cittadini di Israele alzano la voce e fanno come quelle centinaia, circa 400, tra ufficiali e militari di truppa dell’esercito, che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati o come, per esempio, il prof. Daniel Amit, che pubblicamente li sostiene. Ognuno di loro merita l’ammirazione e il nostro rispetto per il coraggio di cui dà prova in una situazione di questo genere, ma non ci possiamo nascondere che sono una piccolissima minoranza. Una minoranza che avrebbe anche bisogno di essere incoraggiata da noi, perché ognuno di quelli che firmano, che rifiutano, che si dichiarano obiettori di coscienza, va incontro a procedimenti disciplinari e quindi anche a spese per avvocati (c’è un sito1 in cui si invita alla solidarietà concreta, a mandare soldi per un fondo di difesa). Sono purtroppo una piccolissima minoranza. Non siamo più, in Israele, ai tempi degli anni ‘80, quando i massacri di Sabra e Chatila, svoltisi sotto gli occhi e con la passiva complicità dello stesso Sharon dei nostri giorni2, avevano fatto scendere in piazza almeno 200mila persone, che per un paese piccolo come Israele è come per noi due milioni, forse di più.

Rispettiamo dunque questi cittadini israeliani, ma ricordiamoci che sono una goccia nel mare. Il loro peso sull’opinione pubblica mondiale e all’interno di Israele è per forza di cose limitato. Rimane il valore della loro testimonianza morale e, benché io mi professi ateo, vorrei citare a questo proposito un brano della Bibbia3, quello in cui Abramo, di fronte alla notizia che il Buon Dio si prepara a distruggere Sodoma per punire i suoi abitanti dediti al vizio, si impietosisce e obietta: “Ma ci sarà pure qualche buono, qualche onesto in questa città”. E Dio gli dice: “Trovamene cinquanta e la città sarà salva”. Allora lui comincia a mercanteggiare con il Padreterno e dice: “Beh, forse cinquanta non ne trovo...”, “Trovamene quarantacinque ed io salverò la città.” E così via, finché il Padreterno si accontenta di dieci persone. Va bene… la Bibbia è all’origine di molte barzellette con cui gli stessi ebrei hanno rallegrato la cultura mondiale.

Adesso veniamo invece al tema del mio intervento e, siccome alcuni di voi sono studenti di facoltà scientifiche, dovrò precisare fin dall’inizio che più che uno storico del Medio Oriente io sono uno storico del Vicino Oriente. Non è il caso di preoccuparsi troppo della distinzione tra Vicino e Medio Oriente, che in prima approssimazione interessa soltanto gli accademici4, alcuni dei quali si devono presentare come professori di qualche materia del Vicino Oriente, ed altri del Medio Oriente. Mi ricollego a quanto detto, nella presentazione iniziale, sul filmato girato da Pier Paolo Pasolini nel 1963 durante il sopralluogo in Palestina, in vista dell’inizio della lavorazione del

1 [Il sito-web seruv.org.il, purtroppo, oggi non è più raggiungibile, ma si può vedere il sito, tutt’ora attivo, www.breakingthesilence.org.il , NdR 2020] 2 È stato appena ripubblicato un prezioso volumetto che descrive dettagliatamente la strage: Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila. Inchiesta su un Massacro, Pistoia, CRT, 2002. Vedi il sito: www.petiteplaisance.it. 3 Genesi 18, 24-33. 4 I termini della questione sono riassunti in Pier Giovanni Donini, Il mondo arabo-islamico, Roma, Edizioni Lavoro, 2002. Cfr. anche Ettore Rossi, “Sulle denominazioni «Vicino Oriente» e «Medio Oriente»”, in Oriente Moderno, XX, 1940, p. 209.

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“Vangelo secondo Matteo”, uscito nel 1964. Effettivamente è un filmato interessante, però soprattutto per quello che Pasolini non dice, piuttosto che per quello che dice. Ci sono delle osservazioni che a me hanno dato fastidio, le ho trovate quasi razziste, sul forte dislivello culturale, “di civiltà” –sembra di capire dalle parole di Pasolini– tra gli arabi di Israele e gli ebrei di Israele. Gli arabi compaiono poco in questo filmato, ma mi sembra di capire che, ogni volta che li nomina, Pasolini associa a questi abitanti originari di Israele il concetto di arretratezza, inciviltà, barbarie. Non possiamo fargliene una colpa, perché Pasolini si occupava di altre cose, ma da un intellettuale, e –dobbiamo supporre– da un intellettuale ben informato sulla vita del suo tempo e sugli eventi del suo tempo, ci si potrebbe aspettare una maggiore attenzione nei confronti di questo paese che, in termini scientifici, dobbiamo chiamare lo Stato di Israele.

In quel momento descritto da Pasolini si parlava dello Stato di Israele e, per quanto riguarda la Cisgiordania, del Regno di Giordania (allora erano territori non ancora occupati da Israele, lo saranno nel 1967), mentre “Palestina” è il nome che definisce più un’aspirazione che una realtà. Dal punto di vista nostro, di oggi del 2002, ci sembra forse incredibile che un intellettuale degli anni ’60 potesse viaggiare per lo Stato di Israele senza sentirsi turbato dalla natura stessa di quello Stato, cioè di uno Stato costruito da europei su un pezzo di terra extraeuropeo abitato da cittadini extraeuropei.

Ora, nella storia dell’Europa, quando ciò riguarda gli inglesi, i francesi, gli italiani, nessuno ha dubbi: si tratta di una impresa coloniale. Eppure, classificare la nascita, il progetto sionista che ha condotto alla nascita di Israele, come un progetto coloniale, è qualcosa che riesce inaccettabile a gran parte dell’opinione pubblica, italiana senz’altro, europea anche, e non mi riferisco soltanto all’opinione pubblica ebraica. E a questo punto diventa indispensabile distinguere tra ebrei, sionisti ed israeliani: concetti su cui permane una certa confusione, se anche uno dei più quotati giornalisti del nostro paese è riuscito a scrivere che, nel 1944, c’erano combattenti “israeliani” arruolati nelle forze alleate impegnate nella liberazione della Penisola italiana. “Israeliano” è, ovviamente, il cittadino dello Stato di Israele nato nel 1948; e quei cittadini non sono soltanto ebrei, ma anche e per circa un quinto della popolazione arabi palestinesi, cristiani e musulmani. Altrettanto ovviamente, “ebreo” è chi si riconosce nella tradizione culturale –non solo strettamente religiosa– di Mosè, dei patriarchi della Bibbia e dei loro seguaci. Dovrebbe essere altrettanto ovvio che non tutti gli ebrei sono sionisti: su questo ritorneremo, per ora basterà ricordare una battuta molto diffusa all’inizio del ventesimo secolo, secondo cui “Il sionista è un ebreo che si fa dare soldi da un altro ebreo per mandare un terzo ebreo in Palestina”.

Il Pasolini che visita Israele all’inizio degli anni ’60 è un intellettuale che conosce lo Stato di Israele sulla base dell’informazione comune che veniva diffusa in quegli anni. E l’informazione comune che veniva diffusa in quegli anni era un’informazione che risentiva molto della propaganda fatta dal movimento sionista prima della nascita dello Stato, e poi dal governo di Israele e dai suoi amici all’estero.

Tutta la storia del sionismo si intreccia attorno a pochi slogan di grande efficacia. E forse, in definitiva, se dovessi spiegare il successo del sionismo come movimento d’opinione, direi che ha avuto successo soprattutto perché è stato inizialmente una storia di quelle che affascinano i lettori e i cittadini, degli Stati Uniti soprattutto: le leggende tipo “dall’ago al milione”. La storia del sionismo è proprio una storia di quel genere. Inizialmente, quando nasce, il sionismo è un movimento assolutamente minoritario. Nel giro di mezzo secolo diventa il movimento in cui si identifica più o meno la metà della popolazione ebraica mondiale. Dopo il 1948, dopo la nascita dello Stato di Israele, la popolazione ebraica mondiale ha subito sconvolgimenti e oggi non c’è dubbio che con lo Stato di Israele si identifichi la maggior parte degli ebrei del mondo. Vediamo almeno le fasi di questa storia di successo.

Negli Stati Uniti c’è un modo di dire, “Nothing succeeds like success”: “Nulla ha successo quanto una storia che finisce bene”. Allora, una parte del successo del sionismo come ideale e come

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realizzazione pratica è certamente dovuto ad alcune tappe, che costituiscono in sé e per sé dei successi. Altro discorso sarebbe quello di fare un bilancio complessivo dell’esperienza sionista: è stato un successo? In quale misura? Questo lo potremo vedere, se ci sarà tempo, verso la fine. Ma adesso vorrei cominciare da quando il sionismo era un movimento minoritario in seno all’ebraismo.

Era un movimento minoritario perché non era l’unica soluzione possibile. L’unica soluzione possibile a che cosa? Si faceva un gran parlare verso la metà, soprattutto nella seconda metà dell’800, della cosiddetta “questione ebraica”. Questione ebraica che veniva esaminata da molti punti di vista, ma in buona sostanza era la constatazione che, diversamente da altri gruppi socioeconomici o anche etno-sociali del passato, le comunità ebraiche erano sopravvissute per una ventina di secoli mantenendo inalterata, così sembrava, una loro compattezza. Da qui a pensare a un intervento provvidenziale, a un intervento divino, il passo era ovviamente breve, e una delle spiegazioni correnti fino a verso la metà dell’Ottocento era proprio questa: gli ebrei sono il popolo prescelto da Dio, il “popolo eletto” e proprio per questo si sono conservati, hanno conservato la loro identità, la loro compattezza attraverso migliaia di anni di persecuzioni e discriminazioni. Quando nell’800 cominciano ad occuparsi della questione ebraica studiosi, storici che non si accontentano della soluzione più facile, che è quella provvidenziale, ma cercano soluzioni materiali, materialistiche, magari atee, alla questione della sopravvivenza delle comunità ebraiche, cominciano a venir fuori le cose interessanti. Immagino che tutti pensino a Marx a questo punto, in questo contesto di interpretazione materialistica della storia, ma prima di Marx c’è stato, intorno al 1830, un tentativo molto ben riuscito da parte di un intellettuale italiano che sicuramente non era marxista. Mi riferisco a Carlo Cattaneo, il quale ha scritto [e pubblicato nel 1835, NdR] una convincente interpretazione della storia ebraica5, prima degli scritti di Marx e soprattutto prima di un seguace di Marx, un giovanissimo marxista, anzi trotzkista, che intorno al 1940 ha scritto quella che a me sembra la più efficace spiegazione della “questione ebraica”.

Vediamo Cattaneo dunque, che non era marxista: egli dà un’interpretazione in termini puramente materialistici della “questione ebraica”. Spiega la sopravvivenza di comunità ebraiche con le persecuzioni: è un dato acquisito nella storia delle minoranze, quali che siano, che più sono discriminate, più vengono perseguitate, maggiore è la loro compattezza, il muro di resistenza che esse oppongono alla popolazione maggioritaria che li circonda. Vale per gli ebrei, come vale per i cinesi fuori dalla Cina, vale per gli ebrei come valeva per i fenici in passato, come per gli zingari oggi o per gli indiani dell’Africa orientale. Il futuro che si prospetta a una minoranza è in sostanza un’alternativa: tra l’assimilazione e la conservazione della propria identità.

Qui non posso fare a meno di citare il caso italiano che, in materia di cose ebraiche, presenta due anomalie. La prima grossa anomalia del caso italiano è il fatto che siamo l’unico paese in Europa in cui il numero degli ebrei non è andato aumentando da 2000 anni fa ad oggi. Secondo il più grande storico dell’ebraismo italiano6, il numero degli ebrei nella nostra penisola era di circa 50mila ai tempi di Giulio Cesare e i dati ufficiali prebellici ci parlano di circa 50mila ebrei italiani alla fine degli anni ‘30. Oggi sono di meno. Nel frattempo, negli ultimi duemila anni la popolazione complessiva della nostra penisola è aumentata di circa dieci volte. Qui, per gli scienziati, dovrei sollevare la questione di come si contano gli ebrei, visto che –per fortuna, per sopravvivenza di un minimo di spirito laico– nel nostro censimento non si chiede di indicare la confessione religiosa. Effettivamente il metodo usato non è molto scientifico: gli ebrei italiani sono sicuramente più di 35 mila, perché i 35mila ufficialmente dichiarati sono soltanto quelli che si registrano nelle rispettive comunità. Un ebreo può benissimo essere non praticante, così come lo sono molti cristiani, molti cattolici, molti protestanti, ma identificarsi tuttavia nella cultura ebraica o magari nella politica dello Stato di Israele.

5 Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Roma, Fazi, 1995. 6 Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963.

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Questa è la prima anomalia. La seconda consiste nel fatto che il sionismo ha avuto relativamente scarsa presa in Italia. Le due anomalie sono connesse: la prima, quella della scarsa consistenza numerica degli ebrei italiani, è legata essenzialmente proprio al fenomeno della assimilazione. Siccome storicamente, negli ultimi venti secoli, gli ebrei italiani hanno subito minori discriminazioni e minori persecuzioni rispetto agli ebrei della Spagna, della Francia, dell’Inghilterra, e non parliamo della Germania, in Italia gli ebrei hanno subito l’attrazione assimilazionista in misura percentualmente maggiore che altrove in Europa. Quello dell’assimilazione è un discorso che vale indipendentemente dal caso italiano, vale ovunque, solo che in Italia c’è stata più assimilazione. Se fate un rapido calcolo dovete arrivare alla conclusione che, nel corso degli ultimi venti secoli, circa nove ebrei italiani su dieci si sono lasciati assimilare. In parte per sfuggire alle discriminazioni, che ci sono state anche in Italia, in parte in seguito a matrimoni misti, ma nella maggioranza dei casi semplicemente perché la loro fede, religiosamente parlando, o il loro sentimento di identità, di particolarità culturale, se parliamo di ebrei non religiosi, è andato affievolendosi di generazione in generazione.

