Antonio Moresco - Zingari_di_merda

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    Zingari di merda

    Antonio Moresco

    Partiamo per la Romania con una vecchia

    Bmw dalla fiancata sfondata, di uno degli zin-gari sgomberati dalla Snia, di nome Dumitru,che ci far da guida e da interprete. Vogliamoandare a vedere coi nostri occhi da dove si met-te in movimento tutta questa disperazione, lo-rigine di questa ferita.

    Il bagagliaio gi pieno. Butto lo zaino sulsedile di dietro, ingombro di molte altre cose.Mi siedo nello spazio libero che c a fianco.Giovanni seduto davanti. Dumitru al postodi guida.

    Si balla! dice, ingranando la marcia.Ieri c stato il blocco dei camion e non si tro-

    va benzina ai distributori. La macchina in ri-serva e per di pi non sappiamo con precisionequanta ne resta, perch la lancetta rotta. Pas-

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    siamo davanti a diversi distributori chiusi, coni cartelli di Esaurito. Continuiamo ad andareavanti, a costo di rimanere bloccati alliniziodel viaggio. Anche sulla tangenziale i distribu-tori sono a secco. Finalmente, quando non cisperiamo pi, ne troviamo uno aperto. Una filainterminabile di macchine, che comincia primadellarea di servizio. C il rischio che prima an-cora di arrivare al distributore la benzina fini-

    sca, e che anche il nostro viaggio finisca. Inve-ce, dopo mezzora di fila, riusciamo a riempiredi gasolio il serbatoio.

    Ripartiamo. Abbiamo carburante sufficienteper uscire dallItalia. Adesso siamo propriopartiti, siamo davvero in viaggio. Dumitru gui-da bene, con sicurezza. uno abituato ai lun-ghi viaggi attraverso lEuropa, gli spostamenti

    enormi, erede degli antichi zingari migratoriche si sono spostati per secoli attraverso lAsiae lEuropa, a piedi, sui carri trainati dagli ani-mali, adesso con questi nuovi mezzi meccanicisemoventi che sono stati chiamati automobili.Dopo lo sgombero della Snia, finito alla ca-scina Gandina, stretta dassedio dagli abitantidel paese vicino, con alla testa il loro sindaco.

    Per giorni e giorni slogan da Ku Klux Klan,mattoni tirati dentro le finestre, gomme delleauto tagliate. un uomo robusto, tarchiato, ditrentasei anni, padre di sei figli, con una bellafaccia indoeuropea, intelligente, ma anche cu-pa, selvaggia. La macchina su cui stiamo viag-giando ha una storia. Quando Dumitru era ac-campato con la famiglia dentro la Snia, in una

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    baracchina di cartone in mezzo alle macerie,agli escrementi e ai topi, su alcuni giornali lo-cali avevano preso a pretesto proprio questamacchina per dire che gli zingari sono ricchi,girano in Bmw. In realt una vecchia carriolacomperata da Dumitru per 750 euro, quandoaveva gi fatto 350.000 chilometri.

    C uno scambio di telefonate sul cellulare diGiovanni, con alcuni parenti di Dumitru che

    stanno a Pavia, per capire se meglio passaredallAustria e dallUngheria oppure dalla exJugoslavia. Anche se pi lunga, Dumitru pre-ferirebbe la prima strada, noi la seconda. Allafine scegliamo la seconda.

    Nella piazzola di unarea di servizio, dove cifermiamo a bere un caff, c una corriera insosta, diretta in Romania. Uno di quei lunghi

    viaggi ramificati, con partenze fin dalle pi lon-tane regioni dItalia, di quaranta ore e anchepi, organizzati anche da piccole compagnieprivate che raccolgono il fiume di queste massedi donne e uomini che si spostano attraversolEuropa. Nei mesi scorsi uno di questi pullmanpassava regolarmente a prendere gente persinotra le macerie della Snia.

    I viaggiatori si stanno affrettando a salire, perriprendere il viaggio. Sono vestiti miseramente,hanno facce da poveri. Dumitru li osserva, ri-conosce in mezzo a loro anche diversi zingari.

    Zingari di merda! dice ridendo. un epiteto che ha sentito gridare mille volte

    contro di lui, la sua famiglia e gli altri zingari,durante gli anni in cui ha vissuto in Italia,

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    mentre erano assediati alla cascina Gandina, eora usa divertito questa stessa espressione conun senso di appartenenza e di orgoglio. Dumi-tru vive in Italia da undici anni. Prima stava aMilano, al Triboniano, nel campo vicino al Ci-mitero Maggiore, ma poi andato via perch -cos dice- l tirava una brutta aria, erano trop-po cattivi, se stavi l dovevi per forza adeguartise no erano guai. Prostituzione, spaccio... Ma

    io non ero venuto in Italia per mettere le ragaz-ze in strada. Se volevo fare quello non venivo inItalia con la famiglia. Allora finito nei ruderidella Snia. uno dei primi a essersi accampatol, allora cerano ancora i marocchini, poi sonoarrivati gli zingari, ma anche rumeni poveridelle ultime ondate migratorie. Sua moglie va achiedere lelemosina, lui ha fatto il manovale

    nelledilizia, il mungitore. Sono un bravomungitore ci tiene a dire. Mentre la macchinasi avvicina alla frontiera con la Slovenia, ci rac-conta che ha appena comperato in Romania,da un altro zingaro, una moglie per suo figlio diquattordici anni. Ha dato al padre della ragazzatremila euro. Ma allinizio quello ne voleva die-cimila. Io gli ho detto vaffanculo! O tremila o

    niente! E quello si preso i tremila.Anche tu venderai tua figlia, quando sar ilmomento? gli chiede Giovanni.

    Oh gi quasi il momento!Ma ancora una bambina!Tempo un anno o due, gi via. Ci sono gi

    un po di cani che le girano attorno Da noiquando la madre ha insegnato a fare da man-

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    giare a una bambina, carne di pecora, salsicce,polenta gi pronta per sposarsi.

    E allora la venderai?No, si sposer con chi vuole, zingaro, italia-

    no, bulgaro, turco, chi se ne frega, basta chepiaccia a lei.

    Giovanni mi aveva gi parlato di queste cosee di certi duri metodi educativi che aveva vistoalla Snia. Una volta, entrando nella sua barac-

    china, aveva visto che Dumitru aveva legato lemani dietro la schiena alla sua bambina pigrande, quella di cui stiamo parlando, comepunizione per avere scottato con la cera roven-te di una candela la sorellina pi piccola. Gio- vanni si era incazzato. Ma lo sai che cosa hafatto? si era giustificato Dumitru. E gli avevaraccontato quello che era successo poco prima

    nella loro baracca di cartone.Continuiamo a parlare di queste cose. Dumi-tru ci racconta una cosa accaduta dalle sue par-ti. Cera una ragazza, la pi bella del suo paese.Il padre ne era molto geloso, voleva che spo-sasse uno molto ricco, che la pagasse molto.Per questo non la faceva mai uscire di casa, perpaura che vedesse qualche ragazzo povero e se

    ne innamorasse. Per qualche volta dovevamandarla per forza a un pozzo vicino per pren-dere lacqua. Era bastato questo piccolo tragit-to perch lei vedesse da lontano un ragazzo e sene innamorasse. Quando il padre venuto asaperlo, si infuriato, si rifiutato di dare suafiglia in moglie a quel ragazzo, perch era po-vero. I fratelli della ragazza hanno preso le di-

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    fese della sorella, hanno litigato col padre e lohanno picchiato. Ma quello non ha ceduto. An-zi, ha alzato il prezzo. Ha portato la figlia instrada, ha radunato tutti gli zingari che viveva-no l e ha detto: Chi la vuole, dovr pagarlamille euro al chilo!

    Dumitru mette una cassetta con la sua musi-ca. Andiamo per un po senza parlare, mentrec questa voce piena di gorgheggi e di pathos

    che continua ipnoticamente a cantare al ritmodi una musica balcanica e un po orientale.

    Che cosa dice? gli chiedo.Lui traduce: Tu eri un amico e mi hai tradi-

    to. Io non posso vivere senza di leiComincia unaltra canzone.E questa?Ho sbagliato, perdonami, dammi unaltra

    possibilit. Io non posso vivere senza di teUsciamo dallItalia, ma a Trieste sbagliamostrada. Rasentiamo un paio di volte il porto.Poi troviamo finalmente la strada giusta. Ades-so siamo in Slovenia. una giornata grigia,piovosa. Nuvole e fumo nascondono le cime deiboschi di pini e abeti. Ci fermiamo in unarea diservizio. Dopo avere fatto rifornimento, Dumi-

    tru si procura una spazzola e un secchio conlacqua. Dalla velocit e dallabilit con cui pu-lisce il parabrezza si capisce che ha fatto ancheil lavavetri. Ripartiamo. Oltrepassiamo Zaga-bria, Zagreb. Case con i tetti un po pi a punta.Fumo che esce dai camini. La giornata sem-pre fredda, piovosa. Siamo in dicembre, sonosolo le quattro del pomeriggio ma sta gi co-

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    minciando a diventare buio. Passano dalle par-ti piccoli paesi e chiesine coi campanili dallelunghe punte nere, di metallo. Ragioniamo unpo sul da farsi. Se meglio fermarsi da qualcheparte per la notte o se ce la facciamo a fareununica tirata fino in Romania. Dumitru nonvorrebbe fermarsi a dormire. Non vorrebbe u-scire dallautostrada per passare la notte inqualche piccolo centro della Croazia o della

    Serbia. La mattina dopo troviamo la macchinasmontata, senza le gomme. Cominciano a pas-sare dalle parti anche campanili dalle cupolerotonde, a cipolla, delle chiesine ortodosse.Dumitru continua a macinare strada. Vive co-me un affronto personale quando qualcuno glifa segno con gli abbaglianti di farsi da parte.Zingaro di merda! lo insulta, quando laltro lo

    ha sorpassato. Oppure borbotta tra s: Grazie,grazie! Prego! come se laltro avesse dovutoringraziarlo personalmente per avergli permes-so di superare, e fosse stata una scortesia nonaverlo fatto, su cui lui magnanimamente pas-sava sopra.

    Sono bravo a guidare? domanda.Accidenti! gli dico Alla fine di questo viag-

    gio il tuo nuovo soprannome sar Schuma-cher!Perch so che anche lui, come gli altri zingari,

    ha un soprannome.Lui ride.Sta venendo sempre pi buio. Vedo ogni tan-

    to i miei soliti lampi bianchi, per la caduta delcorpo vitreo in corso nellocchio sinistro, che

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    questa volta sta andando avanti da mesi. Ho ipiedi gelati. Mi tolgo di tanto in tanto le scarpe,metto tutti e due i piedi sul sedile e me li mas-saggio. La voce intanto continua a cantare.

