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I concetti di Sviluppo e di CooperazioneInternazionale1 sono particolarmentecomplessi e in continua evoluzione, tut-tavia essi non sono termini astratti, masono diventati principi che, tramutandosiin precise scelte politiche, incidono diret-tamente sulla vita quotidiana degli indi-vidui, nel presente e nel futuro. Quandoci si occupa di cooperazione allo svilup-po si cerca di andare alla radice dei pro-blemi che creano povertà, miseria esoprattutto disparità ed ingiustizie nelmondo, e questo si può fare operando daprospettive diverse. Per affrontare il tema del rapporto traantropologia e cooperazione internazio-nale risulta utile prima tracciare un breveexcursus sulla nascita e l’evoluzione delconcetto di sviluppo. Secondo la pro-spettiva cosiddetta ‘sviluppista’, tutti ipopoli del mondo si muovono lungo unasola strada, lungo lo stesso percorso. Chista avanti segna la strada ed indica ladestinazione comune a tutti, anche perquei paesi che avevano destinazionidiverse nel passato. In origine, lo svilup-po così concepito, si esauriva nella cre-scita in una modalità di espansione eco-nomica espressa da variabili quantifica-bili (redditi, occupazione, PIL). In que-st’ottica il fine dello sviluppo è la cresci-ta economica e il benessere è assimilatoalla capacità di consumo e di accumula-zione; una visione, questa, che è in partealla base della formulazione dellaDichiarazione Universale dei DirittiUmani del 1948, i quali sono stati ispiratie stilati su basi etnocentriche2. Come sot-tolinea Latouche (1997), i valori sui qualisi basa lo sviluppo - e in modo particola-re il progresso e la modernità3 - non cor-rispondono affatto ad aspirazioni univer-sali profonde. Tali valori sono legati allastoria dell’Occidente e probabilmentenon hanno alcun senso per altre società.Il concetto di “sviluppo umano” vieneelaborato, a partire dagli anni Ottanta delNovecento, al fine di superare e ampliarel’accezione tradizionale di sviluppoincentrata solo sulla crescita economica;il nuovo approccio mette le comunità al

centro dello sviluppo e si basa sulla con-vinzione che la dimensione umana dellosviluppo sia stata trascurata nel passato acausa dell’enfasi eccessiva posta sullacrescita economica.Negli anni Novanta del Novecento, conl’aggiunta di un nuovo aggettivo allacatena semantica, nasce il concetto di“sviluppo umano sostenibile”; esso vienedefinito nel Rapporto Bruntland durantela World Commission on Environementand Development (1987): per sostenibili-tà si intende “un processo di cambiamen-to nel quale lo sfruttamento delle risorse,gli orientamenti degli investimenti, lo svi-luppo tecnologico e i cambiamenti alivello istituzionale devono soddisfare leesigenze attuali e future”. Si afferma ilconcetto di basic needs (bisogni essenzia-li)4 e il riconoscimento delle limitazioniimposte dallo stato della tecnologia.

Antropologia e sviluppo: alle origini diun rapporto difficileI prodromi del rapporto tra antropologiae sviluppo sono da ricercare nelle nozio-ni di ‘ideologia del progresso’ e ‘imperia-lismo europeo’, due concetti che hannocontraddistinto la nascita e il caratteredell’antropologia culturale di matriceevoluzionista, agli inizi del processo diformazione della disciplina. Per quantoconcerne il primo concetto, per gli antro-pologi evoluzionisti il progresso era unconcetto sintetico attraverso il qualediventava possibile esprimere contempo-raneamente le idee di cumulatività e dicontinuità culturale. La convinzione del-l’esistenza di un progresso nella storiadell’uomo affonda le radici nella consi-derazione della società industriale dimetà Ottocento come modello di societàche si trova al più alto stadio di una evo-luzione culturale di natura cumulativa.Le leggi che governavano l’incrementodella produzione materiale ed intellettua-le della società presente dovevano esserele stesse che avevano determinato, inmisura e tempi diversi, lo sviluppo dellesocietà passate e quindi il passaggio dauno stadio culturale inferiore ad uno sta-

Antropologia e cooperazione allo sviluppo:le regole della buona convivenza

MARIA CHIARA MIDURI

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dio superiore (Fabietti 1991: 12). In rife-rimento al concetto di ‘imperialismoeuropeo’, va considerato che le scienzedell’uomo sono nate, alla finedell’Ottocento, da una configurazione dirapporti tra potere e sapere e nell’antro-pologia, scienza delle società “primitive”o “tradizionali”, si può leggere la storiastessa dei rapporti di dominio tra centro eperiferia (Kilani 1994)5.Colajanni (1994) paragona lo “sviluppo”ad un “fuoco culturale dalle straordinariequalità espressive”, sottolineandone cosìil rilievo semantico di cui si fa portatore.Nel suo testo fondamentale Problemi diantropologia nei processi di sviluppospiega il cambiamento che questo termi-ne ha subito tra Ottocento e Novecento.Mentre nell’Ottocento indicava il rag-giungimento da parte di un essere viven-te, pianta, animale o uomo, di un “com-pletamento naturale”, già noto a priori,nel Novecento il significato di svilupposi modifica fino a indicare il “superamen-to della condizione naturale, verso unaperfezione, non definibile a priori”6. Lanuova accezione novecentesca dellaparola “sviluppo” risente dell’influenzadella crescita tecnica ed economica cheha caratterizzato il XX secolo, e si lega alconcetto, dominante nella società occi-dentale, di progresso; tant’è che la nozio-ne stessa di «sviluppo» è apparsa, nellasua indeterminatezza, una sorta di mitodi fondazione delle societàdell’Occidente7. E’ su questa nuova con-cezione dello sviluppo che si poggia ladivisione del mondo in paesi sviluppati epaesi sottosviluppati; ed ecco nascere ladicotomia tra sviluppo e sottosviluppo:da una parte lo sviluppo come un doveressere delle società umane e dall’altraparte i paesi del Terzo Mondo che nonsono più definiti per delle proprie carat-teristiche positive, ma per essere privi diquel carattere fondamentale che è lo svi-luppo. Quest’idea di sviluppo che siafferma nel Novecento affonda le sueradici teoriche in un concetto di storialineare, di derivazione cristiana, e adotta-ta tra la fine del Settecento e l’inizio