Il fatto stesso che l’Italia sia stata, rispetto alla maggior parte dei paesi europei, un ambiente più propizio per gli ebrei, e più propizio anche alla loro assimilazione, spiega in maniera decisiva il perché della seconda anomalia. Cioè perché in Italia il sionismo abbia avuto scarsa presa. Questo è un discorso che andrebbe fatto su basi statistiche, scientifiche, senza lasciarsi influenzare da episodi come quello dello scorso marzo7 [2002], in cui alcuni giovani del quartiere ebraico di Roma, l’antico ghetto, hanno fatto una contro-manifestazione “a difesa del ghetto”, facendo anche un po’ di esibizione di forza. Qui si tratta di trecento ebrei italiani che hanno raggiunto le prime pagine dei giornali perché si sono mobilitati, ma la stragrande maggioranza degli ebrei italiani non si identifica con lo Stato di Israele nella stessa misura di quei 300 “giovani e forti”.

Io non ho particolare simpatia per “la Repubblica”8 e per le sue interpretazioni e prese di posizione filosioniste, come il suo dar ragione allo spauracchio agitato in particolare da Gad Lerner sulla possibilità di una scomparsa a breve termine dello Stato ebraico, però cerco sempre di fare l’avvocato del diavolo e, se ci sarà tempo, vorrei spiegare le ragioni del sionismo anche dal punto di vista ebraico.

E con questo siamo di nuovo all’inizio. La propaganda sionista ha sostenuto apertamente e ripetutamente per qualche decennio che “Non c’è alternativa!”, ovviamente alla realizzazione del progetto di Herzl. Invece un’alternativa al sionismo c’era, e non parlo dell’assimilazione. Lasciamo stare l’assimilazione, se io fossi un sionista scarterei l’ipotesi dell’assimilazione perché direi: “Se tu prendi in considerazione l’assimilazione già non sei più ebreo.” Qui si potrebbero affrontare molti fattori estranei al tema di questo pomeriggio: ad esempio, che cos’è l’identità nazionale, come si costruisce un’identità culturale, un’identità etnica o una identità nazionale. In buona sostanza: chi è ebreo? Questa è una discussione che ancora divampa in Israele, dove ci sono conseguenze molto pratiche alla risposta positiva o negativa che si dà alla domanda: “Tu sei ebreo? Io sono ebreo?”9.

Ho appena affermato che un’alternativa c’era, e devo giustificare questa mia categorica affermazione e citare un esempio. Più o meno negli stessi decenni in cui nasceva il sionismo politico in Europa, nell’impero dello Zar si è sviluppato un movimento che presentava parecchie somiglianze con la creatura di Herzl. Era un movimento animato dai musulmani dell’impero zarista,

7 Si tratta della manifestazione pro-Palestina del 9 marzo 2002, in occasione della quale non pochi ebrei sfilavano nel corteo contro l’occupazione israeliana. 8 “la Repubblica” del 10-03-2002, nella cronaca di Roma, parla quasi unicamente di “Paura nel ghetto” e di “Ghetto blindato”, senza alcun cenno alla realtà della manifestazione. 9 Basterà ricordare la questione dei mamzerim, letteralmente “i bastardi”: con questa elegante espressione il rabbinato di Israele definiva i figli di matrimoni non ritenuti validi. Contro il rabbinato prese posizione l’esercito, che quei giovani li giudicava perfettamente idonei all’arruolamento e, per equità, non accettava che fossero additati al pubblico disprezzo. Su questo argomento, e temi connessi, cfr. Israel Shamir, Carri armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio, Pistoia, CRT, 2002 (si può vedere oggi, alla data 2020, il sito: www.petiteplaisance.it).

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sviluppatosi proprio perché nella seconda metà dell’Ottocento la Russia stava conquistando il suo impero coloniale nell’Asia centrale ed era coinvolta in uno scontro che molti, semplicisticamente, riducevano allo scontro tra la religione ortodossa e la religione islamica; in realtà si trattava di un normale fenomeno di colonizzazione. I principali intellettuali musulmani del mondo russo, dell’impero zarista, cercavano di organizzarsi per resistere a questa colonizzazione e il movimento di maggior successo fu quello dei cosiddetti giadidisti (dalla parola araba poi passata al turco che significa “nuovo”), che proponeva una organizzazione capace di tutelare i diritti dei musulmani di Russia. Il concetto di “nuovo” è in quegli anni un concetto presente in tutto il mondo musulmano. Il mondo musulmano dell’Ottocento vede l’espansione coloniale europea e cerca di ostacolarla, di difendersi da quell’invasione, da quel processo di colonizzazione. E i più lucidi intellettuali musulmani, in India, come in Iran, come in Persia, come nell’Impero Ottomano, in particolare nelle province arabe dell’Impero Ottomano, si rendono conto che per combattere l’espansionismo europeo bisognava adottare alcuni strumenti concettuali dell’Europa stessa. Dell’Europa cristiana –come dicevano loro semplificando– ma erano vittime di un errore di valutazione, e alcuni di loro ancora adesso pensano che la globalizzazione sia un fenomeno cristiano, piuttosto che un fenomeno messo in moto dal capitale. Il rinnovamento dell’Islam è stato un movimento di grande importanza per tutta la seconda metà del XIX secolo. Nel caso specifico della Russia, i musulmani di Russia che si organizzavano si guardarono bene dal chiedere uno staterello, una provincia autonoma dell’Impero dello Zar, perché erano musulmani evoluti, commercianti ed intellettuali, professionisti che viaggiavano per tutto l’Impero dello Zar e volevano avere la parità di diritti, ovunque si trovassero, non in uno staterello, in un ghetto10. Ho parlato di ghetto perché il paragone tra giadidismo e sionismo mette proprio in prima linea l’idea di ghetto. L’idea di costruire uno Stato degli ebrei, che era la base, l’alfa e l’omega, del programma di Theodor Herzl, è in sostanza l’idea di costruire un grande ghetto in cui riunire tutti gli ebrei del mondo in modo che stiano al sicuro. Questa, incredibile a dirsi, è la sintesi del progetto dello Judenstaat che Theodor Herzl propone ai suoi seguaci nel 1897, al primo congresso sionista di Basilea; e se lo vede approvare. Costituire uno Stato degli ebrei, implicitamente di tutti gli ebrei del mondo, e non uno stato ebraico (confessionale) quale è oggi lo stato di Israele. Dicevo che l’idea era minoritaria: infatti al progetto di Herzl si oppone la maggior parte degli ebrei dell’Europa occidentale che sono già assimilati o in via di assimilazione; la posizione di questi ebrei tedeschi, di questi ebrei britannici, francesi ecc. è esattamente il corrispettivo della posizione dei giadidisti nell’Impero dello Zar: “non vogliamo una provincia autonoma di questo o quell’impero, non vogliamo nemmeno uno Stato degli ebrei, vogliamo la parità dei diritti ovunque ci troviamo”. All’avanguardia di questa corrente antisionista sono gli ebrei tedeschi. Degli ebrei tedeschi è bene occuparsi con una certa attenzione perché sono gli ebrei che hanno conosciuto per primi il nazismo, sono gli ebrei che hanno avuto il coraggio di ritornare in Germania dopo la Shoah. Oggi c’è una comunità ebraica in Germania che, se non sbaglio, è più numerosa della comunità ebraica in Italia11.

Vediamo le ragioni di questa opposizione maggioritaria al progetto sionistico. È innanzi tutto un’opposizione di natura sociale ed economica, ma per comprenderlo dobbiamo ripercorrere lo sviluppo storico del movimento sionista.

Il sionismo nasce non in Europa orientale, perché il suo padre fondatore è un giornalista austro-ungarico che scriveva per un giornale di Vienna, ben lontano dalle province dello Zar, ma trova il suo primo nucleo di entusiasti seguaci proprio nell’Europa orientale. Le ragioni che vengono addotte di solito sono queste: nell’Europa orientale la persecuzione e la discriminazione antiebraica era più violenta che altrove in Europa. È vero, bisognerebbe però ricordare, quando si dice questo,

10 La trattazione più completa dell’argomento si trova in Maxime Rodinson, Marxisme et monde musulman, Paris, Seuil, 1972. 11 [Secondo l’Ufficio Centrale Israeliano di Statistiche, gli ebrei in Germania sono 117 mila, in maggioranza immigrati, 2018, NdR – vedi https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/mondo/quanti-ebrei-nel-mondo, dal sito della Comunità ebraica di Milano].

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che nell’Europa orientale c’era anche il maggior concentramento di popolazioni ebraiche del mondo e bisognerebbe anche ricordare che l’impero russo (tutta l’Europa orientale nella seconda metà dell’Ottocento) era la parte più arretrata d’Europa. Questo ci permette di avere una spiegazione meno viziata da pregiudizi sul perché dell’antisemitismo “slavo” (diciamo così per semplificare) e sul perché della localizzazione slava del primo nucleo organizzativo del sionismo. Altrimenti si rischia di cadere in pregiudizi e stereotipi del tipo “il sionismo ha messo radici in Russia perché gli slavi sono più antisemiti degli altri”. Non è vero.

In effetti, il fattore determinante nella mente di Herzl, ciò che lo spinge a organizzare gli ebrei europei in vista del progetto dello Stato degli ebrei, è qualche cosa che non succede nell’arretrata Europa orientale, nelle arretrate regioni dell’impero dello Zar, bensì nella civilissima Francia. È noto che Herzl viene costretto a occuparsi della questione ebraica dall’esplosione dell’affaire Dreyfus in Francia, che scatenò un’ondata di antisemitismo legato, più che alla questione ebraica in sé, a sentimenti di revanscismo assai diffusi in quella Francia che non aveva ancora digerito la sconfitta subita nella guerra del 1870 con la Prussia. E l’idea di gridare al tradimento nei confronti del povero Dreyfus, che solo dopo parecchi anni fu riconosciuto innocente, sembrava un’ottima idea per la mobilitazione degli ultranazionalisti repressi e revanscisti della Francia di quegli anni.

Herzl, che era anche lui un ebreo assimilato o sulla via dell’assimilazione, fino all’affaire Dreyfus non si era occupato affatto, per quanto fosse un giornalista, della situazione degli ebrei dell’impero dello Zar, delle loro persecuzioni, dei ricorrenti pogrom. Pensava forse con l’altezzoso e miope buonsenso di tutti gli occidentali che queste violazioni dei diritti umani sono cose che succedono nei paesi arretrati, che succedono altrove. Quando però vede manifestarsi l’antisemitismo in Francia, nella culla della civiltà, della Rivoluzione francese, allora comincia a pensare che, come avrebbe detto più tardi Brecht, “il ventre che ha partorito il mostro è sempre fertile”. E gli viene, non dico spontaneo, perché aveva già davanti a sé qualche modello preesistente elaborato dai precursori del sionismo politico, quali Pinsker o Alkalai, gli viene abbastanza naturale l’idea di propagandare la tesi di un ritorno degli ebrei “nella loro terra”. Quale terra? Inizialmente non si parla della cosiddetta terra promessa12, inizialmente il progetto è un progetto molto laico. Ovunque, recita il programma dei sionisti, ovunque ci venga garantito un territorio sotto la tutela del diritto internazionale, là costruiremo lo Stato degli ebrei. Intanto, da sempre13 era diffusa nelle comunità ebraiche della diaspora l’abitudine di fare il pellegrinaggio a Gerusalemme. E, per tutto il medioevo e per tutto il Rinascimento fino all’800, si è mantenuto vivo un rivoletto fatto di pellegrini ebrei o di vecchi pii ebrei che da ogni parte del mondo si trasferivano a Gerusalemme, in Terra Santa, soprattutto per morire vicino alle tombe dei loro avi, dei loro patriarchi. Tutto questo rientra nella tipologia dei pellegrinaggi religiosi di cui il pellegrinaggio ebraico a Gerusalemme è soltanto una delle tante possibili manifestazioni.

Invece qualche decennio prima di Herzl già si andava sviluppando in seno alle comunità ebraiche europee l’idea di trasferirsi in Terra Santa, non per morire ma per vivere; quindi nasce un movimento di colonizzazione della Terra Santa, fatto di tentativi un po’ velleitari. La maggior parte delle colonie che dal 1860 circa in poi furono costituite in Terra Santa (che, ricordiamolo, era provincia dell’impero Ottomano) sono fallite per una serie di ragioni perfettamente comprensibili: veniva affidata la coltivazione della terra a persone venute da migliaia di chilometri di distanza, che non conoscevano le condizioni locali e soprattutto non avevano mai fatto i contadini in vita loro. Per ragioni esposte brillantemente già da Cattaneo intorno al 1830 e poi riprese e sviluppate da tutti gli storici marxisti della questione ebraica: non praticavano l’agricoltura perché erano stati estromessi, un paese dopo l’altro, dalla agricoltura.

12 Il libro migliore sull’argomento è probabilmente quello di Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti, 1979. 13 Non dalla distruzione del tempio di Gerusalemme per opera dei romani nel 70 d.C., come si ama ripetere per incoraggiare utili sensi di colpa: già all’epoca dei romani la maggior parte degli ebrei vivevano fuori dalla Palestina.

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E adesso cito finalmente per nome quel giovane storico trotzkista del 1940, era un belga, Abram Léon, che riprese alcune idee un po’ frettolose che Marx aveva lasciato nei suoi scritti sulla questione ebraica14. Léon le riprende, cerca di dare all’argomento una sistemazione coerente e arriva a una conclusione molto bella e molto semplice – e forse per questo piaceva ai giovani come ero io alla vostra età; dopo magari, col passare degli anni, ci si rende conto che forse è un po’ troppo semplice, forse è un po’ schematica, comunque era di una bellezza cristallina. Di certo importante è il suo tentativo di rispondere alla domanda: perché gli ebrei sono sopravvissuti come comunità compatte e ben strutturate, mentre i fenici e i greci che pure avevano costituito colonie su tutte le rive del Mediterraneo sono scomparsi, assorbiti dalle popolazioni in mezzo alle quali vivevano? Perché a Napoli non si parla più greco mentre in tutta l’Europa orientale si è continuato a parlare yiddish15 e a parlare ebraico nelle sinagoghe?

