50 Piccole Cose Da Fare Per Salvare Mondo e Risparmiare Denaro
ANNO 1 NUMERO 1 - 2017 - Lavoro Diritti Europa · rendere più semplice la vita delle imprese...
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ANNO 1
NUMERO 1 - 2017
DIREZIONE PIERO MARTELLO E ROBERTO COSIO
EDIZIONI
ISSN 2611 - 3783
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INDICE
EDITORIALE di Piero MARTELLO pag.3
PRESENTAZIONE di Roberto COSIO pag.4
UNO SGUARDO DALLE ISTITUZIONI L'azione legislativa del Ministero: un bilancio ed una prospettiva di Giuliano POLETTI
pag.5
FOCUS: I DANNI PUNITIVI
Lo stato dell’arte dei danni punitivi nella prospettiva giuslavoristica di Daniela DI
LEMMA pag. 8
Le Sezioni unite ed i punitive damages: una significativa circolazione di un modello? di
Cesare VACCA' pag.14
I punitive damages nordamericani: Bundesgerichtshof, Cour de cassation e Sezioni Unite
della Cassazione a confronto di Mauro TESCARO pag.25
APPROFONDIMENTI
Appunti sulla inarrestabile metamorfosi della responsabilità solidale negli appalti di Chiara
COLOSIMO pag.31
Le novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico impiego dalla riforma Madia
di Vito TENORE pag.43
Il licenziamento per motivi economici nel “nuovo corso” del diritto del lavoro di Guido
VIDIRI pag.61
I licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito: nozioni e
sovrapposizioni di Francesca MARINELLI pag.68
La costruzione dei fatti e i giudici del lavoro di Simone Pietro EMILIANI pag.75
NOTE A SENTENZA
La sentenza della Cassazione n. 25201/2016 sul GMO. Bilanciamento dei diritti e clausole
generali di Roberto COSIO pag.79
Prime considerazioni sulla questione di costituzionalità del Jobs act sollevata dal Tribunale
di Roma con ordinanza del 26.7.2017 di Carla MUSELLA pag.88
Principio di non discriminazione e lavoro intermittente: la vicenda Abercrombie & Fitch di
Valeria PICCONE pag.100
Una brezza di solidarietà soffia sull’Unione europea di Lucia TRIA pag.108
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE di Leonardo CARBONE
Tecnologia e diritto: fondamenti d'informatica per il Giurista (G. Ziccardi, P. Perri)
pag.124
Casi e Questioni di Diritto Processuale (P. Martello, R. Cosio) pag.126
Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali (G. Bronzini, R.
Cosio) pag.128
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EDITORIALE
di Piero Martello
Presidente del Tribunale del Lavoro di Milano
Da qualche tempo si è diffuso il vezzo di parlar male dell'Europa e di attribuire alle Istituzioni europee l'origine di tante difficoltà che si incontrano sul piano economico, finanziario, sociale.
Si tratta di pregiudizi e di stereotipi il più delle volte infondati, che servono a distogliere l'attenzione dalle vere cause dei problemi, talvolta reali, che affliggono il nostro panorama nazionale.
Sicuramente infondato, comunque, è tale vezzo per quanto riguarda la legislazione europea e la giurisprudenza delle Alte Corti sovranazionali in materia di diritto del lavoro, nella quale l'influsso delle Istituzioni europee e la sempre più incisiva operatività nel diritto interno delle loro statuizioni hanno avuto sicuramente effetti benefici nel fissare principi generali di grande rilevanza e nello stimolare l'azione degli Stati membri in senso più avanzato e più adeguato alla domanda di diritti e di giustizia che proviene dalla Società.
I giuslavoristi hanno, quindi, plurimi motivi di fiducia e di apprezzamento per l'Europa.
È questa la prima ragione per la quale si è ritenuto di dar vita alla Rivista "Lavoro Diritti Europa", con l'intento di dedicare una attenzione privilegiata al contesto europeo -legislativo e giurisprudenziale- e alle sollecitazioni che da esso provengono per l'attività dei giuslavoristi.
La seconda ragione, complementare alla prima, è quella di creare uno strumento di riflessione e di approfondimento che vuole andare al di là del consueto circuito di magistrati, avvocati, accademici e che si rivolge alla più vasta platea di quanti per le più diverse ragioni (di studio, di ricerca, di attività professionale, di soggettività sociale, istituzionali) sono interessati alla problematica giuslavoristica.
Al fine di facilitare l'accesso alla più ampia platea di destinatari la Rivista viene concepita come strumento agile, in formato elettronico e ad accesso libero e gratuito, in modo da rimuovere qualunque ostacolo, anche minimo, per chi abbia interesse a leggere i saggi, le note a sentenza e gli altri contenuti che essa porterà.
La Rivista si avvale di una compagine redazionale particolarmente qualificata e rappresentativa dei diversi ambiti giurisdizionali, scientifici, professionali, il cui apporto servirà ad individuare temi e argomenti che siano al tempo stesso di attualità e di interesse nel panorama giuslavoristico.
Per queste ragioni, vi è l'ambizione di creare non tanto una nuova Rivista ma, piuttosto, una Rivista "Nuova".
Diranno i lettori se i risultati di questo impegno saranno conformi alle aspirazioni.
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PRESENTAZIONE
di Roberto Cosio
Avvocato
La Rivista online “Lavoro, Diritti, Europa” è un periodico trimestrale con accesso libero e
gratuito che utilizza il web come strumento di circolazione di un prodotto culturale
immediatamente fruibile per i lettori.
Il progetto culturale intende sviluppare precedenti filoni di ricerca, in tema di diritto del lavoro, che
sono confluiti in varie monografie (fra cui: Il diritto del lavoro nell’Unione Europea; Il Diritto Europeo nel
dialogo delle Corti; Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell’Unione europea. Volumi editi
nella collana diretta da Guido Alpa, Giuffrè editore), anche di carattere comparato
(CollectiveDismissal in the European Union. A Comparative Analysis; Wolterskluwer).
La nascita della Rivista rappresenta, dunque, un ulteriore step per la realizzazione di un itinerario
culturale che promuova la conoscenza del diritto del lavoro in una visione integrata con
l’ordinamento dell’Unione Europea.
In particolare, la Rivista intende promuovere, in un dialogo fecondo tra dottrina e giurisprudenza, la
conoscenza delle principali sentenze rese, in materia di diritto del lavoro, dalle Alte Corti (Corte di
giustizia, Corte di Strasburgo, Corte costituzionale e Corte di Cassazione) e dai giudici di merito
(con particolare riferimento ai rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia, alle interpretazioni conformi
all’ordinamento Ue e alle “non applicazioni” di diritto interno in contrasto con la disciplina
europea).
Il primo numero raccoglie saggi, focus e note a sentenza con riferimento alle principali sentenze
rese nel 2017.
I contributi sono stati oggetto di valutazione positiva ad esito di una procedura di peerreview che ha
implicato un referaggio in forma anonima.
La Rivista beneficia dell’apporto di un Comitato Scientifico, di un Comitato di Redazione e di
un Comitato di referees di alta specializzazione e gode, tra l’altro, della collaborazione scientifica del
Centro Studi di Diritto del lavoro Domenico Napoletano.
A tutti va il profondo ringraziamento della Direzione della Rivista per la fiducia, il supporto e
l’elevato contributo offerto alla qualità scientifica del prodotto.
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UNO SGUARDO DALLE ISTITUZIONI
L'azione legislativa del Ministero: un bilancio e una prospettiva
di Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali
Gli interventi legislativi sul lavoro promossi dai Governi Renzi e Gentiloni hanno prodotto
cambiamenti strutturali nella regolazione della materia.
Il primo provvedimento, il decreto legge 34/2014 (convertito nella legge 78/2014), ha semplificato
il contratto di apprendistato ed il contratto a tempo determinato, stabilendo, per quest’ultimo,
l’eliminazione della causale, un limite massimo complessivo di durata del rapporto di lavoro, un
numero massimo di proroghe possibili e la percentuale massima di lavoratori a tempo determinato
rispetto all’organico aziendale.
Con lo stesso decreto, abbiamo realizzato un intervento importante di semplificazione
amministrativa, introducendo la procedura per il rilascio on-linedel Durc: un contributo di rilievo per
rendere più semplice la vita delle imprese italiane, facendo loro risparmiare tempo e denaro.
Questo primo intervento è stato seguito dal Jobs Act che, vale la pena ricordarlo, è stato attuato in
tempi rapidi, se si pensa che la legge delega fu approvata dal Parlamento a dicembre 2014 ed il
pacchetto degli otto decreti legislativi di attuazione fu portato a compimento entro settembre 2015.
Con il Jobs Act abbiamo riordinato e semplificato l’impianto complessivo delle relazioni contrattuali
con l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, più moderno e in linea
con l’Europa, e l’eliminazione di forme particolarmente precarizzanti come le collaborazioni a
progetto e l’associazione in partecipazione, procedendo, al contempo, ad una importante
ridefinizione delle caratteristiche del lavoro subordinato e del lavoro autonomo.
Abbiamo semplificato le procedure e gli adempimenti connessi alla costituzione e alla gestione dei
rapporti di lavoro; esteso il diritto all’indennità di maternità a tutte le lavoratrici e rafforzato la
strumentazione per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; razionalizzato il sistema
dei controlli e delle ispezioni; resa impossibile l’odiosa pratica delle cosiddette ‘dimissioni in bianco’.
Abbiamo modificato gli ammortizzatori sociali, ampliando le coperture ed estendendole anche ai
lavoratori delle imprese di minori dimensioni e distinguendo con maggiore precisione le situazioni
di disoccupazione involontaria da quelle di effettiva continuità dei rapporti di lavoro. Infine,
abbiamo riformato il sistema delle politiche attive, con l’obiettivo di realizzare un modello di
sostegno e di accompagnamento dei lavoratori più efficace e coerente con il costante processo di
cambiamento legato alla digitalizzazione e all’automazione.
L’impegno riformatore in materia di lavoro si è poi completato con un intervento normativo
riguardante il lavoro autonomo non imprenditoriale e il lavoro agile, con la presentazione di uno
specifico disegno di legge che è stato definitivamente approvato a maggio di quest’anno. Il
provvedimento punta a sostenere e valorizzare il lavoro autonomo non imprenditoriale, attraverso
un sistema di tutele specifiche, e a migliorare la qualità della vita dei lavoratori dipendenti,
favorendo la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Per quanto riguarda, specificamente, il lavoro autonomo, le misure contenute nella legge prevedono
più tutele nelle transazioni commerciali e contro i ritardi nei pagamenti, la deducibilità delle spese
collegate all’attività professionale ed alla formazione, la possibilità di aggregarsi per accedere a bandi
di gara nazionali ed internazionali.
Di particolare significato il riconoscimento dell’indennità di maternità a prescindere dall’effettiva
astensione dal lavoro e l’aumento del congedo parentale da tre a sei mesi, fruibili entro i primi tre
anni di vita del bambino.
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Altra tutela di rilievo è quella introdotta dalla disposizione che rende strutturale la Dis.Coll,
l’indennità di disoccupazione per i collaboratori, tra l’altro ampliando la platea dei beneficiari, che
ora comprende anche gli assegnisti e i dottorandi di ricerca.
Per quanto riguarda il lavoro agile, le misure approvate definiscono strumenti innovativi per
favorire una modalità di organizzazione del lavoro che da una parte risponde all’evoluzione del
sistema produttivo e, dall’altra, permette una migliore conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi
di vita. Tutto questo, delineando un quadro di tutele dei lavoratori che vanno dal diritto ad un
trattamento economico non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei
lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda, alle garanzie
in tema di salute e sicurezza, all’assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie
professionali.
Quali gli effetti delle riforme attuate? È ancora troppo presto per valutare quelli legati alle nuove
disposizioni per il lavoro autonomo e agile.
Per quanto riguarda, invece, il Jobs Act e la riforma del contratto a tempo determinato, sul piano
specificamente giuridico, gli elementi di semplificazione e di chiarezza introdotti dalle novità
normative hanno prodotto, come effetto più evidente, quello di una rilevante riduzione del
contenzioso giudiziale in materia lavoristica.
I dati recentemente diffusi dal Ministero della Giustizia, riferiti al primo semestre 2017, attestano
che i procedimenti iscritti a ruolo presso i tribunali ordinari relativi ai rapporti di lavoro a tempo
determinato sono solo 490 (erano 2.867 nel 2014).
Analoga tendenza si registra nel contenzioso sui licenziamenti.
Sul piano economico-sociale, possiamo dire che il complesso degli interventi, insieme con la
decontribuzione mirata per le assunzioni a tempo indeterminato, ha prodotto un contesto che ha
favorito, in parallelo con la ripresa dell’economia, una crescita degli occupati: secondo i dati Istat, da
febbraio 2014 ad oggi, sono 986mila in più, 535mila dei quali stabili, mentre i disoccupati sono
380mila in meno e gli inattivi, cioè coloro che non cercano un’occupazione, sono calati di 886mila
unità.
Sono risultati che testimoniano, insieme con la riduzione del ricorso agli ammortizzatori sociali, una
dinamica positiva del mercato del lavoro, che recentemente ha visto tornare il numero complessivo
degli occupati ad un livello sostanzialmente analogo a quello precedente alla crisi, ma che non fanno
venire meno l’esigenza di proseguire l’impegno per rafforzare la crescita dell’occupazione, in
particolare di quella giovanile.
Va in questa direzione l’incentivo strutturale all’occupazione giovanile stabile, inserito nella legge di
bilancio 2018, attualmente all’esame del Parlamento, che prevede una decontribuzione triennale del
50%, fino ad un tetto di 3.000 Euro, per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani fino a 29
anni (fino a 35 per il solo 2018).
Si tratta di un incentivo strutturale (si applicherà a tutte le nuove assunzioni stabili di giovani da
quando la norma sarà in vigore) e “portabile” (un giovane che dovesse essere assunto da
un’impresa, e poi licenziato dopo un anno, si porterebbe in dote i due anni residui di incentivo in
caso di assunzione da parte di un’altra impresa).
La misura può essere applicata anche alle trasformazioni in contratto a tempo indeterminato di
rapporti di lavoro a termine ed alla stabilizzazione di contratti di apprendistato professionalizzante.
L’incentivo sale al 100% (sempre con tetto a 3.000 Euro) per le assunzioni con contratto a tutele
crescenti per i giovani che hanno svolto alternanza o contratti di apprendistato di primo o di terzo
livello. Vengono inoltre confermati gli sgravi al 100% (per il 2018) per l’assunzione di Neet iscritti a
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Garanzia Giovani e quelli di ‘Occupazione Sud’ per i giovani disoccupati e per i disoccupati da
almeno sei mesi di tutte le età.
Da queste misure ci aspettiamo un sensibile aumento delle assunzioni di giovani con contratto a
tempo indeterminato già nel triennio 2018-2020.
Nel disegno di legge di bilancio sono inoltre state inserite misure di sostegno al reddito in favore di
lavoratori coinvolti in processi riorganizzativi complessi o piani di risanamento complessi di crisi
delle imprese per le quali lavorano. In concreto, si prevedono fino a 12 mesi in più di CIGS per le
imprese in crisi con organico superiore a 100 unità lavorative, di rilevanza economica strategica
anche a livello regionale, per i casi in cui il programma di riorganizzazione aziendale preveda
investimenti complessi non attuabili nel tetto massimo di durata della CIGS (oggi 24 mesi) o piani
di recupero occupazionale, compresi gli interventi di ricollocazione degli esuberi.
L’eventuale allungamento della CIGS varrà per il 2018 ed il 2019 e sarà finanziato con 100 milioni
per ciascuno dei due anni (risorse a valere sul fondo occupazione e formazione). Una misura
analoga prevede la prosecuzione CIGS e mobilità in deroga anno 2018 nelle aree di crisi complessa,
intervento finanziato con fondi non spesi.
Ancora, si prevede la possibilità di utilizzare l’assegno di ricollocazione anche per i lavoratori in
cassa integrazione. Si tratta di un’opportunità lasciata alla libera scelta del lavoratore che, in caso di
nuova assunzione presso un’altra azienda, beneficerà della detassazione delle eventuali buonuscite
previste dall’azienda (fino a 9 mensilità) e di un “bonus” pari alla metà degli assegni di cassa
integrazione non incassati.
Per quanto riguarda le prospettive di medio periodo, concludo ricordando l’attivazione, presso il
nostro Ministero, con la partecipazione dei Ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Istruzione e
delle parti sociali, di un tavolo di confronto sulle tematiche del ‘lavoro che cambia’.
Le politiche del lavoro, negli anni futuri, dovranno sempre più fare i conti con i cambiamenti
profondi determinati dagli effetti della digitalizzazione, dell’automazione e della globalizzazione.
Dovremo essere capaci di fronteggiare i rischi che questi cambiamenti producono anche nel mondo
del lavoro e di comprenderne e sfruttarne, invece, le opportunità.
Come abbiamo sostenuto nelle conclusioni del G7 lavoro svoltosi a fine settembre a Torino
occorre un impegno comune per la promozione e l’implementazione di “politiche solide ed efficaci per
aumentare la qualità e la quantità del lavoro e per promuovere mercati del lavoro e società inclusive”. In questo
senso, particolarmente importante sarà l’investimento sociale per acquisire, adattare e sviluppare le
competenze richieste per i lavori del futuro lungo tutto l’arco delle loro vite lavorative.
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FOCUS: I DANNI PUNITIVI
Lo stato dell’arte dei danni punitivi nella prospettiva giuslavoristica
Di Daniela di Lemma
Cultore della materia di Diritto del Lavoro – Università Cattolica del Sacro Cuore
Sommario: 1. Introduzione - 2. I danni punitivi, in breve - 3. Funzione unicamente compensativa
vs. polifunzionalità della responsabilità civile nella giurisprudenza - 4. La sentenza n. 16601 del 5
luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione – 5. Argomenti che fondano la polifunzionalità
della responsabilità civile, in particolare: il diritto del lavoro - 6. La prospettiva giuslavoristica
europea conferma la polifunzionalità della responsabilità civile
Abstract: L’autore esamina la portata della sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite
della Cassazione nell’ordinamento interno evidenziandone l’invito in essa insito ad una necessaria
ulteriore riflessione sui danni punitivi. In particolare, dopo aver brevemente descritto l’istituto
anglosassone dei danni punitivi e dato atto della giurisprudenza interna di chiusura sino ad oggi
formatasi sul punto, l’autore rileva che il dischiudersi delle S.U. ai danni punitivi implica il
riconoscimento della polifunzionalità della responsabilità civile, così superando la funzione di sola
corrispettività compensativa di diritto comune. Successivamente, l’autore descrive gli argomenti che
fondano la decisione delle S.U. evidenziando che sono tratti essenzialmente dalla normativa
giuslavoristica e infine esamina l’evoluzione comunitaria, sempre in tema di diritto del lavoro, che
conferma l’impostazione seguita dalle S.U.
1.Introduzione
Se tracciamo una immaginaria linea che gradui la reazione sanzionatoria dell’ordinamento alla
responsabilità civile, all’estremità bassa troveremo il limite minimo presidiato sul versante
contrattuale dall’art. 1229 c.c. mentre all’estremità alta troveremo i c.d. danni punitivi (punitive o
exemplary damages). E non è dunque un caso che tradizionalmente siano proprio queste due
estremità ad essere oggetto delle più immediate alzate di scudi – in particolare sub specie dell’ordine
pubblico – allorquando in questi immaginari confini in alto e in basso venga ipotizzato l’innesto di
regole e istituti di matrice straniera: nell’un caso qualificando ab origine nullo il patto che esclude o
limita preventivamente la responsabilità del debitore per (addirittura) dolo o per colpa grave e
nell’altro caso rigettando l’ipotesi di una responsabilità tale da produrre un danno eccedente il
principio di diritto comune della pura corrispettività compensativa.
La sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione che si annota esplora il
predetto apice alto della responsabilità e rappresenta non già il riconoscimento generale dei danni
punitivi in Italia (ché neppure le S.U. avrebbero potuto farlo sic et simpliciter) bensì un importante
e fecondo invito ad una più matura riflessione sulle funzioni della responsabilità e della correlativa
sanzione nel nostro ordinamento, propedeutica ad un possibile futuro intervento legislativo.
La circostanza che i commentatori abbiano salutato la predetta sentenza n. 16601/2017 con toni
che spaziano dal “riconoscimento” dei danni punitivi al nihil sub sole novum testimonia la necessità
che il tema dei danni punitivi sia fatto oggetto nel prossimo futuro di un più approfondito dibattito
teso ad una eventuale inequivoca modifica legislativa.
2.I danni punitivi, in breve
I danni punitivi, istituto giuridico di origine anglosassone comunemente riconosciuto negli
ordinamenti di common law, costituiscono un risarcimento economico del danno ulteriore rispetto
alla somma necessaria al ristoro del danno subito (compensatory damage). Trattasi di fattispecie
speciale nel senso che anche i sistemi di common law li ammettono per lo più solo nel caso in cui si
accerti che il danneggiante abbia agito con dolo (malice, fraud) o colpa grave (gross neglicence),
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conferendo così alla propria azione un particolare disvalore (c.d. aggravating circumstances).
In sostanza, il danno punitivo, ove riconosciuto, rappresenta un quid pluris economico che si
somma alla sanzione edittale prevista in caso di responsabilità (contrattuale o aquiliana) a carico del
danneggiante. Pertanto, ammettendo i danni punitivi, i sistemi di common law hanno a monte
valutato che per una adeguata risposta dell’ordinamento all’illecito è necessario che alla funzione
risarcitoria tipica della sanzione civile si affianchino anche la funzione “dissuasiva verso altri
potenziali trasgressori, nonché la funzione “afflittiva” (di matrice penalistica) allo scopo di evitare
eventuali recidive del danneggiante, entrambe funzioni che naturalmente hanno altresì lo scopo di
ristorare ulteriormente il danneggiato.
In Italia, tradizionalmente, i danni puntivi sono associati specie al sistema Nord Americano e sono
visti con diffidenza, se non netto disfavore, a causa di taluni risarcimenti monstre che le cronache di
tanto in tanto riportano nonché in considerazione del fatto notorio che la loro quantificazione è
affidata alla discrezionalità della giuria popolare. Al fine di circoscrivere e in parte rettificare questa
comune preoccupazione circa la quantificazione del danno occorre però considerare i seguenti
elementi oggettivi: (i) i danni punitivi sono generalmente soggetti ex lege a predeterminazione
dell’ammontare massimo (cap) che varia a seconda dell’illecito, del danneggiato e financo,
significativamente, del danneggiante (si pensi ad esempio, in caso di discriminazione tra lavoratori,
ai cap variabili graduati in proporzione alle dimensioni del datore di lavoro) ; e (ii) i tribunali
statunitensi, specie a livello di Corte Suprema, tendono piuttosto pacificamente rivedere il quantum
del danno alla luce dei principi costituzionali, così da respingere risarcimenti a titolo di danni
punitivi che risultino all’evidenza eccessivi e dunque in violazione del presidio costituzionale del
Due Process .
In estrema sintesi, i danni punitivi sono strettamente correlati al riconoscimento di una
polifunzionalità della responsabilità civile, argomento sul quale si apre il dibattito quanto mai
attuale, sia in dottrina che in giurisprudenza.
