Antonio Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA Milano Dipartimento Arti Visive Corso di Pittura ANTONIO SANFILIPPO. SEGNO, SCRITTURA E PITTURA. Anno accademico 2008-2009 Relatore Prof. Giovanni Iovane Docente d’iindirizzo / Coordinatore Prof. Ignazio Gadaleta Michelangelo Marra Matricola n. 26075

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Semiotica, linguistica e ricerche poetico-visuali dovrebbero integrarsi con la pittura e con altre discipline in un unico discorso creativo. Il segno di Sanfilippo sembra non avere un fulcro centrale ma essere unico, di volta in volta suggerito dalla superficie della tela, un linguaggio in via di formazione che si fa nitido, senza interruzione tra mente, mano, pennello e tela.

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA Milano

Dipartimento Arti VisiveCorso di Pittura

ANTONIO SANFILIPPO. SEGNO, SCRITTURA E PITTURA.

Anno accademico 2008-2009

Relatore Prof. Giovanni IovaneDocente d’iindirizzo / Coordinatore Prof. Ignazio Gadaleta

Michelangelo Marra Matricola n. 26075

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AccAdemiA di Belle Arti di BrerA

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dipartimento Arti Visivecorso di Pittura

ANtONiO SANFiliPPO. SeGNO, ScrittUrA e PittUrA.relatore Prof. Giovanni iovane

docente d’iindirizzo / coordinatore Prof. ignazio Gadaleta

michelangelo marra

matricola n. 26075

Anno accademico 2008-2009

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indice1 il segno1.2 la scrittura

1.2.1 la forma della scrittura. Origini e storia dell’alfabeto

1.2.2 lo scalpello, l’inchiostro e il piombo

2 l’informale2.1Abstract expressionism

2.2 informel

2.3 l’informale in italia

2.4 Zen e calligrafia orientale

3 il gruppo Forma3.2 carla Accardi

3.3 Pietro consagra

3.4 Piero dorazio

3.5 Achille Perilli

3.6 Giulio turcato

4 Antonio Sanfilippo 4.2 roma e il Palazzo dei Normanni

4.3 Verso la maturazione

4.4 Un principio

4.5 il segno di Sanfilippo

4.6 Gli anni ‘60

5 Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura5.2 Segno e senso

5.3 Visualizzare tutto a tutti i costi

Bibliografia

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Imm. 2 - Gastone Novelli , 1958

Imm. 5 - Jean-Michel Basquiat, 1986

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1 Il segnoA partire dall’immediato dopoguerra l’arte contemporanea si è avvalsa di una nuova concezione segnica e gestuale mai verificatasi in occi-dente. In tutte le capitali dell’arte da Parigi a New York, a Tokio come a Roma si è diffusa una pittura sempre più immediata, velocemente eseguita e basata su segni, sprovvisti di significato almeno evidente, e staccati totalmente da ogni riferimento a figurazioni preesistenti. Si tratta di un gruppo numeroso di artisti, che impostano il lavoro preva-lentemente sul segno ma in cui le diversità individuali sono assai no-tevoli. Tra i principali possiamo citare Wols, Tobey, Hartung, Mathieu, Soulages, Pollock, Kline, Alcopley, Michaux, Masson in Italia Capo-grossi, Accardi, Sanfilippo, Perilli, Novelli, Twombly. Questi e molti altri, dediti ad una ricerca prevalentemente segnica, verrano poi etichettati come artisti informali1.

1.2 la scritturaNegli anni ’50 alcuni artisti in Italia e in Europa sviluppano un uso del segno come cifra o modulo non significante ma decorativo, come ad esempio le forchette di Capogrossi (imm. 1). Poi ci sono le scritture illeggibili, gli intrecci cromatico-lineari di Sanfilippo. Molti artisti usano la scrittura come elemento estetico unito ad altri elementi fra i primi possiamo citare Cy Twombly e Gastone Novelli (imm. 2). In molte ope-re la parola è contemporaneamente segno-forma (estetica) e linguisti-ca (significante)2. Gli antecedenti si possono far risalire ad Apollinaire e i suoi calligrammes (imm. 3) e a Marinetti e le sue parole in libertà. L’uso della parola e ancora molto diffuso oggi. Alcuni esempi sono le tele di Alghiero Boetti, piene di segni grafici, lettere e numeri, poi c’è Roman Opalka (imm.4) che struttura lo spazio con numeri in progres-sione o Jean-Michel Basquiat che unisce figure e scritte nelle sue tele che riportano le influenze della strada newyorkese (imm. 5).

1 Gillo Dorfles , Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Milano 1999 pp. 23-25

2 Martina Corgnati, Francesco Poli, Dizionario dell’arte del Novecento, Milano 2001 pp. 479

Imm. 1 - Giuseppe Capogrossi, 1962

Imm. 3 - Guillaume Apollinaire, 1916

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Imm. 6 - Scrittura cuineiforme

Imm. 7 - Alfabeto fenicio

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1.2.1 la forma della scrittura. Origini e storia dell’alfabetoDai pittogrammi e ideogrammi mesopotamici di 5500 anni fa si passa alle scritture sacre egizie passando alle scritture cuneiformi del primo millennio prima di Cristo. Affianco ai geroglifici, che potevano portare ad alcune incomprensioni, si aggiunsero dei segni fonemici. Ad esem-pio un uomo con il bastone può significare “vecchio” ma anche “vec-chiaia”, con l’agiunta di segni fonemici la scrittura egizia si evolve fino ad usare i geroglifici solo per una esclusiva attività religioso-culturale. Sino al IV secolo d.C. in egitto convivono tre scritture: Geroglifico, Ie-ratico, demotico. Queste scritture miste (ideogrammii e segni fonetici) portano all’avvento dell’alfabeto che introduce l’esclusivo uso di segni grafici che riportano i fonemi della lingua. Le parole vengono scompo-ste nei suoi minimi componenti sonori poi tradotti graficamente in let-tere. Sin dall’ inizio il sistema alfabetico ha una struttura lineare, sia for-malmente che temporalmente. Ne deriva quindi una interconnessione più stretta tra scrittura e lingua parlata. La tradizione greca attribuisce la creazione dell’alfabeto ai Fenici. Nella seconda metà del II millennio, nella regione dell’attuale libano, si incontrano le più importanti civiltà: la mesopotamica, l’egizia, l’ittita e la cretese. Nasce la scrittura, siste-ma semplificato di scrittura, originariamente consonantico, viene poi arricchito dai greci con le vocali. L’alfabeto greco (imm.10) compare dopo la scomparsa del regno miceneo, che non conosceva la scrittura. Prima della sua forma canonica, l’alfabeto feniceo viene adottato e tra-sformato in un ampio repertorio di varianti che cercano di adattarlo alla lingua greca. Questo periodo di rielaborazione è rappresentato quasi esclusivamente da scritture contabili ed amministrative. L’alfabeto gre-co poi viene usato in italia (imm. 9) prima dagli etruschi poi dai romani che ne deriveranno l’alfabeto latino (imm. 11) che arriva fino a noi sen-za sostanziali modifiche, tranne per alcune lettere (Y,Z,W,J,U) inserite per ampliare l’uso alle lingue germaniche e per le lingue moderne. 3

1.2.2 lo scalpello, l’inchiostro e il piomboI romani scrivevano sui muri gli eventi sociali, politici ma anche privati rilevanti. Note le iscrizioni elettorali di Pompei (imm.12). L’uso della scrittura così ampio porta allo studio di nuove proporzioni e geometriza-zioni. Gli scrivani più abili si inventano nuove soluzioni e modulazioni di spessore per donare espressività maggiore al loro lavoro. Ma la scrittu-ra è sempre soggetta a modifiche ed elaborazioni personali. Ecco che nel III secolo d.C. con l’uso della penna di volatile per la scrittura, in-troduce nuove inflessioni nella scrittura. Nasce la Minuscola (imm.13). Si diffonde prima nei documenti privati, poi nella scrittura dei libri. Ne deriva poi l’Onciale (imm.14), che a differenza del carattere Capitale

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3 Robert Claiborne, La nascita della scrittura, Milano 1980 pp. 8-87

Imm. 4 - Roman Opalka, 1971

Imm. 8 Stele di Rosetta, 196 a.C.

Imm. 9 Lapis Niger, VII sec a.C.

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Imm. 10 - Alfabeto greco

Imm. 11 Lapide romana, I sec. a.C.

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(maiuscolo) è più tondo e flussuoso, più facile da scrivere, quindi più agevole per la composizione di libri. L’onciale diventa la scrittura della bibbia in latino, trascritta dal greco, diventa poi emblema della scrittura cristiana, diventata ufficiale. Più corsiva e veloce è la Semionciale che caratterizza insieme a all’Onciale i nuovi libri, che da Volumen (rotoli) di papiro si trasformano in Codex (codice) in pergamena che soddi-sfano le richieste sempre in aumento di libri. Ma nel periodo di domi-nazione Gota e Longobarda, la documentazione scrittura diventa più rara. I centri che la utilizzano e la conservano ne trasformano la forma. Proliferano i corsivi, una serie di scritture particolari che mantengono la vecchia cultura classica nei centri scrittori ecclesiastici. La pergamena, sempre più pregiata, rimpicciolisce la scrittura. La Minuscola Carolina (imm.17), quella moderna fa la sua comparsa nel 700 d.C. promossa da Carlo Magno. La metà superiore delle let-tere sono tutte differenti. Le lettere si collegano le une alle altre. De-riva dai corsivi precedenti elaborati dai vari centri in particolare quelli francesi. La sua fortuna oltre che formale è di semplice esecuzione e ne aiuta la diffusione. Intorno al 1100 d.C. si và diffondendo una nuova evoluzione della carolina che si chiamerà Gotica. Le caratteri-stiche principali sono l’introduzione della piuma d’oca tagliata in obli-quo e la scrittura che ha un ritmo, un interlinea sempre più stretta, per l’economicità del prodotto finale che giovà di un rifiorire di scuole e università laiche. Da sottolineare è l’accordo formale nella spinta verso l’alto in forme slanciate che ricollega la scrittura alle arti e l’architettura gotica. La scrittura gotica è strutturata in una griglia e riporta le lette-re ad un rigore più geometrico. Ma l’umanesimo riporterà la scrittura alle forme più chiare e armoniose di un Corsivo Carolino modificato. Le forme tornano ad essere rotondeggianti e i copisti ricercando testi antichi confondono i testi in scrittura carolina del IX e X secolo per testi classici. La penna d’oca non è più tagliata in obliquo ma al cen-tro. Si ha una scrittura più disegnata e morbida, con lettere e parole ben definite, in pagine più piccole e meno decorate a differenza della gotica sempre più disegnata e ornata, ricca di calligrafismi. La lettera umanistica si diffonde in tutta europa ma la lettera gotica continua ad essere usata. Infatti la Textura Gotica (chiamata così perché forma una trama sul foglio data dal continuo di linee verticali) viene utilizzata da Gutenberg è quindi il punto di arrivo della scrittura manuale arrivata alla stampa. Da qui in poi la forma delle lettere non è più duttile e per-sonalizzabile, ma elemento di studio e geometrizzazione. Le lettere non varieranno più, dal continuo variare di modifiche collettive, ma solo in pochi, gli artisti, filtreranno la struttura delle lettere in stili consoni alla loro epoca. La stampa si baserà sui manoscritti e standardizzerà le ec-cellenze prodotte in passato, dalla Carolina alla Gotica gli artisti tipo-grafi studieranno stili funzionali e altamente rappresentativi. La lettera non è vista solo come elemento singolo, funzionarnte autonomamente, ma in relazione alla leggibilità delle parole, delle righe e l’armonia di tutta la pagina. Questo è il centro di studi dei tipografi che studiano le soluzioni migliori nei principali centri culturali. Gli scambi tra Italia,

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Imm. 12 Scritta murale, Pompei I sec. d.C.

Imm. 14 Epigrafe di Licina Amias, II sec. d.C.

Imm. 13 Tavoletta di Vindolada, 103 d.C.

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Imm. 15 Andreae Hieronymus, Eisleben im Schloß , 1573 d.C.

Imm. 16 Doppia pagina di un libro di Claude Garamond, XVI sec. d.C.