La risposta del giovane Léon è che le comunità ebraiche si sono mantenute compatte fino a quando hanno svolto un’attività economico-sociale che le distingueva dal resto della popolazione. È il concetto del “popolo classe”: Léon identifica gli ebrei con un popolo che si mantiene distinto rispetto agli altri fino a quando svolge una funzione economica che lo contraddistingue. E dalla storia dell’ebraismo si sa che le prime colonie ebraiche, sparse intorno al Mediterraneo, erano fatte da mercanti, esattamente come quelle dei fenici e dei greci, e che queste colonie venivano fondate in paesi relativamente arretrati, dove si praticava soprattutto l’agricoltura, e queste comunità prosperavano finché alla popolazione maggioritaria avevano da offrire dei servizi che la popolazione locale non sapeva svolgere; man mano però che anche il più arretrato libico, o il più arretrato berbero, il più arretrato calabro o etrusco, impara a comprare e vendere anche lui, la funzione mercantile dell’ebreo non è più esclusiva e allora l’ebreo è costretto a fare un passo avanti e si ricicla in banchiere, usuraio: diventa un intermediario non più commerciale, ma finanziario. In questo senso la storia dell’ebraismo in Europa riflette molto bene la tesi di Abram Léon16.

Il fatto che in Italia gli ebrei siano scomparsi come comunità nella misura del novanta per cento in quanto assimilati, è legata al fatto, storicamente incontrovertibile, che tra i nostri antenati, a Milano come a Firenze, sono emersi ben presto astuti banchieri, che hanno imparato tanto bene a imitare i banchieri ebrei che poi sono andati loro stessi a fare i banchieri in mezza Europa. E dal momento che in Italia c’era una concorrenza di banchieri indigeni, che cosa potevano fare gli ebrei? Cercavano di andare in paesi meno sviluppati oppure, se rimanevano, finivano per assimilarsi.

Nella storia dell’ebraismo europeo si legge che gli ebrei vengono cacciati dall’Inghilterra nel 1290. Perché? C’erano arrivati qualche generazione prima: da quando cioè non potevano più svolgere in condizioni di monopolio una redditizia attività di intermediazione finanziaria, quale svolgevano in Italia. Vanno in Inghilterra, un paese arretrato, ma anche in Inghilterra vengono raggiunti dai banchieri italiani, come ci ricorda il nome di una strada della City, il cuore finanziario di Londra: Lombard street. A questo punto è abbastanza naturale chiedersi perché mai gli inglesi preferiscano gli italiani agli ebrei, tanto da cacciare questi ultimi dopo l’arrivo dei nostri; e siccome quanto avviene in Inghilterra è piuttosto interessante, vale la pena di dedicargli un po’ di spazio.

14 Cfr. Massimo Massara, Il marxismo e la questione ebraica, Milano, Edizioni del Calendario, 1972. 15 L’yiddish è la lingua, derivante dal tedesco medievale, parlata dagli ebrei dell’Europa orientale ed è la più diffusa lingua “ebraica”, insieme con il “ladino” (da non confondersi con il ladino del Trentino-Alto Adige) parlato originariamente dagli ebrei spagnoli e da essi diffuso in varie parti del mondo in seguito all’espulsione dalla penisola iberica. L’ebraico classico, “biblico” era una lingua morta, usata soltanto nella liturgia e nei testi religiosi, prima di essere rivitalizzata dal sionismo e poi adottata come lingua ufficiale dello Stato di Israele. Tutt’oggi in Israele i cosiddetti ultraortodossi, di origine mittel-europea, (ad es. gli abitanti del quartiere di Meah Shearim di Gerusalemme) usano parlare tra di loro in yiddish mentre l’ebraico, “la lingua di Dio”, è riservata alla liturgia religiosa. 16 Abram Léon, Il marxismo e la questione ebraica, Roma, Samonà e Savelli, 1968. La traduzione inglese si può trovare on line all’indirizzo: www.marxists.org/subject/jewish/leon/index.htm [NdR, 2020]. Cfr. anche Pier Giovanni Donini, “Abram Léon e la concezione marxista della questione ebraica”, in Oriente Moderno, LIV, 1974, pp. 236-239.

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Dei primi ebrei in Inghilterra si ha notizia dopo il 1066: erano mercanti che prosperavano grazie ai rapporti con le comunità ebraiche della Francia, attraverso le quali passava gran parte del commercio fra le due rive della Manica. Man mano che i mercanti indigeni si organizzavano in gilde o corporazioni esclusive per il commercio d’oltremare, gli ebrei erano costretti a cercarsi altre attività. Anche nell’artigianato si sviluppavano gilde esclusive, mentre l’agricoltura feudale non offriva sbocchi: alla fine non rimase loro alternativa che il dare danaro in prestito.

“In questo ramo gli ebrei d’Inghilterra prosperarono tanto da attirarsi, a partire dalla fine del XII secolo, periodiche e arbitrarie stangate fiscali, che fornivano alla Corona le entrate di cui c’era sempre bisogno: per mantenere i possedimenti in Francia, per assoggettare le popolazioni ribelli oltre il confine con il Galles.

Per colpire con l’arma del fisco occorre sapere dove si nasconde l’imponibile: ed ecco la Corona inglese dotarsi di un’opportuna banca dati. In ogni città in cui vivano ebrei un apposito ufficio deve conservare copia di qualsiasi contratto concluso con essi. A Londra viene istituito un organo di coordinamento, l’Exchequer of the Jews o “Scacchiere degli ebrei”, incaricato di gestire tutti questi dati. Ancora oggi in Gran Bretagna il ministro delle Finanze si chiama Cancelliere dello Scacchiere, dal latino scaccarium, cioè abaco per la registrazione dei tributi.

Fin verso la metà del XIII secolo il rapporto fu vantaggioso per entrambe le parti: le entrate reali venivano fornite per un sesto circa dagli ebrei, i quali, in cambio, vivevano in una trentina di comunità sotto la diretta protezione della Corona. Sotto Enrico III (1207-1272, re dal 1216 fino alla morte), tuttavia, la pressione fiscale cominciò ad aumentare rapidamente. Gli ebrei furono costretti a liquidare il proprio capitale, compresi i titoli delle rendite immobiliari, che erano le garanzie contro cui solitamente concedevano prestiti ai loro clienti principali, gli strati inferiori dell’aristocrazia terriera. Quando gli ebrei furono costretti a vendere, i titoli vennero acquistati prevalentemente dall’alta aristocrazia feudale, cosicché i venditori vennero a trovarsi nella condizione di complici involontari dei pesci grossi contro i pesci piccoli. Nessuna meraviglia, quindi, se durante i disordini sociali che scoppiarono verso la fine del regno di Enrico III, gli obiettivi principali della bassa aristocrazia fossero proprio gli ebrei, oltre agli uffici in cui erano conservate le registrazioni dei prestiti.

Sentendosi minacciato dalla concentrazione delle terre nelle mani dei maggiori signori feudali, il re vietò nel 1269 ai propri sudditi di contrarre debiti con ebrei in cambio di garanzie immobiliari e decretò la cancellazione delle obbligazioni esistenti. Fu naturalmente un grosso danno per gli ebrei, ma anche per la Corona, che vide ridursi le entrate fiscali. Nel 1274, per di più, papa Gregorio X invitava i re della cristianità a sradicare l’usura, e nel giro di un anno Edoardo I (figlio di Enrico III, 1239-1307, re dal 1272 fino alla morte) vietava il prestito su interesse agli ebrei come ai cristiani. Rendendosi conto che gli ebrei restavano in tal modo senza lavoro, consentì loro di praticare il commercio e l’artigianato, ma le gilde erano abbastanza forti da emarginarli. Qualcuno si diede al commercio all’ingrosso della lana grezza, altri all’usura clandestina o al contrabbando. Ormai gli ebrei non servivano più alla Corona e nel 1290 furono espulsi, con il pretesto che bisognava “difendere l’onore della Croce”. Erano circa quindicimila (meno dell’1 per cento della popolazione) e si rifugiarono soprattutto in Francia e nelle Fiandre”.17

Gli ebrei vengono espulsi da un paese dopo l’altro e, alla fine dell’800, quando cioè l’unico paese arretrato, l’unica vasta area arretrata economicamente e anche politicamente in Europa è l’impero dello Zar, ecco che nell’impero dello Zar si trova il maggior numero di ebrei, socio-economicamente abbastanza ben distinti dal grosso della popolazione da non essere propensi all’assimilazione: questa investiva soltanto le circoscritte élites di professionisti e ricchi mercanti delle grandi città. Si tratta, va precisato, dell’interpretazione tradizionale, clamorosamente messa in discussione nella seconda metà del XX secolo da Arthur Koestler (1905-1983), giornalista e scrittore di successo, autore di feroci critiche alla politica stalinista (Buio a mezzogiorno, 1946) e di romanzi storici sulla colonizzazione sionista della Palestina (Ladri nella notte, 1947; Promise and

17 Pier Giovanni Donini, Le comunità ebraiche nel mondo. Storia della diaspora dalle origini a oggi, Roma, Editori Riuniti (Libri di Base 124), 1988, pp. 69-71.

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Fulfilment, 1949). Il suo libro che ha suscitato le maggiori controversie è La tredicesima tribù (1976), tutta una trattazione abbastanza convincente sul piano scientifico, tesa a dimostrare che le cose sarebbero andate diversamente da quanto vi ho raccontato finora –che cioè gli ebrei si sarebbero concentrati in Polonia e dintorni, spinti dal progresso economico-sociale dell’Europa Occidentale, che faceva affluire banchieri italiani e poi di altri paesi, e attirati dall’arretratezza economico-sociale di quella regione. Dicevo, diversamente da questa tesi che era considerata Vangelo fino a poco tempo fa, Koestler sostiene che tutti gli ebrei dell’Europa Orientale sono i discendenti di una popolazione non ebraica ma turca, la popolazione dei Kházari o Khazári, che alla fine del V secolo gettarono le basi di un impero commerciale di una certa potenza e di una certa prosperità, a nord del Caucaso, tra il mar Nero e il Caspio, sul basso corso del Don e della Volga. Quello Stato prosperava per varie ragioni, perché era a cavallo di grandi vie commerciali, ma soprattutto perché era uno Stato cuscinetto tra il grande impero bizantino, cristiano, e l’altrettanto grande impero califfale abbaside, musulmano.

Come accade molte volte nella storia delle religioni, dove il mito si aggroviglia, si intreccia con la storia, la leggenda dei Khazari sostiene che essi si opponevano naturalmente alle pressioni che venivano sia da Bisanzio sia da Baghdad: i musulmani avrebbero voluto che entrassero a far parte del loro impero e si convertissero all’Islam, e altrettanto facevano i bizantini cristiani. E allora i Khazari, nella loro saggezza, decisero di convertirsi in massa all’ebraismo, e questo è ricordato nella storia dell’ebraismo come l’episodio più numericamente rilevante di conversione alla fede mosaica. Ora, molti parlano di conversione in massa all’ebraismo, ma si sa come funzionano queste cose nella storia delle religioni: si converte il vertice, si converte il sovrano, si converte la sua corte, dopodiché ai musulmani di Baghdad si dice: non possiamo convertirci perché siamo ebrei; ai cristiani di Bisanzio si dice la stessa cosa. E questo è un instrumentum regni che è interessante dal punto di vista storico ed è un episodio attestato, non è leggenda. La voce di questa conversione dei Khazari all’ebraismo si sparse in tutto il mondo, arrivò in uno dei luoghi più culturalmente ricchi per l’ebraismo, la Spagna musulmana, e proprio dalla Spagna musulmana fu mandata una missione per indagare se effettivamente questi convertiti erano buoni ebrei.

Questo va ricordato perché la teoria di Koestler mette in discussione la vulgata sulla genesi delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. Se Koestler avesse ragione, il presunto diritto degli ebrei al ritorno nella “Terra promessa” verrebbe a vacillare proprio per quelli che sono i principali artefici del successo sionista, gli ebrei dell’Europa orientale: discendenti non di Abramo e di Mosè, ma di astuti avventurieri turchi! Di questo non sembra preoccuparsi troppo lo stesso autore, il quale sostiene, alla fine della Tredicesima tribù, che, in fondo, ebreo è chi vuol esserlo: conclusione che può sembrare ardita, ma è confermata dai fatti. Come rileva Shamir18, molti dei presunti ebrei immigrati in Israele dall’Urss e poi dalla Russia post-sovietica (in maniera cospicua negli anni ’90) erano in realtà opportunisti cristiano-ortodossi o atei.

E torniamo finalmente all’opposizione degli ebrei al sionismo. Ho parlato dell’opposizione degli assimilazionisti, è giusto ricordare anche l’opposizione dei bigotti, cioè l’opposizione strettamente religiosa che, oggi come oggi, ci può sembrare ridicola, ma che nell’Ottocento e soprattutto nell’Europa centrale e orientale aveva il suo peso. L’opposizione religiosa si basava su questo ragionamento: siccome l’ebreo osservante deve credere nella venuta del Messia, non si sa quando, anticipare la venuta del Messia con una forma di organizzazione politica tendente a costituire lo Stato degli ebrei, la ricostruzione dell’antico Israele biblico, beh questa è bestemmia, questo significa in parole povere volersi sostituire all’Onnipotente, mettere una ipoteca sulla onnipotenza

18 Op. cit., pp. 37, 211-212. Ebreo è anche, naturalmente, chi viene definito tale dal potere, come ci ricorda la storia del nazismo; nell’ambito della quale si registra peraltro anche il caso opposto, di ebrei definiti ope legis ariani. A maggior gloria dell’efficienza della sua macchina di guerra, infatti, Hitler “arianizzò” migliaia di persone di ascendenza ebraica, tra cui 77 ufficiali superiori, compresi 25 generali (il manifesto, 3 aprile 1997, p. 24).

