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anno II numero 2 - maggio 2013 Periodico dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore Giovanni da Castiglione” - Castiglion Fiorentino, Arezzo Q

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anno II numero 2 - maggio 2013

Periodico dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore

“Giovanni da Castiglione” - Castiglion Fiorentino, Arezzo

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Hanno collaborato a questo numero:Gisella Benigni, Daniela Calzoni, Giuliana Carbone, Nedo Checcaglini, Angiolo Farina, Daniele Iacomoni, Debora Moretti, Leandro Pellegrini, Lucia Romizzi, Paolo Testi, Elda Tremori.

in redazione:Lucia Romizzi (redattore), Nedo Checcaglini, Angiolo Maccarini, Marina Piotti.

in collaborazione conAssociazione Culturale “Amici del Liceo Giovanni da Castiglione”

©Istituto Statale di Istruzione Superiore“Giovanni da Castiglione”via Roma 2 - 52043 Castiglion Fiorentino (AR)email: [email protected]. 0575 680073

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A mo’ di prefazione

Nella cupa notte vola un fantasma iridescente.Sale, spiega l’ale, sulla nera, infinita umanità!

Tutto il mondo lo invoca, tutto il mondo lo implora!Ma il fantasma sparisce con l’aurora per rinascer nel cuore!

Ed ogni giorno nasce, ed ogni giorno muore!«La speranza»! Il primo enigma di Turandot è così risolto dall’indomito Principe stra-niero. Turandot è a lieto fine, una delle poche opere «romantiche» che si concludono felicemente: ultimo atto, ultima scena, l’amore trionfa. Difatti - osserverà il pessimista di turno - l’opera pucciniana dopo quattro anni di gestazione è rimasta incompiuta! Certamente oggi non è facile pensare in termini positivi; fiducia, ottimismo, utopia, Wel-tanschauung soccombono facilmente di fronte alle cifre della crisi; la solita litania di dati negativi (disoccupazione, pil, spread, borsa, cassaintegrati, esodati...) affligge da tempo la nostra quotidianità. Abbiamo metrificato tutto, ora siamo vittime dei numeri.Che fare? Spes ultima dea est et omnium rerum pretiosissima, quia sine spe homines vivere nequeunt, la speranza è virtù teologale se rispolverate la memoria catechistica o, se preferite, «l’importante è imparare a sperare» come asseriva il filosofo marxista Ernst Bloch. In tutti i casi è un’amara constatazione! Troppo tempo dedichiamo per rilevare quello che non ha funzionato piuttosto che in-gegnarci per far funzionare quello che non funziona, a ricercare i colpevoli gli autori dei problemi, piuttosto che a cercare di risolvere i problemi, a gridare lanciare anatemi anziché operare fattivamente. Insomma: la crisi «c’è» e non è solo economica, è un dato di fatto e, a questo punto, conviene lasciare agli storici l’analisi e direzionare tutte le energie per uscirne.Un anno or sono quando cominciammo l’avventura di questo “Quaderno”, nella pre-fazione concludevamo: «non c’è tempo da perdere... prendete il Quaderno»! Fuor di metafora: data la precarietà dei tempi, non possiamo permetterci indugi, rassegnazioni, ciascuno dia il suo contributo, azioni tutte le proprie energie, i deus ex machina arrivano giusto in tempo solo a teatro, nella vita reale sono Godot. Resistere, tornare a credere nel futuro, lavorare alacremente per il futuro, questi gli im-perativi categorici. Infondo, per quello che ci riguarda, lavorare per il futuro è la mission della scuola... per un futuro migliore!

E tutto il mondo l’invoca e tutto il mondo l’implora!

Angiolo Maccarinidirigente Istituto Statale d’Istruzione Superiore “Giovanni da Castiglione”

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Lucia Romizzi L’infinito ritorno di Ulisse: amori mitici e seduzioni mortali 15

Daniele Iacomoni Lano da Siena e le “Giostre del Toppo” 22

LETTERATURA

INDICE

MATEMATICA Angiolo Farina

La matematica come risorsa tecnologica 27 Nedo Checcaglini

Sistemi lineari 33

NARRATIVA Debora Moretti

Tanto gentile 53

ATTUALITà Gisella Benigni

Chi sono i maestri del lupo cattivo? Forme di controllo del corpo femminile nell’età contemporanea 7

INSERTO Tavola Rotonda “Esorcizzando la crisi”

Abstract interventi di Giuliano Benelli, Roberto Calzini, Francesco Checcacci, Marco Donati, Andrea Fabianelli, Leonardo Milani. Introduzione di Massimo Pucci

SCIENZE Leandro Pellegrini L’olivo (Olea europaea L.). Simbologia, botanica e coltivazione 39 Elda Tremori

L’osservazione delle cellule. Strumenti antichi e nuovi 45

POESIA Daniela Calzoni

Poems 56Giuliana Carbone To Valentina 58

STORIA Paolo Testi

La «riscoperta» della Giostra del Saracino in epoca fascista 49

Quaderno Da Castiglione

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attualità

Chi sono i maestri del lupo cattivo?Forme di controllo del corpo femminile nell’età contemporanea

Gisella BeniGni

Questo breve intervento è dedicato a tre donne che hanno lottato o che ancora si battono in tutto il mondo per il rispetto della dignità della donna. Sono: la studentessa paki-stana Malala Yousafzai, colpita dai talebani perché difendeva pubbli-camente il diritto di studio delle ra-gazze del suo paese, Haijra Catic’ che, con l’Associazione donne di Srebrenica, sta chiedendo giustizia per le vittime del genocidio della sua città, e Stefania Noce, giovane

studentessa di lettere, femminista uccisa nel 2012, insieme ad altre 123 donne nel no-stro paese, da un feroce maschio assassino. Perché i loro sogni sono anche i nostri sogni.

Che ne è delle donne oggi nel nostro paese? Per cominciare, due piccole storie che provengono da paesi molto distanti, non solo geograficamente.

La prima ha come scenario gli Stati Uniti d’America, e precisamente la cittadina di Gad-sen, in Alabama, dove si trova uno stabilimento della multinazionale Goodyear. Lilly Ledbetter è un’operaia che, dopo aver sacrificato tutta la propria vita per il lavo-ro, sostenendo orari impossibili e respingendo anche ricatti e proposte pesanti dai suoi colleghi maschi, è riuscita a divenire supervisore dell’impianto in cui lavorava. Ormai alle soglie dell’agognata pensione, si accorge però, grazie ad una lettera anonima, che per tanti anni aveva subito una discriminazione salariale e apre una vertenza contro la Goodyear che però, in sede di Corte suprema, si appellerà ad un cavillo formale: Lilly avrebbe dovuto far causa entro 180 giorni dal comportamento discriminatorio. Dopo nu-merose battaglie e grazie all’appoggio di due prime donne della politica americana come Hillary Clinton e Nancy Pelosi, il 29 gennaio 2009 il Congresso degli U.S.A., sotto la presidenza Obama, approva finalmente l’emendamento contro il limite dei 180 giorni, il “Lilly Ledbetter Fair Pay Act”. Lilly ha vinto la sua battaglia facendo sentire forte la sua voce: ha lottato duramente e caparbiamente in prima persona, ma ha anche trovato ascolto nella politica e nella pur complessa e contraddittoria società americana. Cambiamo ora decisamente scenario.

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Siamo in Zimbabwe, uno dei paesi più poveri del mondo, con un tasso di disoccu-pazione pari quasi al 95%, un’età media intorno ai 40,9 anni, un’inflazione a nove zeri e un consistente esodo verso il Sudafrica e il Mozambico. Qui, nel paese retto

dall’87 dall’ottuagenario dittatore Robert Mugabe, a tener testa alle continue vessazioni e discriminazioni di genere e politiche c’è una donna, di origini miste afro-irlandesi, Jenni Louise Williams, la “Gandhi africana”, fondatrice del movimento di resistenza Woza (Women of Zimbabwe Arise) che in lingua Ndebele significa «vai avanti!». Jenni dorme negli scantinati e ha la valigia sempre pronta: le sue «armi» sono i volantini, le rose, i fiori e le scope per ripulire, anche simbolicamente, il paese dalla corruzione e dal nepotismo imperante. Le donne del Woza sono oggetto di persecuzioni continue da parte della polizia ma resistono a rischio della propria vita, anzi crescono ogni giorno di nu-mero e per visibilità, nel paese. Hanno infatti stretto un patto di «sorellanza» il cui primo punto recita: «denuncia e incoraggia le altre donne a fare lo stesso, in modo che la voce femminile si senta da lontano. Le donne non devono più soffrire in silenzio». L’8 marzo 2008 Jenni è volata a Washington per ritirare dal presidente Obama il Coura-ge Award, un premio internazionale che il Segretario di Stato assegna ogni anno a dieci donne coraggiose e speciali.

E in Italia? Nel nostro paese tutte le cifre narrano di una netta perdita di terreno delle donne nel campo della reale applicazione dei diritti di uguaglianza, come in quello - più profondo - del rispetto e della valorizzazione della loro personali-

tà, sia nella dimensione privata che in quella pubblica. La rappresentanza femminile in Parlamento, da sempre residuale, è migliorata solo nell’ultima tornata elettorale (=31%, superiore a Francia, USA, Gran Bretagna). Ma la mera presenza fisica non significa mol-to: conta il ruolo e le funzioni di leadership che esse occupano. Inoltre sono tantissime le storie di donne che si vedono tagliate le strade della carriera nell’azienda dove lavorano, solo perché donne e madri. L’Italia è infatti penultima, prima di Malta, come tasso di oc-cupazione femminile d’Europa: 63,9% contro la media europea del 75,8% e l’81,8% del-la Germania, senza contare che la Legge «Fornero» (n.92/2012) sul mercato del lavoro ha reso il lavoro femminile ancora più precario. La crisi e i tagli al sociale hanno fatto il resto: 29.000 le donne nella sola provincia di Arezzo disoccupate nel 2013, mentre ben il 33% delle donne tra i 25 e i 50 anni non ha un reddito e una neomamma su quattro perde il lavoro. Il Global Gender Gap Report 2009 ha collocato l’Italia al 72° posto per la per-manenza di discriminazioni di genere: salariali, di accesso al lavoro, per la conciliazione maternità e lavoro, per il numero delle donne nelle posizioni apicali, l’accesso in politica, ecc. Un piazzamento che non ci fa certo onore ma ci umilia di fronte al mondo intero. Ma non c’è solo questo! L’Italia è anche tra i Paesi con il maggior numero di donne uccise in un anno: 124 nel 2012, un numero impressionante, che attraversa indifferentemente tutti gli strati sociali, le appartenenze e le generazioni. Una vera e propria mattanza che ha fatto utilizzare persino la parola, fortemente evocatrice, di «femminicidio».

Come è potuto succedere tutto questo? Eppure la rivoluzione femminista degli anni ’70 ha lasciato importanti tracce in Italia, si è tradotta, a partire dagli articoli 3, 37 e 51 della nostra Costituzione, in ottime leggi la cui applicazione è stata in

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attualità

questi anni costante e progressiva, nonostante i numerosi e frequenti attacchi. Certo, oc-corre sempre ricordare che i diritti sono una «cosa viva» e che, come si sono conquistati si possono ahimè anche perdere, o si possono restringere nella loro pratica realizzazione grazie ai tagli al Welfare, magari con la scusa della montante crisi economica. E poi i diritti vanno sempre aggiornati perché siano rispondenti alle necessità del presen-te, di queste donne e di questi uomini.Tuttavia le leggi, importanti contrafforti democratici alla montante deriva dei diritti, da sole non bastano a respingerla. Nulla cambia veramente se non muta infatti, contestual-mente, la mentalità diffusa. Se, accanto ed oltre la norma, non matura, nel nostro Paese, una svolta etica comune. Occorre allora fare i conti in profondità con i lasciti inquietanti di un passato fatto di ostracismo, di subalternità e di negazione sistematica della dignità femminile, se vogliamo davvero rilanciare anche nelle più giovani la consapevolezza del proprio valore, il diritto alla piena libertà di scelta, la coscienza della dignità della propria persona.

È un passato che sembra proprio non decidersi a morire. Perché i «lupi cattivi» esistono per davvero e sono continuamente in agguato tra noi, anche nelle mi-gliori famiglie. Si tratta di stereotipi antichissimi e tuttora radicati in una parte

consistente del nostro paese. Stereotipi e pregiudizi ancora più forti anche perché è stata abbassata la guardia nei loro confronti e perché dietro di essi ci sono dei «buoni» ed attivi maestri. Certo la stessa «cultura occidentale» produce una concezione dell’individuo come «esemplare», soggetto anonimo ed interscambiabile, legittimando così un mondo gover-nato dagli egoismi economici e sociali, dall’esclusione, dell’anonimia, dalla solitudine e dalla perdita di empatia per l’altro. E, alla fine della scala, l’uso dell’altro si traduce in violenza, sia fisica che mentale. Tutto questo è vero, ma in Italia pesano anche fattori specifici, radicati nell’origine stessa della nostra storia unitaria. Si può infatti leggere la storia della soggezione femminile attraverso la storia del corpo, cioè attraverso l’uso - mai neutro - che ne è stato fatto nella storia contemporanea, da parte del potere politico. Un uso e un abuso che, vietato dalle norme e dalla nostra Costituzione, è tuttavia rimasto come un fiume carsico nella «pan-cia» del paese, per essere così opportunamente sfruttato da parte del potere economico che si fa ora iperconsumo, cioè consumo totale ed onnivoro, arrivando a consumare ed utilizzare anche il corpo fisico, intaccando la cosiddetta «nuda vita».

Schiacciata nel ciclo biologico «nascita, riproduzione, morte», la donna è sempre stata considerata, fin da Aristotele, come mero «involucro riproduttivo», mate-ria bruta, incapace perciò di ogni decisione autonoma, di ritagliare per se stessa

un’esistenza sua propria. Ma è nell’età contemporanea che avviene il salto di qualità. È ora che la soggezione femminile diviene strumento attraverso cui il potere politico si realizza, si auto-conferma e si riproduce continuamente. È il filosofo e sociologo francese profeta del ’68, Michel Foucault (Poitiers 1926 - Parigi 1984), il primo ad aver individuato questa dinamica spe-

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cifica, elaborando per primo il concetto di «biopolitica» o di «biopotere». In “Sorvegliare e punire”, Foucault affermava infatti che il corpo è ora direttamente immerso in un campo politico. I rapporti di potere operano su di lui, continuamente, una presa immediata: l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, lo obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo perché in età contemporanea la funzione prevalente del potere, secondo Foucault, non è più quella di uccidere ma è quella di investire interamente la vita, di determinare e controllare persi-no la «nuda vita», quella che i greci e i loro epigoni ancora preservavano dal campo della politica, la cosiddetta zoe, ben distinta - sia come concetto che come parola - dalla vita specificatamente umana, quella cioè fatta di esperienze uniche e di un vissuto collettivo e pubblico, il bíos.Ecco la novità inquietante: nell’età contemporanea la zoe e il bíos tendono a confondersi: il potere che cerca consenso e legittimità non più attraverso la forza brutale ma con l’ade-sione convinta ed entusiasta, estende progressivamente le proprie maglie anche a quella zona «franca» ed incontaminata della «nuda vita». Controllare la vita è dunque il «mantra» dei nostri tempi. Ma questo è concretamente possibile solo controllando il corpo delle donne, dove la vita nasce ed alberga. Un controllo totale che si è tradotto, in età contemporanea, in una co-stante e legittimata limitazione della loro libertà, dei loro desideri e delle reali possibilità di scelta.

Quello delle donne diventa dunque un corpo «altro», legittimamente disponibile, cioè, ad un pieno controllo esterno ed eterodiretto dal potere. Nella nuova teoria pattizia del «contratto sociale» che fonda la modernità, si cela infatti un secondo

patto, quello dell’esclusione della donna dallo spazio pubblico. Una cosa antica questa, certo, ma che viene ora riassorbita, accolta e confermata entro la cornice senz’altro inno-vatrice dei diritti che, mentre affermano il valore naturale dell’individuo e la sua dignità proteggendolo dall’invadenza del potere, in realtà escludono le donne che semplicemen-te non ci sono, né come soggetti portatori di diritti né, tanto meno, come capaci di un autentico discorso politico. E non ci sono non casualmente, per distrazione dei legislatori, ma per scelta.

Su questa scia il corpo femminile, sottratto ad ogni forma di autonomo giudizio e di azione pubblica protagonista, verrà dunque pensato, nell’immaginario collettivo ottocentesco, come un corpo «docile», predisposto ad essere guidato ed «agito»

dall’esterno, da un tutore maschio, individuale o collettivo che sia. Un corpo docile, e dunque plastico, modificato e forgiato dai meccanismi del potere, sociale, culturale e politico. Lo stesso «discorso nazionale», costruito a ridosso del lungo processo di unificazione attraverso l’uso sapiente della scuola, dei giornali e dello stesso telaio normativo, è stato infatti imperniato su diversificate forme di appropriazione del corpo femminile da parte dello Stato nascente e della classe dirigente che lo amministrerà. Forme di appropriazio-ne ed utilizzo del corpo della donna dense di stereotipi e che sono rimaste vive ed attive

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attualità

nella coscienza diffusa del Paese, favorite anche da un particolare contesto storico in cui si è realizzato il lungo processo di modernizzazione dell’Italia. Potere politico e soggetti economici forti sono infatti marciati di pari passo nella costruzione dell’Italia unitaria, imprimendo pesanti distorsioni alla società italiana ed utilizzando, tra gli altri, a piene mani quegli stereotipi antifemminili, spossessando la donna della propria autonomia e libertà. È quello che gli storici chiamano il lungo processo di national building a funzio-nare come luogo di rimando dell’uso agito del corpo femminile.

