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Antonio Da Re La deliberazione pratica tra passato e presente 1 Introduzione La deliberazione sembra essere un requisito indispensabile per far sì che le nostre scelte siano oculate e ponderate. Di una buona deliberazione abbiamo continuamente bisogno, specie quando essa abbia attinenza con beni assai rilevanti per noi, per coloro che ci vivono accanto e anche per coloro che magari non conosciamo personalmente ma condividono con noi il vivere in un comune spazio sociale e culturale, regolato da istituzioni e norme. Eppure spesso sottovalutiamo l’importanza di tale requisito, del quale ha finito per disinteressarsi anche la stessa riflessione filosofica, almeno nei suoi orientamenti contrassegnati in modo più marcato dal decisionismo, dall’irrazionalismo e dall’individualismo. Non solo: non è affatto facile deliberare, anche perché tale compito, così rilevante e impegnativo, viene spesso frainteso e ridotto a una decisione meramente individuale, che richiederebbe abilità quali la prontezza di spirito e la capacità di rispondere in tempi brevi. Nelle pagine che seguono, dopo aver illustrato la concezione aristotelica della deliberazione, che ancor oggi costituisce un punto di riferimento irrinunciabile, e dopo aver dedicato alcune rapide attenzioni al dibattito contemporaneo, ci si soffermerà sull’importanza d’intendere la deliberazione come un processo complesso e impegnativo, che proprio per questo richiede di essere sostenuto dal confronto con altri. La deliberazione non è qualcosa di istantaneo o una decisione immediata e improvvisa. Semmai è un percorso che chiama in causa il soggetto o, meglio, la formazione del suo carattere, riprendendo di nuovo una terminologia aristotelica. Detto altrimenti, è solo collocandosi nella prospettiva della prima persona, quindi nella prospettiva del carattere e della formazione dei suoi tratti, che noi riusciamo a cogliere la ricchezza del processo deliberativo e le difficoltà che l’attraversano. Proprio perché deliberare bene non è facile, né si tratta di un esercizio estemporaneo, abbiamo bisogno del consiglio degli altri. L’ancoraggio alla prospettiva della prima persona e la necessità di essere sostenuti e consigliati dagli altri si presentano pertanto come i due tratti qualificanti di una plausibile teoria della deliberazione pratica, senz’altro rinnovata rispetto ai clichés tecnicistici e individualistici che molta influenza continuano a esercitare nei nostri immaginari sociali. La deliberazione pratica: la lezione aristotelica L’insegnamento aristotelico merita senz’altro di essere ripreso per un duplice motivo: esso può essere considerato la prima, consapevole e articolata tematizzazione del ruolo della deliberazione pratica (bouleusis); inoltre esso è stato ripetutamente fatto oggetto di analisi, di approfondimenti, di riproposizioni e anche di critiche da parte del dibattito contemporaneo. All’interno della complessa e sofisticata teoria dell’azione, sviluppata nei libri III e VI dell’Etica Nicomachea, ci vengono presentati una serie di concetti basilari, quali quelli di scelta (proairesis), volontà (boulesis), desiderio (orexis) e altri ancora. Tra questi un posto di primo piano è occupato dal concetto di deliberazione. Va notato in primo luogo come deliberazione e scelta siano reciprocamente correlate, al punto che molte delle determinazioni valide per l’una possono essere estese anche all’altra. La deliberazione è strettamente legata alla scelta, nel senso che quest’ultima si esprime dopo che il 1 Pubblicato in La “Cellula del buon consiglio. Condividere la deliberazione pratica, a cura di L. Alici (a cura di), Aracne, Ariccia (RM) 2015, pp. 19-40.

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Antonio Da Re

La deliberazione pratica tra passato e presente1

Introduzione

La deliberazione sembra essere un requisito indispensabile per far sì che le nostre scelte siano

oculate e ponderate. Di una buona deliberazione abbiamo continuamente bisogno, specie quando

essa abbia attinenza con beni assai rilevanti per noi, per coloro che ci vivono accanto e anche per

coloro che magari non conosciamo personalmente ma condividono con noi il vivere in un comune

spazio sociale e culturale, regolato da istituzioni e norme. Eppure spesso sottovalutiamo

l’importanza di tale requisito, del quale ha finito per disinteressarsi anche la stessa riflessione

filosofica, almeno nei suoi orientamenti contrassegnati in modo più marcato dal decisionismo,

dall’irrazionalismo e dall’individualismo. Non solo: non è affatto facile deliberare, anche perché

tale compito, così rilevante e impegnativo, viene spesso frainteso e ridotto a una decisione

meramente individuale, che richiederebbe abilità quali la prontezza di spirito e la capacità di

rispondere in tempi brevi.

Nelle pagine che seguono, dopo aver illustrato la concezione aristotelica della deliberazione, che

ancor oggi costituisce un punto di riferimento irrinunciabile, e dopo aver dedicato alcune rapide

attenzioni al dibattito contemporaneo, ci si soffermerà sull’importanza d’intendere la deliberazione

come un processo complesso e impegnativo, che proprio per questo richiede di essere sostenuto dal

confronto con altri. La deliberazione non è qualcosa di istantaneo o una decisione immediata e

improvvisa. Semmai è un percorso che chiama in causa il soggetto o, meglio, la formazione del suo

carattere, riprendendo di nuovo una terminologia aristotelica. Detto altrimenti, è solo collocandosi

nella prospettiva della prima persona, quindi nella prospettiva del carattere e della formazione dei

suoi tratti, che noi riusciamo a cogliere la ricchezza del processo deliberativo e le difficoltà che

l’attraversano. Proprio perché deliberare bene non è facile, né si tratta di un esercizio estemporaneo,

abbiamo bisogno del consiglio degli altri. L’ancoraggio alla prospettiva della prima persona e la

necessità di essere sostenuti e consigliati dagli altri si presentano pertanto come i due tratti

qualificanti di una plausibile teoria della deliberazione pratica, senz’altro rinnovata rispetto ai

clichés tecnicistici e individualistici che molta influenza continuano a esercitare nei nostri

immaginari sociali.

La deliberazione pratica: la lezione aristotelica

L’insegnamento aristotelico merita senz’altro di essere ripreso per un duplice motivo: esso può

essere considerato la prima, consapevole e articolata tematizzazione del ruolo della deliberazione

pratica (bouleusis); inoltre esso è stato ripetutamente fatto oggetto di analisi, di approfondimenti, di

riproposizioni e anche di critiche da parte del dibattito contemporaneo. All’interno della complessa

e sofisticata teoria dell’azione, sviluppata nei libri III e VI dell’Etica Nicomachea, ci vengono

presentati una serie di concetti basilari, quali quelli di scelta (proairesis), volontà (boulesis),

desiderio (orexis) e altri ancora. Tra questi un posto di primo piano è occupato dal concetto di

deliberazione. Va notato in primo luogo come deliberazione e scelta siano reciprocamente correlate,

al punto che molte delle determinazioni valide per l’una possono essere estese anche all’altra. La

deliberazione è strettamente legata alla scelta, nel senso che quest’ultima si esprime dopo che il

1 Pubblicato in La “Cellula del buon consiglio. Condividere la deliberazione pratica, a cura di L. Alici (a cura di),

Aracne, Ariccia (RM) 2015, pp. 19-40.

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soggetto ha condotto la sua indagine e ha valutato adeguatamente la situazione, dopo insomma che

egli ha deliberato2.