    E adesso che cosa dice?Te ne sei andata con il mio amore. Ti prego,

    ritornaOrmai buio pesto. Un tunnel nero che ci

    porter fino a Belgrado. Sui vetri passano ogni

    tanto dei riflessi di luce e io mi sorprendo apensare cosa avrebbero fantasticato le antichepopolazioni di queste terre se per pochi istantiavessero potuto vedere con i loro occhi di allo-ra esattamente quello che sto vedendo io ades-so. Sta venendo tardi. Non ce la faremo ad ar-rivare in Romania senza fermarci da qualcheparte per dormire. Decidiamo che faremo una

    sosta a Belgrado. Viaggiamo ancora un po,mentre quelle voci continuano a cantare nel buio. Passano poche macchine, facciamo lun-ghi tratti nel buio profondo. Ci fermiamo inunarea di servizio. Mi guardo attorno nellapiazzola semideserta. Qualche macchina in so-sta, la successione dei distributori di benzina egasolio. Qualche testa duomo dietro i vetri del

    bar, in una nuvola di fumo, perch qui nonsembra esserci il divieto di fumare nei luoghipubblici. Un uomo con la barba e il cappello dilana calato sugli occhi identico a una sculturaromana, una testa barbuta di barbaro daco, cheho visto prima di partire. Mi continuo a guar-dare attorno, nella piazzola autostradale deser-ta nel cuore dei Balcani. Mi domando ancora

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    lontani dal confine con la Serbia. Ad un tratto,senza dare nessuna spiegazione, Dumitru siblocca. Accosta al buio. Salta gi dalla macchi-na. Spalanca il cofano. Si tuffa dentro con la te-sta. Esce fumo. Scendiamo anche noi. partitala cinghia. Ci guardiamo attorno nel buio. Nonpassano macchine. Buio pesto. Non sappiamodove siamo di preciso perch non ci sono car-telli stradali. Non sappiamo cosa fare, chi

    chiamare, non conosciamo la lingua. Adessoche cosa facciamo? Daccordo, passeremo unalunga notte al gelo. Ma poi, anche domani, checosa faremo? Saremo al punto di prima, nonsappiamo dove siamo, non abbiamo numeri deltelefono, non conosciamo la lingua Per di pila zona pericolosa, ci dice Dumitru, che la co-nosce. Ci sono molte rapine. Anche i poliziotti

    fanno rapine. Di qui passata la guerra, c unsacco di gente che ha saltato il fosso. Hannoassaggiato e praticato la violenza, hanno visto opreso parte ai rastrellamenti, agli stupri, alleesecuzioni sommarie, alla pulizia etnica, dauna parte e dallaltra, dopo non sei pi lo stes-so. Hanno in casa le armi, sono abituati ad u-sarle.

    Stiamo fermi al buio, non passano macchine,non si sa cosa fare. Qualche minuto dopo, ina-spettatamente, sbucata allimprovviso da chis-s dove, una macchina si ferma davanti allanostra, irreale. Parcheggia sulla corsia demer-genza. Chi ci sar sopra? Gente pietosa che si fermata scorgendo una macchina ferma al buiooppure qualcuno che batte quel tratto di strada

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    in cerca di preda? C sopra un uomo, da solo.Cerchiamo di farci capire a gesti. Luomochiama qualcuno col cellulare. Ci guardiamo infaccia. Aspettiamo. Dopo un po arriva unaltramacchina. Si mette dietro la nostra. Adesso lemacchine sono due, una davanti e una dietro.Dalla seconda macchina scendono altri dueuomini, pi un bambino con un cappello di pe-lo dagli alettoni abbassati. Avviene tutto in

    modo fulmineo, inaspettato, irreale. Lungo lastrada non passano macchine. Non c una solaluce, un lampione. Non capiamo una parola diquello che dicono intorno a noi. Uno di loroparla anche il tedesco. Giovanni prova a chia-mare col cellulare Anna Ruchat, che vive a Pa-via. Per fortuna la trova. Lei scambia due paro-le in tedesco con luomo, che sostiene di essere

    un meccanico e che ci propone di trainare lamacchina fuori dallautostrada, dove ci sarebbela sua officina.

    Non abbiamo scelta. Dumitru cerca il cavoper il traino nel bagagliaio. Non si trova. Poisalta fuori. Aggancia la macchina a quella da-vanti, che comincia a trainarci. Andiamo avanticos per una quindicina di chilometri, piano

    piano perch il cavo non si allenti e non sispezzi nella ripresa. Sempre una macchina da-vanti e una di dietro. Non si arriva mai. Primadel casello gli uomini delle due macchine cichiedono a gesti di staccare il cavo e di cercaredi uscire dallautostrada con il nostro motore.Lo facciamo, sperando che regga, che non vadain ebollizione. Loro escono per conto proprio,

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    andare a cercarla da qualche parte. Rimaniamoin attesa. Ritorner con la cinghia? Oppure as-sieme a qualcun altro? Aspettiamo, aspettiamo.Torna dopo quasi unora. Da solo. E ha anchela cinghia. Ce la cambia. Non ci rapina, si limi-ta a chiederci una cifra che lo sistemer peruna settimana, in quella sua piccola officina balcanica dove sono finiti per caso, di notte,due italiani e uno zingaro con la sua limousine

    in panne. Quando sente la cifra, Dumitru diceche lui se lo mangia. Scherziamo un po sul fat-to che, a questo punto, siamo noi a saltargliaddosso e a fargli la festa, tanto quello non ca-pisce una parola di quello che diciamo. Poi glidiamo i soldi. Eravamo in una situazione senzavie duscita. E stata una soluzione inaspettata emiracolosa, non ci poteva andare meglio.

    Ci rimettiamo in macchina. Usciamo da quel-la rete di stradine buie e di curve. Ritroviamolautostrada. Abbiamo perso solo poco pi didue ore. Il confine con la Serbia a poca di-stanza. I doganieri ci guardano storto, un uomo biondo e rasato con il colbacco e una donnadiafana e coi capelli tinti violentemente di ros-so, in divisa, che sembra una guardia di fron-

    tiera dei vecchi film sulla Germania dellEst.Siccome vedono che Dumitru uno zingaro, ciguardano con disprezzo, controllano che lamacchina non sia rubata, gli chiedono la cartaverde.

    Riprendiamo il viaggio. Si parla un po, con-tinuando a correre al buio, senza vedere nientedalle parti. Io guardo fuori. Giovanni sta par-

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    lando con Dumitru della Snia. Cera uno zinga-ro figlio di puttana che pretendeva di far paga-re duecento euro ai nuovi arrivati per farli en-trare in quellinferno e dargli una baracchinagi pronta, che pretendeva addirittura di farpagare un pedaggio a chi passava di fronte allasua baracchina.

    E cera chi pagava? domanda Giovanni.Certo, cera chi aveva paura e pagava.

    Anche tu pagavi?A me non ha neanche avuto il coraggio di

    chiederlo, perch se no lo mangiavo.E cerano anche ragazzi che battevano, pedo-

    fili pavesi che si aggiravano in piena notte inmezzo ai topi, alle macerie, alla merda. Io ave-vo conosciuto molti anni prima quel posto. Al-lora era la seconda fabbrica di Pavia, e io ho

    vissuto per alcuni anni in quella citt, mandatol dal mio gruppo rivoluzionario. Andavo da-vanti a quella stessa fabbrica a fare lavoro poli-tico, a organizzare scioperi, lotte, a distribuirevolantini, giornali, a fare comizi. Le operaie miparlavano del lavoro che si svolgeva allinterno,dei veleni chimici, della difficolt di lavorarecon le mani i fili della viscosa. Fino a pochi an-

    ni fa rimasta, su un muro vicino allentratadella fabbrica, molto sbiadita ma ancora rico-noscibile, una scritta contro i licenziamenti cheavevo tracciato io stesso, quasi quarantanniprima, una notte, con la vernice e il pennello.Allora andavo ogni giorno davanti alla sua fac-ciata e la conoscevo attraverso gli uomini e ledonne che ci lavoravano dentro e che uscivano

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    a fine turno dalle sue portinerie. Adesso, inunet diversa della mia vita, penetravoallincontrario dentro le sue viscere dove vive-vano accampati, al posto degli operai di allora,i miserabili di questa nuova epoca, quelli e-spunti da tutte le previsioni e teorie novecente-sche sulle future e universali omologazioni eche invece sono riapparsi in massa con le loroantiche facce, la loro disperazione e la loro

    puzza, gettati a riva da sistemi economici e po-litici esplosi, dalle nuove derive economicheche abbiamo sotto gli occhi oggi e che, comequelle di allora, immaginano se stesse come in-superabili, eterne, nei nuovi turbini che tra-sportano qua e l le masse viventi.

    La prima volta che sono andato alla Snia di-roccata e occupata da quella massa di zingari,

    rumeni poveri e nuovi migranti, la notte primaera scoppiata una lotta feroce perch cera unaragazza zingara che non voleva fare la puttana,mentre il suo fidanzato zingaro la voleva met-tere sulla strada. Cera un uomo con la testarotta e un braccio tagliato. Erano arrivati l du-rante la notte, il fidanzato con la sua banda,armati di spranghe e coltelli, per riprendersi la

    ragazza, difesa con le unghie e coi denti daisuoi parenti. Cera stata una lotta furibonda inmezzo a quelle macerie, nel buio. Tutti queicorpi che combattevano nelloscurit pi pro-fonda contro altri corpi per difendere un altrocorpo. Alla fine erano riusciti a impedire che laragazza venisse portata via, ma i difensori era-no rimasti a terra sanguinanti. Luomo che ve-

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    devo aveva la testa rotta, piena di croste disangue nero ormai coagulato, il braccio tuttotagliato perch aveva cercato di ripararsi conquello dalle coltellate. Giovanni lo aveva porta-to in macchina a casa sua, per farlo medicaredalla sua ex moglie, che fa linfermiera. Quan-do siamo risaliti in macchina per ritornare allaSnia, luomo si messo improvvisamente a gri-dare qualcosa come: Pnie! Pnie! Non capi-

    vamo cosa stesse dicendo. Poi Giovanni hapensato che forse voleva dire Pane nella sualingua. andato da un fornaio l vicino. tor-nato con un sacchetto. Siccome una personabuona, ci aveva fatto mettere dentro anche al-cune uova.

    Perch ci sono differenze profonde anche tragli zingari, non sono tutti uguali, come vengo-

    no dipinti da una parte e dallaltra. C una lot-ta profonda che si svolge anche nelle zone pi buie e pi disperate dellesistenza, come inquelle apparentemente pi illuminate e emer-se.

    Dumitru continua a macinare strada. Ha ab- bassato un po la musica. Adesso sta raccon-tando che gli zingari hanno un loro tribunale

    interno, che si chiama giudicata, presiedutoda alcuni zingari anziani e ritenuti saggi. Si erariunito qualche volta anche tra le macerie dellaSnia. Funziona cos: nella fase preliminare o-gnuna delle due parti porta le proprie ragioni,le donne gridano. Poi il processo continua conla presenza dei soli maschi. Chi giudica -assicura Dumitru- non si fa influenzare da chi

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    ha il gruppo pi numeroso o da chi grida piforte. Se la sentenza viene rifiutata previstoun appello. Si tratta per lo pi di litigi, prepo-tenze, soprusi, storie di botte, ferimenti, coltel-li. Ma anche di questioni economiche. Perchanche tra gli zingari ci sono gli strozzini cheprestano denaro a usura, e che poi legano a sla vita degli altri attraverso catene sempre pistrette. Poco fa, per esempio, uno zingaro

    strozzino si preso tutti i miseri averi del suodebitore, che si rivolto alla polizia. Ma inquesto caso la giudicata, pur capendo le ragionidelluomo, gli ha dato torto, perch avrebbedovuto risolvere la cosa allinterno, non rivol-gersi alla polizia dei gag. E ci sono anche zin-gari figli di puttana che si arricchiscono in que-sto o in quellaltro modo sporco e che poi fanno

    i confidenti della polizia, che chiude un occhioper avere in cambio le informazioni e saperequello che succede allinterno della comunitdegli zingari. Arriviamo a Belgrado, con lintento di fer-

    marci a dormire, perch ormai molto tardi.Lautostrada passa letteralmente in mezzo allacitt. Grattacieli, svincoli, centri commerciali.