3. Funzione unicamente compensativa vs. polifunzionalità della responsabilità civile nella
giurisprudenza
Prima del grand arrêt delle Sezioni Unite n. 16601/2017, la Corte di Cassazione si era sempre
espressa contro il riconoscimento di una possibile polifunzionalità della responsabilità civile,
riconoscendone invece solo la mono-funzione di corrispettività compensativa. In tal senso si era
nettamente pronunciata con sentenza n. 1183 del 2007 , che sosteneva l’estraneità dell’idea di
punizione e di sanzione al risarcimento del danno e l’irrilevanza della condotta del danneggiante: il
compito della responsabilità civile, dicono i giudici, è unicamente la reintegrazione della sfera
patrimoniale del soggetto danneggiato mediante la corresponsione di una somma di denaro al solo
fine di eliminare le conseguenze del danno arrecato. Coerentemente con tale visione monistica della
responsabilità civile, le successive sentenze della Cassazione n. 1781 del 2012 e n. 12717 del 2015
hanno apertis verbis ritenuto l’istituto dei danni puntivi incompatibile con l’ordinamento italiano.
Tale orientamento è stato fatto proprio dalla giurisprudenza di merito, si veda ad esempio la
sentenza della Corte di Appello di Roma n. 869 del 2014 nella quale - invero in modo molto
tranchant – si statuisce che va respinto ogni tentativo tendente ad introdurre nel nostro sistema i
c.d. danni punitivi o la figura del c.d. danno in re ipsa, in quanto la tutela dei diritti garantiti
dall’ordinamento giuridico non può mai comportare un arricchimento senza giusta causa .
Dunque, il riferito orientamento giurisprudenziale che muoveva da una funzione unicamente
compensativa della responsabilità civile riteneva in insanabile contrasto l’ordine pubblico interno e
l’istituto dei danni punitivi, con il risultato di negare la delibazione di una qualsivoglia sentenza
straniera di condanna al pagamento dei c.d. punitive damages, o, anche in mancanza di un
riferimento espresso all’istituto, al pagamento di una somma che superasse di gran lunga la somma
quantificabile a titolo di mero risarcimento del danno. Il che, a ben vedere, è un approccio assai
rigido poiché postula a monte che la funzione meramente compensativa della responsabilità civile
assurga a rango di valore costituzionale assoluto e inderogabile anche dal legislatore, il che però è e
resta – appunto – un postulato non essendo stati mai individuati elementi che lo comprovino. Ma
tant’è.
Invero, si sono registrate anche pronunzie di segno contrario le quali – pur rimanendo assai isolate
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– avevano aperto ad una polifunzionalità della responsabilità civile. Tra queste si segnala la sentenza
della Cassazione a Sezioni Unite n. 9100 del 2015 tramite la quale i giudici avevano evidenziato
come l’ulteriore funzione “sanzionatoria” del risarcimento del danno non fosse più da considerarsi
incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, a condizione che una qualche norma
di legge chiaramente la preveda, in difetto della quale il connotato sanzionatorio resterebbe
comunque escluso ex art. 25 Cost., comma 2, oltreché ex art. 7 della Convenzione Europea sulla
salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
4. La sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione
Tutto ciò fino al 5 luglio 2017 quando, con la sentenza n. 16601 in commento, le Sezioni Unite, a
seguito dell’ordinanza di rimessione n. 9978 del 2016 della prima sezione della Corte di Cassazione ,
hanno ammesso il riconoscimento di una sentenza statunitense contenente la condanna del
soggetto danneggiante al risarcimento di danni ultracompensatori, ammettendo dunque,
quantomeno a livello di principio, la compatibilità dei risarcimenti punitivi con il vigente
ordinamento italiano.
Considerando che la precedente giurisprudenza, richiamata supra, era viceversa stata granitica nel
giudicare l’istituto dei c.d. danni punitivi inesorabilmente incompatibile con il nostro ordinamento,
la sentenza che si annota ha uno spiccato carattere innovativo.
Per giungere a tale conclusione le Sezioni Unite sono partite dalla presa di consapevolezza della
profonda evoluzione della nozione di ordine pubblico che si è registrata nel nostro ordinamento:
non più autarchico baluardo dei principi sui quali si fonda la struttura etico-sociale della nostra
comunità nazionale, bensì l’insieme dei principi fondamentali dell’ordinamento interno che tenga
conto della non più procrastinabile armonizzazione con il diritto internazionale e - soprattutto - con
il diritto comunitario.
Su tale base le Sezioni Unite hanno sancito il superamento del dogma del carattere monofunzionale
della responsabilità civile, ammettendo accanto alla tradizionale finalità di corrispettività
compensativa, atta a restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione
ripristinandone lo status quo ante il danno, anche la funzione preventiva deterrente o dissuasiva
nonché la funzione sanzionatorio-punitiva. Il principio di diritto enunciato è, infatti, il seguente:
“Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la
sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione
di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente
incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.
Al contempo, le Sezioni Unite avvertono però che non possono essere recepite dal sistema
giuridico italiano indiscriminatamente tutte le decisioni relative a danni punitivi, ciò poiché essendo
indefettibile il rispetto dei principi sanciti dagli artt. 23 e 25 Cost., il connotato sanzionatorio può
ammettersi solo qualora chiaramente previsto da una adeguata norma di legge dell'ordinamento
straniero. Il principio di diritto enunciato sul punto è altrettanto chiaro: “Il riconoscimento di una
sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla
condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la
tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere
riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità
con l'ordine pubblico”.
La sentenza che si annota oltre non poteva andare. Tuttavia, come detto, l’invito ad una ulteriore
riflessione su un tema così gravido di conseguenze nel tessuto sociale emerge chiaramente nelle
parole dei Supremi Giudici: “non è dunque puramente teorica la possibilità che viene schiusa con la
revisione giurisprudenziale che le Sezioni Unite stanno adottando” e necessita dunque di “ulteriori
approfondimenti, che la casistica potrà incaricarsi di vagliare”.
Nel formulare tale invito la Cassazione offre anche una serie di spunti di esegesi che corrispondono
ad altrettante normative speciali domestiche nelle quali è già possibile scorgere la polifunzionalità
della responsabilità civile. I predetti spunti sono tratti dai Supremi Giudici specie da due aree del
diritto interno corrispondenti (i) ai diritti di proprietà industriale e intellettuale e (ii) al diritto del
lavoro . Sulla prima area basterà ricordare l’art. 158 della L. 22 aprile 1941, n. 633 (LDA) e l’art. 125
del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 art. 125 (CPI), che riconoscono al danneggiato un risarcimento
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corrispondente ai profitti realizzati dall'autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e
deterrente, laddove l'agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita
dal danneggiato. O, ancora, basterà ricordare l’annosa questione del danno in re ipsa che, per
quanto dichiarata spesso formula stereotipata e insufficiente, spesso viene di fatto recepita dalle
decisioni in materia industrialistica . Sulla seconda area ci soffermeremo al paragrafo che segue.
Non prima di aver sottolineato come, ancora una volta, non è un caso che i Supremi Giudici
abbiano individuato la normativa più gravida di sviluppi (se non più avanzata) proprio nelle aree
nelle quali la tensione, anche ideale, tra le parti è più forte: (i) nell’un caso perché si contrappone al
creatore di un asset immateriale sfruttabile potenzialmente all’infinito un usurpatore generalmente
parassitario e (ii) nell’altro caso perché si fronteggiano i ben noti valori e interessi economico-sociali
propri di datore e lavoratore. Così facendo, neanche questo è un caso, i Supremi Giudici rimettono
quei necessari “ulteriori approfondimenti” a giudici di sezioni specializzate che, in quanto tali,
sviluppano una sensibilità che li rende naturalmente meglio attrezzati alla più matura esegesi sui
punitive damages proposta dalla sentenza in commento.
5. Argomenti che fondano la polifunzionalità della responsabilità civile, in particolare: il diritto del
lavoro
La natura polifunzionale della responsabilità civile è stata individuata in più normative di matrice
giuslavoristica, il che – invero – non stupisce atteso che l’invocata evoluzione esegetica sulla
funzione della responsabilità civile trova naturalmente il suo terreno d’elezione proprio lì dove i
valori in gioco sono tali da incidere sul tessuto sociale e prima ancora culturale dell’ordinamento
interno.
Tra le anzidette normative, che hanno come tratto distintivo comune la predeterminazione ex lege
di una determinata pena per il trasgressore, rileva anzitutto l’art. 18, comma 2, dello Statuto dei
Lavoratori, il quale nell’ambito della tutela reale prevede che il giudice con la sentenza con cui
dichiara la nullità del licenziamento (in tutti i casi di nullità previsti per legge) e ordina al datore di
lavoro la reintegrazione del lavoratore, condanna altresì a risarcire il danno subito dal lavoratore per
il licenziamento di cui risulti accertata la nullità, stabilendo un’indennità che abbia come base di
calcolo l’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino al giorno
dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale aliunde perceptum nel periodo di estromissione,
oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo. In ogni caso,
ex lege la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione
globale di fatto. Ebbene, se si considera il limite minimo delle cinque mensilità di retribuzione
dovute per il periodo di estromissione dal posto di lavoro, anche qualora il giudizio abbia una
durata inferiore alle cinque mensilità, non può non riconoscersi in esso oltre alla funzione
meramente reintegratoria dei perduti guadagni del lavoratore vittorioso, anche la funzione punitivo-
sanzionatoria di tale indennità, che finisce con il costituire una sorta di vera e propria penale.
Rileva poi l’art. 18, comma 14, dello Statuto dei Lavoratori, ove, sulla medesima scia del comma 2, a
fronte dell’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, è prevista una
sanzione aggiuntiva in capo al datore di lavoro inottemperante per la mancata reintegrazione, che
consiste nell’obbligo del datore di lavoro di versare, per ogni giorno di ritardo, una somma pari
all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore in favore del Fondo adeguamento pensioni:
anche in tal caso la predetta somma – imposta con frequenza addirittura giornaliera – ha per se una
funzione punitivo-sanzionatoria oltreché deterrente.
Ancora, l’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015 in materia di tutela del lavoratore assunto a
tempo determinato, nonché l’anteriore norma di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183 del
2010, sono indicativi di una funzione punitivo-sanzionatoria laddove prevedono, nei casi di
conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell’apposizione del termine, una
forfettizzazione del risarcimento.
Infine, è utile ricordare l’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 sulle controversie in materia di
discriminazione, che riconosce al giudice la facoltà di condannare il convenuto al risarcimento del
danno tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono
ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività
del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.
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Tutti i predetti spunti esegetici sono proposti della sentenza n. 16601 del 2007 che si annota e
permettono di concludere nel senso che nella sfera giuslavoristica già esistono de facto oltre che la
funzione puramente compensativa del risarcimento anche le funzioni punitiva-sanzionatoria e
deterrente del risarcimento dovuto dal datore. Funzioni ulteriori che, si badi, pare urgente
riconoscere espressamente in un’area che recentemente ha visto una progressiva erosione delle
garanzie del lavoratore (basti pensare alle modifiche subite dall’art. 18 S.L.) in nome di un mercato
del lavoro che sovente appare sempre più piegato alle esigenze datoriali di flessibilità.
6. La prospettiva giuslavoristica europea conferma la polifunzionalità della responsabilità civile
La descritta riflessione della sentenza della Cassazione S.U. n. 16601 del 2007 si rivela ancora più
preziosa se si considera che essa è coerente con lo sviluppo della normativa e della giurisprudenza
dell’Unione Europea, specie in tema di repressione della ingiusta discriminazione tra lavoratori.
Al riguardo, giova ricordare anzitutto i principi che postulano un eguale trattamento in termini
generali e assoluti, quali l’articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea (TEU) , l’articolo 19 del
Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFEU) nonché l’articolo 21 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea . Giova poi ricordare le norme che proibiscono nello specifico la
discriminazione, ossia: (i) in tema di genere, l’articolo 8 del TFEU e l’articolo 159 del TFEU nonché
la Direttiva 2006/54/CE ; (ii) in tema di razza, la Direttiva 2000/43/CE ; e (iii) in tema di religione,
convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, la Direttiva 2000/78/CE . Ebbene, dalla
lettura della predetta normativa emerge chiaramente il forte intento del legislatore europeo di
assicurare che alla responsabilità ascritta al datore danneggiante si ricolleghi una riparazione a favore
del lavoratore danneggiato di tipo “reale”, “effettivo”, ““proporzionato” e – last but not least –
“dissuasivo”. Dunque, viene espressamente riconosciuta anche una funzione dissuasiva, che è
comunque sempre interconnessa a quella punitiva. A testuale riprova, si veda la regola in tema di
“Risarcimento o riparazione” stabilita dall’articolo 18 della Direttiva 2006/54/CE: “Gli Stati
membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali le misure necessarie per garantire,
per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, un
indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi
e proporzionati al danno subito”. Tale regola è ripresa analogamente dall’articolo 25 della medesima
Direttiva 2006/54/CE, dall’articolo 15 della Direttiva 2000/43/CE nonché dall’articolo 17 della
Direttiva 2000/78/CE.
Altrettanto chiaramente si è espressa, ormai da tempo, anche la Corte di giustizia dell'Unione
europea (ECJ). Nel caso Von Colson risalente al 1984 la ECJ, occupandosi della sanzione da
applicare ad una discriminazione tra lavoratori basata sul genere, ha statuito al punto 23 che “la
sanzione stessa [deve essere] tale da garantire la tutela giurisdizionale effettiva ed efficace. Essa deve
inoltre avere per il datore un effetto dissuassivo reale. Ne consegue che, qualora lo stato membro
decida di reprimere la trasgressione del divieto di discriminazione mediante un indennizzo, questo
deve essere in ogni caso adeguato al danno subito”. La natura polifunzionale della responsabilità
che avevano già allora in mente i giudici di Lussemburgo è chiara: alla corrispettività compensativa
si aggiunge la funzione dissuasiva, come testimonia letteralmente anche l’inciso “Essa deve inoltre
avere (…)” (ancora più accentuato nella versione inglese della decisione ove si legge “Moreover it
must also have a real deterrent effect on the employer”). Successivamente, nel 1990, nel caso
Dekker la ECJ occupandosi della sanzione da applicare ad una discriminazione tra lavoratori basata
ancora sul genere ha richiamato espressamente il caso Von Colson statuendo nuovamente che la
sanzione “deve inoltre avere, nei confronti del datore di lavoro, un effettivo potere di dissuasione”
(punto 23). Pochi anni dopo la ECJ conferma ancora una volta la sua posizione nel caso Marshall
ove si legge che le sanzioni “devono garantire una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace ed
avere per il datore di lavoro un effetto dissuasivo reale” (punto 24). Questo indirizzo
giurisprudenziale è pienamente confermato negli anni successivi e in particolare nel caso
Draehmpaehl , relativo sempre ad una fattispecie di parità di trattamento fra i lavoratori di sesso
maschile e femminile, nel quale i giudici ancora una volta osservano che “la sanzione scelta dagli
Stati membri debba avere un effetto dissuasivo reale nei confronti del datore di lavoro e debba
essere adeguata ai danni subiti, al fine di garantire una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace”
(punto 39), formulazione ripresa in maniera pressoché pedissequa dalla ECJ anche nel successivo
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caso Paquay (specie punti 45 e 49).
Da ultimo, nel caso Camacho del 2015 i giudici di Lussemburgo ammettono espressamente i
punitive damages nell’ordinamento comunitario scrivendo che “l’articolo 25 della direttiva 2006/54
permette, ma non impone, agli Stati membri di adottare provvedimenti che prevedano il
versamento di danni punitivi alla vittima di una discriminazione fondata sul sesso” (punto 40).
Anche in questo caso, i giudici non potevano andare oltre poiché la domanda di pronuncia
pregiudiziale proveniva da un paese (la Spagna) nel quale i danni punitivi non sono ammessi e
dunque alla ECJ non rimane che rilevare che “in tali condizioni, in assenza di una disposizione
dell’ordinamento nazionale che permetta il versamento di danni punitivi ad una persona lesa da una
discriminazione fondata sul sesso, l’articolo 25 della direttiva 2006/54 non prevede che il giudice
nazionale possa esso stesso condannare l’autore della suddetta discriminazione a risarcire danni di
tale tipo” (punto 43).
In conclusione, il legislatore e il giudice comunitario hanno chiaramente individuato da tempo nella
polifunzionalità della responsabilità civile la strada da seguire per aspirare ad una sanzione efficace.
Tuttavia, spesso tale chiarezza si perde poi a livello dei singoli Stati Membri, Italia in primis , specie
a causa dell’assenza di una matura riflessione sulle funzioni della responsabilità e della correlativa
sanzione, ossia esattamente di quella riflessione alla quale, come si è detto in apertura, invita la
sentenza n. 16601/2017 qui in commento.
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Le Sezioni unite ed i punitive damages: una significativa
circolazione di un modello?
Di Cesare Vaccà
Professore di Diritto Privato – Università di Milano - Bicocca
Abstract
L’articolo considera dapprima alcuni noti casi che hanno indotto la Corte Suprema degli Stati Uniti
a porre degli argini alla concessione dei punitive damages nelle cause civili.
L’articolo percorre, poi, le decisioni che, nel nostro Paese in sede di delibazione di sentenze
statunitensi caratterizzate dalla concessione dei danni punitivi hanno dovuto affrontare il tema della
compatibilità con il nostro ordinamento di una condanna avente anche finalità sanzionatorie e
deterrenti.
E’ esaminata, infine, la sentenza n. 16601 resa a sezioni unite dalla Corte di cassazione il 5 luglio
2017, che appare senz’altro di spiccata rilevanza per molte ragioni: considerata l’evoluzione della
nozione di ordine pubblico essa nega, infatti, che possano ravvisarsi ragioni ostative alla
riconoscibilità di sentenze statunitensi che si pronuncino favorevolmente sui punitive damages;
esclude che debba continuarsi a considerare estranea al sistema della responsabilità civile la
funzione sanzionatoria, alla luce anche di non pochi elementi già presenti nel nostro ordinamento;
invita, infine, il legislatore a considerare senza pregiudizi la delicata questione.
Sommario
1.I tratti dei punitive damages
2. I punitive damages di fronte alla giustizia italiana
3. Le Sezioni Unite si pronunciano rendendo un principio di diritto nell’interesse della
legge
1. I tratti dei punitive damages
I punitive damages, o exemplary damages secondo la dizione britannica, hanno natura non
compensatory, e sono liquidati a favore del danneggiato in aggiunta ai compensatory damages:
mentre quest’ultima espressione corrisponde al risarcimento della tradizione di civil law, la prima
assolve ad una vera e propria funzione sanzionatoria nei confronti del soggetto che –essenzialmente
nell’ambito del tort, quindi della sfera extracontrattuale- si sia comportato in modo eticamente
riprovevole, scorretto, malvagio, violento o fraudolento.
I punitive damages, pertanto, non hanno lo scopo di risarcire il danneggiato, bensì di punire il
danneggiante: vengono infatti riconosciuti qualora quest’ultimo abbia agito in malafede, o per colpa
grave, oppure abbia creato un grave rischio per la salute, la sicurezza ed il benessere delle persone.
L’origine di questa figura è fatta risalire all’Inghilterra del XIV secolo, quale condanna di una
condotta disdicevole, sviluppatasi in un sistema ove la distinzione fra illecito civile ed illecito penale
è sempre stata più sfuocata rispetto alla nostra tradizione , rispetto alla quale viene talvolta
prospettata la assimilabilità alle cosiddette pene private delle quali beneficia il danneggiato .
I punitivi damages in Inghilterra sono andati assumendo una peculiare connotazione quale sanzione
specie per le violazioni commesse da organi pubblici e sono, comunque, oggetto di riflessione: la
Law Commission, autorità indipendente britannica presieduta da un giudice della High Court cui è
conferito il compito di mantenere efficace l’ordinamento proponendo agli organi legislativi sia
nuove leggi, sia l’abrogazione di quelle obsolete od inefficaci, da tempo con un ponderoso studio ha
indicato possibili alternative nell’eventualità del superamento dell’attuale sistema .
Negli Stati Uniti, invece, si è enfatizzata la loro funzione deterrente, volta ad indurre in modo
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esemplare non soltanto il responsabile, ma chicchessia, ad astenersi in futuro da porre in essere
comportamenti simili a quello sanzionato: tuttavia, proprio questa prospettiva ha portato ad
applicazioni estreme, in seguito alle quali gran parte delle legislazioni statali ha adottato limitazioni
più o meno rigorose.
Non è estranea alla impressionante lievitazione degli importi accordati a titolo di punitive damages
la circostanza che negli Stati Uniti i procedimenti per responsabilità civile si caratterizzano per
l’intervento in primo grado della giuria, cui sono demandate le questioni di fatto, mentre il giudice
decide quelle di diritto: anche in ciò, ai nostri occhi, è ravvisabile una non netta demarcazione fra la
sfera penale e quella civile, ed è un dato di fatto che le giurie siano assai generose nell’accordare
importi pressocché invariabilmente destinati ad essere ridimensionati dalle Corti chiamate a
pronunciarsi in sede di ricorso del soccombente.
Il caso che ha dato modo alla Corte Suprema di dettare i criteri per arginare la inquietante
lievitazione dei punitive damages ha riguardato un medico che nel 1990 acquistò a quarantamila
dollari presso un concessionario un’auto Bmw nuova ,, scoprendo in seguito che era stata
riverniciata in conseguenza dei danni riportati prima della vendita.
Nel corso del giudizio emerse che questo era il normale comportamento di Bmw ogniqualvolta i
danni riportati durante i trasporti non eccedessero il 3% del prezzo di listino.
In primo grado Bmw venne condannata dalla giuria al pagamento di quattromila dollari a titolo di
danni compensativi e quattro milioni di dollari a titolo di punitive damages, motivati in ragione della
“gross, oppressive and malicious fraud” (‘malice’ nella nostra cultura corrisponde sostanzialente al
dolo) ravvisabile nell’aver nascosto all’acquirente le riparazioni che avevano interessato un costoso
veicolo venduto come nuovo.
Alla astronomica cifra –ed alla esorbitante sproporzione fra le due facce della condanna – il
rapporto è di 1 a 500- la giuria pervenne facendo leva sul profilo sanzionatorio-deterrente,
calcolando il plausibile numero di casi in cui, per anni, Bmw of North America aveva operato in
questo modo: una sanzione, quindi, ex post per tutti i pregressi comportamenti fraudolenti o,
quantomeno, commercialmente scorretti .
Su ricorso della Bmw la Corte d’Appello dell’Alabama dimezzò l’importo dei punitive damages, ma
la pur sempre esorbitante somma di due milioni di dollari venne successivamente ritenuta ‘grossly
excessive’ dalla Corte Suprema federale, che ridusse l’importo a cinquantamila dollari formulando
tre regole da osservare nella liquidazione dei punitive damages: il non elevato grado di
reprovevolezza del comportamento di Bmw -fra l’altro non era ravvisabile alcun pericolo per la
salute o la sicurezza delle persone- la sproporzione fra le voci di danno liquidate, ed infine la
comparazione fra l’ammontare liquidato a titolo di punitive damages e le sanzioni penali ed
amministrative che avrebbero potuto applicarsi alla stessa Bmw in ragione dei suoi ‘fraudulent
purposes’ commerciali.