La «nazione» è infatti tutt’altro che coincidente con lo stato e le istituzioni. Essa è molto di più e non esiste in natura. È la risposta alla grande domanda identitaria: «chi sono io?», una domanda urgente e nuova che nasce dallo sbriciolamento

delle antiche comunità di appartenenza e dallo smarrimento che si genera nell’individuo grazie ai processi di modernizzazione economica e sociale impressi dalla rivoluzione industriale e dalla nascita del capitalismo.E a questa domanda essenziale si risponde costruendo la «nazione», utilizzando ed in-ventando immagini, racconti, poemi, statue, monumenti dal forte impatto emotivo: un linguaggio semplice perché affonda le sue radici anche nella tradizionale divisione dei sessi che circola ampiamente nei livelli alti come in quelli bassi della comunicazione sociale. Secondo lo storico Alberto Mario Banti tre sono le figure profonde attorno a cui si costru-isce questo nuovo lessico comune e in tutte e tre il corpo femminile riveste una posizione strategica ed essenziale: 1. la nazione come «parentela/famiglia allargata»; 2. la nazione come «comunità sacrificale»; 3. la nazione come «comunità sessuata».Non c’è «disciplinamento sociale», infatti, senza il controllo diretto dei corpi dei cittadini-maschi, soldati votati al sacrificio, e delle cittadine-donne, il cui corpo serve invece alla riproduzione del corpo sociale collettivo, al suo nutrimento e alla sua cura per la produzione e riproduzione di quella comunità allargata che è la «nazione». Agli «insiders», ai cittadini inclusi nel territorio nazionale, lo Stato-patria fornirà una nuova identità collettiva, fondata su una comunità più vasta, sorretta non solo dall’autorità politica e dalle leggi, ma anche da un costruito sistema simbolico che utilizza i corpi, includendoli in un’ottica simbolica stereotipata.La «nazione» definisce infatti se stessa utilizzando lo schema binario tradizionale uomo/donna: essa è dunque «madre» dei propri figli, protettrice e nutrice, per essa vale il sacrificio estremo, l’onore e la dedizione assoluta del soldato-eroe. «Comunità sacrificale», la nazione sfocia nella «mistica sacrificale» in cui la morte, la guerra, le ferite, vengono sublimate e dissimulate, convertendo il legittimo dolore in onorevole sacrificio sull’altare della patria. È dunque una «comunità sessuata» quella che la nazione ottocentesca consegna intatta ai sistemi totalitari del ‘900 che non fanno altro che riprendere e portare all’eccesso l’idea di patria abbinata ad una «mistica della femminilità», come la definirà - molto più tardi - la studiosa femminista Betty Frieman. Certo, si tratta di un pregiudizio, ma di un pregiudizio pericoloso, perché escludente

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e ghettizzante e in perfetto accordo con la «mistica patriottarda» di cui il fascismo si nutrirà.Questi tre modelli di etero-direzione del corpo femminile hanno infatti trovato il proprio apice negli anni ’30 del ‘900, quando la fascistizzazione del paese userà linguaggi e fi-nalità diversificate per rivolgersi agli uomini e alle donne, di pari passo con il linguaggio pubblicitario dell’epoca.Le cose cambieranno davvero solo con il passaggio, faticoso e sofferto, per il nostro Paese, alla democrazia. La rottura dello schema binario avviene infatti sullo scorcio finale della guerra, quando le donne emergeranno finalmente come soggetti portatori di una propria voce autentica nella guerra partigiana e nella dura ed ostinata resistenza quotidiana alla fame e alla miseria della guerra. La Costituzione italiana si farà carico allora di raccogliere questa ritrovata soggettività femminile traducendola in una proclamata uguaglianza, seguita poi dalle leggi dei de-cenni successivi. Grazie a questo sforzo normativo corale, la politica cambierà di segno, in Italia, come altrove: l’uso biopolitico del corpo sembra tramontato del tutto o comun-que subirà una positiva mutazione di segno grazie alle politiche di Welfare.

Ma allora perché gli stereotipi di genere restano e ci appaiono ovunque, dal cinema, alla televisione, dai cartelloni pubblicitari alla «rete», come addirittura più forti

oggi di ieri? Come si spiega che i diritti non siano riusciti a superarli? Certo, in parte è un fenomeno connesso allo sganciamento della politica, in Italia, dalla realtà concreta della vita delle persone. La politica, ad un certo punto, nel corso degli anni ’80 si è diretta progressivamente altrove, diventando «potere» tout court e dimenti-candosi dei soggetti reali e dei loro diritti, pur solennemente proclamati. Inoltre nella società dei produttori, in quella prima fase della modernità che il sociolo-go Zigmunt Bauman chiama «modernità solida» il consumo era ancora fatto di beni destinati a durare e il tempo era perciò percepito come «durevole». In quella logica, il linguaggio dei diritti, fatto per durare nel tempo e per generare positivi mutamenti, aveva una sua ragion d’essere strutturale: per questo le battaglie, anche dure, del movimento femminista non escludevano l’ascolto reciproco. La protesta trovava così una sponda, oltre che nei movimenti, nei «partiti di massa», tipici di questa fase della modernità.Ma tutto cambia nella «modernità liquida», in quella fase più recente della modernizza-zione in cui tutto viene finalizzato all’acquisto e al consumo compulsivo.La riduzione del senso dei diritti nel pensare comune e quindi la perdita della loro effica-cia, si radica dunque, più in profondità, in una perdita generale del valore della politica, diventata quasi tutta succube degli interessi di una società che vive dello spreco, della volatilità, della creazione dei desideri sempre nuovi, dell’appagamento immediato. E sarà la scelta neoliberista, imposta come unica risposta possibile alla crisi sopraggiunta in conseguenza della crisi petrolifera (‘73-’74) a spingere verso un modello economico fondato su un livello di consumi smodati e, in parallelo, su di una progressiva riduzione ed appannamento del ruolo dello stato e della politica.

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attualità

Nella società del «bio-consumo» ecco rispuntare dunque l’uso e l’abuso voyeristico del corpo femminile: corpi senz’anima e senza personalità, spossessati di sé, ridotti a cosa, sfruttati ed esposti come merce, in vista di picchi di ascolto e quindi, di inserzioni pub-blicitarie.La televisione commerciale offrirà poi lo spazio più adatto alla riproduzione dello ste-reotipo femminile. Sarà sufficiente infatti saper usare fino in fondo tutte le possibilità offerte dal mezzo tecnico: nei programmi di intrattenimento e di varietà, la telecamera riprende spesso, dal basso verso l’alto, corpi femminili presentandoli come carne da macello, bloccandoli in posizioni volutamente innaturali, e costruendo così un linguag-gio del tutto funzionale agli interessi economici di una società che vive dello scarto, del rifiuto, che eleva il «trash» a superiore stile di vita.

E allora? Dobbiamo proprio rassegnarci a questa situazione? Dobbiamo accettare lo sfruttamento del corpo femminile, l’abuso sessuale o la discriminazione della donna nei luoghi di lavoro? O è ancora possibile fermare questo processo di ete-

rodirezione del corpo femminile? Torna oggi di grande attualità il valore contenuto nella riflessione femminista di Luce Irigaray, quello cioè della differenza di genere come elemento irrinunciabile e positivo. Si tratta di un vero e proprio «ribaltamento» del pensiero occidentale, che passa per la riconquista comune del valore della cura, degli affetti, e della solidarietà, tutti valori antitetici alla fagocitante società dei consumi. Non «l’uno», falsamente neutrale, fonda infatti il mondo sociale, ma il «due». «Due» sono i soggetti titolari della relazione socia-le, «due», diversi, irriducibili l’uno all’altro e non comprimibili l’uno all’altro.E ancora: se «donna» e «uomo» fossero solo una costruzione? Come afferma la femminista di ultima generazione, Christine Battersby, docente a War-wick, occorrerebbe ricordare più spesso ai politici come ai filosofi che, in fondo, si nasce sempre di carne senza alcuna identità prefissata. E poiché si nasce sempre in una rela-zione, non neutralmente «gettati nel mondo» bensì «dipendenti» dal rapporto madre-figlia/o, è dalla relazione con una donna che nasce la nostra identità, costruita nel tempo, frutto di un continuo farsi e disfarsi. Frutto dell’azione comune delle donne e degli uomi-ni, delle loro battaglie in piazza e nelle case per l’affermazione dei diritti e della dignità del soggetto femminile.

Le donne italiane hanno finalmente risposto alle tante ingiurie subite in questi ul-timi anni dal potere politico e da quello economico e mediatico, e il 13 febbraio 2011, con una grande manifestazione in tutte le città italiane, hanno finalmente

fatto sentire di nuovo la propria voce. Sono tornate in piazza per dire, ancora una volta, come negli anni della rivoluzione femminista: «basta!»Basta all’uso e all’abuso che uomini di potere, mercato e pubblicità continuano a fare del loro corpo. Con le loro facce colorate, con la musica e i colori dei loro corpi che hanno invaso gli spazi fisici e quelli virtuali di tutta Italia, hanno messo sotto accusa una società dello spettacolo che punta solo alla bellezza fisica, per giunta stereotipata, della donna, a chi

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intende ancora usare il corpo femminile come molla per un successo facile.Il 13 febbraio è cominciata un’altra storia.Si tratta ora di continuarla. A Roma le donne hanno infatti sgomitolato un filo. È un filo simbolico, che unisce le generazioni, il filo delle relazioni che se ben tessuto può dar origine ad una nuova rete.La sfida è dunque lanciata. La scuola e le giovani generazioni, le ragazze di oggi che sa-ranno le donne di domani dovranno essere in grado di apprezzarla fino in fondo, di farla propria e di gestirla in forme del tutto nuove ed originali, con la libertà e l’autenticità dei loro sguardi, rinnovando un messaggio di libertà e di riconoscimento della dignità di sé, come ha pienamente dimostrato la manifestazione mondiale del 14 febbraio 2013, “One billion rising”. Oggi le donne sono tornate, e non sole, con le loro domande e le loro rivendicazioni, con la fierezza di Lilly e di Jenni, quella che viene dall’orgoglio e dalla piena dignità ritrovata del proprio corpo e della propria soggettività. Oggi le donne hanno parlato con voce autentica. Con voce di donna.

Bibliografia di riferimento A. M. BAnti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, 2011A. M. BAnti, Le questioni dell’età contemporanea, Laterza, 2012 Z. BAuMAn, Consumo dunque sono, Laterza, 2009Z. BAuMAn, Amore liquido, Laterza, 2012A. CAvArero, F. restAino, Le filosofie femministe, Mondadori, 2009A. CAvArero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Ombre corte, 1990v. FrAnCo, Care ragazze. Un promemoria, Donzelli ed., 2011e. FroMM, Fuga dalla libertà, I ed. 1941, ed Comunità, 1980G. DeBorD, La società dello spettacolo, I ed. 1967, Dalai ed., 2008C. soFFiCi, Ma le donne no. Come si vive nel paese più maschilista d’Europa, Feltrinel-li, 2010L. ZAnArDo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, serie bianca, 2010

Gisella Benigni Laureata in Lettere moderne all’Univesità degli Studi di Firenze, ha conseguito un mas-ter in storia contemporanea con tesi pubblicata (La condizione umana in Hannah Are-ndt: il silenzio del lager). Altre pubblicazioni: Memoria e Storia della Shoah. Insieme ad Auschwitz, ed. I.I.S “G. da Castiglione, tip. Croce, 2007; La congiura del silenzio. Rom e sinti in Italia tra passato e presente, ed. I.I.S “G. da Castiglione, tip. Croce 2008; “Zingari” o persone? (in collaborazione con la dott.ssa Sabrina Taha Amer) ed. I.I.S “G. da Castiglione, tip. Croce 2010. è docente di storia e filosofia presso l’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione” dal 1997.

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letteratura

L’infinito ritorno di Ulisse: amori mitici e seduzioni mortali

lucia RomizziSi riflette sul mito di Ulisse, sulla dimensione più umana del personaggio, sugli incontri con Calipso, Nausicaa, Circe e con le Sirene, evidenziando il valore simbolico di questi episodi, in riferimento alla sofferta scelta del ritorno a Itaca.

Il mito di Ulisse, immortale simbolo del desiderio di conoscenza, ha da sempre affa-scinato i poeti e gli artisti, ma ha avuto una straordinaria diffusione nell’immaginario collettivo. Alle soglie della Storia un cantore cieco, Omero, ne ha ripercorso il viag-

gio di ritorno da Troia a Itaca ed ha affidato le gesta dell’eroe «multiforme che molto vagò» alle generazioni future, come patrimonio imprescindibile di viaggi nello spazio, nel tempo e nell’anima.Di Ulisse sappiamo (o crediamo di sapere) quasi tutto: re dell’isola di Itaca, figlio di Laerte, marito di Penelope e padre di Telemaco, partì con Agamennone e Menelao alla volta di Troia, per assediare quella città opulenta e barbara il cui principe, Paride, aveva rapito la più bella delle donne, Elena. Ed Ulisse, nella presa della città, ebbe un ruolo non secondario, distinguendosi per quella mètis (intelligenza astuta) che lo portò ad ordire inganni e tranelli. In compagnia del fedele Diomede, riuscì infatti a scovare Achille nella lontana isola di Sciro e con l’inganno lo convinse a prendere le armi; rapì il Palladio, cioè la statua di Atena che proteggeva Troia; infine escogitò l’espediente del cavallo di legno, che riversò dalla pancia cava un fiume di guerrieri che in un’unica lunga notte bruciarono una città nobile di antiche memorie.La guerra di Troia durò dieci anni. E dieci anni durò il viaggio di ritorno di Ulisse da Troia verso Itaca, quel nòstos da sempre paradigmatico dell’avventura dell’anima e della condizione dell’uomo che si smarrisce più volte nel mare dell’esistenza prima di rag-giungere Itaca, il porto sicuro, l’equilibrio, la pace temporanea.Sappiamo che nel corso di questa lunga peregrinazione Ulisse incontrò molte genti, ne conobbe i pensieri, ne apprese le arti, ma si imbatté in ogni genere di situazioni peri-colose. Ad ogni tappa, un incontro poteva mettere in discussione il ritorno: ricordiamo la violenza brutale del Ciclope Polifemo che pasteggiò coi compagni dell’eroe, l’oblio offerto dalle droghe dei Lotofagi, la brama cannibale dei Lestrigoni, il gorgo senza fine di Scilla, la furia nemica di Eolo e la discesa cupa nel Regno dei morti.Ma forse ad avere colpito ancora di più alcuni di noi sono le figure femminili che Ulisse incontra sulla sua strada, e che ci propongono ognuna uno straordinario exemplum di donna: la timidezza della giovane Nausicaa, affascinata dallo straniero infelice venuto dal mare; la sensualità e la passione di Calipso, la ninfa che promise in dono ad Ulisse l’immortalità in cambio del suo amore; l’eros morboso e la sete di dominio della maga Circe, che non esitò a trasformare i compagni di Ulisse in porci; la seduzione nefasta delle pericolosissime Sirene che tentarono di avvincere con canti suadenti l’eroe di Itaca, puntando anche sul fattore intellettuale, per condurlo a morte sicura, come era toccato a

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tanti naviganti prima di lui.Sullo sfondo, in lontananza, la sposa legittima, Penelope, aspetta il ritorno di Ulisse: gestisce la casa ed il patrimonio, inganna i pretendenti evitando nuove nozze, si prende cura del figlio e del suocero; tesse di giorno la sua tela che la notte disfa. Per dieci lunghi anni. Guardando sempre meno spesso verso l’orizzonte del mare, perché con il passare dei mesi anche la sua speranza diminuiva e la sua vita di attesa e di pazienza le sembrava talvolta uno spreco. Ulisse sarebbe tornato, avrebbe ucciso con il suo poderoso arco gli arroganti Proci, avrebbe riabbracciato la moglie. Il cane Argo sarebbe morto subito dopo averlo rivisto, la nutrice Euriclea avrebbe bagnato di lacrime la vecchia cicatrice ricono-sciuta, le ancelle avrebbero preparato di nuovo il talamo nuziale di Penelope.Ma Ulisse non sarebbe rimasto. La quiete di Itaca a lungo andare lo avrebbe stancato, l’insaziabile sete di avventura lo avrebbe roso di inquietudine, il miraggio del mare, di un’altra impresa, l’ultima impresa, lo avrebbe attratto. E Penelope questa volta lo avreb-be aspettato invano. Ulisse non sarebbe più tornato dall’ultimo viaggio. Sulla fine di Ulisse ci sono varie tradizioni: secondo i Greci forse sarebbe morto in un paese lontano a causa del colpo del velabro, uno strumento che divideva il grano dalla pula. Dante ce lo lascia immaginare mentre rivolge una «picciola orazione» ai compa-gni, esortandoli a varcare le colonne d’Ercole ed i confini del mondo allora conosciuto («Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», Inferno, canto XXVI, vv. 118-120). Ed un intimista come Gio-vanni Pascoli lo presenta mentre percorre a ritroso il viaggio di ritorno da Troia: incontra le Sirene e chiede loro il senso della sua vita, ma le Sirene non cantano più, sono mute forme che non rispondono alle sue assillanti domande. Poi le acque del mare che aveva tanto amato si solleveranno in un boato di tempesta e travolgeranno la sua imbarcazione; ed il suo cadavere ricoperto di salsedine, battuto dalle onde, sarà ritrovato dalla ninfa Calipso sulla spiaggia dell’isola di Ogigia. Perché secondo Pascoli Ulisse avrebbe amato solo Calipso e da Calipso sarebbe ritornato nell’ultimo viaggio, assolti i suoi doveri di re e di eroe. Troppo tardi. Perché ormai l’amore immortale di Calipso nulla avrebbe potuto fare per lui.La ninfa Calipso

Nel libro IV dell’Odissea è menzionata la prima figura femminile che troviamo all’inizio del nostro percorso: Calipso (“la Nasconditrice”), che, come racconta Menelao di Sparta, trattiene Ulisse a Ogigia (Ulisse, «l’ho visto versare pianto

copioso, su un’isola, / nelle dimore della ninfa Calipso, che lo trattiene per forza: / co-stui non può giungere nella sua patria»). Sette anni Ulisse aveva trascorso con la Ninfa, immerso nel piacere dei sensi e a contatto con una natura paradisiaca: grotte ombrose, sorgenti d’acqua fresca, boschi rigogliosi, pergole di vite, prati di fiori colorati, uccel-li di ogni tipo. Ma la passione fisica, la promessa di immortalità e l’amore di Calipso non bastavano più ad Ulisse, che si struggeva per la nostalgia della patria, di Penelope, dell’anziano padre e del figlio che aveva lasciato bambino. Il destino di Ulisse è di torna-re a casa e gli dèi mandano da Calipso il messaggero Ermes, affinché acceleri la partenza dell’eroe.

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letteratura

La Ninfa ci è presentata mentre canta e tesse davanti al telaio con una spola d’oro, ac-canto al focolare della sua grotta dove bruciano odorosi rami di cedro e di tuia. Nono-stante la natura divina, si dedica ad una attività squisitamente umana e femminile come la tessitura, descritta con una leggerezza stilistica simile a quella che due millenni dopo Giacomo Leopardi riserverà a Silvia («Sonavan le quiete / stanze, e le vie d’intorno, / al tuo perpetuo canto, / allor che all’opre femminili intenta / sedevi, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi»). Da perfetta ospite offre divina ambrosia e dolcissimo nettare di vino ad Ermes, presaga della terribile notizia che sta per darle, ma inizia a tremare quando apprende che Ulisse dovrà ripartire. Dea troppo umana, rimpiange i giorni dell’amore, maledice l’invidia degli dei per la sua felicità, ricorda di aver salvato l’eroe da morte sicura al momento dell’ultimo naufragio. Calipso è colei che salva Ulisse dai mali del mondo, lo ama, lo protegge. Ma è consapevole che l’eroe rinuncerebbe volentieri all’immortalità, pur di tornare a casa: Lo trovò seduto sul lido: i suoi occhi

non erano mai asciutti di lacrime, passava la dolce vita piangendo il ritorno, perché ormai non gli piaceva la ninfa. Certo la notte dormiva, anche per forza, nelle cave spelonche, senza voglia, con lei che voleva; ma il giorno, seduto sugli scogli e sul lido, lacerandosi l’animo con lacrime, lamenti e dolori, guardava piangendo il mare infecondo.