    Scivoliamo con la macchina in mezzo a questaallucinante, artificiale, metropoli balcanica cheluccica nella notte. Proviamo a uscire un paiodi volte dallautostrada, ma non troviamo chesvincoli. Ritorniamo subito dentro. Non ci re-sta che continuare. Il bordi del Danubio sonodeserti e pieni di luci. Troveremo dove dormi-re, da qualche parte. Dumitru sempre al po-

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    sto di guida, impassibile, calmo. Per ci avvisache in Romania non potr pi essere lui a gui-dare perch l non in regola con la patente enon vuole farsi beccare. Continua ad esortareGiovanni che l non deve farsi fermare per nes-sun motivo dalla polizia stradale, perch sonodei figli di puttana, appena vai con una ruotasulla striscia bianca ti fermano e ti fregano deisoldi, ti chiedono i documenti. C evidente-

    mente qualcosa che lo preoccupa, e che non cidice. Stai molto attentissimo! ripete conti-nuamente a Giovanni. Intorno tutto buio, bi-sogna fare attenzione a non sbagliare le strade,per non finire in piena notte chiss dove. Usci-re dallautostrada un problema, perch non sisa neanche se poi si trover un posto per dor-mire. Dun tratto vediamo inaspettatamente la

    freccia di un motel. La seguiamo. Finiamo inuna stradina sterrata. Davanti al muso dellamacchina c una pozzanghera che sembra unlago. Non si capisce neanche se il motel c ve-ramente oppure no. Andiamo dentro la poz-zanghera, sperando che non sia troppo profon-da e che non crei problemi al motore o allim-pianto elettrico. Non si capisce neppure se la

    piccola costruzione fatiscente che adesso indo-viniamo sul fondo chiusa o aperta. Arrivia-mo di fronte allingresso. Non c una solamacchina parcheggiata fuori, tutto deserto.Ma tre cani sbucano da qualche parte abbaian-do forte, come se fosse la prima volta che ve-dono unanima viva da chiss quando. Entria-mo. C poca luce. Esce dal retro un uomo al-

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    tissimo e malinconico, faccia slava, che star lda chiss quanto tempo a tenere aperto il motelanche se non ci arriva mai nessuno. tuttofreddo, gelato. Dumitru preoccupato che du-rante la notte gli freghino o gli scambino legomme, che sono abbastanza nuove. Il postodove ci troviamo doveva essere una cinquanti-na di anni fa una costruzione moderna, mo-dernistica addirittura, sar stata inaugurata

    come un fiore allocchiello, ancora ai tempi diTito. Per adesso in rovina totale, abbando-nata, deserta, nessuna manutenzione da allora,solo quel cartello e quella freccia rimastasullautostrada. Il corridoio sembra una ghiac-ciaia. Ma nella camera c una vecchissima stu-fetta elettrica con un paio di serpentine arro-ventate, che il gigante triste della reception sa-

    r andato ad accendere prima di darci le chiavi,quando scomparso per un po di tempo e nonsapevamo pi dovera. Ma perlomeno rompeun po il freddo. Mi metto a letto vestito, ri-mango per un po a guardare nel buio le ser-pentine della stufetta dentro quella specie discatolone di legno.

    La mattina dopo partiamo presto. Dumitru

    controlla subito che non gli abbiano scambiatole gomme durante la notte. Sbucano i tre cani,che abbaiano scatenati, due grandi e un cuccio-lo che avr al massimo un mese. Dumitru tirafuori un pacchetto di biscotti ripieni di ciocco-lata, che aveva comperato in unarea di serviziolungo lautostrada. Ne tira fuori tre e li tira,uno per ogni cane. I tre cani si avventano sui

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    biscotti. Ma, un secondo dopo, uno dei canigrandi, mentre ancora stava divorando il suo biscotto, si slancia furiosamente sul cuccioloche sta cercando di mangiare il suo. Lo azzannaalla gola e lo rovescia a terra. Il cucciolo emettedegli spaventosi guaiti. Il cane grande gli rubail biscotto e lo divora in un solo boccone, men-tre il cucciolo scappa via piangendo.

    Dumitru osserva la scena senza parlare, im-

    pietrito. Risaliamo in macchina, si rimette alposto di guida. Non gli pare vero che non gliabbiano scambiato le gomme durante la notte.Il suo un mondo duro, dove linimicizia to-tale, come quello di quei tre cani che adesso cicorrono dietro abbaiando. In cui si pu sololottare gli uni contro gli altri per riuscire a vi-vere e a difendere con ogni mezzo le possibilit

    di sopravvivenza della propria famiglia. Daquando al mondo conosce solo durezza, osti-lit, camere sovraffollate, baracche. Anchequando stava in Romania, prima di venire inItalia, dormivano in dieci in una sola stanza.Mentre aspettavamo il ritorno del meccanico inquellofficina fredda e deserta ai confini con laSerbia, abbiamo trovato una stanzina riscalda-

    ta dove evidentemente viveva il meccanico. Erauna piccola stanza un po puzzolente, con una brandina, un tavolo, quattro sedie, un paio di banane mezze marce su un mobile di cucina.Ma, appena entrato, Dumitru si guardato at-torno e ha esclamato: Se io avessi per me unastanza cos in Romania, col pavimento per ter-ra, sarei luomo pi felice del mondo. un

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    uomo che capisce al volo le cose, brillante, maanche sospettoso, antisociale, perch la sua e-sperienza di zingaro lha educato a questa durascuola di vita e al combattimento, a non potercontare su nessun altro se non su se stesso esulla propria randagia famiglia, a vendere carala pelle. Gran viaggiatore, pendolare tra la Ro-mania e lItalia, arrivato anche lui fin qui attra-verso il tunnel spaziotemporale che ha portato

    gli zingari dallantica India attraverso lArme-nia, la Persia, lImpero Bizantino, fino al cuoredi questa nuova Europa cosiddetta globale do-ve vive, come gran parte del suo popolo, senzamai farsi assimilare completamente, gestendouneconomia preindustriale precaria, intermit-tente, parassitaria e di sussistenza, vivendo conle briciole che cadono dalla tavola dei nuovi

    presunti padroni dEuropa, gli scarti, in questanuova dimensione economica che ha la pretesadi definirsi globale ma che pretende nello stes-so tempo che gli uomini stiano fermi conti-nuando a recitare la parte economica che sta-ta loro assegnata. Invece ogni cosa si muove,gli uomini si spostano, si sono sempre spostati,si sposteranno sempre, mettono continuamen-

    te in sofferenza le strutture che si fissano peralcuni istanti nel corso del tempo nella lorocontinua ricerca e illusione di ricchezza e sal- vezza. Orde di donne e uomini, migrazioni u-mane che si spostano dallAfrica, dallAsia,dallAmerica meridionale, gli stessi barbari chepremevano contro le frontiere presidiate del-lImpero Romano. Allora cerano i generali e

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    anche i generali che diventavano poi imperato-ri che li ricacciavano indietro continuamentecon la guerra, che portavano la guerra di con-quista sui loro stessi territori aprendo continue voragini geopolitiche, anche nelle zone chestiamo attraversando e in quelle dove siamo di-retti. Adesso pretendono che gli uomini stianofermi, o che si spostino solo secondo le loroconvenienze economiche e le loro alchimie fi-

    nanziarie, che le migrazioni umane cessino,senza neanche assumersi il peso e il prezzospaventoso delle guerre, con le loro campagnedi stampa, le loro ipocrite, inutili leggi, purchnon si avvicinino troppo numerosi al piccolo bottino che hanno creduto di avere messo insalvo nella loro piccola Europa e nelle altre pic-cole zone boreali del mondo. Si sono inventati

    persino delle piccole e contingenti teorie perrassicurarsi che la vita si ferma, che la storia siferma, dopo quelle sul progresso illimitato sucui si sono fondate rivoluzioni politiche e nuoviimperi economici. Mentre queste orde di mise-rabili di cui avevano perso conoscenza si stan-no riaffacciando con le loro facce arcaiche an-che nel cuore del nostro continente. La parte

    pi enigmatica e meno gestibile e assimilabiledi questorda sono questi antichi migratori chevengono non si sa bene da dove, n perch, chesi stanno spostando metro dopo metro ancheattraverso il nostro continente, con un conti-nuo movimento pendolare in avanti e allindie-tro e poi ancora in avanti, a macchia di leopar-do, da sei secoli almeno, e che adesso stanno

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    compiendo questo nuovo tratto del loro incon-cepibile viaggio nel cuore stesso del nostro pa-ese e sotto i nostri occhi.

    Sul sedile davanti Giovanni sta chiedendo aDumitru se alla fine rester in Italia.

    No gli risponde una volta che avr siste-mato tutti i miei figli, io ritorner in Romania.

    Perch?La terra chiama risponde soltanto.

    Rimaniamo in silenzio. Guardiamo fuori.Giovanni giocherella un po con una placca ca-lamitata attaccata al cruscotto.

    Che cazzo ? domanda a Dumitru.Deodorante.E perch ce lhai messo?Perch non volevo che pensassi che la mia

    macchina puzza di zingaro.

    Continuiamo a correre. Ma evidentementenon facciamo abbastanza attenzione ai cartelliperch sbagliamo strada, stiamo andando sen-za saperlo verso la Bulgaria. Anche in questezone passata la guerra. Le facce che intrave-diamo dentro le rare macchine che passanosembrano dure. Gli zingari serbi sono pi catti- vi degli altri, ci dice Dumitru. Lui preferisce

    non averci a che fare. Ci parla anche un po diCeauescu. Lui aveva ventanni quando cadu-to.

    cambiato qualcosa per gli zingari, tra ilprima e il dopo?

    No, non cambiato niente.

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    Il cielo grigio. Grandi stormi di corvi passa-no attraverso il cielo o se ne stanno fermi sulciglio della strada.

    Dumitru, metti un po della tua musica.Frugando tra le cassette, ne prende una. La

    inserisce. Una voce comincia a cantare. Lascol-to per un po, mentre la macchina continua acorrere lungo la strada sbagliata.

    Che cosa dice?

    Ti amo, non mi lasciare, io non posso viveresenza di te

    Ok, ho capito.Ci fermiamo in unarea di servizio. Dentro il

    bar pieno di fumo c un gruppo di militari ser- bi dalla testa rasata, in divisa mimetica, scar-poni e basco granata. Non siamo lontanissimida Pristina e dal Kossovo, che in questi giorni

    sta parlando di nuovo di indipendenza. Suigiornali serbi che vediamo aperti sui tavolini cisono titoli cubitali. Ormai ci siamo resi perfet-tamente conto di avere sbagliato strada. dapi di unora che stiamo andando dalla partesbagliata. Ci domandiamo se tirare diritto, seattraversare il Danubio da quella parte passan-do attraverso la Bulgaria. Ma Dumitru, che ha

    gi fatto quella strada in passato, ce lo sconsi-glia, perch non c il ponte, bisogna attraver-sare il Danubio mettendo la macchina su untraghetto, che per parte solo quando a pienocarico. C il rischio di aspettare anche per ungiorno intero prima di poter passare dallaltraparte.