Antropologia culturaleAntropologia culturale

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dell’Ottocento dai primi antropologi evo-luzionisti. Il progresso viene così identi-ficato con la crescita e il cambiamentoviene inteso come un mezzo graduale euna “trasformazione necessaria affinchési possano raggiungere forme più perfet-te, celebrate nello sviluppo tecnico-scientifico ed economico occidentale, o,meglio, dei suoi gruppi egemonici edominanti” (Malighetti 2005: 15). Glievoluzionisti culturali ritenevano chetutti i gruppi umani si evolvessero neltempo lungo una stessa scala evolutiva, eche le popolazioni, dette appunto “primi-tive”, incarnassero stadi di sviluppo pas-sati, superati dalle popolazioni europee.L’infondatezza scientifica di queste teo-rie è stata smascherata dal revisionismoantropologico all’inizio del XX secolo,ma nel linguaggio comune espressionicome “popolazioni primitive” continua-no ad essere utilizzate e diffuse. Essesono radicate al punto che un’idea dicooperazione basata su principi qualil’empowerment8 e la partecipazione èriuscita a farsi strada solo negli anni ’90del secolo scorso, anche se con scarsirisultati. A causa di un senso comune nelquale prevale ancora una visione dicoto-mica del mondo, oggi si può dire che ilprocesso di decolonizzazione, seguitoalla Seconda Guerra Mondiale, è stato inrealtà una farsa9. Le prospettive postmo-derne hanno chiarito come il discorsosullo sviluppo, nato a seguito del secon-do conflitto mondiale nel momento in cuiil potere statunitense10 è subentrato alcolonialismo britannico e francese, siarimasto il principale strumento di legitti-mazione dell’interventismo “civilizzato”(Malighetti 2005). L’interventismo, daquesta prospettiva, è un efficiente stru-mento di potere nei confronti di popola-zioni ‘bersaglio’ accuratamente selezio-nate, e che spesso non sono altro che leex colonie dei ‘nuovi’ benefattori; in que-sto modo si può perpetuare - e di fatto siperpetua - il rapporto di dominio fra i ilPrimo e il Terzo Mondo (Malighetti2002; 2005). Colajanni (1993; 1994) fanotare che nel Novecento si è assistitoall’esportazione di un “modello” che hacausato la cancellazione di gran partedegli altri modelli, si tratta dell’ “occi-dentalizzazione del mondo” di cui parlaLatouche (1989)11, un processo chesecondo l’economista francese sta gene-rando un’uniformizzazione culturale pla-netaria, che causa l’asfissia della creati-vità culturale di tutte le altre culture, lastandardizzazione dell’immaginario e deltempo... “una mimesi generalizzata”.

Latouche (1997) acutamente fa osservarecome lo sviluppo sia vittima del suo suc-cesso nei paesi del Nord piuttosto che delsuo fallimento nei paesi del Sud, a dimo-strazione della sua non universalizzabili-tà. Non da ultimo merita attenzione laposizione di Luc Boltanski (1993) cheparla espressamente di “politica dellapietà” come fattore intrinseco allamodernità. Essa è nata allorché la moder-nità, con la sua pretesa di autoafferma-zione e di secolarizzazione dei fonda-menti del mondo, ha tentato per la primavolta di comprendere il problema delmale e di farsene carico, in modo falli-mentare più che costruttivo12. A questoproposito, anche se non da un punto divista strettamente antropologico, si inse-risce l’interessante, quanto inusuale, pro-spettiva proposta da Anne-Cécile Robert(2004), la quale lancia una provocazioneall’Occidente dichiarando che per impa-rare nuovamente l’umanesimo, occorreosare in primo luogo, in tutta umiltà, unaridefinizione dello sviluppo13. La maggior parte degli antropologi(Abram e Waldren 1998; Arce e Long2000; Escobar 1995; 2006; Garcia 2002;)che opera da questa prospettiva criticaseveramente i progetti di cooperazioneche sono stati portati avanti soprattutto apartire dagli anni Sessanta14; in partico-lare gli antropologi denunciano con sde-gno ciò che tendono a definire ‘distruzio-ne creativa’, ossia il fatto che i diversiagenti si siano fermati a considerare,nelle loro pianificazioni e nella relativamessa in pratica dei progetti di sviluppo,piccoli aspetti - quasi irrilevanti - dellavita delle popolazioni locali coinvolte,senza analizzare attentamente le conse-guenze a livello macro (Hobart 1993)15.Attraverso l’analisi delle prove empiri-che è stato possibile notare, come affer-ma Malighetti (2005), che gli approcci alcambiamento pianificato non solo sisono dimostrati empiricamente insosteni-bili, teoricamente insufficienti e incapacidi stimolare un reale processo di svilup-po nel Terzo Mondo, ma soprattuttohanno partecipato all’ampliamento deldivario tra i paesi dell’Occidente indu-strializzato e paesi del Terzo Mondo, pro-ducendo sempre più gravi contraddizioniinterne (fame, violenza, povertà) e dipen-denza esterna. Inoltre, la cooperazioneinternazionale allo sviluppo spesso inantropologia viene vista come la direttaestensione del colonialismo o del post-colonialismo, sia a livello storico cheidealistico. Autori come Arturo Escobar(1995)16 hanno inteso la cooperazione

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allo sviluppo come un modo alternativo ecapzioso da parte dell’occidente permantenere il controllo sulle risorse delleex colonie17. Nel periodo compreso tra il1945 e il 1960 circa, dette colonie si sot-toposero al processo di decolonizzazionee i piani di sviluppo hanno aiutato di fattoa perpetuare, seppur voltando maschera,la dipendenza del Terzo Mondo ai vecchipadroni. Si viene a costituire una catenaper la quale se lo sviluppo è la continua-zione della colonizzazione con altrimezzi, la globalizzazione è, a sua volta, iltentativo di prosecuzione dello sviluppo(Malighetti 2002; 2005: 18). Questopunto di vista è supportato dalla cosid-detta “teoria della dipendenza”18. Più ingenerale, invece, prevale la visionesecondo la quale i progetti di svilupponon sarebbero altro se non uno sforzoconsiderevole verso la modernizzazione,ma soprattutto l’eradicamento di una cul-tura indigena.