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Germania e Francia favoriscono un abbandono della lettera gotica e per un’affermazione dei caratteri umanistici di tipo Romano. Questo è favorito da Venezia principale centro librario del fine del ‘400 e inizio ‘500. Felice Feliciano nel 1463 scrive un trattato sulle lettere (imm. 18) iscrivendole tutte in un quadtrato con all’interno un cerchio, deri-vate dalle capitali romane, il trattato fu poi utilizzato dall’Alberti per la struttura del suo carattere (imm.19). Ma il carattere, con una struttura e studio di proporzioni senza precedenti, da distaccarlo totalmente da quelle manuali, è il cartattere Degnissimo Antiquo di Frà Luca Pacioli del 1509, progettato presso gli Sforza, qui forse disegnato o influenza-to da Leonardo da Vinci. Questo trattato verrà ricalcato per le lettere gotiche da Dürer nel 1525. Nel XVI secolo il centro della tipografia diventa la Francia grazie ad un crescente interesse della monarchia per la stampa e per la sua potenzialità divulgativa. Francesco I adotta tut-te le innovazioni veneziane, dal piccolo formato , al carattere romano, leggero e leggibile. Si svilupperà una grande scuola capeggiata dal ti-pografo e studioso umanista Geoffroy Tory. Con il francese Garamond (1480-1561) si arriva ad una tipografia autonoma, ispirata da caratteri e libri tipografici precedenti e non più dalla scrittura. Ne definisce la morfologia specifica, attualmente ancora in uso (imm.16). E’ il primo a farne una professione autonoma e ha una sua fonderia svincolata dalla tipografia. Alla fine del 1500 fino alla metà del secolo scorso si assiste ad un alternanza di ispirazioni, ora volte al rigore e al funzionali-smo, ora a liberi e decorativi. Ma bisogna far presnte che se la stampa ha eliminato gli amanuensi ha moltiplicato i calligrafi e i suoi teorici. Questi influenzano fortemente la tipografia e il libro fino a dominare nell’epoca barocca e rococò con l’ampio uso di pagine incise a bulino da calligrafi e una sempre magiore decoratività delle lettere. Gli apici di questa stampa si trovano presso la corte di Francia che continuerà a rafforzare le sue stamperie facendo echeggiare il suo stile in tutta Europa. Ma dopo la rivoluzione e con l’avvento del neoclassicismo si arriva ad una tipografia pura, propugnata da Baskerville, Didot e Bodo-ni. Si amplia la ricerca dei corpi e variazioni dei caratteri e della carta. Nell’ottocento la società si trasforma e si trasforma la stampa, con l’industrializzazione. La tipografia si diffonde e si affianca la litografia. Un’esplosione di decorativismo e rielaborazioni stilistiche di vecchio e nuovo sono dettate dalle nuove esigenze di consumo e produzione. La grande novità del XIX secolo è il carattere privo di grazie, pulito e semplice che compare nel 1816 in Inghilterra nella fonderia Caslon con il nome English Egyptyan, solo maiuscolo. Nel 1898 in Germania compare il carattere chiamato Akzidenz, che dotato di vari pesi per arricchire la composizione. Un nuovo impulso è dato dall’art nouveau che cambia il modo di progettare anche i caratteri. Essi sono concepiti e fusi con l’immagine, ne hanno lo stesso peso, il carattere ha il com-pito di trasportare il sentimento, l’immagine della parola scrtitta. Il loro modello sono sicuramente le lettere capitali gotiche e miniate. Ma è in questo periodo che l’arte occidentale si incontra e si arricchisce delle fonti orientali. A partire dalla partecipazione all’esposizione universale

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Imm. 19 Proporzionui della lettera R, Leon Battista Alberti, 1465 d.C.

Imm. 17 Bibbia di Corbie, 772 d.C

Imm. 18 Alfabeto, Felice Feliciano,1463 d.C.

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Imm. 20 Metropolitain, Hector Guimard, 1901 d.C.

Imm. 21 Bauhaus, Herbert Bayer, 1925 d.C.

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di Londra del 1862 il Giappone inizia a vendere i suoi prodotti in Eu-ropa ed influenzerà fortemente la nascita dell’Art Nouveau. Le com-posizioni grafiche si allungano e le scritte inserite in modo verticale insieme ad una composizone pittorica con segni morbidi dei caratteri (imm.20). Con il futurismo e le parole in libertà, il carattere tipografico diventa elemento di composzione poetica, senza distinzione con il lin-guaggio, la poesia, la srittura è strutturata in uno spazio libero dove i linguaggi si mescolano. Poesia calligrafata, pittura scritta, psicografia, costruzione plastica della parola: uno scatenamento scrittorio che lega il futurismo al barocco, e unisce grafica, letteratura e pittura. Questo uso della tipografia sarà poi ereditato da dadaisti, dai surrealisti, dai costruttivisti, da De Stijl e dal Bauhaus. El Lissitzky e Ans Arp elabo-rano la tipografia utilizzando esclusivamente caratteri e introducono la gabbia modulare per l’impaginazione. Quest’ordine caratterizzerà il secondo dopoguerra, dopo le gli eccessi espressionistici e decorativi si ritorna e si consolida l’ordine e la pulizia grafica e nasce la figura del progettista grafico. Dalla metà degli anni sessanta si avvia un totale scioglimento degli stili e iniziano a coesistere miriadi di stili determinati da una sempre più mirata e frammentata utenza. Nasce e si diffonde il letraset (imm.23) e la fotocomposizione. 4

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4 Salvatore Gregorietti, Emilia Vassale, La forma della scrittura, Milano 2007 pp. 115-276

Imm. 22 Pagina del programma Victory over the Sun, El Lissitzky, 1923 d.C.

Imm. 23 Letraset

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Imm. 24 Jackson Pollock, 1950

2- l’informale

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2 l’informaleNel secondo dopoguerra gran parte degli artisti americani ed europei si interessano a quello che comunemente chiamato astrattismo. Tra il ’40 e il ’50 nasce la corrente che diffonderà globalmente un linguaggio artistico aniconico5. Se nel primo ‘900 l’impegno primo era sogget-tivizzare il punto di vista, nel secondo dopoguerra l’artista è teso ad oggettivizzare l’arte, l’artista è alla ricerca dell’unica regola del cosmo. Entra nella materia e cerca di capirne le leggi e il lavoro dell’artista si traduce nell’opera, la sua immensa gioia davanti questa rivelazione. L’opera cerca di far esprimere la materia e di far rilevare la sua verità, i suoi profondi misteri. Questa arte verrà poi denominata informale. In USA sarà chiamata anche abstract expressionism. Ma quest’arte non è astratta in qunto non cerca di semplificare un forma e distillare un’icona, e allo stesso modo è un’arte che va dentro la cosa e non esprime (ex-premo, spremo) non tira fuori ma è esuberanza dell’ener-gia e della materia. Abstract expressionism è dovuto dalla mancanza della parola corrispettiva al francese informel utilizzato nel ’51 da Ta-pié. L’arte informale è esperienza cosmica nell’atto creativo che scopre di essere in sintonia con il profondo della materia.L’arte informale è ricca di differenze di espressione, una radice co-mune che poi rivela una moltitudine di esperienze che l’informale ha donato al ‘900. L’artista informale cercherà di non somigliare a nessun altro. Tapiè vede una realtà autrè nei confronti dell’arte che precede quella degli anni ’50. Infatti un altro moto interno all’arte del tempo è quello di fare tabula rasa dell’arte che lo precedeva anzi proprio del passato. Con questo l’informale non vuole costruire il futuro, ricostruire il mondo, cerca di capire il mondo, il suo profondo. Avvicinamento è un altro dei concetti peculiari dell’arte degli anno ’40-’50. L’artista di questi anni cerca di avvicinarsi al mondo per capirlo cerca un arte defi-nitiva che rendi chiaro e docile il mondo, un mondo dove la tecnica sta eliminando i limiti di tempo e spazio, il mondo si trasforma a portata di mano. Nel ’31 è nato il primo microscopio elettronico, nel ’36 il radar, la fissione atomica nel ‘42 e la bomba atomica nel ’45, il transistor sostituisce la valvola nel ’48, si diffonde la televisione e nel ’57 c’è stato il primo lancio spaziale. Queste sono solo alcune sconvolgenti innovazioni che creano ed influenzano il clima informale. D’altra parte si evolve la poesia beat, la letteratura ha sempre maggiori implicazioni socio-politiche e le tematiche sono certamente la metropoli, la moltitu-dine e la trasformazione del tempo. Scatenamento ritmico e composi-zione immediata è il jazz e il be-bop sempre negli stessi anni6.

5 Martina Corgnati, Francesco Poli, Dizionario dell’arte del Novecento, Milano 2001 pp. 70

6 Roberto Pasini, L’ Informale : Stati Uniti, Europa, Italia , Bologna 2006

Imm. 25 Microscopio elettonico di Ernst Ruska, 1931

Imm. 26 Dizzy Gillespie

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Imm. 28 Arschile Gorky, 1941

Imm. 27 Marc Tobey, 1936

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2.1 Abstract expressionism L’informale in statunitense si può far partire dal ciclo Garden in Sochi (imm. 28) del ’41 di Arschile Gorky che sarà premessa alla ricerca di Pollock esposta nel ‘46 alla galleria Art of Century (imm. 30). Pollock si stacca dall’oggetto e nel ’48 inizierà la sua action panting (imm. 24). I precursori si possono identificare in Tobey e Hofmann e i loro lavori degli anni ’30 (imm. 27). A metà anni ’50 iniziano le prime avvisaglie Pop e New Dada. Alla mostra consacratoria del’informale americano del ’61, American abstract expressionism and imagist (Solomon R. Guggenheim), si può dire concluso il periodo di quest’ arte7.

2.2 informelSe negli Stati Uniti il centro dell’arte informale è New York in Europa è la consolidata capitale Parigi a essere centro e punto di origine. Dal 1946 espongono da Dourin Fautrier, Wols e Dubuffet. Ma in questi anni la città è ancora piena di schiere di post-cubisti e neo-concretisti quindi possiamo parlare di informe contro geometria, pura espressione contro pure forme. Una pittura psichica, lirica, profonda e non gramma-tica delle forme e dei colori. Tapiè teorizza le origini informali francesi ed europee in Tzara e Picabia, nel dada quindi a differenza delgli Stati Uni-ti che trovano le loro radici nei cubisti e nei surrealisti (Mirò e Picasso) . La velocità di esecuzione diventa il cardine dei lavori europei, Mathiew e Hartung, l’irruenza la ragione della pittura. L’informale europeo trova nella variante materica un aspetto particolare difficilmente associabile ai risultati d’oltre oceano. In questo ambito troviamo oltre a Fautrier e Dubuffet i vari De Staël, Tapies , Riopelle, Jorn, Appel. Tapiè definisce l’informale non un movimento ma un territorio dove l’individuo/artista si aggira senza strumenti senza i dettami di un movimento. Sempre per Tapiè è un’arte, quella informale o autre, totalmente nuova e supera quella vecchia, un eccitante vertigine che trasforma l’opera in evento che pervade chi la fa e chi la fruisce. Dal ’53 i protagonisti dell’infor-male europeo e nordamericano sono già riconosciuti ufficialmente con mostre istituzionali ad esempio Opposing Forces, all’Institute of Con-temporary Art di Londra, o Tendenze attuali alla Kunsthalle di Berna del ‘55. Già nel 1956, a pochi anni dalla morte di Wols, molti critici, tra a i quali Tapiè, condannano l’arte informale, l’art autre per la sua trasfor-mazione in moda, accademia. Ciò che era difficile proporre dieci anni prima, macchie, calligrafie, materie, nel ’56 è diventata la proposta più facile da esporre. Se le teste di serie dell’informale europeo sono Fau-trier e Debuffet e ad una prima analisi li metteremmo dalla parte della materia, in una seconda analisi vedremo l’importanza fondamentale del segno che incide, graffia, invade la materia di questi artisti che il Pasini tiene fuori dalla divisione segno-materia. Gli esponenti dell’informale segnico in europa sono: Hartung, Soulages, Mathieu, Wols e Masson. Anche se questi sono associabili allo statunitense Pollock , gli europei

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7 Roberto Pasini, L’ Informale : Stati uniti, Europa, Italia , Bologna 2006 prima parte

Imm. 29 Marc Tobey, 1950

Imm. 30 Jackson Pollock, 1946

Imm. 31 Jean Dubuffet, 1947

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Imm. 33 Emilio Vedova, 1958

Imm. 32 Jean Fautrier 1944

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non useranno il dripping e ciò farà emergere una poetica diversa tra informel e abstract expressionism. Hans Hartung, nato a Lipsia nel 1904, si può tranquillamente considerare il maestro dell’informale se-gnico. Il suo segno è gesto perentorio, di un energia che è quella che troviamo in Pollock, è azione ma senza dripping. E’ forse il primo ad intuire il clima informale, prima di Fautrier, nel 1922 inizia con le sue chine ad accordare segni rettilinei e macchie (imm. 34). Le sue radici sono da ricercare in Kandisky che conosce nel ’22 ad una conferenza a Lipsia e poi frequenterà dal ’35 in poi data del suo trasferimento a Parigi. Và in guerra, andrà a finire in un campo di concentramento e riuscirà ad uscire dalla guerra si, ma con un gamba amputata. La sua pittura si fa sempre più forte ed energetica. Inizia ad esporre a Parigi nel 1947 (imm. 35). Il furore vitalistico creativo viene incanalato ed espresso in poche o singole stoccate sulla tela8.

2.3 l’informale in italiaIn Italia l’informale si diffonde e si esprime pienamente con circa 10 anni di ritardo rispetto alla data d’inizio che è il 1945. A fine anni ’50 è già accademia anche qui. A precorrere l’informale in Italia troviamo Vedova, Morlotti, Burri e Fontana. Ma dopo la guerra l’unica via per la contemporaneità in Italia sembra essere il cubismo. Si ammira Gue-nica di Picasso ed è già pronto il Fronte Nuovo delle Arti che rilancia il realismo di forte impronta politica. Al dettame figurativo si oppone Forma nel ’47 e quindi si creano due fazioni in Italia: da una parte il realismo populista e dall’altra l’esasperazione delle ragioni formali e in mezzo il post-cubismo. Ma intanto, durante la battaglia si evolvono i percorsi del gruppo Origine, le tematiche dello spazialismo e del nu-clearismo. Se da un lato Fontana e segnico e Burri materico nessuno nel panorama italiano esprime quel hic et nunc tipico dell’informale statunitense. Il dripping, immerso nell’attimo, nella fugacità e nella to-tale mancanza di retroscena, questa pittura d’azione era realizzabile solo in territorio USA. L’azzeramento storico in Italia non funziona, negli impasti e nei segni nella materia affiorano chiare le origini, la storia e la cultura di chi ci sta dietro. Se in genere l’informale più che essere una corrente si distingue per l’individalità degli artisti, anche in Italia si può fare la solita distinzione segno-materia solo che qui potremmo trovare un maggior raggruppamento in determinate zone geografiche. L’informale materico lo troviamo in settentrione con Morlotti, Mandelli, Moreni, Vacchi, Racagni per citarne alcuni. L’informale segnico si con-densa a Roma nelle figure di Capogrossi, Accardi, Sanfilippo, Perilli, Novelli, Twombly. Giuseppe Capogrossi, nato a Roma nel 1900, dopo un percorso all’insegna della figurazione nel ’50 inizia ad usare il suo segno ricorrente, ossessivo e in identificabile. La sua sigla è senza alcun impatto materico, le sue forme piatte sono cellule impazzite che proliferano all’infinito. Sigillo ancestrale come in un graffito rupestre9.