Ci colpisce la descrizione di questo uomo affranto, che Calipso, in un supremo gesto d’amore, accetta di lasciar partire solo per vederlo felice, anche se la sua felicità sarà senza di lei. Ulisse è l’eroe del ritorno e Calipso non può fermare la strada segnata dagli dei. Anzi, suggerirà all’eroe di costruire una zattera, gli darà cibo, vino, acqua ed abiti. Ulisse però, come sempre malfidato, chiede alla ninfa di giurare di non fargli del male. Teme la reazione della donna abbandonata, che però gli risponde «anche io ho giusti pensieri, e nel petto / non ho un cuore di ferro, ma compassione».Calipso, mossa da un amore immenso, seppure a malincuore restituisce la libertà ad Ulisse, sacrificando se stessa e condannandosi ad una vita immortale di nostalgia e di ricordi. Prima dell’ultimo atto d’amore, prima dell’addio, le parole di Ulisse a Calipso sono per Penelope:

Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo sobene anche io, che la saggia Penelope a vederla è inferiore a te per beltà e statura: lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia. Ma anche così desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno.

La principessa Nausicaa

Con al collo il velo di Ino, secondo le immagini dei vasi greci, Ulisse sbarcherà nell’isola dei Feaci, governata dal re Alcinoo, padre di Nausicaa, una delle figure

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femminili più affascinanti della letteratura di ogni tempo. Secondo il racconto di Omero (Odissea, libro VI), la principessa era uscita con le ancelle per lavare le vesti da sposa al fiume su consiglio di Atena che le era apparsa in sogno. Nausicaa era in età da marito e sognava con trepida attesa un matrimonio d’amore. Dopo aver lavato le vesti, dopo aver fatto il bagno ed essersi unte di olii profumati, la princi-pessa e le ancelle iniziano a giocare a palla, gioiose e libere come tutte le fanciulle al termine di una noiosa incombenza. Dal cespuglio presso cui si era addormentato dopo il naufragio, esce all’improvviso l’eroe venuto dal mare, nudo, con la mano a coprirsi le parti intime, terrorizzando con il suo aspetto le fanciulle, tranne Nausicaa. Nausicaa non fugge, accoglie il suo destino, controllando il tremore che la scuote. Ed Ulisse sarà incer-to «se implorare la bella fanciulla prendendole le ginocchia / o pregarla con dolci parole, così, / da lontano, che la città gli mostrasse e gli desse dei panni». Così Ulisse rivolgerà alla principessa parole che risuonano quasi come una dichiarazione d’amore:

Tre volte beati tuo padre e la madre augusta, beati tre volte i fratelli: il loro animo certo si scalda sempre di gioia per merito tuo, guardando tale germoglio che muove alla danza. Ma più di tutti beato nel cuore colui che pieno di doni ti condurrà a casa sua. Perché, coi miei occhi, non vidi mai un mortale così, né uomo né donna: stupore mi prende guardandoti.

La preghiera di Ulisse è di rara bellezza: pervasa di dolorosa malinconia, è sospesa tra un passato ora lieto ora angoscioso, ed un futuro pieno di speranza. La nostalgia dell’eroe lontano dalla patria sembra però addolcita dalla grazia gentile e dallo splendore giovanile della fanciulla. Ulisse augura un matrimonio felice alla principessa, quasi trasferendo nel racconto il rimpianto per quello di cui l’esperienza della guerra lo ha privato:

Gli dei ti concedano quanto nel cuore desideri, un marito ed una casa, e per compagna la felice concordia; perché non c’è bene più saldo e prezioso, di quando con pensieri concordi reggono la casa un uomo ed una donna.

Nausicaa gli offre ospitalità ed ordina alle fanciulle di lavarlo e di vestirlo (anche se l’eroe lo farà da solo per pudore). La dea Atena guarda con occhio benevolo la scena, ed infonde magicamente bellezza e giovinezza alle membra dell’eroe. Quando Ulisse si pre-senta di nuovo dalla principessa, lei già innamorata dello straniero ora simile ad un dio: «Oh, se un uomo così potesse dirsi mio sposo / qui abitando e qui gli piacesse restare».E Nausicaa, che con la sua bellezza innocente aveva colpito l’eroe, gli spiegherà come arrivare in città e alla reggia dei Feaci, come presentarsi prima all’autorevole sua ma-dre Arete, poi come chiedere aiuto al padre Alcinoo, seguendola sempre a distanza per evitare pettegolezzi che le causerebbero disonore. E alla bellissima reggia dei Feaci, circondata da un ameno giardino di fiori e di frutti, l’eroe sarà accolto in maniera ospitale (Odissea, libro VII) e racconterà le disavventure vissute sulla via del ritorno.

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letteratura

Il re Alcinoo, con straordinario senso dell’equilibrio, offre ad Ulisse la mano della figlia o, in alternativa, di poter ripartire; lo lascia libero di scegliere, perfettamente conscio del fiore d’amore che era già sbocciato nel cuore di Nausicaa. Ulisse deciderà di andarsene e, solo dopo il banchetto ed il festeggiamento (libro VIII), rivelerà ad Alcinoo il suo nome (libro IX). Il sogno d’amore di Nausicaa è destinato ad infrangersi e, al momento dei saluti, la fanciulla ricorderà ad Ulisse di averla salvato: «Ti saluto, straniero, perché ora possa ricordarti di me / anche in patria: poiché a me devi per prima la vita». E le sue parole sono quelle di una donna dolce ma sicura e determinata, e cosciente al tempo stesso del suo ruolo.

La Maga Circe

Delle avventure di Ulisse, quella dell’incontro di Circe è certamente una delle più famose (Odissea, libro IX), anche per la sua collocazione sulle coste italiche, presso il promontorio del Circeo, nel Lazio meridionale.

Secondo il racconto di Omero i compagni di Ulisse (tranne Euriloco), sbarcati nell’isola di Eea presso un palazzo bello come un paradiso, sono spinti ad entrare dentro da un canto suadente e dalla nobile figura di una donna simile ad una regina, intenta a tessere una tela immortale: Circe, figlia del Sole. Ma Circe regina non era o, meglio, era regina di sortilegi e pozioni: prepara un filtro con vino, miele, orzo, formaggio ed erbe magiche che fanno dimenticare il ritorno, lo fa bere ai compagni di Ulisse e, subito dopo, toccatili con la bacchetta magica, li trasforma in porci e li chiude in un recinto. Ma Euriloco aveva visto tutto, e corre da Ulisse a raccontargli tutto, con il corpo scosso da brividi di spaven-to di fronte ad una magia nera come la pece. Gli dèi sono benigni, ed Ermes, protettore dei messaggeri e dei ladri, dona ad Ulisse un antidoto: l’erba moly, grazie a cui Ulisse potrà assumere il filtro di Circe senza subire trasformazioni. Circe resta interdetta dal fal-limento del suo maleficio ma, di fronte alla spada appuntita di Ulisse, giura di non fargli del male, di non operare altri sortilegi contro di lui: «Ed io la spada acuta dalla coscia sguainando su Circe balzai, come deciso ad ucciderla». I mostri delle favole hanno paura del bronzo e Circe, impaurita, giura; «nessun altro sopportò questi farmaci, / chi li bevve, appena varcarono il recinto dei denti: / una mente che vince gli inganni hai nel petto». Il senso del giuramento stavolta è di non rendere vile ed impotente Ulisse con la magia nel corso dell’imminente gioco della seduzione. Così, con questo patto si risolve il gioco eterno di eros e thànatos (amore e morte). La mètis ha sconfitto la magia. Adesso Ulisse e Circe sono sullo stesso livello. E l’eroe adesso non ha alcun problema a salire sul letto della maga, dopo un bagno ristoratore di natura rituale, piegandosi volentieri al suo de-siderio amoroso, ma solo dopo avere ottenuto la liberazione dei compagni, che saranno ritrasformati in uomini. E per un lungo anno ancora l’eroe sarà vinto dall’eros, dimenti-cherà la patria e Penelope, genererà un figlio con Circe, Telegono («colui che è procreato lontano»), ma poi partirà, consapevole della pericolosità rappresentata dall’ospitalità di Circe. La maga innamorata di lui lo aiuterà, annunciandogli la sua discesa agli Inferi e

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mettendolo in guardia dal pericolo rappresentato dalle Sirene e da Scilla e Cariddi.L’ammaliatrice Circe, al tempo stesso tenera e spietata, simboleggia la tentazione dell’oblio rispetto alle responsabilità che l’uomo-guida ha. E gli amori di Ulisse e Circe affascineranno generazioni di artisti e letterati. Non a caso per il palazzo incantato di Armida alle Isole Fortunate, sede degli amori con Rinaldo, Torquato Tasso, autore della Gerusalemme Liberata (1581), si ispirerà proprio al palazzo di Circe.

Le Sirene

Nel corso della navigazione verso Itaca Ulisse passa accanto all’isola delle Sirene, in Omero due donne-uccello, che nell’età romana diventeranno tre e saranno progressivamente umanizzate, mentre solo nel Medioevo assumeranno l’aspetto

a noi meglio noto, quello dell’essere marino metà donna e metà pesce.Una Sirena suona la cetra, l’altra il doppio flauto, ed il loro canto è melodioso, promette infinite seduzioni erotiche ed intellettuali, annebbia la mente. Chi sente il canto delle Si-rene non può resistere: naviga verso l’isola, attendendosi illusoriamente piaceri amorosi ed amene conversazioni. Le Sirene riservano ben altra sorte agli uomini che le raggiun-gono: una morte violenta e la scarnificazione del cadavere. Cannibali creature del mare, si cibano di carne umana e gioiscono della vista delle ossa delle loro vittime. L’eros an-che qui è una falsa promessa, poiché è portatore di morte. «A colui che ignaro si accosta e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini / gli sono vicini, felici che a casa è tornato, / ma le Sirene lo incantano col limpido canto», un canto appunto di melodiosa bellezza, un canto profetico e dolce come il miele. Ma l’ingegno e la ragione sconfiggono la fallace seduzione del piacere dei sensi.Ma Ulisse avrà la meglio anche sulle Sirene: desideroso comunque di lasciarsi inebriare dal loro canto di amore e morte, si farà legare all’albero della nave con stretti cordami. I compagni remeranno con cera nelle orecchie, in un silenzio che inibisce la fuga bal-danzosa verso morte sicura. E le Sirene canteranno invano, sgomente spettatrici del fal-limento della loro magia funesta di fronte al potere dell’ingegno umano. Le note stonano ed il potere suadente della melodia si annienta, mentre la nave sfila davanti all’isolotto. Ulisse, l’unico ad ascoltare il canto, nulla può fare per seguirne il richiamo irresistibile.

Il ritorno da Penelope

Dopo dieci anni di peripezie, di angosciose avventure, di fascinazioni e tradimen-ti, Ulisse torna ad Itaca. È solo e la dea Atena invecchia le sue membra, così di arrivare alla sua reggia invasa dai Proci senza essere riconosciuto.

La moglie Penelope lo ha aspettato per venti anni, tenace custode del focolare domestico e del patrimonio di famiglia. Gli è stata fedele, ed ha affogato in pianti ormai senza la-crime la sua nostalgia, e la sua fedeltà ci colpisce, se consideriamo i numerosi tradimenti di Ulisse: la sua necessaria lungimiranza di regina l’ha spinta infatti non a rifiutare pe-rentoriamente il matrimonio con uno dei pretendenti ma semplicemente a differirlo. In fondo, Ulisse poteva benissimo non fare ritorno e lei doveva necessariamente pensare al futuro del figlio. Ed il sogno premonitore della morte delle oche, simbolo dei Proci, rive-lano con sensibilità psicologica moderna la parte più oscura dell’animo di Penelope: pur

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essendo rimasta fedele ad Ulisse e desiderandone il ritorno, si compiace dei complimenti che i Proci le rivolgono, esaltandone la bellezza e la femminilità.Penelope è una donna dal carattere forte e determinato, con un suo preciso ruolo nell’azio-ne narrativa dell’Odissea, mentre le altre figure femminili analizzate rappresentano pro-ve che l’eroe deve superare (Calipso e la promessa di immortalità, Circe ed il fascino dell’oblio, Sirene e la falsa seduzione erotica ed intellettuale) o hanno la funzione di figure ausiliatrici (Nausicaa). Penelope è quindi protagonista, comprimaria di Ulisse a tutti gli effetti e portatrice di valori positivi complementari a quelli dell’eroe. E la sua virtù, la sua aretè, è accresciuta dal suo vivere il ritorno del marito in completa solitudi-ne: la suocera era morta di dolore, il suocero Laerte si era rifugiato nei campi ed il figlio era troppo piccolo.La forza di Penelope è quindi nella sua tenacia, in quella resistenza passiva ma consa-pevole, in quella pazienza che la porterà a fare e disfare per anni il lenzuolo funebre per Laerte. Uno stratagemma per differire il nuovo matrimonio, concepito con una mètis non inferiore a quella del marito. Non a caso l’arte di tessere e di filare è sempre stata nelle società del passato una delle principali virtù della donna. Sarà poi Penelope a prendere dal talamo nuziale l’arco di legno per la celebre gara che dovrà decide il successore di Ulisse, arco che solo Ulisse sotto le vesti di un mendicante riuscirà a tendere e con il qua-le farà strage dei Proci (Odissea, libro XXII). La prima a riconoscere nel vecchio e lacero mendicante giunto alla reggia di Itaca, come è noto, è la nutrice Euriclea, che informerà una incredula Penelope (libro XXIII). Per la regina questa informazione non basta a rico-stituire l’ordine familiare: non è sufficiente la presenza fisica, occorre che si inneschino nuovi meccanismi relativi alla progettazione del futuro su cui si fonda appunto il matri-monio. La regina sembra accogliere con durezza il ritorno di Ulisse, perché troppi anni sono passati e la memoria del tempo che è stato va ricostruita. Quando dopo la strage dei Proci se lo trova di nuovo di fronte, in maniera astuta, da degna moglie dell’eroe orditore di inganni, gli chiede sulla base di quali segni possa effettivamente riconoscerlo. Nel frattempo ordina ad ancelle e servi di far festa, di simulare un matrimonio, perché non si sappia troppo presto in città della strage dei Proci. Ma in realtà un matrimonio si sta ef-fettivamente celebrando: il riconoscimento di Ulisse e Penelope è di fatto un nuovo spo-salizio. E la prova che Ulisse fornisce è la descrizione della costruzione del letto nuziale, il talamo, ricavato da un ulivo enorme, letto che quindi nessuno avrebbe potuto spostare. Attraverso l’immagine di un letto simbolo di matrimonio solido e radicato a terra, av-viene così la conferma di quel legame che è rappresentato dal vincolo matrimoniale. Gli sposi si possono finalmente abbracciare, sciogliendosi in un lungo pianto. E toccano la terra con gioia, scampati al pericolo; / così le era caro lo sposo, guardandolo.

Lucia RomizziLaureata in Lettere classiche, dottore di Ricerca in Archeologia all’Università di Perugia, ha all’attivo due monografie (“Ville d’otium dell’Italia antica”, 2001; “Programmi deco-rativi di III e IV stile a Pompei”, 2005) e numerosi articoli scientifici per riviste italiane e straniere. È titolare di Lettere al Liceo “Giovanni da Castiglione” dal 2005.

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Lano da Siena e le “Giostre del Toppo”Daniele iacomoni

Nel Canto XIII dell’Inferno dantesco viene citato - sia pure per inciso - un luogo delle nostre terre non altrimenti particolarmente noto, non essendo neppure sede comunale. Si tratta di Pieve al Toppo, cui Dante di riferisce al verso 121:

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».E l’altro, cui pareva tardar troppo,gridava: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!»(Inferno XIII, vv. 118-121)

Siamo qui nel secondo girone del settimo cerchio, tra i violenti contro se stessi e le proprie cose, nell’orrida selva dei suicidi, le cui anime sono imprigionate in alberi dai rami contorti e annodati, pascolo delle turpi Arpie. Le anime sono invisibili, non hanno aspetto corporeo per un evidente contrappasso e parlano lamentosamente effondendo anche sangue solo quando le Arpie rompono i loro rami. Chiarissimi i richiami virgiliani. Ma in questa selva inospitale e grigia ci sono altre anime affannate, queste sì visibili: sono quelle degli scialacquatori, inseguiti da cagne fameliche in una drammatica scena di caccia. Siamo all’episodio da cui siamo partiti per questo studio: due scialacquatori corrono disperatamente, uno si attarda, sente di non aver più lena e schernendo l’altro che corre più di lui gli rimprovera, o gli rinfaccia beffardamente, con sarcasmo, che nella circostanza della sua morte le sue gambe non furono così veloci, spediti ed agili come ora: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue alle giostre del Toppo!».

Ma chi era questo personaggio e come e dove morì? Penso che la vivace prosa trecentesca dell’Ottimo sia ancor oggi valida a rispondere a tutte queste do-mande:

Questo Lano fu un giovane donzello della città di Siena, lo quale intra gli altri cittadini era ricchissimo: questi fu consumatore e dissipatore de’ suoi beni, specialmente colla brigata spendereccia. Costui finita sua ricchezza, trovando-si nella sconfitta data alli Sanesi, nel partire che essi fecero dall’assedio d’Arezzo, anni domini mille dugento ottantot-to, circa la fine del mese di giigno: eranvi stati a richiesta de’ Fiorentini: la quale sconfitta fu data alli Sanesi per gli Aretini alla pieve al Toppo; e potendosi a uno salvamento partire, per non tornare nel disagio nel quale era corso, tra li nemici si fedì, ove fu morto: e questo significa il cac-ciato correre, però che tolse del tempo della giovanezza, perché se vivuto fosse più, bisognava che affannati e neri cani l’avessero divorato cioé a dire che miseria, e povertà l’avrennero afflitto, siccome dimostra l’atto di quelle cagne che lui perseguitando giunsero, e dilacerarono.