Applicazioni dell’antropologia allosviluppo e antropologia applicataPer antropologia applicata allo sviluppoci si riferisce ad un campo piuttosto vastodell’applicazione della prospettiva antro-pologica alla branca multidisciplinaredegli studi sullo sviluppo. Da questa pro-spettiva, l’antropologia considera la coo-perazione internazionale e gli aiuti uma-nitari come oggetti primari del suo stu-dio. In questo campo, il termine ‘svilup-po’ fa riferimento all’azione sociale eser-citata volontariamente da diversi attoriquali le istituzioni, le imprese, lo stato e ivolontari autonomi, i quali cercano dimodificare la vita sociale, politica, tecni-ca o economica di un determinato luogodel mondo, esercitando la loro azione eorientando i loro sforzi specialmente neipaesi in via di sviluppo19.In tale ambito di studio, lo sviluppo nonè considerato un obiettivo da perseguire,raggiungere o fallire né tanto meno unideale; esso diviene vero e proprio ogget-to di studio. Attraverso le ricerche dicampo, i fieldwork, gli antropologi pos-sono descrivere, analizzare e comprende-re le differenti azioni di sviluppo chehanno avuto luogo e si perpetuano in uncerto luogo. Sono i differenti impattisulla popolazione locale, sull’ambiente esulla vita economica e sociale a diventa-re oggetti di indagine antropologica.Come afferma Malighetti:“L’affermazione di una specificità antro-pologica nell’ambito delle ricerche sullosviluppo, si è costituita intorno all’anali-si etnografica dei progetti e della costru-

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zione della macchina organizzativa dellacooperazione internazionale” (2005: 7).Come affermano Arce e Long (2000;2005)20, ciò che si impara dalla tradizio-ne etnografica applicata allo sviluppo èche un’antropologia dello sviluppo deveessere multivocale, multisituata, ma anchesempre più attenta alle controtendenzedelle persone nei confronti della moderni-tà. In questo specifico contesto diventafondamentale una prospettiva actor-orien-ted; un’appropriata antropologia dello svi-luppo necessita di costruire un approccioetnografico più riflessivo, che permetta dianalizzare le dinamiche di ricomposizionedelle pratiche e delle esperienze da partedegli attori sociali e non solamente le lororeazioni ai cosiddetti cambiamenti ‘indot-ti’ e agli esperimenti di ‘ingegneria socia-le’ identificati con la teoria o le strategiedella modernizzazione.L’antropologia dello sviluppo si rivolgealla ricerca delle cause di sviluppo e sot-tosviluppo21 nei diversi paesi, e quindiallo studio dell’impatto di piani di coope-razione e di sviluppo rivolti ai PVS. Gliapprocci antropologici analizzano lecause del sottosviluppo e i fallimenti ogli effetti distruttivi di numerose iniziati-ve di sviluppo “come il risultato dellerelazioni di dipendenza con le societàoccidentali” (Malighetti 2005: 7)22.Grazie alla prospettiva antropologica èstato possibile mettere in luce che il con-cetto stesso di sviluppo, come valore ecrescita quantitativa continua, è tenden-zialmente etnocentrico e culturalmentecondizionato, mentre l’idea occidentaledi promuovere lo sviluppo delle altresocietà serve spesso a nascondere precisiinteressi politici o economici, fonte dierrori, di ingiustizie, di distruzione delleculture altrui. Molti autori si sono occu-pati di decostruire il “discorso sullo svi-luppo” nei suoi elementi costitutivi, pre-sentandolo come un’egemonia occiden-tale; in particolare, analizzare antropolo-gicamente le dinamiche del rapporto trabenefattori e beneficiari - mettendo quin-di in discussione l’essenza ideologicadello sviluppo – significa scoprire ed evi-denziare il suo potere nella rappresenta-zione della realtà sociale, condizionata efalsata da appositi meccanismi attraversoi quali il discorso dello sviluppo producepossibili modi di pensare e di essere,escludendo o rendendone impossibilialtri (Malighetti 2005).Dai risultati della riflessione antropologi-ca sul tema nasce la critica dell’antropo-logia allo sviluppo e per estensione allacooperazione internazionale; essa muove