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di Dio. Questo spiega perché ci fosse un’opposizione di natura religiosa tra gli ebrei europei al sionismo. Ho detto ebrei europei perché una cosa di cui ci si dimentica molto spesso, quando si parla del sionismo, è che il sionismo è un processo nato in Europa tra ebrei europei e per ragioni squisitamente europee, nel senso che a cavallo tra il XIX e il XX secolo la stragrande maggioranza degli ebrei erano concentrati in Europa, e in particolare nell’Europa orientale (cfr. tabella 1).

Popolazione ebraica mondiale (in milioni) Paesi 1850 1880 1914 1939 1948 1967

Europa 4,1 6,8 9,1 9,5 3,7 3,5

Europa orientale esclusa URSS

3,3

5,4

7,1 4,7 0,8 0,3

URSS europea 2,8 1,8 2,0

Europa occidentale 0,8 1,4 2,0 2,0 1,1 1,2

Asia 0,3 0,3 0,5 1,0 1,3 2,9

Palestina/Israele 0,0 0,0 0,1 0,4 0,6 2,4

Africa 0,2 0,3 0,4 0,6 0,7 0,2

America e Oceania 0,1 0,3 3,5 5,5 5,8 6,9

Totale 4,7 7,7 13,5 16,6 11,5 13,5

TABELLA 1 (fonte: Encyclopaedia Judaica)

Gli ebrei del mondo musulmano hanno sempre manifestato una notevole freddezza nei confronti del sionismo, perché il progetto non li riguardava. Se il sionismo è un progetto che tende a salvare gli ebrei europei dall’antisemitismo, gli ebrei del mondo islamico possono fare subito due obiezioni: siamo anche noi minacciati dall’antisemitismo? No! Siamo ebrei europei? No! A questa netta duplice risposta si deve, come spiegazione, il fatto che gli ebrei del mondo islamico abbiano ascoltato le sirene del sionismo, la sua propaganda, con estrema disattenzione. Ci sono delle bellissime frasi che vanno ricordate, come quella di un grosso esponente della comunità ebraica dell’Iraq, dove, tanto per fare il paragone con l’Italia, c’erano negli anni ‘30 circa centomila ebrei contro i nostri cinquantamila (cfr. tabella 3). Quando emissari sionisti cominciano a girare per le comunità ebraiche dell’Iraq cercando di convincerli a venire in Palestina, si sentono dare questa bella e lapidaria risposta: “Perché mai dovremmo abbandonare il paradiso terrestre per andarci a trasferire in quelle pietraie aride e assolate della Palestina?” Il paradiso terrestre: è vero, dalla vicenda biblica si sa che il paradiso terrestre era localizzato proprio nell’antica Mesopotamia o Babilonia, l’attuale Iraq. “Pietraie della Palestina”: non c’è dubbio, non tutta la Palestina era o è deserto, e quindi, siccome non tutta era deserto, va ridimensionata anche l’affermazione della propaganda del sionismo prima e di Israele dopo, “abbiamo fatto fiorire il deserto”. Non era tutto deserto, però agli occhi dell’ebreo irakeno, che viveva in una terra sicuramente più fertile della Palestina nel suo complesso, la proposta sionista non era allettante: “perché mai dovremmo trasferirci nella Terra promessa, quando viviamo nell’Eden?”

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Stima degli ebrei vittime delle stragi naziste 4.565.000 polacchi, sovietici, lituani,

lettoni ed estoni 60.000 greci

402.000 ungheresi 40.000 romeni 277.000 ceco-slovacchi 24.000 belgi 125.000 tedeschi 7.500 italiani 106.000 olandesi 760 norvegesi 83.000 francesi 700 lussemburghesi 65.000 austriaci 5000 altri 60.000 jugoslavi

Totale 5.820.960

TABELLA 2 (fonte: Encyclopaedia Judaica)

È significativo il fatto che le medesime risposte, praticamente parola per parola, venivano date da esponenti dell’ebraismo degli Stati Uniti, in quei medesimi anni ‘20 e ‘30. Il movimento sionista, dopo la Prima Guerra mondiale, riceve un forte impulso grazie alla dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, in cui la Gran Bretagna si impegna a favorire la costituzione di una “national home” ebraica in Palestina. Questo suscita grande interesse in tutto il mondo e i sionisti che, ricordiamolo ancora, sono per lo più ebrei dell’Europa centro-orientale, cominciano a cercare di fare proseliti anche negli Stati Uniti, dove s’è formato alla fine del XIX e nel primo decennio del secolo XX un grosso concentramento di ebrei. Questi, a differenza degli ebrei dell’Europa orientale, sono ebrei in via di assimilazione, ricchi, non tutti ovviamente, ma insediati in un ambiente mediamente più favorevole alla loro vita ed anche alle loro possibilità organizzative di quanto non fosse la Russia zarista o la nascente Unione Sovietica post-rivoluzionaria. E quando questi propagandisti sionisti cominciano a prendere contatto con i dirigenti delle comunità ebraiche degli Stati Uniti, si sentono dire: “Ma quale terra promessa, la nostra terra promessa è qui, ma quale Gerusalemme, la nostra Gerusalemme è questa”, e mostrano New York, la Borsa, Wall Street.

La realtà in quegli anni era questa: che il movimento sionista, tendente a trasferire ebrei in Palestina, poteva aver presa soltanto sugli ebrei in condizioni più disagiate, sia dal punto di vista socioeconomico, sia dal punto di vista politico per via delle persecuzioni. Ci sono statistiche molto significative a questo proposito che vi posso recitare a memoria, perché ci danno proprio la misura di quanto fosse minoritario il sionismo nella sua presa effettiva sugli ebrei. Dico presa effettiva, perché bisogna distinguere: nelle statistiche più elogiative sul movimento sionista si sottolinea molto spesso come aumenta rapidamente di anno in anno il numero di quelli che pagano lo shekel, cioè la moneta simbolica, la cifra simbolica, ma complessivamente non tanto simbolica, di adesione al movimento sionista. Un conto è incoraggiare il movimento sionista, altra cosa è accettare l’obbligo morale, l’impegno morale fino al punto di trasferirsi in Palestina. Bene, sui circa 4 milioni di ebrei che tra il 1880 ed il 1929 hanno lasciato l’Europa orientale per emigrare (e ricordiamoci che quelli sono anni di grande emigrazione non soltanto ebraica, è ovvio, da tutta l’Europa), soltanto 1 su 33 ha scelto di andare in Palestina19. Non bisogna meravigliarsi troppo, perché bisognerebbe tener conto di diversi fattori oggettivi che spiegano perché pochissimi ebrei volessero andare in Palestina.

19 Nathan Weinstock, Le sionisme contre Israël, Paris, Maspero, 1969, p. 25.

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Distribuzione della popolazione ebraica mondiale nel 1939 paesi numero % sulla popolazione

complessiva del paese

Palestina 475.000 32

Polonia 3.250.000 10

URSS (anche parte asiatica) 2.825.000 2,1

Lituania 155.000 7,6

Lettonia 95.000 4,9

Romania 850.000 4,7

Germania 505.000 (1933) 214.000 (1939)

0,75 0,3

Ungheria 445.000 5,1

Cecoslovacchia 357.000 2,4

Gran Bretagna (e Nord Irlanda) 300.000 0,65

Francia 260.000 0,6

Austria 191.000 2,8

Grecia 73.000 (1928) 1,2

Olanda 112.000 (1930) 1,4

Belgio 60.000 (1930) 0,7

Yugoslavia 68.000 0,5

Italia 48.000 (1936) 0,1

Turchia europea 50.000 3,9

Europa intera 9.480.000 1,8

Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco 401.500 (1936-37) 1,2

Africa intera 627.500 0,4

Usa 4.975.000 (1940) 3,8

Argentina 275.000 (1935) 2,1

Canada 155.000 (1931) 1,5

America intera 5.537.000 2,1

Iraq 91.000 2,5

Yemen e Arabia 50.000 (1935) 5

Asia intera 1.047.000 0,1

Totale nel Mondo 16.724.000 0,7

TABELLA 3 (fonte aggiornata e adattata [NdR]: Encyclopaedia Judaica - Second Edition, 2007 Thomson Gale - Keter Publishing House; https://ketab3.files.wordpress.com/2014/11/encyclopaedia-judaica-v-16-pes-qu.pdf pag.398-399)

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La maggior parte degli ebrei, così come la maggior parte degli europei emigranti non ebrei, avevano il mito dell’America, volevano andare in America, nord America ma anche America latina, e moltissimi ebrei finiranno proprio in America latina, soprattutto in Argentina, tanto che uno dei territori ipotizzati come sede del futuro Stato degli ebrei teorizzato da Herzl era proprio l’Argentina. Fu soltanto dopo la morte di Herzl che i suoi seguaci, riuniti nei congressi che si svolgevano con cadenza quasi annuale all’inizio, decidono e affossano per sempre l’ipotesi di uno Stato degli ebrei in qualunque territorio che non sia la Palestina. Dopodiché, con la Prima Guerra mondiale, c’è l’impegno britannico; dopo la Prima Guerra mondiale c’è il mandato affidato dalla Società delle Nazioni alla Gran Bretagna, e il progetto di Herzl ha ormai una base in termini di diritto internazionale: la condizione che egli stesso aveva proclamato necessaria, prima di avviare la colonizzazione della Palestina. Herzl sosteneva che, diversamente dai tentativi sporadici che erano stati fatti prima di lui, bisognava fare le cose in grande e sotto la protezione di questa famosa carta internazionale, di uno statuto rilasciato dal titolare della sovranità sul territorio, valido e riconosciuto in termini di diritto internazionale. Herzl parlava con un certo disprezzo dei tentativi fatti prima del “suo” sionismo, riferendosi a quelle piccole colonie che poi fallivano perché gli ebrei venuti dalla Polonia non sapevano coltivare la terra della Palestina; ne parlava con disprezzo, diceva: “Non varrebbe la pena di lanciare un progetto grandioso come quello del sionismo se dovessimo limitarci a fare immigrare semi-clandestinamente qualche ebreo in Palestina. Qui dobbiamo fare le cose alla luce del sole, sotto la garanzia del diritto internazionale”, e con il mandato britannico sulla Palestina il primo passo è fatto.

Quello che fa cambiare lo scenario adesso è il 1933; con l’avvento del nazismo al potere in Germania, le cose cambiano non solo perché Hitler comincia a spaventare gli ebrei d’Europa; anzi per la verità Hitler non ha spaventato inizialmente gli ebrei del suo paese, i quali fino al 1938-39 non volevano credere a chi cercava di avvertirli che avrebbero potuto correre dei rischi restando in Germania. Gli ebrei tedeschi dicevano, come aveva detto Herzl prima dell’affaire Dreyfus, una cinquantina di anni prima: “Ma la Germania è un paese civile, queste cose (sottinteso i pogrom dell’anti-semitismo slavo) da noi non potranno mai succedere”. Prima ancora che Hitler cominciasse ad incutere una certa preoccupazione nelle comunità ebraiche d’Europa, i paesi di tradizionale immigrazione dall’Europa avevano cominciato a chiudere le porte delle loro frontiere uno dopo l’altro, in primis gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno questa pesante responsabilità storica nei confronti dell’ebraismo mondiale: prima della guerra chiudono le loro frontiere, imitati da quasi tutti i paesi dell’Occidente.

Dunque, il comportamento degli Stati Uniti e degli altri paesi che chiudono le frontiere dirotta, è ovvio, indirettamente un flusso crescente di ebrei verso la Palestina, mettendo in difficoltà il mandato britannico. Peggio ancora succede dopo la Seconda Guerra mondiale, quando ormai si sa della Shoah, delle stragi naziste, quando l’Europa è attraversata in lungo ed in largo da centinaia di migliaia di profughi ebrei e da milioni di profughi non ebrei; in queste condizioni gli Stati Uniti passano alla storia per aver consentito l’ingresso nel loro paese a 4.767 profughi e per averne incoraggiati invece 250.000 a scegliere la Palestina20. È stata decisiva questa scelta degli Stati Uniti, del governo degli Stati Uniti, nel preparare il terreno alla infausta decisione dell’Assemblea generale dell’ONU del novembre 1947, la Risoluzione 181, che con la maggioranza necessaria dei due terzi stabilisce la spartizione della Palestina (tabella 4).

20 Cfr. Shamir, op. cit., p. 111.

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Votazione pro e contro la spartizione della Palestina (Assemblea generale delle Nazioni Unite, 29 novembre 1947, Risoluzione 181)

a favore: 33 contro: 13 astenuti: 10 Australia Afghanistan Argentina Belgio Arabia Saudita Cile Bielorussia Cuba Cina* Bolivia Egitto Colombia Brasile Grecia El Salvador Canada India Etiopia Cecoslovacchia Iraq Gran Bretagna Costarica Libano Honduras Danimarca Pakistan Jugoslavia Ecuador Persia Messico Filippine Siria Francia Turchia Guatemala Yemen Haiti Islanda Liberia Lussemburgo Nicaragua Norvegia Nuova Zelanda Olanda Panama Paraguay Perù Polonia Rep. Dominicana Sud Africa Svezia Ucraina Urss Uruguay Usa Venezuela * È la cosiddetta Cina nazionalista di Taiwan. La Cina popolare è entrata nell’Onu nel 1971. Era assente il Siam (oggi Thailandia). L’Italia (come l’Austria, la Germania, il Giappone e altri paesi) non era stata ancora ammessa all’Onu; vi è entrata nel 1955.