Un altro caso che, in tutto il mondo, ha acceso i riflettori sui punitive damages è quello egualmente
deciso dalla Corte Suprema : un fumatore di tre pacchetti di sigarette al giorno morì a 67 anni a
causa di un tumore ai polmoni e la vedova agì in giudizio nei confronti di Philip Morris, il
produttore delle sigarette fumate dal marito.
Come è noto, a fondamento delle numerose sentenze statunitensi in tema di ‘tobacco litigation’, vi è
l’imputazione di una condotta di mala fede ai produttori di sigarette, in quanto i rischi da fumo
erano a loro ben noti quantomeno dagli anni sessanta, ma sono stati maliziosamente occultati, e
sono state –anzi- realizzate campagne pubblicitarie volte ad associare l’idea del fumo a quella del
benessere fisico, facendo altresì tavolta ricorso a pseudo ricerche scientifiche volte a negare i rischi
del fumo.
Alla vedova vennero in primo grado riconosciuti 821 mila dollari a titolo di compensatory damages
e settantanove milioni e mezzo di dollari a titolo di punitive damages ; dopo alterne sentenze, anche
in sede di rinvio da parte della Corte Suprema federale ai giudici dell’Oregon, Philip Morris nel 2011
ha pagato la somma complessiva di 99 milioni di dollari, comprensiva degli interessi maturati.
Nello sterminato repertorio delle sentenze che hanno accordato punitive damages d’importo per
noi sbalorditivo, merita richiamare anche il ben noto caso della signora settantanovenne che nel
tentativo di aprire il coperchio della tazza di caffè acquistata da McDonald’s appoggiandola sulle
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ginocchia, riportò ustioni di terzo grado alle ginocchia stesse, che resero necessario un trapianto
cutaneo e trattamenti medici protrattisi per due anni.
Emerse poi, nel corso del giudizio, che nel decennio 1982-1992 si erano verificati almeno altri 700
analoghi casi di ustioni, pur se non tutti di eguale entità.
Rispetto all’iniziale liquidazione da parte della giuria di 200.000 dollari quale risarcimento, e due
milioni e settecentomila a titolo di punitive damages, la decisione definitiva ha ridotto a 480.000
dollari la seconda voce.
Non a caso ai punitive damages negli Usa si coniuga, con una efficace espressione, il ‘windfall
myth’, il mito di poter facilmente raccogliere la manna che piove dal cielo, miracolo cui certo non
sono estranei i legali ai quali il sistema di contingency fee o patto di quota lite che dir si voglia- fa
premio mediamente della metà di quanto riconosciuto al cliente: abbastanza inevitabile, quindi, che
molti Stati progressivamente reagissero dotandosi di strumenti legislativi, cosiddetti ‘split-recovery’,
a norma dei quali una percentuale di ogni importo liquidato a titolo di punitive damages compete
allo Stato stesso, che la destina ad iniziative di rilevanza etica e sociale, quali sono, ad esempio, i
fondi a favore delle vittime di reati; al contempo in gran parte degli Stati vi sono precisi limiti,
spesso in sede legislativa, altre volte giurisprudenziale, volti a contenere esorbitanti liquidazioni .
I tratti punitivi ed espiatori della condotta del danneggiante mantengono, comunque, inalterata la
loro funzione grazie alle legislazioni dei singoli Stati recanti divieti e limitazioni alla assicurabilità dei
punitive damages che, ove consentita, ridurrebbe con tutta evidenza, ad un simulacro la loro
indubbia funzione sanzionatoria e deterrente.
2. I punitivi damages di fronte alla giustizia italiana
Nelle nostre aule giudiziarie la voce dei danni punitivi (come, per consolidata traduzione, sono
definiti) risuona sempre più spesso, non soltanto in sede di delibazione di sentenze statunitensi ma
anche nell’applicazione di norme dell’ordinamento nazionale nelle quali si vuole vedere –più o
meno fondatamente- l’eco di questa discussa figura peculiare degli ordinamenti di common law.
Fra i casi più noti, innanzitutto la Corte d’appello di Napoli si è pronunciata in relazione alla
delibazione di una sentenza californiana recante la condanna per concorrenza sleale e
contraffazione di marchio: la particolarità risiede nella circostanza che l’illecito è stato commesso
tramite internet, mediante la creazione di un website contraddistinto dai segni distintivi altrui ove
erano commercializzati beni e servizi .
Un comportamento doloso le cui conseguenze, come ben sottolineato dalla Corte, si producono
globalmente, imponendo così l’adattamento delle tradizionali formule per la determinazione del
locus commissi delicti.
La sentenza napoletana è lineare nell’indicare le ragioni che precludono l’esecuzione in Italia delle
decisioni volte a liquidare i punitive damages: come è noto, dal 1995 al riconoscimento delle
sentenze straniere in Italia non osta più la contrarietà ‘all'ordine pubblico italiano’, bensì
semplicemente ’all'ordine pubblico’ nell’accezione internazionale , che è “costituito dai principi
fondamentali e caratterizzanti l'atteggiamento etico - giuridico dell'ordinamento in un determinato
periodo storico" , sì che "la nozione di ordine pubblico internazionale [...] non è enucleabile
esclusivamente sulla base dell'assetto ordinamentale interno [... ] dovendo, di contro ravvisarsi nei
principi fondamentali della nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in
essa collocazione, rispondono all'esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali
dell'uomo, o che informano l'intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno
stravolgimento dei valori fondanti dell'intero assetto ordinamentale" ).
Siamo, pertanto, di fronte alla circolazione transnazionale delle regole, fenomeno che vieppiù
caratterizza l’odierno diritto, ma ciò necessita, comunque, di parametri certi onde evitare di dilatare
la sfera della discrezionalità .
Opportunamente la Corte di appello di Napoli rileva come la sentenza statunitense non dia alcuna
prova del danno effettivo derivante dalla violazione dei marchi commerciali dell'attore protrattasi
per quattro o cinque mesi, ma nondimeno riconosca i punitive damages in relazione alla violazione
di un diritto tutelato dalla legge come deterrente nei confronti del futuro utilizzo dei marchi stessi
da parte del convenuto.
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Accordare una somma di denaro in assenza della prova di danni effettivi, a totale discrezionalità ed
in funzione deterrente ed afflittiva, si pone in contrasto con l'ordine pubblico per la estraneità sia
agli ordinamenti dell’Europa continentale, sia a quello italiano, fondato su una netta separazione tra
sanzioni civili e penali .
La Corte napoletana non può, quindi, che ritenere contrarie all'ordine pubblico le sentenze che si
prefiggono anche finalità deterrenti, sanzionatorie o punitive mediante somme determinate
discrezionalmente dal giudice, avulse da qualsiasi prova dell’esistenza del danno, ed in modo non
dissimile è indirizzata la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, sovente in ambito
giuslavoristico, orientata a rispettare la correlazione fra danno e risarcimento .
Su di un piano assai diverso si colloca l’azione intrapresa presso la Corte di appello di Torino da un
giovane (trentasettenne all’epoca del sinistro) reso totalmente disabile da una lesione permanente
provocatagli da un difettoso macchinario industriale prodotto in Italia: due identiche sentenze della
Corte Suprema di Cambridge (Massachussets) gli avevano riconosciuto il diritto di ottenere
indennizzi di notevole consistenza da due società appartenenti al medesimo gruppo italiano
produttore del manufatto .
Un infortunio sul lavoro, quindi, in relazione al quale la Corte torinese dichiarò il riconoscimento e
l’efficacia in Italia di una soltanto delle due sentenze , e questa decisione giunse successivamente al
giudizio della Corte di cassazione .
La particolarità del caso, dal punto di vista che qui si considera, risiede nella circostanza che le due
sentenze statunitensi, pur liquidando complessivamente circa 18 milioni di dollari, mai menzionano
i punitive damages: lecito pensare che dovendo il giudicato trovare riconoscimento ed esecuzione in
Italia la Corte del Massachussets abbia deliberatamente ritenuto opportuno non fare alcuna
menzione ai punitive damages, pur se la imbarazzante somma liquidata li evoca con immediatezza?
La Corte torinese (efficacia dell’escamotage della Corte del Massachussets ?) da un lato esclude che
possa affermarsi in via presuntiva la ricorrenza dei punitive damages, dall’altro ricorre ampiamente
alle presunzioni escludendo la configurabilità di interessi usurari, o ritenendo il danno ascrivibile a
profili diversi da quelli punitivi, quali il danno biologico o alla vita di relazione, nella perdita della
capacità lavorativa anche in rapporto alla giovane età del danneggiato, scordando che negli Stati
Uniti la condanna di tipo punitivo è comminata secondo criteri che prescindono dalle sofferenze
del danneggiato; infine, neppure valuta la circostanza che negli Usa il giudizio si era svolto in
contumacia, circostanza ivi ritenuta riprovevole e meritevole di sanzione punitiva, né si interroga
sulle ragioni che hanno portato ad una condanna di importo pari a volte volte il richiesto, segnando
così una plateale distanza dal sistema italiano di risarcimento del danno.
I cripto-danni punitivi accordati dalla Corte del Massachussets vengono, invece, riscontrati dal
Supremo Collegio che cassa con rinvio ad altra sezione torinese la decisione, ricordando che nella
nostra tradizione l’idea di sanzione è estranea al risarcimento del danno, avendo la responsabilità
civile il “compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione,
mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno
arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui
risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono
irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre
altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di
concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi
in re ipsa” ).
Quello che è comunemente considerato il leading case italiano in tema di danni punitivi, vale a dire
Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183 , trova ascendenza in una sentenza della Corte di
appello di Venezia che, facendo ricorso anche ad accurati riferimenti comparatistici, escluse che
negli ordinamenti dell’Europa continentale possano trovare riscontro i punitive damages.
Il tragico caso sottoposto ai nostri giudici ha riguardato la delibazione della sentenza di una Corte
dell’Alabama che condannò una società italiana a pagare un milione di dollari alla madre di un
ragazzo deceduto in un incidente motociclistico per aver perso il casco a causa di un difetto di
progettazione e costruzione della fibbia di chiusura, prodotta per l’appunto dalla società italiana.
Non è secondario sottolineare che è stata questa una delle molteplici azioni promosse dall’attrice,
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che già aveva ottenuto ragguardevoli somme dalla conducente dell'auto che provocò l’incidente,
dalla società produttrice del casco e da ulteriori soggetti convenuti in giudizio.
Il Supremo Collegio condivide il percorso seguito dalla Corte veneziana nel rilevare innanzitutto la
carenza di qualsiasi indicazione circa i criteri seguiti per la determinazione sia dell'importo del
risarcimento, sia della natura e della specie del danno arrecato, alla eliminazione delle cui
conseguenze è volta la condanna; in secondo luogo sottolinea come non ci si possa esimere da una
valutazione di eccessività della somma liquidata in relazione ai criteri generalmente seguiti dai
giudici italiani.
Nel rigettare tutti i motivi addotti dalla ricorrente, la Cassazione ha modo di affrontare la questione
prospettata dalla stessa secondo la quale il riconoscimento dei danni punitivi non sarebbe contrario
all'ordine pubblico, in quanto anche il nostro ordinamento disporrebbe di istituti “aventi natura e
finalità sanzionatoria e afflittiva, quali la clausola penale e il risarcimento del danno morale o non
patrimoniale”.
Ma la clausola penale, innanzitutto, è priva di finalità sanzionatorie o punitive, assolvendo la
funzione di rafforzare il vincolo contrattuale mediante la preventiva estimazione della prestazione
risarcitoria che, qualora secondo l'apprezzamento del giudice, dovesse eccedere i limiti
dell’equilibrio contrattuale, può dallo stesso essere equamente ridotta, in ciò differenziandosi
totalmente dai punitive damages che prescindono dal tipo di lesione del danneggiato e si
caratterizzano per la sproporzione fra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito, per
tacer poi del ruolo del giudice, che in un caso liquida, nell’altro riduce.
Bene avrebbe fatto, inoltre, la Corte a sottolineare che la somma indicata in contratto a titolo di
penale è preventivamente concordata fra le parti, anche in ciò distaccandosi totalmente dai punitive
damages, pur se l’esperienza anglosassone proprio in tema di penali contrattuali conosce una
autonoma figura, senz’altro affine ai punitive damages: alla nostra nozione di penale corrisponde,
infatti, la figura dei liquidated damages, cui può affiancarsi una penalty volta a sanzionare
l’inadempimento rafforzando così la funzione deterrente che della penale è propria, la cui
legittimità, tuttavia, è attualmente negata proprio in quegli stessi ordinamenti ove si è sviluppata,
mentre sembrerebbe godere di maggiore considerazione in Europa .
Non meno infondata è qualsiasi equiparazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai danni
punitivi: il primo corrisponde infatti ad una lesione subita dal danneggiato che, in ogni caso, deve
essere provata; l'accento cade, inoltre, nella sfera del danneggiato e non del danneggiante, in quanto
la finalità perseguita –pecunia doloris !- è quella di compensare –per quanto possibile- la lesione,
mentre nel caso dei punitive damages non rilevano in alcun modo la sfera del danneggiato, l’entità e
la tipologia del danno da questo subito, la corrispondenza fra l'ammontare del risarcimento e il
danno stesso.
La decisione della Corte, in totale armonia con quella, impugnata, della corte veneziana, ancora una
volta rimarca che nel vigente ordinamento punizione e sanzione sono estranee al risarcimento del
danno, in quanto alla responsabilità civile è assegnato il compito di reintegrare la sfera patrimoniale
del danneggiato mediante il pagamento di importi che tendano ad eliminare le conseguenze del
danno arrecato: ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il
cui risarcimento, proprio perchè non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, occorre la
prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito mediante concrete circostanze di fatto
da cui presumerla, escludendo che la prova possa considerarsi in re ipsa .
Ai rapporti fra i punitive damages ed il nostro ordinamento è impressa una svolta dall’ordinanza
della Corte di cassazione n. 9978 del 16 maggio 2016, est. La Morgese, secondo la quale “deve
essere rimessa al Primo Presidente, perché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la
questione relativa alla riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi.
L’attuale vigenza nell’ordinamento del principio di non delibabilità, per contrarietà all’ordine
pubblico, delle sentenze straniere che riconoscano danni punitivi desta infatti perplessità, alla luce
della progressiva evoluzione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione del
principio di ordine pubblico, originariamente inteso come espressione di un limite riferibile
esclusivamente all’ordinamento giuridico nazionale, ma che è andato successivamente ad
identificarsi con l'ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi
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fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su
esigenze di tutela, comuni ai diversi ordinamenti, dei diritti fondamentali dell’uomo e desumibili dai
sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”.
A monte di questa ordinanza, per lo più accolta quale epocale apertura nei confronti dei punitive
damages, vi è la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 3 gennaio 2014 in sede di delibazione
di tre sentenze statunitensi, ancora una volta concernenti un casco rivelatosi inidoneo all’uso con
conseguenti danni per un motociclista .
Gli esiti, però, in questo caso, furono meno drammatici: il motociclista ha subito danni alla persona
per un incidente avvenuto nel corso di una gara di motocross a causa dei vizi del casco prodotto in
Italia e distribuito da una società statunitense: nel giudizio promosso dal danneggiato, anche nei
confronti di un terzo soggetto, la società importatrice del casco, il distributore aveva accettato la
proposta transattiva del motociclista, forfettariamente riferita anche ai danni punitivi, ed il giudice
ha ritenuto sussistere un obbligo di manleva da parte del produttore italiano.
La Corte veneziana ha escluso la violazione del principio di ordine pubblico in quanto la condanna
del produttore del casco non trova titolo nel risarcimento del danno in favore del motociclista
danneggiato, bensì nell’obbligo di manleva del medesimo produttore nei confronti del distributore
statunitense.
Il produttore italiano aveva avuto, peraltro, la possibilità di costituirsi nell’interesse del distributore e
di difendersi nel giudizio contro il danneggiato, eventualmente contestando la propria
responsabilità, ma non lo ha fatto, e mai ha sollevato obiezioni alla proposta transattiva del
danneggiato stesso, che gli è stata comunicata ed è stata giudicata seria dal giudice americano tenuto
conto del rischio della soccombenza nel giudizio che avrebbe comportato per il distributore –ed
indirettamente per il produttore- un risarcimento ben maggiore del milione di dollari effettivamente
corrisposto al motociclista dal distributore medesimo.
Il produttore è quindi nella condizione di subire gli effetti della transazione stipulata negli Usa
avendone beneficiato, poiché ha successivamente concluso una propria transazione con il
motociclista per l’esiguo importo di 50.000 $, ammontare ritenuto accettabile da quest'ultimo in
ragione di quanto già ricevuto dal distributore.
In questo modo il produttore ha tacitato le richieste del danneggiato nei suoi confronti, evitando
l’accertamento della propria responsabilità nel merito; la sentenza americana si limita quindi a
riconoscere che il produttore è tenuto a rifondere al distributore l’importo della transazione
principale, senza specificare di quali voci di danno si tratti ed, ammesso anche che le parti nel
determinare il quantum dell’accordo transattivo abbiamo convenzionalmente considerato pure i
danni punitivi, ad essi non è fatta però alcuna esplicita menzione.
L’ordinanza di rimessione alle S.U. sviluppa approfondite riflessioni sui limiti alla riconoscibilità
delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei danni punitivi ed, al contempo, sulla
opportunità di considerare la circolazione dei modelli giuridici i cui tempi e modalità sono
accentuati dalla globalizzazione.
Se è vero, come ritenuto dalla già richiamata sentenza dello stesso Supremo Collegio relativa alla
difettosità del macchinario causa di un infortunio sul lavoro che a giustificare il diniego di
riconoscimento è sufficiente anche il solo dubbio dell’esistenza di una condanna ai punitive
damages, non essendo necessario che nella pronuncia straniera ricorra la loro esplicita menzione, ne
consegue che al giudice della delibazione, ai fini della verifica di compatibilità con l’ordine pubblico,
si chiede di conoscere il percorso giuridico seguito dal giudice straniero, in particolare per quanto
concerne la qualificazione della responsabilità e delle conseguenti voci di danno risarcibili, onde
evincere la causa giustificatrice dell’attribuzione e potere, quindi, controllare la ragionevolezza e la
proporzionalità di quanto liquidato all’estero in rapporto non solo alle specificità dell’illecito ed alle
sue conseguenze dannose, ma altresì ai criteri risarcitori nazionali.
Ciò tenendo conto, come si legge nell’ordinanza del 16 maggio 2016, della evoluzione del concetto
di ordine pubblico, che “segna un progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia
tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori
estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla
Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
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Europea e, indirettamente, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”.
La giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mancato di rilevare come il rispetto dell’ordine
pubblico sia garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari stranieri,
con riferimento non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della
soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti”
quanto alla compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento: “in altri termini,
l’ordine pubblico non si identifica con quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le norme di
conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi
contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le
regole del diritto internazionale privato” .
Il principio di ordine pubblico, che tradizionalmente ha rappresentato un ostacolo alla circolazione
di taluni modelli giuridici, va così affievolendosi a favore del sistema del diritto internazionale
privato e può trovare un limite soltanto nella potenziale aggressione recata dalla figura giuridica
straniera ai valori essenziali dell’ordinamento interno, da valutarsi in armonia con quelli della
comunità internazionale.
La lucida analisi dell’ordinanza affida pertanto al giudice della delibazione il compito di verificare
preventivamente la compatibilità della norma straniera con questi valori, desumibili direttamente da
norme e principi sovraordinati -costituzionali ed internazionali- dovendosi escludere il contrasto
con i valori dell’ordinamento in presenza di una incompatibilità della norma straniera con l’assetto
normativo interno qualora l’incompatibilità possa considerarsi ‘temporanea’, in quanto ascrivibile
alla discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico.
Non può che sottolinearsi la portata dirompente di una simile interpretazione evolutiva che,
astrattamente, socchiude la porta ad una più indolore sovrannazionalizzazione delle regole
giuridiche: con le parole dell’ordinanza, “si tratta di un giudizio simile a quello di costituzionalità,
ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso
in cui al legislatore ordinario sia precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una ipotetica
norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari”.
Riportando, in modo ancor più esplicito, il discorso dal piano generale a quello particolare,
l’ordinanza afferma che “in questa prospettiva, non dovrebbe considerarsi pregiudizialmente
contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi, all’ordine pubblico
internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo:
una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata
effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto, che tenga conto delle
‘circostanze del caso di specie e dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito’
secondo il Considerando 32 del Regolamento CE 11 luglio 2007, n. 864, sulla legge applicabile alle
obbligazioni extracontrattuali”.
L’ordinanza, che apre la strada alla sentenza delle Sezioni unite 5 luglio 2017, n. 16601, propone,
poi, una riflessione sui limiti della funzione riparatoria-compensativa quale unica finalità attribuibile
al rimedio risarcitorio, ad esclusione quindi di qualsiasi connotazione punitiva-deterrente quali sono
quelle offerte dalle sentenze straniere.
Opporre un principio di ordine pubblico desumibile da categorie e nozioni di diritto interno
sortisce l’effetto di trattare la sentenza straniera alla stregua di una di merito pronunciata da un
giudice italiano, ma soprattutto, la funzione del rimedio risarcitorio, attualmente configurato in
termini esclusivamente compensatori, finisce con l’essere elevata a rango costituzionale. conclusione
questa cui non si spinge neppure Cass., s. u., 22 luglio 2015, n. 15350 nel porre ristretti limiti al
riconoscimento del danno cosiddetto tanatologico.
I tempi potrebbero essere quindi maturi, anche in ragione “della dinamicità o polifunzionalità del
sistema della responsabilità civile, nella prospettiva della globalizzazione degli ordinamenti giuridici
in senso transnazionale, che invoca la circolazione delle regole giuridiche, non la loro
frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali” per considerare la “evoluzione della tecnica di
tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente”, come si
espresse Cass., sez. I civ., 15 aprile 2015, n. 7613 considerando le affinità fra i punitive damages e le
astraintes di matrice francese .
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Resta fermo, in ogni caso, l'apprezzamento del giudice della delibazione sull’eventuale sproporzione
dell'importo liquidato dal giudice straniero, nonché sulla qualificazione della natura punitiva e
sanzionatoria della condanna, poiché si tratta di un giudizio di fatto, riservato al medesimo giudice,
insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato.
Nel caso di specie la sentenza statunitense, come già si è rilevato, non ha specificato quali danni
siano stati indennizzati, poiché ha recepito l'importo della transazione con il danneggiato, un
milione di dollari (due, considerando la parallela transazione stipulata dall'infortunato con la società
importatrice) che non può considerarsi ‘un quantum risarcitorio abnorme’, come rilevano le S.U., a
fronte di lesioni craniche e postumi invalidanti subiti dall'infortunato, oltre alle spese mediche
sostenute per 335.000 dollari, ed una perdita della capacità di guadagno dello stesso corridore
professionista stimata dai due a tre milioni di dollari.