dall’analisi etnografica dei progetti dicambiamento messi in opera dalla mac-china organizzativa, sociale e politicadella cooperazione per giungere allamessa in discussione del ruolo applicati-vo della disciplina (Malighetti 2005).Decostruendo il carattere ideologicodello sviluppo, mostra come la categoria“emergenza” abbia legittimato la mitolo-gia e la pratica “sviluppista”, standardiz-zando gli interventi e sottraendoli allasostenibilità e alla partecipazione23.Gran parte della riflessione antropologi-ca in questo campo ha concentrato la suaattenzione sull’analisi e lo studio delleresistenze ai tentativi egemonici(Escobar parla a proposito esplicitamen-te di ‘egemonia dello sviluppo’, 2005:191), e omologanti di imporre un’ideolo-gia felice e rappacificata della globaliz-zazione e dello sviluppo. Crew e Harrison (1998), ad esempio,hanno esaminato, da un punto di vistaetnografico attraverso fieldwork in Africae in Asia, la ‘cultura’ dello sviluppo,degli aiuti umanitari e della cooperazioneinternazionale; in particolare, la loro ana-lisi si concentra sull’interazione tra i por-tatori di interesse (i cosiddetti stakehol-ders) in una organizzazione, in un pro-gramma o in un progetto di sviluppo, el’intento è quello di lanciare una sfidaalla comune percezione - etnocentrica -degli operatori dello sviluppo che circon-da e ‘condiziona’ i loro rapporti con ipartecipanti e la realtà locale.All’analisi degli “sviluppi alternativi”,gli antropologi che operano da una pro-spettiva critica, sostituiscono lo studiodelle “alternative allo sviluppo” in attonelle pratiche dei movimenti e degliesperimenti innovativi di base (Escobar1995; 2005; Pieterse 1998). Infine, essiconsiderano come i paradigmi post-moderni possano inaugurare nuove pos-sibilità di configurare i processi di cam-biamento pianificato in termini coerente-mente negoziali, e come la cooperazionesi possa realizzare solo nella prioritariamessa in discussione e nel superamentodella modernità – intesa come modelloassoluto - delle concezioni “verticistichee tecnocratiche” dell’evoluzione e dellacrescita, all’interno di una fenomenolo-gia che risolva lo sviluppo nel suo con-trario: la decrescita (Latouche 1989;1997; Malighetti 2005; Pieterse 1998).Per fare ciò si è dato vita ad un cambia-mento di rotta, votato alla relativizzazio-ne del concetto di sviluppo e alla realiz-zazione di piani di sviluppo concentratisu realtà limitate, come le comunità di

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villaggio (Appadurai 1995; 1996), macon una profonda attenzione alla globali-tà dei fattori coinvolti (a partire dai signi-ficati culturali e dai valori), che mancavadel tutto all’origine del processo.Nell’ambito di un approccio basato sullapartecipazione “fattiva e fattibile” a livellolocale, grande importanza assumono, inquesto contesto, la nozione di “svilupposostenibile” e di “diritto alla diversità”delle culture. Colajanni (1994) ha messo inluce come l’antropologia si situi in questosettore definendosi in tre campi distinti:parliamo di antropologia dello sviluppo,quando gli antropologi studiano i processidi pianificazione dei cambiamenti econo-mici e socioculturali; si ha l’antropologiaper lo sviluppo, nel momento in cui ci sipreoccupa di tradurre e trasmettere il sape-re antropologico agli operatori che lavora-no in processi di sviluppo, e infine laantropologia nello sviluppo, è la brancaapplicativa in cui gli antropologi svolgonoricerca e offrono la loro consulenza nelcorso di attività di cambiamento pianifica-te e realizzate da altri.

Antropologia, diritti umani e cooperazione allo sviluppo: esercizi di antropologia applicataIl tema dello sviluppo - e la susseguentecooperazione allo sviluppo quindi - èintrinsecamente collegato alla nozione di‘diritti umani’24. La domanda provoca-toria che ha permesso all’antropologia diosservare prima e di partecipare attiva-mente dopo al discorso sullo sviluppo esulla cooperazione internazionale è laseguente: i diritti umani sono universali ooccidentali, dunque etnocentrici?Da questa domanda muove la critica delrelativismo culturale25 ai diritti umani eal concetto stesso di sviluppo, ossia, daquesta prospettiva, essi sarebbero fruttodella sola cultura occidentale; ma occor-re chiedersi se oggi abbia ancora sensoparlare di occidente come blocco mono-litico, questa visione infatti rischia diessere piuttosto riduttiva, semplicistica,rischiosa e fautrice di strumentalizzazio-ni al fine di sostenere tutto e il contrariodi tutto (Carazzone e Raimondi 2003).Un esempio esplicito di come l’antropo-logia possa e, anzi, debba entrare in dia-logo nelle politiche, nei processi e neiprogetti di cooperazione allo sviluppo èrappresentato dal dibattito sulle mutila-zioni genitali femminili (MGF)26.Alcuni antropologi si impegnano sulcampo e nel campo della cooperazioneallo sviluppo attivamente, partecipando aspecifici progetti; ma come afferma

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Mariella Pandolfi27 (2005: 175), moltisono gli interrogativi sul ruolo dell’an-tropologo e la legittimità del suo lavoronei territori della guerra e dell’ingerenzaumanitaria o militare-umanitaria. Ilrischio può essere quello di operare nellascala della storia globale, un livello nelquale gli antropologi non hanno ancoratrovato una loro autonomia metodologi-ca. La branca dell’antropologia applicatafa riferimento all’utilizzo dei metodi edelle teorie antropologiche al serviziodella risoluzione di problemi pratici; è inquesto campo specifico che l’antropolo-gia incontra il mondo della cooperazionee si contrappone all’antropologia socio-culturale accademica, spesso interessatapiù alla costruzione di modelli teorici ealla ricerca etnografica finalizzata a que-sto scopo, piuttosto che alla concretarisoluzione di problemi interculturalilegati alle politiche dei progetti di coope-razione allo sviluppo. Gli antropologi specialisti in antropolo-gia applicata svolgono il loro lavoro incontesti prettamente non accademici, mapiù spesso in organizzazioni non gover-native o associazioni locali, per le qualisi occupano di promuovere particolariinteressi di gruppo (vi rientrano di buongrado gli antropologi che si occupanoattivamente della promozione di uno svi-luppo basato sull’approccio ai dirittiumani), o partecipare ad attività e pro-grammi di sensibilizzazione su particola-ri tematiche di ordine educativo e sanita-rio (ad es. le campagne di lottaall’HIV/AIDS in contesti africani) pressodeterminate comunità, nel rispetto e conla conoscenza delle strutture sociali edelle culture dove si opera o meglio si‘coopera’. Ma ci sono anche casi, seppurminoritari, di antropologi che hannomesso a disposizione le loro conoscenzee competenze in totale autonomia, innome dell’incontro tra culture e delloscambio di saperi orientato ad una cresci-ta comune. Un caso recente può illustra-re bene questa scelta. È quello dell’etno-loga francese Alexandra Lavrillier, cheha dedicato gli ultimi otto anni del suolavoro di ricerca alla creazione di una‘scuola nomade’, itinerante, in grado dioffrire ai bambini evenk (una minoranzaetnica della Siberia) la possibilità diavere un’istruzione moderna senza perquesto essere costretti a sacrificare leloro tradizioni ancestrali, già minate dalcontatto con la civiltà occidentale in pas-sato. Come spiega l’etnologa, per gliEvenk, tutte le relazioni tra esseri umani,tra gli umani e l’ambiente naturale, tra gli