TABELLA 4 (fonte: P.G. Donini, Le comunità ebraiche…, cit., p. 127)

Fino a questo punto ho parlato soprattutto dell’evolversi dell’opinione in seno alle comunità ebraiche a favore del progetto sionista. È chiaro che dopo il 1945 la maggior parte degli ebrei del mondo, sempre esclusi gli ebrei del mondo islamico, sono convinti che Herzl aveva ragione e che forse, se ci fosse stato lo stato degli ebrei nel ’38, i morti ammazzati da Hitler e dai suoi sarebbero

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stati un pochino di meno (cfr. tabella 3). Questo è un ragionamento che ha facilmente presa fra gli ebrei, ha facilmente presa nell’opinione pubblica occidentale non ebraica, anzi qualcuno sostiene che nell’opinione pubblica occidentale non ebraica questa interpretazione è più popolare che in seno agli stessi ebrei; perché fino agli anni ’50 i sentimenti antisionisti tra le comunità ebraiche del mondo ed in particolare negli Stati Uniti erano ancora forti, gli ebrei antisionisti erano ancora ben organizzati negli anni ’50, fino agli inizi degli anni ’60. Oggi può sembrare incredibile visto che l’ebraismo degli Stati Uniti è il più stabile pilastro della Diaspora in appoggio ad Israele, ma fino all’inizio degli anni ’60 c’erano forti correnti antisioniste tra quegli ebrei21. Qualcuno sostiene appunto che nell’opinione pubblica non ebraica la popolarità del sionismo è andata crescendo ancora più rapidamente.

Qui è difficile per me pronunciarmi, perché, per quanto riguarda l’Italia, ho sempre il dubbio che l’atteggiamento della maggioranza della stampa, della televisione, dei media ed anche dell’opinione pubblica a favore di Israele non vada interpretato tanto come una manifestazione di “filosemitismo” o “filosionismo” quanto invece come una manifestazione di identificazione con gli obbiettivi politici e strategici del governo degli Stati Uniti; perché è difficile credere che gli italiani siano così inclini a mobilitarsi pro o contro una questione ebraica che in Italia, per quelle ragioni demografiche di cui ho parlato prima, è estremamente secondaria e marginale. Se qualcuno scende in piazza e fa il tifo per Israele dovremmo chiederci: lo fa perché è ebreo? Quei 300 del ghetto, per loro è perfettamente comprensibile, ma per un italiano non ebreo, ammesso che sia possibile stabilire chi in Italia è ebreo e chi non è ebreo per via di quel 90 per cento della popolazione ebraica che si è assimilata, per un italiano non ebreo tifare per così dire per Israele è una manifestazione di filosionismo o è invece una manifestazione di “filocasabianchismo”?

Adesso siamo usciti dalla guerra fredda, ma cerchiamo di fare mente locale: in tutti gli anni della guerra fredda chi non era comunista si identificava con la Casa Bianca, quindi anche, nel contesto della guerra fredda, essere per Israele significava essere dalla parte “giusta”, significava essere dalla parte della Nato. In questo campo è difficile quantificare: sondaggi di opinione ne sono stati fatti pochi su questo tema specifico. Per di più c’è un altro fattore che complica molto la possibile interpretazione: in Italia è diffusa ancora adesso una cospicua ignoranza sui fatti dell’ebraismo. È rimasta proverbiale una trasmissione della rete culturale della RAI, mica uno dei contenitori-trash di Mediaset. In un programma di Radio3 sul jazz, di parecchi anni fa, il giornalista parlava di non mi ricordo più quale clarinettista di Brooklyn “talmente squattrinato che era costretto ad andare a suonare la mitzvah nei bar”. Così la frase del giornalista. Si trattava evidentemente di un clarinettista che andava a suonare alle feste di Bar-Mitzvah, nome di una cerimonia che è l’equivalente ebraico della Cresima. Un errore grossolano come questo, negli Stati Uniti, sarebbe stato inconcepibile, perché negli Stati Uniti la conoscenza degli ebrei è capillarmente diffusa: tutti hanno un vicino di casa o un collega di lavoro ebreo, o almeno conoscono qualcuno che gliene ha parlato; soprattutto in ambiente urbano, e soprattutto a New York, che tra parentesi veniva decantata dalla pubblicità turistica come la città del mondo in cui abitavano più ebrei che in qualsiasi altra, Tel Aviv compresa.

Da noi, invece, le tenebre dell’ignoranza continuano ad essere pressoché impenetrabili. Da un sondaggio pubblicato nella primavera del 1987 risulta infatti che più di tre italiani su quattro non hanno mai conosciuto un ebreo in vita loro, e che oltre metà degli interpellati non hanno la minima idea di quanti ebrei ci siano in Italia. Peggio ancora, quelli che credono di saperlo, in compenso,

21 Non sarà superfluo ricordare, in questo contesto, che all’epoca della Seconda Guerra mondiale un progetto per accogliere 150.000 ebrei in Gran Bretagna, altrettanti negli Usa e 2-300.000 in altri paesi naufraga perché, secondo il presidente Roosevelt, “Il movimento sionista sa bene che la Palestina è, e sarà ancora per un bel po’ di tempo, dipendente dagli aiuti economici esterni. I sionisti sanno di poter raccogliere somme enormi per la Palestina dicendo ai potenziali finanziatori «Questo povero ebreo non può andare da nessun’altra parte». Ma se ci sarà un sistema mondiale di asilo politico per tutti, indipendentemente da razza, fede o colore, quei soldi non riusciranno a raccoglierli”. Cfr. Alfred Lilienthal, What Price Israel? Beirut, The Institute for Palestine Studies, 1969 (1953), pp. 32-33.

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sbagliano di grosso, fornendo stime che vanno dal mezzo milione in su, mentre in Italia gli ebrei sono circa quarantamila. Altrettanto confuse le risposte alla domanda “chi sono gli ebrei?”: per un terzo degli italiani, secondo il sondaggio, gli ebrei sono gli aderenti a una religione; per un altro terzo sono gli appartenenti a una razza. Per un italiano su quattro, infine, gli ebrei sono gli abitanti dello Stato di Israele. In ciascuna di quelle risposte c’è qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato, che sarebbe interessante sviscerare, ma il tempo stringe22; e altrettanto interessante sarebbe scoprire se la generale tendenza a sovrastimare il numero degli ebrei in Italia sia una manifestazione di antisemitismo, forse inconsapevole (riconducibile in sostanza al ragionamento: “se la stampa, i media, sono prevalentemente filoisraeliani, dipenderà dall’influenza esercitata dagli ebrei nel campo dell’informazione”).

Perché proprio di tendenza generale si tratta. Anch’io, nel mio piccolo, faccio sondaggi artigianali sull’argomento, nel senso che all’inizio di ogni semestre propino agli studenti un test di cultura generale (che mi serve soprattutto a non dare per scontate nozioni che a me sembrano fondamentali e, auspicabilmente, note a tutti). Tra le varie domande ce ne sono alcune sul numero dei musulmani e degli ebrei nel mondo e in Italia. Mentre sul numero dei musulmani nel mondo, e anche in Italia, le risposte sono generalmente aderenti alla realtà, sulla consistenza numerica degli ebrei nel mondo e nel nostro paese, le stime che mi vedo restituire sono sistematicamente esagerate. Anche oltre i limiti della fantascienza: rimane insuperata per ardimento e capacità di immaginazione una simpatica ragazza, secondo la quale gli ebrei sarebbero, in Italia, circa 17 milioni. Se andassimo a fare le ricerche sul DNA23, troveremmo probabilmente in ciascuno di noi una goccia di sangue che ci viene da qualche ebreo che negli ultimi venti secoli si è convertito e si è assimilato. Da questo punto di vista la studentessa che mi ha risposto “17 milioni” merita che io le dica: forse aveva ragione lei. Però qui parliamo di dati statistici attuali, non di demografia storica.

A parziale giustificazione dell’ignoranza di cui sopra, va anche ricordato che l’ebraismo italiano non è soltanto numericamente trascurabile rispetto alle comunità di altri paesi europei, ma è anche rimasto immune dagli sconvolgimenti che – stragi naziste a parte – hanno colpito le più importanti tra queste ultime.

Particolarmente significativo è, in questo contesto, il caso della Gran Bretagna, dove la comunità ebraica, che contava 60.000 persone circa nel 1880, è quasi quintuplicata nel giro di quarant’anni grazie all’afflusso di ondate successive di immigranti dall’Europa orientale, la maggior parte dei quali –poveri, di lingua yiddish e inconfondibilmente estranei per usi, costumi e modo di pregare– si concentrarono nei quartieri orientali di Londra, l’East End. Questa immigrazione modificò drasticamente la natura dell’ebraismo britannico, ponendo in discussione l’egemonia della sua élite tradizionale, ma anche mettendo a dura prova la tradizionale tolleranza della società britannica nel suo complesso. L’élite ebraica locale aveva l’ossessione di “civilizzare” i nuovi venuti, di evitarne la concentrazione nell’East End, ed era incline a condividere le decisioni del governo britannico tendenti a limitare l’immigrazione, pronta ad accettare la deportazione degli ebrei incapaci di costruirsi un futuro indipendente in Gran Bretagna, o comunque “indesiderabili”. Le tensioni furono accentuate, allo scoppio della Prima Guerra mondiale, dalla questione del servizio militare per gli ebrei di origine russa, dalle divergenze tra sionisti e non sionisti, e dalle polemiche sull’atteggiamento che l’ebraismo britannico avrebbe dovuto assumere alla conferenza della pace.

22 Cfr. P.G. Donini, Le comunità ebraiche…, cit., p. 9. 23 In effetti, ricerche di questo genere sono già in corso, e i loro risultati vengono, a quanto pare, considerati politicamente destabilizzanti. Un genetista spagnolo, il prof. Antonio Arnaiz-Villena dell’Università Complutense di Madrid, ha pubblicato nel 2001 sulla rivista Human Immunology uno studio (“The Origin of Palestinians and their Genetic Relatedness with other Mediterranean Populations”) dal quale risulta che i palestinesi e gli ebrei del Vicino Oriente sono, dal punto di vista genetico, praticamente identici. In seguito a energiche pressioni, la direzione della rivista ha invitato i propri abbonati a strappare le pagine dal fascicolo in questione, e a distruggerle. Cfr. Robin McKie, “Journal axes gene research on Jews and Palestinians”, The Observer, November 25, 2001.

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Forse conseguenza diretta della massiccia immigrazione ebraica dall’Europa orientale fu anche la ripresa dell’antisemitismo che, paradossalmente, colpì la Gran Bretagna negli anni Trenta, proprio quando si avvicinava al massimo il livello di mobilitazione antifascista. Il pregiudizio antisemita (o, più precisamente, contro l’ebraismo di origine est-europea) aveva il suo sbocco politico naturale, data la polarizzazione sostanzialmente bipartitica del sistema elettorale britannico, nel partito conservatore. Donde la scelta dell’ebraismo britannico a favore del partito laburista, che tra l’altro consegnò alla sinistra l’amministrazione comunale di Londra dal 1934 al 1965. Va notato a questo proposito che l’ebraismo della capitale si astenne dall’utilizzare il proprio peso elettorale in maniera organizzata (accadeva che singoli ebrei influenti nell’amministrazione locale fossero ostili ai cosiddetti “interessi ebraici”, in particolare alla linea sionista), per evitare le reazioni negative che una politica “etnica” dichiaratamente ebraica avrebbe potuto scatenare. Una misura del peso crescente della corrente sionista in seno all’ebraismo britannico è data dal peggioramento dei rapporti, negli ultimi decenni, tra l’ebraismo della capitale e i laburisti locali (guidati da un esponente della sinistra “dura”, Ken Livingstone), percepiti dalla maggior parte degli ebrei britannici non più semplicemente come antisionisti, ma addirittura come “anti-ebrei”. Donde una costante deriva dell’ebraismo londinese verso i conservatori della signora Thatcher, che riflette d’altra parte il processo di imborghesimento della comunità stessa, i cui attuali livelli di autocoscienza ebraica e di identificazione con il sionismo e con Israele sarebbero stati impensabili all’inizio del ventesimo secolo24.

Non solo in Gran Bretagna gli anni Trenta segnano una svolta nelle fortune del movimento sionista, che trae impulso in primo luogo dall’avvento del nazismo, ma anche dalla progressiva chiusura delle frontiere all’immigrazione ebraica. Questa dinamica è una conferma del principio, quasi una legge di natura, che vede il sionismo trarre alimento dal crescere dell’antisemitismo25. Quest’ultimo era in espansione, durante gli anni Trenta, non soltanto grazie al successo elettorale di Hitler nel 1933 in Germania (o, in Gran Bretagna, per i velleitari tentativi di imitazione da parte dei fascisti locali) ma per cause socioeconomiche di più vasta portata: in primo luogo gli strascichi della crisi della Borsa di New York del 1929, da cui l’economia del mondo capitalistico poté riprendersi soltanto in seguito allo scoppio della Seconda Guerra mondiale26. In questo contesto, per certi aspetti paragonabile a quello europeo attuale, lo straniero, l’estraneo, il diverso appariva come una minaccia o un concorrente su un mercato del lavoro sempre più difficile. A chi insiste, a questo proposito, nel sottolineare la differenza tra xenofobia e antisemitismo si può rispondere ricordando

la dimensione simbolica propria dell’antisemitismo stesso, oggi più che mai evidente in un’Europa

ormai quasi del tutto, come si diceva una volta, judenfrei. E dovrebbe far riflettere che sia Ignatz Bubis, da settembre (1992) presidente delle comunità ebraiche tedesche, a dover ricordare che per un estremista di destra xenofobia, razzismo e antisemitismo sono la stessa cosa... suggerendo con ciò che l’ebreo di oggi in questa Europa è il più delle volte proprio l’Asylant o l’immigrato dal Sud del mondo27.