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L’Ottimo inquadra il personaggio nell’epilogo della sua vita: le «giostre del Toppo», ossia la battaglia di Pieve al Toppo, una cruenta imboscata che costò la vita a centinaia di soldati senesi. I prodromi di questo scontro, icasticamente immortalato da Dante nel brevissimo passo da cui qui sono prese le mosse, coincidono con l’accentuarsi del predo-minio ghibellino nella città di Arezzo nel 1288, a seguito del colpo di mano e la cacciata dei guelfi dell’anno precedente, con il vescovo guerriero Guglielmino degli Ubertini, ormai quasi settantenne, figura centrale. A Firenze, dove da molto tempo ormai i guelfi avevano prevalso, la cosa non era ben tollerata e per questo si cercò di organizzare una spedizione militare con l’intento di assediare Arezzo. Si radunò un esercito con effettivi fiorentini e senesi, oltre a milizie mercenarie e guelfi delle Marche, che il 1° giugno pose l’assedio alla città ghibellina, la quale però non capitolò ed anzi costrinse gli assedianti a desistere dopo pochissime settimane. Quando l’assedio fu tolto, i guelfi commisero un errore di notevole sottovalutazione dei ghibellini di Arezzo, di cui pure avevano con-statato la strenua capacità di resistenza e l’organizzazione militare, almeno in funzione difensiva. Forse non avendo timori di rappresaglie, pur essendosi macchiati della colpa di saccheggi e devastazione delle campagne (nonché di aver corso un Palio di dileggio degli Aretini proprio sotto le mura della città assediata), i guelfi nel partire da Arezzo si divisero: i Fiorentini dirigendosi per il Valdarno (avendo invitato invano, pare, i loro alleati a far la stessa strada fino a Montevarchi, per poi deviare verso Siena per la via chiantigiana), i Senesi invece imboccando la direttrice della Valdichiana per passare da Lucignano, forse con l’intento di un ulteriore saccheggio.

La Valdichiana allora era una zona non facile da attraversare per le sue condizioni di palude. Gli Aretini sapevano che l’unico guado della palude della Chiana atto al passare di un esercito era quello nei pressi di Pieve al Toppo e lì fu organiz-

zata un’imboscata per sbarrare la strada all’armata senese. La mossa rispondeva alla necessità, di cui gli Aretini erano ben consapevoli, di non affrontare in campo aperto un esercito numericamente superiore, ma di sorprenderlo all’improvviso mentre si ritirava. Così avvenne. Il 26 giugno di quel 1288, mentre i Senesi, partiti da Arezzo, erano in assetto di marcia e non di battaglia, dato che le lance ed altre armi venivano trasportate a parte e le balestre e gli scudi erano sul dorso dei muli o assicurati ai cavalli e quindi non immediatamente disponibili, gli Aretini attaccarono all’improvviso. Essi, agli ordini del trentenne capitano di ventura Buonconte da Montefeltro (che morì l’anno successivo nella battaglia di Campaldino e che Dante immortalerà nel V Canto del Purgatorio) e di Guglielmo dei Pazzi, si erano divisi in due compagini: una aveva seguito i Senesi da tergo, l’altra era arrivata di notte al guado della Chiana presso Pieve al Toppo facendo il giro da Battifolle e Viciomaggio fino a Mugliano. L’esercito senese era comandato da Ranuccio Farnese e constava di 3.000 fanti e più di 400 cavalieri, gli Aretini invece ave-vano 2.000 fanti e 300 cavalieri. Ma, a dispetto dei numeri, l’effetto-sorpresa fu decisivo: i Senesi, colti alla sprovvista e per lo più non con le armi in pugno, furono bersagliati da fitti lanci di quadrelli e verrettoni, e anche per questo non riuscirono a disporsi in ordi-ne di battaglia, ed inoltre perché fra i primi cadde il loro stesso comandante. Quando i

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feditori aretini caricarono, le truppe senesi furono definitivamente scompaginate e i più trovarono una morte atroce essendo braccati e cacciati singolarmente non solo dai soldati nemici, ma anche dai contadini del luogo, che passarono con le forche soldati isolati impossibilitati a difendersi. Più di cinquecento Senesi, tra cui molti notabili della città e grandi del contado, furono massacrati in questo modo. Tale spietata caccia all’uomo fu immortalata dalla fama conferita dall’espressione dantesca «giostre del Toppo». Pe-raltro, sul significato della parola «giostra» usata da Dante in questo luogo sono sorte controversie d’interpretazione.

Una «giostra», di per sé, è una gara di abilità cavalleresca, un combattimento da gioco o torneo, senza spargimento di sangue, ma qui sembra che il poeta vo-glia invece indicare uno scontro fisico senza esclusione di colpi, anzi, all’ultimo

sangue. Se cosi è, come alcuni - penso a Siro Chimenz e a Daniele Mattalia - intendo-no, si tratta di una metafora ironica, in pratica Dante vorrebbe dire: «se tu avessi corso così spedito, avresti vinto il torneo contro i tuoi nemici», cioè «saresti scampato alla morte». Invece Lano morì drammaticamente a Pieve al Toppo, sia che abbia cercato la morte volontariamente per porre fine ad una vita scellerata, come pensa l’Ottimo e con lui il Boccaccio, sia che non sia stato capace di sfuggire all’uccisione, come ritiene il Buti. L’«amara ironia» della frase dantesca, comunque pare più che giustificata dall’an-damento dei fatti: i Senesi si dimostrarono tatticamente impreparati e troppo leggeri nella ritirata da Arezzo e forse Dante, che non li ebbe mai in simpatia, vuole punirli con questa parola «giostre» come a biasimarne la superficialità di aver affrontato una battaglia cru-ciale come se quella fosse un frivolo torneo di virtuosismo cavalleresco per aggraziarsi qualche dama. Illuminante la sintesi del concetto operata recentemente dal Bondioni: «Qui il termine ‘giostre’ è ironico e ha un preciso intento di abbassamento parodico: il solenne torneo cui le corti annettevano tanta importanza, è un’imboscata e, al contrario, la battaglia in cui è morto Lano sarebbe una giostra. La preposizione articolata ‘dal’ è simile alla forma latina ‘quid’ e indica quindi la vicinanza: dalle parti del Toppo. Proprio l’uso raro ribadisce l’ironia».

Ma torniamo nella selva del settimo cerchio per conoscere meglio i personag-gi. Lano, di cui abbiamo parlato sopra, non è meglio identificato dai com-mentatori antichi rispetto alla prosa dell’Ottimo che si è riportata. Ne parla

analogamente anche il Boccaccio ma appare probabile che anch’egli sapesse poco di questo Lano, derivando per deduzione molte informazioni dal testo stesso che avreb-be voluto spiegare. I moderni hanno tentato un’identificazione, peraltro non univoca, come spesso accade. Si tratta, probabilmente, di tale Arcolano da Squarcia di Riccolfo Naconi o Ercolano Maconi, comunque personaggio noto a Siena per i suoi eccessi nello scialacquare tutto in feste ed orge, amico, pare del poeta «maledetto» Cecco Angiolieri (che secondo il Contini gli dedicò il sonetto “Giùgiale di quaresima”, dal Marti invece attribuito a Muscia da Siena) e gran «guastatore e disfacitore di sua facultade» secondo i cronisti dell’epoca e secondo il Buti, il quale peraltro sostiene che, nonostante le sue mani bucate avessero fatto scorrere fiumi di denaro, la vita non gli bastò per finire tutti

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i suoi averi. Nell’episodio dantesco è immortalato poeticamente in un’invocazione non facile da interpretare: «Or accorri, accorri, morte!», sembra cioè invocare che la morte lo raggiunga in quel frangente disperato, con le cagne alle calcagna, e dice questo come se fosse ancor vivo, quindi assurdamente, per sfuggire al terrore di essere dilaniato o, come altri intendono, l’invocazione vorrebbe riferirsi all’annullamento totale dell’essere, alla morte anche dell’anima, perché non essere più significherebbe non essere dannato, non soffrire, ma anche così letta l’invocazione suona abbastanza assurda e forse Dante già in questo verso vuole esercitare l’«amara ironia» che caratterizza questa triste figura.

Il personaggio che pronuncia le parole rivolte a Lano è invece Jacopo o Giacomo da S. Andrea, lo sappiamo dal rimprovero dell’Anonimo suicida fiorentino presso il cui cespuglio egli aveva cercato di schermarsi dalle cagne, aggrappandovisi e pro-

vocandone lo sfrondamento ad opera delle cagne stesse. Anche di questa figura fa un espressivo ritratto l’Ottimo: «Questi fu Iacopo della cappella di Santo Andrea della città di Padova da Monselice, il quale fu erede di grandissime ricchezze: lo quale distrusse tutti li suoi beni, e dicesi di lui intra l’altre sue prodigalitadi, che desiderando di vedere un grande e bello fuoco, fece ardere una sua villa». Altre fonti lo tramandano capace di dilapidare l’immensa fortuna della madre in pochi anni, riducendosi a doversi vestire con gli stracci e a stare a servizio del Marchese d’Este, fino alla morte violenta per ordine, se non per mano, di Ezzelino III da Romano, nel 1239. L’aneddoto più celebre, che forse è la versione romanzata di quello citato dall’Ottimo, lo descrive così privo di senno che, dopo aver gozzovigliato con gli amici a cena, per evitar loro il fastidio di cercar la strada di casa nella campagna buia, diede ordine che lungo il percorso, dalle porte di Padova alla sua villa, si incendiassero tutti i casolari. Ma non mancano altri racconti grotteschi, come quello che lo vede protagonista di un fitto lancio di monete d’oro a fior dell’acqua del Brenta, durante una gita in barca in cui evidentemente di annoiava moltissimo. Co-munque sia, nell’episodio dantesco è lui a schernire Lano da Siena rimproverandogli la sua scarsa prestanza alle «giostre del Toppo».

E qui torniamo all’argomento principale di questo scritto, lo scontro tra ghibelli-ni di Arezzo e Senesi all’imboccatura della Valdichiana. Questa battaglia non è nota come quella dell’anno successivo a Campaldino, tra gli stessi Aretini ed

i Fiorentini, immortalata del Canto V del Purgatorio, forse quello più cruento di tutto il poema, o come la battaglia del 1260 a Montaperti, dove «fu distrutta la rabbia fiorentina» dall’impatto con i ghibellini di Siena e con gli stessi «sbanditi» da Firenze (ne parla Fari-nata degli Uberti nel X dell’Inferno), oltre che con le truppe ghibelline di Manfredi. Ma è comunque una battaglia importante, peraltro talvolta imprecisamente citata anche nei commenti migliori del poema. Il Chimenz, addirittura, riesce a far due errori sullo stesso fatto, anticipando lo scontro al 1287 (errore in cui cade anche la Garavaglia) e sostituen-do i Pisani ai Senesi come avversari degli Aretini. Ma già i commentatori antichi avevano ben chiarito i termini della questione: nella Toscana di quegli anni i Fiorentini volevano eliminare le residue scorie di ghibellinismo e, a questo fine, le armi erano tenute in conto molto più che la politica o la diplomazia. Arezzo, se uscì indenne dall’assedio del giu-

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gno 1288 ed anzi si tolse la soddisfazione di sbaragliare l’esercito senese, poco meno di un anno dopo avrebbe pagato il conto ai Guelfi di Firenze il sabato di San Barnaba, nella piana di Poppi, in quella che sarebbe stata la celebre battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), cui partecipò appena ventiquattrenne - presumibilmente con il fervido entusiasmo degli ideali giovanili - anche Dante Alighieri, non ancora conscio dei mali che pure la sua parte politica aveva in sé e che anch’egli avrebbe amaramente sperimentato una dozzina di anni dopo. Un’amara metafora delle alterne vicende della Fortuna e, soprattutto della malvagità e della fallacia dei Poteri umani.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE - OPERE CONSULTATE- L’Ottimo commento della Divina Commedia - Testo inedito d’un contemporaneo di

Dante, Pisa, presso Niccolò Capurro, MDCCCXXVII (Ristampa anastatica pubblicata da Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1995)

- Commento di Francesco Buti sopra la Divina comedia di Dante Alighieri pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Fratelli Nistri, Pisa, 1858

- Commento della Commedia a cura di siro A. ChiMenZ, U.T.E.T., Torino, 1962- Commento della Commedia a cura di nAtALino sApeGno, La Nuova Italia, Firenze,

1968- Commento della Commedia a cura di rAFFAeLe DonnAruMMA e CristinA sAvettieri,

Palumbo, Palermo, 2000- Commento della Commedia a cura di vittorio serMonti, Giunti, Firenze, 2012- Commento della Commedia a cura di DAnieLe MAttALiA, Rizzoli, Milano, 1960- Commento della Commedia a cura di GiAnFrAnCo BonDioni, Principato, Torino, 1998- Commento della Commedia a cura di M. ADeLe GArAvAGLiA, Mursia, Milano, 2002- Enciclopedia Dantesca, 16 voll., Biblioteca Treccani, Roma, 2005.

Daniele IacomoniLaureato in Lettere all’Università di Siena, è titolare della cattedra di lettere presso il Liceo scientifico “Giovanni da Castiglione” dal 1992.

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MATEMATICA

La matematica come risorsa tecnologicaanGiolo FaRina

Il compito che mi prefiggo in questo breve lavoro è illustrare, attraverso qualche esem-pio, in che modo la matematica può giocare un ruolo nel progresso e nell’innovazione tecnologica.

Vorrei prima fare due premesse. La prima: gli esempi che presenterò si riferiscono ad applicazioni di una minima parte della matematica; vorrei però precisare che, in linea di principio, tutta la matematica è applicabile! La distinzione non è da

farsi tra matematica pura e matematica applicata (o tra qualunque ricerca pura e applica-ta), ma soltanto tra matematica buona e matematica non buona.La seconda: la matematica è componente essenziale di tutto il progresso scientifico e tecnologico; e qui mi affido all’autorità del Rapporto Davis che fu commissionato dalla grande industria statunitense alla fine degli anni ’80 da cui, traducendo, cito testual-mente «…ci rendiamo conto ogni giorno di più che la rivoluzione tecnologica di questi decenni è essenzialmente una rivoluzione matematica! »; ed a quella, un po’ più antica, di Leonardo da Vinci «nessuna certezza vi è ove non si possa applicare una della scienze matematiche». Passiamo ora agli esempi. Il primo che ho scelto si riferisce ad un argomento all’industria metallurgica.

Consideriamo la colata continua di un metallo, cioè il procedimento mediante il quale il metallo fuso viene fatto passare attraverso un manicotto cilindrico che viene raffreddato in modo che il metallo inizi a solidificare, naturalmente inizian-

do dalla parte in contatto con il manicotto, essendo questa la più fredda.La sbarra metallica in via di solidificazione viene fatta avanzare a velocità costante (il raffreddamento può continuare anche fuori dal manicotto) mediante un dispositivo a rulli

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rotanti. Il problema che si pone è quello di fornire un modello matematico che descriva la conduzione del calore nel mezzo che solidifica, in modo da determinare, per ogni asse-gnata efficienza del sistema di raffreddamento, la velocità massima di avanzamento della sbarra compatibile con la prescrizione che lo spessore dello strato solido all’uscita del manicotto sia sufficiente per garantire la sicurezza dell’impianto. Ovviamente nei casi concreti occorre tenere conto di molti altri aspetti su cui non mi soffermerò.

Per fare le simulazioni numeriche, il metodo più economico consiste nel tenere conto dell’energia termica che occorre sottrarre alla fase liquida per renderla so-lida (calore latente di solidificazione, usualmente indicato con L) inserendola, in

qualche modo, nell’equazione che classicamente descrive la conduzione del calore. Que-sto si fa sommando al calore specifico del materiale la costante L moltiplicata per uno strano oggetto matematico che è la cosiddetta delta di Dirac. Quest’ultima può essere approssimata con funzioni che si annullano per qualunque temperatura non appartenente ad un intorno della temperatura di solidificazione e tali che l’area sottesa dal loro grafico sia unitaria. Anche senza altri dettagli, si intuisce che la stessa nozione di soluzione del problema va modificata (nell’equazione abbiamo messo «qualcosa» che non è una funzione); ma si vede anche che, invece di risolvere due problemi – la conduzione del calore nella fase liquida, e la conduzione del calore nella fase solida - e poi considerarne l’accoppiamento, abbiamo un singolo problema di cui calcolare la soluzione. A questo punto si possono simulare diversi scenari, facendo variare il raffreddamento e la velocità di estrazione e suggerire di conseguenza come il processo si possa ottimizzare.Questo semplice esempio ci mostra che la matematica è da considerarsi quindi, anche come uno strumento tecnologico, in quanto consente di passare da un’osservazione pu-ramente qualitativa, o da una descrizione puramente empirica, ad un’analisi di tipo quan-titativo e quindi ad un approccio sostanzialmente scientifico.Inoltre essa fornisce la possibilità di utilizzare un linguaggio universale, favorendo il dia-logo interdisciplinare. Si può quindi dire che oggi, nell’industria tecnicamente avanzata, la matematica diventa strumento essenziale, come qualche decennio fa poteva essere il cacciavite.