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umani e gli spiriti sono organizzate intor-no alla logica del dono e del controdono.«Quando possiedi un sapere, dicono gliEvenk, hai il compito di trasmetterlo perrenderlo eterno». E il sapere, in questocaso, è inteso in due sensi: quello tradi-zionale proprio della cultura in questionee quello antropologico; per Lavrillier,l’etnologia è mettere al servizio di unapopolazione le conoscenze che su questapopolazione si hanno. Il progetto, defini-to da A. Lavrillier stessa come “etnologiasostenibile”, parte da un’idea semplice:permettere ai bambini evenk di rimanerecon i loro genitori e imparare così le tra-dizioni proprie della loro cultura, anzichéessere costretti ad abbandonare la fami-glia, all’età di sei anni, per andare a scuo-la. Esso assolve uno scopo primario –che soggiace al rapporto tra antropologiae cooperazione, così come si sta tentandodi ridefinirlo – creare un ponte di soprav-vivenza tra «tradizione» e modernità, traconservazione e adattamento. Il modelloeducativo-itinerante di Lavrillier permet-terà di conservare e rivitalizzare la linguae la cultura evenk, garantendo allo stessotempo un processo di integrazione con la‘modernità’, che consentirà a quest’etniadi emanciparsi quando e come sentirà ilbisogno di farlo, poiché attraverso lascuola mobile verranno forniti gli stru-menti per farlo28. In questo modo glievenk potranno assicurare il fatto che illoro patrimonio culturale possa venir tra-smesso alle generazioni future29.

ConclusioniCiò che buona parte degli antropologiimpegnati nel dibattito sul rapporto traantropologia e cooperazione allo svilup-po vuole dirci è che esso deve venirimpostato su nuovi presupposti(Appadurai 1995; Colajanni 1994;Escobar 1995; 2006; Garcia 2002;Gardner e Lewis 1996; Hobart 1993;Ibister 1998; Latouche 1989; 1997;Malighetti 2005; Pieterse 1998; Rist1996; Volpini 1992); il ruolo dell’antro-pologia nei contesti di sviluppo devefarsi memore, nell’agire, della sua stessaautocritica. Per ripensare lo sviluppo e lacooperazione a misura d’uomo bisognatentare di rimettere in discussione dacapo a piedi la disciplina e il suo ruolo, equesto si può fare solo attraverso unariflessione consapevole sui diversi voltiche l’antropologia ha assunto nel corsodella sua storia. La presa di coscienzadella nascita di “antropologie” indigene– propaggini delle battaglie di liberazio-ne e definizione identitaria dei popoli del

Terzo Mondo – si delinea come corretti-vo parziale, quasi un antidoto, all’euro-centrismo antropologico imperante(Escobar e Lins Ribeiro 2006). Ma è soloil primo passo. Quando, subito dopo gli anni Sessantadel Novecento, si assiste a una crisi delleantropologie egemoniche che escono tra-ballanti e tramortite dai processi di deco-lonizzazione e dalle battaglie anti-impe-rialiste, dai movimenti per i diritti civili,e dalla nascita dei nazionalismi del TerzoMondo, è tempo di ricostruire l’immagi-ne dell’antropologia e di redimere i suoiscopi (Escobar 1995; 2006). Quella cheWolf (1974)30 definì acutamente “etàdell’innocenza dell’antropologia” vide lafine dei suoi giorni nel momento in cui larelazione tra conoscenza e potere diven-ne sempre più esplicita. E anche nella let-teratura si inasprì il dibattito sull’ambi-valenza della disciplina, la sua auto-rap-presentazione, sia come alleata dell’im-perialismo, sia come figlia della violenza(Wolf 1974; Lévi-Strauss 1966)31, ocome campo rivoluzionario sempre pron-to a rispondere alla richiesta di suprema-zia dell’Occidente. Nel momento in cui le“culture nella teca” (Escobar 2006) siribellano, spaccando i vetri delle lorogabbie di cristallo e mandano in frantumila leadership antropologica occidentale,cambia il contesto in cui lo ‘sviluppo’deve attecchire e così anche l’approccioantropologico allo sviluppo stesso. Il pre-cedente connubio si tramuta in critica (maanche autocritica) e decostruzione ideolo-gica. Ciò che bisogna evitare è di ricade-re negli errori del passato, e la criticaantropologica allo sviluppo e alla coope-razione internazionale cerca di lanciareun monito in questa direzione, in ogni suointervento; agli antropologi “sul campo”spetta l’arduo compito di bilanciaresapientemente oggettività scientifica ecompassione, analisi teorica e fattività. Per rendere equilibrato il rapporto traantropologia e cooperazione allo svilup-po non bisogna, quindi, tramutarlo infilantropia organizzata - come la defini-rebbe efficacemente Escobar - ma in par-tecipazione consapevole. Sui confinilabili che dividono queste due prospetti-ve si gioca la sfida antropologica dellosviluppo, nello sviluppo e per lo svilup-po: abbattere il muro etnocentrico del-l’omologazione, celebrare e rispettare ladiversità e l’incontro interculturale,impegnando le proprie energie al fine dicostruire una cooperazione che, su questebasi, esalti la reciprocità ed elimini ladipendenza sussidiaria.