24 Robert S. Wistrich, “From cradle to congruence”, The Times Literary Supplement, October 20-26, 1989, p. 1157. 25 Già nel 1895 Herzl aveva annotato nel suo diario, in data 6 luglio, dopo un incontro con Max Nordau, “entrambi fummo d’accordo nel riconoscere che solo l’antisemitismo ci ha fatto ebrei”; cit. in Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920), Firenze, La Giuntina, 1985, p. 57. 26 La denuncia di una presunta correlazione tra crisi economiche o finanziarie e “speculazioni ebraiche” è ricorrente. Nel 1873 la Germania fu colpita da una grave crisi economica: molti uomini d’affari ebrei furono accusati di averla provocata e si arrivò a parlare di “macchinazione giudaica”. Nell’ottobre del 1987 crollano le Borse di mezzo mondo e si diffonde la paura che possa ripetersi la crisi del 1929. Ci si comincia a chiedere cosa c’è dietro, e un settimanale milanese crede di saperlo. In Italia, come in Francia, in Svizzera, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, gli unici a salvarsi dal disastro sarebbero alcuni finanzieri ebrei che, avendolo brillantemente anticipato, sarebbero riusciti a sbarazzarsi dei titoli prima del crollo. Anche se l’articolo non si spingeva fino ad accusare quei finanzieri di aver provocato il danno, il suo autore si è visto accusare di antisemitismo (P.G. Donini, Le comunità…, cit., p. 7.). 27 Alberto Burgio, “L’ebreo che è in tutti noi”, il manifesto, 7 novembre 1992, p. 13.

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Le ultime parole dovrebbero essere accompagnate da un’avvertenza analoga a quella che si può leggere sui pacchetti di sigarette: “Attenzione, la formulazione di questo concetto può comportare l’accusa di antisemitismo”. Paragonare il discriminato di oggi all’ebreo di ieri significa in effetti mettere in discussione il dogma dell’unicità del massacro subito in Europa dagli ebrei europei per mano tedesca, ma anche per mano di alleati e complici della Germania nazista28, cosa giudicata poco men che blasfema dai più bigotti tra i sionisti e i loro alleati29.

A proposito di antisemitismo non è mera pignoleria ricordare che alla famiglia linguistica semita appartengono anche gli arabi, e che nessuno si sogna di dare dell’antisemita a chi discrimina, sfrutta o perseguita un marocchino o un iracheno. Gli si dà, caso mai, dello xenofobo: cosa che, secondo Dahrendorf 30 è diversa e, implicitamente, meno grave. Circoscrivere l’uso di “antisemitismo” al razzismo antiebraico non è altro che l’ennesima nostra manifestazione di eurocentrismo: gli ebrei in quanto vittime di odio e discriminazione sono cosa nostra, europea. Quando −verso la fine del secolo diciannovesimo− entrò in uso la parola “antisemitismo”, dell’antisemitismo diretto contro i semiti extraeuropei non importava nulla a nessuno.

Comunque, indipendentemente dall’uso improprio, il concetto di antisemitismo è o dovrebbe essere chiaro, e altrettanto chiaro dovrebbe essere che l’antisemitismo, in quanto manifestazione di odio diretta contro una persona o un insieme di persone unicamente a causa della loro diversa origine (vera o presunta che sia) è cosa di cui ogni persona civile si vergogna. Altra cosa è l’antisionismo. Chi si proclama sionista lo fa presumibilmente per libera scelta: se è legittimo professarsi sionista, comunista, liberale o fascista, altrettanto legittimo è –e dev’essere– professare la propria avversione per ciascuna di quelle scelte. Non è obbligatorio essere sionisti (nemmeno nello Stato di Israele); chi sceglie di esserlo si espone ipso facto alla libertà di critica da parte di chi sceglie di non esserlo.

Troppo spesso questo elementare diritto a pensarla diversamente non viene riconosciuto. Troppo spesso il sionista crede o lascia credere che le sue idee siano indiscutibili. Un esempio significativo è stato tramandato ai posteri in occasione di uno “storico incontro” avvenuto il 13 aprile 1986 alla Sinagoga di Roma tra il papa Giovanni Paolo II e il rabbino capo Elio Toaff, il quale affermò tra le altre cose che “il ritorno del popolo ebraico deve essere riconosciuto come un bene e una conquista irrinunciabile per il mondo”31. Quella era dichiaratamente una cerimonia di riconciliazione, e la Chiesa ha molto da farsi perdonare dagli ebrei, e talvolta cerca di farlo in maniera opinabile, come quando decide che “la filosofa Edith Stein, convertitasi al cattolicesimo e diventata suora, sarà la prima santa ebrea dopo gli apostoli”32; ma ritenere che tutto il mondo debba rallegrarsi per la realizzazione di uno degli obiettivi del programma sionista rivela un’arroganza che potrebbe sembrare incredibile se non fosse regolarmente ribadita.

28 Tra cui il regime croato caro al cardinale Stepinac, recentemente beatificato: cfr. Marco Aurelio Rivelli, L’Arcivescovo del genocidio. Monsignor Stepinac, il Vaticano, e la dittatura ustascia in Croazia, 1941-1945, Milano, Kaos Edizioni, 1999, rec. in Giano, 31, 1999, pp. 193-94. 29 Sulla presunta “incomparabilità dell’Olocausto” cfr. ad. es. Domenico Losurdo, “L’ebreo, il nero e l’indio nella storia dell’Occidente”; Annamaria Rivera, “La «metafora naturalistica» della razza e le specificità dello sterminio nazista”; P.G. Donini, “Ma esiste anche un «razzismo» antiarabo”, in Giano, 33, 1999, pp. 103-171. 30 Cfr. Burgio, op. cit.. 31 Alceste Santini, “Quell’abbraccio, duemila anni dopo”, l’Unità, 14 aprile 1986, p. 2. 32 “Secondo alcuni la decisione papale non sarebbe del tutto innocente. Sullo sfondo i rapporti, oggi molto discussi, tra nazismo e chiesa romana, dove la Santa Sede ha davanti [sic] un passato perlomeno di silente complicità. Ecco, allora, che la santificazione di Stein potrebbe essere un modo per rivendicare un’opposizione alla dittatura nazista che non corrisponde, però, alla realtà dei fatti. O, all’inverso, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere un segnale di rivisitazione critica di quello stesso passato” (Angela Azzaro, “Santificazione: Edith Stein filosofa ebrea convertita al cristianesimo”, Liberazione, 9 aprile 1997, p. 26.). Sarebbe stato più giusto santificare tutte le vittime delle stragi naziste, ebrei e non ebrei; ma, ahimè, molti di loro erano comunisti e, tra Stalin e Hitler la Santa Sede non ha mai avuto dubbi su quale preferire.

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Sì, la Chiesa ha molto da farsi perdonare dagli ebrei, ma non è giustificata l’accusa mossa dal rabbino Toaff al cardinale Ruini di aver “riproposto i luoghi comuni del peggiore spirito antisemita” per aver affermato (in un articolo pubblicato dal Messaggero il 19 aprile 1992) che “il Dio che Gesù manifestava con le sue parole e i suoi comportamenti, anzi con tutto il suo essere, era troppo diverso dal concetto di Dio su cui si erano fissati i capi del popolo ebraico: di qui la loro decisione di sopprimere Gesù”33. Forse la forma della dichiarazione cardinalizia non è stata felice, e forse non è stata politically correct la decisione di risollevare la questione, e magari non è stato opportuno il momento: ma la diversità tra la concezione ebraica della divinità e quella cristiana è indiscutibile e balza agli occhi di chiunque voglia prendersi la briga di leggere o rileggere i relativi testi.

Questa verità facilmente verificabile è, a quanto pare, sgradita, se vengono definite “interpretazioni evidentemente falsate e faziose” quelle che presentano il Dio neotestamentario come buono, amoroso e misericordioso in contrapposizione a quello terribile e vendicativo degli ebrei34. Il confronto tra la Bibbia e i Vangeli, e magari anche con il Corano, è sempre istruttivo. Non si deve nemmeno lontanamente pensare che l’esegesi biblica o coranica o neotestamentaria sia giustificabile strumento di antisemitismo. Che se ne sia fatto o se ne faccia talvolta simile spregevole uso non è, d’altra parte, giustificazione sufficiente a nascondere la verità palese che il Dio della Bibbia è un Dio diverso da quello dei Vangeli; e questo il cardinal Ruini, o chiunque altro, deve aver il diritto di ricordarlo senza esser tacciato di antisemitismo.

L’accusa di antisemitismo continua tuttavia ad essere sbandierata anche senza un minimo di giustificazione. Ad esempio, in occasione dell’atto di nascita del partito post-fascista di Alleanza Nazionale: “Restava da approvare il famoso emendamento Palmesano sul rifiuto dell’antisemitismo, già fatto proprio dalla direzione. Il testo illustrato in mattinata dal figlio di Giorgio Perlasca, che in Ungheria salvò migliaia di ebrei, è oggettivamente ottimo. Non si limita a una generica denuncia dell’antisemitismo. Definisce «vergogna incommensurabile destinata a bruciare nei secoli» le leggi razziali. Addita anche l’antisemitismo camuffato da antisionismo, e si tratta di una specifica fondamentale, essendo questa oggi la maschera usuale dell’antisemitismo.”35 L’anti-antisemitismo degli eredi del Movimento Sociale Italiano era di fresca data: questa inattesa palingenesi non era riuscita, circa sei mesi prima, a impedire “una inverosimile battuta del fascista Secolo d’Italia sul «rapace naso» di Gad Lerner, vicedirettore della Stampa. Allusioni antisemite da pattumiera”36. E non di soli nasi adunchi si trattava: si fecero anche allusioni alla “erre moscia” di certi direttori di quotidiani37: e da gente simile, uscita da simile matrice, si dovrebbero ascoltare lezioni sull’antisemitismo camuffato da antisionismo?

L’accusa di “antisemitismo mascherato da antisionismo” è stata rivolta anche dal presidente dell’Associazione Italia-Israele, Angelo Pezzana, al vicesindaco di Torino Marziano Marzano reo di aver parlato, in un discorso pubblico, della “tormentata terra di Palestina”38. Sulla accusa di antisemitismo rivolta a chi difende i diritti dei palestinesi è intervenuto a sua volta il rabbino Toaff: “Anch’io difendo i diritti dei palestinesi. Sono antisemita anch’io? Ma non dimentichiamo che esistono anche i diritti degli israeliani.”39

33 l’Unità, 24 aprile 1992, p. 9. 34 Annalisa Di Nola, Micaela Procaccia, “Antisemitismo ‘cristiano’ ”, in AA.VV., L’Italia e l’antisemitismo, Roma, Datanews, 1993, p. 26. 35 Andrea Colombo, “Il giorno del trionfo di Fini”, il manifesto, 28 gennaio 1995, p. 6. 36 Stefano Menichini, “Dieci editoriali non valgono un Pilo”, il manifesto, 9 giugno 1994, p.24. 37 Allusioni energicamente denunciate con l’accompagnamento dell’invito terapeutico a “portarsi sempre appresso - ma proprio sempre, quotidianamente - l’immagine di Einstein che, costretto a lasciare l’Europa per i noti motivi, arriva alla frontiera americana, e all’ufficiale che gli controlla i documenti e gli chiede “Razza?” risponde, lievemente stupito: ‘Bè, umana’.” (Lella Costa, “Nasi adunchi? Preferisco non capire”, l’Unità2, 13 giugno 1994, p. 1). 38 il manifesto, 17 luglio 1992, p. 4. 39 il manifesto, 18 luglio 1992, p. 11.

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Toaff avrebbe potuto utilmente rivolgere la sua battuta a Victor Magiar, che solleva la questione in modo formalmente più accettabile in uno scritto dal titolo “Antisionismo uguale antisemitismo?”, dove il punto interrogativo si rivela artifizio retorico. In realtà l’autore dimostra di essere convinto della validità dell’equazione, tanto da rovesciare sugli antisionisti la responsabilità dei delitti più turpi: “Uno dei maggiori veicoli dell’antisemitismo dal dopoguerra ad oggi è stato l’antisionismo, ovvero la critica al diritto d’esistenza dello Stato d’Israele”40. Che esistano masnade di antisemiti in giro per il mondo, pronti a dissimulare la loro immonda Weltanschauung dietro il velo di un generico antisionismo, è cosa indubbia: altrettanto indubbio è che porre sullo stesso piano antisionismo e antisemitismo sia una forma spregevole di terrorismo ideologico. Il sionismo è una scelta politica, non –come l’essere ebreo– una condizione umana sia pure mediata o modificata da stratificazioni culturali; e in quanto opzione politica scelta, si presume liberamente, da chi decide di essere sionista, è oggetto naturale di legittima critica da parte di chi sceglie di non esserlo. E nei cent’anni di storia del sionismo politico, anno per anno e comunità per comunità, gli ebrei contrari al sionismo hanno complessivamente superato numericamente quelli sionisti; a prendere per buono il ragionamento di Magiar, bisognerebbe concludere che la maggioranza degli ebrei, dal primo Congresso di Basilea a oggi, sono stati antisemiti.

Anche oggi non manca, in Israele, chi mette in discussione il sionismo: ad esempio lo scrittore Amos Elon, che sostiene la necessità di “andare oltre il sionismo, rifiutarne le conclusioni, opporsi al progetto di un grande Israele, alle colonizzazioni”. Questo significherebbe rivedere alcuni pilastri della politica nazionale israeliana di questi decenni, per esempio la “legge del Ritorno”. Secondo stime ufficiali sarebbero tra gli otto e i dieci milioni gli ebrei sparsi nel mondo che con l’attuale legge potrebbero chiedere il rimpatrio in Israele. Una cifra che spaventa soprattutto il governo. Secondo Elon sarebbe forse ora di dichiarare conclusa l’esperienza del sionismo, smettere di fare della religione l’elemento fondante dell’identità ebraica, deporre l’unicità del popolo eletto per diventare un popolo “normale”, come tutti gli altri. “La predominanza nella legge e nelle istituzioni di una ideologia sionista rischia di essere discriminatoria in un paese dove un quinto della popolazione [900.000 persone] è arabo.”41.