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    Ritorniamo indietro, rifacciamo per pi diunora la stessa strada allincontrario. Rintrac-ciamo il cartello giusto. Usciamo dallautostra-da. Luomo che c al casello ci frega un po disoldi, come sempre quando diciamo che pa-ghiamo in euro. Ci dirigiamo verso il Danubio,attraverso piccole strade e paesi e piccole cittserbe povere e un po caotiche, coi caseggiatidalle facciate decrepite e le vetrine dei negozi

    dalle insegne in caratteri cirillici. Molte casesono di mattoni nudi non intonacati. Ai latidella strada grandi montagne di pezzi di mac-chine arrugginite e di ghiaia, binari di treni chepassano in mezzo alle case. Un carro trainatoda un cavallo, pieno di ferro arrugginito. Dumi-tru indica il suo povero guidatore: Vedi, quello uno zingaro di merda!

    Ci racconta che suo padre ha dovuto vendereil loro carretto al futuro suocero, per poterglicomperare la moglie.Attraversiamo Poarevac, la citt dove nato

    e dove sepolto Miloevi. Piccole case e picco-li pezzi di case sghembe e palazzine nuove magi in rovina. Pi avanti, ai lati della strada cheporta al Danubio, anche case di terra e paglia.

    Sugli alberi secchi grandi nidi allo scoperto, ni-di serbi.Ma attraversiamo anche paesi di sole villette,

    una pi esagerata e sfarzosa dellaltra. Dumitruci dice che sono degli zingari ricchi. Perch cisono anche gli zingari ricchi. Gi dal tempo diCeauescu. Ci racconta una complicata storiadi monetine doro accumulate da questi zinga-

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    ri, che sarebbe allorigine della loro fortuna.Poi di nuovo case povere, fango e pozzangherecome laghi. Mucchi di legname di fronte alleporte. Cimiteri zingari a cielo aperto, senza re-cinzioni, senza insegne. Vecchi trattori che ar-rancano. Arriviamo al Danubio. Dallaltra parte c la

    Romania. Scendiamo dalla macchina, per guar-dare questo immenso fiume che sembra un la-

    go. C molto freddo, tira vento. Giovanni scat-ta qualche fotografia.

    Che macchina hai? gli domando Non quella che avevi in Argentina e nella Terra delFuoco.

    No, questa nuova. una macchina digitale.Sembra una macchina fotografica, in realt un computer.

    Risaliamo in macchina. Ripartiamo. Ci per-diamo di nuovo, ci addentriamo in stradine difango al limite del paese, passando per piccolecascine e piccole corti e viottoli di campagnapieni di pozzanghere, perch volevamo costeg-giare il Danubio da subito. Dopo un po di ten-tativi falliti, ritroviamo la strada, passando at-traverso zone abitate da serbi poveri e zingari.

    Arriviamo nella strada che costeggia il Danu- bio. scavata qua e l nella roccia. Grandimassi e sassi se ne sono staccati, sono piombatigi nella strada. Continuiamo a costeggiare ilDanubio per circa centocinquanta chilometri,lungo la strada serpeggiante, passando attra-verso tunnel e allinterno di un castello a piccosul fiume, che si restringe passando attraverso

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    gole di roccia, si allarga, riprende a dilagarecon tutta la sua massa dacqua che si spostacome un lago in movimento uscito dalla suasede su cui passano lunghe e piatte chiatte, at-traverso questa parte dellEuropa arcaica e psi-chica.

    Dovremmo essere vicini al ponte sul Danu- bio, ma non si arriva mai. Per ingannarelattesa, e anche perch abbiamo tutti un po di

    fame, Dumitru si rimette a parlare delle suepreferenze alimentari: carne grassa di pecora,salsicce grasse Ai lati della strada ci sono co- voni di fieno a cuspide, con il palo in mezzo.Spostiamo gli orologi di unora, per il fuso ora-rio. Stiamo passando in un punto dove il Da-nubio si restringe molto, tra due altissime pa-reti di roccia. Era questo il punto, ci dice Dumi-

    tru, dove ai tempi di Ceauescu la gente tenta- va di fuggire dalla Romania. Per questo eramolto sorvegliato e quasi sempre li acciuffava-no. Passavano il fiume usando delle tavole dilegno e delle bombole, se ho capito bene. Nelcaso che riuscissero a passare dallaltra parte,eludendo la sorveglianza e vincendo la fortecorrente del fiume, molto spesso li arrestavano

    poi i serbi. E li restituivano a Ceauescu, cheripagava il favore con un carico di sale del MarNero. Gli zingari invece non li rivoleva indie-tro. Che se li tenessero gli altri!

    Sbagliamo strada unaltra volta, seguendo unfiordo del Danubio che costeggia povere case dicontadini e covoni di fieno. Torniamo indietro.Finalmente arriviamo al ponte. Che poi non

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    un ponte vero e proprio. un passaggio piattoche corre sopra una diga, appena sopra il filodellacqua. uno dei pochi ponti sopra il Da-nubio che ci sono da queste parti. Vicino alladiga c anche una centrale elettrica. Passiamola dogana serba. C vento, lacqua del Danubio mossa, ci sono delle vere e proprie onde quasia filo con la striscia orizzontale del ponte. Cuna lunga fila di macchine ferme. Sono tutte di

    contrabbandieri, ci spiega Dumitru. Degli uo-mini in divisa ci fanno segno di superarle. Arri- viamo alla dogana rumena. Ci tengono fermiper un po di tempo. Ci chiedono cosa andiamoa fare in Romania. Prendono un po per il culoDumitru, perch vedono che ha la faccia dazingaro. Perch ti chiami cos? gli domanda-no, quando leggono sul passaporto il suo stra-

    no nome, che non quello che gli ho dato ioqui. Perch mio padre mi ha chiamato cos!risponde. Poi passiamo. Adesso, gi da primadel ponte, guida Giovanni. Dumitru ha perso lapatente in Italia, ha solo un foglio che certificalo smarrimento, per scritto in italiano. Per-ch sia valido anche l dovrebbe farlo tradurrein rumeno, ma la traduzione costa settanta eu-

    ro. Almeno cos ce la racconta lui, ma forse canche qualcosa daltro che non ci dice, qualco-sa per cui preferisce passare il pi possibile i-nosservato in Romania. Adesso abbiamo il Danubio a destra. Siamo

    in Romania. Un carretto trainato da un cavalloche sembra un mulo trasporta un vecchio mo-tore arrugginito. Casupole col tetto viola. Con-

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    domini degli anni Cinquanta e ormai comple-tamente fatiscenti. Baracche da cui spuntanotorrette a punta, qualche casa di terra, vecchiche camminano ai lati della strada con grandisacchi in spalla, case zingare miserabili e colo-rate mezze di lamiera e mezze di legno e coipanni stesi. Molte case in mattoni nudi. Unuomo che cammina sul ciglio della strada te-nendo in braccio un tacchino bianco, vivo. An-

    cora poveri stracci stesi. La giornata fredda,la strada piena di buche. Dumitru preoccu-pato per le sospensioni della sua vecchia car-riola. Dice a Giovanni quando deve mettere lamarcia e quando scalarla, se gli sembra che a-spetti un attimo di troppo per cambiare. Vedi,quelli sono tutti zingari di merda! ci dice conorgoglio, mostrandoci piccoli gruppi che vaga-

    no avvolti nei loro stracci, a piedi o sopra i car-retti. E poi, un po pi avanti, i piccoli e im-provvisi paesi degli zingari ricchi, pieni di villeeccessive dalle facciate assurdamente ornate ecolorate e con i tetti a pagoda dai vari strati so-vrapposti come templi orientali.

    Perch le fanno cos? domanda Giovanni.Dumitru non sa che cosa rispondere.

    Perch si vede che a loro piacciono cos! di-co io.A Dumitru la risposta sembra evidentemente

    convincente, perch la ripete: S, perch glipiacciono cos!Ci racconta dei gusti esagerati e smodati degli

    zingari ricchi, del numero dei loro anelli, brac-cialetti, collane. Lui ne ha visto uno che girava

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    con una cravatta doro. Certi zingari, quandoinaugurano una di quelle assurde ville con itetti a pagoda sovrapposti, fanno una grandefesta e invitano molti altri zingari, e tutti quantisputano contro le pareti. Poi ci parla dei quar-tieri zingari delle grandi citt, Craiova, Buca-rest, soprattutto questultima. Lui l non ci en-tra, che non gli chiediamo di portarci l perchlui non lo far. L non si entra, e se si entra si

    rischia di non uscirci. Tirano fuori i coltelli, tirubano tutto, ti pelano vivo. Basta che partauno e tutti gli altri gli vanno dietro. Come fai ametterti contro un intero quartiere? EppureDumitru un uomo forte, robusto, che si fat-to largo nella vita con durezza, che conoscelillegalit, la violenza. Per l si rifiuta di por-tarci. Si evidentemente assunto il compito di

    proteggerci, se necessario dalla sua stessa gen-te. E si capisce anche che qui deve avere qual-che conto in sospeso, che non vuole grane.Stiamo passando appunto attraverso Craiova.Interminabile, illuminata, grandi strade, ca-seggiati nuovi e altri ormai fatiscenti. Arriviamo a Slatina. Dumitru ci porta in un

    albergo. Ma tutto pieno. Troviamo posto in

    un altro. Lui non vuole saperne di fermarsi adormire in albergo. L a casa sua, ci dice, ha isuoi posti dove andare, i suoi amici. Ha eviden-temente bisogno di sprofondare di nuovo nelsuo mondo, nei suoi giri, di sparire per partedel tempo anche dalla nostra vista. Ci diamoappuntamento per domani mattina molto pre-

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    sto. Contrariamente a tutto quanto ci avevadetto, sparisce alla guida della sua macchina.

    Ci guardiamo attorno. Finalmente siamo ar-rivati. Siamo arrivati nel punto da dove sonopartiti quasi tutti i miserabili che si sono ac-campati nei ruderi della Snia, da dove partitatutta quella infezione e quella disperazione.

    La mattina dopo, quando apro le finestre, tutto bianco di neve. C stata una tormenta,stanotte. ancora presto, ancora buio. Tuttele strade, le case, le macchine che si spostano apasso duomo con i tetti ricoperti di neve sonocome fosforescenti nel buio.

    Scendiamo. C un gran numero di personenellatrio dellalbergo. Molti uomini carichi di

    bagagli parlando concitatamente, allarmati.Sono tutti italiani. Perch qui pieno di Italia-ni che lavorano, che hanno impiantato attivitindustriali o commerciali sfruttando il cambiofavorevole tra leuro e il lei, la moneta ancorain circolazione nonostante la Romania facciaormai parte dellUnione Europea, e il basso co-sto del lavoro rispetto allItalia. Qui a Slatina

    c anche una fabbrica della Pirelli, che qui sichiama Cord Romania Pirelli-Continental, do- ve molti dei tecnici sono italiani. Le feste diNatale sono vicine. Gli uomini che affollanolatrio dellalbergo devono ritornare tutti in Ita-lia per passare il capodanno con la famiglia, maadesso questa nevicata complica tutto. Le mac-chine che dovevano portarli agli aeroporti di

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    Craiova e di Bucarest non sono ancora arrivate.Imprecazioni, continue e concitate telefonatecoi cellulari. Spostamenti di voli. Finalmenteun po di macchine arrivano. Caricano i baga-gli, si buttano dentro. Le macchine ripartonopiano, in fila indiana, nel paesaggio immobiliz-zato e irreale. gi passato da un bel po lora-rio in cui doveva arrivare Dumitru, che anda-to a dormire non abbiamo capito dove, a una

    quarantina di chilometri di distanza da Slatina. Volevamo partire presto, per raggiungere unazona lontana, ma questa nevicata lo renderprobabilmente impossibile. Andiamo a guarda-re fuori dalla porta. Sta continuando a nevica-re. Le strade sono ingombre di neve, le mac-chine si muovono pianissimo, sui marciapiedi ipedoni camminano a gambe rigide per paura di

    scivolare.Finalmente, con due ore di ritardo, arrivaDumitru. senza macchina. Aveva provato apartire, ci dice, ma le ruote giravano per contoloro. arrivato a Slatina con un pullman. Do-vr ripartire nel pomeriggio allo stesso modo,con lultima corsa. Che cosa facciamo qui, bloc-cati dalla neve, dopo il nostro lungo viaggio at-

    traverso i Balcani, proprio nel momento in cuidovevamo cominciare a sprofondare dentroquesta ferita?