Pertanto, pur in assenza di indicazioni nella sentenza circa le regole ed i criteri di liquidazione del
danno, non può presumersi una natura parzialmente sanzionatoria del quantum transatto, che si
mantiene sotto i limiti della sola componente patrimoniale del danno subito: ne consegue, come
rilevano le S.U., “che non v'è alcun modo per ipotizzare il carattere ‘punitivo’ della condanna
pronunciata, carattere che comunque non si può presumere sol perché manchi nella sentenza, o
meglio nella transazione recepita dal giudice americano, una chiara distinzione delle componenti del
danno”.
3. Le Sezioni Unite si pronunciano rendendo un principio di diritto nell’interesse della legge
L’importante sentenza delle S.U. del 5 luglio 2017 avrebbe potuto così concludersi, ma il Collegio
ha ritenuto di andare oltre, avvalendosi del potere riconosciutogli dal terzo comma dell’art. 363 cod.
proc. civ., secondo il quale: “il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche
d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la
questione decisa è di particolare importanza”.
Viene così sottolineato, innanzitutto, che al tendenziale rifiuto opposto dal Supremo Collegio
all’ampliamento della gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguato riscontro normativo, si
contrappone tuttavia quanto offerto dalle traiettorie seguite dall'istituto della responsabilità civile: se
la funzione primaria rimane quella riparatoria, nondimeno “è emersa una natura polifunzionale che
si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o
dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”, come mostrano non pochi interventi legislativi, segno
della “urgenza che avverte il legislatore di ricorrere all'armamentario della responsabilità civile per
dare risposta a bisogni emergenti”.
Non a caso l’espressione ‘danni punitivi’ ricorre in un gran numero di sentenze nazionali che nulla
hanno direttamente a spartire con l’istituto di matrice anglosassone: è un fenomeno interessante,
che denota il successo, almeno sul piano terminologico, della circolazione di questo modello presso
i nostri giudici in conseguenza dell’adozione, ad opera del legislatore, di figure che –in qualche
modo- la evocano .
Sebbene quindi questo istituto rimanga estraneo al nostro ordinamento secondo i tratti che gli sono
propri, nondimeno diverse norme, anche recenti, si prestano ad una istintiva assimilazione, pur nella
immensa distanza dei valori pecuniari che ad esse, rispettivamente, si riferiscono.
Necessario ricordare che, in alcuni casi, le radici possono essere trovate in norme presenti da tempo
nel nostro ordinamento, quali l’art. 96 cod. proc. civ. sulla responsabilità aggravata per lite temeraria
, cui la l. 18 giugno 2009, n. 69 ha aggiunto il terzo comma a norma del quale “il giudice, anche
d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di
una somma equitativamente determinata”, contestualmente è stato abrogato il quarto comma
dell'art. 385 cod. proc. civ. volto a disincentivare azzardati ricorsi per cassazione, riconoscendo alla
stessa il potere di condannare “la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di
una somma, equitativamente determinata non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene
che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave" .
La legge di riforma del 2009 ha pertanto conferito valenza generale al principio sanzionatorio, così
manifestando non soltanto la preoccupazione nei confronti dei futili contenziosi che inflazionano i
ruoli delle sedi giudiziarie, ma –per quanto qui di interesse- ha riconosciuto la possibilità di
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attribuire funzione sanzionatoria al pagamento disposto dal giudice di una somma di denaro non già
a favore dell’erario, bensì della controparte indipendentemente dalla prova del danno.
L’entità dell’ammontare dell’importo liquidato dal giudice costituisce un tema sul quale si è
pronunciato anche il Consiglio di Stato , affermando che “nel silenzio della legge sul punto
concernente l'individuazione dei parametri cui agganciare la determinazione equitativa, possono
considerarsi ammissibili una molteplicità di criteri alcuni dei quali ispirati alla logica dei danni
punitivi di matrice anglosassone che ben si prestano ad assicurare, pur nell'alveo della responsabilità
civile, la (indiretta) funzione di deterrenza sanzionatoria del proliferare dei processi, sganciati come
sono dalla dimostrazione anche presuntiva di un pregiudizio da compensare (il riferimento è al
rimedio del disgorgement che consente all'interessato di colpire l'autore della condotta contra ius
attraverso la retroversione degli utili conseguiti). Tale impostazione ha trovato ingresso nella più
recente giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353
relativa a fattispecie di liquidazione del risarcimento del danno all'immagine ammesso in una logica
non meramente compensativa del pregiudizio subito); in questo caso gli eventuali utili conseguiti a
cagione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo e della sua durata, ben potrebbero
costituire parametro di riferimento, accanto ovviamente, a più tradizionali criteri, come quello del
valore della controversia ovvero al riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla
parte vincitrice (in tal senso è la prassi forense civile formatasi in sede di prima applicazione dell'art.
96, co. 3, c.pc.”
Il principio espresso dal terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rimasto alquanto sotto traccia, è in
realtà dirompente in quanto codifica una forma di pena privata in funzione sanzionatoria di un
comportamento dannoso nei confronti della controparte e della collettività, che ha interesse ad un
efficiente funzionamento del sistema di amministrazione della giustizia.
E’ anche interessante osservare che una tipica figura statunitense presenta indubbie analogie con
questo strumento sanzionatorio: le frivolous lawusit sono azioni legali senza reale fondamento, ad
esempio perché escluse dalle leggi: in base alla Rule 11 delle Federal Rules of Civile Procedure, (c)
Sanctions, “ If, after notice and a reasonable opportunity to respond, the court determines that Rule
11 has been violated, the court may impose an appropriate sanction on any attorney, law firm, or
party that violated the rule or is responsible for the violation” .
Una innovazione di questa portata non poteva non suscitare reazioni di rigetto: il Tribunale di
Firenze ha infatti sollevato d’ufficio la questione di costituzionalità del terzo comma dell’art. 96 cod.
proc. civ., e la Corte, con sentenza 23 giugno 2016, n. 152, ha quindi affrontato il tema del diritto di
cittadinanza nel nostro ordinamento di “una fattispecie a carattere sanzionatorio, che si
discosterebbe dalla struttura tipica dell'illecito civile, propria della responsabilità aggravata di cui ai
primi due commi del medesimo art. 96 e confluirebbe, invece, in quella, del tutto diversa, delle
cosiddette ‘condanne afflittive’”.
La Corte non ha alcun dubbio circa la natura essenzialmente non risarcitoria, bensì sanzionatoria -
con finalità deflattive del carico giudiziario- della disposizione chiamata a valutare, sottolineando
che depongono in questo senso anche significativi elementi lessicali, quali la condanna al
‘pagamento di una somma’ che segna una netta differenza terminologica rispetto al ‘risarcimento
dei danni’, oggetto della condanna cui si riferiscono i primi due commi dello stesso art. 96 cod.
proc. civ.; inoltre, la condanna di cui al terzo comma è sistematicamente collegata al contenuto della
‘pronuncia sulle spese’ e la sua adottabilità ‘anche d'ufficio’ la sottrae all'iniziativa di parte e ne
conferma, ulteriormente, la funzione volta alla tutela di un interesse che trascende quello della parte
stessa, assumendo tratti indubbiamente pubblicistici in ragione di una lesione arrecata al puntuale
funzionamento del sistema giudiziario.
Deve, infatti, essere garantita la ragionevole durata di un giusto processo in attuazione di un
interesse di rango costituzionale: in questa prospettiva il beneficiario della sanzione, come
prospettato dal Tribunale fiorentino in sede di remissione, avrebbe potuto essere, con una diversa
scelta legislativa, lo Stato medesimo.
Come in altri casi considerati dall’ordinamento sarebbe stata una soluzione ragionevole, ma ciò non
comporta per sé la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del 2009,
ascrivibile alla finalità di assicurare una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente
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allo strumento deflattivo, per tacer, poi, del fatto che la regola così delineata si presta a soddisfare
una concorrente finalità indennizzatoria nei confronti della parte vittoriosa -pregiudicata anch'essa
da una temeraria chiamata in giudizio- nelle non infrequenti ipotesi in cui sia arduo per essa provare
l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento accordato dai
primi due commi dell'art. 96 cod. proc. civ.
La norma oggetto del giudizio di costituzionalità non presenta, quindi, connotati di
irragionevolezza, ma riflette una fra le possibili opzioni del legislatore, la cui discrezionalità non è
costituzionalmente vincolata nell'individuare il beneficiario di una misura che sanziona un
comportamento processuale abusivo fungendo, al contempo, da deterrente al radicarsi di simili
condotte.
Non appare fuori luogo, a questo punto, ritenere che la funzione sanzionatoria di una condanna
correlata ad un comportamento socialmente reprovevole abbia pieno diritto di cittadinanza nel
nostro ordinamento, con quali ripercussioni future è da vedere.
Altrettanto risalenti sono le radici di un altro caso in cui il legislatore ha dato recentemente prova di
guardare con favore alle sanzioni di tipo ‘privato’: è curiosa la sorte dell’art. 70 disp. att. cod. civ.
istitutivo della sanzione di cento lire a favore del bilancio condominiale per ogni infrazione al
regolamento, a lungo forse l’unico caso di pena privata presente nel nostro ordinamento, lasciato -
di fatto- morire per la mancata rivalutazione della sanzione –ridicolmente divenuta € 0,05- che la l.
11 dicembre 2012, n. 220 in sede di riforma del condominio ha rivitalizzato elevando l’importo a €
200 ed, in caso di recidiva, a € 800.
Molte sono le fattispecie rispetto alle quali il legislatore ha dato accesso in epoca recente, ma non
solo, a strumenti sanzionatori, ed è forse l’ambito giuslavoristico quello che presenta le maggiori
opportunità di sviluppo dei rimedi non direttamente risarcitori: la sentenza delle S.U. è molto
accurata nella ricognizione delle numerose fattispecie .
L’indicazione delle S.U. è chiara: è sterile la ricerca di una piena corrispondenza fra istituti stranieri
ed istituti italiani, e non presenta alcuna “utilità chiedersi se la ratio della funzione deterrente della
responsabilità civile nel nostro sistema sia identica a quella che genera i punitive damages.
L'interrogativo è solo il seguente: se l'istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con
l'intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione”.
La risposta si trova, sempre ad avviso delle S.U., nella verifica del principio di legalità, secondo il
quale la condanna straniera a ‘risarcimenti punitivi’ deve essere riposta “su una fonte normativa
riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate,
che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità. Deve esservi insomma una legge, o simile fonte,
che abbia regolato la materia ‘secondo principi e soluzioni’ di quel paese, con effetti che risultino
non contrastanti con l'ordinamento italiano”.
Fondamentale per l’analisi della compatibilità è, comunque, l'art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, relativo ai "Principi della legalità e della proporzionalità dei reati
e delle pene", la cui applicazione comporta che “il controllo delle Corti di appello sia portato a
verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra
quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione”
in quanto “la proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a prescindere da questo
disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile”.
Grande attenzione deve essere prestata agli effetti che la pronuncia del giudice straniero può
produrre in Italia, con la profondità della verifica che si deve dedicare al recepimento “di un istituto
sconosciuto, ma in via generale non incompatibile con il sistema”.
L’affermazione è, comprensibilmente, di enorme portata innovativa, e risolve, quindi, in modo
affermativo l’annosa questione della compatibilità con l’ordinamento delle sanzioni punitive, o
deterrenti, consentendo alle S.U. di enunciare un principio di diritto dalle grandi implicazioni
evolutive.
“Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la
sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione
di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.
Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine
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statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una
pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa
nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la
prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione,
unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico”.
La decisione resa a s. u. dal Supremo Collegio il 5 luglio 2017 appare potenzialmente foriera di
sviluppi di grande interesse, specie –ma non solo- se il legislatore vorrà cogliere le dirompenti
indicazioni che essa offre.
L’approfondimento dell’attuale latitudine della nozione di ordine pubblico, nella prospettiva
transnazionale, il riconoscimento al sistema della responsabilità civile di funzioni diverse da quella
meramente risarcitoria, costituiscono principi con i quali non ci si potrà non confrontare di fronte
ad “un humus comune in cui si sviluppano e si radicano principi generali che finiscono per
comporre un diritto privato non più domestico, ma tale da pervadere tutti i Paesi europei, e perciò
denominato ‘diritto privato europeo’” .
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I punitive damages nordamericani: Bundesgerichtshof, Cour
de cassation e Sezioni Unite della Cassazione a confronto
Di Mauro Tescaro
Professore Aggregato di Diritto del Lavoro – Universtà di Verona
I. – Introduzione
La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16601 del 2017, in merito alla possibilità di
eseguire in Italia una pronuncia nordamericana di condanna a punitive damages , e al tempo stesso
in merito alla funzione, o per meglio dire alle funzioni della responsabilità civile , è senza dubbio
destinata a essere un punto di riferimento e a suscitare numerose riflessioni da tante prospettive
diverse.
La particolare prospettiva che si intende proporre in questa sede è quella di un confronto tra la
pronuncia italiana e le paragonabili – in quanto provenienti anch’esse dai vertici delle relative
giurisdizioni e in quanto divenute anch’esse punti di riferimento nei rispettivi Paesi – pronunce di
Francia e Germania, ovverosia i due ordinamenti giuridici europei cui il nostro, tradizionalmente,
più intensamente si ispira.
Il confronto riguarderà innanzi tutto la questione dei punitive damages nordamericani, ma sarà poi
anche l’occasione per talune riflessioni più generali sulle diverse tecniche di redazione delle sentenze
e di decisione giurisprudenziale nei principali Paesi di civil law.
II. – La posizione del Bundesgerichtshof del 1992
In Germania, la pronuncia fondamentale – nonostante che non manchino, nella stessa
giurisprudenza tedesca, posizioni almeno in parte dissonanti – rimane ancora oggi un Urteil del
Bundesgerichtshof del 1992 .
Il caso di specie concerne un cittadino tedesco di nascita, il quale aveva poi acquistato pure la
cittadinanza degli Stati Uniti d’America, dove aveva fino a un certo punto anche vissuto, e il quale,
dopo essersi trasferito in Germania, essendo lì titolare di un patrimonio immobiliare, è condannato,
da un giudice statunitense, innanzi tutto a una lunga pena detentiva per avere abusato sessualmente
di un adolescente, cittadino nordamericano. Quest’ultimo soggetto ottiene poi, da una diversa
autorità giudiziaria nordamericana, pure la condanna del reo a un notevole risarcimento
complessivo , e chiede dunque che la medesima condanna sia dichiarata eseguibile in Germania,
arrivando appunto dinanzi al BGH. La sentenza statunitense non contiene una illustrazione
dettagliata né della fattispecie concreta né delle motivazioni della decisione, ma dal verbale del
processo nordamericano si desumono, innanzi tutto, le seguenti voci risarcitorie: una cifra
trascurabile a titolo di spese mediche già sostenute, una cifra importante a titolo di spese mediche
future, nonché una cifra significativa per costi di soggiorno che si prevedono necessari a tale ultimo
fine. Davvero elevata è, inoltre, la quantificazione a titolo di – potremmo tradurre – danno non
patrimoniale. Pressoché pari, o per meglio dire di poco superiore alla somma di tutte le altre voci
indicate in precedenza è, poi, la quantificazione a titolo di punitive damages .
In estrema sintesi, il BGH adotta una impostazione particolarmente favorevole al danneggiato
straniero in relazione a tutte le voci di danno diverse dal risarcimento punitivo, nonostante che tali
voci di danno, in un caso analogo che fosse stato deciso da un giudice tedesco secondo il diritto
interno tedesco, sarebbero risultate, per motivi diversi, da escludere o almeno da limitare
notevolmente nella loro quantificazione , e una impostazione di segno opposto in relazione ai
punitive damages, con riguardo ai quali si conclude che «una sentenza degli Stati Uniti d’America in
merito a un risarcimento punitivo […] di ammontare non irrilevante, riconosciuto globalmente in
aggiunta all’attribuzione di un risarcimento per danni patrimoniali e non patrimoniali, non può, di
regola, essere dichiarata, sotto tale profilo, eseguibile in Germania» .
La sentenza tedesca integra, nella sostanza, un pregevole saggio dottrinale, essendo le citazioni non
solo della giurisprudenza precedente ma anche della copiosa dottrina in argomento continue e
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appropriate, oltre che facilmente verificabili da parte di chiunque (il BGH, infatti, proprio come si
addice a un saggio dottrinale, precisa persino i numeri di pagina delle opere di volta in volta
richiamate).
La medesima sentenza, anche se è scritta con uno stile tutto sommato essenziale, è assai estesa,
soprattutto in quanto si preoccupa di argomentare approfonditamente (ancora una volta, come si
addice a un saggio dottrinale) le proprie tesi, e così anche la già menzionata scelta di una netta
chiusura ai puntive damages, per la quale si fa leva su due argomentazioni fondamentali (incentrate
l’una sul principio di proporzionalità, con il quale inesorabilmente contrasterebbe il fatto che una
sentenza di condanna civile persegua interessi pubblici da ricondurre al monopolio punitivo dello
Stato, al di fuori delle relative garanzie sostanziali e procedurali; e l’altra sul principio di uguaglianza,
nel senso che l’introduzione dei punitive damages in un ordinamento che d’ordinario non li
conosce si tradurrebbe in una irragionevole disparità di trattamento dei creditori nazionali rispetto
ai creditori stranieri), accennandosene pure una terza (consistente nel dubbio che il risarcimento
punitivo statunitense, pur avendo natura civilistica, ma perseguendo finalità pubblicistiche affini a
quelle delle pene criminali, contrasti altresì con il principio del ne bis in idem in materia penale).
Il BGH, inoltre, argomenta diffusamente anche in prospettiva comparatistica, soprattutto (ma non
solo: per esempio chiarendosi, in un punto della sentenza, come pochi altri Stati nel mondo
contemplino i punitive damages) con riguardo al diritto statunitense. La sentenza tedesca lascia
dunque trasparire la convinzione che occorra avvicinarsi alla materia rinunciando a ogni aprioristico
particolarismo giuridico, e così anche rispettando massimamente il diritto nordamericano: per
questo motivo, la (non) compatibilità dei punitive damages con l’ordine pubblico tedesco è valutata
solo all’esito di una dettagliata ricostruzione dei tratti essenziali dell’istituto nel Paese di origine .
III. – La posizione della Cour de cassation francese del 2010
In Francia, la pronuncia di riferimento – sia per la dottrina sia per la giurisprudenza – risale al 2010
.
Nel caso di specie, una coppia di coniugi statunitensi aveva acquistato, per il prezzo di circa 800.000
dollari , per finalità di svago, una barca di pregio (precisamente un catamarano) prodotta da una
società francese. Tale barca era però risultata gravemente difettosa per numerosi motivi diversi, e la
società francese aveva tenuto un comportamento particolarmente riprovevole e malizioso, avendo
essa occultato alcuni vizi fondamentali insorti già prima della consegna ed essendosi poi anche
rifiutata di effettuare le necessarie riparazioni. I coniugi ottengono dunque una sentenza
statunitense che condanna la società francese al pagamento di più di 3 milioni di dollari, di cui poco
meno della metà a titolo di punitive damages , e vorrebbero eseguirla in Francia, giungendo, all’esito
di un iter processuale piuttosto complicato, dinanzi alla Cour de cassation, la quale afferma che, «si
le principe d’une condamnation à des dommages-intérêts punitifs, n’est pas, en soi, contraire à
l’ordre public, il en est autrement lorsque le montant alloué est disproportionné au regard du
préjudice subi et des manquements aux obligations contractuelles du débiteur». La conclusione, in
altre parole, è che l’esecuzione in Francia di simili decisioni straniere è in linea di principio
concedibile, salva però la necessità di verificare di volta in volta la proporzionalità del risarcimento
punitivo, che nel caso di specie mancherebbe, negandosi così, in relazione al medesimo caso di
specie, qualsivoglia esecuzione – sia pure con riguardo alle sole voci risarcitorie meramente
compensative – della sentenza statunitense.
La pronuncia francese può sembrare, a prima vista, una significativa apertura ai punitive damages
nordamericani (e proprio in questo senso è frequentemente citata in dottrina e in giurisprudenza ),
ma il presupposto della proporzionalità, pur rimanendo ampiamente indeterminato, si rivela
pesantissimo, in quanto – vale la pena di ribadirlo – nel caso di specie è ritenuto senz’altro assente,
nonostante che il risarcimento punitivo non fosse nemmeno pari alla somma di tutte le altre voci di
danno, e in quanto tale assenza – sia pure probabilmente anche a causa di una errata strategia
processuale degli attori, i quali non si erano preoccupati di domandare l’esecuzione parziale della
sentenza straniera – porta addirittura alla conseguenza, che pare francamente eccessiva , della
negazione di qualsivoglia risarcimento. Ciò ha spinto taluni commentatori francesi a parlare di un
27
«trompe-l’œil» giurisprudenziale , ovverosia di una sostanziale, netta chiusura ai punitive damages
nordamericani (sia pure mascherata da apertura).
La sentenza non menziona alcuna posizione dottrinale né lascia anche solo vagamente intendere di
avere preso spunto da particolari elaborazioni teoriche precedenti, nonostante che non manchino,
nella letteratura francese successiva, rivendicazioni di autori che sottolineano di avere proposto
sostanzialmente la medesima soluzione poi fatta propria dalla Cour de cassation .
Conformemente alla ben nota tradizione francese (in linea di massima, quella del giudice che
dovrebbe limitarsi a essere bouche de la loi ), la sentenza in esame è, inoltre, brevissima, dedicando
essa poche righe, per non dire poche parole alla specifica questione dei punitive damages, senza
svolgere vere e proprie argomentazioni al fine di sostenere la tesi propugnata (un poco più
approfondito, ma sempre essenziale, è il ragionamento nella parte in cui si evidenziano gli aspetti
più rilevanti della fattispecie concreta).
La Cour de cassation non compie, inoltre, il benché minimo riferimento allo stato dell’arte sui
punitive damages in ordinamenti giuridici stranieri, evitando essa anche solo di accennare i loro
tratti essenziali negli Stati Uniti d’America.
IV. – La posizione delle Sezioni Unite della Cassazione del 2017
Il caso di specie (particolarmente complicato) affrontato dalla sentenza delle Sezioni Unite della
Cassazione n. 16601 del 2017 concerne una società italiana condannata, negli Stati Uniti d’America,
a pagare una somma complessiva di poco superiore a 1.500.000 dollari a una società nordamericana
al fine di manlevare quest’ultima, la quale aveva pagato una cifra di poco inferiore a un motociclista
statunitense che aveva subito danni alla persona nell’ambito di un incidente accaduto durante una
gara, a causa di un vizio del casco prodotto dalla società italiana e rivenduto dalla società
nordamericana. Il motocilista aveva precedentemente proposto, anche a titolo di punitive damages,
alla società nordamericana (peraltro coinvolgendo pure la società italiana e permettendone
l’intervento nelle trattative), il pagamento in parola nell’ambito di una transazione, prontamente
accettata da quest’ultima, che aveva poi corrisposto la somma concordata e però anche ottenuto
alcune pronunce statunitensi in cui si sanciva, come già accennato, l’obbligo di manleva in capo alla
società italiana. Di tali pronunce è chiesto il riconoscimento in Italia, che la Corte d’appello di
Venezia concede, precisando, tra l’altro, che la condanna della società italiana trovava titolo non
nell’obbligo di risarcimento del danno in favore del motociclista danneggiato, ma nell’obbligo di
manleva verso la società nordamericana, senza alcun riguardo ai punitive damages. La società
italiana, però, ricorre per Cassazione, dove si giunge alla citata pronuncia delle Sezioni Unite le
quali, con dettagliate e persuasive argomentazioni (su cui non vale la pena di soffermarsi in questa
sede), innanzi tutto confermano come il caso di specie, per il suo particolare atteggiarsi, nemmeno
ponga la questione dei punitive damages, essendo, già solo per questa via, il ricorso senz’altro
rigettato. Ciò nonostante, le medesime Sezioni Unite ritengono di potersi pronunciare anche su tale
questione (ai sensi dell’art. 363, 3° co., c.p.c.), enunciando il seguente principio di diritto: «Nel
vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera
patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di
deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente
incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il
riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però
corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative
che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti
quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto
straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».