A parte le poche voci ebraiche esplicitamente contrarie al sionismo, non vanno trascurate quelle di chi non parla, ma agisce, o meglio non agisce. “Le pretese dei sionisti di essere gli unici rappresentanti dell’ebraismo sono sempre state nel migliore dei casi un’esagerazione, nel peggiore un’impostura. La maggior parte degli ebrei hanno sempre votato «con i piedi» contro il sionismo. Perfino oggi [1988], quando la maggioranza degli ebrei di tutto il mondo fornisce probabilmente una qualche forma di appoggio a Israele, soltanto il 23 per cento di essi vivono effettivamente nello Stato ebraico. Inoltre, la maggior parte di coloro che ci vivono lo fanno o perché vi sono nati o perché furono scacciati dalle loro case. Nel periodo di immigrazione di massa in Palestina e Israele soltanto una minuscola percentuale dei nuovi venuti aveva scelto liberamente di lasciare il proprio paese di origine. Oggi, comunque, Israele si trova a dover affrontare una emigrazione netta”, vale a dire che il flusso degli immigranti è inferiore a quello degli emigranti42.

Si può citare in questo contesto anche una voce italiana: “...l’ultima volta in cui ho nascosto di essere ebreo è stato durante l’occupazione tedesca. Ma non me ne vanto. Anzi, mi sarebbe piaciuto fondare un movimento ‘antiprosemita’, contro quelli che sostengono una superiorità dell’ebreo in tutti i campi... In particolare, non parlo volentieri dell’ebraismo per due ragioni: prima di tutto perché spesso si finisce per sembrare l’ebreo lagnoso che inveisce contro il destino o l’ebreo

40 In AA.VV., L’Italia e l’antisemitismo..., cit. , p. 46. 41 Roberto Festa, “Ebrei ma non più eletti” (intervista a Amos Elon), l’Unità2, 30 dicembre 1996, p. 3. Nel 2002 sono circa 1.200.000 gli arabi in Israele su una popolazione complessiva di oltre 6 milioni. [Nel 2019 sono circa 1.960.000 gli arabi in Israele su una popolazione complessiva di 9 milioni, NdR – vedi dal sito della Comunità ebraica di Roma https://www.shalom.it/blog/news-in-israele-bc241/israele-popolazione-in-crescita-superati-9-milioni-abitanti-b428131.] 42 Bernard Wasserstein, “A foot in the door”,[rec. a David Vital, Zionism: the Crucial Phase, Oxford, Clarendon Press] TLS, January 29-February 4 1988.

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presuntuoso che celebra la sua condizione di eletto, e poi perché io credo alla bastardaggine della cultura, al meticciato, e invece certe fasce di Israele e dell’ebraismo hanno un atteggiamento di grande chiusura.” 43

Quando non è mero strumento di scurrile propaganda, o di terrorismo ideologico, il riproporre la falsa equazione “antisionismo = antisemitismo” può essere un modo per sostenere la tesi secondo cui l’esistenza dello Stato di Israele sarebbe garanzia di sicurezza o addirittura sopravvivenza degli ebrei in generale. A questa tesi, a cui si associa (senza tuttavia accettare l’ignobile equazione) anche l’autore di uno dei più obiettivi testi sul sionismo e lo Stato di Israele44, si può obiettare da una parte “che le circostanze in cui fu creato il moderno Israele, e il successivo comportamento dello Stato ebraico, hanno nuociuto alla causa dell’ebraismo mondiale in maniera che sarebbe stata, diversamente, impensabile dopo l’Olocausto” 45; dall’altra, che il ruolo di baluardo contro l’antisemitismo attribuito a Israele è forse sopravvalutato. Lo Stato ebraico ha, con atti che hanno forse violato la lettera del diritto internazionale ma appaiono moralmente giustificati a chiunque coltivi un senso di giustizia, rapito, giudicato e giustiziato Eichmann, esponente egregio dell’antisemitismo di ieri. Ma contro l’antisemitismo di oggi, quello che secondo Herzl doveva essere eliminato dalla migrazione degli ebrei nella loro nuova patria, che cosa ha fatto? Ha mandato all’estero sicari per uccidere rappresentanti dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), non fascisti o nazisti vecchi e nuovi.

Una variante, o corollario, dell’equazione infame si collega a una nota risoluzione (n. 3379) dell’Assemblea Generale dell’Onu che, il 10 novembre 1975, definì a maggioranza “razzista” il sionismo. Numerosi delegati che votarono a favore rappresentavano regimi con i quali nessuna persona onesta vorrebbe mai avere a che fare, ma la reazione dei sionisti e dei loro alleati fu talmente emotiva e fondata su argomenti tautologici, apodittici e pregni di terrorismo intellettuale (del genere “le vittime del razzismo, o i loro eredi, non possono essere razzisti”, “accusare oggi di razzismo i dirigenti sionisti equivale a insultare le vittime del genocidio nazista”, e via mistificando46), che il nocciolo della questione fu perso di vista. Nell’orgia emotiva di strumentalizzazione della Shoà che seguì quella risoluzione quasi nessuno si preoccupò di verificare se, per caso, il sionismo avesse qualcosa in comune con il razzismo. In realtà non è da oggi che simili accuse vengono mosse al sionismo; oggi è solo più difficile farlo che in passato, per i sensi di colpa che, in Europa, impregnano e circondano l’intera questione ebraica e, in particolare, gli eventi che hanno condotto i vincitori della Seconda Guerra mondiale a decretare la spartizione della Palestina e la creazione dello Stato di Israele.

In tempi intellettualmente più liberi dei nostri, perché si potevano affrontare le questioni dell’ebraismo e del sionismo senza timori di quei ricatti morali e quei sensi di colpa che la politica nazista e l’indifferenza dell’Occidente hanno generato, c’era chi denunciava il sionismo proprio per i temi razzisti utilizzati nella sua propaganda, in particolare nei confronti dei contadini polacchi non ebrei47. Razzista è, oggi, la cosiddetta legge del ritorno, che considera potenziali cittadini di Israele tutti gli ebrei del mondo, ma non i palestinesi che su quella terra vivevano fino al 1948. Razzista è la discriminazione tra cittadini arabi e cittadini ebrei in Israele. A questo proposito i sionisti e i loro alleati considerano particolarmente offensivo (e, manco a dirlo, dettato da antisemitismo) qualsiasi

43 Guido Almansi, intervista rilasciata a Aurelio Magistà, Venerdì di Repubblica, 12 novembre 1993, pp. 76-78. 44 Conor Cruise O’Brien, The Siege: The Saga of Israel and Zionism, London, Weidenfeld & Nicolson, 1986. 45 John Grigg, “The road to Jerusalem” [rec. a O’Brien, op. cit.], The Observer, 1 June 1986. 46 Ad esempio: “... quella dichiarazione pazzesca... rimane una delle pagine più oscure della storia dell’Onu, una sequenza di viltà favorite da un segretario generale ex nazista come Waldheim.” (Furio Colombo, intervistato da Giancarlo Bosetti, “Non è finito l’assedio di Israele”, l’Unità, 13 ottobre 1991, p.2. 47 Maurice Fishberg, The Jews. A Study of Race and Environment, New York, 1911, p. 471. Il terreno era stato preparato da un senso di superiorità che gli ebrei pre-sionisti nutrivano nei confronti dei russi, ma anche dei tedeschi: “Fino a una cinquantina d’anni fa era considerata una vergogna, per un ebreo, saper parlare il russo o il tedesco, o semplicemente possedere un libro in una di quelle lingue volgari; era un peccato inferiore soltanto a quello di apostasia”; ivi, pp. 478-479.

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paragone con il Sudafrica pre-Mandela, quello dell’apartheid; ma, come osserva Elon, “se Israele non si ritira presto dai territori occupati nel 1967, la democrazia israeliana corre gravi rischi... L’apartheid già c’è” 48. Ma per la stampa nostrana “chi sbandiera ancora con nonchalance pseudoconcetti come «razzismo ebraico» o «lobby ebraica» (di destra o di sinistra che sia non importa: queste espressioni sono sciocche e insignificanti di per sé) lo fa, evidentemente, per altri scopi o intrighi rispetto a quello della riflessione politico-culturale” 49.

Fa qui la sua comparsa un altro tabù dei sionisti e dei loro alleati: il concetto (“pseudoconcetto” secondo l’autore citato alla nota precedente) di lobby o gruppo di pressione, che esiste ma non dev’essere nominato da chi non voglia essere sospettato di “altri scopi o intrighi rispetto a quello della riflessione politico-culturale”. L’attività svolta dalla lobby (lett. “anticamera”, “corridoio”, “sala” ecc., in cui tradizionalmente il rappresentante del gruppo di pressione incontrava il deputato o senatore per influenzarne le decisioni; e proprio “influenzare” è il significato del verbo to lobby) è perfettamente lecita negli Stati Uniti, dove la prassi è regolata da testi giuridici, in cui la parola che si vorrebbe coperta da tabù compare fin nel titolo, quali il Lobbying Act del 194650. Se legittimo è il lobbying in generale, perché mai ci si dovrebbe vergognare dell’esistenza di un lobbying ebraico e, in particolare, di un lobbying sionista? Tanto più in un paese come gli Stati Uniti dove, su 192 milioni di abitanti, si contavano nel 1971 circa 5,8 milioni di ebrei pari al 3 per cento della popolazione (percentuale che sale al 14% nello stato di New York)51; e dove fin dall’inizio l’attività di un gruppo di pressione filoisraeliano è apparsa giustificata dalle divergenze tra Dipartimento di Stato, relativamente ostile allo Stato ebraico, e Congresso52.

La lobby ebraica per eccellenza è, negli Stati Uniti, l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), fondato nel 1954 e descritto come registered lobby da un annuario statunitense che ne indica l’attività come “fornire servizi e informazioni sulla politica estera americana nel Medio Oriente. Cerca di mantenere e migliorare amicizia e buona volontà tra gli Stati Uniti e Israele”. Si chiamava in precedenza American Zionist Committee for Public Affairs53; il cambiamento di nome riflette una certa riluttanza sionista a dire pane al pane e vino al vino, che si esprime anche nella ridicola pretesa di considerare antisemita la definizione corrente di Israele come “Stato ebraico”54. Ma l’AIPAC non è sola: il medesimo annuario elenca circa trecento organizzazioni ebraiche operanti negli Stati Uniti, grandi e piccole, sioniste e non sioniste. Il numero degli iscritti varia dalle poche decine della Jewish Foundation for the Education of Women ai due milioni e mezzo della World Organization for Jews from Arab Countries. Altrettanto variegato è l’orientamento politico-ideologico di queste associazioni: si va dal razzismo più sfrenato del Committee for the Jewish Idea fondato negli anni settanta dal defunto rabbino Meir Kahane con un programma di opposizione ai matrimoni misti, all’assimilazione di arabi ed ebrei e di incoraggiamento all’espulsione degli “arabi israeliani da Israele”, alla New Jewish Agenda favorevole alla coesistenza tra israeliani e palestinesi; dal Committee for the Maintenance of Jewish Standards, contrario a una risoluzione dell’ebraismo riformatore che conferisce l’identità ebraica ai figli di padre ebreo e madre gentile, all’American Council for Judaism il cui programma proclama che il giudaismo non è una nazionalità ma una religione universale, che Israele non è la patria di tutti gli ebrei e che gli ebrei non israeliani devono

48 In Festa, op. cit. 49 Roberto Silvestri, “La Lente di Marx è appannata”, il manifesto, 14 dicembre 1994, p.27. Il riferimento è a un dossier dal titolo “Ebrei brava gente” pubblicato dalla rivista citata nel titolo, a cura di Claudio Moffa. 50 Sull’argomento in generale, cfr. Rodolfo Brancoli, In nome della Lobby. Politica e denaro in una democrazia, Milano, Garzanti, 1990. 51 Irving J. Sloan (ed.), The Jews in America, New York, Ocean Publications, 1971, pp. 14-21. 52 Giuseppe Calandruccio, Gli ebrei d’America e la nascita di Israele. Commentary 1945-1967, tesi di laurea inedita, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1990, p. 28. 53 K.E. Koek, S. Boyles Martin (eds.), Encyclopaedia of Associations, Detroit, Gale Research Company, 1988, cit. in Calandruccio, op. cit. 54 Pupa Garribba, in Confronti, gennaio 1993, pp. 13-14; P.G. Donini, “Ma Israele è lo Stato ebraico”, Confronti, marzo 1993, p. 41.

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vivere secondo le proprie convinzioni e non secondo l’ideologia sionista; dai Jews for Jews che si battono contro la conversione di ebrei da parte di missionari cristiani agli antisionisti di Neturei Karta, contrari allo Stato ebraico in quanto non frutto di rivelazione divina, e contrari ai movimenti “riformatore, conservatore e sionista che affermano di parlare in nome del popolo ebraico” (svolgono, in particolare, ricerche sulla “collaborazione tra sionisti e nazisti, diretta e indiretta, negli anni dell’Olocausto” e sul “tradimento degli ebrei della diaspora da parte dei sionisti” allo scopo di trascinarli in Palestina/Israele)55.

Lobby e altre associazioni, al servizio del sionismo o di qualsiasi altra causa, sono dunque elementi ben radicati nel paesaggio politico degli Stati Uniti; sono una realtà di cui nessuno si meraviglia. Una realtà che qualcuno critica e qualcun altro difende come fattore della dialettica democratica, ma che –comunque– viene accettata56, anche quando in particolare se ne condannano i metodi57. Da noi invece questa realtà viene fatta rientrare tra gli “pseudoconcetti” e le espressioni “sciocche e insignificanti di per sé”58. Non la pensa, evidentemente, in questo modo il già citato Elon: “Dopo la fine della guerra fredda gli Stati Uniti non hanno più uno straccio di politica estera. Tutto è condizionato da ragioni di politica interna. La missione contro l’Iraq era dovuta a preoccupazioni circa il prezzo del petrolio, la politica verso Israele dalla [sic] necessità del governo americano di vincere l’appoggio della potente comunità ebraica”59: quella comunità ebraica che, nelle sue varie articolazioni, lobby comprese, consente a Israele di esercitare sugli Stati Uniti un’influenza maggiore di quella che gli USA esercitano su Israele60.