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8 Roberto Pasini, L’ Informale : Stati uniti, Europa, Italia , Bologna 2006 seconda parte

9 Roberto Pasini, L’ Informale : Stati uniti, Europa, Italia , Bologna 2006 terza parte

Imm. 34 Hans Hartung, 1934

Imm. 35 Hans Hartung, 1947

Imm. 36 Ennio Morlotti, 1956

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Imm. 37 Henry Michaux, 1949

Imm. 38 Marc Tobey, 1950

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2.4 Zen e calligrafia orientaleGià nell’art nouveau, a inizio novecento, l’arte europea fu fortemente influenzata della cultura estremorientale (imm. 39). In questo periodo non c’è una vera assimilazione della cultura e dell’estetica cinese e giapponese che avviene invece in ambito informale. Il segno, l’elemen-to calligrafico, l’asimmetria, il gesto anche trascurato si basano si su affinità spirituali dovute ad un influenza lontana ed indiretta, ma alcuni artisti vengono in contatto direttamente con le culture estremorientali. Henri Michaux frequenta l’oriente sin dal 1933 e miscela un esperienza germinale della materia a la sua poesia, ne crea una bios senza pel-le interna dai forti connotati calligrafici e ideografici, dei veri alfabeti asemantici, liquidi e filiformi (imm. 37). Poi c’è Alechinsky del gruppo Cobra che fa addirittura un film sulla scrittura giapponese e introduce la componente gestuale orientale nelle sue opere. Ma la figura più im-portante in questo ambito è sicuramente quella di Mark Tobey che sin dal ‘34 ebbe lunghi soggiorni in oriente. E’ un artista informale anomalo essendo nato nel 1890 ma arriva a risultati simili a quelli di Pollock ma con procedimenti diversi. Si può vedere lo stesso furore, l’indagine dell’infinito che però in lui rimane più ragionata. Entrambi cercano la cosmicità e rappresentano a loro malgrado ciò che rifuggono: la città (imm. 38). Gli esordi di Tobey sono figurativi ma negli anni ‘30 inizia il suo viaggio tra Cina e Giappone dove scopre e studia la loro calligrafi-ca e la filosofia Zen. Nel ’35 inzia con i suoi white writing, il suo metodo scritturale (imm. 40). Un segno libero e veloce che caratterizzerà la sua produzione, e il segno, anche minuscolo, creerà quella miriade di pennellate che è il quadro, la città, il cosmo. La linea non è continua ma spezzettata ora curva e organizzata, ora dritta e intersecata. Questo crea una specie di ronzio che sviluppa una potente energia che per-vade il quadro, come in Pollock, ma non creata con un azione diretta e invasiva sulla tela ma ragionata e organizzata in uno straripare di segni. È opportuno fare una sintesi sul pensiero e sulla pratica buddismo zen, che ha ispirao direttamente pittori, letterati e musicisti che a loro volta hanno rimesso in circolo, quindi, influenze orientali indirette, mutando sicuramente il clima culturale. Alcuni concetti come quello del vuo-to, vuotezza (sunija, sunijata), asimmetria indeterminatezza, velocità d’espressione non sono chiari se non collegati alle profonde ragioni dottrinali. E’ una scuola buddista nata in Cina nel VII sec. E’ importata in Giappone nel 1215. Scopo dello Zen è l’illuminazione, conoscenza alogica e sperimentale dell’unità dell’essere, ottenuta attraverso prassi etica e meditazione. Nei testi Zen troviamo spesso ko-tzu che è pro-prio la spontaneità dell’azione, conoscenza soggettiva non trasmet-tibile ma raggiungibile con un condizionamento fisico-psicologico di attività e conoscenza intellettuale si arriva ad una profondità delle cose del mondo. A questo si può collegare il concetto di prajna che intende una conoscenza assoluta ed irrazionale, diversa da quella intellettuale (vijnana). A questi concetti è facile riportare le pitture ad inchiostro nero del periodo Ashikaga (1337-1573)

2- l’informale

Imm. 39 Emile Gallé, 1900

Imm. 40 Marc Tobey, 1953

Imm. 41 Ni Yuanlu (particolare), 1632

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24Imm. 42 Toyo Sesshu, 1495

2- l’informale

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e di Sesshu (1420-1506) (imm. 42). Il senso di vuotezza della cultura zen è facilmente intuibile pensando alla sala da thè e di molta archi-tettura giapponese in netto contrasto con la predominanza di pienezza che caratterizza l’arte occidentale, che arriva all’horror vacui che sem-bra guidare molta dell’arte decorativa europea. Ma si può continuare a lungo su i vari concetti di essenzialità, ispirazione spontanea, istan-taneità, l’azzardo e si troverà sempre evidente l’accostamento dell’arte di Yin-Yu-Chien o di Sesshu con l’arte contemporanea, precorritori del tachismo e dell’action painting, ma non solo. Possiamo ricondurre alla filosofia Zen ed orientale la povertà dei mezzi, dell’arte povera e quella concettuale, ma ache le tecniche di pittura automatica, dei ghirigori istintivi, per poi finire all’opera di Yves Klein direttamente ispirato da questa filosofia. In Giappone intanto si formano gruppi artistici colle-gati ai movimenti europei e americani dove però è difficile distinguere l’influenza delle loro antiche tradizioni e quello che invece arrivava di-rettamente da Parigi e New York. Parecchi giapponesi si trasferiscono in europa e in Usa nel dopoguerra. Dei più noti possiamo ricordare Do-moto, Murakami, Sugai, Suematsu, Okada, Oashi, Yamagushi, in italia invece Azuma, Toyofuku, Nakaj. Di quelli attivi in Giappone troviamo il gruppo Gutai, vicini all’informale, nella loro ricerca di concretizzare la materia. Il segno è protagonista nelle loro opere, ma sono sempre il risultato di azioni. Le tele e le carte Gutai sono la traccia, ciò che resta dei loro happening, documento di un gesto trasformato in segno (imm. 44)10.

2- l’informale

10 Gillo Dorfles , Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Milano 1999 pp. 31-43

Imm. 43 Yves Klein, 1960

Imm. 44 Shozo Shimamoto, 1951

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Imm. 45 Gruppo Forma (Consagra, Guerrini, Attardi, Accardi, perilli, Sanfilippo, Dorazio) 1947

3- il gruppo Forma

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3 il gruppo FormaConsagra è il primo a frequentare lo studio di Renato Guttuso in via Margutta, lì si creò un gruppo di ragazzi, poco più che ventenni, sici-liani, romani ed un veneto che nel marzo del 1947 editano il primo ed unico numero di Forma. Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato uniscono le forze per opporsi ai dettami politici di stampo figurativo e per rinnovare la scena artistica italiana e ridargli un vigore europeo. La loro è una via non figurativa è per questo nel manifesto stilato per l’uscita della rivista si definiscono “formalisti e marxisti”11. Sono interessati a formare una sensibilità nuova, fondata sulla libertà espressiva lontana dai vincoli che il partito comunista e lo stesso Togliatti imponevano. Anche Guttuso che rivolse la sua ricerca al post-cubismo e inneggiava al cambiamento i ragazzi che frequen-tavano il suo studio dovette virare in un realismo populista. Ma per rendere meglio la situazione basti pensare che la mostra romana di Pi-casso del ’53 fu oggetto di feroci critiche. Ma i giovani di Forma andati a Parigi nel ‘46 poterono ammirare i maestri del ‘900 e la scena a loro contemporanea e quindi capendo l’enorme distacco che aveva creato il regime in Italia per più di un ventennio. Non potevano accettare il conformismo che voleva il Fornte Nuovo delle Arti, e pur dichiarandosi comunisti si opposero ai loro stilemi. Un impegno politico senza det-tami, un arte che non vuole asservire nessuno. In Forma 1 possiamo leggere:”L’arte astratta non è più in funzione di rottura ma è azione per una nuova cultura. Stiamo uscendo da una profonda crisi scontata da precedenti movimenti rivoluzionari, i vecchi miti crollano su se stes-si[…]non adoperiamo le forme della realtà oggettiva per giungere a forme astratte oggettive, non ci interessa il limone ma neppure la forma del limone”. Vogliono ricominciare da capo e scelgono di riagganciarsi al futurismo, all’avanguardia italiana che in quegli anni era maltrattata e malvista, futurista era come dire fascista, e per i fascisti i futuristi erano dei folli. Loro andarono oltre questi giudizi e ne videro il collegamento con l’europa. La loro attività porta a riscoprire Balla e Alberto Magnelli, dimenticati ed assenti nelle gallerie e nella cultura italiana. Ma fu fonda-mentale il supporto e la formazione dei due futuristi romani Severini e Prampolini che fondano a Roma nel ‘47 l’ArtClub. Ungaretti insegnava all’università in quegli anni e alcuni del gruppo Forma seguirono i suoi corsi e strinsero un rapporto personale con il poeta. Poi un’altra figura importante per il gruppo è Angelo Maria Ripellino che li informa e li educa sulla cultura slava. Se in USA in quegli anni la ricerca culturale è in una sorta di rielaborazione di quella europea alla ricerca di una loro identità, Forma riconnette l’arte italiana con la sua storia, con Magnelli

11 Martina Corgnati, Francesco Poli, Dizionario dell’arte del Novecento, Milano 2001 pp. 237

Imm. 46 Il primo numero di Forma

Imm. 47 Renato Guttuso, 1943

Imm. 48 Alberto Magnelli, 1937

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Imm. 49 Carla Accardi, 1955

Imm. 50 Carla Accardi, 1957

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e i futuristi, e si aggancia all’europa e agli Stati Uniti con il segno di Accardi e Sanfilippo e per certi versi Turcato e Perilli. Ugo Attardi già nel ‘51 torna al figurativo mentre Mino Guerrini lascia la pittura per de-dicarsi al giornalismo e al cinema. Forma oltre al rinnovamento stilistico dell’arte italiana ha il merito di essere stato uno degli ultimi movimeti fortemente ideologici, impegnato socialmente per la libertà e contro il potere ma testimoniano, anche con la loro breve durata, il passaggio dal politico all’individualismo che portò i componenti a seguire strade personali. Forma è anche il cammino del segno dall’ideologia alla sua assenza. Infatti erano parti dalla forma che poi nei loro lavori è scom-parsa12.

3.2 carla AccardiCarla Accardi nasce a Trapani nel 1924. Studia all’Accademia di Bel-le Arti di Palermo e poi si reca a continuare gli studi a Firenze. Dopo il Gruppo Forma e la Biennale del ‘48, la sua prima personale è del 1950 a Firenze. Nel ’49 sposa Antonio Sanfilippo e nel ’51 nasce la figlia Antonella. Nel ‘53-’54 la su pittura si inizia a fondare sul segno, segmenti di pittura bianca su fondo nero, grafemi di una scrittura vi-siva immediata (imm. 49). Con questo lavoro viene inserita all’interno dell’ambito informale da Michel Tapiè che dal ’54 segue il suo lavoro e la inserisce nell’Art Autre. Espone a Pittsburgh, Düsseldorf, Roma, Tokyo, Londra ed è presentata dai più rinomati critici dell’epoca. Negli anni ’60 recupera il segno colore e i suoi lavori si sviluppano in ac-centuati accostamenti cromatici. Nel 1964 ha una sala personale alla XXXII Biennale di Venezia. Nella seconda metà degli anni sessanta l’Accardi adotta l’utilizzo di materie plastiche e trasparenti (imm. 52). La superfice che ospita i segni si apre allo spazio circostante. I suoi lavori diventano ambientali ed abitabili, come ad esempio Tenda del ’65 e Triplice Tenda (imm. 53) del ’71. Partecipa con queste opere alla Biennale di Venezia del 1976 nella sezione “Arte/Ambiente”. Il suo la-voro continua poi con l’utilizzo del sicofoil che dialoga e si sviluppa sul telaio e poi con il ritorno del segno sulla tela grezza. Dagli anni ottanta espone in tutto il mondo con importanti mostre retrospettive. 13

Una costante del suo lavoro è lo spazio bidimensionale dell’opera e la mancanza dello spessore materico. I suoi neri sono la mancanza di de-finizione di uno spazio e il bianco è in bilico tra la definizione risultante dagli spazi non percorsi dal nero e la sua moltiplicazioni in segni so-vrapposti sul nero (imm. 50). Il suo segno prolifera in modo ritmico si-mile alla crescita biologica. Il movimento a togliere che esegue la mano dell’artista fa scaturire un’ambiguità cromatica che non fa cogliere de-finitivamente il sovrapporsi di segni e il percorso di questi nello spazio. Il nero produce un’uniformità e anche un assorbimento del ritmo del bianco, che è una sorta di assedio del segno verso se stesso. I segni non tendono alla figurazione e conservano la loro iconicità che nasce dalle radici culturali siciliane quindi anche arabe. La struttura portante

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12 Giovanna Bonasegale, Simonet-ta Lux, Forma 1 1947-1951, Roma 1997

13 Ida Giannelli, Carla Accardi, Milano 1994 pp. 51

Imm. 51 Ugo Attardi, 1956

Imm. 52 Carla Accardi, 1972

Imm. 53 Carla Accardi, 1971

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Imm. 54 Pietro Consagra, 1955