Orbene, le Sezioni Unite, pur attuando senz’altro un revirement rispetto all’orientamento
giurisprudenziale tradizionale , lo fanno, a ben vedere, in modo particolarmente cauto, o moderato
(soprattutto considerate le innovazioni più radicali che erano state prefigurate da una precedente
ordinanza interlocutoria e da parte della dottrina ).
Con riguardo alle funzioni della responsabilità civile italiana, infatti, alla generalità che la massima
28
sembra assegnare – apparentemente sullo stesso piano di quella compensativa – pure alle funzioni
deterrente e sanzionatoria, si contrappone la motivazione della sentenza dove si trova, invece,
chiaramente affermato come, nel diritto italiano, tali ultime funzioni possano essere assunte dalla
responsabilità civile solo là dove specifiche previsioni di legge lo prevedano, nel doveroso rispetto
degli artt. 23 e 25, comma 2, Cost. , ribadendosi testualmente l’«esigenza di smentire sollecitazioni
tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa», e altresì la
«preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto». Così precisata, la tesi è
condivisibile, sia in quanto tiene conto dell’orientamento dottrinale ormai dominante (pur non
mancando varie posizioni diverse) in Italia, sostanzialmente conformandosi a esso, sia soprattutto in
quanto è particolarmente moderata nel “superare” il tradizionale principio della riparazione
integrale del danno e la connessa funzione squisitamente compensativa della responsabilità civile ,
che risultano anzi, a ben vedere, riaffermati, ammettendosi solo la possibilità di talune eccezioni,
qualora la legge italiana specificamente le preveda.
Venendo più direttamente alla riconoscibilità in Italia di sentenze straniere di condanna a punitive
damages, le Sezioni Unite sostanzialmente seguono – sia pure senza dichiararlo espressamente – il
modello francese, però dimostrandosi ancora più caute, in quanto, come presupposti per il
riconoscimento, indicano, in aggiunta alla proporzionalità (su cui si incentra, come già rammentato,
la posizione della Cour de cassation francese), anche la tipicità e la prevedibilità della sanzione
straniera (presupposti, questi, evidentemente cumulativi e che dovranno essere in futuro
attentamente verificati in relazione a ciascun caso di specie). L’idea di fondo pare insomma che le
fondamentali garanzie sostanziali (ma non anche quelle procedurali) del diritto penale debbano
valere pure per le sanzioni civili para-penali .
La sentenza italiana è fortemente debitrice, in più punti, verso talune elaborazioni dottrinali, non
facendo essa nulla per nasconderlo, e anzi non di rado apertamente sottolineandolo (con
espressioni del tipo: «casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico», «la dottrina ha spiegato», «è
stato notato anche in dottrina»), sia pure, come di consueto per la Corte di Cassazione, senza citare
mai né i nomi degli autori, né le loro opere.
La medesima sentenza, inoltre, pur essendo più breve di altre della giurisprudenza italiana (senza
contare che già solo le particolarità della fattispecie concreta indubbiamente richiedevano un
notevole approfondimento), è relativamente ampia (tanto più che si tratta, nella parte poco sopra
sintetizzata, sostanzialmente di un obiter dictum).
Infine, le Sezioni Unite – a differenza dell’ordinanza interlocutoria del 2016, ricca di riferimenti
comparatistici – evitano di menzionare le posizioni assunte in argomento da altri Paesi di civil law.
Poiché è però certo che i Supremi giudici erano a conoscenza di dette posizioni , non rimane che
ritenere che essi, trascurandole, abbiano deciso di sottolineare l’autonomia della nostra
giurisdizione, cioè il fatto che essa non ha alcun bisogno di trovare al di fuori dei nostri confini (e, a
ben vedere, nemmeno entro i confini dell’Unione europea, perlomeno in relazione a una questione,
come quella in esame, in cui si trattava di applicare una disciplina squisitamente nazionale, ovverosia
l’art. 64 della l. n. 218 del 1995, e la nozione di ordine pubblico in essa contenuta) argomentazioni a
supporto delle proprie scelte fondamentali. Vi sono peraltro, nella sentenza italiana, molteplici
riferimenti, sia pure sintetici e collocati solo in chiusura, allo stato dell’arte del diritto statunitense.
V. – Riepilogo dei diversi approcci: con riguardo ai punitive damages nordamericani
Là dove si volesse stilare una sorta di classifica del maggiore o minore favore verso l’istituto
straniero, si potrebbe, a prima vista, pensare di mettere al primo posto la Cour de cassation, che
apre ai punitive damages con la sola limitazione della proporzionalità, al secondo posto le Sezioni
Unite, che pongono invece le tre concorrenti limitazioni della tipicità, della prevedibilità e della
proporzionalità, e al terzo e ultimo posto il Bundesgerichtshof, che considera il risarcimento
punitivo statunitense – sia pure solo se «di ammontare non irrilevante», tale essendo senz’altro
giudicato, peraltro, già solo un risarcimento punitivo all’incirca pari alla somma di tutte le altre voci
di danno – radicalmente incompatibile con l’ordine pubblico tedesco.
All’esito di un più attento esame dei contenuti delle sentenze, e delle loro conseguenze sui casi di
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specie di volta in volta affrontati, peraltro, tale classifica risulta da modificare, se non da ribaltare. In
quest’ottica, al primo posto dovremmo infatti collocare il Bundesgerichtshof, il quale si occupa di
una fattispecie concreta in cui il danneggiato straniero, nonostante la negazione di qualsivoglia
risarcimento punitivo, finisce per ottenere un ristoro particolarmente elevato, in ogni caso molto
più elevato di quello che avrebbe potuto ottenere là dove si fosse applicato il diritto tedesco; e
dovremmo senz’altro collocare all’ultimo posto la Cour de cassation, la quale affronta un caso di
specie in cui, nonostante la declamazione apparentemente di notevole apertura ai punitive damages,
il danneggiato straniero non riesce a conseguire nemmeno il risarcimento puramente compensativo.
La Sezioni Unite, invece, più che da collocare nella posizione intermedia sopra ipotizzata, risultano
forse, per meglio dire, non classificabili, in quanto la fattispecie concreta di cui si occupano, a ben
vedere, nemmeno concerne i punitive damages.
VI. – (segue) E con riguardo alle tecniche di redazione delle sentenze e di decisione
giurisprudenziale
Tentiamo ora di spingere il confronto tra le citate pronunce persino oltre, aprendolo alla
prospettiva assai più generale delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di decisione
giurisprudenziale.
Dal punto di vista del rapporto tra giurisprudenza e dottrina, la sentenza più debitrice verso la
letteratura giuridica è senza dubbio quella del Bundesgerichtshof, potendo essa stessa considerarsi –
anche proprio per la sua tecnica di redazione –, nella sostanza, un saggio dottrinale, per di più
pregevole. A questo modello si avvicina fortemente la pronuncia delle Sezioni Unite, la quale
peraltro si limita a lasciare appena trasparire i suoi riferimenti culturali, che sono comunque
abbastanza facilmente individuabili da parte di chi conosca la – sia pure copiosa e sempre più
difficile da dominare – letteratura giuridica in argomento, mentre da esso si allontana radicalmente
la sentenza della Cour de cassation, la quale – non esplicitando né lasciando intendere qualsivoglia
consonanza con una o più posizioni dottrinali – integra un chiaro esempio della perdurante solidità
(che altri potranno definire rigidità) di un ordinamento giuridico, quello francese, che sembra
riuscire a mantenere interdipendenti ma nettamente separati – in ossequio a una precisa,
rispettabilissima tradizione nazionale in tal senso – i ruoli di legislatore, giurisprudenza e dottrina .
Considerando poi il punto di vista della maggiore o minore concisione dei provvedimenti
giurisprudenziali, alla brevità massima – si potrebbe pensare eccessiva, in realtà perfettamente
giustificabile proprio nella prospettiva, appena accennata, di un ruolo giurisprudenziale nettamente
separato da quello dottrinale, là dove solo a quest’ultimo compete di esplicitare i fondamenti teorici
delle tesi affermatesi nel diritto vivente – della pronuncia della Cour de cassation si
contrappongono le entrambe assai più estese sentenze del Bundesgerichtshof e delle Sezioni Unite,
le quali appaino pertanto, sotto questo profilo, tendenzialmente accostabili (anche se taluni
potrebbero criticamente osservare, con riguardo alla sola pronuncia italiana, come essa si dilunghi
nell’affrontare, nella sostanza, un semplice obiter dictum; argomento, questo, cui si potrebbe
peraltro replicare che i tempi per un revirement, sia pure solo “moderato”, erano ormai considerati
maturi dai più).
La sentenza italiana, peraltro, si contraddistingue per una eleganza stilistica magistrale, contenendo
essa formulazioni (si pensi, per limitarsi a un solo esempio tra i tanti, al punto sull’ordine pubblico,
specialmente dove si afferma che le sentenze straniere debbono «misurarsi con il portato della
Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle
parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale», aggiungendosi che
«Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato
di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il
contesto internazionale in cui lo Stato si colloca») di una bellezza espressiva e al tempo stesso anche
di una efficacia argomentativa che solo le migliori opere accademiche sanno d’ordinario
raggiungere.
Infine, dal punto di vista della disponibilità, oppure non, ad argomentare anche in prospettiva
comparatistica, si colloca nella posizione di maggiore apertura il Bundesgerichtshof, ma pure le
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Sezioni Unite, come abbiamo rammentato, esplicitano quantomeno lo stato dell’arte essenziale del
diritto statunitense, mentre è netta la chiusura della Cour de cassation, la posizione della quale sul
punto potrebbe, per un verso, giustificarsi semplicemente alla luce della estrema sinteticità della sua
pronuncia, anche se, per altro verso, si può ipotizzare la volontà dei giudici francesi di ostentare (se
non la loro superiorità, almeno) la loro più totale autonomia rispetto a qualsivoglia ordinamento
giuridico straniero.
VII. – Conclusioni
La recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sui punitive damages, pur realizzando
un importante revirement della giurisprudenza italiana, può essere considerata, nel complesso,
“moderata”, collocandosi essa, tutto sommato, in una sorta di posizione intermedia tra il modello
francese e quello tedesco, non solo per la tesi di fondo prescelta (e per le sue probabili conseguenze
applicative), ma anche dal punto di vista delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di
decisione giurisprudenziale.
Integrando la moderazione innegabilmente una virtù, la pronuncia italiana può senz’altro essere
apprezzata; anche se taluni potrebbero criticamente osservare che il modello tedesco della sentenza
quale – per così dire – saggio dottrinale e il modello francese della sentenza quale – sempre per così
dire – mera applicazione al caso di specie di regole decise altrove hanno entrambi (sia pure per
motivi diversi, innanzi tutto storici) sicuramente senso ed efficacia per il funzionamento dei sistemi
giuridici in cui si sono rispettivamente sviluppati solo se mantenuti puri, sconsigliandosi
conseguentemente vie intermedie o ibride come quella italiana.
E però, anche là dove si condividesse quest’ultimo ragionamento, e si volesse pertanto auspicare
una evoluzione della tecnica di redazione delle sentenze italiane più nettamente verso il modello
tedesco (magari con citazioni esplicite e immediatamente verificabili della dottrina), oppure più
nettamente verso il modello francese (magari con una stringente brevità che lasci solo ad altri il
compito di precisare le basi teoriche), dovrebbe, a parere di chi scrive, tenersi ferma almeno la più
pregevole particolarità italiana, che emerge così chiaramente proprio dalla sentenza delle Sezioni
Unite qui commentata, ovverosia la straordinaria (bellezza e) ricchezza semantica della nostra lingua
nazionale. Che essa sia mantenuta, anche in relazione alle controversie più spiccatamente
internazionali, la sola lingua ufficiale di redazione delle sentenze italiane (salve ovviamente le
deroghe già previste per il doveroso rispetto di talune autonomie locali ) potrà magari sembrare un
auspicio piuttosto scontato, ma vale comunque la pena di formularlo.
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Appunti sulla inarrestabile metamorfosi della responsabilità
solidale negli appalti
Di Chiara Colosimo
Giudice della sez. Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano
Abstract
L’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, che regola la responsabilità solidale di committenti e
subappaltatori per crediti retributivi e contributivi, è una delle disposizioni più travagliate dell’ultimo
decennio. Quella attualmente in vigore, risultato di oltre sei novelle intervenute per la maggior parte
nell’ultimo lustro, si presenta quale norma oltremodo complessa, destinata a regolamentare tanto
profili sostanziali quanto processuali. Nel prossimo futuro, tuttavia, il contenzioso non potrà che
essere disciplinato dalla disposizione previgente (così modificata dall’art. 4, co. 31, lett. a) e b) Legge
92/2012) che non ha mancato di sollevare, e ancora presenta, molteplici criticità soprattutto di
ordine processuale. Il presente lavoro affronta le principali problematiche di questa norma ibrida,
avendo cura di esaminare non solo le questioni processuali preliminari più tipiche, ma anche le
peculiarità derivanti dall’intersecarsi di molteplici posizioni giuridiche contrapposte. L’esame si
completa con l’approfondimento riservato al capitolo della responsabilità solidale delle Pubbliche
Amministrazioni.
1. Premessa.
Accostarsi allo studio della disciplina della responsabilità solidale negli appalti delineata dall’art. 29,
co. 2, D. Lgs. 276/2003 significa doversi confrontare con le molteplici modifiche che l’hanno
interessata.
Si tratta, infatti, di una delle disposizioni più travagliate dell’ultimo decennio.
Per come originariamente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, la norma si limitava a disporre “in
caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con
l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i
trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”.
Quella attualmente in vigore è una previsione ben più articolata – che segue, peraltro, una versione
ancor più complessa sotto il profilo sostanziale e processuale – che prevede “in caso di appalto di
opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con
l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla
cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di
trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le
sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente che ha
eseguito il pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai
sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e può
esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali”.
Il vigente assetto normativo è il risultato di reiterati interventi legislativi: l’originario comma
secondo è stato sostituito dall’art. 6, co. 1, D. Lgs. 251/2004 , dall’art. 1, co. 911, Legge 296/2006 ,
n. 296, dall’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito, con modificazioni, in Legge 35/2012) , dall’art. 4,
co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012 , dall’art. 28, co. 2, D. Lgs. 175/2014 e, infine, modificato
dall’art. 2, co. 1, lett. a) e b), D.L. 25/2017 (convertito, senza modificazioni, in Legge 49/2017) .
Deve rammentarsi che, a norma dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013, convertito con modificazioni in
Legge 99/2013, le disposizioni di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 trovano applicazione anche
in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei
lavoratori con contratto di lavoro autonomo.
La disciplina in commento, infine, si completa con la seconda parte dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013
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che ha previsto che “le medesime disposizioni non trovano applicazione in relazione ai contratti di
appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Le disposizioni dei contratti collettivi di cui all’articolo 29, comma
2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, hanno effetto
esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto con
esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”.
Come si avrà modo di osservare, l’applicazione di questa travagliata disposizione ha presentato
severe criticità soprattutto in ordine al precipitato delle innovazioni legislative sul rapporto
processuale tra i soggetti coinvolti nella filiera.
La ragione del continuo intervento del Legislatore può ben comprendersi ove si rifletta sul fatto che
si tratta di una previsione destinata a porre a carico di soggetti estranei al rapporto di lavoro
obbligazioni fondamentali del rapporto stesso a fronte della sussistenza di condizioni meramente
oggettive: una norma che tratteggia un’ipotesi di responsabilità solidale destinata ad avere ricadute
sostanziali oltremodo rilevanti nelle relazioni commerciali e imprenditoriali e che rappresenta,
talvolta, un ostacolo alle stesse.
In un simile contesto, ancor più in una realtà socio-economica caratterizzata dalla scarsità di risorse
e da una generale crisi delle relazioni industriali, la ricerca dell’equilibrio tra i contrapposti interessi è
quanto mai complessa e critica. Proprio nella criticità degli equilibri economici e sociali generati dal
fenomeno in esame, tuttavia, deve essere ricercata la ratio della disciplina di cui si discute.
Come osservato dal Parlamento Europeo nella risoluzione dell’11 luglio 2007 , “oggigiorno in molte
industrie il processo produttivo assume la forma di una catena di produzione frammentata che si è
allungata ed estesa formando una catena logistica (in senso sia orizzontale che verticale) e una
catena di valore a carattere economico-produttivo con determinati compiti o funzioni specialistiche
che vengono spesso a piccole imprese o a lavoratori autonomi”, inoltre “il subappalto e
l’outsourcing verso imprese indipendenti non genera indipendenza”, ma crea “squilibri economici e
sociali tra i lavoratori e potrebbe scatenare una corsa al ribasso delle condizioni di lavoro” .
Sulla base di tali rilievi, il Parlamento Europeo ha ritenuto di accogliere “favorevolmente il fatto che
otto Stati membri (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Spagna)
abbiano dato una risposta ai problemi legati agli obblighi dei subappaltatori in qualità di datori di
lavoro attraverso la definizione di meccanismi nazionali di responsabilità e incoraggia gli altri Stati
membri a valutare l’introduzione di soluzioni analoghe”, con l’auspicio che la Commissione
definisse “uno strumento giuridico comunitario chiaro, che introduca la responsabilità solidale a
livello comunitario” .
2. Le questioni – rectius “complicazioni” – preliminari di una norma ibrida.
Sotto il profilo temporale, i continui interventi del Legislatore pongono in primo luogo all’interprete
un evidente problema di coordinamento in tutti quei casi in cui i crediti azionati in giudizio sono
maturati in un periodo anteriore a quello di entrata in vigore delle novelle legislative.
A seguito dell’introduzione del beneficio della preventiva escussione e della previsione del
litisconsorzio necessario tra i soggetti della filiera, si sono registrati due distinti orientamenti.
Un primo orientamento guardava alle norme processuali di cui all’art. 29 D. Lgs. 276/2003 come a
un unicum rispetto alla disciplina sostanziale: ragionando sulla strumentalità del litisconsorzio
necessario rispetto al beneficio della preventiva escussione, applicava il regime processuale in vigore
al tempo del sorgere del credito del lavoratore . L’orientamento opposto riteneva di dover più
semplicemente scindere il piano sostanziale da quello processuale, disciplinando il primo secondo le
regole in vigore al tempo in cui i crediti retributivi o contributivi erano sorti, e il secondo in virtù
del principio tempus regit actum: applicando, dunque, le nuove regole processuali a tutti i giudizi
introdotti in epoca successiva alla novella, indipendentemente dalla data di maturazione del diritto
di credito.
Avuto specifico riguardo alle modifiche introdotte con l’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito con
modificazioni in Legge 35/2012) e l’art. 4, co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012, la questione era
destinata a trovar soluzione nel fisiologico scorrere del tempo. Infatti, in ragione del regime
decadenziale previsto in materia, le possibilità di scissione temporale tra maturazione del credito e
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disciplina processuale di riferimento parevano destinate a esaurirsi progressivamente.
Sennonché, come anticipato, la norma ha subito una ulteriore modifica con l’art. 2, co. 1, lett. a) e
b), D.L. 25/2017, convertito senza modificazioni dalla Legge 49/2017, che ha soppresso la parte
della disposizione che stabiliva “il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in
giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il
committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della
preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In
tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può
essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo
l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.
L’intervento normativo è destinato a far risorgere l’originario contrasto.
Chi ha ritenuto, sin dal principio, di guardare al beneficio della preventiva escussione nella sua
essenza di norma sostanziale – rispetto alla quale il litisconsorzio delineato dall’art. 29, co. 2, D. Lgs.
276/2003 si poneva in un rapporto servente, di pura strumentalità – non potrà che dare alla novella
legislativa un’applicazione limitata ai contratti di appalto stipulati dopo la sua entrata in vigore. Il
beneficio della preventiva escussione, infatti, era garanzia introdotta a tutela della posizione del
committente, e non può revocarsi in dubbio che la possibilità di avvalersi di questa peculiare forma
di tutela fosse naturalmente destinata a incidere sugli equilibri del contratto tra committente e
appaltatore.
Per contro, quanti hanno ritenuto di concentrare la propria attenzione sulle ricadute prettamente
processuali delle disposizioni soppresse (sul giudizio di merito, quanto alle problematiche inerenti al
litisconsorzio; sul giudizio di esecuzione, quanto alla possibilità di eccepire il beneficio della
preventiva escussione) non potranno che confermare l’applicazione della regola tempus regit actum.
Questione preliminare che non ha mancato di presentare criticità oltremodo peculiari è anche quella
relativa all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria territorialmente compente.
Soprattutto a seguito dell’introduzione del litisconsorzio necessario, si è registrato il tentativo di
ottenere l’applicazione dell’art. 33 c.p.c. nella parte in cui dispone che “le cause contro più persone
che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono
connesse per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di
residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo”.
Nei giudizi caratterizzati dal contraddittorio tra appaltatore e committente, l’art. 33 c.p.c. è stato
invocato quale disposizione idonea a derogare alla competenza territoriale dei fori speciali previsti
per il rito del lavoro, sul presupposto che simili fattispecie dovrebbero essere disciplinate in ragione
del criterio residuale di cui all’art. 413, co. 7, c.p.c. : meccanismo che consentirebbe di dar luogo a
una sorta di “competenza aggiuntiva” in considerazione della sede legale dei committenti o dei
subappaltatori.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che, “nel caso in cui il lavoratore agisca nei
confronti di due o più datori di lavoro che si sono succeduti nel tempo a seguito di cessione
dell’appalto di opere o servizi, per far valere l’illegittimità della trattenuta sulla retribuzione
effettuata a titolo di trattamento di fine rapporto o di indennità di mancato preavviso, può
convenire ciascun datore di lavoro anche nel foro generale delle persone fisiche o nel foro generale
delle persone giuridiche - pur se l’art. 413, VII comma, cod. proc. civ. fa riferimento solo al primo
di essi - quando la connessione tra le varie domande proposte ecceda il mero cumulo soggettivo tra
cause previsto dall’art. 33 cod. proc. civ. e integri una più intensa ipotesi di connessione, assimilabile
a quelle di cui all’art. 31 cod. proc. civ. ovvero dall’art. 331 cod. proc. civ. pur non vertendosi in
ipotesi di litisconsorzio” .
È un orientamento, tuttavia, che concerne una controversia relativa all’applicazione della
disposizione previgente rispetto a quella novellata dall’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito con
modificazioni in Legge 35/2012) e dall’art. 4, co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012 e al quale, avuto
specifico riguardo al successivo quadro normativo, non pare possibile aderire.