Beh, devo fermarmi qui, anche per lasciare un po’ di spazio ad eventuali domande. Grazie.

Domanda A – Allora la domanda è questa: perché l’Inghilterra ha spinto tanto per far costituire

lo stato d’Israele, perché più di ogni altro l’Inghilterra? Risposta A – La domanda è giusta perché io ho il difetto di dare per scontate molte cose.

Quando penso alla Gran Bretagna, penso subito al suo impero, penso all’India che era la perla dell’impero britannico e penso al canale di Suez che era la “vena giugulare” delle comunicazioni tra la madre patria e la parte più preziosa del suo impero. Già prima che nascesse il sionismo, intorno al 1840, prima addirittura che venisse aperto il canale di Suez, c’erano in Inghilterra personaggi che è giusto definire pre-sionisti, i quali elaboravano progettini per la costituzione di una colonia ebraica in Palestina, perché servirà, diceva uno di loro, a proteggere le nostre comunicazioni imperiali. Prima che venisse aperto il canale di Suez, la Gran Bretagna comunicava con l’India via mare fino ad Alessandria. Il viaggio proseguiva per via di terra fino a Suez, dove ci si imbarcava di nuovo per arrivare finalmente in India via mare. Già intorno al 1840 la Gran Bretagna riuscì a ottenere una concessione dall’Egitto per la costruzione di una ferrovia da Alessandria a Suez; poi naturalmente con l’apertura del canale la cosa diventa molto più importante. Sicché già dal 1840 la Gran Bretagna aveva interesse a proteggere le sue comunicazioni imperiali, e la colonizzazione ebraica della Palestina sarebbe dovuta servire come antemurale, come baluardo per proteggere Suez. Alla grande massa del pubblico la stampa faceva credere che, lungi dal servire interessi materiali, quella particolare forma di colonizzazione doveva costituire il baluardo della civiltà contro la barbarie; cosa abbastanza emblematica, la stessa cosa che si dice di questi tempi.

55 Encyclopaedia of Associations, cit. 56 Cfr. ad esempio McC. Charles Jr. Mathias, “Ethnic Groups and Foreign Policy”, in Foreign Affairs, Spring 1981. 57 P. Findley, They Dared to Speak Out. People and Institutions Confront Israel’s Lobby, Westport, Lawrence Hill & Co., 1985. 58 Cfr. Silvestri, op. cit. 59 In Festa, op. cit. 60 O’Brien, op. cit., p.404.

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Naturalmente, visto che si parla di Vicino Oriente, non si può trascurare l’aspetto petrolio. Al momento della Dichiarazione di Balfour, la Gran Bretagna sfruttava già da circa un decennio i giacimenti della Persia meridionale, la cui produzione diede un contributo non trascurabile alla vittoria degli Alleati nella Prima Guerra Mondiale (si diceva che i loro eserciti e soprattutto le loro flotte floated to victory on a sea of oil). Quel petrolio arrivava in Gran Bretagna attraverso il Canale di Suez, donde un’accresciuta importanza per l’antemurale palestinese. A queste risorse si aggiunsero poi quelle dei giacimenti iracheni, convogliate mediante oleodotto fino a Haifa (dove sorgeva anche un’importante raffineria con altrettanto importanti depositi): ulteriore motivo, dal punto di vista britannico, per mantenere una presenza in Palestina e sul Canale.

Domanda B – La mia è una domanda basata sull’oggi: l’atteggiamento abbastanza tiepido

dell’Europa, attualmente, nei confronti di questa questione, dilatorio, inconcludente, dipende solo dal legame con gli Stati Uniti o invece c’è qualcos’altro? Le aperture attuali degli Stati Uniti che sembrano seguire la questione del rapporto generale con i paesi arabi, dovuto al petrolio anche ora e tutte queste cose qui, condizionano l’Europa o l’Europa di per sé ha dei problemi nei confronti di questa questione israeliano-palestinese? Poi volevo dire una cosa che è la mia esperienza di bambina, di famiglia comunista, e quindi non influenzata dagli Stati Uniti: i comunisti sostenevano fortemente non il sionismo ma certamente gli ebrei; io sono cresciuta in questa atmosfera, infatti mio fratello, per esempio, ha sposato una donna di religione ebraica, siamo nati e cresciuti con questa immane tragedia che c’era stata e in qualche modo gli ebrei erano cari ai comunisti, per lo meno italiani, io questo me lo ricordo bene…

Risposta B – Era cosa sacrosanta che il PCI difendesse gli ebrei, ma il grosso equivoco che si è formato (e si è formato anche grazie all’efficienza della propaganda prima sionista e poi israeliana) è questo che tende a mettere sullo stesso piano antisemitismo ed antisionismo, cosa che qualsiasi persona civile deve respingere perché è un’equazione infame. Era stato detto già ai tempi della Rivoluzione francese che agli ebrei spetta tutto come cittadini, ma nulla in quanto nazione; questa è un’affermazione che può sembrare piuttosto pesante e risale mi pare a Clermont-Tonnerre all’inizio del 1800. Nell’ottica della legislazione francese, in cui tutti sono uguali di fronte alla legge indipendentemente dalla religione eccetera, è chiaro, gli ebrei devono avere gli stessi diritti degli altri, ma questo non significa che devono avere una nazione in Palestina.

Il PCI faceva benissimo a difendere la causa degli ebrei, e delle persecuzioni degli ebrei. Dove il PCI ha sbagliato probabilmente è nel non aver discusso quelle famose alternative a cui ho accennato prima, ma d’altra parte non gli si può neanche tirare la croce addosso, o la falce e martello addosso, perché a quell’epoca il PCI si è allineato sulle decisioni di Mosca: il governo di Mosca ha accettato la spartizione, si è giocato in un colpo solo tutte le solidarietà politiche del mondo arabo, e perché lo ha fatto? Per un calcolo sbagliato, perché riteneva che incoraggiare la nascita di uno stato socialdemocratico, socialisteggiante, con elementi di socialismo come i kibbutz, avrebbe destabilizzato la regione che, vista da Mosca, era una regione infeudata all’Occidente, retta da regimi corrotti alleati della Francia o della Gran Bretagna, e quindi in una visione un po’ schematica Stalin ha pensato che fosse cosa buona aiutare la nascita dello stato d’Israele.

C’era poi un’altra ragione meno nobile che era quella di sbarazzarsi degli ebrei europei, perché il bello di essere filosionisti in Europa è che incoraggi gli ebrei del tuo paese ad andarsene in Israele; incoraggi probabilmente non gli ebrei che ti fa comodo avere nel tuo paese, ma è questo comportamento che ha giustificato alcune battute di propaganda antiebraica, o addirittura antisemita per cui si diceva che i migliori alleati del sionismo sono i nazisti. Vi voglio rileggere la dichiarazione di Herzl, che non può essere sospettato di antisionismo o di antisemitismo. Già nel 1895 Herzl aveva annotato nel suo diario, in data 6 luglio, dopo un incontro con Max Nordau, un altro dei padri nobili del sionismo: “entrambi fummo d’accordo nel riconoscere che solo l’antisemitismo ci ha fatto ebrei” (cit. in Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita

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dei kibbutz). Questo è un argomento molto delicato che scatena spesso accuse di antisemitismo, ma è altrettanto vero che una cinquantina d’anni dopo la conversazione tra Herzl e Nordau si sono verificate convergenze di interessi tra nazisti e sionisti, non c’è dubbio; poi mi piacerebbe avere un po’ più di tempo per andare a fondo in questa questione.

Io parlo di sionismo ma dovrei precisare sempre che il sionismo è intanto un movimento nazionalista, ma all’interno di un movimento nazionalista, colonialista pure, è lecito aspettarsi la compresenza degli orientamenti politici ed ideologici più diversi. Nel sionismo come nel Risorgimento italiano c’erano correnti di destra e c’erano correnti di sinistra, c’erano correnti fasciste, c’erano addirittura correnti naziste, c’era il movimento giovanile Betar attivo in Polonia e anche in Germania, che negli anni ‘30 sfilava insieme alla Hitlerjugend. Ci sono fotografie allucinanti di questa cosa. Agli amici di Israele, ebrei o non ebrei che siano, israeliani o non israeliani, queste cose danno oggi enorme fastidio e chi le ricorda viene accusato normalmente di essere antisemita, ma questa è storia. D’altra parte la propaganda anti-araba di Israele ha sempre sbattuto in faccia al lettore il comportamento ignobile del Mufti di Gerusalemme che negli anni ‘30 difendeva la causa palestinese in unità di intenti con il fascismo ed il nazismo, soprattutto con il nazismo, e gli viene rimproverato di aver cercato l’appoggio del nazismo, ma se tu combatti contro un pericolo… bè, non è soltanto l’arabo che si allea con il nemico dei suoi nemici, per farci un po’ di strada insieme, questa è la storia della dinastia sabauda e di come ha unificato l’Italia. Io non mi scandalizzo se mi si dice che il Mufti di Gerusalemme era un alleato dei nazisti. Era un alleato dei nazisti perché voleva difendere gli interessi del suo popolo, che poi fosse un mascalzone per altre ragioni, lo accetto tranquillamente. Però non tollero di essere accusato di antisemitismo se ricordo come dato di fatto storico che nel movimento sionista c’erano sia i comunisti sia i fascisti.

Quanto alla prima parte della domanda, la posizione dell’Europa molto spesso viene spiegata in termini psicoanalitici: il senso di colpa. Hitler è fortunato in fondo, sa di aver ammazzato gli ebrei, ha detto una frase molto significativa, quando preparava la soluzione finale: “Tra cinquant’anni non se ne ricorderà più nessuno!”. Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni? In realtà ogni tanto qualcuno si ricorda dello sterminio degli armeni, però Hitler puntava sull’amnesia selettiva dell’opinione pubblica. E poi Hitler diceva anche delle cose che sono più inquietanti: “Nessuno ha il diritto di darci delle lezioni a noi tedeschi, soprattutto non gli Stati Uniti, gli americani che hanno sterminato i loro indigeni quasi fino all’ultimo uomo, non gl’inglesi che hanno fatto stragi tremende nelle loro colonie, non i francesi che hanno affumicato vivi gli algerini nelle caverne…”. Eh, aveva tutta la documentazione della storia del colonialismo europeo a cui attingere, per dire…insomma è come il bue che dà del cornuto all’asino. Ora, con Hitler i nostri rapporti sono chiari, è un mostro, ha massacrato sei milioni di persone e forse di più. Quello che invece ci riesce difficile concettualizzare, sistemare nel nostro giudizio morale, è il comportamento dei paesi europei, che tacevano mentre lui le massacrava. Una delle accuse più frequenti che vengono fatte all’Occidente, da parte ebraica e non solo da parte ebraica: perché non avete bombardato Auschwitz? Perché non avete bombardato le ferrovie? A queste domande non sono mai state date risposte convincenti, quindi il senso di colpa può spiegare buona parte dell’atteggiamento acriticamente filoisraeliano dell’opinione pubblica europea, anche ai nostri giorni.

E poi c’è il post-11-settembre in cui molta gente ha una certa riluttanza a dire quello che pensa, troppe volte io ho sentito persone, note per il loro atteggiamento critico nei confronti degli Stati Uniti, in imbarazzo, sentire quasi la necessità di cominciare con qualche aggettivo sull’11 settembre e poi fare la critica agli Stati Uniti, un po’ come ai tempi del socialismo reale non c’era scienziato sovietico che potesse parlare, che ne so di biologia, senza citare, nella prima nota a pie’ di pagina, Marx, Engels, Lenin e fino a un certo anno Stalin. C’è una certa titubanza, fenomeni di auto-censura, come se criticare la politica degli Stati Uniti o degli alleati degli Stati Uniti o di Israele fosse automaticamente un, come dire, un avallo di Bin Laden e del terrorismo. Io mi ricordo che queste cose sono successe una decina di anni fa quando si preparava l’operazione contro l’Iraq, subito dopo l’invasione irachena del Kuweit. Allora ci furono persone che scoprirono

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improvvisamente che quel dittatore era un personaggio spregevole, c’erano persone per la verità che già sapevano che lui era spregevole, però fino a quel momento aveva ammazzato soltanto curdi e comunisti, peccati veniali perdonabili. Invade un territorio pieno di petrolio, ah! è diventato il mostro, il satana. Siccome a quell’epoca era, proprio per ragioni di coscienza, difficile accettare tutto quello che ci veniva presentato come oro colato e siccome era giusto cercare di distinguere le colpe di Saddam dalle responsabilità del suo popolo, ecco che un sacco di gente già allora veniva accusata di fare il gioco di Saddam Hussein oppure, se si permetteva di criticare Saddam Hussein, nella sinistra, ah! fai il gioco degli Stati Uniti.

Le cose si ripetono adesso in misura forse più pesante, perché l’impatto sulle coscienze degli attentati dell’11 settembre è stato più forte, perché è morta più gente in un colpo solo e la nostra reazione all’informazione funziona così; è una reazione irrazionale, perché è morta tanta gente in un colpo solo (ah, a proposito non sappiamo ancora quanti sono morti, perché s’è cominciato con lo sparare delle cifre incredibili e poi via via si sono ridotte). Naturalmente i vetero anti-colonialisti come me vedono morire 3, 5, 6 mila persone in un colpo solo, certo si scandalizzano (appartengo ad una tradizione di persone che pensa che sia giusto, nel caso, sparare al militare ma non uccidere i civili), però ho il difetto dei professori di storia e non mi dimentico che, senza altrettanta o proporzionale attenzione e indignazione da parte dei media, sono state ammazzate 800 mila persone nelle regioni dei Grandi Laghi, in Africa, un milione circa in Indonesia, pochi anni fa.

Grazie ancora per la pazienza e l’attenzione.

Revisione finale di Alberto Clarizia Napoli, 10 marzo 2020