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Note1. Sui diversi tipi di cooperazione internazionale

un’opera di riferimento è il testo curato daAntonelli G., Raimondi A. (2001), Manuale diCooperazione allo Sviluppo. Linee evolutive,spunti problematici, prospettive, Torino, SEI –Società Editrice Internazionale.

2. Dispense del modulo seminariale di Geografiadello Sviluppo a cura di Giuliana Martirana nel-l’ambito del corso di specializzazione in DirittiUmani e Cooperazione allo Sviluppo – VIS(2006). Specifici approfondimenti sul temasono trattati nei volumi: Boggio F., DematteisG., (2002), Geografia dello sviluppo. Diversitàe disuguaglianze nel rapporto nord-sud, Torino,Utet e Hodder S., (2002), Geografia del sotto-sviluppo, Milano, De Agostini.

3. Sul significato di ‘modernità’ si rimanda al con-tributo di Arce e Long “Modernità e sviluppo:modelli e miti”, contenuto in Malighetti (2005).

4. Cfr. Carazzone e Raimondi (2003).Un’interessante analisi dei basic needs – dalpunto di vista antropologico – è quella propostada Escobar (1995) e riproposta nel saggio“Immaginando un’era di postsviluppo – la poli-tica dei bisogni”, contenuto in Malighetti (2005:187-218).

5. Questo tema è al centro del volume di contribu-ti curato da G. Lins Ribeiro e A. Escobar (2006),World Anthropologies. DisciplinaryTransformations within Systems of Power. Inparticolare si rimanda al contributo di EduardoP. Archetti, “How Many Centers andPeripheries in Anthropology? A critical view ofFrance”, contenuto nella seconda parte del volu-me (“ Part 2: Power and Hegemony in WorldAnthropologies”, 2006: 113-133).

6. Cfr. Malighetti (2005).7. Ma che trova il suo atto di nascita ufficiale nel

discorso del presidente Truman al Congressoamericano nel 1949.

8. L’empowerment è un processo che dal punto divista di chi lo esperisce, significa “sentire diavere potere” o “sentire di essere ingrado difare”. Costituisce una modalità dell’operatoresociale di accostarsi a chi ha un problema o acoloro che gli sono vicini e fare in modo che que-sti possano aiutarsi più di quanto potrebbero farese fossero lasciati da soli, sopraffatti dalle diffi-coltà e in preda all’impotenza. È alla base dellavoro di rete in quanto mira ad attribuire o a riat-tribuire potere d’azione al sociale cioè ad unapluralità di persone in connessione. È un proces-so che permette agli individui, alle comunità diraggiungere il controllo della propria vita.Molteplici approcci e teorie (come globalizzazio-ne, localizzazione, diversità, complessità, caos,sostenibilità , ecc.), nell’aprire nuove opzioni dipensiero e di conoscenza (anche dal punto divista dei paradigmi scientifici), chiamano incausa l’empowerment come processo che includenuovi valori e modalità comportamentali dellarelazione individuo - comunità sociale. Appuntidel corso di specializzazione in Diritti umani ecooperazione allo sviluppo – VIS (2006).

9. Cfr. Escobar e Lins Ribeiro (2006).10. A partire dagli anni ‘40 lo sviluppo di una gran

parte del mondo diventa un “imperativo dellastoria” cui devono concorrere in eguale misura ipaesi ancora “sottosviluppati” come i paesi giàsviluppati. Nascono così il concetto di sviluppoe la conseguente logica della cooperazioneinternazionale. E’ il presidente Truman, in uncelebre discorso ufficiale tenutosi il 20 gennaio

1949, a lanciare quest’appello, dando vita aquello che oggi viene chiamato “aiuto pubblicoallo sviluppo”. Compito dei paesi occidentali èquello di fornire capitali e assistenza tecnica alfine di favorire lo sviluppo di una gran parte delmondo. Nella mente di Truman lo sviluppo è unprocesso di carattere economico che ha comerisultato la crescita della produzione e un eleva-mento degli standard di vita della popolazione.Il traguardo a cui i paesi “sottosviluppati” devo-no guardare è la società industrializzata (e capi-talistica) dell’Occidente, prima fra tutte quellaamericana. Appunti del corso di specializzazio-ne in Diritti Umani e Cooperazione alloSviluppo, VIS (2006).

11. Per l’economista francese, la riduzionedell’Occidente alla pura ideologia dell’univer-salismo umanitario è troppo mistificatrice ecorre il rischio di cadere nelle insidie dell’ego-centrismo culturale esasperato (indicato daLatouche con il termine filosofico di ‘solipsi-mo’) che porta direttamente all’etnocidio. Inparticolare è difficile dissociare il versanteemancipatore, quello dei (pretesi) Diritti del-l’uomo, dal versante spoliatore, quello dellalotta per il profitto (1989); e ancora Latouche sisofferma a considerare che Il “terzo mondo”viene sempre descritto in condizione di abban-dono. Questa condizione è causata da unadeculturazione che si aggrava a causa della tera-pia, ossia le politiche di “sviluppo”. Ne derivache l’introduzione dei valori occidentali, quellidella scienza, della tecnica, dell’economia,dello sviluppo, del dominio della natura sianobasi di deculturazione. Latouche, a questo pro-posito, parla di un vero e proprio processo diconversione. Tale processo non può venir perse-guito attraverso la violenza aperta o il saccheg-gio sia pure mascherato in scambio mercantileineguale, bensì tramite il dono (1989).