Nell’imporre che il committente dovesse essere “convenuto in giudizio per il pagamento
unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori”, il Legislatore ha guardato alla
necessità di rendere parte dei giudizi ex art. 29 D. Lgs 276/2003 il debitore principale – ossia, il
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datore di lavoro – in quanto unico soggetto in grado di instaurare un sostanziale contraddittorio
nell’accertamento dei crediti del lavoratore.
Considerato che si tratta di un accertamento che ha ad oggetto l’adempimento delle principali
obbligazioni del rapporto di lavoro, non si ritiene che lo stesso possa essere sottratto agli
inderogabili criteri di competenza territoriale previsti dal rito speciale (art. 413 c.p.c.).
La stessa Corte di Cassazione, d’altronde, seppur in relazione alla fattispecie di cui all’art. 1676 c.c.,
ha avuto modo di affermare che, “in tema di competenza territoriale, ove venga simultaneamente
proposta azione nei confronti dell’appaltatore - datore di lavoro con condanna, in solido, ex art.
1676 cod. civ., degli enti committenti, e le domande non si limitino a pretendere il pagamento delle
retribuzioni dovute per le prestazioni eseguite, investendo, come nella specie, il corrispettivo
rispetto alla qualifica contrattuale, all’orario di servizio, ecc., quanto dovuto per tali titoli costituisce
l’oggetto della domanda rivolta al datore di lavoro e solo in seguito a tale accertamento nei
confronti del datore di lavoro, all’esito del quale si cristallizza la pretesa, ovvero al momento
successivo alla definizione del rapporto controverso, sorge la responsabilità sussidiaria, ancorché
solidale, dei restanti chiamati i quali ne subiscono, anche sotto il profilo processuale della
competenza, gli effetti. Peraltro tra i soggetti evocati sussiste soltanto un litisconsorzio processuale,
ed eventuale, stante la posizione sussidiaria e meramente accidentale dei terzi, nei cui confronti si
svolge una domanda autonoma” .
Medesimo accertamento caratterizza le azioni promosse ex art. 29 D. Lgs. 276/2003 poiché, anche
in questo caso, l’accertamento della sussistenza del credito nei confronti del datore di
lavoro/appaltatore è presupposto logico-giuridico – in uno con l’esistenza del contratto di appalto –
dell’accertamento della responsabilità solidale degli altri soggetti della filiera. Peraltro, analogo
accertamento è necessario ai fini della verifica del corretto adempimento da parte del datore di
lavoro dell’obbligazione contributiva, così come emergente dalle buste paga in possesso del
dipendente.
In merito alla richiamata pronunzia della Corte di Legittimità sugli artt. 31 e 33 c.p.c. , si ritiene che
si debba anche tener conto del rapporto tra foro generale (artt. 18 e 19 c.p.c.) e fori speciali (art 413
c.p.c.) per come delineato dalla disciplina codicistica: se i primi prevedono l’applicabilità “salvo che
la legge disponga altrimenti” e l’art. 413, co. 7, c.p.c. trova applicazione “qualora non trovino
applicazione le disposizioni dei commi precedenti”, non pare esservi motivo di derogare ai criteri di
cui all’art 413 c.p.c. ogni volta in cui venga convenuto in giudizio il datore di lavoro quale
legittimato passivo principale del giudizio di accertamento e condanna.
Avuto specifico riguardo al tema della legittimazione attiva, deve rammentarsi che la norma dispone
che il committente e gli altri obbligati solidali sono tenuti “a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i
premi assicurativi dovuti”: stante il tenore della norma, non può revocarsi in dubbio che gli unici
soggetti legittimati siano i lavoratori titolari dei diritti di credito e gli Enti Previdenziali e Assicurativi
cui debbono essere versati i contributi . Deve escludersi, per contro, che l’art. 29 D. Lgs. 276/2003
possa essere autonomamente invocato da uno dei condebitori solidali per agire nei confronti degli
altri condebitori e ottenere da questi ultimi, in tutto o in parte, il pagamento del dovuto.
Ultima questione a portata generale che merita di essere richiamata in premessa è quella che attiene
al riparto degli oneri probatori.
Trattandosi di presupposti costitutivi dell’azione, grava sul lavoratore ricorrente l’onere di
dimostrare l’esistenza del contratto di appalto posto a fondamento dell’azione, l’assegnazione ad
attività che rientrano nell’ambito dello stesso, così come il periodo di svolgimento della prestazione
. A fronte dell’eccezione di decadenza, sarà parimenti onere del lavoratore provare la tempestività
dell’azione.
Per il resto, il riparto degli oneri probatori segue le regole correlate alla struttura del rapporto di
lavoro: grava sulla parte datoriale l’onere di provare il puntuale adempimento delle proprie
obbligazioni, grava sul prestatore l’onere di provare la ricorrenza di quei fatti (orario di lavoro
differente, svolgimento di mansioni superiori, etc.) che possono fondare pretese ulteriori rispetto a
quelle discendenti dal rapporto per come formalizzato.
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3. Le principali problematiche processuali dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 “intermedio”.
Approcciarsi allo studio dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 muovendo dal presupposto della sua
essenza di norma sostanziale significa ammettere che la materia dovrà intendersi regolata –
quantomeno nel futuro più prossimo – più che dalla disposizione attualmente in vigore , ancora da
quella previgente (“intermedia” ), dovendosi in proposito far riferimento alla data di stipula del
contratto di appalto in funzione del quale la prestazione lavorativa è stata resa e non soltanto
all’epoca in cui i crediti sono sorti.
La norma “intermedia” è, senza dubbio, quella contraddistinta dalle maggiori peculiarità di ordine
processuale, prevalentemente circoscritte nel periodo centrale del comma secondo ove si dispone
che “il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento
unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori”, che “il committente
imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva
escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori”, e che “il
giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere
intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa
escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.
Dunque, in occasione delle modifiche più recenti, si è stabilito che il committente imprenditore o
datore di lavoro deve essere convenuto in giudizio “unitamente” agli altri soggetti coinvolti nella
filiera di appalto: si tratta di un’ipotesi di litisconsorzio necessario che, nella fase preliminare del
giudizio, impone al giudice di verificare che siano stati convenuti tutti i soggetti coinvolti in uno
specifico appalto, indipendentemente dalle domande che le parti resistenti possono eventualmente
svolgere nei confronti di terzi chiedendone la chiamata in giudizio.
La previsione del litisconsorzio necessario solleva una molteplicità di problematiche che, allo stato,
non risultano del tutto risolte.
In primo luogo, merita senz’altro una riflessione il rapporto tra procedimento monitorio e
procedimento ordinario.
In passato, non vi era dubbio circa la possibilità per il lavoratore di agire con ricorso per decreto
ingiuntivo per ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo
direttamente, ed esclusivamente, nei confronti del committente. L’unica condizione dell’azione così
promossa era che il prestatore fosse in grado di dimostrare – con idonea documentazione –
l’esistenza dell’appalto tra committente e datore di lavoro, in uno con il periodo di assegnazione allo
stesso.
L’introduzione del litisconsorzio necessario, tuttavia, ha imposto un ripensamento: da un lato, in
presenza di una catena composta da più subappaltatori, non si ritiene più possibile l’emissione di un
decreto ingiuntivo nei soli confronti di uno dei soggetti coinvolti; dall’altro, deve dubitarsi che il
decreto ingiuntivo possa ancora essere emesso provvisoriamente esecutivo.
Se la norma dispone che l’accertamento deve essere compiuto, necessariamente, nell’ambito di un
procedimento che vede convenuti tutti i soggetti interessati dalla filiera di appalto, non può
ammettersi che il vincolo normativo possa essere eluso dal lavoratore semplicemente operando una
scelta processuale – quella dell’azione per decreto ingiuntivo – caratterizzata, peraltro,
dall’emanazione di un provvedimento in assenza di contraddittorio.
La previsione del litisconsorzio necessario, inoltre, è strumentale e direttamente funzionale
all’operatività della seconda parte della norma, ove il Legislatore consente al committente
imprenditore di eccepire il beneficio della preventiva escussione dell’appaltatore e degli eventuali
subappaltatori soltanto nell’ambito del giudizio di merito e, peraltro, in fase di costituzione.
Nel caso della procedura monitoria, la prima occasione per il committente di eccepire il beneficio
della preventiva escussione non potrebbe che essere il giudizio di opposizione, ma la previsione
normativa verrebbe svuotata di efficacia qualora l’azione per decreto ingiuntivo consentisse al
lavoratore di munirsi di un titolo provvisoriamente esecutivo: il committente diventerebbe
potenziale destinatario dell’esecuzione prima di poter, materialmente e giuridicamente, avvalersi
della facoltà di legge.
Una volta eccepito, il beneficio della preventiva escussione non determina nessuna particolare
conseguenza nell’ambito del giudizio di merito: il giudice si limiterà a dare atto in sentenza del
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tempestivo esercizio della facoltà di legge, cristallizzando nel dispositivo l’accertamento del diritto e
la condanna al pagamento di tutti gli obbligati solidali. Gli effetti dell’eccezione si produrranno nella
successiva fase esecutiva atteso che “l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del
committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio
dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.
Quanto alla dimostrazione della “infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore”,
l’orientamento prevalente della giurisprudenza di merito è quello di ritenere sufficiente, nel caso di
fallimento del datore di lavoro, attendere il piano di riparto della procedura e, negli altri casi, che il
lavoratore dimostri di aver tentato infruttuosamente il pignoramento.
A seguito dell’introduzione litisconsorzio necessario, altri aspetti che debbono necessariamente
essere considerati sono quelli relativi alle vicende processuali che coinvolgono i partecipanti della
filiera e quelli propri dei rapporti interni tra i vari soggetti dell’appalto.
Sotto il profilo della domanda, deve ritenersi esclusa la possibilità per il lavoratore-creditore di
frazionare soggettivamente le proprie pretese, azionando in tempi diversi le medesime domande nei
confronti di soggetti differenti.
È evenienza tutt’altro che rara soprattutto avuto riguardo alla posizione del datore di lavoro e nelle
cause in cui le parti convenute restano contumaci. Può accadere infatti che, in un giudizio promosso
nei soli confronti di quest’ultimo, le allegazioni e le deduzioni della parte ricorrente non consentano
al giudicante di avvedersi dell’esistenza di una catena di appalti e subappalti e che,
conseguentemente, la decisione sia erroneamente assunta nei confronti di una sola parte dei soggetti
coinvolti nella filiera.
In siffatte ipotesi, tuttavia, deve ritenersi preclusa al lavoratore la possibilità di agire in un momento
successivo nei confronti dei soggetti intermedi in quanto, diversamente argomentando, si
ammetterebbe l’ingresso di condotte processuali volte a vanificare a priori la portata e la ratio
dell’introduzione del litisconsorzio necessario. In proposito, il Tribunale di Milano ha avuto modo
di osservare come, azionando “in tempi diversi la medesima domanda nei confronti di soggetti
diversi, tutti solidalmente responsabili, [la parte ricorrente abbia] reso di fatto impossibile
quell’unitarietà di giudizio che, oggi, l’ordinamento impone” .
Sotto un profilo propriamente soggettivo, merita una riflessione la vicenda del fallimento che
coinvolga uno dei soggetti della filiera, questione rispetto alla quale si è registrata una importante
evoluzione nel contrasto e negli orientamenti della giurisprudenza di merito .
In un primo momento, infatti, si era prevalentemente ritenuto che il litisconsorzio necessario non
consentisse la prosecuzione del procedimento innanzi al giudice del lavoro in ragione della ritenuta
impossibilità, da un lato, di celebrare il giudizio in assenza di una parte e, dall’altro lato, di operare
nei confronti del soggetto fallito un accertamento evidentemente funzionale alla sola condanna al
pagamento preclusa, tuttavia, alla competenza lavoristica . Fallito un soggetto della filiera di appalto,
dunque, il giudizio veniva interrotto nei confronti di tutti i convenuti litisconsorti necessari, con la
previsione che l’eventuale successiva riassunzione nei confronti del fallimento e degli altri
litisconsorti non potesse che rientrare nella competenza esclusiva del Tribunale Fallimentare.
Le pronunce ponevano l’accento sul carattere inevitabilmente unitario del giudizio delineato dal
rinnovato art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, proprio in quanto caratterizzato dal litisconsorzio
necessario degli obbligati solidali, nel quale il Giudice era chiamato ad accertare “la responsabilità
solidale di tutti gli obbligati”: un accertamento che, tuttavia, si riteneva precluso al giudice del lavoro
ove rivolto nei confronti di un fallimento in quanto proprio della competenza funzionale ed
esclusiva del giudice fallimentare.
L’orientamento in esame era considerato l’unico idoneo a garantire la piena tutela di tutti i creditori
della massa fallimentare, consentendo un accertamento unitario dei debiti del fallimento, nel pieno
rispetto del principio della par condicio creditorum e in ossequio alle pronunzie del Supremo
Collegio secondo cui “…devono, però, ritenersi collegate alla procedura non soltanto le
controversie che derivano direttamente dalla stessa e si basano su di essa, ma anche quelle che sono
destinate comunque ad incidere sulla procedura concorsuale e come tali debbono necessariamente
essere esaminate nell’ambito di quest’ultima per assicurarne l’unità e per garantire la parità tra i
creditori…” .
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Oggi è possibile individuare due diverse posizioni.
Da un lato, vi è chi ritiene che la vicenda fallimentare non sia destinata a incidere sulla regolazione
sostanziale dei rapporti tra gli altri debitori solidali: la parte fallita, sia esso l’appaltatore o un altro
soggetto della filiera, resta parte necessaria ai soli fini dell’integrità del contraddittorio, senza che
possa operare il meccanismo dell’improcedibilità dell’azione nei confronti del soggetto fallito e la vis
attractiva del Tribunale Fallimentare. Che il fallimento intervenga prima o durante il giudizio, il
soggetto fallito è o diviene (eventualmente a seguito di riassunzione post interruzione) parte del
giudizio in una prospettiva di pura litis denuntiatio, senza che possa essere pronunziata nei suoi
confronti alcuna sentenza di condanna.
Dall’altro lato, vi è chi ritiene che il fallimento determini una scissione del vincolo processuale in
quanto si tratterebbe di una peculiare forma di litisconsorzio di matrice prettamente legale,
strumentale all’accertamento dei crediti e alla previsione del beneficio della preventiva escussione,
ma del tutto avulso dalla natura sostanziale degli interessi coinvolti: in caso di fallimento, dunque, il
giudizio può essere instaurato o essere riassunto nei confronti dei soli soggetti in bonis.
4. Della decadenza e della natura retributiva dei crediti garantiti.
Questioni di ordine sostanziale che continuano a non avere una compiuta definizione sono, altresì,
quella della decadenza e quella della individuazione dei crediti riconducibili alla disciplina in esame.
In punto di decadenza, il contrasto giurisprudenziale attiene all’idoneità o meno a impedirla di
eventuali atti di messa in mora stragiudiziali: vi è, infatti, chi ritiene che la stessa possa essere evitata
solo con il deposito entro il termine di legge del ricorso introduttivo del giudizio, e chi afferma che
qualsiasi atto di messa in mora consenta il perfezionamento dell’effetto legale.
I fautori del primo orientamento si sono normalmente concentrati sul fatto che l’art. 29, co. 2, D.
Lgs. 276/2003, oltre a prevedere il termine decadenziale biennale, ha sempre disciplinato anche gli
aspetti processuali della materia. In senso opposto si sono pronunziati quanti hanno sottolineato
che la norma non richiede espressamente la proposizione dell’azione giudiziale nel biennio della
cessazione dell’appalto e hanno ritenuto, quindi, la richiesta stragiudiziale al committente idonea a
impedire la decadenza .
In merito, la Corte di Cassazione ha affermato che “…il termine biennale dalla cessazione
dell’appalto previsto dalla suddetta disposizione ha natura di termine di decadenza per la
proposizione dell’azione giudiziale per i crediti per i quali vi sia tale possibilità” .
Quanto ai crediti riconducibili a questa peculiare ipotesi di tutela, il Supremo Collegio ha affermato
che “la locuzione “trattamenti retributivi” di cui all’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003,
dev’essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli
emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti” . Il Giudice
di Legittimità ha ritenuto, in questo modo, di escludere dalla nozione di retribuzione propriamente
intesa le somme dovute per buoni pasto e indennità sostitutiva ferie, valutando invece di
ricomprendervi gli importi per riduzione orario di lavoro.
La pronunzia fa proprio un orientamento difforme da quello di una parte significativa della
giurisprudenza di merito che, con specifico riferimento ai buoni pasto, ne aveva riconosciuto la
natura sostanzialmente retributiva in ragione della continuità della corresponsione e della relazione
di corrispettività rispetto alla prestazione lavorativa .
La stessa Corte di Cassazione, peraltro, aveva precedentemente avallato l’interpretazione volta a
ricondurre nella disciplina in parola i crediti a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute,
osservando che “l’indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura mista, sia risarcitoria che
retributiva, sicché mentre ai fini della verifica della prescrizione va ritenuto prevalente il carattere
risarcitorio, volto a compensare il danno derivante dalla perdita del diritto al riposo, cui va
assicurata la più ampia tutela applicando il termine ordinario decennale, la natura retributiva, quale
corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che avrebbe dovuto essere retribuito ma non
lavorato, assume invece rilievo quando ne va valutata l’incidenza sul trattamento di fine rapporto, ai
fini del calcolo degli accessori o dell’assoggettamento a contribuzione” .
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5. Il capitolo della responsabilità solidale della Pubblica Amministrazione.
In occasione della penultimo intervento normativo, il Legislatore si è espressamente occupato della
questione inerente all’applicabilità della previsione di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 alle
Pubbliche Amministrazioni, tema oltremodo dibattuto e le cui criticità non possono ritenersi sopite.
In proposito, pare opportuno rammentare come sulla questione si fossero registrati due distinti
orientamenti giurisprudenziali tesi, il primo, ad ammettere l’applicabilità della norma alle Pubbliche
Amministrazioni e, il secondo, invece, a escluderla.
La riflessione di quanti ritenevano sussistere la responsabilità solidale del soggetto pubblico si
concentrava sia sul tenore letterale della disposizione in commento sia sul complessivo impianto del
Decreto Legislativo 276/2003 avuto anche riguardo alle previsioni della Legge delega.
Quanto all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, si riteneva che il riferimento alternativo al committente
“imprenditore o datore di lavoro” fosse tale da comprendere sia i soggetti aventi natura di impresa
commerciale, sia i datori di lavoro di genere diverso; si osservava, peraltro, come la disposizione
non contenesse nessuna esplicita limitazione circa la natura pubblica o privata del contratto di
appalto intercorso fra datore di lavoro e committente.
Si riteneva poi, in ragione di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della
previsione normativa con particolare riferimento all’art. 76 Costituzione, che l’art. 1, co. 2, D. Lgs.
276/2003 (“il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro
personale”) non potesse essere interpretato nel senso di escludere dall’ambito applicativo dell’art. 29
D. Lgs. 276/2003, tanto il personale delle Pubbliche Amministrazioni, quanto le Pubbliche
Amministrazioni nella loro veste di committenti.
La Legge Delega 30/2003, infatti, aveva previsto all’art. 6 che “le disposizioni degli articoli da 1 a 5”
non dovessero applicarsi “al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano
espressamente richiamate”: disposizioni che riguardavano la revisione della disciplina dei servizi
pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella
somministrazione di lavoro (art. 1); il riordino dei contratti a contenuto formativo e di tirocinio (art.
2); la disciplina del lavoro a tempo parziale (art. 3); la disciplina delle tipologie di lavoro a chiamata,
temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite (art. 4); la
certificazione dei rapporti di lavoro (art. 5). Per contro, l’art. 2 Legge 30/2003 aveva espressamente
previsto l’applicazione, in via generale, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche
Amministrazioni delle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa. Pertanto, l’art. 6 veniva inteso
quale deroga espressa alla disposizione e dettata dall’art. 2, quale specificazione dei casi nei quali le
Pubbliche Amministrazioni dovevano ritenersi escluse dall’ambito applicativo della normativa
prevista dalla legge delega medesima. Una prospettiva, questa, che induceva a ritenere che il
Legislatore delegato fosse stato autorizzato a escludere l’applicazione della normativa oggetto di
delega solo “al personale delle pubbliche amministrazioni” e non già alle Pubbliche
Amministrazioni sotto il profilo soggettivo.
Sulla base di queste considerazioni, si riteneva che l’unica interpretazione corretta dell’art. 1, co. 2,
D. Lgs. 276/2003, conforme a Costituzione, fosse quella volta a escludere dall’ambito applicativo
del decreto, non già le Pubbliche Amministrazioni in quanto tali, bensì esclusivamente il personale
alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni datrici di lavoro .
L’orientamento opposto si fermava al dato puramente testuale dell’art. 1, co. 2, D. Lgs. 276/2003
per escludere a priori l’applicazione dell’art. 29, co. 2, nei confronti delle Pubbliche
Amministrazioni .
Nel contrasto giurisprudenziale così delineato, è intervenuto il Legislatore con l’art. 9, co. 1, D.L.
76/2013 che ha stabilito che “le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo
10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, trovano applicazione anche in relazione ai
compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con
contratto di lavoro autonomo. Le medesime disposizioni non trovano applicazione in relazione ai
contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Le disposizioni dei contratti collettivi di cui all’articolo
29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, hanno
effetto esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati
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nell’appalto con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”.
La definizione dell’ambito di efficacia temporale e la delimitazione dei soggetti che ne sono
destinatari sono gli aspetti di maggior criticità della norma.
5.1. La definizione dell’ambito di efficacia temporale
Quanto al primo profilo, una parte della dottrina e della giurisprudenza afferma che si tratta di una
norma di interpretazione autentica e, come tale, destinata a operare ex tunc; non manca, tuttavia,
chi sostiene che si tratti di una vera e propria novella legislativa destinata quindi a operare
esclusivamente ex nunc.
Le conseguenze dell’adesione all’uno o all’altro orientamento sono di immediata percezione.
I sostenitori della tesi dell’interpretazione autentica si concentrano, in primo luogo, sul fatto che il
Legislatore non ha modificato direttamente il testo dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, ma ha
introdotto una previsione ad esso collegata, imponendo una lettura congiunta delle due norme:
l’effetto della nuova disposizione sarebbe, quindi, quella di precisare gli ambiti di applicazione della
vecchia.
Il rilievo, tuttavia, non pare dirimente in quanto nell’epoca moderna il Legislatore ha utilizzato più
volte siffatta tecnica legislativa per interventi che nessun interprete ha dubitato fossero di
innovazione e non di interpretazione, si pensi ad esempio alle previsioni introdotte con il Collegato
Lavoro o con la Riforma Fornero: disposizioni che, solo in parte, sono state inserite e/o sostituite
in modo sistematico nei corpi normativi preesistenti.
La necessità di procedere a una lettura combinata di due disposizioni, dunque, non è sufficiente per
sostenere la natura interpretativa dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013.