Aristotele si chiede quale sia l’oggetto della deliberazione o, per essere più precisi, l’ambito

esperienziale nel quale essa ha modo di esprimersi. Egli utilizza infatti la preposizione peri, che

compare anche altrove, quando si sta indagando riguardo ai contenuti delle virtù e all’ambito della

nostra esperienza a cui si riferiscono le diverse virtù, per esempio, quella del coraggio o quella della

temperanza. Nel caso specifico la domanda “riguardo a ciò” (peri ti)3 che è qui oggetto di indagine

potrebbe essere resa così: a che cosa si riferisce la deliberazione, quando e come essa si esercita?

Nella sua risposta, Aristotele individua le fattispecie nelle quali non può aver luogo il processo

deliberativo. Infatti non si può deliberare su ogni cosa, per esempio sulle cose eterne (il cosmo e

l’incommensurabilità della diagonale e del lato) e neppure su ciò che avviene per natura o per

necessità o per caso4. Perché possa darsi, la deliberazione deve riguardare ciò che dipende da noi e

più precisamente quelle situazioni che avvengono per lo più (epi to poly) e delle quali non è chiaro

come andranno a finire e quelle in cui vi è un che di indeterminato5.

Due elementi sembrano quindi contraddistinguere in prima battuta la deliberazione: essa si

applica solo ed esclusivamente alle cose che dipendono da noi (ta eph’hemin); inoltre essa è

richiesta per far fronte all’incertezza. Non possiamo deliberare su ciò che fuoriesce dal nostro

raggio d’azione, si tratti di un qualche evento naturale o puramente casuale o anche di un evento

passato, che come tale è già avvenuto e non è più modificabile; se poi avvertiamo la necessità di

deliberare, è perché ci troviamo in difficoltà, siamo dubbiosi e incerti su come e in che direzione

muoverci. A ciò si deve aggiungere un elemento che contraddistingue la concezione aristotelica e

sul quale sarà necessario ritornare più avanti: la deliberazione non riguarda propriamente il fine, ma

ciò che conduce al fine (ta pros to telos)6. Il medico non delibera se guarire, dal momento che è

assodato che la finalità della sua attività risiede proprio nella salute e nella guarigione del malato;

semmai il medico si chiede quali siano le modalità che permettano di raggiungere tale fine e su ciò,

ovvero su quel che è indirizzato al fine, si può e in qualche modo si deve deliberare.

Resta da chiedersi chi sia in grado di svolgere tale compito al meglio, chi sia pertanto capace di

ben deliberare. Aristotele non ha dubbi al riguardo nell’individuare nell’uomo saggio, nel

phronimos7, il modello della buona deliberazione, la quale è guidata e sostenuta dal pensiero pratico

della virtù intellettuale della saggezza (phronesis). La saggezza costituisce una forma di razionalità

pratica attenta alla particolarità delle situazioni concrete, ma sempre indirizzata a fini buoni, come

tale non identificabile con l’abilità, deinotes, che invece prescinde dalla considerazione della bontà

o meno dei fini e quindi può accompagnare la stessa saggezza, ma può anche trasformarsi in

furbizia8. Più in generale si può affermare che noi uomini, a differenza degli animali, privi di tale

capacità9, siamo esseri deliberanti in quanto dotati di ragione, nonché di senso della temporalità,

perché ciò su cui deliberiamo è tale perché non ha ancora avuto luogo e anzi può essere da noi

modificato e indirizzato.

2 Cfr. ARISTOT. Eth. Nic. III, 1113 a 2-5 (d’ora in poi mi limiterò a riportare l’abbreviazione Eth. Nic.). Pur tenendo

conto di diverse traduzioni italiane dell’opera, si privilegia la seguente edizione: ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad.

it. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999. 3 Cfr. Eth. Nic. III, 1112a 18 - 19. 4 Cfr. Eth. Nic. III, 1112a 21 - 29. 5 Cfr. Eth. Nic. III, 1112a 30 - 34; 1112b 8 - 9. 6 Cfr., per esempio, Eth. Nic. III, 1112b 12, dove si parla di ciò che conduce ai fini (ta pros ta tele). 7 Si veda Eth. Nic. VI, 1141b 8 - 14. 8 La distinzione tra phronesis e deinotes è tematizzata in Eth. Nic. VI, 1144a 23 - 29. Sul rapporto tra bouleusis e

phronesis si sofferma l’importante volume di C. NATALI, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989,

specialmente al cap. terzo su “Fini e mezzi”, pp. 103-142. 9 «Soltanto l’uomo, fra gli animali, ha la capacità di deliberare» (ARISTOT. Hist Anim. I 488b 24 s., in ARISTOTELE,

Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, Utet, Torino 1971, p. 136).

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Altre forme di deliberazione: il dibattito contemporaneo

A partire dalla seconda metà del Novecento è stata elaborata la cosiddetta teoria della scelta

razionale, che ha esercitato un grande influsso sulla riflessione economica10. La terminologia

rinvenibile all’interno di tale teoria a prima vista presenta delle singolari affinità con quella

impiegata da Aristotele, che già aveva sottolineato il carattere razionale della scelta e della

deliberazione; tuttavia le differenze concettuali e teoriche tra le due prospettive sono davvero

rilevanti. Innanzitutto nella teoria della scelta razionale il soggetto è concepito come un decisore

puramente e idealmente razionale: egli certamente ha dei desideri o, meglio, delle preferenze che

può ordinare e gerarchizzare; ma ancor più è colui che è in grado di massimizzare il benessere

attraverso l’ordinamento delle preferenze e la loro realizzazione grazie a delle scelte razionali. Tali

scelte sono di tipo strumentale ovvero sono indirizzate al raggiungimento del risultato; il parametro

di giudizio della scelta è dato dalla capacità di riuscire a conseguire il risultato stabilito e dal

rispetto di parametri di efficienza che rendono possibile ciò. Il decisore è inoltre concepito come un

individuo a sé stante, che esamina e vaglia tutte le diverse opzioni e poi sceglie in modo razionale il

corso d’azione che ha sul piano delle probabilità le maggiori chances di successo. Il processo

deliberativo è pertanto finalizzato all’efficacia del risultato da ottenere e di conseguenza esso si

trova alle prese con un problema di tipo tecnico più che morale; importante è quindi la capacità da

parte del soggetto di valutare razionalmente le diverse possibilità per poi riuscire a massimizzare la

propria funzione di utilità.

Non vi è qui lo spazio per addentrarsi in un’analisi più puntuale della teoria delle scelta razionale

e della sue diverse declinazioni, da quella che indaga il processo decisionale come massimizzazione

dell’utilità attesa in contesti di rischio o di incertezza (si vedano gli studi pionieristici del

matematico John Von Neumann sulla teoria dei giochi e dell’economista Oskar Morgenstern), a

quella che ritiene che l’agire individuale, anche in ambito economico, sia mosso da motivazioni più

articolate di quelle volte a ricercare il proprio benessere personale: è questa la prospettiva di John C.

Harsanyi, che parla espressamente dell’importanza delle preferenze benevoli e imparziali11, pur

confermando la tesi di fondo che "un individuo razionale sceglierà sempre quel particolare sistema

in grado di massimizzare la sua utilità attesa", tesi dalla quale consegue che l'utilità sociale è

definibile come "la media delle utilità individuali"12.

Tralasciando anche una discussione più approfondita dei motivi utilitaristici che

contraddistinguono diverse formulazioni della teoria della scelta razionale, merita di essere ripresa

la critica avanzata da John R. Searle verso ciò che egli chiama “la teoria standard della decisione”13.