Passiamo ora ad un secondo esempio in un campo totalmente diverso: la dialisi. Tutti sanno di cosa si tratta: la dialisi è un procedimento effettuato con delle mac-chine sofisticate, i cosiddetti dializzatori, che ha per scopo la rimozione dal sangue

dei prodotti del metabolismo (urea, per esempio) e dell’acqua in eccesso. A tale processo sono sottoposte quelle persone che hanno serie disfunzioni renali (talvolta, per fortuna, solo temporanee) o coloro che, purtroppo, hanno subito l’asportazione di entrambe i reni. Non per niente i dializzatori (che in sostanza sono veri e propri filtri) vengono an-che chiamati reni artificiali. Negli ultimi anni si è sviluppata anche una nuova tecnica, la cosiddetta dialisi peritoneale, che sfrutta il peritoneo come membrana filtrante. Tale tecnica, anche se presenta molti vantaggi rispetto alla dialisi classica, non è applicabile a tutti i pazienti sì che, ad oggi, buona parte di coloro che sono in dialisi devono recarsi,

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due, tre volte a settimana, in un centro di dialisi. Qui i pazienti vengono «incannulati», in modo che parte del loro sangue segua un circuito extracorporeo che lo porta al dializza-tore e poi di nuovo al paziente (v. parte (B) della figura).Ci si chiederà: cosa c’entra la matematica in tutto questo? La matematica c’entra, e c’entra pesantemente nel momento in cui si vuole ottimizzare il processo, migliorando le prestazioni del dializzatore per diminuire significativamente, per esempio, la durata del trattamento senza ridurne l’efficienza, o, addirittura, aumentandola. Il cuore della macchina (v. parte (A) della figura) è il sistema di fibre cave (in un dializzatore ce ne sono circa 10.000) in cui viene fatto scorrere il sangue. Le fibre sono fatte di un materiale polimerico poroso (si parla infatti di membrana semipermeabile) che consente il pas-saggio dell’acqua e delle molecole «piccole» ma impedisce il passaggio delle macromo-lecole (proteine, albumina ad esempio), dei globuli rossi, nonché degli altri componenti del sangue. L’ottimizzazione del processo di dialisi passa evidentemente attraverso lo sviluppo di un modello che descriva il flusso del sangue (visto come una miscela globuli rossi e plasma) all’interno della fibra cava in presenza dell’efflusso laterale di acqua (v. parte (A) della figura). Un modello di questo tipo, se affrontato senza adeguate tecniche matematiche, presenta difficoltà spaventose, richiedendo tempi di calcolo dell’ordine dei mesi. Tuttavia il sistema può essere enormemente semplificato ricorrendo alla tecnica matematica dell’omogeneizzazione, detta anche multiscala. Tale tecnica, sviluppata negli anni ’50 del precedente secolo, sfrutta pesantemente il fatto che nel modello è presente un parametro piccolo - identificato generalmente con la lettera greca e - che rappresenta il rapporto fra il diametro delle fibre e la loro lunghezza (nei dializzatori e è dell’ordine di 0.001). Così facendo si è in grado di scrivere direttamente le equazioni per le gran-dezze macroscopiche (che sono poi le grandezze d’interesse) mediando elegantemente sulla scala spaziale piccola (ovvero, nel caso delle fibre cave, mediando sulla sezione delle fibre stesse). Questo approccio, che descritto a parole sembra ovvio e facilmen-

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te realizzabile, richiede tuttavia conoscenze matematiche raffinate, ma si è dimostrato nel corso degli ultimi decenni un potentissimo strumento d’indagine.La descrizione del flusso ematico nelle fibre semipermeabili dei dializzatori è appunto un’applicazione di successo del metodo multiscala, consentendo di giungere ad un sistema di equazioni facilmente trattabili.

Facciamo brevemente un terzo esempio: quello della migrazione delle cere in un petrolio ricco di paraffine e idrocarburi pesanti (waxy crude oil). Quando c’è una differenza di temperatura tra il petrolio che fluisce nell’oleodotto e la temperatura

esterna (si pensi, ad esempio, agli oleodotti sottomarini), la cera (wax) all’interno del petrolio inizia cristallizzare e tende a depositarsi sulle pareti interne della condotta, ri-ducendone la sezione utile. È quindi necessaria una strategia di manutenzione dell’oleo-dotto; e per programmare in modo ottimale questa strategia è opportuno fare un modello matematico. Il modello è stato confermato in laboratorio e utilizzato su test sul campo con risultati più che soddisfacenti.

Vorrei a questo punto sottolineare un fatto: nei tre esempi descritti la trattazione è partita da tre leggi molto classiche, enunciate nell’ Ottocento: la legge di Fourier per la conduzione del calore, la legge di Navier-Stokes per il flusso dei liquidi

e la legge di Fick per la migrazione di un soluto all’interno di un solvente. Queste tre leggi, che si riferiscono a tre fenomeni diversi tra loro, ma hanno una forma matematica molto simile: in sostanza asseriscono che un certo vettore che rappresenta il flusso (di calore per Fourier, di quantità di moto per Navier-Stokes, di soluto per Fick) è propor-zionale al gradiente di una certa quantità (che è la temperatura per la legge di Fourier, lo stress per quella di Navier-Stokes, la concentrazione per quella di Fick). Questo fa sì che, quando si scrive un’equazione di conservazione, la forma del modello si riconduce ad una medesima classe di equazioni differenziali. Dico questo per sottolineare il fatto che la matematica può permettere di avere una visione più generale o più unificata del fenomeno in esame (“chi ha in mano le equazioni vede più lontano”) e di conseguenza dà una marcia in più nel controllo del fenomeno stesso e nelle possibilità di introdurre modifiche e innovazioni.

Quindi che cosa fa il matematico industriale, o più in generale il matematico ap-plicato? Di fronte al problema posto dall’industria, o dalla biologia, o dall’eco-nomia, ecc., lo trasforma in una serie di oggetti matematici: relazioni, equa-

zioni e così via. Dopo di che analizza questo problema per vedere se porta a qualcosa di matematicamente ben posto, per il quale cioè la soluzione esiste, è unica e dipende con continuità dai dati: si tratta di una prima verifica, indispensabile (anche se spesso il committente non se ne rende conto: il suo problema ha certo una unica soluzione! Ma a questo punto siamo proprio a verificare che il suo problema sia ben descritto dal nostro modello matematico); a questa verifica segue un’analisi qualitativa della soluzione e solo successivamente il calcolo scientifico: computing starts when thinking ends. Si può co-minciare a calcolare soltanto quando si è pensato sufficientemente, se non si vuole essere alluvionati di numeri che non si capiscono.

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Con i risultati ottenuti mediante il calcolo scientifico, si torna al confronto con il proble-ma reale per vedere se il modello costruito descrive sufficientemente bene il fenomeno o se va corretto o affinato per tenere conto di fattori che si erano trascurati. Una volta verificata la adeguatezza del modello su un certo numero di casi noti, lo si può utilizzare per predire come si comporterà il sistema in presenza di modifiche.Ci si potrebbe domandare se non sarebbe più semplice invece fare direttamene l’esperi-mento e verificare per questa via empirica l’effetto dell’introduzione di modifiche nei pa-rametri e nei dati di ingresso. Non sempre questa è la via più semplice; al contrario, quasi sempre è più economico e più rapido sperimentare su un modello virtuale (il modello matematico appunto) piuttosto che sul processo reale, anche se i due approcci devono completarsi a vicenda (la sensata «sperienza» di Galileo!). A questo punto ci si può interrogare sul costo di un tale procedimento. Ma la risposta la possiamo dare rivoltando la domanda: quanto costa non farlo? Quanto costa non otti-mizzare il nostro processo produttivo? Quanto costa non innovare? Il costo di una non innovazione, o anche di una ritardata innovazione può essere un costo infinito, perché può comportare l’uscita dal mercato. Innovate or perish! È di fatto la strategia della Spa-zio Europeo della ricerca auspicato dalla Unione Europea che giustamente parla di una Knowledge-based economy.

Dunque abbiamo visto fino a qui quale è il ruolo della matematica industriale. Ma chi deve fare la matematica industriale, o, più in generale la matematica applica-ta? Clausewitz scrisse che «la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare ai ge-

nerali». Ebbene, parafrasando Clausewitz potremmo dire che la matematica industriale è cosa troppo seria per farla fare solo ai matematici. Come del resto è anche troppo seria per farla fare solo ai non matematici. La matematica industriale necessita un approccio di carattere multidisciplinare. Questo metodo è l’unico capace di governare la complessità, essendo di fatto una unica strategia vincente.

Da quanto detto emerge una nuova figura professionale: quella del matematico industriale. Questi deve essere un «generalista» in grado di dialogare con chi la-vora sul campo e in grado di capire le competenze che occorre mettere in campo

per risolvere il problema proposto.In qualche caso sarà lui stesso (o lei stessa) a poter risolvere il problema; in casi più com-plessi si tratterà di interagire con una rete di ricerca e con le competenze che ad esempio può offrire una struttura universitaria. Si comporterà cioè come broker tecnologico.È questo un ruolo essenziale, perché la logica dell’industria non è sempre identica a quella dell’accademia. L’accademia tende giustamente ad ampliare gli obiettivi della propria ricerca, ma l’industria vuole risposte concrete a determinate e precise richieste, e le vuole in tempi certi, e con garanzia di confidenzialità. Il broker tecnologico si pone come garante di tutto ciò nei confronti del committente e, in precedenza, si preoccupa di favorire la «traduzione» del problema industriale in termini più omogenei al linguag-gio del ricercatore universitario (non a caso in Gran Bretagna si parla di technological translators!).

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Ma anche l’amministrazione pubblica può avvalersi della ricerca matematica: tra gli esempi potrei citare un importante progetto per lo sfruttamento razionale della risorsa geotermica della Toscana.

Una conclusione: non si pensi che la collaborazione con le imprese e i proventi che la ricerca scientifica può trarne possano essere una scusa per ridurre ulterior-mente i finanziamenti pubblici alla ricerca. La ricerca deve essere libera per de-

finizione ed è interesse (e dovere) del settore pubblico il finanziarla, senza subordinarla ad altri criteri se non quello della qualità. Quindi la collaborazione delle strutture di ricerca pubblica con il territorio e con le im-prese non può significare la privatizzazione della ricerca o il suo asservimento alle esi-genze del mercato o della produzione. Ma d’altra parte sarebbe veramente un delitto privare il territorio di quel «plus» competitivo, che può essere fornito e rappresentato dalla ricerca universitaria.

Angiolo FarinaHa conseguito la laurea in Fisica presso l’Università degli Studi di Firenze ed i Dottorati di Ricerca in Fluidodinamica presso il Politecnico di Torino ed in Fisica presso l’Univer-sità degli Studi di Siena. È autore di oltre 50 lavori a stampa nei settori della fluidodina-mica, della fisica matematica e matematica applicata. Dal 2001 è titolare della cattedra di matematica e fisica presso il Liceo Scientifico “Giovanni da Castiglione”.

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Sistemi LinearineDo checcaGlini

L’argomento che viene trattato è di fondamentale importanza perché in moltissime ap-plicazioni (anche in problemi di vita reale) si devono risolvere uno o più sistemi di equa-zioni per giungere ad un risultato. Le applicazioni che interessano la scuola superiore sono essenzialmente legate allo studio dei punti di intersezione tra curve rappresentate in forma cartesiana; esistono però moltissime altre applicazioni ed è stata sviluppata tutta una teoria al riguardo, facendo uso della cosiddetta notazione matriciale, che si studia solo in alcuni indirizzi di Liceo scientifico e nei percorsi universitari di Facoltà scientifiche. La speranza è che «la lezione» sotto riportata sia di utilità per coloro che «con curiosi-tà» si soffermeranno a leggerla, anche nel caso che non posseggano conoscenze mate-matiche del tutto adeguate.

Se aik , bi , R un sistema del tipo:

a11 x1 + a12 x2 + ...... + a1n xn = b1

a11 x1 + a12 x2 + ...... + a1n xn = b1

........................................................................................

........................................................................................

am1 x1 + am2 x2 + ...... + amn xn = bm

si dice sistema lineare, o sistema di m equazioni lineari ad n incognite: x1 , x2 , ... xn. Se tutti i termini noti bi sono nulli, il sistema si dice omogeneo. Ogni insieme ordinato di n numeri r1 , r2 , ........, rn che soddisfino le equazioni del sistema, si dice sua solu-zione. Il sistema (1) si dice compatibile se ammette almeno una soluzione; incompatibi-le nel caso opposto. Il sistema (1), a11 a12 ... a1n x1 b1 dopo aver posto: a21 a22 ... a2n x2 b2

... ... ... ... ... ... am1 am2 ... amn xn bn

si può anche scrivere sotto forma matriciale: AX = B.

Le matrici di ordine (m, n) e (A | b) =

di ordine (m, n+1) sono dette rispettivamente matrice incompleta (o dei coefficienti) e

(1)

A = X = e B =

a11 a12 ... a1n a21 a22 ... a2n ... ... ... ...am1 am2 ... amn

a11 a12 ... a1n b1 a21 a22 ... a2n b2 ... ... ... ... ...am1 am2 ... amn bm

A =

,

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Quaderno Da Castiglione

matrice completa (o dei coefficienti e dei termini noti). Non appare superfluo ricordare le seguenti definizioni:- si chiama minore d’ordine p, estratto dalla matrice A, un qualunque determinante, d’or-dine p, ottenuto con gli elementi comuni a p righe e a p colonne della matrice A; - si chiama «rango» (o «caratteristica») di una matrice, l’ordine massimo dei suoi minori non nulli.Chiaramente il rango (o caratteristica) della matrice incompleta è minore od uguale di quello della matrice completa (che contiene la matrice incompleta come sua sottomatri-ce).Per quanto riguarda la risolubilità o meno del sistema (1), vale il seguente Teorema di Rouché-Capelli: «un sistema di equazioni lineari (1) è compatibile, cioè ammette solu-zioni (una o infinite), se e solo se la matrice incompleta e la matrice completa hanno lo stesso rango (o caratteristica)».Il teorema enunciato permette di stabilire se il sistema dato è compatibile o no, e ci garantisce l’esistenza di almeno una soluzione del sistema stesso; tuttavia non ci dà la regola pratica per trovare tutte le soluzioni di un sistema dato.Prendiamo ora in considerazione i seguenti casi: I) m = n (caso più comune, in particolare con m = n = 3) II) m ≠ n 1.1 Sistemi lineari di n equazioni in n incognite

Se m = n si avrà: a11 a12 ... a1n x1 b1 a21 a22 ... a2n x2 b2

... ... ... ... ... ... am1 am2 ... amn xn bn

A questo punto, per la risoluzione del sistema lineare, conviene così procedere:se • det A = D ≠ 0, il sistema si dice crameriano, ammette una e una sola soluzione, e può essere risolto:

- col metodo della matrice inversa X = A-1 B- oppure con la Regola di Cramer (metodo più semplice, al quale faremo rife-rimento), ricavando:

x1 = , x2 = , ...... xn =dove Di (i = 1, 2, ...., n) è il determinante ottenuto da D sostituendo alla i ma colonna quella dei termini noti della matrice B;

se• det A = D = 0 il sistema ammette infinite soluzioni se il rango della matrice in-completa è uguale a quello della matrice completa, nessuna soluzione se il rango della matrice incompleta è minore di quello della matrice completa. Più precisamente, nel caso che si abbiano soluzioni, vale la seguente regola pratica:

A = X = e B =

D1

DD2

DDn

D

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MATEMATICA

sia k il rango della matrice incompleta (e completa)i) si considerano soltanto k delle n equazioni del sistema, trascurando le altre eventuali

n-k equazioni; la scelta delle k equazioni non è però arbitraria ma deve essere fatta in modo che il rango dei coefficienti di queste equazioni sia proprio k. In tal modo si viene a considerare un sistema di sole k equazioni in n incognite

ii) in quest’ultimo sistema si prendono k incognite in modo che il determinante dei loro coefficienti sia diverso da zero e alle altre eventuali n - k incognite si attribuiscono valori arbitrari, (diventano cioè parametri)

iii) si viene in tal modo ad ottenere un sistema di k equazioni in k incognite (ed n - k eventuali parametri) il cui determinante dei coefficienti è diverso da zero, e perciò si può risolvere con la regola di Cramer

iv) gli n numeri così trovati costituiscono una soluzione del sistema lineare, di n equa-zioni in n incognite, dato.

Da quanto detto segue che:k • < n. Il sistema ammette infinite soluzioni e precisamente si dice che il siste-ma ammette ∞n-k soluzioni;k• = n. Il sistema ammette una e una sola soluzione; infatti per quanto detto precedentemente (e che sarà meglio spiegato in seguito) il sistema ammette ∞n-k = ∞n-n = 1 soluzione.

Resta inteso che se le due matrici, completa e incompleta, non hanno la stessa caratteri-stica, il sistema non ha soluzioni. Vediamo ora un esempio:Risolvere il sistema: 3x + y - 2z = -2 x - 2y + 5z = -1 2x + 3y - z = 11

3 1 -2Poiché D = -1 -2 5 = -42 ≠ 0 2 3 1il sistema ammette una e una sola soluzione (sistema crameriano) può essere risolto con la regola di Cramer e poiché -2 1 -2 3 -2 -2 3 1 -2Dx = -1 -2 5 = -42 Dy = 1 -1 5 = 210 Dz = 1 -2 -1 = -84 11 3 1 2 11 -1 2 3 11la soluzione è x = = = - 1; y = = = 5; z = = = 2

1.2 Sistemi lineari di m equazioni in n incognite

Se m ≠ n (m equazioni, n incognite) le matrici, incompleta e completa, saranno rispettivamente

Dx

D42-42

Dy

D-210-42

Dz

D-84-42

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Quaderno Da Castiglione

di ordine (m, n) e (A | b) =

di ordine (m, n + 1) e il rango della matrice non può superare il più piccolo tra i numeri m ed n. Anche in questo caso valgono ovviamente il teorema di Rouché-Capelli e la regola pratica sopra enunciata, facendo bene attenzione al rango (della sottomatrice) della ma-trice incompleta. Per semplificare si considerino i casi: I) m > n e II) m < n.I) m > n In questo caso si può estrarre dalla matrice incompleta una sottomatrice quadra-

ta di ordine n; sia k il rango della matrice incompleta. Per la regola pratica se k = n il sistema ha una e una sola soluzione calcolabile con la regola di Cramer

(se anche il rango della matrice completa è uguale ad n) o non ha soluzioni (se il rango della matrice completa è maggiore di n); se k < n, il sistema ammette ∞n-k soluzioni (se anche il rango della matrice completa è uguale a k) o non ha soluzioni (se il rango della matrice completa è maggiore di k);

II) m < n In questo caso si può estrarre dalla matrice incompleta una sottomatrice qua-drata di ordine m; sia k il rango della matrice incompleta. Poiché k ≠ m < n per la regola pratica il sistema non potrà mai avere una e una sola soluzione, ma ne avrà ∞n-k (cioè sarà indeterminato) o sarà impossibile, in conseguenza al rango della matrice completa (teorema di Rouché-Capelli).

Quale esempio si risolva il seguente sistema: 2x - 3y = 8 3x + 4y = 10 ove m (equazioni) > n (incognite) 7x - 2y = 26Come si può facilmente verificare il rango della matrice incompleta

è 2, ed anche quello della matrice completa è uguale a 2, es-sendo nullo l’unico minore del terzo ordine estratto dalla matrice completa, cioè det ( A | b ) = 0 Pertanto si considerano solo le prime due equazioni del sistema dato, cioè quelle corri-spondenti al minore del secondo ordine diverso da zero, e il sistema diventa:

con soluzione x = y = - calcolata con la regola di Cramer.