    Se non si pu usare la macchina, lunico mo-do per non fermarci proseguire il nostroviaggio a piedi.

    Usciamo in strada. Muoviamo i primi passisulla neve pressata e qua e l gi un po ghiac-

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    ciata. Continuiamo a camminare un po irrigi-diti. Ci lasciamo alle spalle due o tre grandi in-croci. Imbocchiamo una strada che porta in unquartiere da dove sono partiti molti degli zin-gari che si sono accampati tra i ruderi dellaSnia, dove Dumitru nato ed vissuto permolti anni.

    Meglio se tardi si consola Giovanni glizingari si alzano tardi. Cos li troviamo in pie-

    di.No gli risponde Dumitru Si alzano presto,

    perch devono andare a rubare la legna.Man mano che camminiamo, a piccoli passi

    nella neve e nel freddo intenso, cominciamo aincrociare come apparizioni facce zingare cheDumitru ogni volta ci indica da lontano nel suosolito modo: Ecco, quello uno zingaro di

    merda! Oppure dice soltanto: Zingaro dimerda! indicandolo cerimoniosamente con lamano. E gli zingari di merda, molti dei qualiconoscono qualche parola di Italiano perchsono stati anche in Italia durante le loro pere-grinazioni, ridono divertiti.

    Dun tratto, correndo verso Giovanni dallal-tra parte della strada, appare Lcica, una zin-

    gara grande, di trentadue anni, sgomberata an-che lei dalla Snia. Si abbracciano, per lemozio-ne di ritrovarsi inaspettatamente, senza preav-viso, per caso, in quel mondo diverso, in quellagiornata di neve. Il suo nome intero LcicaStoiculescu. Dopo lo sgombero dalla Snia dor-miva con i due figli su una panchina dei giardi-ni pubblici di Pavia. In Italia lhanno vista in

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    molti, perch andata in televisione. Ma poinon ce lha pi fatta a vivere in quelle condi-zioni, ritornata in Romania. Abita in unastradina che c l in fondo, ci dice. Adesso de- ve fare delle cose, ma dopo ritorna a casa. Lepromettiamo che passiamo a trovarla.Appare un uomo barbuto, con un cappello di

    pelo vecchio e liso in testa. Ci fermiamo a par-lare. Conosce anche lui qualche parola di Ita-

    liano, perch passato dal campo di Tribonia-no di Milano. Ma poi se ne andato. Il suonome Vasile Lautaru, ci dice, ha cinquantaseianni. Adesso lo stato rumeno gli passa settantalei al mese, come assegno di povert, lequiva-lente di venti euro. Per se li deve ripagare la-vorando dieci ore al mese per lo stato.

    Continuiamo a camminare in mezzo alla ne-

    ve. Lungo la strada passa qualche rara macchi-na, le ruote girano a vuoto, slittano nelle salitee nelle discese. Sono macchine vecchie, strema-te, di quelle limousine su cui gli zingari sonoaccusati di viaggiare mentre poi vanno a chie-dere lelemosina, grandi, scalcagnate, enormi,perch ci devono stare dentro famiglie di diecipersone.

    Arriviamo fino a una stradina costeggiata quae l da piccole case basse.Ecco, questa e l strada dove sono nato! ce

    la indica Dumitru, con emozione.Noi vediamo solo una stradina piena di poz-

    zanghere e fango, con qualche casupola fati-scente ai lati, le villette che gli zingari sgom- berati dalla Snia possiedono in Romania, se-

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    condo quanto scrivevano i giornali italiani sca-tenati durante le campagne anti-Rom.

    La prima proprio quella di Dumitru. unacasupola piccola, bassa, sbarrata, gelata. Laporticina chiusa da una catena di ferro giratapi volte. Che strano! si dice Dumitru Iocredevo che adesso ci fosse E dice il nome diqualcuno dei suoi parenti, per quegli sposta-menti e quei movimenti interni delle famiglie e

    delle trib zingare, difficili da capire per chinon ne faccia parte. Devono esserci dentro solodue piccole stanze. L dentro ci ha vissuto permolti anni Dumitru, in dieci in una sola stanza.

    Giovanni lo vuole fotografare proprio davantialla sua casa. Dumitru prima dice di no, poi ac-consente, ma solo dopo essersi fatto promette-re che la sua fotografia non apparir sui gior-

    nali italiani e da nessuna altra parte. Ha unavera e propria fobia di venire fotografato, che siveda la sua faccia in giro, eppure anche lui giapparso in televisione, in Italia, in una trasmis-sione dedicata ai Rom. Sostiene che non vuoleessere riconosciuto in Italia quando entra neibar, ma ci deve essere anche qualche altra ra-gione. anche per rispettare questo patto che

    ho cambiato il suo nome in questo racconto.Proseguiamo lungo la stradina, passando da-vanti ad altre case di zingari. Sono quasi tuttedi famiglie che vengono dalla Snia sgomberata,dopo che sono state sventrate dalle ruspe le lo-ro baracchine miserabili dove vivevano in mez-zo ai topi e ai calcinacci, senza luce, senzacqua,come daltronde anche qui, perch vediamo in

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    fondo alla stradina uno zingaro che trasportasu un carrettino una tanica dacqua, che an-dato a prendere chiss dove, come quando e-rano alla Snia la andavano a prendere alla fon-tanella del cimitero, e cera stato anche chi ave- va protestato persino per questo, perch glizingari rubavano lacqua ai morti.

    In fondo alla stradina c uno zingaro tuttovestito di nero, con una specie di mantello e un

    cappellaccio in testa. Dumitru ci dice che vieneda Timioara, e che arrivato fin l per cercaredi vendere i suoi stracci agli abitanti di quellemisere case. Dietro una delle staccionate sisente un grugnito, segno che ci abita qualcunoche in qualche modo riesce anche a dare damangiare a un maiale. La prima casa dove en-triamo quella di Tanase Fanel. un uomo

    con una bella faccia, panciuto. Quando stavaalla Snia era uno degli zingari pi legati a Gio-vanni. Combattivo, leale. Era uno di quelli cheavevano fatto lo sciopero della fame. Vive inuna misera casa di due stanzette sovraffollate,quasi completamente ricoperte di materassi.La prima surriscaldata da una rozza stufa dimattoni costruita a filo col pavimento, con una

    piccola canna fumaria che sbuca a malapenafuori. Laltra gelata. Per questo chiudono ac-curatamente la porta sbilenca dopo ogni pas-saggio. Abbracci, saluti. Ci mettiamo dentro,pigiati. Bambini dappertutto, neonati. Ci offro-no del caff in vecchie tazzine sbeccolate. Ibambini corrono dentro e fuori continuamente,eccitati per quella visita inaspettata, con gli

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    zoccoli ai piedi, le pance scoperte. Davanti allacasa lunghe file di bucato ricoperto di neve.Sedute tuttintorno, sui materassi, una bellaragazza dai capelli neri e con la pelle bianchis-sima e le guance rosate nella stanza surriscal-data, unaltra dalla pelle chiara e dai capellibiondo ramati. Lei rumena ci spiega Dumi-tru Ha sposato uno zingaro di merda. Il pa- vimento di nuda terra. Alle pareti piccoli

    drappi sottili e lisi, con disegni colorati di fa-miglie di grandi animali, tigri, leopardi, cervidalle grandi corna, ventagli di fotografie di fa-miglia e santini con icone ortodosse di Ges edella Madonna.

    Evidentemente si sparge la voce che siamoqui, perch ogni tanto arriva qualcun altro daqualche altra casupola. Si entra e si esce conti-

    nuamente per salutare. Mentre stiamo nel cor-ridoio esterno, anche quello di terra battuta egelata, Tanase mi dice, con espressione di sin-cero dolore e di dignit: Mi dispiace di avervidovuto ricevere cos, in questo momento diffi-cile per me e la mia famiglia. Come se quellanon fosse la loro vita di sempre ma solo unmomento passeggero di difficolt e profonda

    miseria in cui li avevamo sorpresi.Ma cosa dici! Ti ringraziamo anzi per averciricevuto cos bene nella tua casa gli rispondo.

    Lui rimane in silenzio.Quanti anni hai? gli domando.Trentadue.Sei ancora giovane. Hai ancora molto tempo

    davanti a te. Cambier.

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    Lui mi guarda con riconoscenza, ne sembraconsolato. Giovanni gli chiede come mai ri-tornato in Romania. Gli risponde che uno deisuoi bambini si era ammalato di epatite dopoche erano stati sgomberati dalla Snia e girava-no sfollati qua e l. Aveva bisogno di ritornarein Romania per farlo curare in un ospedale do-ve si sentiva pi sicuro con la lingua e con tuttoil resto. Cos aveva approfittato dei quattrocen-

    to euro che gli avevano offerto ed era ritornato.Magari solo per passare linverno, chi lo sa.Giovanni sta aspettando le risposte a diversedomande di lavoro che avevano fatto girarequando era ancora alla Snia. Tanase dice che sesalta fuori qualcosa, lui corre di nuovo in Italiacon tutta la sua trib. Un bambino, quellodellepatite, mi porta come un trofeo di fami-

    glia un grande pacco di fotografie tutte logoratea forza di venire sfogliate. Si siede sul materas-so vicino a me e mi chiede con gli occhi diguardarle. Le sfoglio a una a una. Sono fotogra-fie di famiglia, scattate in momenti di ricorren-ze particolari, battesimi, matrimoni. In alcunecompare anche Dumitru, che stato padrino al battesimo di diversi figli di Tanase, di cui ve-

    niamo a sapere che parente. Per quelle paren-tele a ragnatela larga che legano tra di loro nu-clei famigliari e trib, per cui ogni tanto sco-priamo che Dumitru imparentato anche condiverse delle altre persone che incontriamo, ed anche cugino per parte di moglie delle duebambine zingare che sono morte bruciate non

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    molto tempo fa nel rogo della loro baracchina aBologna.