Tale critica colpisce l’approccio idealizzante e conseguentemente il modo piuttosto superficiale e

semplicistico con cui viene descritta la scelta razionale. La teoria standard dà infatti per scontato

che il soggetto possegga già uno schema precostituito e ben ordinato delle sue preferenze e che

quindi la questione principale consista nello sviluppare razionalmente dei calcoli di probabilità su

come pervenire alla sommità dell’ordinamento delle preferenze. In verità non è questo il problema.

Ancor prima si tratta di stabilire quali preferenze debbano avere la precedenza rispetto ad altre,

come quindi sia possibile costruire uno schema adeguato di esse; detto altrimenti, il problema

riguarda la volontà del soggetto, e non è affatto scontato che questa sia già ben indirizzata prima che

abbia preso avvio la procedura deliberativa. Searle racconta un simpatico aneddoto riguardante un

10 A mo’ d’introduzione si veda K.J. ARROW (ed. by), The Rational Foundations of Economic Behaviour, Macmillan,

London 1996. 11 Cfr. J.C. HARSANYI, L'utilitarismo (1955-1986), ed. it. a cura di S. Morini, Il Saggiatore, Milano 1988, in particolare

il cap. III; per Harsanyi le preferenze benevoli e imparziali sono rilevanti per l’individuazione del punto di vista morale. 12 J.C. HARSANYI, Moralità e teoria del comportamento razionale (1977), in A. SEN - B. WILLIAMS, Utilitarismo e oltre

(1982), tr. it. di A. Besussi, Il Saggiatore, Milano 19902, p. 59. 13 J.R. SEARLE, La razionalità dell’azione (2001), trad. it. di E. Carli e M. V. Bramè, Cortina, Milano 2003, p. 117.

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famoso teorico della decisione razionale, che aveva ricevuto la proposta di assumere un prestigioso

incarico presso un’altra università. Ebbene lo studioso era in difficoltà, si domandava se valeva la

pena trasferirsi in una nuova sede accademica e in definitiva non sapeva quale decisione prendere.

Per tale motivo chiese consiglio a un amico; questi manifestò tutto il suo stupore nel constatare che

un rinomato studioso della teoria della scelta razionale si mostrasse così indeciso. In realtà,

commenta Searle, il disorientamento dello studioso non era poi così strano: “ciò che l’amico non

sapeva è che la teoria della decisione si applica, in gran parte, solamente dopo che le parti più

difficili della decisione sono state prese”14.

La teoria standard attingerebbe al cosiddetto “modello classico della razionalità”, al quale

secondo Searle sarebbero riconducibili, al di là di differenze anche marcate, Aristotele, Hume e

Kant. Lo stesso Searle sembra qui concedere molto a una lettura piuttosto semplicistica dei testi

della tradizione filosofica, anche perché non di rado egli stesso si chiede se effettivamente

orientamenti cosi differenziati possano essere tra loro accomunati. A uno sguardo più attento

emerge come all’interno del modello classico di razionalità l’autore di riferimento sia rappresentato

soprattutto da Hume e in tal senso si può affermare che l’interpretazione di Searle sia indirettamente

condizionata dalla riflessione di Donald Davidson e dalla sua tesi che per spiegare la causazione

delle azioni dobbiamo far ricorso ai desideri e alle credenze15. Ora, proprio il riferimento ai desideri

e alle credenze come fattori causali delle azioni razionali costituirebbe il tratto distintivo del

modello classico. In base a tale modello, il soggetto prende preliminarmente in considerazione i

propri scopi, desideri, finalità, e da questi è concretamente mosso all’azione. La razionalità, però,

non ha modo di esercitarsi a questo livello preliminare, bensì riguarda le modalità che consentono al

soggetto di pervenire ai suoi scopi o di soddisfare i propri desideri. In altri termini, solamente i

mezzi, e non i fini, sono sottoposti a dei vincoli razionali.

Quest’ultimo tema, di una razionalità che si limita a investigare l’ambito di ciò che conduce al

fine, può trovare degli addentellati con la tesi aristotelica che deliberazione e scelta non concernono

direttamente il fine, il quale da parte sua è oggetto della volontà. Riservando al paragrafo successivo

la discussione di tale intreccio problematico, più complicato di quanto possa sembrare a prima vista,

merita di essere menzionata la tesi centrale sostenuta da Searle ovvero che l’insieme delle credenze

e dei desideri non sono in grado di costituire una causa sufficiente a determinare l’azione. Detto

altrimenti, vi sarebbe un gap tra le cause dell’azione da un lato e l’effetto ossia l’azione stessa. Tale

gap altro non è che il libero arbitrio; di conseguenza, “il processo stesso della deliberazione si fonda

sul presupposto della libertà, sul presupposto cioè che vi sia una lacuna (gap) tra le cause, nella

forma di credenze, desideri e altre ragioni, e la decisione effettiva che si prende”16. Tale lacuna

segnala uno scarto, che a dire il vero può essere ulteriormente scomposto e articolato: vi è un gap

che riguarda le cause alla base di una decisione e la decisione che poi effettivamente si prende (a),

come pure vi è un salto riscontrabile tra la decisione assunta e l’azione (b) e infine vi è un divario

tra l’inizio del compito di esecuzione dell’azione e la sua effettiva conclusione (c).

L’analisi di Searle è volta a mettere in luce il carattere semplificatorio dell’interpretazione

dell’azione proposta dal modello classico, che tra l’altro sottovaluta la questione della libertà del

soggetto. Aggiungerei che un altro punto critico investe il livello più adeguato nel quale andrebbe a

rigore collocata l’indagine riguardante l’azione e le sue cause; anche se la cosa può sembrare

paradossale, l’attenzione dovrebbe rivolgersi non tanto (o, almeno, non solo) all’azione medesima,

considerata nella sua singolarità, bensì al soggetto che agisce. Tale aspetto non viene apertamente

tematizzato da Searle, e tuttavia nella sua analisi affiorano diversi elementi che potrebbero fornire

degli appigli per muoversi in una tale direzione. Nel criticare l’inadeguatezza del ricorso alla

spiegazione attraverso desideri e credenze, accusata tra l’altro di non mettere a fuoco il tema della

14 Ibidem, p. 117 n. 15 Tesi argomentata in D. DAVIDSON, Azioni ed eventi (1980), trad. it. di R. Brigati, Il Mulino, Bologna 1992. 16 SEARLE, op. cit., p. 13.