In questo caso la soluzione trovata soddisfa anche la terza equazione, come si può facil-mente verificare, e questa situazione si verifica quando una delle tre equazioni è com-binazione lineare delle altre due (cioè si ottiene sommando membro a membro le altre due dopo averle moltiplicate rispettivamente per un numero). Nel nostro caso, la terza equazione è uguale alla somma della prima moltiplicata per 2 e della seconda moltipli-cata per 1.

a11 a12 ... a1n a21 a22 ... a2n ... ... ... ...am1 am2 ... amn

a11 a12 ... a1n b1 a21 a22 ... a2n b2 ... ... ... ... ...am1 am2 ... amn bm

A =

2 -3 8 ( A | b ) = 3 4 10 7 -2 26

2 -3 A = 3 4 7 -2

2x - 3y = 83x + 4y = 10

6217

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MATEMATICA

1.2 Sistemi lineari parametrici

Particolare importanza, specialmente in preparazione all’esame di stato, assume la risoluzione dei sistemi lineari parametrici con uno o più parametri; ci limitiamo allo studio di un sistema lineare con un unico parametro. Per esempio: risolvere e

discutere, al variare del parametro k, il seguente sistema lineare:x + y - z = 12x + 3y + kz = 3 x + ky + 3z = 2

Per quanto riguarda la matrice incompleta si ha:

Tale determinante: - k2 - k + 6 = ( 2 - k ) ( k + 3 ) è diverso da 0, e quindi il sistema è crameriano (cioè ammette una ed una sola soluzione) per k ≠ 2 ∧ k ≠ -3 . Con la regola di Cramer si ha: 1 1 -1 1 1 -1 1 1 1Dx = 3 3 k = - k2- k + 6 Dy = 2 3 k = 2 - k Dz = 2 3 3 = 2 - k 2 k 3 1 2 3 1 k 2e quindi la soluzione:

x = = = 1; y = = = ;

z = = =

Esaminiamo ora i casi in cui k = 2 ∨ k = -3 1 1 -1

per • k = 2 si ha ovviamente 2 3 2 = 0, per cui il rango della matrice 1 2 3incompleta è minore di 3 (ed è 2 come si può facilmente verificare), e quindi il siste-ma è indeterminato o impossibile. 1 1 -1 1Presa in considerazione la matrice completa ( A | b) = 2 3 2 3 tutti gli 1 2 3 2 altri minori che si possono estrarre sono uguali a zero, cioè: 1 1 1 1 -1 1 1 -1 1 2 3 3 = 0 2 2 3 = 0 3 2 3 = 0 1 2 2 1 3 2 1 3 2quindi anche la matrice completa non ha rango tre(e quindi ovviamente ha rango due) per cui, per il teorema di Rouché-Capelli, il sistema è compatibile ed ammette ∞n-k = ∞3-2 = ∞1 soluzioni. 1 1In alternativa, per il Teorema di Kronecker, si può «orlare» la matrice 2 3 che ha rango due con la terza riga e quarta colonna: si ottiene

1 (k + 3)

1 1 -1det A = 2 3 k = -k2 - k + 6 1 k 3

Dx

D(2 - k) (k + 3)(2 - k) (k + 3)

Dy

D2 - k

(2 - k) (k + 3)

Dz

D2 - k

(2 - k) (k + 3)1

(k + 3)

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Quaderno Da Castiglione

1 1 1si ottiene det 2 3 3 = 0 , e ciò conferma che il rango della matrice 1 2 2 completa non è tre. Il sistema da considerare è allora: e si han-no le soluzioni (Regola di Cramer)

con z che può assumere valori arbitrari. 1 1 -1Per • k = -3 si ha ovviamente 2 3 -3 = 0 (e quindi il rango della matrice 1 -3 3incompleta non è 3), ma poiché dalla matrice completa

si può estrarre un minore il rango della matrice com-

pleta è 3 e quindi il sistema è impossibile.Possiamo concludere con

Riepilogo della discussione:k • ≠ 2 ∧ k ≠ -3 Sistema determinato; una ed una sola soluzione (sistema crameriano);k• = 2 Sistema indeterminato; ∞1 soluzioni;k • = -3 Sistema impossibile.

Nedo CheccagliniLaureato in Matematica all’Università di Firenze, è titolare della cattedra di mate-matica e fisica presso il Liceo Scientifico dal 1985. Autore di materiali didattici (www.webalice.it/nedocheccaglini), ha pubblicato MatHelp!2012, edizioni Cedam.

x + y = 1 + z2x + 3y = 3 - 2z

z = z1 12 3

(1 + z) 1(3 -2z) 3x = = 5z,

1 (1 + z)3 (3 - 2z)

1 12 3

y = = 1 - 4z,

1 1 -1 1( A | b) = 2 3 -3 3 1 -3 3 21 1 1

2 3 3 = 5 ≠ 01 -3 2

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SCIENZE

L’olivo (Olea europaea L.)Simbologia, botanica e coltivazione

leanDRo PelleGRini

Dopo l’introduzione sulle origini e sul valore simbo-lico attribuito all’olivo, vengono affrontati gli aspetti relativi alla mitologia, alle sacre scritture, all’icono-grafia cristiana. Si entra poi negli aspetti scientifici della pianta con l’inquadramento sistematico e la de-scrizione botanica della specie, fino alle indicazioni varietali delle principali cultivar di olivo. Riguardo alla coltivazione sono riportate le esigenze pedocli-

matiche, i sesti di impianto, le forme di allevamento e cenni sulla tecnica agronomica. . Key words: olivo, simbologia, sistematica, olea, coltivazione, olio, propagazione

1- Simbologia, storie e tradizione Origini e valore simbolicoL’olivo, sebbene si estenda dall’Andalusia alla Grecia non è indigeno dell’Europa meri-dionale, pare sia giunto dall’Asia Minore dove cresceva allo stato selvatico come frutice spinoso, l’oleastro. Fu probabilmente in Siria che dall’oleastro si ottenne l’olivo diffuso poi in tutto il Me-diterraneo dai Fenici. Con il suo tronco spesso contorto e cavo sembra un albero fragile, al contrario è molto longevo, tanto da rinascere dai virgulti che emette alla base del tronco. È un trionfo di luce non accecante ma quieta, ilare, pacificante. Dal suo frutto si ricavava in passato l’olio per le lucerne, il fuoco vegetale. L’olivo simbolo di Luce divina, di Sapienza, di Vita, di Rigenerazione, di Prosperità e di Pace ha ispirato artisti e poeti.Così canta l’ulivo Gabriele d’Annunzio, associandolo alla dea Luce:

Chiaro e leggero è l’arbore nell’aria. E perché l’imo cor la sua bellezza ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo, non sa l’ulivo. Esili foglie, magri rami, cavo tronco, distorte barbe, piccol frutto, ecco, e un nume ineffabile risplende nel suo pallore! … O dolce Luce, gioventù dell’aria, giustizia incorruttibile, divina nudità delle cose, o Animatrice, in noi discendi! …

La dolce Luce cui allude il carme dell’Alcyone è la divina Atena, simbolo dell’Eterno,

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Quaderno Da Castiglione

sapienza che guida e sorregge ogni uomo perché non sia incatenato alla sua componente terrena.Alla simbologia di Pace e Sapienza si aggiunge in epoca rinascimentale la Mansuetudine intendendo che Dio si volge con benignità e mansuetudine ai mortali per perdonare i loro peccati. Coronata d’olivo è anche la Misericordia, che si può raffigurare anche con il Monte degli Ulivi, dove ebbe inizio la Passione del Cristo il cui frutto è la misericordia divina.L’emblema forse più suggestivo è l’Unione Civile dove l’olivo allude ad una società fon-data sulla pace e sulla solidarietà. Una società volta all’unione, allo scambievole amore e all’aiuto reciproco, dove gli animi sono uniti e pronti a levare gli altri dalla tempesta delle tribolazioni.

L’olivo nella mitologiaUna antico mito greco sostiene che Eracle Dattilo portò l’oleastro ad Olimpia. Si narra che egli piantò, sulla spoglia collina dedicata a Crono, un bosco di oleastri. In suo onore a partire dalla VII Olimpiade, per ordine dell’oracolo di Delfi, i vincitori, portati in corteo al tempio, ricevevano in premio una corona di oleastro. Ad Olimpia, raccontava Plinio, si poteva ancora vedere ai suoi tempi «un oleastro i cui rami servirono a incoronare per primo Ercole e che ai nostri giorni è oggetto di venera-zione religiosa».Un antica iscrizione nel frontone occidentale dell’Acropoli ricorda la vittoria di Atena su Poseidone. Per risolvere una disputa fu richiesto agli dei di creare qualcosa di stra-ordinario e Atena piantò trionfalmente il primo olivo. Da quel giorno gli olivi furono considerati sacri ad Atena, era proibito bruciarli e danneggiarli. Persino gli Spartani nei saccheggi li risparmiavano temendo la vendetta degli dei. In onore di Atena si giocavano i Giochi panatenaici in cui i vincitori venivano premiati con anfore di oli pregiati degli ulivi sacri dell’Attica. L’albero dell’olivo ispirò ai Romani i simboli della Prosperità e della Pace. In una ceri-monia di Capodanno, all’alba delle Calende di gennaio, due fanciulli prendevano ramo-scelli d’olivo e del sale ed entravano nelle abitazioni dicendo «Gaudio e letizia siano in questa casa» e prima dell’aurora mangiavano, con il padrone di casa, miele per propizia-re un nuovo anno lieto e felice.

L’olivo nelle Sacre ScrittureLa Genesi narra che quando le acque del Diluvio universale cominciarono a calare l’arca si arenò sulla cima del monte Ararat. Dopo che per una settimana non era stato trovato nulla, Noè inviò una colomba che al crepuscolo rientrò con un ramoscello d’olivo nel becco. Il ramoscello d’olivo è diventato per ebrei, cristiani e musulmani simbolo di rige-nerazione, pace e prosperità.Il ramoscello biblico simboleggia anche il Cristo, che si sarebbe incarnato per salvare l’umanità. Non a caso nella domenica delle Palme, sebbene non sia esplicitamente men-zionato nelle sacre scritture, la palma viene sostituita dai rami d’olivo che alludono alla riconciliazione fra il Signore e gli uomini, di cui la Pasqua è la ricorrenza.

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SCIENZE

Il simbolismo cristiano dell’olivo è antichissimo, ne reca testimonianza il Vangelo apo-crifo di Nicodemo che recita la discesa di un angelo del Signore che disse: «Cosa desideri Set? Vuoi l’olio che cura i malati o l’albero che lo produce». Sulla scia del testo apocrifo si narra che Eva dopo il peccato originale si fosse recata nell’Eden, insieme con il figlio Set, per invocare misericordia e l’arcangelo Michele le donò un ramo d’olivo. L’olivo inteso come Cristo si trova in alcune “Annunciazioni” dei pittori senesi, dove si può notare come l’angelo, anziché tenere in mano il tradizionale giglio, offre a Maria un ramoscello d’olivo. Probabilmente quel ramoscello fu adottato dai senesi per sostituire il giglio, l’odiato emblema di Firenze. Ma la provvidenza trae beneficio persino dall’odio, pertanto l’olivo delle Annunciazioni senesi ha assunto significato analogo a quello che la colomba portò a Noè. All’olivo, apportatore di prosperità e pace si ispirava un’antica usanza, ormai desueta: le Croci di Maggio. I contadini percorrevano i campi in processione e piantavano una croce di canna cui era applicata una candelina e un ramoscello d’olivo unito alla cosid-detta «palma di San Pietro», che in realtà era un ramo di giglio benedetto in quello stesso giorno.

L’olivo e l’olio divinoNel Corano è descritto da Maometto un olivo misterioso (Surat sulla Luce): «Dio è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come quella di una lampada, … simile ad una scintillante stella, e accesa grazie a un albero benedetto, un olivo che non sta a oriente né a occidente, il cui olio illuminerebbe anche se non toccasse fuoco. è luce su luce». Dai frutti dell’olivo si ricava l’olio sacro che rigenera spiritualmente. Per questo motivo nell’antichità si ungevano i re e i sacerdoti, per consacrarli. In tutto l’Antico Testamento l’unzione introduce alla sfera divina, simboleggia la presenza del Signore. L’effusione dell’olio santo sul capo figurava la discesa della luce divina. Con l’unzione una persona veniva introdotta ai misteri del divino e l’unto per eccellenza era l’atteso Messia (Chri-stós in greco).A Gesù recatosi nella Sinagoga fu dato il rotolo del profeta di cui lesse questi versetti: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare». Il battesimo di Gesù nel Giordano con la discesa dello Spirito Santo equivale a questa unzione.Analogamente si riceve l’unzione al Battesimo e alla Cresima a simboleggiare l’inizia-zione cristiana. Vi è anche l’unzione degli infermi e quella dell’Ordine sacerdotale. Tanta ricchezza simbolica è giustamente meritata da questa pianta che offre un frutto pregevole, ricco di nutrienti, enzimi e vitamine. Quanto all’olio, se estratto per pressione a freddo, è un alimento prezioso. Inoltre i Romani ritenevano che i massaggi con l’olio di oliva fossero un bagno di giovinezza. In effetti esso è un lenitivo e un emolliente che cura screpolature e ustioni. 2 - Aspetti botanici e varietaliInquadramento sistematicoL’olivo (Olea europaea L.) appartiene alla famiglia delle Oleacee, angiosperme dicotile-

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Quaderno Da Castiglione

doni gamopetale dell’ordine delle Ligustrales. La divisione delle angiosperme compren-de fanerogame (piante con organi riproduttivi palesi) che producono i semi all’interno del frutto originatosi dal fiore. La classe delle dicotiledoni comprende piante diversificate (erbacee ed arboree) per for-ma e dimensioni, caratterizzate dal seme con embrione fornito di due cotiledoni (foglio-line metamorfosate con funzione di supporto per le sostanze di riserva). L’ordine delle Ligustrales comprende piante i cui fiori sono rappresentati con la seguente formula fiorale K (4) [C (4) A 2] G (2)La famiglia delle Oleacee include piante legnose, le cui foglie sono opposte e senza stipole, con lembo intero. I fiori sono ermafroditi, attinomorfi e tetraciclici, raccolti in cime o riuniti in racemi ascellari. Il calice è gamosepalo, mentre la corolla è tetramera gamopetala. L’androceo ha due stami alla base della corolla e il gineceo presenta ovario supero con due carpelli saldati. Il genere Olea presenta fiori ridotti con corolla bianca. Le foglie sono coriacee, sem-preverdi, la pagina superiore verde scuro lucente e l’inferiore verde chiaro tomentosa. L’impollinazione è anemofila, cioè operata dal vento. Il frutto (oliva) è una piccola drupa ovale con mesocarpo oleaginoso, con colore che va dal verde al viola, al nero violaceo. Il termine «drupa» indica un frutto carnoso indeiscente con polpa (mesocarpo) e nocciolo (endocarpo legnoso). L’olivo coltivato e la pianta selvatica appartengono alla specie Olea europaea L. di cui si distinguono due sottospecie Olea europaea sativa che è l’olivo domestico e Olea euro-paea oleaster che è l’olivastro (o oleastro). L’olivastro è più piccolo, ha chioma raccolta, rami spinescenti, foglie strette, corte e piccole, il frutto è piccolo e con mesocarpo poco sviluppato. L’olivo coltivato è una pianta arborea sempreverde in genere di modesto sviluppo (4-8 m di altezza), anche se in particolari condizioni favorevoli può superare i quindici metri di altezza. Il tronco è contorto ed irregolare, nelle piante adulte tende a fessurarsi sino a formare delle cavità. La ramificazione si origina in vicinanza del suolo e forma una chioma espansa. Presenta corteccia chiara, grigiastra, piuttosto spessa, che fessurandosi si divide in piccole placche. Il legno è molto duro e pesante, di color fulvo, pregiato, idoneo per tornitura, intarsio, parquet, oggettistica.

Indicazioni varietaliFra le varietà coltivate (cultivar) distinguiamo le olive da olio e le olive da mensa. Le principali cultivar per la produzione di olio in Toscana sono la Frantoio, la Moraiolo, la Leccino. Vi sono cultivar tipiche di altre regioni. Non potendo in questa sede fornire un elenco esaustivo, ci limitiamo a ricordare le seguenti: Rosciola e Dolce Agogia (Umbria), Ol-giarola (Lazio), Gentile di Larino (Abruzzo), Cellina di Nardò e Coratina (Puglia), Ro-tondella (Campania), Sassarese (Sardegna), Nicastrese (Calabria), Biancolella (Sicilia).Fra le cultivar da mensa segnaliamo: Nocellara del Belice (Sicilia), Oliva di Cerignola (Puglia) e Ascolana diffusa in tutte le aree olivicole. Ricordiamo inoltre Tonda Iblea e Moresca che vengono utilizzate come olive allo stato maturo (olive nere).

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SCIENZE

Fra le cultivar estere citiamo solo: Manzanillo e Olivo sevillano (Spagna), Galega porto-ghese (Portogallo), Caronaiki (Grecia), Picholine (Francia), Barouni del Sahel (Tunisia).Consapevoli di aver tralasciato molte cultivar altrettanto famose, si rimanda i cultori più esperti alla letteratura specialistica per eventuali approfondimenti.

3 - Coltivazione e propagazioneLa coltivazione dell’olivoL’olivo predilige climi temperati piuttosto caldi, con inverni miti, precipitazioni non ab-bondanti ed umidità moderata. Temperature anche alte, se non accompagnate da carenze idriche non nuocciono alla pianta. La resistenza alla siccità è notevole, riesce a crescere anche con meno di 400 mm annui di precipitazioni. L’areale di diffusione interessa tutto il bacino del Mediterraneo, mentre la coltivazione nell’Italia settentrionale è localizzata sulle rive dei laghi in Lombardia.Per il terreno l’olivo è una pianta poco esigente, rifugge però i terreni troppo umidi e pesanti. In genere prospera abbastanza anche in terreni ricchi di scheletro (sassosi) o rocciosi. L’olivo predilige comunque terreni sciolti, freschi e ben drenati, anche calcarei. Per le limitate esigenze è tradizionalmente coltivato in terreni collinari meno fertili. Oltre alla produzione che se ne ricava rende queste zone meno inospitali, meno soggette ad erosione e contribuisce alla definizione del paesaggio.L’impianto dell’oliveto si esegue in autunno o fine inverno, su terreno sottoposto a scas-so l’estate precedente, seguito da un’aratura profonda (40-50 cm), da una erpicatura ed eventuale livellamento. Si effettua la messa a dimora di piantoni innestati o piantoni autoradicati. Il sesto d’im-pianto varia in base alle condizioni pedoclimatiche, alla cultivar, alla coltura asciutta o irrigua e alla forma di allevamento. I sesti d’impianto in genere variano da 5x5 m. a 7x7 m. in quadrato, oppure da 5x4 m. a 7x5 m. in rettangolo. Dopo l’impianto è bene tenere il terreno ben libero da erbe infestanti al fine di conservare al massimo le riserve idriche per il successivo periodo estivo. Quanto alla forma di allevamento (struttura della pianta) vengono consigliate per l’im-pianto quelle caratterizzate da impalcatura bassa (70-80 cm da terra) e chioma anch’essa bassa ed espansa lateralmente, questo per ridurre soprattutto i costi della manodopera e facilitare le operazioni di raccolta.Le forme in uso nel passato erano conica o tronco-conica e assecondavano il naturale sviluppo della pianta. Le forme di allevamento attualmente più diffuse sono il Globo (diffusa solo nelle regioni più calde), il Vaso cespugliato (tre branche impalcate basse), la Palmetta (appiattita nel senso del filare) e la Ypsilon (con due sole branche).Le pratiche colturali essenziali sono la potatura (di allevamento, di produzione, di rico-struzione, di riforma), le lavorazioni del terreno, la concimazione, i trattamenti antipa-rassitari ed eventuali irrigazioni.Particolare attenzione va posta agli squilibri nutrizionali, alla potatura e al controllo anti-parassitario onde evitare l’«alternanza di produzione», con un anno di elevata produzio-ne seguito da un anno di produzione decisamente scarsa.