    Usciamo dalla casa di Tanase. Ci dirigiamo verso unaltra casa, quella di Gheorghe Firu.Ma ci seguono anche Tanase e altri ragazzi e bambini della sua famiglia, membri di altrefamiglie che si trovavano per caso nella casa diTanase quando siamo capitati l noi. Cammi-niamo a branco nella stradina di neve e fango. I

    bambini eccitati, con gli zoccoli ai piedi, salta-no le pozzanghere. Prima di arrivare alla casadi Firu, passiamo vicino a unaltra casupola.Sentendo da dentro le voci, esce sulla porta,zoppicando su una stampella, Robert Constan-tin, un altro degli sgomberati dalla Snia. ri-masto zoppo per uninfezione al ginocchio con-tratta anni fa dopo avere preso un colpo alla

    gamba. Sarebbe bastata una piccola operazioneper guarire, ma non aveva i soldi per farlo e co-s rimasto zoppo, gli si sono atrofizzati i mu-scoli della gamba malata, che diventata pipiccola dellaltra. Dentro la sua casina, nelluni-ca piccola stanza riscaldata, c la moglie e al-cune bambine nude. Stiamo un po con loro.

    Ma qui come essere alla Snia! non finisce

    di meravigliarsi Giovanni, che rivede una dopolaltra le persone con le quali era stato legatoper un intero anno da rapporti di amicizia, dicondivisione e di lotta, a quasi duemila chilo-metri di distanza, in questo quartiere abitatoda zingari e da qualche rumeno, pieno di casu-pole miserabili dove vivono appena un po me-glio che nelle baracche della Snia e che, per i-

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    ronia della sorte, si chiama -probabilmente daitempi di Ceauescu- quartiere Progresu.

    Passiamo davanti a una casa di terra e di pa-glia tenuta assieme da qualche trave di legno.Ne esce una ragazza avvolta in un velo, che tie-ne la testa perennemente inclinata. Poi unadonna magra dallet indefinibile. La guardo enon riesco letteralmente a capire se una per-sona molto giovane oppure molto vecchia.

    Lei ha dodici figli ci dice Dumitru.I suoi lineamenti sono giovani ma la sua pelle

    e la sua carne sono prosciugate.Quanti anni hai? le domando.Quarantadue mi risponde.I pavimenti della sua casa sono di terra, anzi

    sono la terra, tutta screpolata e tagliata per ilgelo. Ma vicino allingresso c unantenna sa-

    tellitare. Siamo leggermente in alto. Fuori dallacasa si vede, laggi in basso, lontano, il fiumeOltul che passa per Slatina, in mezzo alle cam-pagne tutte bianche di neve. Il codazzo di zin-gari che ci accompagna da una casupola allal-tra cresce sempre di pi. Arriviamo nella casadi Firu, che sembra un po ubriaco. Riconosceimprovvisamente Giovanni. Si abbracciano.

    Eccolo qua il muratore finito! scherzaDumitru indicandolo con la mano. un uomo di cinquantanni, strabico, albino,

    malfermo sulle gambe, con i capelli ossigenati.Lui e Dumitru scherzano assieme sulle espres-sioni usate nelle domande di lavoro in Italia:muratore finito, mungitore finito Dumitru cifa sopra anche dei giochi di parole: Muratore

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    finito male!, Oh, com finito male questomuratore! Ridono un po. C in giro moltaeccitazione, anche perch un parente di Firu appena arrivato con un carico di cento quintalidi legna comperati da un altro zingaro. Sicco-me non poteva pagarla subito, laltro gli haconcesso di pagarla dopo le feste. C un carret-to di fronte alla casupola, da una piccola stallal vicino spunta la testa magra di un cavallo.

    Quello la loro vita! ci dice Dumitru. Se nonavessero quel cavallo morirebbero tutti. C unuomo giovane, coi baffi, forse il marito di unadelle figlie di Firu, che va in giro con quel ca-vallo e con quel carretto a raccogliere rifiuti escarti di plastica e di metallo fuori dalle fabbri-che o in giro per le strade, e che poi li rivende,come fanno molti altri zingari che girano con i

    carretti. Ce n sempre una fila fuori dalla fab-brica di alluminio che c a Slatina, raccolgonometallo di scarto, persino polvere di metallo,che poi altri zingari lavorano in fonderie primi-tive e trasformano in barre da vendere. La testadel cavallo spunta ogni tanto dalla stalla, escecompletamente fuori, rientra. Proviamo aprenderlo per la cavezza ma ci dicono di no,

    che si lascia toccare solo dal suo padrone, se nomorsica.Entriamo nella casupola di Firu. Solito caldo,

    odori umani stagnanti, materassi da tutte leparti, sovraffollamento. I pavimenti sono quasisempre di terra, per qualche volta ci sono so-pra dei fogli di plastica o qualcosa di simile. In-sistono perch io mi sieda da qualche parte su

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    uno dei materassi accostati. Mi siedo su un an-golino che sembra libero. Ma evidentementenon mi accorgo che c rannicchiato un neona-to che dorme avvolto in uno scialle. Una don-na, la madre, allunga la testa preoccupata. Vie-ne a controllare che non labbia schiacciato. Mialzo di scatto. Vedo il neonato, che sta conti-nuando a dormire profondamente e che perfortuna avevo solo sfiorato.

    Dumitru si avvicina alla madre del neonato,che deve essere la moglie di uno dei suoi fratel-li o qualcosa di simile. Labbraccia.

    Lo sai cosa succedeva se lo schiacciavi? dicecon aria grave.

    Silenzio. Trattengo il respiro.Che ne faceva un altro! conclude.Risata generale.

    Usciamo. Il genero di Firu attacca il cavallo alcarretto e parte per il suo giro. Noi ci dirigiamoverso la casa di Lcica. Imbocchiamo unaltrastradina piena di buche e di pozzanghere. Ai la-ti case povere, ma anche case pi nuove, dirumeni, costruite qui perch evidentemente iterreni costano meno. Perch ci sono zone dovemiseria e povert e diversit etniche si mi-

    schiano continuamente con tutto il loro caricodi disperazioni e conflitti. Un cavallo cerca unpo derba in mezzo alla neve. Camminando,Dumitru ci racconta che in genere gli zingariche lavorano il ferro sono pi ricchi mentrequelli che lavorano il legno pi poveri. E che cene sono di biondi, mischiati con slavi e rumenie altri che sono neri di pelle come pakistani o

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    indiani. C tutta una fascia di miseria che at-traversa il ventre dellEuropa e che di qui siramifica, venuta dagli spostamenti e dalle mi-grazioni antiche, spinta avanti o messa in fugadalle masse barbare in guerra che premevanole une contro le altre, incalzate dai popoli sel-vaggi usciti dalle steppe come dal nulla. Questemigrazioni non sono avvenute solo in un lon-tano passato che non potr pi ripetersi. Av-

    vengono continuamente, in modi e forme sem-pre diverse, sotto i nostri occhi. Gli uomini nonstanno mai fermi. Vanno avanti, ritornano in-dietro, vanno ancora avanti, ogni giorno unmetro in pi, un chilometro in pi, mille chi-lometri in pi, a piedi, a cavalcioni degli ani-mali, sulle macchine scalcagnate che corronoin piena notte sulle autostrade, sopra lorizzon-

    te curvato, dentro la nube gastrica dellatmo-sfera, lungo i cerchi di questo piccolo pianetarotante illuminato di tanto in tanto dalla stelladel Sole.

    Siamo vicini alla casa di Lcica. Dumitru lachiama gridando il suo nome, perch questo il citofono degli zingari. Ma nessuno risponde.Andiamo avanti ancora un po lungo una salita.

    Dumitru ci indica la costruzione interrotta diuna famiglia di zingari, una vera casa iniziatacon i soldi raggranellati in Italia. Ma i lavorisono fermi da molto. I muri di nudi mattoni, ilpianterreno pi o meno finito ma il primo pia-no appena accennato. La gente ci entra da tuttii buchi, di notte, a fregare i mattoni. Dumitru in difficolt a camminare in mezzo al fango e

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    alla neve, perch le sue scarpe sono bucate.Ho le gomme bucate dice ogni tanto. Oppure:Devo cambiare le gomme. Ha i piedi e i calzi-ni fradici. Torniamo gi lungo la discesa. Ri-torniamo di fronte al sentiero che porta alla ca-sa di Lcica. Chiamiamo ancora. Esce qualcunodalla casina, che ci fa segno con la mano, dalontano. Saliamo lungo il sentiero. C un vec-chio che sta camminando verso la casa, con in

    testa un berretto di astrakan grigio, in pigiamanonostante il freddo. Dalla casupola esce Lci-ca, prima di lei una bambina piccola che corread abbracciare Giovanni, cui molto affeziona-ta dai tempi della Snia. Il vecchio il padre diLcica, che ammalato dasma e respira pe-santemente. Esce anche la madre, magra, coicapelli bianchi pettinati allindietro, piena di

    rughe come una vecchia pellerossa e coi dentirovinati, che fuma senza tenere la sigaretta conla mano. Sono i primi due vecchi che vedo, gi-rando per le case degli zingari. Nelle altre casesolo bambini, ragazzi e i loro genitori di trenta,quaranta o al massimo cinquantanni. Gli zin-gari poveri hanno una vita media intorno ai 47anni (il padre di Dumitru, ad esempio, morto

    a 52 anni), si sposano a 14, 15 anni, gettanonella vita un gran numero di figli e poi crepano.Lcica ci fa vedere la sua casupola, fredda ge-

    lata perch non c riscaldamento, fili della lucescortecciati e scoperti che penzolano qua e l,tirati fin qui da qualche cavo esterno da cui fre-gano la corrente. Bisogna stare attenti a nontoccarli, per non rimanere fulminati. Lcica ci

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    porta nella casa vicina, quella dei genitori, dovela stufa accesa. Ci domanda se abbiamo man-giato. Le rispondiamo di no. Sono gi le tre delpomeriggio. Ma gli zingari non si formalizzano,non hanno un orario preciso per i pasti, man-giano quando capita, quando hanno fame oquando arriva qualcuno. Ci invita a mangiareda lei. Il nostro mangiare ci dice come pergiustificarsi. Accettiamo. Mette una padella ne-

    ra su un fornellino, nella padella una granquantit di salsicce. Intanto Giovanni scatta al-cune fotografie, o almeno vorrebbe scattarleper lobiettivo si appanna continuamente peril cambio di temperatura tra lesterno elinterno. Bisogna aspettare. Ci sediamo sui so-liti materassi ammassati. Di fronte a me, il vec-chio con lasma continua ad armeggiare nella-

    pertura dei calzoni del pigiama, per tenere sot-to controllo un testicolo pelato che tende a farecapolino dalla patta. La vecchia pellerossa fu-ma una sigaretta dopo laltra, muovendole nel-la bocca. Le salsicce zingare stanno cuocendo.Lcica le gira un paio di volte nella padella, conle sue grandi mani. Quando sono cotte, le am-mucchia tutte assieme in un unico piatto. Noi

    le prendiamo e le mangiamo. Sono salsicce dal-la grana grossa e dura, molto grasse, insaporitecon delle erbe. Dumitru si toglie le scarpe e siguarda i calzini fradici dacqua e macchiati, delcolore del cuoio. Intanto Lcica ci raccontaperch venuta via da Pavia. riuscita ad alza-re il prezzo, a farsi dare pi soldi degli altri,mille euro invece che quattrocento. Ha due figli

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    e non sposata. Dice che tornata qui a passa-re linverno. Poi anche lei ritorner in Italia, inun nomadismo pendolare che cerca di sfruttareogni minima fessura economica incontrata sul-la sua strada. Veniamo a sapere che la primamoglie di Dumitru era la sorella di Lcica, lafiglia dei due vecchi. Non si capisce bene checosa successo, ma deve essere stato qualcosadi grave perch il matrimonio subito andato a

    monte. Si capisce che al vecchio Dumitru nonpiaceva, non piace. Da Dumitru non si riesce asapere niente, quando Giovanni gli fa una do-manda precisa lui sorvola, cambia argomento.