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libertà, Searle porta l’esempio del tossicodipendente che non può rinunciare ad assumere eroina17:

qui è relativamente facile identificare le cause dell’azione; e tuttavia, è difficile considerarla come

un’azione che fa seguito a deliberazione razionale. Il carattere di dipendenza impone una sorta di

coazione, che il soggetto non può interrompere; di qui l’assenza del gap e quindi della libertà. Da

un’altra ottica si potrebbe però sollevare la questione della libertà rispetto non tanto all’azione, che

evidentemente libera non è, quanto al costituirsi di quella disposizione che spinge irresistibilmente a

drogarsi. La domanda è: il soggetto avrebbe potuto assumere un’altra disposizione, di segno

diverso? Aristotele si pone la medesima domanda quando si chiede se si possa parlare di

volontarietà non solo degli atti, ma anche degli stati abituali, delle disposizioni. La sua risposta in

proposito è affermativa. Egli porta l’esempio dell’ubriaco, che a prima vista potrebbe non essere

considerato responsabile (aitios) dei suoi atti, dal momento che li compie sotto l’effetto appunto

dell’alcool; ciononostante, egli è responsabile dell’essere diventato quel che è, assumendo via via

nel tempo abitudini di un certo tipo, al punto che ora non può rinunciare all’alcool18. Non si vuole

qui entrare nel merito di una valutazione delle varie forme di dipendenza, o della responsabilità del

soggetto e delle eventuali sue attenuanti (l’essere cresciuto in un certo ambiente, il non aver potuto

disporre di determinate opportunità, ecc.) nell’aver adottato un certo stile di vita. Quel che conta è

piuttosto mostrare come lo spazio, spesso angusto, della libertà vada di pari passo con l’esercizio

della sua responsabilità e della sua razionalità pratica, e come questo spazio per essere

salvaguardato richieda una complessa opera di formazione del sé. Una costituzione del sé attraverso

disposizioni che rendono dipendenti dalla droga, dall’alcool e così via ostacola di molto e, nei casi

estremi, inibisce l’esercizio della capacità deliberativa.

La rilevanza del legame tra costituzione del sé e deliberazione affiora anche quando il soggetto

sperimenta la debolezza della propria volontà, ciò che i greci chiamavano akrasia. Di nuovo Searle

critica i tentativi di ridimensionare i casi di debolezza della volontà19 e di interpretarli come più

apparenti che reali. Ciò deriva dall’assunzione di un modello causale dell’azione, in base al quale

questa è causata necessariamente dalle ragioni, dai desideri, dalle credenze, dalle intenzioni. Si dà il

caso però che frequentemente l’azione sembra non essere coerente con le cause che dovrebbero

produrla: posso avere un’intenzione assai decisa a compiere un certo atto, per esempio a rinunciare

a bere perché quella sera dovrei guidare l’automobile, convinto che questo sia l’atto giusto da

compiere, e ciononostante ritrovarmi a compiere l’atto contrario, per esempio bere in compagnia

per festeggiare la vittoria della propria squadra del cuore. Questa discrepanza viene interpretata da

Richard Marvin Hare e Davidson nei termini di un’incoerenza tra i motivi che determinano l’azione

e il darsi di quest’ultima; la constatazione di tale incoerenza dovrebbe indurre il soggetto o a

considerare il proprio comportamento come espressione di irrazionalità o a rivedere gli antecedenti

causali dell’azione, che possono essere stati formulati in modo razionalmente non rigoroso20. Searle

contesta il legame di consequenzialità necessaria tra antecedenti causali e azione, proprio a partire

dalla rilevazione della nostra debolezza. Posso prendere una decisione ponderata a seguito di un

procedimento deliberativo condotto con accuratezza, posso inoltre formarmi un’intenzione ben

determinata a compiere una certa azione e poi però non compierla: ciò non va interpretato come una

forma di irrazionalità, semmai di debolezza della volontà, il che induce ad adottare una teoria della

razionalità dell’azione più articolata rispetto a quella di Hare e Davidson, una teoria che non abbia

17 Ibidem, pp. 12 s. 18 Cfr. Eth. Nic. III, 1113b 3 - 1114a 31. 19 Oltre a Davidson, la critica colpisce anche Richard Marvin Hare; di Davidson si veda il cap. su “La debolezza della

volontà”, nel già menzionato Azioni ed eventi, pp. 63-88, di Hare il volume su Il linguaggio della morale (1952), trad.

it. di M. Borrioni e F. Palladini, Ubaldini, Roma 1968. 20 SEARLE, op. cit., pp. 207 ss. Da ricordare l’ampia trattazione fornita da Aristotele dell’akrasia (mancanza di

autocontrollo) all’interno del libro VII dell’Etica Nicomachea. Un’esemplificazione di essa si dà quando alcuni

“deliberano e poi non si attengono saldamente alle cose che hanno deliberato”; la causa di ciò viene individuata nella

passione (Eth. Nic. VII, 1150b 19-22).

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la pretesa di far valere una logica deduttiva della ragion pratica. Il fenomeno così frequente nelle

nostre vite dell’akrasia, del quale tra l’altro nel pensiero antico e tardo-antico vi era ampia

consapevolezza21, non infirma il valore della deliberazione razionale. Si può ben deliberare eppure

non dar seguito all’azione, per svariati motivi derivanti dalla propria debolezza.

L’attenzione riservata al tema della debolezza della volontà, che a ben vedere è indiretta

attestazione della nostra libertà, rientra a pieno titolo in una teoria più completa e adeguata della

deliberazione. Questa è espressione della razionalità pratica di un soggetto chiamato a valutare e a

scegliere in circostanze particolari, all’interno di un contesto ben delimitato nel quale si danno

alcune opzioni e altre sono escluse sin da subito. Quel soggetto però, anche se ci viene naturale

considerare il suo processo deliberativo come strettamente legato a quella determinata situazione,

non può essere concepito isolatamente e astrattamente; in altri termini il significato della

deliberazione va colto collocandosi nella prospettiva della cosiddetta prima persona, ovvero a

partire dall’esperienza del soggetto dipanatasi nel tempo e dal costituirsi progressivamente di alcuni

tratti salienti, di alcune disposizioni del suo carattere. La deliberazione quindi non è un fatto

estemporaneo, né interamente isolabile all’interno di quel contesto nel quale si esprime

concretamente; il suo esercizio nella particolarità delle situazioni è il risultato della razionalità

pratica di un soggetto che si è formato nel tempo, assumendo disposizioni di un certo tipo. Su questi

aspetti si dovrà più avanti ritornare.

Il problema dei fini

Un altro aspetto dell’analisi critica di Searle riguarda la difficoltà nella concreta vita reale di

riuscire a distinguere fini e mezzi, nel senso che la stessa azione può per il soggetto fungere sia da

fine che da mezzo, in vista del raggiungimento di altri fini. Di nuovo la discussione viene condotta

in riferimento al cosiddetto modello classico che al contrario sembra stabilire una chiara

differenziazione tra i fini e i mezzi: come si è già ricordato, questi ultimi sarebbero soggetti a

vincoli razionali, ma non i fini, non i desideri, i propositi, le preferenze individuali del soggetto. Il

problema può essere almeno in parte riproposto in altro modo, chiedendosi se effettivamente la

deliberazione concerna esclusivamente ciò che conduce al fine e non anche il fine medesimo: se

infatti non è facile poter distinguere tra mezzi e fini e se quest’ultimi possono fungere, almeno in

alcuni contesti, da mezzi, allora se ne dovrebbe dedurre la possibilità di poter deliberare su di essi.

In riferimento alla posizione aristotelica, che almeno a prima vista sembra escludere che la

deliberazione possa riguardare il fine, si è sviluppato un ampio dibattito giungendo anche alla

formulazione di tesi molto impegnative. Per Nancy Sherman, ad esempio, la deliberazione è

preposta a favorire un processo di continua “revisione dei fini”, e ciò è richiesto per evitare possibili

rigidità e dogmatismi etici22. In maniera del tutto analoga, Martha C. Nussbaum parla di

“deliberazione razionale riguardante i fini ultimi” dell’agire umano23, dove la posta in gioco è

segnalata proprio dalla precisazione che si tratta di fini ultimi: sarebbe questo un requisito

indispensabile per poter anche ai giorni nostri riproporre in modo credibile l’aristotelismo etico. In

modo più sfumato Irwin ritiene invece che il contenuto dell’eudaimonia, il fine ultimo, non sia

svincolato dalle sue specificazioni, e quindi la deliberazione abbia il compito di determinare i fini;

21 Oltre al libro VII dell’Etica Nicomachea, vale la pena ricordare le celeberrime espressioni di Ovidio e di Paolo di

Tarso, che mettono in risalto il conflitto esistente tra la capacità di individuare il bene e la volontà che va in direzione

contraria. In Metamorfosi, 7, 20 s. si trova l’efficace sentenza di Ovidio: “video meliora proboque, deteriora sequor”.