Imm. 55 Pietro Consagra, 1966

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ed interna dei segni è tale che rende la loro congiunzione dentro un codice interno autoriproducibile all’infinito, questi segni sono ricondu-cibili ad una matrice iniziale. 14

Carla Accardi parla del suo lavoro nel ’54 dicendo “mi è venuto di ten-tare l’esperienza del bianco e del nero come antipittura, ed ho detto: mi metto a terra e faccio dei segni non neri su bianco, perché sarebbe scrittura, ma bianchi su nero”15. La sua non è pittura e non è scrittura, si pone al “grado zero” di entrambe. Non c’è gesto che crea il segno, i suoi sono lavori sdrammatizzanti il pathos della pittura informale-ge-stuale. I segni creano stutture, pluralità fatta di singoli ma riconducibili segni. Entità singole dovute alla partecipazione comune di segni simili ma differenti. Incessante trasformazione dell’uno nell’altro, dove l’uno è attestabile nella sua identià proprio in quanto si trasforma. Opposi-zione tesa verso l’armonia. Dalla dicotomia del bianco e nero allo stri-dente cromatismo additivo. Oppure la trasformazione della debolezza in forza come l’uso del colore rosa in Triplice Tenda. 16

3.3 Pietro consagraPietro Consagra nasce a Mazara del Vallo nel 1921. Lascia la sua città nel ’38 per studiare al Liceo Artistico di Palermo e nel ‘44 arriva a Roma. Prima ospite nello studio di Mazzacurati lavora a piccole figure umane, memorie della guerra. Poi diventa ospite di Guttuso. Lì abban-donerà la figura e inizierà il cammino con Forma. La sua prima perso-nale importante è nel ‘48 a Venezia alla Galleria Sandri. I suoi lavori sono ricavati tutti da materiali provenienti dall’industria e si sviluppano in verticale (imm. 56). Organizza mostre sull’arte astratta e scrive testi sull’argomento tra i quali: E’ trascurabile esprimere se stessi del ’49, In difesa dell’astrattismo e necessità della scultura del ’52. Nel ‘56 ha una sala personale alla Biennale d’Arte di Venezia. Nel ’58 è ospite del Palais des Beaux-Arts di Bruxelles ed espone i suoi Colloqui (imm. 54). Nel ’59 ha una personale a Parigi ed alla XXX Biennale di Venezia vince il primo premio per la scultura. Dal ’58 affianca ai disegni prepa-ratori le tele, prima dipinte con il bitume, poi vernici al nitro, in seguito tempere sciolte nel vinavil. I lavori sono sempre affidati ad altri per la realizzazone. La pittura poi porterà il colore nelle sculture a partire dalla Quadriennale di Roma del 1964. Ha personali ha New York nel ’66 e a Rotterdam nel ‘67 dove sono protagonisti i lavori sospesi. Dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti arriva a opere realizzate a laser su sottili lamine d’acciaio inossidabile, chiamate appunto Sottilis-sime (imm.55). Nel 1969 pubblica La città Forntale critica e proposte per un architettura frontale come le sue opere. Espone le maquette dei suoi Edifici frontali e nel 1981 viene realizzato Meeting a Gibellina, edificio pubblico simile ai suoi lavori. La sua prima mostra antologica è nel ‘73 a Palermo. I lavori degli anni ’80 sono caratterizzati da piccole fessure dove la luce filtra controluce e modifica i contorni della forma. Alla XL Biennale di Venezia è esposto un grande Addossato in legno bianco e nero e di fronte alla scultura si svolge il concerto di musica

3 - il gruppo Forma

14 Achille Bonito Olliva, Carla Accardi, Milano 1994 pp. 11-17

15 Ida Giannelli, Carla Accardi, Milano 1994 pp. 19

16 Giorgio Verzotti, Carla Accardi, Milano 1994 pp. 19-26

Imm. 56 Pietro Consagra, 1952

Imm. 57 Pietro Consagra, 1959

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Imm. 58 Piero Dorazio, 1962

Imm. 59 Piero Dorazio, 1965

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frontale. Nel 1989 una nuova antologica a Roma negli spazi della Gal-leria Nazionale di Arte Moderna17.“E’ tutto nel disegno” dice “con pochi tratti intravedi quello che deve diventare la materia e poi non ha possibilità di cambiamenti. O è scul-tura o non lo è, tutto in quell’attimo”18. Immediatezza e velocità sono le caratteristiche progettuali di Consagra. Utilizza per le sue sculture legno, ferro, bronzo ed acciaio colorandoli vivacemente per arrivare poi, nel 1972 a lavorare con la pietra e sfruttandone il suo colore natu-rale, ricercando le pietre dalle colorazioni e dalle venature più introva-bili, molto spesso rare. Un amore per la natura espresso con l’artificio di una scultura anti-monumentale che ricerca il cuore della natura, il centro delle cose. Per Consagra l’artifico è l’unico modo per tornare a vedere le cose del mondo, della natura ma con questo non si avvicina al mimetismo, ma l’arte più si allontana dalla natura più rende visibile ciò che essa è, e ci aiuta a vedere il mondo e la natura. L’inesistente indispensabile per l’esistente. Per lui il colore è la cosa inraggiungibi-le. Da ragazzo, a Mazara del Vallo il colore era il desiderio proibito e il privilegio di pochi come per gli antichi. La bidimensionalità, caratteri-stica princialale, del suo lavoro, a limite tra scultra e pittura, è il modo che trova Consagra per togliere la funzione di perno dello spazio alla scultura, è una scelta ideologica ed etica, pone la sua opera a tu per tu con lo spettatore. La tridimensionalità è chiusura, divisione, timore, voglia di possesso per Consagra.19

3.4 Piero dorazioPiero Dorazio nasce a Roma nel 1927. Studia al classico e poi Archi-tettura. E’ affascinato dalla pittura e dalle scienze naturali. Frequenta lo studio di Angelo Bandinelli. Dopo l’esperienza della guerra fa parte del gruppo “arte sociale” e poi nel ’46 inizia a frequentare lo studio di Renato Guttuso. Frequenta la facoltà di Lettere dove segue un corso sperimentale di cinematografia, poi i corsi di Ungaretti e Lionello Ven-turi. Nello stesso periodo dipinge nature morte cubiste e frequenta lo studio di Gino Severini. Abbandona il gruppo del Fronte Nuovo delle Arti e nel ‘47 entra in Forma. Nel ’48 organizza insieme a Consagra, Soldati, Prampolini, Sottsass e Rogers la Prima Esposizione Nazio-nale d’Arte Astratta alla Galleria di Roma. Nello stesso anno vince una borsa di studio e parte per Parigi, si iscrive alla cattedra di Picot presso l’Ecole Nationale Superieure des Beaux Arts. Il suo punto di riferimento è Severini, che vive in quel periodo a Parigi ed ha modo di conoscere artisti del calibro di Hans Arp, Braque, Leger, Magnelli, Le Corbusier, Picabia, Delaunay, Vasarely. In seguito, grazie ad una giornalista statu-nitense frequenta Wols, Loeb, Artaud, Peret, Tzara, Breton, ed anche Mirò e Matisse. Nello stesso anno partecipa al primo Congresso dei Critici d’Arte e parla insieme a Perilli della nuove tendenze artistiche in Italia. Nel ’49 insieme a Perili e Gurrini lascia Forma e creano il gruppo Arte Concreta ed espone a Roma e Firenze. Gli stessi nel 1950 apro-no in via del Babbuino la galleria-libreria l’Age d’Or che è frequentata

3 - il gruppo Forma

17 Eva di Stefano, Consagra colo-re, Palermo 1991 pp. 25-29

18 Eva di Stefano, Consagra colo-re, Palermo 1991 pp.13

19 Eva di Stefano, Consagra colo-re, Palermo 1991 pp.14-23

Imm. 61 Pietro Consagra, 1977

Imm. 60 Pietro Consagra, 1967

Imm. 62 Piero Dorazio, 1960

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Imm. 63 Piero Dorazio, 1994

Imm. 64 Piero Dorazio, 2000

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dai maggiori artisti ed intellettuali dell’epoca. Grazie allo scultore Ma-nucci, Dorazio ritrova a Roma Giacomo Balla, che vive in città con la sua famiglia, ma ormai dimenticato da tutti. Lo frequenta e ne studia l’opera. Nel ’51 espone e viene premiato alla Triennale di Milano. Nel ’52 il gruppo Origine formato da Burri, Capogrossi, Balocco e Colla si fonde insieme a l’Age d’Or e nasce Fondazione Origine. Con questa nasce la rivista Arti visive pubblicata insieme a Colla. E’ incaricato di progettare l’allestimento della mostra su Medardo Rosso alla Galleria di Arte Moderna di Roma. Dopo una conferenza tenuta ad Harvard si stabilisce a New York e ne frequenta l’enturages culturale. E’ qui che ha la sua prima mostra nel ’53 alla Wittenborn one-wall gallery e nel ’54 ha una mostra dei suoi Rilievi presso Rose Fried Gallery. Rienta a Roma nel ’55 ed abbandona Origine e la rivista. Lavora con il perspex, bronzo ed argento. Ma con la pubblicazione del libro La fantasia dell’arte nella vita moderna torna alla pittura. Nel ’56 ha la sua personale a Roma presso la galleria La Tartaruga e nello stesso anno è presente alla Biennale di Venezia con tre opere. E’ presente nelle principali collettive su l’arte astratta italiana in Europa e nel mondo. Nel ’59 è a Documenta II di Kassel. Nel ’60 è incaricaro dall’Università del-la Pennsylvania di riorganizzare e dirigere il dipartimento di Belle Arti. Alla XXX Biennale di Venezia ha una sala personale ed espone le sue trame luminose (Imm. 65). Nel ’61 riceve a Parigi il Premio Kandinsky e il primo premio Biennale des Junes. In Germania ha una sua prima retrospettiva. Nel ’65 nasce suo figlio Giustino e nel ’66 Ungaretti scri-ve un saggio sulla sua pittura in occasione di una mostra alla Galerie Im Erker. Dopo aver rinunciato alla direzione del Dipartimento nel ’69 abbandna il suo studio di New York e l’insegnamento per dedicarsi totalmente alla pittura. Negli anni settanta prende posizione contro la critica e i movimenti che ritengono la pittura un anacronismo e che dichiarano la morte dell’arte. Ritira per protestare i suoi quadri già selezionati per alcune mostre e continua la sua attività scrivendo aspri articoli di critica ad alcuni operatori del sistema dell’arte. Continua a utilizzare i mezzi tradizionali della pittura e incomincia i suoi viaggi e re-sidenze nei paesi dell’est europa. Nel ’70 è commissario alla Biennale di Venezia e organizza qui una retrospettiva su Rothko. Nel ’74 lascia Roma e si trasferisce a Todi dove ristruttura un convento e si stabili-sce. A Todi nel ’76 realizza una mostra retrospettiva su Forma 1. Nel 1977 Alfieri pubblica la monografia di Dorazio. Nel ’78 fonda a Todi una scuola-atelier di ceramica contemporanea. Nel ’79 al Musèe d’Art Moderne di Parigi viene realizzata una sua retrospettiva che poi verrà trasferita in molte città statunitensi. Dall’84 scrive per il Corriere della Sera e nell’85 ha una sua personale a Tokyo. L’anno seguente il Presi-dente della Repubblica gli consegna il premio dell’Accademia di San Luca. Alla Biennale di Venezia del ’88 dedica la sua sala personale alla memoria del poeta Ungaretti. 20

Il suo ruolo, la riconosciuta statura artistica, è fondamentale per i ra-porti tra l’Italia e l’Europa e l’Italia e gli Stati Uniti. Egli si oppone alla cultura priva di coscienza del passato, e si prodiga per una univer-

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20 Nathalie Vernizzi, Piero Dorazio, Milano 1990 pp. 162-168

Imm. 65 Piero Dorazio, 1962

Imm. 66 Piero Dorazio, 1968

Imm. 67 Piero Dorazio, 1984

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Imm. 68 Achille Perilli, 1960

Imm. 69 Achille Perilli, 1969

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salità dell’arte, cose che il fascismo gli aveva negato. I suoi strumen-ti contro l’ignoranza furono la pittura e la scrittura. Sente l’esigenza di unire alla creazione dell’opera una testimonianza orale e scritta. In un’intervista Dorazio parla della sua opera e dice:”il quadro non deve essere il prodotto di uno sfogo romantico, ma il prodotto di un’espe-rienza di vita che poi si trasforma in forme e colori. La differenza sta nel fatto che il quadro frutto di una vita ordinata è un quadro ottimista in cui si esprime la speranza che le cose abbiano un ordine; mentre i quadri di molti americani, salvo rari casi, sono di una disperazione totale”. Dorazio situa la sua pittura fra rigore e sensibilità. Il suo è uno spirito classico che veicola i sentimenti in scopi positivi, verso l’armo-nia. L’organizzazione del colore genera lo spazio e la composizione del quadro senza mai essere emanazione psicologica. Non si abbandona mai all’espressionismo del gesto e i suoi lavori sono caratterizzati da una forte architettura interna, ma sul farsi l’opera si affida ai sensi e alla casualità, non si affida mai a dogmi e teorie. Le sue pitture passano da tessiture di colori puro a trame sempre più fitte degli anni ’60, poi inca-stra piani irregolari e poi regolari negli anni ’70 (imm. 66) e negli anni ottanta fasce discontinue e a mosaico. La coerenza del suo percorso è data dalla volontà di sottomissione alla sua arte. L’esuberanza gioiosa dei suoi quadri, sempre sottomessa alle regole di un’organizzazione chiara e sicura, trova la sua origine nel piacere che egli prova nell’atto di dipingere, è un pittore ottimista, come fu Balla. Dorazio ha grandi aspirazioni per l’arte, per lui non deve trasportare idee ed ideologie, ma trasmettere attraverso i sensi vitalità e propensione verso la civiltà. (Sintetismo pittorico in cui ogni frammento si definisce in funzione di un’insieme, costituisce sempre un elemento centrale nella ricerca di Dorazio.)21