    Ma lo sapete che quello l con cui andate ingiro un bastardo! dice Lcica prima che cene andiamo.

    Non un bastardo le risponde Giovanni un

    grande bastardo!Ridono tutti, Dumitru compreso.Fuori ha smesso di nevicare. Ritorniamo ver-

    so le zone centrali di Slatina. Dumitru ha ilproblema delle scarpe. Quelle che ha ai piedi -scarpe arrivate alla Snia in un pacco di benefi-cenza- sono ormai a pezzi. Si infila in un empo-rio. Ne esce con un paio di scarpe nuove ai pie-

    di, comperate a pochissimo prezzo rispetto al-lItalia. Insiste perch ne comperiamo un paioanche noi, perch conveniente. In mano haun sacchetto di carta con dentro le scarpe vec-chie. Al primo cestino di rifiuti che incontria-mo le butta dentro pronunciando questo conci-so discorso funebre:

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    desso ne lavorano circa 2.500. Gli operai spe-cializzati di questa fabbrica guadagnano bene,intorno ai seicento euro (lo stipendio di unbancario di circa duecentosettantacinque eu-ro mensili). Alla Pirelli di Slatina si parte da unsalario di centotrenta euro con la prospettiva diarrivare al massimo, a fine carriera, a trecentoeuro. Poi c unaltra fabbrica che produce tubi,la Tevi, con circa duemila operai, pi altre pic-

    cole fabbriche.Gli zingari con cui ci fermiamo a parlare, alla

    fine provano a scucirci un po di spiccioli, perlinformatia.

    Certo! Come no! risponde Dumitru, facen-do a ciascuno, cerimoniosamente, il gestodellombrello Questo per te, questo per te equesto per te!

    Ridono tutti. Ci salutiamo. Giovanni si fa in-dicare da Dumitru un Internet point, perchdeve mandare notizie a Pavia. Ritorno in alber-go da solo.

    In Romania gli zingari sono circa mezzo mi-lione, secondo i dati ufficiali. Ma sono dati po-

    co attendibili perch gli zingari non partecipa-no ai censimenti, non ritirano i moduli, non licompilano. Secondo una stima reale sono dalmilione e ottocentomila ai tre milioni, su unapopolazione di circa ventitre milioni di abitan-ti. Secondo la Banca Mondiale quasi il trentaper cento dei rumeni vive sotto la soglia dellapovert. Dal 1991 al 2001 sono partiti dalla

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    Romania il ventitre per cento dei giovani sottoi diciannove anni. Lo stato rumeno, oltre al vantaggio ottenuto dallo scaricare allesterouna parte cos importante della sua popolazio-ne povera, ne ricava anche un rientro di ric-chezza attraverso le rimesse degli emigranti.Gli zingari sono la parte pi miserabile e pi ir-riducibile di questo fiume. La loro economiasubalterna e parassitaria si modella su ogni pi

    piccola piega delleconomia dominante, legalee illegale, riciclo e rivendita di materiali scarta-ti, piccoli lavori regolari, accattonaggio, furti,prostituzione, spaccio Eppure, nonostantequesto, gli zingari non hanno costruito una for-te struttura criminale gestita da loro stessi,come hanno fatto altre popolazioni migranti, isiciliani con la mafia, gli albanesi, i cinesi pur

    avendo come pochi altri mobilit, duttilit eimprendibilit. Perch non hanno dietro di sstati, strutture politiche ed economiche su cuiincernierare le loro organizzazioni, per il loroindividualismo e il loro fatalismo. Nella grandemaggioranza sono poveri ed emarginati dal re-sto della popolazione qui quasi come in Italia,per almeno in Italia si trovano ad avere attor-

    no a s una societ e uneconomia pi ricche,da cui poter ricavare qualcosa di pi. In unagiornata di accattonaggio in Italia, ad esempio,una donna zingara porta a casa in media circatrenta euro, il triplo dello stipendio medio diun operaio qui a Slatina. Intanto i mariti e i fi-gli si aggiustano con lavori sottopagati nelledi-lizia, nei magazzini, nelle stalle, nelle campa-

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    gne, in qualche caso con piccoli furti, spaccio,prostituzione, in casi rari con qualcosa di anco-ra pi abietto.

    Ne parliamo io e Giovanni, di sera. Perchpersino tra i rifugiati della Snia, in mezzo aglizingari che lottavano al buio, con le unghie ecoi denti, per strappare una ragazza alla prosti-tuzione, contro altri corpi venuti a rapirla, ceraanche qualcun altro, ragazza e ragazzo, che si

    prostituiva. Persino genitori che vendevano ilcorpo del proprio bambino di sette, otto anni aipedofili, come carne da macello gettata in pa-sto ai cannibali adulti del paese pi ricco, checos non hanno neanche pi bisogno di pren-dere gli aerei e di andare a profanare e a man-giare i bambini e le bambine nel Sud-est asiati-co.

    Mi viene in mente una cosa che mi ha lascia-to una strana impressione dico a GiovanniQuando sono venuto la seconda volta allaSnia, se ti ricordi, dopo la prima demolizione,c stato uno zingaro, scuro di pelle come unindiano, che quando ci ha visto passare per ilvialetto pieno di baracchine, topi morti schiac-ciati, poltrone sbudellate recuperate dalle di-

    scariche e mucchi di immondizie, ha insistitoperch entrassimo anche nel rudere semide-molito dove viveva con la sua famiglia. Noi gliabbiamo detto che lo avremmo fatto dopo esse-re passati da un altro paio di baracchine.Quando poi siamo passati anche da lui, e siamoentrati dentro il suo misero rudere liberato concura dalle macerie e dai calcinacci, abbiamo vi-

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    sto che, al centro della scena, cera un bambinonudo dentro una tinozza di metallo pienadacqua portata l con le taniche dalla fontanel-la del cimitero. Qualcosa in quella scena mi a-veva colpito. Il bambino sembrava non poternepi di stare nudo l dentro, protestava, si la-mentava. Il padre gli ordinava di stare nella ti-nozza, mentre noi l vicino parlavamo seduti sudelle poltroncine e delle seggiole scalcagnate e

    bevevamo il caff e la Coca-Cola che ci avevanoofferto. Alla fine al bambino stato permessodi uscire dalla tinozza. Lo hanno asciugato ben bene con un asciugamano ed scappato via.Dopo quella dimostrazione, il padre ci ha tenu-to a dire che loro erano puliti, che andavanosempre a prendere lacqua, che si lavavano. E-rano tutti particolarmente gentili, cerimoniosi.

    Scusa, Giovanni, ma per un momento mi ve-nuto da pensare che ci avessero appena mo-strato la merce Per cui poco fa, quando mihai parlato di uno di loro che vende il bambinoai pedofili

    Giovanni abbassa gli occhi.S, potrebbe essere proprio lui.Restiamo in silenzio per qualche istante. Poi

    Giovanni mi parla del suo disagio perch ades-so sa questa cosa, di gente che offre forti cifre aquesti miserabili perch gli diano in pasto ilbambino e di questi che non sanno resistere eaccettano, e non sa come fare, se continuare adaiutare anche chi si comporta in questo modooppure no. La telefonata che ha ricevuto pocofa sul cellulare era proprio della madre di quel

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    bambino, gli chiedeva se era gi riuscito a tro-vare per loro una casa a Pavia. Io mi ero accor-to che Giovanni rispondeva in modo laconico,spazientito.Ho persino litigato con un paio di persone

    mi dice che sono arrivate a darmi del razzistaperch facevo queste distinzioni. Loro giustifi-cano tutto con la povert, la miseria, il bisogno,sembra che la cosa non gli faccia in fondo n

    caldo n freddo, che gli vada beneMa s, perch lhanno ficcata dentro un si-

    stema di idee, che li mette al sicuro dallorroree dal male, che gli fa comodo, che alimenta laloro falsa coscienza. Sono degli scellerati ancheloro, con tutte le loro coperture ideologiche epolitiche, non si rendono conto che cos facen-do sono anche loro complici di questa profana-

    zione e di questa carneficina. Scusa, Giovanni,ma io su queste cose non ragiono, non riescoad accettare o a inventarmi delle relativizza-zioni e delle giustificazioni. Riesco a capire losconfinamento nella piccola criminalit per chivive dentro questo cerchio infinito di margina-lit e di persecuzione, ma chi vende e fa straziodel corpo e della persona del proprio figlio

    bambino e lo d in pasto a questi bravi e luridicittadini, magari di giorno anche loro razzisti exenofobi come si conviene ma che poi di nottesi aggirano attorno a questi ruderi subumanicon il portafoglio pieno di soldi e la lingua fuo-ri, io questo non lo giustifico, non lo accetto.Neanche la povert, la miseria me lo rende ac-cettabile, perch anche tra i miserabili, sempre,

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    in ogni situazione, in ogni epoca, c chi fa que-ste cose e chi non le fa, e se io non voglio vede-re questo schiaccio e uccido ogni differenza,non riesco a cogliere la disperata forza della vi-ta nel suo movimento verso la luce e la sua tra-gica libert. Queste coperture ideologiche dichi fa della miseria una causa, un indistinto, unfeticcio, di chi vuole vedere come unico motivodi tanta abiezione la sola condizione economica

    e ambientale e che si rifiuta di vedere e patirequesta carneficina, a me fanno orrore. Perchanche in queste catene di tragedie e abiezionisociali e ambientali c chi porta sulle propriespalle pi di ogni altro il peso di tutto. In que-sto caso quel bambino, e io sono completa-mente e visceralmente dalla sua parte. quelbambino che porta la croce per tutti, per quegli

    animali che gli sfondano il culo, per i suoi scel-lerati parenti e per tutti noi. Cos come ci sonoin Italia trentamila ragazze rumene, delle qualiil cinquanta per cento bambine, tenute schiaveda criminali rumeni foraggiati dai maschi ita-liani con almeno duecento milioni di euroallanno. E non riuscire a vedere queste cose,stare con la testa in un rassicurante bozzolo i-

    deologico o sociologico di omert razionalizza-ta e di mala fede e non riuscire a distinguerechi regge il peso di tutto questo sul proprio pic-colo corpo ti rende complice di questo orrore.