Similmente Paolo, nella Lettera ai Romani (7, 18 s.), così si esprime: “c’è in me il desiderio del bene, ma non la

capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. 22 N. SHERMAN, The Fabric of Character. Aristotle’s Theory of Virtue, Oxford University Press, New York 1991, p. 86

ss. 23 M.C. NUSSBAUM, Virtue Ethics: a Misleading Category?, “The Journal of Ethics”, 3 (1999), pp. 163-201.

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in ciò egli riscontra una possibile analogia della deliberazione con la ragion pratica kantiana, che è

in grado di determinare razionalmente i fini morali24.

Specie nella formulazione datane da Sherman e Nussbaum, la tesi che non solo è possibile ma in

qualche misura doveroso deliberare sui fini ultimi risponde a un intento ben preciso, quello di

salvaguardare l’autonomia del soggetto e la sua libertà intesa come libertà di scelta; la

preoccupazione è che una predeterminazione, su base metafisica e ontologica, del bene si tramuti in

una sorta di fissismo etico che comprime fortemente l’autonomia del soggetto. Il discorso qui

avviato ci porterebbe lontano; personalmente sono convinto che i presupposti metafisici e ontologici

presenti nel discorso aristotelico non annullino affatto l’autonomia della filosofia pratica e la stessa

autonomia del soggetto. Semmai è da chiedersi se la tesi della continua rivedibilità dei fini non

comporti un’altra tesi, piuttosto problematica, ovvero che il bene sarebbe tale solo perché è

autonomamente scelto da parte del soggetto. Se così fosse, la proposta di poter deliberare sui fini

sarebbe espressione di quel criterio di “autoreferenzialità”, al quale allude criticamente Charles

Taylor e con il quale si giunge potenzialmente a giustificare qualsiasi contenuto per il fatto che è

stato liberamente scelto dall’individuo ed è manifestazione della sua autenticità25.

In ogni caso la posizione aristotelica è senz’altro più complessa di quanto possa apparire a prima

vista, specie se la si interpreta alla luce di categorie estrinseche o eccessivamente attualizzanti. In tal

senso, la deliberazione sui fini sembra essere espressamente da escludere sulla base di quanto detto

nel III libro dell’Etica Nicomachea, là dove si afferma che la deliberazione riguarda ciò che

conduce al fine e non direttamente il fine stesso. Più articolata appare essere invece la posizione

espressa nel VI libro. Qui, la phronesis, concepita come “capacità di ben deliberare” dell’uomo

saggio, è chiamata a occuparsi della relazione tra il fine della vita buona in generale (olos) e la sua

possibile concretizzazione in ambiti particolari; in altri termini, si fa valere una distinzione tra il fine

ultimo e la pluralità di fini intermedi, che rappresentano una sorta di possibile attualizzazione dello

stesso fine ultimo. Naturalmente non è operazione semplice quella di riuscire a identificare dei fini

intermedi coerenti con la felicità; vi è sempre la possibilità dell’equivoco e del travisamento, per

questo i saggi “sanno cogliere sia ciò che è bene per loro stessi sia ciò che è bene per l’uomo”26,

sanno cioè mettere in atto una conoscenza sia degli aspetti universali che di quelli particolari27,

mentre se ne deduce che chi non delibera bene è perché non sa individuare quei fini intermedi che

dovrebbero nel concreto rendere possibile l’esemplificazione della vita buona, della felicità. A una

dialettica più complessa che non si limita a considerare il rapporto tra mezzi (ta pros to telos28) e

fine ma si allarga al rapporto tra fini e fine ultimo sembra del resto alludere un passo, sempre del

sesto libro, in cui si afferma che “è possibile deliberare bene (eu bebouleusthai) sia in assoluto, sia

24 Cfr. T. IRWIN, First Principles in Aristotle’s Ethics, in “Midwest Studies in Philosophy”, 3 (1978), pp. 252-272 e, per

una presa di distanza critica, T.M. TUOZZO, Aristotelian Deliberation is not of Ends, in I.P. ANTON - A. PREUS (ed. by),

Aristotle’s Ethics, Essays in Ancient Greek Philosophy, vol. IV, State University of New York Albany (NY) 1991, pp.

193-212. 25 In diverse occasioni Taylor ha richiamato l’attenzione su un ideale morale, potente e affascinante, che permea la

nostra cultura ossia la fedeltà a se stessi e l’autenticità; si veda per esempio C. TAYLOR, Il disagio della modernità

(1991), trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 20. Tale ideale viene però estremizzato, e in

definitiva travisato, quando attraverso di esso si finisce con l’identificare “l’autoreferenzialità del contenuto” con

l’“autoreferenzialità della maniera”. Così facendo, infatti, si “fornisce una legittimità alle peggiori forme di

soggettivismo” (ivi, p. 96). 26 Eth. Nic. VI, 1140b 8 - 10; trad. it. cit., p. 233. 27 Cfr. Eth. Nic. VI, 1141b 15 - 22. 28 L’espressione ta pros to telos viene spesso resa con il termine ‘mezzi’: si tratta di una semplificazione, perché essa

letteralmente indica ‘ciò che conduce al fine’. Senz’altro è estranea ad Aristotele una comprensione modernizzante del

rapporto mezzi - fini, in cui i primi sarebbero da intendersi in modo estrinseco rispetto ai secondi. In realtà,

l’espressione ta pros to telos designa - come dire - le condizioni di possibilità del fine, le modalità quindi attraverso le

quali il fine si dà; si tratta pertanto di un requisito intrinseco. Su ciò si veda D. WIGGINS, Deliberation and Practical

Reason (1975-1976), ora in A.O. RORTY (ed. by), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley

1980, pp. 221-240.

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in relazione a un certo fine” ovvero con riguardo al fine in assoluto (pros to telos to haplos) e in un

senso più particolare con riguardo a “un certo fine” (pros ti telos)29.

La deliberazione non può riguardare il fine ultimo del nostro essere (noi non possiamo non voler

essere felici), o il fine ultimo perseguito da una certa attività (la salute per il medico), ma può certo

investire ciò che riteniamo possa esemplificare il bene e la felicità per la nostra vita o, nel caso del

medico, ciò che permette di guadagnare la salute per quel paziente con quella determinata patologia.

In questo senso si può affermare che vi può e anzi vi deve essere un’indagine riflessiva e razionale

che interessa i fini, per verificare se essi siano realmente adeguati a consentire il perseguimento

della felicità o, nel caso specifico del medico, la salute. Emerge ad ogni modo una differenza

radicale tra una simile impostazione e quella ascrivibile al modello classico della razionalità, per lo

meno nel modo in cui esso è stato delineato da Searle. Tale modello confina la razionalità alla

dimensione strumentale dei mezzi, consegnando nel contempo la dimensione dei fini all’irrazionale;

i fini quindi sono assunti dai soggetti in modo del tutto autonomo se non arbitrario, senza che su di

essi si possa esercitare alcun tipo di riflessività e di criticità in merito al loro valore e contenuto. Da

ciò consegue anche un certo carattere irrealistico, frutto della soggettivizzazione dei fini ridotti a

mere preferenze30.