3.5 Achille PerilliAchille Perilli nasce a Roma nel 1927. Dopo aver frequentato il liceo classico, nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Lettere; negli anni seguenti è allievo di Lionello Venturi, con il quale prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di Giorgio De Chirico. Con Dorazio, Guerrini, Ve-spignani, Buratti, Muccini, Maffioletti, Perilli fonda il Gruppo Arte So-ciale (GAS). Partecipa nel 1947 alla redazione e alla mostra Forma 1. Frequenta Parigi dove ha modo di conoscere Hans Arp, Magnelli e Picabia. Dopo un anno di Forma aderisce al gruppo milanese MAC e sempre nel ’48 partecipa alla mostra Arte astratta in Italia. Con Dora-zio, sempre nel ’48, organizza la galleria-libreria Age d’Or a Roma. Nel ‘57 arriva alla sua prima personale presso la galleria La Tartaruga a Roma. Nello stesso anno fonda con Gastone Novelli la rivista L’espe-rienza moderna per promuovere la riscoperta del movimento dada e surrealista, e sottolineare l’esigenza di una comunicazione visiva più complessa, in cui far confluire elementi poetici, l’automatismo, il sen-so della materia e del segno come graffito che non ammette ripensa-menti. Nel ’59 espone alla Biennale di San Paulo in Brasile. Le sue

3 - il gruppo Forma

21 Nathalie Vernizzi, Piero Dorazio, Milano 1990 pp. 11-30

Imm. 71 Achille Perilli, 1949

Imm. 72 Achille Perilli, 1952

Imm. 70 Piero Dorazio, 2001

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Imm. 73 Achille Perilli, 1966

Imm. 74 Giulio Turcato, 1948

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composizioni fatte da forme che somigliano a proiezione sul piano di parallelepipedi, risultano alla fine inverosimili ed irregolari, quasi irrisolti allo sguardo (imm 69). Perilli fa un utilizzo del colore forte, gradevole e rigoroso insieme, e supporta il proprio lavoro con una voluta impreci-sione, a vantaggio dell’espressività (imm.73). Nel ’61 realizza a teatro Collage, azione teatrale astratta. L’anno dopo è presente alla Bienna-le internazionale d’Arte di Venezia con una sala personale e lo stes-so accade per la Biennale del 1968. Continua il suo lavoro nei teatri realizzando numerose ed importanti scenografie (Teatro gruppo 63, Mutazioni, Kombinat Joey). Realizza una nuova rivista Grammatica. Si susseguono le mostre retrospettive e personali a Zagabria, a Roma, a Chiacago, a Amsterdam, a Francoforte. A partire dal 1973 partecipa alla creazione del gruppo Altro con cui realizza gli spettacoli: Merz, Experimenta, Zaum, ICS incognite di forme teatrali, Abominable A. Pubblica negli anni successivi il Manifesto della folle immagine nello spazio immaginario 1971, Machinerie, ma chere machine nel 1975 e nel 1982 Teoria dell’irrazionale geometrico. Negli anni ottanta con-tinua la sua attività con mostre personali e retrospettive sempre più ampie ed importanti in Italia ed Europa.22

Nelle opere degli anni Novanta il linguaggio di Perilli si rafforza ulte-riormente in un cromatismo acceso, ilare, vivace e brillante: le forme si sviluppano in condizione bidimensionale, espandendosi nello spazio della tela e acquistando strutture di grande eleganza e movimento. 23

3.6 Giulio turcatoGiulio Turcato nasce a Mantova nel 1912. Si trasferisce con la famiglia a Venezia e sudia al liceo artistico e frequeta la scuola di nudo. Dipinge ed espone in laguna. Durante la guerra insegna disegno ed espone nel ‘43 alla XXIII Biennale di Venezia. Lo stesso anno si trasferisce a Roma, espone in varie mostre insieme all’amico Emilio Vedova. Fa parte della Resistenza e si radica nella città e da questo periodo nasce il suo impegno. Nel ’47 prima della sottoscrizione di Forma partecipa alla stesura del manifesto Neocubista, con fra gli altri Guttuso. Su For-ma 1 appare il suo articolo Crisi della pittura. Nel ’47 fa anche parte della mostra Fronte nuovo delle arti. Ma qualche mese dopo insieme a Consagra, Perilli, Guerrini e Dorazio partecipa alla prima vera mostra di Forma alla galleria Art club. Nel ’48 è presente alla XXIV Biennale di Venezia con cinque opere aderente al Fronte nuovo delle arti. In quei mesi espone a Parigi con Consagra, Dorazio e Perilli. Durante la mostra di Bologna, dopo la critica di Togliatti, il Fronte nuovo delle arti si divide e parte una nuova poetica di Turcato con il quadro Rovine di Varsavia. Nel ’48 un suo dipinto entra a far parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Nel ’50 soggiorna a lungo a Parigi e conosce Manassier, Pignon e Michel Seuphor. Partecipa alla Bien-nale del ’50. Nel ’52 con Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, San-tomaso e Vedova entra a far parte del Gruppo degli Otto e partecipa alla XXVI Biennale di Venezia. Con il gruppo viene allestita una mostra

3 - il gruppo Forma

22 Mario Degan, Achille Perilli, Rovigo 1986 pp. 6

23 www.artantide.com, Achille Perilli biografia, Verona 2009

Imm. 75 Achille Perilli, 1957

Imm. 76 Achille Perilli, 2005

Imm. 77 Giulio Turcato, 1951

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Imm. 79 Giulio Turcato, 1963

Imm. 78 Giulio Turcato, 1950

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che girerà la Germania. Nello stesso anno ha una personale a Roma con il testo in catalogo di Prampolini. Partecipa ad una mostra collet-tiva itinerante negli Stati Uniti. Nel ’53 diventa assistente di Figura al liceo artistico di Roma e tiene una personale a Milano. L’anno seguen-te è di nuovo presente alla Biennale di Venezia, lo stesso nel ’56. la sua attività continua con varie mostre personali e collettive. Nel 1956 compie un viaggio che, passando da Mosca, lo porta sino in Cina dove esporrà, a Pechino e a Shanghai insieme ad altri pittori italiani. Questo viaggio caratterizzerà molto i suoi lavori. L’interesse della critica cresce verso di lui ed espone a New York e a San Paolo in Brasile. Nella XXIX Biennale di Venezia ha per la prima volta una sala personale. Nel ’59 è presente alla Documenta di Kassel. In quell’anno protesta, non espo-nendo insieme ad altri artisti, contro la Quadriennale e i suoi organi di-rettivi. Nel ’62 ha due personali, una a Londra l’altra a Venezia. Nel ‘64 si sposa con la cineasta Vana Caruso. Continue sono le mostre ed i viaggi all’estero di Turcato. Nel ’70 e nel ‘72 ha una sala personale alla Biennale di Venezia. Qui inizia un percorso di storicizzazione dell’ope-ra di Turcato con volumi che ne raccolgono il percorso. Nel ’73 la prima mostra antologica a Spoleto e l’anno dopo con più di 300 opera la seconda antologia è al Palazzo delle Esposizioni di Roma. L’istituto italiano di cultura di New York gli dedica una mostra nel ‘78. Nell’84 il PAC di Milano allestisce una sua mostra antologica, e il Museo di Palazzo Reale gli dedica una sala. In giugno partecipa alla XLI Bien-nale di Venezia con lo spettacolo Moduli in Viola-Omaggio a Kandisky con musiche di Berio, coreografie di Tanaka, e regia di Vana Caruso. Nell’85 è Monaco di Baviera a dedicargli una mostra antologica e tra le altre, un’antologica a Ca’ Pesaro di Venezia nel 1990. Tra gli anni ottanta e novanta la sua attività espositiva è intensissima con un sus-seguirsi di mostre personali, partecipazioni ad eventi internazionali di primo rilievo e importanti partecipazioni a mostre collettive in tutto il mondo. In seguito ad una crisi respiratoria, muore il 22 gennaio del 1995 a Roma. 24

Turcato ci rende ciechi al reale del senso comune, e attraveso quelli che potemmo definire i suoi “ultracolori”, ci apre infiniti mondi possibili, non contingenti, svincolati dagli oggetti, ci proietta vertiginosamente nel nuovo, nell’immediatezza della sua opera. Le sue opere si carat-terizzano per l’intensità cromatica e l’uso, a partire dagli anni ‘60, dei colori fluorescenti e fosforescenti. Nel colore lui cerca la verità, l’es-senza dell’immagine. La luce e le sue infinite varianti cromatiche fanno da mezzo per elaborare una visione in quanto rappresentazione a es-senza stessa della visione. E’ l’immaterialità della luce che fa galleggia-re la forma e sostiene la cromia della materia. Luce alone magnetico, luce dato fisico, luce dato spirituale soggettivizzato, luce condizione atmosferica. Sin dall’inizio della sua opera, il colore è struttura della luce. Turcato dice:” Ho pensato che forse non ci sono fatti risolutivi o modelli inalienabili: questo non può essere perché anche nell’arte c’è il relativo. Per la conquista dell’espressione artistica è necessario pro-cedere con persistenza nelle conoscenze tecniche che abbiamo, per

3 - il gruppo Forma

24 Silvana Pegoraro, Turcato, l’in-vasione degli ultra colori o gli infiniti mondi possibili, Padova 2008 pp. 59-63

Imm. 80 Giulio Turcato, 1953

Imm. 81 Giulio Turcato, 1956

Imm. 82 Giulio Turcato, 1959

Imm. 83 Giulio Turcato, 1970

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Imm. 84 Imm. 13 Giulio Turcato, 1960

Imm. 85 Imm. 13 Giulio Turcato, 1985

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poi di volta in volta usarle nel migliore dei modo possibile, ma anche violentarle e andare oltre.” Indaga il rapporto del colore con il suono. L’impostazione del suo lavoro è seriale che si propone come sviluppo di un motivo tematico formale. La sua è una scrittura cromatica libera, si sviluppa in un tempo utopico, senza inizio ne fine. Il suo segno non è violento ma evanescente e inafferrabile, leggero. Un sottile lavoro di rarefazioni e fusioni tra superfice e profondità.25

Turcato parlando del suo lavoro nell’86 dice: “come la scienza ha dei suoi misteri, anche la pittura ha dei misteri visivi quindi non è detto che debba essere un mezzo di comunicazione immediato e veristico tra chi guarda e chi invece maneggia i colori. Ad ogni modo il colore in fondo è una scienza, per cui la gente può restare anche attonita di fronte ad una colorazione, anzi direi che più irregolare è la colorazione più distur-ba, più è ammirata dai visitatori che la vedono, i colori alle volte sono molto brillanti anche fantastici, però hanno una loro importanza e una loro diversità soprattutto da quello che può essere la fotografia o an-che il cinematografo, tanto è vero che il cinematografo alle volte copia il modo di fare i colori nella loro diversità dal vero e quindi si può dire che il colore invade tutti i campi di una specifica e attenta sensibilità”.26

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25 Silvana Pegoraro, Turcato, l’in-vasione degli ultra colori o gli infiniti mondi possibili, Padova 2008 pp. 7-17

26 Maurizio Corraini, Giulio Turcato Insolito solare, Mantova 1986 pp. 43

Imm. 86 Giulio Turcato, 1971

Imm. 87 Giulio Turcato, 1983

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Imm. 87 Interno, 1946

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4 Antonio SanfilippoAntonio Sanfilippo nasce a Partanna in provincia di Trapani l’8 dicem-bre 1923 da Emanuele maestro elementare e la madre Maria Fedele. Vive sul corso della cittadina, ha due sorelle. Dopo il primo anno di studi magistrali voluti dal padre, nel ‘38 può seguire la sua propen-sione naturale per il disegno ed iscriversi al liceo artistico di Palermo dove si dedica con predilezione alla scultura. Qui conosce Attardi e Consagra. Nel ’42 viene chiamato a partecipare alle Finali Nazionali dei Ludi dell’Arte, Festival della gioventù Europea ed arriva secondo. Poi si inscrive l’Accademia di Belle Arti di Firenze ed è alunno di Care-na, con questi si allontanerà dalla scultura. Al maestro si rifanno i primi lavori esposti per la prima volta nel ‘45 a Palermo. Durante la guerra però torna in Sicilia, gli viene offerta una cattedra di disegno presso un istituto magistrale in provincia di Trapani e si iscrive all’Accademia di Palermo dove conosce Carla Accardi. Si iscrive al Partito Comunista e espone a Palermo in mostre dove è presente anche Guttuso.27

4.2 roma e il Palazzo dei NormanniNel 1946 grazie all’amico Consagra, che lo invita più volte, si tra-sferisce definitivamente a Roma e dimora in un piccolo studio in via Flaminia. Sempre nel ‘46 giungono altri due suoi compagni di studi siciliani, a Roma: Carla Accardi e Ugo Attardi. Lo studio di Guttuso in via Margutta è tappa fissa dei pittori siciliani a Roma e non solo. Lì Guttuso, insieme a milanesi e veneziani crea il gruppo Fronte Nuovo delle Arti teso al rinnovamento anti-novecentista della pittura italiana. Ma i giovanissimi distanti di mezza generazione si sentono lontani da questo movimento, come Consagra più volte invitato a farne parte. Ma nel ’47 nel cosiddetto Palazzo dei Normanni nasce un nuovo gruppo di romani che si chiamerà Forma. Il Gruppo è formato da Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo, Turcato ebbe breve vita ma un peso non indifferente nell’ambito dell’arte nuova ita-liana. Come la migliore tradizione d’avanguardia stilarono un manifesto datato 15 marzo 1947 e fu pubblicato nella prima ed unica rivista di arti figurative intitolata Forma (forma 1 quindi)28. Nel Natale del ‘46 Sanfilippo insieme ad una parte del gruppo Forma parte per Parigi. Ma già a metà anno, prima del viaggio a Parigi, si possono notare i cam-biamenti stilistici e l’aumento della produzione (imm. 87), che avviene con il trasferimento da Firenze a Roma e con l’influenza di Guttuso e le

27 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 309

28 Benedetto Patera, Sanfilippo, Palermo 1991 pp. 7-14

Imm. 88 Partanna, Trapani

Imm. 89 Accademia di Belle Arti Palermo, 1943

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Imm. 90 Composizione, 1947

Imm. 91 Senza Titolo, 1951

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mostre romane che illustrano la nuova scena artistica francese. Tutti i quadri di Sanfilippo datati 1947 sono distanti dal’influenza di Guttuso con cui il gruppo dei siciliani e Turcato rompe definitivamente dopo una polemica nel novembre del 1947. Partecipa alla Prima Mostra dei collaboratori di Alfabeto insieme a, tra gli altri, Capogrossi, De Pisis, Guttuso, Melli, Savino, Scialoja. Espone alla galleria il Cortile, allo Stu-dio d’Arte Moderna, e alla II Esposizione annuale dell’Art Club Galleria di Roma, tutte a Roma29.