12. Su questo punto si veda anche la posizione diAlberto Arce e Norman Long contenuta nel sag-gio “Riconfigurare modernità e sviluppo da unaprospettiva antropologica”, in Malighetti R.,(2005), Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’an-tropologia, pp.51-108. il saggio è apparso prece-dentemente (2000) in Arce A., Long N., (a curadi), Anthropology, Development andModernities: Exploring Discourses, Counter-Tendencies and Violence, London: Routledge.Mariella Pandolfi nel suo contributo dal titolo“Sovranità mobile e derive umanitarie: emergen-za, urgenza, ingerenza”, in Malighetti (2005), siesprime in questi termini: “[…] salvare bambini,donne, vecchi, corpi affamati e sofferenti ha rap-presentato negli anni Novanta il grand récit concui molti uomini politici si sono presentati sullascena politica locale” (2005:173).

13. Seppure con esplicito riferimento all’ambitoafricano, il volume L’Africa in soccorsodell’Occidente, vuole presentare il continentecome simbolo di una realtà più globale, e inalcuni passaggi si combina perfettamente conl’oggetto delle critiche antropologiche allo svi-luppo. L’autrice afferma, infatti, chel’Occidente adorna “la ricerca cinica dei suoiinteressi con parole filantropiche”, ma di fattocontinua a mantenere le politiche e gli orienta-menti macroeconomici che della povertà sonoresponsabili (Cfr. Escobar 1995); l’autrice nonrisparmia nemmeno le organizzazioni che ope-rano sul campo allorché afferma che le ongsvolgono spesso un lavoro notevole, ma tutta-via, per definizione, la loro azione comporta unrapporto disuguale tra chi aiuta e chi è aiutato, ecita un proverbio africano: ‘la mano che riceve

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è sempre al di sotto di quella che dà’. Anche seil volume e le posizioni della Robert sono statitacciati di etnocentrismo ‘al rovescio’, la studio-sa precisa che le mentalità africane sono profon-damente segnate dal senso del collettivo; ciòvale sia in ambiente rurale che urbano, e per lediverse classi sociali; sono avvolte in una sortadi filantropia implicita che dunque non può enon deve essere impartita dall’esterno. Sul temadella filantropia africana si può fare riferimentoalla ricerca di D. LeBeau (2005), Building com-munity philanthropy in Namibia, condotta perconto dell’Institute for Pubic Policy Research(IPPR).

14. Proprio in seguito alla decolonizzazione, nelcorso degli anni Sessanta e Settanta, sorgono leprime rivendicazioni del diritto allo sviluppocome diritto dei popoli. Cfr. Carazzone eRaimondi (2003); dal punto di vista antropolo-gico una critica importante sulla concezione di‘sviluppo’ come ‘diritto dei popoli’ è quella pro-posta da Malighetti: “[…] l’apparato dello svi-luppo si iscrive così in un sistema caratteristicodella modernità occidentale che permette dilegittimare azioni ingiustificabili richiamandosia valori universali indiscutibili (in realtà etno-centrici nella concezione e soprattutto nell’ap-plicazione molto selettiva) generalmente legatia presunti diritti giusnaturalistici di individuiastratti. Attraverso il principio di ingerenzaumanitaria viene superato il fondamento deldiritto internazionale, perseguendo strategiepolitico-diplomatiche miranti all’eliminazionedi tutti gli ostacoli… che impediscono di realiz-zare un programma neo-liberista di globalizza-zione” (2005: 20).

15. Si fa qui riferimento al magistrale volume dicontributi sul tema da lui curato: AnAnthropological Critique of Development: TheGrowth of Ignorance, New York: Routledge.

16. Arturo Escobar è uno dei più convinti critici deiconcetti di sviluppo e logica della cooperazioneinternazionale, a suo parere neo-colonialismosapientemente travestito da filantropia organiz-zata (1995; 2006). Su questo aspetto, e per unatrattazione della questione umanitaria, sia dalpunto di vista filosofico-antropologico e sia daquello sociologico-politico, si veda anche l’in-teressante volume di Boltanski L., (2000), Lospettacolo del dolore. Morale umanitaria,media e politica, Milano, Raffaello Cortina.

17. Su questo argomento rappresenta un interessan-te approfondimento il contributo di Paul NchojiNkwi, “Anthropology in a Postcolonial Africa:The Survival Debate” (2006: 157-181), inEscobar A. e Lins Ribeiro G.(2006), WorldAnthropologies. Disciplinary Transformationswithin Systems of Power.

18. Con ‘teoria della dipendenza’ ci si riferisce aduna delle tre teorie relative al sottosviluppo (lealtre due sono: la ‘teoria della modernizzazione’e la ‘teoria sub-centrica’). Essa sorge negli anni‘50-’60 del Novecento. Condivide la convinzio-ne che il tasso di crescita economica può essereconsiderato una locomotrice che produce unadinamica in tutta la società, da cui deriva auto-maticamente il pieno impiego della forza lavoroe la sua integrazione sociale. Sostiene che lerelazioni attuali fra Occidente e Terzo Mondoaffondano le radici nelle precedenti epoche delcolonialismo, quando le diverse regioni deipaesi del Terzo Mondo erano costrette a specia-lizzarsi nella produzione di beni primari desti-nati all’esportazione per soddisfare le necessitàdelle potenze coloniali. Vengono chiamate incausa anche le élites di quei paesi nei quali i

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centri urbani più ricchi operano come interme-diari fra il centro capitalista e la periferia sotto-sviluppata. Appunti del corso di specializzazio-ne in Diritti Umani e Cooperazione alloSviluppo – VIS (2006).

19. Un interessante contributo sul rapporto traantropologi, intenti a ricomporre il tessuto,ormai fragile, delle culture tradizionali e agenti(stranieri e funzionari nazionali) di uno svilup-po che emargina e sopprime anche le “arretrate”storie collettive e personali dei suoi presuntibeneficiari degli interventi di cooperazione siveda il volume di Rossetti G., 2004, Terra inco-gnita. Antropologia e cooperazione: incontri inAfrica, Catanzaro, Rubbettino Editore.