Ovviamente con una concezione della deliberazione ispirata alla filosofia pratica aristotelica ci

troviamo di fronte a uno scenario assai diverso. Il soggetto morale qui è chiamato a interrogarsi

criticamente sulla congruenza dei beni relativi (e dei fini relativi) rispetto al bene supremo

dell’eudaimonia; tutto ciò comporta un compito autoriflessivo a partire dalla considerazione della

physis dell’uomo e dell’ergon che lo contraddistingue. In questo ambito, come pure in quello più

direttamente pratico, volto a determinare concretamente, attraverso la phronesis, il bene pratico (to

prakton agathon), ha modo di manifestarsi anche la libertà dell’uomo. Non si tratta però di una

libertà di tipo autoreferenziale né essa è riferita alla singola azione, come vedremo fra poco

chiamando in causa quello che è probabilmente l’elemento di maggiore originalità della concezione

aristotelica della deliberazione ovvero il suo essere collegata a una teoria del carattere e delle

disposizioni.

Teoria dell’azione e disposizioni

Uno degli elementi di maggiore criticità che investono la teoria della scelta razionale

novecentesca concerne il suo carattere idealizzante, grazie al quale si cerca di giustificare l’agire di

un ipotetico decisore che sceglie in modo razionale ed efficiente, tenendo conto delle diverse

preferenze implicate. La critica all’idealizzazione è probabilmente uno dei motivi che spiegano

perché l’approccio aristotelico susciti nel dibattito contemporaneo un interesse così rilevante. Esso

infatti pone in collegamento il processo della deliberazione con la personalità del soggetto e con la

valenza temporale che la contraddistingue come un’unità narrativa; tale unità, quando si trovi a

deliberare e a scegliere nel presente, riflette, anche se spesso in modo inconsapevole, quanto ha

29 Eth. Nic, VI, 1142b 28 - 31; trad. it. cit., p. 243. L’argomento della possibilità di deliberare razionalmente sui fini - e

sul fine ultimo - è ampiamente sviluppato da H.S. RICHARDSON, Practical Reasoning about Final Ends, Cambridge

University Press, Cambridge 1994, con riferimento al dibattito contemporaneo concernente l’etica, la politica e le

scienze sociali; non mancano ovviamente i rinvii ad Aristotele (si vedano in particolare pp. 209-227). 30 Una delle tesi sostenute con maggior forza da Searle (op. cit., pp. 24-28, 118-120) è che vi possono essere ragioni per

l’azione che non dipendono da desideri. Egli polemizza con Bernard Williams (e ancor prima con Hume), per il quale vi

sarebbero solamente ragioni interne al soggetto che lo motivano all’azione, ragioni che dipendono dai suoi desideri; si

veda al riguardo B. WILLIAMS, Ragioni interne ed esterne, in ID., Sorte morale, trad. it. di R. Rini, il Saggiatore, Milano

1987, pp. 133-147. Eppure – obietta Searle – vi sono ragioni esterne che possono spingerci all’azione: per esempio il

fatto che a suo tempo abbiamo promesso di fare una determinata cosa, e ora questo impegno ci motiva a mantenere la

promessa, anche se non ne avremmo alcun desiderio. Per Searle vi sono quindi fatti oggettivi del mondo (per esempio la

promessa) che possono costituire delle ragioni esterne per motivare internamente il decisore.

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vissuto nel passato e nel contempo si proietta verso il futuro. Chi delibera è dotato di un certo

carattere, che si è formato nel tempo attraverso l’assunzione di determinati stati abituali e che

continua a ridefinirsi e a formarsi, ma non in uno status di asetticità, che astrae dal proprio vissuto e

dalle determinazioni già operanti.

L’approccio non idealizzante affiora quando si rifletta per esempio sulla valenza della scelta (e

ancor prima della deliberazione) ovvero se essa sia puramente razionale o meno. Per comprendere

questo passaggio, si prenda in esame il ruolo dei desideri e delle credenze, che per la teoria classica

criticata da Searle costituirebbero le cause dell’azione. Ora, a ben vedere, il binomio si fa valere

anche all’interno dell’approccio aristotelico, ma in modo assai più sofisticato, quindi in riferimento

non tanto alla singola azione, effetto di desideri e credenze, ma a un insieme di azioni che sono

effetto di una disposizione, virtuosa o viziosa, che a sua volta è il risultato del costituirsi nel tempo

del carattere. In altri termini, nella scelta s’intrecciano l’elemento razionale e quello desiderativo e

ciò che più conta è che tale intreccio viene indagato non tanto (o almeno, non solo) adottando

un’ottica frammentata e immediatistica (la singola azione), ma collocandosi nella prospettiva

dell’unità narrativa del soggetto. La scelta (proairesis) è definita come “desiderio deliberato”

(orexis bouleutike)31; essa è quindi espressione della razionalità e al tempo stesso del desiderio

(orexis), che contraddistinguono l’essere dell’uomo. Nel testo ci si imbatte in una definizione

straordinariamente efficace nella sua profondità speculativa ed essenzialità lessicale: “la scelta è

pensiero desiderante (orektikos nous) o desiderio pensante (orexis dianoetike), e l’uomo è un

principio di questa specie”32. Tale definizione trova il suo completamento in un passo posto a poche

righe di distanza, dove si ribadisce che “il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa sono i

principi della scelta”, per precisare infine quanto segue: “per questo non vi è scelta senza intelletto e

pensiero, e senza uno stato abituale del carattere, infatti l’agire bene e il suo contrario non si danno

senza pensiero e senza carattere”33. Si noti come qui l’accento cada volutamente sulla rilevanza del

carattere: non è possibile sviluppare una teoria soddisfacente dell’azione, non è possibile

comprendere in modo adeguato il valore della scelta (e della deliberazione) se si astrae dalla

considerazione della centralità del carattere e della sua formazione attraverso l’acquisizione di stati

abituali. Ne consegue che una teoria dell’azione che voglia indagare il significato della scelta e della

deliberazione si qualifica preliminarmente come una teoria dell’agente. Ciò richiede, sul piano

conoscitivo, un mutamento che possa dar conto della prospettiva interna, in prima persona, del

soggetto. Da un approccio di tipo estrinseco, in terza persona, e tutto concentrato sulla particolarità

dell’azione singola si è quindi invitati a passare a un approccio in prima persona, tendenzialmente

unitario e concernente il piano di vita, che dia conto della ricchezza e della complessità dell’identità

pratica del soggetto.

Quest’ultima è l’identità in progress di un piano di vita, che via via si definisce in continuazione

a partire dalle diverse opzioni rese possibili dal cosiddetto “albero di decisioni vitali”. L’espressione

è utilizzata da Juan Antonio Rivera in un volume dedicato al rapporto tra cinema e filosofia, per

indicare come alcune nostre scelte dipendano da scelte precedenti, operate anche in un passato

lontano, e che hanno determinano il corso della nostra vita. Nel film The Family Man di Brett

Ratner, il protagonista Jack Campbell è uno spregiudicato agente finanziario di Wall Street, in

procinto di concludere un’operazione finanziaria molto complessa, con la fusione di due società

leader del settore farmaceutico. Tutto era iniziato tredici anni prima, quando egli aveva deciso di

recarsi a Londra, per frequentare un prestigioso master. All’amata fidanzata Kate aveva assicurato

che nulla sarebbe cambiato tra loro e che una volta ritornato nel New Jersey avrebbero vissuto per

sempre assieme. Invece la partecipazione al master segnerà un momento di svolta nella vita di Jack:

introdottosi nel mondo della finanza, diventerà un uomo di grande successo, tutto preso dal

31 Eth. Nic. III, 1113a 11; 1139a 23. 32 Eth. Nic. VI, 1139 b 4 - 5; trad. it. cit., p. 227. 33 Eth. Nic. VI, 1139 a 33 - 36; trad. it. cit., pp. 225 - 227.