4.3 Verso la maturazione Nel ‘47 scompare il riferimento figurale, a volte superstite nei titoli, aderenti al neo-cubismo e ai jeunes peintres come Bazaine ad esem-pio (imm. 90). Nelle opere di Sanfilippo di questo periodo il distacco con una realtà referenziale si fa più drastico che i per i sui compagni di Forma, ma quest’anno è intenso e decisivo per tutti, che li porta al ‘48 dove si interrompe ogni ponte con la generazione precedente e li unisce moralmente prima e formalmente poi. E’ l’anno che san-cisce l’importante collaborazione con l’Art Club e il confronto con il gruppo Milanese Mac. Nel ‘48 e il ‘49 le ricerche si iniziano a divide-re e prendere strade personali14. Sanfilippo si orienta verso la pittura concreta e quindi all’italiano Magnelli e gli allora esposti a Roma e Milano Van Doesburg e Arp. Nel ‘48 Sanfilippo partecipa alla XXIV Biennale Internazionale d’Arte di Venezia con Senza titolo (imm.93) chè però è del ‘47, con forme che si rifanno ancora ad un Picasso del dopoguerra, d’altronde non molto diversa dall’opera inviata alla Biennale dalla Accardi30. Nel ‘51 a Parigi incontrerà personalmente Alberto Magnelli e Hans Hartung, ma di essi conosceva già molte ope-re. Espone nel 1948 alla Quadriennale di Roma presso la Galleria di Arte Moderna, e di nuovo all’Art Club di Roma. L’impegno politico è sempre presente in Safilippo ma come lui stesso dichiara:”Abbiamo sempre anteposto le nostre esperienze artistiche a quelle di partito, nella speranza che il nostro lavoro potesse contribuire a modificare la linea ideologica del Partito Comunista[…]. L’astrattismo contribui-sce, anche se non in maniera immediata, alla conoscenza di fatti nuovi che, pur essendo parte della nostra realtà, non si conoscono ancora, […]. Nell’astrattismo c’è una rappresentazione che tende a rilevare i nuovi aspetti delle cose[…]. In questa ricerca di rilevare i fenomeni della nostra epoca, i suoi contrasti, i nuovi aspetti della cultura e della scienza, tutti i valori nuovi della società, vi è una partecipazone attiva dell’artista alla vita. L’astrattismo è una strada di innovazioni formali e di contenuti necessaria allo sviluppo dell’arte”31. Nel Settembre del 1949 sposa Carla Accardi a Trapani. Nel ’49 torna ad esporre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, poi Firenze alla III mostra interna-zionale dell’Arte d’oggi, a Catania in una mostra a cura della Biennale di Venezia e a Venezia nell’Ala Napoleonica. Nel ‘50 espone in una mostra a tre con Accardi e Attardi a Milano. Da questa si può leggere

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29 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 310-311

30 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 311

31 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 15-17

Imm. 93 Senza titolo, 1947

Imm. 94 Senza titolo, 1950

Imm. 92 Natura morta (con gabbia), 1946

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Imm. 95 Un principio, 1952

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sul catalogo della galleria Bergamini, Prampolini che dice: “Sanfilippo, sebbene le pitture tengano le stesse misure del concreto si differenzia, per una geometrizzazione più dichiarata, più costruttiva”32. Tra il ‘50 e il ‘51 i resti post-cubisti e costruttivisti fanno spazio a liberi aggregati plastici vicini al dettato concretista. Questa sua virata si può oserva-re nel catalogo dell’importante mostra Arte Astratta e Concreta a cui partecipa nel febbraio 1951 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. (imm. 91). In questo periodo la sua pittura si fa verticale, il gesto e contaratto o disinvolto, il colore è morbido e leggero fatto di luce e in altri casi si fa materia cromatica palpabile. Sempre nel ’51 la sua prima personale a Roma presso la libreria e galleria Age d’Or. Si trasferisce insieme alla moglie in via Babuino ed entrambi si dedicano all’insegnamento artistico nelle scuole medie.

4.4 Un principioA partire dal ‘52 con il quadro Un Principio (imm. 95) si forma una nuova intenzione in Sanfilippo. Con quest’opera e con le successive si attesta un Sanfilippo maturo, non più in un percorso formativo. Sono opere più libere che abitano uno spazio atmosferico, non misurabile, forme che si muovono nei loro rapporti dimensionali e tonali. Espone in una personale alla galleria Il Cavallino a Venezia nel luglio del ‘52. A questo punto le sue opere sono lontane dal gruppo originario di Forma e rimangono forse assimilabili solo a quelle dell’amico Dorazio (imm.97). Si abbandona la forma geometrica, lo spazio di forme finite e costruite, sostituite da sommovimenti, accelerazioni pittoriche e im-provvise forme che compaiono sulla tela, ne mostrano a volte la trama e fanno spazio a quello che poi sarà il segno di Sanfilippo33. Ha un’ altra personale a Firenze presso la Galleria d’Arte Contemporanea. Da qui, dalle opere del 1952, parte l’opera più personale di Antonio San-filippo, si crea il suo segno, diverso da quello monadico di Capogrossi (imm.1) un segno che è comunicazione più che messaggio, non cerca avventure dell’occhio, meraviglie ma percorsi possibili della mente. Il ‘53 è un anno prolisso con una cinquantina di quadri che lo portano da una radice Hartunghiana (imm.98) ai sui più intensi e intrecciati quadri talora intitolati Metropoli (imm. 99). Il segno adesso è domi-nante sella superfice, accompagnato da una spiente miscela tonale, ogni residuo geometrizzante scompare e la struttura dei suoi lavori si và determinando nel tratto e nel colore. Espone, tra le altre collettive, nel ‘53 in una mostra insieme a Capogrossi e altri alla galleria Schnei-der a Roma, dove tornerà l’anno dopo con una personale.34

4.5 il segno di SanfilippoNel ‘55 Jaroslav Serpan, pittore della cerchia di Tapié, è il primo a in-dicare il segno esplicitamente come elemento strutturante la pittura

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32 Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfi-lippo le carte, Roma 2009 pp. 121

33 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 14-19

34 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 312-313

Imm. 96 Senza titolo, 1952

Imm. 97 Senza titolo (particolare), 1952

Imm. 98 Senza titolo, 1953

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Imm. 99 Metropoli, 1954

Imm. 100 Senza titolo, 1955

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di Sanfilippo nella presentazione alla personale del pittore alla Galleria delle Carrozze di Roma. Proprio Tapiè insisterà su questo elemento collegando Sanfilippo, Capogrossi e Accardi individuando a Roma come luogo privilegiato del segno della art autre35. Sanfilippo tra il ‘53 e il ‘55 è in una stagione felice che lo porta a ten-dere la sua ricerca verso l’incanto, la gioia e l’abbandono delle infinite seduzioni della pittura, secondo lui la pittura, quando libera, può arri-vare alla poesia. Il segno di questi anni non è quello successivo, aspro e spoglio, elemento presemantico, ma è segno che orna ed incanta, cerca un ritmo e l’accordo cromatico, svela uno spazio inatteso oc-cupato dalla pittura. Nel ‘55 il segno si fa più piccolo e le variazioni cromatiche diminuiscono a favore di una organizzazione più organica del segno che è sempre individuabile ma in relazione con gli altri.36

Sanfilippo scrive: “solamente ritmo senza forma del segno, che è ra-pido, non studiato, anche trascurato”. Poi: “Nel mio lavoro mi servo quasi esclusivamente di segni grafici, posti sulla superfice con molta immediatezza e rapidità e tali da formare un insieme non arbitrario o casuale ma determinato da un conseguente ragionamento formale. La forma viene così determinata dal complesso variamente raggrup-pato dei segni che nei miei quadri hanno una grande variazione, cioè non sono ripetuti o collegati ma sempre indipendenti mentre una for-za nasce dal loro complesso e vario modo di aggrupparsi. A questo, che è più o meno il carattere della struttura aggiungo di volta in volta frammenti di superfice in equilibrio con lo spazio vuoto e tali da creare un’articolazione continua dove c’è anche lo spazio”. “L’espressione per mezzo dei semplici segni posti sulla tela con immediatezza riporta la pittura agli inizi e dà ad essa un grande possibilità di sviluppo. Il segno è l’elemento essenziale dell’espressione, il primo grado della forma, l’articolazione del linguaggio. Alla base di questa ricerca vi è la volontà di scoprire una primordialità innata, necessaria. In un quadro l’imma-gine viene determinatada un complesso di articolazioni di segni legati o sovrapposti in raggruppamenti che creano spazio ed emozione. Una rappresentazione concentrata ed essenziale. Occorre però che il se-gno sia suggestivo in sé stesso e abbiauna capacità evocatrice. Si dovra dimenticare ogni altro luogo comune attraverso questo segno povero che non ha né storia né tadizione.”37 Un segno dunque che prende il ritmo dalla velocità di esecuzione, è una sorpresa la composi-zione che rivelano questi segni sono ricerca di una primordialità, verso un’emozione verso la poesia. Nel ’55 espone in una personale a Milano alla Galleria del Naviglio. Il ‘56 è un anno dove più si affranca la scelta monocromatica di Sanfi-lippo, certo dettata dall’influenza della allora moglie Carla Accardi, che lo porta a sottolineare ancora di più l’importanza del segno all’interno della sua poetica. Questi sono gli anni dove gli intenti dei due artisti più si avvicinano anche se sempre differenti (imm. 100). Il segno della Accardi è nitido ed organizzato su un punto centripeto dove i margini, meno affollati si fanno fondo. In Sanfilippo il segno è più minuto, spez-zato e disperso su tutta la tela che è piena di segni in tensione tra di

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35 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 31-32

36 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 14-19

37 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 169

Imm. 101 Carla Accardi e Antonio Sanfilippo, Roma 1952

Imm. 102 Materico su grigio, Carla Accardi 1954

Imm. 103 Catalogo della mostra personale, Milano 1955

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Imm. 104 Senza titolo, 1958

Imm. 105 Estensione, 1962

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loro. Sempre nel ’56 una personale a Firenze al palazzo Strozzi.Nel ‘57 riconquista il colore dove si afferma sempre più lo spazio ver-ticale come proprio e si riacquista una certa profondità di fondo e si sentono le influenze dell’informale rendendo le immagini più oscure e drammatiche a volte. Quest’anno espone per la prima volta all’estero nelle mostre collettive Trends in water color al Brooklyn Museum di New York, poi Mostra delle due Porte a Bruxelles e Mostra del Gran Formato a Tokyo ed Osaka in Giappone.38

“La ricerca deve essere approfondita e continua. I motivi possono es-sere sempre gli stessi ma la forma deve progredire. Si devono trala-sciare tutti gli elementi superflui e controllare l’essenzialità del linguag-gio, che deve quindi essere basato su elementi chiari”39. Nel ‘58 si trova un’altra lieve, ma significativa svolta (imm.104), il colore prende maggiore vigore e partecipa di più all’economia dei segni che, rac-colti a massa sulla superficie pittorica, creano delle entità cromatiche indipendenti seppur collegate tra loro da filamenti di tratti o di segni collocati perifericamente. Matasse arricciolate e frangiate, fatte di un segno essenziale con forte dinamicità consegnata dalla pennellata ve-loce40. La sua pittura non si adentra nelle oscurità e negli abissi, non và a cercare nella materia, anzi Sanfilippo dipinge ormai esclusivamente con tempera e acqua gommata che quindi resta impalpabili sulla tela, nessun tipo di rilievo, nessuna corporeità, niente inflessioni surreali e nostalgie primitiviste colore è luce segno è ombra la sua pittura và oltre l’informale diversa quindi da Marcarelli, Serpan, Saura, Moreni, Inoku-ma, e Sam Francis. Quell’anno espongono a Roma Pollock e Gorky. Continuano a girare le sue opere in numerose collettive in tutto il mon-do ed ha una personale in Svizzera nel ‘58 e a Londra nel ‘61.41