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Quaderno Da Castiglione

La raccolta può essere fatta con metodi tradizionali (brucatura a mano, pettinatura, scrol-latura, raccattatura), oppure mediante vari ausili di raccolta meccanica.

La tecnica di propagazioneLa propagazione per seme dell’olivo è ormai abbandonata, essendo rimasta solo in pochi casi nel settore vivaistico per produrre piantine da innestare. In estrema sintesi si usano semi di piante coltivate di buona qualità, rusticità e vigoria. I semi trattati per favorire la germinazione sono piantati in semenzaio. Da qui le piantine passano in nestaio e poi nel piantonaio, saranno pronte per l’uso in 5 o 6 anni. Di utilizzo pressoché generalizzato è la propagazione vegetativa (agamica) che riproduce fedelmente le caratteristiche della pianta madre, si attua in tempi più brevi e garantisce una discendenza uniforme e ben definita. Le tecniche di propagazione agamica sono l’innesto, gli ovuli, i succhioni, le talee tradizionali e le talee autoradicate. Nell’innesto si parte da una pianta portinnesto, spesso il franco o il selvatico su cui si in-nesta la cultivar destinata alla produzione. Molti sono i tipi di innesto che possono essere praticati per l’olivo (a corona, a incastro, a cella, a scudo, a ponte…). Gli ovuli sono iperplasie con alto potere pollonifero che vengono asportati dal pedale del tronco durante l’inverno e sono posti a dimora (o in vivaio) in primavera. Attualmente in disuso in quanto danneggia la pianta madre ed è molto lento. I succhioni di pedale sono dei getti molto vigorosi che costituiscono polloni radicati alla base del tronco. Non sono molto idonei per il trapianto (stessi inconvenienti degli ovuli). Al contrario, ben si prestano per sostituire o ricostituire sul posto piante danneggiate che vengono capitozzate vicino al suolo. Le talee di olivo si possono ottenere dai germogli, dai rami e anche da piccole branche. Con il metodo tradizionale si usano talee grosse provviste del maggior numero di gem-me. Gli inconvenienti sono legati a scarsa disponibilità di materiale da propagare (si usa-no rami di una certa dimensione), ridotta percentuale di attecchimento, necessità di cure assidue in barbatellaio e tempi lunghi per ottenere piantine per la messa a dimora.Le talee autoradicate permettono di ottenere piantine di olivo partendo da piccoli rami di 1-2 anni (talee semilegnose). La tecnica prevede un trattamento basale con fitoregolatori per indurre l’emissione di radici (rizogenesi). Le talee pretrattate sono collocate in cas-soni con apposito letto di coltura e sottoposte a riscaldamento basale in serra di nebuliz-zazione. Tali condizioni termo igrometriche, abbinate con una costante bagnatura delle foglie che ostacola la traspirazione, favoriscono la rizogenesi. Le talee autoradicate per-mettono di ottenere piante molto omogenee che entrano precocemente in produzione.

Leandro PellegriniLaureato in scienze agrarie ha conseguito il dottorato di ricerca in biotecnologie microbi-che. Docente in ruolo ordinario di scienze naturali presso il liceo scientifico dell’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione”, coniuga l’attività di insegnamento con l’attività paesaggi-stica. Ha progettato come garden designer giardini pubblici e privati e ha curato come landscape architect il progetto architettonico di parchi ed aree verdi.

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SCIENZE

L’osservazione delle cellule.Strumenti antichi e moderni

elDa TRemoRi

Le cellule, ad eccezione delle uova di rettili ed uccelli, non sono strutture visibili ad occhio nudo, la costruzione di strumenti in grado di osservarle ha aperto una finestra sul mondo dei viventi che sono sempre ed unicamente fatti di cellule. A partire da perle di vetro usate per ingrandire siamo arrivati a microscopi in grado di percepire lo spo-stamento di singoli atomi.

Per i biologi la cellula è l’unità morfologica e funzionale di tutti gli esseri viventi; ciò che fa la differenza tra animato e inanimato è proprio l’esser fatto di cellule o meno e la caratteristica fondamentale di tale struttura è la sua capacità riprodut-

tiva. In queste affermazioni, racchiuse in quella che è detta “Teoria cellulare”della metà del XIX secolo, ci sono miriadi di dibattiti su ciò che è vivo e ciò che non lo è, su come la vita si possa generare dal mondo inerte grazie a «fluidi vitali» presenti nell’aria o su come invece sia il risultato di un processo riproduttivo che genera strutture sempre uguali a se stesse.Gli studiosi pre-microscopio, grazie ai fluidi vitali, cercarono di spiegare la nascita di muffe, larve di mosche, addirittura topi, su carni, brodi, organismi in decomposizione; serviranno uomini come l’aretino Francesco Redi (1626-1697), con i suoi geniali esperimenti, a mettere in dubbio la teoria della «generazione spontanea», ma soprattutto sarà la costruzione delle prime lenti ed il loro uso nell’ingrandire e rendere visibile il mondo dell’estremamente piccolo a chiarire i meccanismi con cui la vita si manifesta e riproduce se stessa.La cellula infatti, che sia una sola, più o meno complessa negli unicellulari, o che siano miliardi come nei pluricellulari, ha dimensioni che oscillano tra pochi e qualche centinaio di micrometri (il micrometro è la milionesima parte del metro); le uniche visibili ad occhio nudo sono le cellule uovo di rettili ed uccelli e senza strumenti in grado di ingrandire e di risolvere i particolari su piccolissime distanze, non ci sarebbero stati ulteriori progressi nel loro studio.

Gli artigiani olandesi del Seicento avevano però imparato a costruire lenti concave e convesse di discreta purezza e trasparenza e con curvature abbastanza regolari; ciò creò i presupposti per l’assemblaggio di strumenti che consentissero di vedere

corpi molto grandi, lontani anni luce e che emettevano debolissimi segnali luminosi, o strutture vicine ma estremamente piccole. Nacquero così il cannocchiale di Galileo ed il primo microscopio ottico semplice.In tutti i corsi di biologia si narra, perché sembra una favola e non l’opera di un vero scienziato, la storia del signor Antoni Van Leeuwenhoek (1632-1723) il quale, autodidatta ed appassionato di scienze naturali, compì moltissime osservazioni partendo dall’analisi dei tessuti che commerciava, fino ad arrivare allo studio di esserini microscopici che

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pullulavano nelle acque stagnanti (i protozoi), di cellule del sangue, di spermatozoi e molto altro. Nel suo mestiere venivano utilizzate «perle» di vetro per esaminare le fibre tessili ingrandite, al fine di valutarne la qualità.Il rudimentale strumento che utilizzò era costituito da una lente singola, posizionata su un supporto metallico, da una vite che serviva a fermare il campione e da un sistema di controllo per la messa a fuoco; la perla aveva un diametro di pochi millimetri, perché si era visto che c’era una proporzionalità inversa tra capacità di ingrandimento e dimensioni. Delle sue osser-vazioni rimangono disegni straordinari, estremamente accurati, poco dissimili dalle immagini ottenute con i più sofisticati strumenti moderni.Pochi anni prima di lui il signor Robert Hooke (1635-1702), con un microscopio simile, aveva coniato il termine «cellula» osservando sezioni sottili di sughero, ingrandite e trasparenti alla luce (è questo uno dei presupposti dell’osservazione), illuminate con una lampada ad olio. La struttura ordinata che aveva rilevato era analoga all’organizzazione delle cellette di un alveare. Il curioso scienziato non sapeva però di aver analizzato un insieme di cellule ormai morte, delle quali rimaneva solo l’involucro rigido esterno, che attualmente definiamo parete cellulare; il programma genetico e l’apparato che lo legge non c’erano più. L’osservazione delle cellule è proseguita perfezionando il microscopio rudimentale di Leeuwenhoek, che da semplice è divenuto composto cioè costituito da più lenti, ognuna con la propria capacità di ingrandire, con un sistema di illuminazione che usa una sorgente di luce bianca e con una messa a fuoco che utilizza viti macrometriche e micrometriche per spostamenti grandi e piccoli del sistema ottico. Tale strumento può ingrandire il preparato fino a 1.500 volte ed ha la capacità di distinguere due strutture poste ad una distanza minima di 0,2 micrometri, mentre l’occhio umano lo fa solo quando la distanza è superiore a 0,1 millimetri.

Ciò nonostante le cellule, senza colorazioni specifiche per le diverse componenti biochimiche, appaiono come minuscoli sacchettini poco definiti nelle singole parti, di forma varia, poliedrica quelle vegetali, tondeggiante quelle animali

isolate. Si evidenzia una grossa struttura centrale, detta nucleo, che è il centro di

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SCIENZE

comando e del materiale informe tutto intorno, fino al confine cellulare rappresentato dalla membrana.La ricerca ha messo a punto tecniche per colorare in maniera differenziale le varie strutture: si usano per esempio coloranti a reazione acida per il citoplasma (la matrice cellulare) e coloranti a reazione basica per il DNA e l’RNA; vi sono poi pigmenti specifici per lipidi, amido, cellulosa; tutto ciò allo scopo di ottenere immagini differenziate delle diverse componenti. La colorazione può esser vitale, cioè agire sulla cellula viva mostrandocela così com’è, o invece prevederne l’uccisione (fissazione); questo secondo sistema può portarsi dietro artefatti dovuti alla stessa tecnica. Negli anni trenta del secolo scorso (1931) due scienziati tedeschi E. Ruska e M. Knoll misero a punto uno strumento, il microscopio elettronico, che non solo ingrandiva una struttura fino a 500.000 volte, ma aveva anche un potere di risoluzione un milione di volte superiore rispetto a quello dell’occhio umano: qui si percepiscono come distinte due strutture poste a 0,2 nanometri l’una dall’altra cioè a 0,2 miliardesimi di metro.Per raggiungere questi risultati era stato però necessario un cambio di prospettiva: si utilizzavano fasci di elettroni per «illuminare» il preparato e non più la luce. Le cellule non erano osservate direttamente attraverso l’oculare del microscopio perché il nostro occhio non vede gli elettroni, pertanto con questi strumenti l’immagine appare su un monitor o impressiona una lastra fotografica. Gli elettroni possono esser considerati onde elettromagnetiche, come le onde luminose; la differenza sta nella lunghezza d’onda, che per gli elettroni è molto minore, garantendo però un potere di risoluzione mille volte maggiore di quello del microscopio ottico.Furono messe a punto due tipologie diverse di microscopio elettronico: il TEM, del tipo a trasmissione, in cui il fascio di elettroni attraversa il preparato e produce un’immagine in 2D ed in bianco e nero, ed il SEM, del tipo a scansione, in cui il fascio di elettroni pennella avanti ed indietro l’oggetto, che emette elettroni secondari, generando immagini in 3D estremamente suggestive di organuli e cellule.Con il nuovo strumento il sacchettino piuttosto informe che sembrava la cellula si arricchisce di decine di strutture diverse prima invisibili.

Nell’ultimo secolo, la scommessa è stata quella di identificare tutte le parti interne della cellula, cercando di capire inoltre come l’informazione fluisse dal centro di comando (il nucleo) ai vari distretti posti al suo esterno. Altre discipline hanno

contribuito a tale lavoro: la biochimica, che ha fatto luce sulla composizione dei vari organuli e sulle reazioni che vi avvengono, la biologia molecolare, che fondamentalmente si occupa dei meccanismi con cui il DNA si duplica, si copia e viene letto e la genetica molecolare che fonde genetica classica cioè ereditarietà e biologia molecolare. Tutte hanno definito pezzetti di questo puzzle estremamente complesso che è la vita.Tornando agli strumenti, le ultime frontiere sono rappresentate da microscopi detti STM o microscopi ad effetto tunnel, per i quali G. Binnig e H. Roher hanno conseguito il premio Nobel per la fisica nel 1986. L’STM ha una risoluzione laterale di 0,1 nanometri ed in profondità di 0,01 nanometri, con tali valori possono esser studiate superfici di

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Elda TremoriLaureata in Scienze Biologiche preso l’Università degli Studi di Firenze, è docente di Scienze Naturali presso l’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione” dall’anno 2010.

varia natura identificandone gli atomi ed i loro spostamenti.Tanta strada si è fatta dalle cellette di Hooke ad oggi, ma sicuramente la microscopia ottica ha aperto gli occhi degli scienziati su un mondo inimmaginabile, ha spiegato l’origine di patologie gravissime e le modalità della loro trasmissione, la decomposizione di tessuti e la nascita di muffe, la crescita di colonie di batteri dal «nulla». Anche adesso che un piccolo microscopio è sicuramente presente in ogni laboratorio, l’osservazione diretta di campioni stupisce ed affascina.In questo anno scolastico gli studenti che si sono avvicinati al corso di biologia hanno potuto analizzare preparati di tessuti approntati da altri, cellule di vegetali e di funghi predisposte da loro stessi, ma certamente la meraviglia più grande è stata quando, prelevata una goccia di liquido da un infuso di acqua di pozzo e fieno odoroso di camomilla ne hanno fatta l’osservazione microscopica: sono apparsi minuscoli organismi unicellulari, vivi e mobili grazie alle loro piccole ciglia superficiali, roteanti su se stessi con una strana modalità di spostamento che hanno costretto gli studenti ad inseguirli spostando continuamente il vetrino perché uscivano dal campo visivo. Erano dei parameci molto simili a quelli osservati da Leeuwenhoek, organismi abbastanza semplici, ma con importanti specializzazioni.Penso che in quel momento abbiano percepito la vita che da forme elementari, con passaggi che hanno richiesto miliardi di anni, è arrivata a produrre viventi straordinariamente complessi che riescono ad osservare se stessi.

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STORIA

La «riscoperta» della Giostra del Saracino in epoca fascista

Paolo TesTi

Il regime fascista sviluppò una forte propensione all’utilizzo della cultura popolare a sostegno del proprio dominio attraverso vasti programmi di «riesumazione» delle tradizioni. Ad Arezzo la riscoperta delle tradizioni si concretizzò nella riesumazione della Giostra del Saracino, una particolare forma di quintana dove i cavalieri corrono contro un bersaglio mobile, il Buratto. La prima edizione del rinato torneo si tenne in piazza Grande il 7 agosto 1931, giorno di San Donato patrono della città.

I regimi fascisti sono accomunati da una forte propensione verso l’impiego della cul-tura popolare a sostegno del proprio dominio. Sia la Germania nazista sia l’Italia fascista hanno realizzato vasti programmi di riesumazione delle tradizioni popolari.

Per quanto riguarda l’Italia, lo storico Stefano Cavazza ha individuato, secondo uno schema cronologico, quattro fasi nella politica a sostegno del folklore. Nella prima fase, fino al 1927, molte manifestazioni folkloristiche nascono autonomamente e solo in un secondo momento vengono assorbite dalle organizzazioni del partito, mentre in altri casi il ruolo dell’Opera Nazionale Dopolavoro (Ond) e delle gerarchie fasciste fu decisivo per la loro nascita. Nel secondo periodo, dal 1927 al 1932, il folklore entra ufficialmente tra i programmi dell’Ond. Questo comportò una burocratizzazione della gestione delle manifestazioni, un maggior controllo e la diffusione di modelli organizzativi simili. La terza fase, dal 1932 alla guerra di Etiopia, fu caratterizzata da forti tendenze antiregio-naliste, pur nel quadro di una sostanziale continuità del folklorismo fascista. Nell’ultima fase, iniziata tra il 1935 e il 1936, si registrò una più marcata politicizzazione delle feste e un ritorno di interesse sia pure circoscritto anche per la cultura regionale. In questo periodo le feste popolari furono usate in funzione ideologico-propagandistica e venne valorizzata la finalità educativa per le giovani generazioni. Era il tentativo di rafforzare la coesione nazionale degli italiani utilizzando anche la cultura regionale e le manifesta-zioni popolari.

Nel folklorismo fascista interagirono tre funzioni fondamentali: ludica, turistica e ideologica. Inizialmente il compito più importante non era l’indottrinamento politico, ma quella ricreativo, di svago e di fuga dal quotidiano. Il folklore era

anche una risorsa economica impiegata nel turismo sia straniero che interno, un settore questo che negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale era in espansione. Inizial-mente nelle feste che evocano l’epoca medievale-rinascimentale, come la Giostra del Saracino di Arezzo, le funzioni prevalenti erano quella turistica e quella ludica. Tuttavia, con l’impresa etiopica la finalità più importante divenne quella politico-ideologica, di educazione e di indottrinamento delle masse secondo l’ideologia del regime. Tra gli slogan del fascismo alla fine degli Anni Venti fu lanciato il cosiddetto «ritorno alle tradizioni», con il quale si voleva denunciare i pericoli della vita di città e difendere le virtù rurali. L’attività di riscoperta delle tradizioni popolari fu portata avanti dell’Ond

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che, attraverso l’opera di etnografi fascisti, riportò alla luce usanze da tempo scomparse, feste e giochi. A cominciare dal 1928 nell’ambito di molti consigli provinciali vennero istituite sezioni di folklore. Fin dall’inizio emersero delle contraddizioni tra l’arcaismo e l’irrazionalismo delle usanze popolari da un lato e i concetti di progresso civile gene-ralmente accettati dall’altro. Questa contraddizione fu appianata mettendo in evidenza l’«autentica funzione educativa» di queste manifestazioni. Esse non andavano interpre-tate come semplici distrazioni, erano invece nobili mezzi per l’elevazione morale delle masse e servivano ad educare il popolo alla fatica, al vigore del fisico, all’ordine, alla disciplina, difendendolo dall’ozio e dal vizio.Un’altra contraddizione era quella tra il carattere prettamente locale e regionale di queste manifestazioni e l’orientamento fondamentalmente nazionale del regime fascista. Era poco probabile che l’identificazione popolare con lo Stato, con la nazione, con la razza sarebbe stata incoraggiata da un «ritorno alla tradizione» basato su distinzioni regionali o locali e talvolta, come nel caso di Arezzo e Siena, tra quartieri o contrade cittadine. Tuttavia il regime sostenne che il credere nella superiorità della propria razza a livello regionale, purificato da qualsiasi significato politico tradizionale e promosso mediante il «ritorno alle tradizioni», per quanto fosse arretrato e campanilistico, offriva al regime un sostituto alquanto accettabile di fedeltà nazionale, immensamente preferibile all’identifi-cazione di classe. Come osserva Cavazza, questo era «un localismo nazionalisticamente orientato». Inoltre gli etnografi fascisti e gli organizzatori culturali cercarono di estrarre dalla miriade di consuetudini locali qualche tema nazionale.