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desiderio di accumulare denaro e dal consumare incontri sentimentali occasionali con belle ragazze.

Per questo non avvertirà più il bisogno di rivedere Kate. Tredici anni dopo, però, il giorno di Natale,

dopo lunghe e stressanti giornate dedicate a portare a termine un accordo commerciale e finanziario

estremamente redditizio, Jack si ritrova improvvisamente a fianco di Kate e dei loro due bambini.

Sconvolto per quanto sta accadendo, si recherà nel suo ufficio, scoprendo che i collaboratori e gli

amici più fidati non sanno chi egli sia. Jack diviene allora consapevole del fatto che per uno strano

gioco del destino egli si trova a vivere la vita che avrebbe vissuto se a suo tempo non fosse andato a

Londra per diventare un uomo d’affari privo di scrupoli e avesse dato così seguito al suo impegno

di stare per sempre con Kate.

La finzione cinematografica mette in luce come le nostre opzioni siano collocate all’interno di

una ben particolare ramificazione dell’albero di decisione vitale, una ramificazione che a suo tempo

discende da altri rami e poi ancora dal tronco centrale dell’albero. La finzione, già presente nel

famoso film di Frank Capra It’s a Wonderful Life, richiama la nostra attenzione su due aspetti

rilevanti, che si tende facilmente a sottovalutare. Innanzitutto le scelte che compiamo sono sì

espressione del nostro volere, ma tale volere è inevitabilmente determinato dalla storia pregressa; le

scelte compiute acquistano quindi significato se lette nella prospettiva del corso di vita intrapreso a

suo tempo dal soggetto e via via costantemente ridefinito. Certo, tali scelte non sono solamente

determinate dalla decisione fondamentale di Jack, ricco agente di Wall Street, o di Jack, modesto

artigiano e buon padre di famiglia: dopo questa decisione fondamentale, che ha segnato sin

dall’inizio la divaricazione dell’albero in due ramificazioni principali, vi sono molte altre scelte

intermedie, collocate su piani differenti, che concorrono a condizionare le scelte assunte molto

tempo dopo. Ciò significa che la prospettiva adeguata per rendere conto della scelta e della

deliberazione non è quella di isolarle, astraendo da determinazioni varie, semmai è quella di

collocarle nella prospettiva del soggetto o, come direbbe Aristotele, dello “stato abituale del

carattere”. Il secondo aspetto da considerare è che la nostra libertà in questo modo si rivela come

intrinsecamente condizionata: è una libertà reale e proprio per questo propriamente umana, non

assoluta. Rivera cita a tale proposito una riflessione, condivisibile, di Fernando Savater: “Almeno

da Aristotele in poi sappiamo che le opzioni del soggetto morale sono libere non nel senso che

provengono da un puro e incondizionato arbitrio ma perché lo pongono, di fronte a circostanze

cosmiche, politiche ed educative non scelte, in una situazione che ammette diversi tipi di condotta

preferibili a seconda delle sue scelte precedenti. Uno dei fattori che più influiscono su ciascuna

occorrenza concreta della libertà morale è la somma dei risultati anteriori all’uso di questa stessa

libertà: la libertà orienta e - in una certa misura - condiziona la libertà stessa”34. La nostra esistenza,

pertanto, si determina progressivamente a partire da tutte le scelte che, effettuate nel passato, le

fanno assumere ora e nel futuro una certa direzione. Per riprendere la metafora dell’albero, ci

inoltriamo in un ramo che diparte dal tronco e poi via via ci dislochiamo in rami secondari; le

possibilità che possiamo esperire ora e nel futuro dipendono quindi dalle possibilità esperite del

passato.

Non va poi dimenticato che il nostro percorso, attraverso le varie ramificazioni, s’interseca con i

percorsi di altri, li condiziona e ne è al tempo stesso condizionato. In quanto soggetti responsabili

del nostro percorso di vita, siamo esseri che riflettono e valutano; anzi, si può affermare che la

riflessività e la capacità valutativa siano dei tratti caratteristici del nostro essere uomini, animali

sociali dotati di linguaggio. Nella deliberazione pratica noi ci scopriamo come esseri riflessivi, che

34 La citazione si trova in J.A. RIVERA, Tutto quello che Socrate direbbe a Woody Allen (2003), trad. it. di S. Raccampo

e M. Santarone, Frassinelli, Milano 2005, p. 218, ed è tratta da F. SAVATER, Etica come amor proprio (1988), trad. it. di

D. Osorio Lovera e C. Paternò, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 270 s. Il testo di Savater così prosegue a p. 271: “Per

questo nessun punto di non ritorno raggiunto per una serie di libere opzioni precedenti esonera d’ora innanzi dalla

responsabilità morale. La libertà non è un dono misterioso che appare e scompare di fronte a ogni atomo di attività

umana, ma una prospettiva globale connessa da legami causali che fonda la valutazione sull’insieme di quello che

ciascun individuo va facendo di se stesso”.

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esercitano una razionalità pratica, di tipo valutativo. Quando deliberiamo facciamo valere dei

giudizi critici di tipo normativo, non ci limitiamo a esprimere delle asserzioni su dei fatti; valutiamo

i fatti e gli atti che compiamo, e cerchiamo di ‘motivare’ il nostro agire, attraverso l’esercizio della

ragione pratica che avanza degli argomenti, delle giustificazioni, delle ragioni per agire. A ben

vedere noi forniamo delle ragioni per agire non solo a noi stessi, ma anche agli altri. Lo scambio

delle ragioni è qualcosa di imposto dal fatto che siamo esseri sociali, che dobbiamo giustificare le

nostre scelte attraverso argomenti comprensibili potenzialmente a tutti35. Questo spiega, tra l’altro,

il fatto che noi non solo deliberiamo, ma deliberiamo assieme.

Deliberare assieme

Siamo così giunti a un altro elemento di originalità della concezione aristotelica, che va ad

aggiungersi al riferimento alla prospettiva della prima persona e alla centralità del carattere e delle

sue disposizioni: la deliberazione pratica, infatti, non va intesa in senso individualistico, essa è in

qualche misura un deliberare assieme, perché il soggetto ha bisogno di essere sostenuto dal

consiglio di altri. Deliberare è un compito assai impegnativo, sempre esposto al rischio

dell’incertezza e dell’imprevedibilità. Queste difficoltà sono del tutto normali e ad esse va incontro

inevitabilmente anche il phronimos. Si tratta infatti di dare concretezza al nostro desiderio, alla

nostra tendenza indirizzata al fine buono (o che ci appare tale); è importante inoltre individuare le

modalità che ci consentono di pervenire al fine voluto, non sempre chiaramente identificato. La

deliberazione è l’individuazione di un percorso per una possibile e fattibile realizzazione pratica del

fine. Essa richiede una conoscenza umile e particolareggiata della realtà, che ha ben poco a che

spartire con il decisionismo esistenzialistico-irrazionalistico, dai tratti eroici e al tempo stesso

tragici, alla Sartre, e ugualmente non ha nulla a che vedere con una teoria della razionalità che

pretenda di fornire “un algoritmo per prendere le decisioni più razionali”36.