4.6 Gli anni ‘60“Nell’arte prevale il gioco disinteressato e spontaneo dell’immaginazio-ne e dell’intelletto”42. Nel ’60 inzia la sua attività di assistente di Capo-grossi al liceo artistico di Roma. E’ presente nel volume Morphologie autre di Tapiè. Il Quadrante di Firenze nel 1961 gli dedica un intero numero della rivista in concomitanza con una sua personale in città. E’ il ’63 quando firma insieme a un gruppo di artisti (tra i quali Consagra, Dorazio, Corpora, Novelli, Perilli, Santomaso, Scialoja, Turcato, Ac-cardi, Attardi, Leoncillo e Rotella) una lettera di protesta contro Argan e il XII Convegno Internazionale di Studi Artistici. Protestano contro la strumentalizzazione degli artisti da parte dei critici non rispettandoli come protagonisti della scena dell’arte, inoltre denunciano l’incompa-tibilità del ruolo di critico e di storico del professor Argan. Sanfilippo scriverà un articolo in merito sul giornale “Avanti!”. Nel ’64 è invitato a partecipare alla XXXII Biennale Internazionale d’arte con le opere Frammenti d’ali, Manoscritto, Estensione (imm. 105). Dopo le vacanze estive trascorse con la figlia Antonella e la moglie nel ’64 inizia la fine del matrimonio e Sanfilippo divorzierà dalla Accardi nel ’65 e di conse-

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38 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 315-318

39 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 170

40 Benedetto Patera, Sanfilippo, Palermo 1991 pp. 18-24

41 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 319-323

42 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 173

Imm. 107 Senza titolo, 1960

Imm. 106 Senza titolo, 1958

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Imm. 108 Senza titolo, 1964

Imm. 109 Senza titolo, 1965

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guenza si trasferisce da via del Babuno a via Vantaggio che rimarrà la sua ultima dimora43. Ma la carriera e la produzione non ne risenrtono, anzi la scena dell’arte degli anni ’60 lo vedono ancora più protagonista. Sempre nel ’65 partecipa alla prima mostra dedicata al gruppo Forma. Alla XXXIII Biennale Internazionale dell’Arte di Venezia gli è dedicata un intera sala nel Padiglione centrale dei Giardini che raccoglie 13 dipinti (imm. 108) ed è accompagnata dal un catalogo con i testi di Nello Ponente. Nel percorso fatto da Sanfilippo non ci sono schemi fatti a tavolino, preparati, non ci sono andamenti modulari ne geometrie occulte, non ci sono ripetizioni ostinate di un suo segno. Il segno di Sanfilippo si allunga, si allinea, si alterna, si fluidifica in tagli, pause e cesure, si concentra là dove l’intensità o un vortice lo richiede. La luce esterna alla tela è mediata da quella interna che la purifica rendendo vitale il ritmo dell’intreccio che si poggia sulla tela bianca appena pre-parata. I segni si moltiplicano e i colori variano, non sono delle scelte dettate da un rigore ma da una preferenza immediata che lo porta ad un’analisi sugli elementi semplificati del linguaggio e una rielaborazio-ne dei ricordi. Sulla scia di Klee un rendere visibile ciò che spesso non lò è, segnali di assonanza cosmica. Nel ’68 una sua opera entra a far parte della collezione della Galleria d’Arte Moderna del Comune di Roma. Tra il ‘66 e il ‘70 il suo lavoro ultimo sul segno che si fa fram-mento, la linea si fa linea-punto e questi vengono a creare un “isola” all’interno della tela, un isola mentale libera dallo spazio, questo segno si trasforma a volte in una sorta di gioco (imm. 112). Sempre più in una visione verticale e molto spesso in formati che non superano il 70x100. La sua forza emotiva non cerca la grandiosità. L’antitesi viene conside-rata un valore, e questo viene esibito spesso nelle mostre accostando dipinti che mettono in risalto il contrappunto (imm. 113, 115). L’infini-tamente grande e l’infinitamente piccolo trovano nella pittura un modo per esistere senza antinomia44. Negli appunti del ’66 però si possono già trovare i primi segnali di sconforto che imprigioneranno l’ultimo Sanfilippo: “Per gli altri ciò che conta è che ci sia un prodotto, anche se esso nasce da una falsa ispirazione, e che questo prodotto possa essere spiegato”45. Nel ‘69 i toni diventano sempre più cupi nei suoi appunti “Molti lati pratici della vita mi sfuggono. Non si deve rinunciare ai sogni, alle fantasie, ma nello stesso tempo non si può sfuggire alla realtà. Devo cercare di concentrarmi sulla vita reale. Le proprie idee si devono sostenere, si devono portare avanti. La ricerca della chiarezza deve essere continua. In caso contrario si rischia di restare a lungo infantili. Può essere così? O e solo incapacità di diventare adulti?”46. Negli anni settanta si apre un periodo difficile, un lungo periodo di fermo, che in realtà è una produzione puntualmente distrutta, e anche la presenza alle mostre si và diradando notevolmente, infatti la sua ultima personale da vivo è nel ‘71 nella galleria Editalia di Roma. Nel ‘79 Sanfilippo lavorerà su due acquaforte che mostrano ancora una vivace approccio che resteranno le ultime parole prima della morte. La sera del 27 gennaio 1980 all’uscita da un ristorante di Roma Antonio Sanfilippo viene investito da un’automobile; in un primo momento non

4 - Antonio Sanfilippo

43 Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfi-lippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 173-177

44 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 25-30

45 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 178

46 Fabrizio D’Amico, Antonio San-filippo 1923-1980, Milano 2001 pp. 180

Imm. 110 Senza titolo, 1963

Imm. 112 Nero rosso, 1967

Imm. 111 Senza titolo, 1966

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Imm. 113 Verde (prato), 1969

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sembro nulla di grave, era lucido e sereno in ospedale ma poi entrò in coma e morì dopo tre giorni. Ad aprile dello stesso anno la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma gli dedicherà un ampia retrospet-tiva commemorativa47.

4 - Antonio Sanfilippo

47 Benedetto Patera, Sanfilippo, Palermo 1991 pp. 24-29

Imm. 114 Senza titolo, 1970

Imm. 115 Senza titolo, 1971

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Imm. 116 L’uno rispetto all’altro, 1956

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5 Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura.Antonio Sanfilipo nel suo periodo di maturità artistica stabilisce un per-corso riflessivo che porterà a prendere coscienza del nulla, coscien-za della propria immaginazione e attitudine evocativa, puntando su semplicità, rapidità e interiorità (elementi fondamentali Zen) donando al segno un intensità ritmica che vuole avvicinarsi allo spirito. Tutto è naturale per Sanfilippo ed il segno sembra regolato dal battito del cuore che si divide tra emozione e meditazione. I quadri di Sanfilippo sono radiografie del pensiero che non diventa indistinto ma porta la pittura in tutta evidenza nella sua ambiguità e molteplicità di significati. La scrittura è elemento di partenza, parte del suo aperto linguaggio pittorico, della sua speculazione teorica fatta di sperimentazione e ri-cerca tenace. Nei suoi appunti del ‘62 si può leggere: “la necessità dell’ispirazione è un organismo forma, soprattutto nelle situazioni in cui la forma, pensata, viene isolata nello spazio bianco della tela e con elasticità, senza evitare allusioni vegetali, si appresta a dare energia alla superficie calamitando o emarginando o rimpicciolendo altre forme in un sistema ben organizzato”. L’intensa materia-segno-colore che và a creare l’immagine-non-immagine darà a Sanfilippo libera espansio-ne alla sua produzione, portato da un vero e proprio fuoco creativo che si divampa su centinaia di tele e carte che indagano quel sottile spazio tra scrittura e pittura, tra parola e immagine. Tra parola e arti visive, tra immagine e scrittura, esiste da sempre una reciproca forma di attrazione, benché raramente si sia cercato di fare un confronto di-retto tra i due sistemi semiotici di riferimento.48 Alla luce delle ultime teorie semiotiche che tendono a concordare ogni “cosa” in termini di “segno”, sembra lecito poter dire che tanto le discipline scientifiche si fondano proprio sull’impossibilità di una definizione univoca di “segno” e di “linguaggio”, quanto le esperienze estetiche raggiungono maggior grado d’interdisciplinarietà nel momento in cui tale definizione resta il più possibile aperta e ricca di implicazioni.49 Formalisti russi e futuristi italiani prendono per primi coscienza di una lettura e di una scrittura astratta, ma mai presa in piena considerazione.50 Ma è giusto pensare ad una stretta relazione tra linguisticità ed astrazione.Parola ed immagine appartengono a due sistemi linguistici distinti, con le proprie virtualità. La parola richiama l’immaginazione figurale e l’im-magine, a sua volta, richiama la verbalità. L’immagine traduce sempre un testo e il testo un’immagine. Anche la scrittura fa parte dell’univer-so dell’immagine e si comporta come immagine, la sua dimensione plastica e visiva ha aspetti che la rendono autonoma dalla verbalità e

48 Vincenzo Accame, Pittura come scrittura, Milano 1998 pp. 12

49 Vincenzo Accame, Pittura come scrittura, Milano 1998 pp. 16-17

50 Vincenzo Accame, Pittura come scrittura, Milano 1998 pp. 20

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Imm. 117 Senza titolo, 1956

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dalla significazione. La parte fondamentale del segno grafico appartie-ne all’immagine, così come la sostanza del significante linguistico. Ma le parole provengono sempre dallo spazio astratto della lingua però tracciata dal gesto della scrittura che si dà innanzitutto allo sguardo. La scrittura è uno dei modelli primari di rappresentazione del pensiero.51

La scrittura vuole essere direttamente per la mente e per lo sguardo, proporre il senso dei segni. Nel rituale della scrittura la mano deve es-sere tanto rapida da rendere al massimo il pensiero. Il nostro pensiero è fatto in massima parte da immagini, delle quali una produce l’altra, una sorta di stato passivo di sogno secondo William James. La co-municazione multipla e associata è uno dei principali espedienti della tecnica di segnalazione umana secondo Alfred Kallir che propone di chiamarla simballica per distinguerla dal termine simbolico. Entrambe le parole derivano dal greco symballein che vuol dire gettare insie-me. Questa idea è alla base del rapporto di comunicazione associata audiovisiva per una psicogenesi dell’alfabeto. Sempre secondo Kallir esisteva una non documentata lingua primordiale comune a tutti gli uomini. Questo dipende in parte dal valutare quale sia lo stadio della testimonianza visiva del pensiero umano ritenuto effettivamente il pri-mo stadio di scrittura. Il sistema scrittorio egiziano univa un sistema fonetico a quello pittografico, questo ha senza dubbio influenzato la creazione dell’antico alfabeto semitico e in seguito quello greco an-che se di derivazione fenicia. L’arte greca antica mostra distintamente l’influenza egiziana e la scrittura considerata per loro arte non poteva essere di meno. Oltre al carattere artistico bisogna aggiungere il va-lore magico che era presente nei tempi antichi in ogni manifestazione umana. Sia nell’alfabeto, sia nell’arte, sia nella magia la forza motrice consisteva nella coincidenza di tratti caratteristici. Centinaia di milioni di persone hanno usato lo stesso alfabeto con i caratteri greci e latini negli ultimi 3000 anni, e le loro menti hanno subito gli effetti degli ele-menti archetipici di questi simboli. 52 La scrittura nasce nel momento in cui l’essere umano diventa seden-tario. L’ancoraggio ad uno spazio determinato influisce sulla comparsa di una prassi determinata in ralazione al tempo, in quanto si scrive per fissare qualcosa pensando nel futuro, e si legge per recuperare ciò che in qualche tempo venne fissato dalla scrittura, dal segno.53

La scrittura alfabetica è anche la più muta, la più astratta, poiché non dice immediatamente alcuna lingua, ma estranea alla voce, la rappre-senta al meglio. 54

Quello di Sanfilippo è un tentativo di riorganizzazione, una reinvenzione del sistema comunicativo a fronteggiare un mondo e un uomo ormai cambiato.

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51 Filiberto Menna, Pittura-scrittu-ra-pittura, Milano 1988 pp. 21

52 Alfred kallir, Segno e disegno psicogenesi dell’alfabeto, Milano 1994 pp 13-31

53 Bagetto Luca, Leveque Jean-Claude, Immagine e scrittura, Roma 2009 pp 48

54 Filiberto Menna, Pittura-scrittu-ra-pittura, Milano 1988 pp. 22

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Imm. 118 Rete complicata, 1957

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5.2 Segno e senso.Ogni metafisica, ogni posizione iniziale di senso e quindi ogni vita, in-clude una teoria dei segni, dell’iscrizione, compreso il formalismo che può ridurre l’espressione corretta ad un insieme di regole autore-ferenziali o autofondate mediante definizioni, regole di formazione e regole di trasformazione. I concetti non si esauriscono, il loro senso, all’interno di una sola tradizione linguistica o filosofica. 55

Se la pratica artistica è l’espressione materializzata di un individuo e della sua esistenza, la scrittura è anche una sismografia in cui si espli-ca la dialettica tra io e inconscio, in uno slancio regressivo capace di riguadagnare le fonti originarie del comportamento estetico, di recupe-rare la presenza del soggetto, di formulare una parola autentica ed in-teriore che sia evento, epifania e messa in questione della soggettività. A causa della diffusione e monopolizzazione della scrittura a mediazio-ne tecnologica, che rimane strettamente riproduttiva ed impersonale, nella cultura occidentale la scrittura si è allontanata dal soggetto per carenza di pulsione, soprattutto per la rimozione e il declino della scrit-tura manuale e del suo gesto di deposizione del segno. La scrittura non solo è stata il medium comunicativo più diffuso fino all’avvento della televisione, ma resta ancora il punto di riferimento quasi esclusivo della conoscenza, il referente più massiccio dell’inconscio. La psico-analisi, nelle sue varie scuole, ha insegnato che i processi creativi, l’immaginario, sono prodotti dai meccanismi associativi dell’Es, dell’in-conscio, la scrittura quindi è strettamente associabile come la fonte del sapere. 56

L’opera di Sanfilippo e dell’arte contemporanea recupera la manualità, il segno grafico, ritenendolo capace di registrare moti vitali, di dar con-to di una partecipazione diretta, fisica e intima insieme. Offre insieme il massimo di soggettività e di pienezza espressiva in quanto traccia. Segno gesto primigenio della rivelazione del corpo fuori di sé. Segnifi-cazione della propria identità.