L’altro elemento su cui si concentra l’orientamento in esame sono i lavori preparatori nei quali
vengono individuate espressioni che farebbero emergere la volontà di emanare una legge di
interpretazione autentica. Tali sarebbero i rilievi ove si afferma che l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013
“estende l’ambito di applicazione della responsabilità solidale… esclude dall’ambito della disciplina
richiamate contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni… specifica che le eventuali
clausole derogatorie contenute nei contratti collettivi abbiano effetto esclusivamente in relazione
trattamenti retributivi”. L’impiego dei verbi “estendere”, “escludere” e “specificare”, in uno con la
scelta di non intervenire direttamente sul testo dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, sarebbero
espressione della volontà di precisare, nel senso di interpretare, le disposizioni del dettato
normativo piuttosto che di predisporre una nuova norma.
L’approccio, tuttavia, non convince in quanto il soggetto dell’estendere, dell’escludere e dello
specificare è, per l’appunto, proprio l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013.
Se l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 “estende” l’ambito di applicazione della responsabilità solidale in
relazione agli obblighi nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo, più che una
specificazione dell’originario art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, è un’estensione dello stesso.
D’altronde, sarebbe errato dimenticare che copiosa giurisprudenza ha costantemente individuato il
presupposto per l’applicazione della disposizione di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 nella
sussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con l’appaltatore inadempiente.
Con specifico riferimento alla questione della solidarietà delle Pubbliche Amministrazioni, peraltro,
è il tenore letterale dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 a non permettere di affermarne la natura
interpretativa in quanto la norma parrebbe destinata a disporre per il presente: “le medesime
disposizioni non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Peraltro, considerato che il Decreto Legislativo 276/2003 prevedeva già, per i fautori della tesi più
restrittiva, siffatta esclusione all’art. 1, co. 2 (“il presente decreto non trova applicazione per le
pubbliche amministrazioni per il loro personale”), mal si comprende come possa affermarsi la
natura interpretativa della nuova disposizione in assenza di qualsivoglia riferimento alla previsione
appena richiamata.
Da ultimo, innovativa pare essere anche la terza previsione contenuta nell’art. 9, co. 1,
D.L.76/2013, che stabilisce che le disposizioni dei contratti collettivi hanno effetto esclusivamente
in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto “con esclusione di
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qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”. Tale limitazione non esisteva
nell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, e non può ritenersi che fosse sottintesa poiché i contratti
collettivi erano contemplati – con portata evidentemente generale – nella prima parte della
disposizione e non nella seconda in cui il Legislatore chiarisce che la solidarietà opera per i
“trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi
previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di
appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile
dell’inadempimento”.
Non vi è chi non veda, comunque, come l’esigenza di ricorrere all’esame dei lavori preparatori sia
prova del fatto che l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 non contiene alcun elemento letterale che consenta
di presumere che si tratti di legge interpretativa.
Sulla questione, la Corte di Cassazione ha recentemente affermato che “ai sensi del comma 2
dell’art. 1 d.lg. n. 276 del 2003 non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità
solidale prevista dal comma 2 dell’art. 29 del richiamato decreto. L’art. 9 d.l. n. 76 del 2013, nella
parte in cui prevede l’inapplicabilità dell’art. 29 ai contratti di appalto stipulati dalla pubbliche
amministrazioni di cui all’art. 1 d.lg. n. 165 del 2001, non ha carattere di norma di interpretazione
autentica, dotata di efficacia retroattiva, né ha innovato il quadro normativo previgente, avendo solo
esplicitato un precetto già desumibile dal testo del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni”
.
5.2. La delimitazione dell’ambito soggettivo.
Sotto il profilo soggettivo, la previsione in commento opera un richiamo espresso alle “pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, che
definisce cosa debba intendersi “per amministrazioni pubbliche” ai fini dell’applicazione delle
norme del Testo Unico: “si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e
scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e
associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali,
regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia
per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le
disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI”.
Non manca, nondimeno, chi sostiene che debbono essere ricompresi nell’ambito di applicazione
della norma in commento tutti quei soggetti che, indipendentemente dalla natura che gli è propria,
siano chiamati ad applicare il Codice degli Appalti Pubblici.
La tesi non può essere condivisa.
Considerato il tenore letterale della norma (che si riferisce a tutti i committenti), deve ritenersi che il
principio sancito dall’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 abbia efficacia di carattere generale e che
l’unica deroga alla sua applicazione non possa che essere interpretata in senso restrittivo.
In assenza di una disposizione che espressamente precluda l’applicabilità della norma nei confronti
del committente privato soggetto alla disciplina del Codice degli Appalti, non si può ritenere che lo
stesso sia tenuto indenne dal regime della responsabilità solidale. D’altronde, la natura di un
soggetto non muta per il sol fatto della particolare disciplina legale cui può essere assoggettato, ed è
principio consolidato in giurisprudenza quello per cui “non è l’oggetto dell’attività che determina il
discrimine tra ente pubblico non economico, ente pubblico economico ed azienda speciale, ma la
struttura giuridica ed il modo in cui l’ente esercita la propria attività” .
Peraltro, l’obbligo di rispettare i principi – anche di derivazione comunitaria – di trasparenza,
pubblicità e imparzialità, non implica l’esercizio di pubblici poteri: le connotazioni pubblicistiche
che caratterizzano una società per azioni a partecipazione pubblica, pertanto, non incidono in alcun
modo sulla sua natura privatistica ed essa rimane, in assenza di specifiche deroghe, integralmente
assoggettata alla normativa di diritto privato alla stregua di tutte le altre società per azioni private.
Per le società per azioni eventualmente partecipate da un ente pubblico, è lo Stato medesimo che si
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assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza
di forme e nuove possibilità realizzatrici, per cui la scelta della Pubblica Amministrazione di
acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della
forma giuridica prescelta.
Ne consegue che, in difetto di norme esplicite che introducano deroghe puntuali, è ai principi
generali e alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo.
In questo senso, d’altronde, si è recentemente pronunciata anche la Corte di Cassazione: “in materia
di appalti pubblici, la responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003,
esclusa per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, è,
invece, applicabile ai soggetti privati (nella specie Trenitalia s.p.a., società partecipata pubblica),
assoggettati, quali “enti aggiudicatori” al codice dei contratti pubblici. Tale differente
regolamentazione non viola l’art. 3 Cost. in ragione della diversità delle situazioni a confronto, non
incontrando i privati imprenditori alcun limite nella scelta del contraente, laddove nelle procedure di
evidenza pubblica la tutela del lavoratore è assicurata sin dal momento della scelta suddetta, né
limita l’iniziativa economica dei privati imprenditori per l’aggravio di responsabilità, non essendo
precluso al legislatore modulare le tutele dei lavoratori in rapporto alla diversa natura dei
committenti” .
Invero, il Supremo Collegio aveva già sostenuto “…la inapplicabilità del D. Lgs. n. 276 del 2003,
art. 29, comma 2, ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni ed il principio di
diritto è stato poi ribadito, in motivazione, dalle recenti sentenze 23.5.2016 n. 10664 e 24.5.2016 n.
10731, con le quali, peraltro, si è escluso che detto principio potesse essere esteso anche alle società
di diritto privato tenute al rispetto della procedura di evidenza pubblica” .
L’orientamento era già proprio del Tribunale di Milano che aveva avuto modo di osservare come,
“a prescindere da ogni questione relativa all’interpretazione e portata dell’art. 1, comma 2, del D.
Lgs. n.276/03 (“il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il
loro personale”) e da ogni questione relativa alla natura interpretativa o meno dell’art. 9, comma 1,
del D.L. n. 76/2013 (secondo cui le norme dell’art. 29, comma 2, del D. Lgs. n. 276/03 “non
trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di
cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165”), appare risolutiva la
considerazione che Ferservizi s.p.a. non è una pubblica amministrazione e non rientra nelle
amministrazioni pubbliche elencate all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001. A tal fine non
assume alcun rilievo il fatto che Ferservizi s.p.a. sia tenuta ad applicare le norme di evidenza
pubblica in materia di appalti” .
6. Brevi considerazioni conclusive.
Dei fenomeni giuridici il Giudice conosce solo la patologia. Questa, d’altronde, è la funzione che
l’ordinamento demanda all’Autorità Giudiziaria: dirimere le controversie, risolvere i conflitti,
ricondurre la regolazione dei rapporti a un sistema improntato alla legalità. La prospettiva
dell’organo giudicante è, quindi, sicuramente parziale e diversa da quella degli operatori del mercato
che, conoscendo coerenza e patologia, occupano una posizione privilegiata nella valutazione del
rapporto tra efficienza e disfunzioni del sistema.
Nelle aule giudiziarie, il fenomeno in esame si caratterizza per un progressivo e oltremodo
significativo incremento delle vicende disfunzionali, del radicarsi di un meccanismo che sta
elevando la patologia a sistema: una realtà che sta assumendo dimensioni tali da far quasi presumere
che il futuro potrà essere caratterizzato da una progressiva re-internalizzazione dei servizi e delle
attività.
Sotto il profilo prettamente economico e sociologico, prima ancora che giuridico, la diffusione del
fenomeno delle esternalizzazioni sembrerebbe destinato a consolidare due fondamentali effetti
negativi.
Il primo è la trasformazione dell’imprenditore datore di lavoro nell’imprenditore committente, in un
soggetto che nella gestione delle proprie attività non può più avvalersi in via diretta degli strumenti
del rapporto di lavoro, ma deve intervenire in via mediata dialogando – secondo le regole comuni in
materia di contratti – con una o più controparti terze. In questa prospettiva, il meccanismo
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dell’esternalizzazione determina un’inevitabile soluzione di continuità nella linea gerarchica, e
impedisce l’esercizio diretto dei più tipici poteri del rapporto di lavoro subordinato.
Il secondo è il radicarsi di una concorrenza alterata che, nel privilegiare il meccanismo del ribasso,
tende a escludere dal mercato soggetti affidabili e virtuosi, per favorire soggetti che spesso si
rivelano sfuggenti ed effimeri: operatori che spariscono dal mercato e dalle aule giudiziarie lasciando
agli obbligati solidali, committenti e subappaltatori, l’onere di adempiere alle obbligazioni che gli
sono proprie. Ne consegue un’inevitabile duplicazione degli oneri economici.
Dagli obbligati solidali, il meccanismo delineato dall’art. 29 D. Lgs. 276/2003 nella sua versione
“intermedia” è stato spesso guardato con favore nella sua essenza di strumento destinato a incidere
in modo significativo sui tempi di definizione delle controversie, allontanando il momento della
eventuale esecuzione a carico del responsabile solidale.
È una prospettiva che non convince.
Il complicarsi degli incombenti e l’allungarsi dei tempi delle vicende processuali è destinato, sul
medio e lungo periodo, a determinare un esponenziale incremento dei costi che dovranno essere
affrontati dagli obbligati solidali: costi che saranno tanto più elevati, quanto più lunga e faticosa si
rivelerà la vicenda giudiziaria; costi che, infine, non potranno essere recuperati.
La soluzione deve essere ricercata a monte, e non può che essere di politica economica.
Si tratta di riattivare il meccanismo di quella concorrenza funzionale che privilegia l’affidabilità e la
correttezza, l’eccellenza non il prezzo, e che esclude dal mercato soggetti che operano al di sotto
della soglia di sostenibilità, riversando i propri rischi su controparti contrattuali e lavoratori. Si tratta
di attivare meccanismi rigorosi di controllo in ordine alla correttezza della gestione da parte degli
appaltatori dei rapporti di lavoro; prevedere strumenti economici di tutela e garanzia che
consentano agli obbligati solidali di agire in prevenzione a fronte dell’inadempimento altrui,
evitando il contenzioso o precostituendosi condizioni che possano favorire la soluzione conciliativa
delle controversie.
Con la risoluzione 11 luglio 2007, “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del
XXI secolo”, il Parlamento Europeo affermava che il “sistema di responsabilità congiunta e solidale
dei contraenti principali nei confronti degli obblighi dei loro subappaltatori incoraggia i contraenti
principali a garantire il rispetto della legislazione del lavoro da parte dei loro partner commerciali”.
In questa prospettiva deve guardarsi all’ultima novella dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 273/2003, ossia
quella introdotta dall’art. 2, co. 1, lett. a) e b), del D.L. 25/2017 convertito, senza modificazioni,
dalla Legge 49/2017.
Nell’eliminare il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma secondo (“il committente
imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore
e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può
eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore
medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di
tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente
imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e
degli eventuali subappaltatori”), l’intervento normativo parrebbe aver restituito alla norma, nel
rispetto dei contrapposti interessi, il necessario equilibrio tra i differenti rapporti di forza,
stimolando un recupero della responsabilizzazione del contraente.
D’altronde, l’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva
poiché, come opportunamente osservato, “il principio fondante dell’art. 29 d.lg. n. 276 del 2003
consiste nell’introdurre la responsabilità di chi abbia in concreto beneficiato della prestazione
lavorativa” per fare impresa.
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Le novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico
impiego dalla riforma Madia (d.lgs. n.75 del 2017 e n.118 del
2017)
Di Vito Tenore
Consigliere della Corte dei Conti
1. Le recenti modifiche al procedimento disciplinare apportate dai d.lgs. n.75 del 2017 e n.118 del
2017.
Alcuni recenti studi hanno approfondito il complesso tema del procedimento disciplinare nel
pubblico impiego, tematica centrale nell’azione degli ultimi Governi per un recupero etico-
comportamentale all’interno della pubblica amministrazione.
Crescenti, e non lievi, fenomeni di malcostume e di illegalità all’interno della P.A. hanno dunque
spinto, anche l’attuale Governo, ad inasprire i trattamenti punitivi interni per alcune condotte, a
snellire l’iter procedimentale, a favorire la specializzazione punitiva, ad attenuare i rischi di
annullamenti delle sanzioni per vizi meramente formali.
Tale percorso, già intrapreso dal Ministro Brunetta con la nota riforma del d.lgs. n.150 del 2009 , è
stato proseguito dal Ministro Madia con il più ampio d.lgs. 25 maggio 2017 n.75 (in G.U. 7 giugno
2017, testo attuativo della legge delega 7 agosto 2015 n.124) entrato in vigore il 22 giugno 2017, e
con il più settoriale d.lgs. 20 luglio 2017 n. 118 che ha apportato lievi modifiche al d.lgs. n.116 del
2016 sui c.d. “furbetti del cartellino”.
Molte critiche alla iniziale bozza di decreto Madia circolata a febbraio 2017, mosse a livello
scientifico (es. sulla improvvida trasformazione in ordinatori di tutti i termini del procedimento
disciplinare e sulla riduzione a soli 90 gg. del termine finale per la chiusura del procedimento),
hanno indotto, anche sulla scorta di un accurato parere del Consiglio di Stato sul decreto , ad una
felice rimeditazione del legislatore delegato, che ha così partorito in Gazzetta Ufficiale un testo più
equilibrato e sostanzialmente condivisibile .
Queste le principali novità apportate dal d.lgs. n.75 del 2017 e dal d.lgs. n.118 del 2017 (correttivo
del d.lgs. n.116 del 2016) al d.lgs. n.165 del 2001:
a) è stato felicemente modificato nell’art. 55-bis, co.1, d.lgs. n. 165 del 2001 il riparto di competenze
tra capi-struttura ed U.P.D., attribuendo nuovamente ai capi-struttura, anche se non rivestano
qualifica dirigenziale , la sola sanzione minimale, ristretta al solo richiamo verbale (secondo le
modalità procedurali fissate dal CCNL), assegnando la competenze su tutte le restanti all’U.P.D.
La modifica è dettata dalla presa d’atto che i capi struttura per ragioni varie (non adeguata
competenza e specializzazione nella complessa materia; estrazione non giuridica di molti di essi;
vicinitas fisica con l’incolpato; pavidità e buonismo dettati dalla contiguità con il subordinato) non
esercitano (pur essendo tali inerzie gestionali punibili, ma spesso solo sulla carta) o mal esercitano
l’azione disciplinare, con frequenti contenziosi che vedono la P.A. soccombente, o, in altri casi,
infliggono sanzioni troppo blande. L’U.P.D., invece, ha maggior competenza tecnica derivante da
adeguata selezione del personale, maggior specializzazione e garantisce maggiore uniformità
valutativa (prevenendo contenziosi per disparità di trattamento tra casi eguali), avendo una visione
centralistica sull’intero ente e, soprattutto, garantisce più terzietà con un maggior distacco “fisico”
dall’incolpato (garanzia di serenità e indipendenza di giudizio), essendo struttura operante a livello
centrale e, come tale, non vicina al lavoratore.
Ad ulteriore garanzia di terzietà e competenza tecnica degli U.P.D. non è da escludere, in futuro,
l’introduzione, ope legis, di un componente esterno, magistrato o avvocato, come felicemente
avvenuto nei regimi disciplinari delle libere professioni ad opera del d.P.R. 7 agosto 2012 n.137 . In
assenza di tale auspicabile copertura legislativa, in via amministrativa ci sembrerebbe una mossa
azzardata (che espone a danni erariali), ex art.7, d.lgs. n.165, fare questa scelta sin da oggi, avendo la
p.a. adeguate competenze interne ostative ad incarichi esterni remunerati.
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Tuttavia, è già oggi praticabile la scelta di gestioni comuni con un unitario U.P.D. al servizio di più
amministrazioni: l’art. 55-bis, co. 3, d.lgs. n. 165, introdotto dal d.lgs. n.75 del 2017, recependo un
nostro auspicio , prevede testualmente la possibilità di convenzionamenti tra enti (non
necessariamente dello stesso Comparto a nostro avviso) per la “gestione unificata delle funzioni”
dell’U.P.D. Va dunque fortemente incoraggiata la creazione di U.P.D. unitari territoriali, con
composizione promiscua, al servizio di più amministrazioni , al fine di valorizzare la terzietà
decisoria, la specializzazione in materia e, soprattutto, per aiutare enti di piccole dimensioni privi di
personale, oppure dove la vicinitas tra incolpato e giudicante interno pone conflitti di interesse o
porta ad inerzie o buonismi decisionali.
Va ben sottolineato che la novella Madia, nell’attribuire una quasi esclusiva competenza degli
U.P.D. in materia, impone di fatto un forte potenziamento di tali uffici, il cui organico andrebbe se
non decuplicato (per enti di maggiori dimensioni, quali Ministeri e grandi enti pubblici) almeno
raddoppiato: altrimenti si correrà il rischio che il poderoso carico di lavoro, un tempo decentrato tra
centinaia di capi-struttura, ed oggi concentrato su questo unitario ufficio, porterà a sistematici
sforamenti dei tempi procedimentali perentori.
Inoltre, tutti i capi struttura, anche quelli privi di qualifica dirigenziale (art.55-bis, co.1 e 4), vanno
resi edotti, con idonea attività formativa, che permane in capo agli stessi un obbligo di segnalazione
all’U.P.D. di illeciti su cui non abbiano potestà punitiva, la cui omissione, al pari delle inerzie (o
lentezze) disciplinari o i buonismi punitivi degli U.P.D., assumono valenza disciplinare (e di
responsabilità dirigenziale) che l’art.55-sexies, co.3 novellato dal d.lgs. n.75 ha inasprito.
Va segnalata poi una anomalia: solo per il comparto Scuola, l’art.55-bis, co.9-quater attribuisce al
dirigente scolastico (soggetto in verità già oberato di incombenze davvero onerose e privo di
adeguate conoscenze giuridiche, stante la sua estrazione umanistica o tecnica) la competenza
all'irrogazione di sanzioni, maggiori del richiamo verbale, ovvero fino alla sospensione dal servizio
con privazione della retribuzione per dieci giorni. Solo se il responsabile della struttura non ha
qualifica dirigenziale, o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi di quella
suddetta, il procedimento disciplinare si svolge dinanzi all'Ufficio competente per i procedimenti
disciplinari. La scelta, invero opinabile, è frutto verosimilmente dell’esigenza di decentrare la potestà
punitiva nella vasta amministrazione scolastica, connotata da Istituti scolastici che godono di
autonomia.
b) I termini procedimentali per le sanzioni di competenza dell’U.P.D. sono stati unificati e ritoccati,
stabilendo un termine di 10 giorni (e non più 5) per il capo-struttura (anche non dirigente) per
segnalare i fatti all’U.P.D., un successivo termine di 30 giorni (non più 40 come nella previgente
formulazione) dalla conoscenza (piena) dei fatti per notificare (atto recettizio) la contestazione degli
addebiti, un termine dilatorio di 20 giorni per l’audizione e un termine di 120 giorni (non già 90,
come nella bozza di decreto circolata a febbraio 2017) per la adozione della sanzione (atto non
recettizio).
In base all’art.55-bis, co.1, alle infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale si applica
invece la disciplina stabilita dal contratto collettivo, che, nell’attuale silente regolamentazione,
dovrebbe ricalcare, in forma semplificata, il regime dell’U.P.D.
Inoltre, assai opportunamente , il termine di 120 giorni assegnato dall’art. 55-bis, co. 4, d.lgs. n. 165
all’U.P.D. per chiudere il procedimento disciplinare non è più ancorato, come in passato, alla
pregressa conoscenza dell’illecito da parte del capo-struttura (che aveva 5 gg. per segnalarlo
all’U.P.D., termine ordinatorio oggi elevato a 10 gg.), ma da una data più certa e chiara, ovvero dalla
(notifica della) contestazione degli addebiti fatta dall’U.P.D. al lavoratore nel suddetto termine di 30
giorni dalla conoscenza dei fatti. La modifica è stata ritenuta necessaria per evitare che, nel
pregresso regime, tardive segnalazioni all’U.P.D. da parte di abulici capi-struttura che sforassero i 10
(un tempo 5) giorni ordinatori di legge potessero restringere troppo il tempo (120 gg.) di cui
dispone l’U.P.D. per complesse istruttorie.
Il regime resta invece “accelerato” (48 ore per la notifica della contestazione degli addebiti e 30
giorni per la chiusura del procedimento) non solo nei casi previsti dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116
sui “furbetti del cartellino” come integrato dal d.lgs. 20 luglio 2017 n.118 (ovvero quelli dell’art. 55-
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quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165), ma anche, in base al novello art. 55-quater, co.3, nei casi in
cui le condotte punite con il licenziamento siano accertate in flagranza. Da rimarcare che
l’accertamento della falsa presenza in servizio viene testualmente ritenuta accertabile ”in flagranza
ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi e delle presenze”, così
dandosi ulteriore conferma dell’utilizzo di videocamere di sorveglianza a fini disciplinari .
c) Tali termini procedimentali, come in passato, restano di regola ordinatori, salvo il termine iniziale
per la notifica della contestazione degli addebiti (30 gg. dalla conoscenza piena-protocollazione ) e
quello finale per l’adozione della sanzione (120 gg. dalla contestazione), che conservano assai
opportunamente natura perentoria, come da noi auspicato e come confermato in sede consultiva
dal Consiglio di Stato . I soli termini infraprocedimentali, tra cui quello in capo al capo-struttura per
segnalare all’U.P.D. i fatti, restano quindi ordinatori, ferma restando la regola generale di
tempestività da osservare , che risulterebbe violata da dilazioni smodate e irragionevoli anche di
termini ordinatori, come ribadito dal novello art.55-bis, co.9-ter introdotto dal d.lgs. n.75 .