20. “Nuove agende di ricerca sullo sviluppo: il con-tributo dell’antropologia”, in Malighetti (2005:86-108).

21. Il termine ‘sottosviluppo’ fu coniato dal presi-dente americano Harry Truman, durante ildiscorso inaugurale al congresso degli StatiUniti, nel 1949. Cfr. Carazzone e Raimondi(2003) e Malighetti (2005) tra gli altri. Occorrefare una precisazione: la questione nasce uffi-cialmente all’epoca della conferenza diBandung (Giava, 1955), che definì paesi delTerzo Mondo quelli che non appartenevano néall’Occidente industrializzato né al bloccoorientale guidato dall’URSS. Oggi il termine diTerzo Mondo risulta essere piuttosto riduttivo,poiché le realtà sono più complesse, in ognicontinente e sub-continente. Si preferisce cosìparlare di paesi sviluppati e di paesi sottosvilup-pati, o in via di sviluppo, Appunti del corso dispecializzazione in Diritti Umani eCooperazione allo Sviluppo – VIS (2006).

22. In controtendenza con questa prospettiva è illavoro dell’antropologa Debie LeBeau che hacondotto importanti ricerche sociali sullo svi-luppo con oggetto la costruzione del senso‘filantropico’ comunitario a livello locale inNamibia, di cui si può leggere in una pubblica-zione inedita curata per il Namibian PeaceCenter di Bachbrecht: LeBeau D.,(2005), AnInvestigation into the Lives of Namibian Ex-Fighters Fifteen Years After Independence; e in(2005), Community Philanthropy in Namibia,report finale della ricerca condotta per contodell’Institute for Public Policy Research dellaNamibia.

23. Come fa notare Malighetti, infatti, nonostante itentativi di riformulazione (sviluppo alternativo,sviluppo sostenibile, sviluppo partecipativo, svi-luppo orientato alle risorse ecologiche, ecc…), ea discapito degli esiti fallimentari, le pratiche dicooperazione continuano a fondarsi su unavisione unilineare dell’evoluzione del tutto ana-loga a quella che in passato aveva legittimato lepratiche coloniali. Non da ultimo, la più recenteformulazione divenuta dottrina ufficiale delleNazioni Unite, lo sviluppo sostenibile (2005:19). Il termine “sostenibile” indica che il proces-so di sviluppo deve essere attento a non causaredanni irreversibili all’ecosistema, mentre laparola “umano” suggerisce che la finalità ultimadello sviluppo è il benessere delle persone.

24. Cfr. Latouche (1989), Carazzone e Raimondi(2003) e Malighetti (2005). I diritti umani – adun livello generale -vengono intesi nella lororipartizione classica: diritti economici, sociali eculturali.

25. Per la critica del relativismo culturale al concet-to di sviluppo si faccia riferimento a Rist G.(1996), Le Développement. Histoire d’une cro-yance occidentale.

26. Cfr. Colombo D., Scoppa C. (2006). La questio-ne si pone a partire dalla domanda: è giustosostenere che nessuna bambina può essere sot-toposta a mutilazione genitale, clitoridectomia,escissione o infibulazione o, invece, rispettarela diversità delle culture che ritengono tali pra-tiche tradizionali inevitabili perché la bambinavenga accettata all’interno della propria societàe, una volta raggiunta la pubertà, trovare mari-to? Cfr. Carazzone e Raimondi (2003). Nelcampo dell’antropologia medica, applicataall’ambito dello sviluppo, si possono vedere ilavori dell’antropologa Debie LeBeau relativiall’HIV/AIDS in Namibia; in particolareLeBeau D., (2003), Dealing with Disorder.Traditional and Western Medicine in Katutura(Namibia), Colonia: Rüdiger Köppe Verlag.

27. Mariella Pandolfi dal 1996 si occupa deiBalcani post-comunisti in duplice veste diantropologa e di osservatore per l’ONU inAlbania, Kosovo e Bosnia-Erzegovina. Qui laricerca è rivolta all’antropologia delle istituzio-ni, delle organizzazioni internazionali e delleorganizzazioni non governative, in una prospet-tiva critica verso gli approcci classici dell’antro-pologia dello sviluppo. Il suo lavoro ha apertoun dibattito internazionale sugli interventi uma-nitari e sulla legittimità di farne oggetto di inda-gini antropologiche. E’ stata consulente delleNazioni Unite e dell’IOM in Kosovo e Albanianegli anni 1999-2001.

28. Alexandra Lavrillier ha rivoluzionato i curricu-la formativi dei nomadi siberiani introducendolo studio del computer, dell’inglese e del france-se. La scuola nomade coltiva molti aspetti dellacultura degli Evenk, come le danze tradizionalie le attività rituali

29. Un approfondimento su questo progetto, tra glialtri, è quello a cura di Saporiti M. (2006), “Lamaestra dei nomadi siberiani”, in NewtonOnline, dicembre 2006, (consutabile all’indiriz-zo:http://newton.corriere.it/PrimoPiano/News/2006/12_Dicembre/4/maestra_siberia.shtml,cons. il 16 ott. 2007).

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Maria Chiara Miduri (Torino, 1981), ha conseguito la laurea in Lettere ad indirizzo antropologico (C.d.S. in Comunicazione interculturale) presso la Facoltà di Letteree Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, discutendo una tesi in Etnologia (relatore: prof.ssa Cecilia Pennacini, controrelatore: prof. Francesco Remotti), aventeper oggetto la rilettura e funzionalizzazione sistemico-teorica in chiave logico-fuzzy, del culto di Mwari come protagonista del processo di costruzione nazionale identi-taria in Zimbabwe 1896 – 2000. È attualmente specializzanda in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo torinese.