Ad Arezzo la «riscoperta delle tradizioni» si concretizzò nella «riesumazione» della Giostra del Saracino, una particolare forma di quintana dove i cavalieri corrono contro un bersaglio mobile, il Buratto, che ha le sembianze di un sol-

dato mussulmano armato con un mazzafrusto e quindi in grado di rispondere alle offese ricevute. La prima edizione del rinato torneo si tenne il 7 agosto 1931, giorno di San Donato, patrono della città, in piazza Grande1; da quella data la Giostra divenne una manifestazione ricorrente2. La Giostra fu ripristinata «per volontà del segretario federale del Pnf, avv. Antonio Cappelli, e del podestà Pier Ludovico Occhini, grazie all’impegno del gruppo di intellettuali vicini al regime e con l’organizzazione dell’ Ond»3. Nella «rie-sumazione» fascista della torneo ci furono varie forzature tra cui una di carattere storico con la collocazione in età medievale, precisamente all’epoca della signoria del vescovo

1. Si era proposto inizialmente di correre la giostra nella fortezza medicea, in linea con la tradi-zione che dall’inizio dell’Ottocento aveva fatto del Prato e della parte più alta della città il luogo deputato ai festeggiamenti pubblici; del resto anche la giostra corsa il 22 luglio 1904, in occasione del sesto centenario della nascita di Francesco Petrarca, si era svolta nell’anfiteatro del Prato. Ma poi, per volontà del federale del Pnf, si scelse piazza Grande.2. Nel 1932 si corsero due giostre, una in occasione della festa del patrono e l’altra in occasione della Settimana aretina a settembre, mentre dal 1933 la seconda giostra si tenne a giugno in occa-sione della Settimana petrarchesca.3. L. Berti, Giostra del saracino e ceti dirigenti aretini fra medio evo ed età contemporanea, in “Atti e memorie della Accademia Petrarca”, vol. LVI, 1994, p. 288.

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STORIA

Guido Tarlati (1321-27). La Giostra in realtà è documentata in Arezzo soltanto a partire dal 1535 e la scelta di anticiparne l’origine si fondò su motivi ideologici in quanto il re-gime volle rievocare la signoria tarlatesca, cioè l’epoca in cui Arezzo era libera, potente e temuta. L’altra forzatura riguardò l’introduzione di uno spirito agonistico trasformando un torneo individuale, com’era storicamente, in un gioco a squadre coinvolgendo i quar-tieri i quartieri della città.4

Le feste e i giochi furono usati dal fascismo anche per favorire la ripresa della vita di quartiere e per costruire un sistema sociale che dalla cellula familiare attraverso istituzioni intermedie salisse su fino allo Stato. In questo contesto ad Arezzo il

coinvolgimento dei quartieri fu utilizzato come strumento di aggregazione del consenso fra le classi rimaste estranee al fascismo e di penetrazione nei rioni urbani5. Alla prima Giostra presero parte cinque rioni (Colcitrone, San Lorentino, Centro o Burgi, Santo Spirito e Saione) che poi l’anno seguente, con il nuovo statuto, si trasformarono in quattro quartieri medievali (Porta Crocifera, Porta del Foro, Porta Santo Spirito e Porta Sant’Andrea)6.

Nella manifestazione aretina possiamo ritrovare le tre funzioni attribuite dal fasci-smo al folklorismo. Essa non solo serviva a legittimare la classe dirigente lo-cale, permettendole anche di uscire dalla dimensione cittadina7 e a promuovere

la città e il turismo, ma come afferma Luca Berti «una volta consolidatasi […] la giostra entra nell’armamentario propagandistico del fascismo, nell’ambito del quale è un ottimo canale per veicolare messaggi politici e una cassa di risonanza delle imprese (vere o pre-sunte) del regime: la conquista dell’Etiopia nel 1936, l’entrata in guerra per il 1940»8.Infatti, dopo l’impresa bellica di Etiopia, si legge in un opuscolo dell’Ente Provinciale del Turismo: «La Giostra del Saracino […] non è soltanto una spettacolosa e pittoresca rassegna di magnifici costumi, non soltanto l’imponente corteo di mezzo migliaio di per-sone a piedi e a cavallo, ma è un gioco rude e severo […], una manifestazione di forza e di coraggio, che l’Italia fascista sa comprendere e apprezzare, specialmente oggi che la Vittoria ha dischiuso le sue ali al suo volo prodigioso»9.

4. Si riteneva che il tifo e la rivalità tra quartieri fosse necessario per la sopravvivenza della giostra. Oltre ai sopraccitati elementi Cavazza sottolinea che ogni riesumazione è sempre un’invenzione perlomeno per altri due motivi: in primo luogo veniva meno il contesto originario e in secondo luogo gli elementi formali (costumi, stemmi, ecc.) erano spesso di fantasia. 5. Secondo Cavazza ad Arezzo fu seguito il modello del palio di Siena con la divisione della città in contrade; il nome contrade proposto inizialmente fu poi scartato perché «troppo senese e poco aretino». Il modello senese fu usato dal fascismo anche altrove. 6. C’è l’anomalia del quartiere di porta Santo Spirito, che è designato con il nome moderno invece che con il nome medievale di Porta del Borgo.7. Vengono coinvolti nella manifestazione esponenti nazionali del partito sia come ospiti sia come capitani onorari dei quartieri.8. L. Berti, Giostra del saracino e ceti dirigenti aretini fra medio evo ed età contemporanea, in “Atti e memorie della Accademia Petrarca”, vol. LVI, 1994, p. 292.9. Arezzo e la Giostra del saracino, Tipocalcografia classica, Firenze 1938.

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Inoltre a pochi giorni dalla dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, nel setti-manale della federazione provinciale del Pnf, “Giovinezza”, si legge: la manifestazione aretina «non è affatto una rievocazione astratta. La ‘Giostra del Saracino’ ha un signifi-cato e un aspetto profondamente guerrieri e in ragione di questi germina spontaneamente dallo spirito dell’ora, che è l’ora della volontà determinata»10. Quindi il torneo diventa uno strumento di propaganda e di educazione delle masse ai valori fascisti della forza, del coraggio, della violenza e del militarismo.

BibliografiaL. Berti, Giostra del saracino e ceti dirigenti aretini fra medio evo ed età contempora-nea, in “Atti e memorie della Accademia Petrarca”, vol. LVI, 1994, pp. 253-299.L. Berti, La vittoria conseguita nel 1931 dal rione di Porta Burgi nella lunga vicenda della Giostra del saracino, Ares, Arezzo 1996.L. Berti, Sulla natura della Giostra del Saracinoi in Arezzo, in “Notizie di Storia”, nu-mero 6, 2001, pp. 3-6.L. Berti, I festeggiamenti petrarcheschi e la Giostra del 1904, in “Notizie di Storia”, numero 11, 2004, pp. 18-19, 24.S. Cavazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Il Mulino, Bologna 1997.C. diSSennati, Le mille lance del Saracino, Tip. Badiali, Arezzo s.d. (ma 1966).P. teSti, 10 giugno 1940: l’entrata in guerra, in A. Coradeschi, M. Parigi 8° cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale, Carocci, Roma 2008, pp. 17-46. Arezzo e la Giostra del saracino, Tipocalcografia classica, Firenze 1938.

Paolo TestiLaureato in Studi Storici presso l’Università di Siena e autore di alcuni saggi e articoli sulla storia di Arezzo, nell’a.s. 2012/13 è docente di storia e filosofia presso l’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione”.

10. “Giovinezza”, n. 32 a. XXI (4/06/1940).

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NARRATIVA

Tanto gentileDeBoRa moReTTi

Una donna, solo apparentemente qualsiasi, racconta al marito di avere uno stalker, anch’esso apparentemente non famoso. Ma in realtà li conosciamo bene...

- Simone ti devo parlare, ma promettimi che non ti agiti!- Perché dovrei agitarmi? Ora che mi hai detto così sono già agitato!!- No, davvero, magari è una sciocchezza ma… penso di avere uno… com’è che lo chia-mano alla tele, un… uno stalker, ecco!- Uno stalker? Uno che ti perseguita e ti molesta? Ma che dici? - No, ecco, tradotto in italiano la cosa cambia, forse molestare è un po’ eccessivo, ma perseguitare in un certo senso sì! - E da quando, scusa? - Da quando avevo nove anni. - Bice, mi sembri impazzita! Da quando avevi nove anni??- Sì… lo so che sembra pazzesco, è iniziato tutto in modo innocente, ma ora le cose sono arrivate a un livello tale che non posso più non parlartene, anche perché spero che tu mi tranquillizzi! Sai, vista da un occhio esterno forse la cosa può essere meno grave di quello che sembra a me ora!- Va bene, stai calma e raccontami. Allora, cos’è successo quando avevi nove anni?- Ma niente, sai com’era religiosa la mia famiglia, mi portavano sempre alla messa della domenica, e una mattina (mi ricordo ancora che portavo quel vestitino rosso che mi ave-va cucito la nonna) c’era questo bambino più o meno della mia età, forse poco più gran-de… Lui mi guardava fisso, in un modo… non so come dirlo, sembra ridicolo parlare così considerato l’età che avevamo, ma insomma, mi ha messo in grande imbarazzo. Per molti giorni sono rimasta inquieta, rivedevo sempre il suo sguardo, era come un’osses-sione, era come se sentissi che anche lui mi pensava e non riusciva a dimenticarmi.- …. mah! - Sì, l’ho detto da sola che è una cosa ridicola, non c’è bisogno che mi guardi con quella faccia, la stessa che fai quando vengono i poveracci a chiedere un prestito alla tua banca! Fammi continuare, d’accordo?- Continua, ti ascolto, ma capirai che è una storia che parte in modo un po’ strambo… - E aspetta di sapere il resto! Allora, quando ho fatto la festa per i miei diciotto anni, ti ricordi che sono andata a mangiare la pizza con le mie amiche? - Sì… io non sono stato invitato! - Mamma mia, sono passati anni e ancora ti rode! Comunque, a un tavolo all’angolo c’erano due ragazzi. Uno era Guido, sai quello che studiava filosofia, quello che faceva sempre discorsi strani, che faceva il filo alla Giovanna, e lei che è sempre stata una civet-ta faceva finta di essere interessata, invece poi… ma lasciamo stare, la cosa importante

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è il ragazzo che era con lui. - Lo conoscevi? - All’inizio avrei detto di no, ma poi mi sono accorta che mi fissava in un modo… e l’ho riconosciuto! Era quel bambino, quella della chiesa!!! Erano passati nove anni, più o meno, ma quello sguardo lo avrei riconosciuto ovunque! Insomma, era inquietante come allora! Poi, il giorno dopo, ero a passeggio con le ragazze per il corso… e rieccoli! Giovanna era più avanti e si è fermata a fare la spiritosa con Guido, e lui… - Non aggiungere altro: ha preso la palla al balzo ed è venuto a parlarti!- No, macché, così sarebbe stato quasi normale, non credi? Invece no, lui si è limitato a guardarmi come avesse visto… che so, la Divina Provvidenza!!! - Ahahahahha, esagerata, addirittura! Mi sa che ti sei montata la testa! - Ah sì, sono esagerata? Allora senti questa! Ti ricordi quando attaccarono tutti quei ma-nifesti per Firenze con l’elenco delle trenta ragazze più belle? - Certo! Tu eri la prima, e se non ricordo male te ne sei andata in giro per la città tutta tronfia per un bel po’, salutando a destra e a manca come se volessi dispensare la Grazia divina a tutti! - Ammettilo, è stata una soddisfazione anche per te sapere di essere il futuro marito della più bella ragazza della città! Ma è che ho saputo da poco che quella lista l’aveva compi-lata «lui» con i suoi amici! - E vabbè, lo definirei un ammiratore, non uno stalker, dai, sei la solita esagerata! - Ma non è finita qui! Mi sono confidata con Giovanna, le ho detto che strano effetto mi faceva quel tipo, e quella grandissima pettegola l’ha detto a Guido, che sicuramente l’ha detto a «lui», perché qualche giorno dopo l’ho visto a un tavolo al bar con due ragazze, e pensa che ha fatto anche finta di non conoscermi, non mi ha degnato nemmeno di un mezzo sguardo, roba da matti! .- Bice, ora però sei incoerente, scusa: non era quello che volevi? - Ma sì, ma insomma, c’è una via di mezzo dal guardarmi come se avesse visto un mira-colo al far finta che fossi trasparente, ti pare? - Boh… - Lascia stare, voi uomini queste sottigliezze non le potete comprendere! Per farla corta, mi sa che ho fatto una faccia un po’ sorpresa… o forse dispiaciuta... o anche un po’ ar-rabbiata, non so… - Beh, forse un misto di tutte e tre? - Che fai, mi prendi in giro? Vabbè, fatto sta che Giovanna ha saputo da Guido che quel tipo era rimasto male… e che aveva scritto una canzone per me! - Poveri noi, l’ennesimo cantante! Come se ce ne fossero pochi… non bastava Masini? - Ma no, lui mica canta, lui scrive e basta! La voleva far cantare a un suo amico, un certo Casella, non so… fatto sta che intanto l’ha scritta! E da quel giorno… reggiti forte… non ha mai smesso!- Di scrivere canzoni?- Peggio! Di scrivere canzoni per me, o su di me, non so come dire… sembra che sia

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NARRATIVA

diventata la sua musa!- E non sei contenta? Ispirare un paroliere… uno sconosciutissimo, ma vabbè, mica si può pretendere troppo!- È questo il guaio, non capisci? Ha trovato una casa discografica che gli pubblica l’al-bum! E allegato al CD ci sarà anche una specie di romanzo, sempre su di me!- Su di te in che senso? Ispirato a te?- Non solo! Racconterà anche fatti della mia vita privata, della prima volta che ci siamo visti, della storia del manifestino delle trenta, tutto! E un tipo così strano chissà cosa sarà capace di inventarsi! Ti dico solo un’altra cosa: il romanzo si intitolerà “Comincia la mia nuova vita”, come se avermi conosciuto avesse potuto davvero cambiargli la vita, ma ci pensi? Simone, questo è uno malato, io ho quasi paura…- Ma no, Bice, dai… secondo me stai esagerando! Ti sei proprio fatta un film, te lo dico io! Non mi hai detto il suo nome, ma penso di aver capito di chi stiamo parlando, e sai che ti dico… ma chi vuoi che lo legga o lo ascolti, questo qui?!

Debora MorettiLaureata in Lettere all’Università degli Studi di Siena, è docente di italiano e latino presso il Liceo Linguistico dell’I. S. I. S. “Giovanni da Castiglione” dal 2003.

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Poems

Sunday Morning

Here, in this chilly air I breathe easilygathering vitality and lightness of heart.Here in this green land I wake up and thinkHere I am. This is the placewhere I ought to be.

Sunday Afternoon

Treading down the carpet of leavessmelling their moist and gentle perfumewrapped in this brisk and cute autumn airtired the dog, I walk him home. The day is done and a feeling of life risesmy soul cannot resist.

Light Ahead

In the long run of lifewhen the winds are strong and the way unknownscarred hands find their way in the mud of events.An opening in the hedge,the flood of colours and lightmakes your head spin and your heart pulse inside.

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POESIA

PoppiesI know the beauty of the wheat spikesblessed by the sun rays, on a quiet summer day and the sweetness of the peach blossoms,velvet touch of lost caresses as the poppies gently danced, resolute and hopeful in the mild wind.

I know the speed of tortured thoughtspushed back by the tormented hearts, on a stormy autumn day and the cuddle of juicy pomegranate, impulsive sound of unsaid words, as its seedsstruggle to know their real place, in vain.

I know the days I’ve walked,the hands I’ve touched, the smells I’ve breathedfrantically I look around, I see the poppies, still there.

TurnerSmoothly you walk into the red rooma visible darkness welcomes your first stepslowly you look arounddarkness into lightness.Impatient you get closerthe waves push you into the stormy watersthe thunder wakes you upand a flash enlightens your eyes.Naked you are, dashed against the rockdeeply you breath , sunk into oblivium.

Daniela calzoniTitolare della cattedra di inglese presso il Liceo Linguistico dell’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione” dal 2000, segue da oltre un decennio scambi culturali e i progetti europei. MA of Arts presso l’Università di Norwich, formatrice, al momento impegnata nella ricerca CLIL, ha pubblicato testi didattici per Oxford University Press, ELI, Helbling, Loescher. Grazie all’amore per la lingua inglese, al suo percorso formativo e professio-nale che l’ha porta ogni anno a trascorrere lunghi periodi tra Inghilterra e Irlanda, scrive sia in lingua italiana che in inglese.

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To Valentina

I can still mentally picture you:skinny, blondish and fresh,as frail as a twelve year old.A spark of vivid intelligence brightens your quick green eyes

You seem to be looking down on us- «the boring lot» -with a sardonic glance,but a half-hidden smile betrays it all: we understand each other,lingering on the same wave-lengthmost of the time

Now as I think about it your irony, your insight ,your genuine interest in life, your being unconventional and profound,apparently detached and cold,because - no way: you were not going to mingle«You are you, and I am I»…That’s just what I loved in you!

So eager to learn about heroes and heroines of the past,striding through the labyrinth of their lives and unpredictable destinies.Ready to face up to this Brave New World,unaware that its nightmarish foresightyou were so charmed bysounded like a gloomy toll for you…

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POESIA

How might we have known?

I’m just your teacher, right,so different, and yet so close to you…

How come I feel we were soul mates?

Now you’re gone - and, it’s hard for me even to think -for ever!!I can’t find a reason why this should have happened…

How come it hurts so much?

(30th April 2013)

Giuliana caRBoneLaureata presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è titolare di Lingua e Civiltà Inglese presso l’I.S.I.S. “Giovanni da Castiglione” dal 1991; dal 2000 è docente presso il Liceo Linguistico e sin dagli esordi collabora allo scambio culturale con la Gorey Community School (Irlanda).

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