    Tutto mosso. Se si va vicino, molto vicino atutta questa disperazione e a questa ferita, sivede che tutto mosso, che ci sono le oscurit ele luci, le persone diverse ciascuna chiusa nel

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    proprio involucro di carne, le singole vite, chepersino sui bordi di questa piaga tutto si divin-cola e brulica, come i microrganismi e le celluleche combattono alla cieca per la propria esi-stenza e salvezza fin dentro il cuore della mate-ria infettata. Niente fermo. Nellindistintoogni cosa si muove. C qualcosa, da una partee dallaltra, dalla parte degli zingari e da quelladegli altri e persino dei nemici degli zingari,

    che non sta mai fermo, si muove. Non bisognanascondersi una parte della verit per far an-dare a posto le cose. LEuropa di questi anni percorsa e attraversata da queste migrazioni eda queste tragedie, che molti fingono di nonvedere per non trarne le conseguenze, per po-ter continuare a gestire il segmento breve e cie-co delleconomia e della politica. cos nel co-

    siddetto mercato del lavoro, quello legale equello illegale, quello illegale legalizzato daglistati e dai gruppi economici e quello delleco-nomia criminale globale che sorregge le eco-nomie emerse, con i continui scontri tra gruppieconomici mascherati dietro strumentali di-scorsi e principi di facciata, il libero mercato, lalibera circolazione di uomini e merci, che o-

    gnuno intende a modo suo e secondo il propriocomodo e la propria convenienza, la nuovarappresentazione del mondo che copre una di-namica e una realt ben diverse, il razzismo a-limentato e pilotato, i provvedimenti xenofobiper tenere alte le rendite politiche ed elettoralidei professionisti di questa sola professionalitdi tirare fuori il peggio dalle persone pescando

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    continua a farlo anche adesso. Come le popola-zioni che hanno attraversato lEuropa al tempodellImpero Romano e anche dopo, che neppu-re le continue guerre sono riuscite alla fine abloccare in un arco di tempo appena pi gran-de, che hanno trovato altre strade carsiche oemerse per ripresentarsi con la loro inarresta- bile spinta umana e riproduttiva, in questocontinente che per far respirare la propria eco-

    nomia ha avuto bisogno di aprire le propriefrontiere interne ma che si illude di poter sele-zionare a suo piacimento le entrate, di non do-ver subire londa dei miserabili che si dirigonoverso le sue zone pi ricche, viste o immaginateluccicare da molto lontano allinterno dei lorotuguri dentro le scatole televisive che traspor-tano visioni e illusioni scatenando le spinte

    psichiche di queste misere popolazioni che sispostano da una parte e dallaltra come tra-sportate da un vento, da un uragano. Al tempodei Romani si facevano continue guerre per ri-cacciarle fuori dai confini o per spezzare la lorospinta direttamente in casa loro mentre se neassimilava una parte. Sarebbero disposti i no-stri stupidi e gretti xenofobi, che aizzano le no-

    stre popolazioni contro questi miserabili perconservare e accrescere il proprio potere, a cuipiacciono le guerre soprattutto se a farle sonogli altri, a prendere le armi e a passare granparte della propria vita a fare la guerra a questinuovi barbari? Non credo. Bene, allora che simettano il cuore in pace. Le migrazioni dei po-poli non si fermano. Non si possono fermare

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    alla fine neppure con le guerre, che a volte nonsono altro che migrazioni di popoli maschera-te. E non saranno i soli meccanismi economicivisti in questa epoca come insuperabili e onni-potenti a esorcizzare e a fermare queste spinte.Non resta che trovare e inventare altre strademai tentate prima. Anche per gli zingari, que-sto popolo errante, un po sedentario e un poerrante, che si sta spostando da secoli, disper-

    so, scacciato, questo cerchio che non riesce maiad aprirsi e a spezzarsi, finito nei forni crema-tori assieme agli ebrei come razza antisociale,con la sua irresistibile prolificit dei miserabili,con la sua inarrestabile spinta vegetale. Divisitra di loro in mille modi diversi e in mille caste,che si scontrano e lottano senza piet anche tradi loro come corpi estranei gli uni agli altri ma

    che pure si riconoscono da lontano per la lorolingua, il modo di vestirsi, il portamento, la-spetto, si riconoscono anche quando sono na-scosti sotto altre vesti, che si piegano ma chenon si spezzano, che continuano a riconoscersicome popolo anche se sono arrivati qui allaspicciolata molti secoli fa gi divisi o che si so-no poi divisi in Rom, Sinti, Kal, con la loro lin-

    gua mai smarrita del tutto pur attraverso lemille contaminazioni, che continuano a portaredentro di s traccia del loro andare. Piano pia-no, secolo dopo secolo, e che continuano anco-ra a spostarsi anche in casa nostra senza cheniente riesca a fermarli

    Mi stai dicendo che adesso stanno facendo ilpezzo dellItalia? domanda Giovanni.

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    S pu dire anche cos, se vogliamo vederladallinterno, ammesso che ci sia un internoDa noi alcuni si fermano, altri no. Alcuni tro-vano un lavoro e si adattano a farlo, mandano ibambini a scuola. Altri no. Continuano a spo-starsi, a vivere di espedienti, rimangono irridu-cibilmente zingari nella testa. Mi hai detto chein Italia ci sono circa centomila zingari,lottanta per cento di nazionalit italiana. I

    passaggi non sono mai netti. C una compre-senza di diversi modi di vivere, quello prece-dente e quello dettato dalla necessit di aderirealla situazione attuale, sono come quegli ani-mali che conservano nel loro corpo organi diuna specie e altri di unaltra. Si spingono in zo-ne pi ricche dove si installano con le loro pic-cole economie parassitarie, trovano delle per-

    sone buone come te che non riescono a tollera-re la vista di una simile miseria e degrado e liaiutano, fanno delle battaglie civili per loro, ac-cettano di vivere come nessun altro riuscirebbea vivere per vanno avanti, con la loro irresi-stibile potenza riproduttiva gettata genetica-mente allo sbaraglio, con la loro irriducibile emisteriosa identit. Lesistenza, ancora oggi, di

    un simile popolo non si spiega solo con i mec-canismi economici. Ci sono strutture preceden-ti che non si sciolgono dentro lacido totaliz-zante delleconomia e dellinfluenza ambienta-le. Nella presenza degli zingari c qualcosa chenon spiegabile secondo i soli parametri eco-nomici e sociali e che affiora da strutture pre-cedenti che non si sono diluite del tutto, che

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    questo strano, inspiegabile popolo ha conser-vato in s attraverso il tempo e lo spazio. Ti de- vo dire sinceramente come la penso. Noi fac-ciamo bene a raccogliere informazioni econo-miche, sociali. Aiutano molto a capire. Ma nonsono tutto. Non sono sufficienti per farci capirefino in fondo lesistenza di questo popolo infi-nitamente duttile e mobile, ma che nello stessotempo si muove in ogni paese e in ogni conti-

    nente come lolio nellacqua. Fai bene a lottareperch abbiano uguali diritti e uguali doveri,ma nello stesso tempo bisogna rispettare e ac-cettare la loro diversit e inspiegabilit, altri-menti solo una forma di paternalismo che vorrebbe assimilare ogni cosa, rendere anchequesto popolo uguale a noi, visti come la misu-ra e il modello di tutte le cose. Attorno agli zin-

    gari, da una parte e dallaltra, c molta dema-gogia, feticismo, proprio perch la loro diversi-t crea problema, quando non addirittura spa- vento. Questo popolo senza una tradizionescritta, senza uno stato, senza un esercito, chesembra uscire dal nulla, diviso in mille rivoli eper niente solidale e unito ma che mantiene adispetto di tutto i suoi tratti inconfondibili. C

    chi ne fa un feticcio negativo e ne vede solo ilmale, i mendicanti, i parassiti, i ladri, gli anti-sociali, i devianti, gli incontrollabili, preda dipaure dove sembrano riaffiorare le prime lace-ranti e feroci divisioni tra i nomadi e i sedenta-ri, tra i popoli che vivevano di caccia e quelliche hanno cominciato a praticare lagricoltura,che hanno spaccato il genere umano per lungo

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    tempo e da cui sono nate le nostre civilt. Le ri-sposte che danno alle loro paure, ai loro terrorisono, oltre che inaccettabili e odiose, stupide,miopi, sbagliate. Eppure rivelano una perce-zione primordiale che coglie un aspetto intimoche altri si rifiutano o non sono in grado di co-gliere: che non si tratta di semplici spostamentidi piccoli gruppi trascinati qua e l dal mercatodel lavoro ma di vere e proprie migrazioni, del-

    le prime avvisaglie di migrazioni infinitamentepi grandi che avverranno con ogni probabilitnel futuro come conseguenza degli incorreggi- bili meccanismi economici e politici umani edei probabili disastri naturali che ci aspettano.E credono che i loro stupidi, miopi ostracismi limetteranno al sicuro da tutto questo. E poi cchi, altrettanto stupidamente, ne fa un feticcio

    positivo e una caricatura di segno opposto: glizingari felici, con la loro libert e i loro straccicolorati, le loro musiche, i loro balli e le loro fe-ste, con il loro rifiuto dei nostri modelli eco-nomici e sociali di vita, il regno anarchico dellalibert. Ne fanno la versione moderna del buonselvaggio, sono sempre in cerca di una causache li faccia sentire bene, nel giusto, dopo che

    altre cause sono miseramente fallite. Sono tuttie due soltanto modi diversi per disinnescarelindigeribilit di questo popolo incomprensibi-le e inestirpabile. Un popolo che conserva co-stumi e modi di vivere che vanno per contoproprio rispetto a quelli degli altri popoli, aipopoli gag in mezzo ai quali si trovano a vive-re, nei confronti dei quali mantengono il pi

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    delle volte un atteggiamento strumentale e o-stile. Mai avuto nella loro storia uno stato, unesercito, mai dichiarato guerra a nessun altropopolo eppure in guerra contro lintero mondoche li circonda. Neppure una struttura crimina-le centralizzata con cui farsi largo durante lapenetrazione nei territori alieni. Nessuna iden-tit costituita come una legge, nessuna tradi-zione scritta che permetta di fare luce sulle ori-

    gini e sulla storia di questo misterioso popolo,che mantiene tutta la sua diversit, la sua di-sperata energia e la sua forza nel piccolo mon-do globale che solo poco tempo fa aveva teoriz-zato la fine della storia e della possibilit stessadellesperienza nellillusione infantile e seniledi conservare per sempre la propria terminali-t. Barbari che vengono prima ancora dei bar-

    bari, prima ancora che si formassero le struttu-re guerriere barbare in grado di dare il cambioalle precedenti strutture imperiali nate da pre-cedenti barbarie. Gli ebrei -altro popolo miste-rioso ai quali gli zingari vengono spesso para-gonati per cercare di capirne qualcosa- hannoespresso di nuovo dal loro interno uno stato,un esercito, una forza politica e culturale strut-

    turata e globalizzata. E hanno una forte tradi-zione scritta, hanno un libro, anzi il Libro, sonostati persino chiamati il popolo del Libro. Glizingari non hanno niente di tutto questo. Il lo-ro universo preindustriale mobile persinonella sedentariet, molti di loro cambianospesso lavoro, anche quando si fermano a vive-re in uno stesso posto, non sembrano interes-

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    sati a esperienze lavorative di lunga durata o atempo indeterminato, anche quando si seden-tarizzano mantengono una loro pendolaritspaziale e mentale. Si adattano a ogni ripiego.Il popolo libero si trasforma nel popolo di ser-vizio, che si adatta a servire persino le esigenzepi ignobili dei popoli da cui strappano a branila propria sopravvivenza. Non pare esserci unordine preciso, una direzione, un comando, che

    spieghi perch questo popolo continua a mi-grare, questo fiume continua a scorrere. Que-sto misto di libert e opportunismo, di fierezzae di infingardaggine, di irriducibilit e di pa-rassitismo. La parte pi sconcertante, inspie-gabile e misera delle migrazioni che stanno at-traversando lEuropa in questo breve tempoumano inventato, e che possono diventare per-

    sino lavvisaglia e il modello di pi vaste migra-zioni umane future nel residuo tempo umanoche ci aspetta. Tutto questo perch? Per qualeragione? Per quale disegno? Per quale sogno?Per quale altro disegno che non sia linarresta- bile proliferazione delle strutture genetichegettate allo sbaraglio attraverso il tempo e lospazio? E,