La razionalità pratica si serve di argomenti non di tipo apodittico, bensì dialettici, che valgono

“per lo più”. Ciò che contraddistingue la deliberazione è il suo essere un’attività di ricerca: vi sono

delle ricerche, per esempio quelle matematiche, che non richiedono deliberazione; ma non vale

l’inverso, perché “ogni deliberazione è una ricerca” (zetesis)37. La sottolineatura del costitutivo

carattere di ricerca configura il processo deliberativo come un compito da svolgere in comune; non

solo, è un compito che non vien mai meno. A tale riguardo è necessario abbandonare la pretesa

razionalistica, che affiora frequentemente anche nel dibattito pubblico, che sia possibile eliminare in

toto il disaccordo morale e che quando ciò non avvenga si debba imputare tale ‘limite’ a una nostra

incapacità fattuale ad attenerci a criteri oggettivi e universali di razionalità. L’idea sottostante è che

se noi fossimo degli agenti perfettamente razionali, non influenzabili, capaci di decidere in modo

imparziale e oggettivo, se in altri termini le nostre decisioni fossero pienamente razionali, allora

d’incanto i disaccordi si dissolverebbero. Ci si imbatte qui in una visione ingenua e illusoria, che tra

l’altro esprime implicitamente un giudizio negativo sulla diversità di opinioni e posizioni, come se

questa fosse inesorabilmente una limitazione e non invece un’opportunità per saggiare la

consistenza dei rispettivi orientamenti ed eventualmente sottoporli a revisione critica (non a caso, in

modo assai riduttivo si è parlato del nostro essere “stranieri morali”38, almeno a proposito delle

35 Si veda a tale proposito C.M. KORSGAARD, The Sources of Normativity, Cambridge University Press, Cambridge

1996. 36 Posizione questa giustamente criticata da SEARLE, op. cit., pp. XIV - XV. 37 Eth. Nic. III, 1112b 20 - 24; trad. it. cit., p. 91. 38 Il pensiero corre ovviamente a H. TRISTRAM ENGELHARDT JR. (1996), Manuale di bioetica, trad. it. di S. Rini, Il

Saggiatore, Milano 19992. Riguardo agli interrogativi qui sollevati, mi permetto di rinviare al mio saggio Il disaccordo

e il significato dell’esperienza morale, in Disaccordo, Annuario della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA), a

cura di M.C. AMORETTI - M. VIGNOLO, Mimesis, Milano 2012, pp. 127-137.

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questioni di bioetica). L’illusorietà di tale visione risiede nel fatto che il disaccordo non dipende

necessariamente da un deficit razionale e nemmeno da una differente assunzione di valori di

riferimento, come spesso si sostiene semplicisticamente, quando per esempio nelle questioni di fine

vita vi sarebbe chi enfatizza il valore della libertà e dell’autodeterminazione del soggetto negando

totalmente valore alla vita e, viceversa, chi sacralizza la vita svalutando in toto la libertà. È però ben

difficile che non si riconosca, almeno entro certi limiti, la rilevanza sia della libertà che della vita. E

allora da dove nascono i disaccordi? La risposta potrebbe essere la seguente: benché si possa

concordare sull’importanza di riconoscere e rispettare entrambi i valori, accade che essi vengano

articolati in modo differente, attribuendo, a determinate condizioni, il primato all’uno rispetto

all’altro, oppure ancor più accade che essi siano sul piano pratico-decisionale sottoposti a una loro

diversa applicazione, perché si privilegiano certi dati empirici e conoscitivi riferiti al contesto e se

ne ridimensionano altri. Proprio per questo, e rimanendo all’interno dell’orizzonte problematico

della bioetica, vi è stato chi ha proposto di abbandonare una bioetica costruita sul conflitto e la

contrapposizione, per favorire una bioetica di tipo deliberativo39.

L’esempio della bioetica mostra quanto la capacità di ben deliberare debba tener conto di molti

elementi; uno di questi è senz’altro la capacità di confrontarsi con altri, magari più esperti di noi,

per conoscere quanti più dati possibili e tentare di individuare i diversi aspetti implicati. Ci troviamo

in difficoltà; avvertiamo la necessità di essere sostenuti nelle nostre decisioni, desideriamo essere

consigliati. Ed ecco allora che si viene a costituire ciò che Paul Ricoeur ha chiamato, con il suo

tipico linguaggio evocativo, la “cellula del buon consiglio”40. Nella lingua greca il consiglio

(symboule) significa letteralmente “deliberazione (boule) con (sym)”. Con chi si delibera?

Evidentemente con coloro che ci assistono nelle nostre decisioni. Scrive Aristotele: “E ci

procuriamo dei consiglieri (symboulous) per gli affari di grande importanza, dato che non ci fidiamo

di noi stessi, perché crediamo di non essere capaci di discernere bene”41.

Symboule è allora il consiglio, il consulto, che rende possibile ciò che letteralmente parlando è

una deliberazione comune. L’importanza del farsi consigliare (e del consigliare) getta anche una

luce nuova sulla questione della possibilità o meno di deliberare sui fini. Già si è detto che il

problema, nella prospettiva aristotelica, può essere ulteriormente declinato istituendo una dialettica

complessa tra fini intermedi e fine ultimo. Ed è proprio quando affiorano le difficoltà, le ambiguità,

i possibili fraintendimenti, che ricorriamo all’aiuto di chi riteniamo possa consigliarci. Assieme

esaminiamo i fatti, analizziamo i particolari, ponderiamo le possibili e differenti conseguenze

derivanti dalle diverse ipotesi in campo, insomma assieme ci dedichiamo a un’opera di

interpretazione del contesto: quel nostro personale e individuale deliberare diviene in qualche modo

qualcosa di comune e condiviso. Più che la decisione, sono il confronto, il dialogo, la mediazione le

parole chiave che esprimono il significato più proprio della deliberazione; la quale, per potersi

esplicare al meglio, “necessita di molte condizioni”, tutte piuttosto esigenti: “assenza di restrizioni

esterne, buona volontà, capacità di fornire ragioni, rispetto per gli altri quando sono in disaccordo,

desiderio di comprensione, cooperazione e collaborazione”42.

39 A. GUTMAN - D. THOMPSON, Deliberating about Bioethics, “Hastings Center Report”, 27 (1997), n. 3, pp. 38-41. 40 Etica e vivere bene: conversazione con Paul Ricoeur, in L. AVERSA, M. BETTETINI et al., Il male, Cortina, Milano

2000, p. 5. 41 Eth. Nic. III, 1112b 10 - 11; trad. it. cit., p. 91. Si veda anche ARISTOT. Reth. I, 1359b 19 - 1360b 1, sul dare consigli

riguardo alle questioni più importanti che investono l’amministrazione della polis: finanze, guerra e pace, difesa del

territorio, importazione ed esportazione, legislazione. 42 D. GRACIA, La deliberazione come metodo della razionalità pratica, in C. VIAFORA - S. MOCELLIN (a cura di),

L’argomentazione del giudizio bioetico. Teorie a confronto, Franco Angeli, Milano 2006, p. 75.