5.3 Visualizzare tutto a tutti i costiMarc Tobey: “il nostro campo non è tanto quello nazionale o regionale quanto la piena coscienza di tutta la terra. Lo spirito del nostro tempo è universalistico e tutti gli elementi significativi di questa epoca addi-tano la necessità di universalizzare la consapevolezza e la coscienza dell’uomo. Da questa coscienza dipende il nostro avvenire, la nostra unica possibilità di salvarci da un’età di oscurantismo universale”. 57

La poesia, più volte associata al lavoro di Antonio Sanfilippo, ha il suo originario significato etimologico in poiesi, vale a dire quell’agire al di fuori di ogni tradizionale delimitazione di genere. Nell’ambito della scrittura la poesia è sempre stata il luogo specifico dell’ambiguità. In essa la parola tende ad esprimere l’inesprimibile, a racchiudere più significati, a farsi polisemica. La visualità sposta l’ac-

5 - Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura.

55 Bagetto Luca, Leveque Jean-Claude, Immagine e scrittura, Roma 2009 pp 106-109

56 Vincenzo Accame, Pittura come scrittura, Milano 1998 pp. 26

57 Giuseppe Apella, Fabrizio D’Amico, Antonio Sanfilippo, Roma 2007 pp. 18

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Imm. 119 Zona Bianca, 1961

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cento sul significante. Grazie alla frammentazione cade ogni residua illusione di poter fruire univocamente e totalmente un prodotto poetico autentico.L’attitudine simbolizzante è la forza dell’immaginazione propria dell’uo-mo e il valore di possibilizzazione è d’invenzione propria dell’arte.Le vicende dei movimenti di avanguardia dei primi decenni del secolo scorso misero a confronto l’attività e la produzione di poeti, scrittori e artisti visivi, col risultato di accelerare la dissoluzione della specificità tradizionalmente attribuita alle rispettive sfere d’intervento. E’ da ricor-dare che nel percorso culturale orientale questa divisione non esiste. I grandi letterati e poeti cinesi del XII e XIII secolo sono tutti impegnati ad una rinascita e rivalutazione della pittura, realizzando capolavori in prima persona, con un elaborazione del segno, della scrittura icono-grafica e dell’esaltazione della potenza simbolizzante del segno in am-bito pittorico. Tramite l’interpretazione la vita conosce se stessa. La scrittura è il me-dium che assicura la formazione di una tale sostanzialità attraverso la tradizionalizzazione dei significati che vi si depositano.58

Ma quando ella è emanazione del pensiero plastico e visivo rifiuta le norme funzionali e le referenzialità del linguaggio verbale, la scrittura, in quanto medium visivo ed entità iconica, entra in concorrenza con tutti gli altri tipi di segni che ne derivano direttamente, riuscendo a confon-dersi tra di essi a pieno diritto.59

Segno traccia dell’uomo, oggettiva e non finalizzata, verità dell’essere senza ragioni se non quella della vita che deve vivere. Traccia, segno e poesia come spazio e inutilità a fronte dell’utilitarismo strumentale.Cogito ergo sum. Di fronte a una scrittura incomprensibile, di cui si è perso il significato oggettuale quel che ancora resta è il sum da cui essa proviene, il suo essere traccia di un’esistenza. Essa diventa im-magine non di oggetti o di cose, non una rappresentazione ma opera-zioni soggettive. Scrittura come registrazione di queste operazioni che sottendono ogni descrivibilità di oggetti. L’elemento grafico non “sta per” un oggetto nel mondo, ma rende visibile un evento del mondo, uscendo così dall’ambito della significazione oggettuale, non evento che è registrato.60

Esistere è la possibilità di trascendere la pura attualità, di andare al di là, di scoprire delle possibilità, di aprire il dato nella direzione del non dato, di porre domande. In virtù di questo l’esserci è la capacità di leggere, capacità di trovare senso al di là di ciò che è percepito, come ad esempio una scrittura. Traccia di un’esistenza capace di produrre senso.Una scrittura è qualcosa che chiede di essere compreso, e in quanto tale contiene il rimando ad un’intelligenza, e dunque ad un esserci. Esserci come ente che comprende. Si può anche parlare di rappre-sentazione transitiva che gli stoici intendevano come ciò che distingue gli uomini dagli animali, ciòè le possibilità del segno, di stabilire un nesso con qualcosa che trascende il dato immediato di esso e quindi dal segno transita. Stabilendo questi nessi l’intelligenza costruisce un

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58 Bagetto Luca, Leveque Jean-Claude, Immagine e scrittura, Roma 2009 pp 112

59 Filiberto Menna, Pittura-scrittu-ra-pittura, Milano 1988 pp. 22

60 Bagetto Luca, Leveque Jean-Claude, Immagine e scrittura, Roma 2009 pp 49

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Imm. 120 Bianco ocra, 1964

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mondo, uomo come formatore di un mondo. Se è vero che il mondo non è scritto dall’uomo, è però vero che solo per l’uomo esso può essere scrittura, e può essere pittura. 61

Il segno di Sanfilippo si fa rivelatore non solo del carattere visivo della parola scritta, ma anche degli aspetti inconsci propri della scrittura manuale. L’opera visiva finale, quindi, non è che il risultato ultimo di questo processo di frammentazione che pensiero e mano traducono in segno grafico e che ricava autonomia proprio nei tempi del pensare e del dipingere. I segni sono la traduzione di frammenti di memoria, i quali vanno ad evocare il proprio deposito memoriale. Il segno di San-filippo è concentrativo ma semplice, elementare, come semplice ed elementare è di per sé il segno grafico della matita nera fatta scorrere sulla carta bianca. Di fronte al bianco della carta e al nero della matita, la mano e la mente sono costrette a una invenzione diretta, continua, assoluta. Schegge di segno, parti di senso, tracce di pensiero s’im-padroniscono del bianco della tela, percepito come spazio assoluto, bianco assoluto, territorio astratto. Visualizzare tutto a tutti i costi. I codici della spazializzazione insieme con quelli cromatici, vengono uti-lizzati in tutte le loro potenzialità.Il segno è comunque gesto, traccia grafica che si carica di simbolicità aumentando la sua numericità proponendosi come serie, segno seria-le, che non è verbale in mancanza di un alfabeto. Ma questi segni or-ganizzati sistematicamente sembrano organizzati in un ordine preciso, a creare appunto un alfabeto nuovo o non verbale. Fusione reciproca di due codici: quello del presente accumulato e quello del subliminale stratificato. In ogni istante il caos continua ad agire nel nostro spirito, concetti, immagini e sentimenti vi vengono giustapposti fortuitamente, gettati alla rinfusa e in tal modo si creano accostamenti che stupisco-no lo spirito. La frammentazione, tipica del pensiero, vorrebbe tradursi immediatamente, senza riuscirvi, nel segno. Scrittura e segno hanno tradizionalmente una notevole differenza. Scrivere è tracciare su una superfice i segni convenzionali di una lingua, relativi ai segni vocali e consonantici che formano le parole in modo che possano esse-re lette. Segnare è notare, distinguere con un segno, individuare con una traccia. Materiale verbale e grafico coesistono nella registrazione verbo-iconica, ovvero nei rimandi che l’immagine nella sua forma invia al senso della parola. Scrivere una parola è esteriorizzare visivamente un concetto. Scrivere è perciò anche tradurre graficamente una parola in immagine visiva. È il pensiero il segno primario della mente, mentre le parole, le immagini o il suono rappresentano solo la sua manifesta-zione esterna di secondo grado, realizzata secondo la cultura specifica di ognuno. Quella di Sanfilippo è una soluzione combinatoria che vede una matri-ce capogrossiana connettersi con un segno assai meno formalizzato di derivazione informale. Per moto germinale tale segno si indirizza verso il dissipamento quasi volesse indicare una parola esistenziale, nello stesso tempo sente di doversi condensare sulla superfice ma resta comunque un segno fluttuante che rifiuta la forza di gravità. La sua tes-

5 - Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura.

61 Bagetto Luca, Leveque Jean-Claude, Immagine e scrittura, Roma 2009 pp 114-119

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Imm. 121 Senza titolo, 1966

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situra è a volte pulviscolare o vive nel caos genetico ma nel contempo trova un suo significato profondo nell’allusione organicistica, è quindi un segno duttile ed epifanico.62

Un segno che denuncia l’inadeguatezza e l’incompletezza espressiva degli strumenti linguistici canonizzati, sempre memore del nonsenso e dell’automatismo dell’avanguardia storica, ma al tempo stesso indi-rizzato a una sorta di informalizzazione del segno.Il segno canonizzato è ridotto a segnale. Nel senso che ormai nella prassi, la repressione comunicativa ha ormai ridotto il segno, non più una complessa struttura convenzionale ma una impositiva sintesi se-gnaletica. Il potere lancia un segnale che astutamente chiama comuni-cazione e tutti reagiscono adeguatamente. La cultura segnica è ridotta a segnaletica incultura. 63

Denunciando il fonocentrismo che assegna alla traccia grafica il ruo-lo di significante di un significato, contestando il principio economico della lingua, frapponendo tutta una serie di impedimenti alla transitività e alla trasparenza del linguaggio comune. Il gesto e il segno rivendi-cano un propria autonomia, un prorpio spessore materiale, così come la linea si era liberata dalla schiavitù della rappresentazione affrancan-dosi, come aveva ben capito Kandinsky dal fine disegnare una cosa e fungendo essa stessa da cosa.Il segno può seguire un duplice percorso, da una parte s’immerge nel dominio dell’indistinzione , dell’eterogenia condividendo quindi il desti-no del linguaggio pittorico quindi polisemico e apertamente ambiguo. Dall’altra parte c’è un segno che tende alla scrittura quindi ad un più marcato senso comunicativo proprio della scrittura, questo però non fa abbandonare il segno il campo della figura per quello del testo.Sanfilippo avvia un articolata e complessa strutturazione di segni che si moltiplicano e che si diffondono in tutte le direzioni quali significanti puri di una pratica pittorica che tende alla scrittura. Negli anni settanta troviamo poi con le opere di Mussio, Baruchello, Accame, Carrega e Oberto un affermarsi, un primeggiare della scrit-tura che non si perde nella pittura ma e compresente nelle loro opere. Una pittura che esalta la scrittura e viceversa. Ma nel lavoro di Sanfilippo, nel lavoro tra segno e scrittura, si percepi-sce una scrittura al di là di se stessa, in cerca di un raggiungimento di quella parte espressiva del significante grafico che determina il signifi-cato pittorico, un codice culturale in senso più ampio. Questo è ovvia-mente gestito non con una rigida logica ma con un percorso analogico ed epifanico, come verso un polo di attrazione. Questo tipo di lavoro rifiuta ogni rapporto gerarchico tra segno pittorico e affermazione ver-bale sostenendo la coincidenza e l’interazione tra pensiero e gesto. Biograficamente il lavoro di Antonio Sanfilippo si interrompe negli anni ’70 proprio quando la scrittura murale entra a far parte come dato costante e quasi intrinseco del paesaggio urbano. Sembra quasi che quella scrittura si fosse spostata dalla superficie pittorica per collocar-si nel suo luogo naturale.Quello che succede nei quadri di Sanfilippo è simile a ciò che avviene

5 - Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura.

62 Filiberto Menna, Pittura-scrittura-pittura, Milano 1988 pp. 17

63 Vincenzo Accame, Pittura come scrittura, Milano 1998 pp. 103

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Imm. 122 Grigio, 1969

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nel mondo della fisica, dove gli atomi, le molecole, i cristalli generano dalla loro energia un nuovo corpo. Così i suoi segni una volta aggregati creano immagini dalle quali sprigiona un energia satura di altri signifi-cati. Il segno assune la configurazione di segno-idea portatore di una po-etica. Vaglia gli stilemi alfabetici per rintracciare le risonanze archetipiche. Un’idea di segno più articolata, pur mantenendo una connotazione gra-fico-pittorica si rende membra più capace di dialogare con le proposte avanzate dalla sponda della scienza a quella della poesia. Semiotica, linguistica e ricerche poetico-visuali dovrebbero integrarsi con la pittu-ra e magari con altre discipline in un unico discorso creativo. Sembra non avere un fulcro centrale ma essere unico, di volta in volta suggerito dalla superficie della tela, un linguaggio in via di formazione. Alla fine il segno si fa nitido, senza interruzione tra mente, mano, pennello e tela.

5 - Sanfilippo. Segno, scrittura e pittura.

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA Milano

Dipartimento Arti VisiveCorso di Pittura

ANTONIO SANFILIPPO. SEGNO, SCRITTURA E PITTURA.

Anno accademico 2008-2009

Relatore Prof. Giovanni IovaneDocente d’iindirizzo / Coordinatore Prof. Ignazio Gadaleta

Michelangelo Marra Matricola n. 26075