La versione finale del d.lgs. n.75 del 2017 116, ribadendo il previgente regime, ha così scongiurato,
assai opportunamente, il rischio di trasformare (improvvidamente) in ordinatorio anche il termine
iniziale e quello finale come aveva infelicemente previsto la “bozza” di decreto “Madia” circolata a
febbraio 2017 e da noi aspramente stigmatizzata : tale trasformazione avrebbe reso nella p.a. di fatto
“canzonatori” i termini iniziali e finali, a causa della consueta allegra e abulica gestione indolente dei
tempi procedimentali ordinatori (foriera di contenziosi) da parte dei dirigenti pubblici, che
necessitano invece di “certezze” temporali, garantite dalla perentorietà.
Restano invece opportunamente ordinatori gli assai ristretti termini iniziale e finale del
procedimento “accelerato” per i furbetti del cartellino (art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165)
e per gli autori di condotte punite con il licenziamento e accertate in flagranza (art. 55-quater, co.3).
Tuttavia, l’art.55-quater, co.3-ter precisa che non va comunque superato, per la conclusione, il
termine massimo e perentorio di 120 giorni dalla contestazione, chiarendo che “La violazione dei
suddetti termini, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non
determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'invalidità della sanzione irrogata, purchè non
risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il
termine per la conclusione del procedimento di cui all'articolo 55-bis, comma 4”.
d) Nell’art.55-quater sono state inserite, sia dal d.lgs. n.116 del 2016 che dal d.lgs. n.75 del 2017,
nuove ipotesi di licenziamento disciplinare per:
f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell'articolo 54, comma 3;
f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'articolo 55-sexies, comma
3;
f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia
determinato l'applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo
complessivo superiore a un anno nell'arco di un biennio;
f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la
prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o
individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante
valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a
tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009.
Va comunque rimarcato che tali ipotesi di licenziamento vanno lette alla luce del generale e
prevalente principio di proporzionalità punitiva, che potrebbe consentire, a fronte di manifestazioni
più tenui di tali illeciti, di infliggere anche sanzioni conservative, pur a fronte di un dato testuale che
sembra imporre in via esclusiva il licenziamento.
e) Sono state inasprite le pene che, in ossequio al principio di proporzionalità, possono giungere
anche al licenziamento:
- sia in caso di violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbia determinato la
condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, evenienza per la quale si potrà infiggere
una sanzione anche più elevata della previgente massima sospensione dal servizio fino a tre mesi
(art.55-sexies, co.1);
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- sia in caso di dolose o gravemente colpose (v.art.55-quater, co.1, lett.f-ter) inerzie (o lentezze con
sforamento di termini) disciplinari o buonismi punitivi (archiviazioni immotivate) degli U.P.D., o
omesse segnalazioni dei capi-struttura, che assumono oggi maggior valenza punitiva rispetto alla
previgente sospensione dal servizio fino a tre mesi (oltre a poter configurare una responsabilità
dirigenziale) in base all’art.55-sexies, co.3 novellato dal d.lgs. n.75.
f) Nell’art.55-quinquies, al fine di proseguire il percorso intrapreso sul piano legislativo nella lotta
all’assenteismo ed alle finte malattie vicine a giorni feriali (venerdi e lunedi, come è noto), è stato
introdotto un comma 3-bis, che demanda ai contratti collettivi nazionali l’individuazione delle
condotte e delle corrispondenti sanzioni disciplinari con riferimento alle ipotesi di ripetute e
ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale,
nonchè con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è
necessario assicurare continuità nell'erogazione dei servizi all'utenza.
g) Sempre nel percorso normativo di lotta ai “furbetti del cartellino”, è stato ampliato dal d.lgs.
n.118 del 2017 da 120 a 150 giorni dalla denuncia il termine riconosciuto nell’art.55-quater, co.3-
quater, d.lgs. n.165 alla Procura Corte dei Conti per intraprendere l’azione di responsabilità anche
per danno all’immagine della p.a., sulla cui introduzione nei decreti attuativi della riforma Madia il
Consiglio di Stato ha mostrato serie perplessità .
h) E’ stato opportunamente chiarito, attraverso la novella all’art.63, co.2-bis del d.lgs. n.165 ad
opera del d.lgs. n.75 del 2017, che in sede di impugnativa di sanzioni disciplinari, il giudice, qualora
ravvisi un difetto di proporzionalità della sanzione inflitta dalla P.A. al proprio dipendente, può egli
stesso sostituire, anche senza domanda di parte, la sanzione eccessiva con quella proporzionata (in
melius e non in peius), convertendola in ossequio al principio di proporzionalità. Tale scelta
legislativa ci sembra preferibile alla ipotizzata, ma più complessa, alternativa di demandare, dopo il
mero annullamento della sanzione sproporzionata da parte del giudice, alla stessa P.A. il riesercizio
dell’azione punitiva emendata dal vizio riscontrato dal giudice (soluzione proposta nella bozza di
decreto “Madia” di febbraio 2017, criticata dal Consiglio di Stato ).
La felice novella, che chiude un antico dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla possibilità o
meno di conversione giudiziale della sanzione sproporzionata , serve ad evitare che dopo
l’annullamento per sproporzione punitiva da parte del giudice, a fronte comunque di fatti di
inequivoca valenza disciplinare, la statuizione meramente “demolitoria” del giudicante impedisca
alla p.a.-datrice il riesercizio dell’ormai consumato (anche per scadenza dei termini perentori e
tenuto conto del ne bis in idem) potere disciplinare: con la felice soluzione legislativa si attribuisce
al giudice il potere di equa rideterminazione punitiva in materia.
i) Sempre in materia di poteri decisori del giudice, il d.lgs. n.75 ha poi novellato l’art.63, co.2 del
d.lgs. n.165 statuendo che “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il
licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al
pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino
a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro
mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Il datore di lavoro e' condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali”.
La norma, da un lato, recepisce e dà un imprimatur legislativo all’indirizzo giurisprudenziale volto
ad escludere il regime sostanziale delle c.d. tutele crescenti della riforma Fornero (l.28 giugno 2012
n.92, che modifica l’art.18, St.lav.) , riconoscendo al lavoratore pubblico la sola e preesistente tutela
reale in caso di illegittimo licenziamento. Ma, nel contempo, fissa sia un tetto alla ricostruzione
retributiva, sia l’obbligo di valutazione, a scomputo, di quanto aliunde perceptum durante l’assenza
“coartata” dal lavoro.
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j) Ancora in materia di poteri decisori del giudice del lavoro, è stato chiarito nel novello art.55-bis,
co.9-ter, d.lgs. n.165, a fronte di frequenti censure di avvocati su profili meramente formali della
procedura disciplinare, che “La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento
disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del
dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne'
l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purchè non risulti irrimediabilmente compromesso il
diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione
della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il
principio di tempestività”. Dunque, alla luce di tale testuale dequotazione normativa dei vizi formali
(già statuita per i procedimenti amministrativi dall’art.21-octies della legge n.241 del 1990), il giudice
valuterà se gli stessi (es.sforamento di termini ordinatori o dilatori, errori procedurali etc.) abbiano o
meno un effetto invalidante sulla sanzione a seconda della sussistenza o meno della violazione del
diritto alla difesa e del generale principio di tempestività .
k) Sono state poi effettuate diverse limature procedurali:
k.1) all’art.55-bis, co.8 è stata meglio normata la potestà punitiva nei confronti del personale
trasferito (in mobilità o in comando), stabilendosi che “In caso di trasferimento del dipendente in
pendenza di procedimento disciplinare, l'ufficio per i procedimenti disciplinari che abbia in carico
gli atti provvede alla loro tempestiva trasmissione al competente ufficio disciplinare
dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito. In tali casi il procedimento disciplinare e'
interrotto e dalla data di ricezione degli atti da parte dell'ufficio disciplinare dell'amministrazione
presso cui il dipendente è trasferito decorrono nuovi termini per la contestazione dell'addebito o
per la conclusione del procedimento. Nel caso in cui l'amministrazione di provenienza venga a
conoscenza dell'illecito disciplinare successivamente al trasferimento del dipendente, la stessa
Amministrazione provvede a segnalare immediatamente e comunque entro venti giorni i fatti
ritenuti di rilevanza disciplinare all'Ufficio per i procedimenti disciplinari dell'amministrazione
presso cui il dipendente è stato trasferito e dalla data di ricezione della predetta segnalazione
decorrono i termini per la contestazione dell'addebito e per la conclusione del procedimento. Gli
esiti del procedimento disciplinare vengono in ogni caso comunicati anche all'amministrazione di
provenienza del dipendente»;
k.2) nell’art.55-bis, co.4 novellato, nel ribadirsi che il responsabile della struttura presso cui presta
servizio il dipendente, “segnala immediatamente, e comunque entro dieci giorni, all'ufficio
competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto
conoscenza”, è stato eliminato il previgente obbligo (contenuto nel vecchio comma 3 dell’art.55-
bis) di comunicare all’interessato l’avvenuta segnalazione all’U.P.D.: trattavasi di incombente inutile
già nel previgente testo, in quanto il pieno contraddittorio è comunque garantito innanzi all’U.P.D.
e la mancata comunicazione all’interessato non aveva dunque un effetto invalidante, come chiarito
dalla Cassazione .
l) Circa i rapporti tra procedimento penale e procedimento penale, la novella del d.lgs. n.75 del
2017, nel lasciare fermo il previgente regime (art.55-ter, d.lgs. n.165) che ha di regola superato la
pregiudiziale penale, lasciando quest’ultima come eccezione qualora i fatti addebitati sia
oggettivamente complessi , ha però previsto che l’azione disciplinare sospesa possa essere riattivata,
come avevamo in via interpretativa prospettato nel nostro studio , anche prima del giudicato penale,
qualora sopravvenuti elementi probatori, tra i quali la sentenza penale di merito (di primo o
secondo grado), siano sufficienti secondo l’U.P.D. a supportare sul piano probatorio l’azione
disciplinare. La parte finale del novello primo comma dell’art.55-ter recita infatti “Fatto salvo
quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora
l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento,
ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di
adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.
m) Sempre in punto di rapporti tra azione disciplinare ed azione penale, la novella del d.lgs. n.75 del
2017 modifica i termini per la riattivazione e sospensione nelle tre evenienze delineate dall’art.55-
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ter, d.lgs. n.165: in precedenza l’U.P.D. disponeva di 60 giorni dalla comunicazione della sentenza
penale per la riattivazione e di 180 giorni da tale riattivazione per la chiusura. Mentre ora il secondo
termine è ridotto agli ordinari 120 giorni del procedimento generale, che decorrono integralmente e
nuovamente . Recita infatti il novello art.55-ter, co.4, che “Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il
procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto, mediante rinnovo della
contestazione dell'addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della
cancelleria del giudice, all'amministrazione di appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento
dell'istanza di riapertura. Il procedimento si svolge secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis con
integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la conclusione dello stesso”.
n) Con la novella del d.lgs. n.75 all’art.55-bis, co.4 del d.lgs. n.165 è stato attribuito all’Ispettorato
della Funzione pubblica il monitoraggio sul funzionamento del procedimento disciplinare e delle
misure cautelari: sia su esiti disciplinari che su archiviazioni (attività in parte già svolta in passato da
tale organo ), oltre che sulle sospensioni cautelari. Il problema, che resta irrisolto, è quello delle
inerzie disciplinari, ovvero le mancate iniziative che, in quanto tali, non vengono segnalate
all’Ispettorato. Sarebbe stato forse opportuno estendere tale monitoraggio, che potrebbe essere
svolto anche dalle Sezioni controllo della Corte dei Conti, anche alle sentenze definitive civili,
penali, contabili, amministrative e tributarie che vedano soccombente la P.A. o condannati pubblici
dipendenti. Tali monitoraggi servono per verificare se vi sia poi stato un seguito disciplinare
all’interno dell’amministrazione nei confronti degli autori del danno risarcito dalla P.A., dell’atto o
del contratto annullato, della cartella esattoriale annullata, o del soggetto destinatario di condanna
penale o giuscontabile. Tra i soggetti da coinvolgere (con opportuni raccordi con Corte dei Conti e
Ispettorato della Funzione Pubblica) in tale delicato e atomistico riscontro, andrebbero inserite
anche l’ANAC, le avvocature interne e l’Avvocatura dello Stato, che hanno un capillare
monitoraggio di tutti i contenziosi riguardanti il proprio ente, o comunque presso le pubbliche
amministrazioni.
o) In punto di regime transitorio, infine, l’art.22, co.13 del d.lgs. n.70, statuisce che “Le disposizioni
di cui al Capo VII si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata
in vigore del presente decreto”. Trattasi di disposizione ispirata ai noti principi sulla successione
delle norme afflittive nel tempo, già ben recepiti nella Circolare 27 novembre 2009 n. 9 del Ministro
per la p.a. e l’innovazione allorquando fu adottata la riforma Brunetta del 2009.
2. Ulteriori possibili interventi correttivi non recepiti nel d.lgs. n.75 del 2017. Le imminenti
modifiche da parte della contrattazione collettiva.
Nel testo del decreto n.75 del 2017 si è invece persa l’occasione per apportare qualche ulteriore
rilevante correttivo alla regolamentazione del procedimento disciplinare contenuta nel d.lgs. n.165
del 2001. In particolare, come avevamo rimarcato nel nostro Studio sul procedimento disciplinare:
a) l’attuale obbligo di segnalare fatti di valenza disciplinare desunti da sentenze penali (ivi comprese
quelle assolutorie), sancito dall’art. 154-ter, disp.att.c.p. (d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271) introdotto
dall’art. 70 del d.lgs. n. 150 del 2009, non andrebbe posto più a carico della Cancelleria del giudice
che ha pronunciato una sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di
un’amministrazione pubblica, pur se non irrevocabile, ma andrebbe più coerentemente imposto al
giudice estensore, unico ad aver letto le carte e riscontrato i fatti, ed unico in grado di capire se la
sentenza riguardi un pubblico dipendente.
La modifica appare necessaria in quanto non può essere imposta al Cancelliere di un Ufficio
giudiziario (Tribunale, Corte d’Appello o Cassazione, ma lo stesso vale per le magistrature speciali)
la lettura integrale di tutte le sentenze depositate nel proprio ufficio da decine di giudici per cogliere
eventuali profili di illecito disciplinare da segnalare all’amministrazione di appartenenza di una delle
parti del processo: tale accertamento può ben farlo, e assai agevolmente (poche righe nel
dispositivo), l’estensore della sentenza, che ha letto le carte, ha valutato i fatti e conosce la qualifica
di pubblico dipendente dell’imputato o della parte in causa che ha giudicato.
49
E tale obbligo gravante sul giudice estensore non andrebbe limitato alle sentenze penali di
condanna, ma andrebbe esteso anche a quelle assolutorie “perche il fatto non costituisce illecito
penale” o di prescrizione, che evidenzino comunque profili disciplinari del dipendente giudicato.
Ma la stessa regola andrebbe estesa ai pronunciamenti dei giudici amministrativi, contabili, militari e
tributari, qualora nel depositare la propria sentenza ravvisino profili di responsabilità disciplinare in
capo a funzionari pubblici coinvolti nel proprio giudizio. Identico obbligo di segnalazione
all’U.P.D. potrebbe essere imposto alle Avvocature interne e all’Avvocatura dello Stato, che hanno
un monitoraggio capillare di tutte le sentenze, civili, penali, contabili, tributarie, relative ad enti
pubblici, dalle quali desumere condotte colpose o dolose di dipendenti nei campi più vari.
Nulla sul punto ha purtroppo previsto la novella del d.lgs. n.75 del 2017 al d.lgs. n. 165.
b) Parimenti andrebbe quanto prima corretta la assai opinabile previsione del cennato art. 154-ter,
disp.att.c.p. che attualmente impone alle Cancellerie penali di comunicare il solo dispositivo della
sentenza all’amministrazione di appartenenza del dipendente e, se richiesto da quest’ultima, di
trasmettere copia integrale del provvedimento. Trattasi di inutile doppia trasmissione, avendo
l’amministrazione necessità da subito dell’intera sentenza (di condanna ma anche assolutoria che
contenga aspetti di rilevanza interna) per trarne profili di eventuale valenza disciplinare che,
ovviamente, il solo dispositivo non evidenzia assolutamente. Anche su questo punto la novella al
d.lgs. n. 165 apportata dal d.lgs. n.75 del 2017 è rimasta silente.
c)Andrebbe corretta l’anomala procedura “accelerata” dell’art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n.
165 (introdotta dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116 sui “furbetti del cartellino” come integrato dal d.lgs.
20 luglio 2017 n.118) nella parte in cui attribuisce il potere-dovere di contestazione degli addebiti
non già in capo all’U.P.D., ma al capo-struttura in 48 ore dalla conoscenza dei fatti, e la successiva
competenza dell’U.P.D. per la sanzione espulsiva. Riteniamo che, essendo materia che dà luogo a
licenziamento (o, comunque, a sanzione diversa dal mero richiamo verbale), la competenza a
contestare gli addebiti dovrebbe essere riconosciuta all’U.P.D. (su tempestiva segnalazione del capo-
struttura), anche per coerenza con il potere istruttorio e decisorio allo stesso attribuito.
Da ultimo, a chiusura di queste brevi riflessioni, va ricordato che sono in corso le procedure di
rinnovo contrattuale per i lavoratori pubblici.
L’Aran e la controparte sindacale dovranno fatalmente recepire, sul piano sostanziale e procedurale,
i numerosi mutamenti legislativi intervenuti negli ultimi anni in materia disciplinare, configuranti
norme imperative non derogabili sul piano negoziale. E ciò in ossequio ai (pluri) novellati art.2, 40 e
55 segg. del d.lgs. n.165 del 2001 che, sul piano della gerarchia delle fonti lavoristiche, sanciscono in
primo luogo che “La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali
e si svolge con le modalità previste dal presente decreto. Nelle materie relative alle sanzioni
disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio,
della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge”
(art.40, co.1). E proprio la legge, in particolare l’art.55, co.1, chiarisce che “Le disposizioni del
presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai
sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai
rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2”.
Inoltre il novello art.55-bis, co.9-bis, d.lgs. n.165 introdotto dal d.lgs. n.75, ribadisce che “Sono
nulle le disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne, comunque
qualificate, che prevedano per l'irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o procedurali
ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il procedimento
disciplinare”.
Infine, l’art.2, co.2 e co.3-bis, esplicita che “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle
leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel
presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di
legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di
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lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di
essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'articolo
40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o
accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili [, solo qualora
ciò sia espressamente previsto dalla legge]” (co.2) e “Nel caso di nullità delle disposizioni
contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione collettiva, si
applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile” (co.3-bis).
Tra gli interventi più attesi nell’imminente CCNL vi è la regolamentazione procedurale e temporale
del procedimento di competenza del capo-struttura teso alla inflizione del richiamo verbale, che il
d.lgs. n.165 demanda alla contrattazione. Sarebbe opportuno a nostro avviso snellire il
procedimento-tipo previsto per le sanzioni di competenza dell’U.P.D., dimezzando i termini (ad
esempio portando a 15 i giorni per la contestazione degli addebiti e a 60 i giorni per la chiusura del
procedimento) e consentendo una più snella formulazione della pur necessaria verbalizzazione della
sanzione inflitta non già ad substantiam, ma ad probationem, per lasciare traccia cioè della sanzione
inflitta (inserendola nel fascicolo personale del lavoratore) per poter un domani contestare la
recidiva, di cui altrimenti si perderebbero i presupposti a fronte di richiami verbali non trasfusi in
un atto scritto (che, ovviamente, non trasforma, sul piano giuridico, la sanzione in un richiamo
scritto, chiarendo il capo-strutura nel corpo del testo che si tratta di richiamo verbale, trasfuso in
forma scritta a soli fini probatori).
DECRETO LEGISLATIVO 30 marzo 2001, n. 165 (in Suppl. ordinario n. 112 alla Gazz. Uff., 9
maggio, n. 106). - Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche (LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLA PA) (T.U. PUBBLICO IMPIEGO) dopo
le modifiche apportate dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 e dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come
modificato dall'articolo 2 del d.lgs. 20 luglio 2017 n. 118.
(articoli estratti)
ARTICOLO N.55
Responsabilità, infrazioni e sanzioni, procedure conciliative (1) (2)
Art. 55
1. Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono
norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice
civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2. La violazione dolosa o colposa delle
suddette disposizioni costituisce illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro
applicazione (3).
2. Ferma la disciplina in materia di responsabilita' civile, amministrativa, penale e contabile, ai
rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto
previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni e'
definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del
codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti
gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavoro.
3. La contrattazione collettiva non puo' istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti
disciplinari. Resta salva la facolta' di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di
conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali e' prevista la sanzione disciplinare del
licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla
contestazione dell'addebito e comunque prima dell'irrogazione della sanzione. La sanzione
concordemente determinata all'esito di tali procedure non puo' essere di specie diversa da quella
prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l'infrazione per la quale si procede e non e'
soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di
apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito
negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano
l'inizio e la conclusione.
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4. Fermo quanto previsto nell'articolo 21, per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi
degli articoli 55-bis, comma 7, e 55-sexies, comma 3, si applicano, ove non diversamente stabilito
dal contratto collettivo, le disposizioni di cui al comma 4 del predetto articolo 55-bis, ma le
determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di
incarico conferito ai sensi dell'articolo 19, comma 3.
(1) Articolo sostituito dall'articolo 68, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011, n.
9226.
(3) Comma modificato dall'articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
ARTICOLO N.55 bis
Forme e termini del procedimento disciplinare (1) (A)
1. Per le infrazioni di minore gravita', per le quali e' prevista l'irrogazione della sanzione del
rimprovero verbale, il procedimento disciplinare e' di competenza del responsabile della struttura
presso cui presta servizio il dipendente. Alle infrazioni per le quali e' previsto il rimprovero verbale
si applica la disciplina stabilita dal contratto collettivo (2).
2. Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell'ambito della propria
organizzazione, individua l'ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni
punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarita' e responsabilita'
(3).
3. Le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni
dell'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica
(4).
4. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, per le infrazioni per
le quali e' prevista l'irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale, il responsabile della
struttura presso cui presta servizio il dipendente, segnala immediatamente, e comunque entro dieci
giorni, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di
cui abbia avuto conoscenza. L'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con immediatezza
e comunque non oltre trenta giorni decorrenti dal ricevimento della predetta segnalazione, ovvero
dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza
disciplinare, provvede alla contestazione scritta dell'addebito e convoca l'interessato, con un
preavviso di almeno venti giorni, per l'audizione in contraddittorio a sua difesa. Il dipendente puo'
farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell'associazione sindacale cui
aderisce o conferisce mandato. In caso di grave ed oggettivo impedimento, ferma la possibilita' di
depositare memorie scritte, il dipendente puo' richiedere che l'audizione a sua difesa sia differita, per
una sola volta, con proroga del termine per la conclusione del procedimento in misura
corrispondente. Salvo quanto previsto dall'articolo 54-bis, comma 4, il dipendente ha diritto di
accesso agli atti istruttori del procedimento. L'ufficio competente per i procedimenti disciplinari
conclude il procedimento, con l'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro
centoventi giorni dalla contestazione dell'addebito. Gli atti di avvio e conclusione del procedimento
disciplinare, nonche' l'eventuale provvedimento di sospensione cautelare del dipendente, sono
comunicati dall'ufficio competente di ogni amministrazione, per via telematica, all'Ispettorato per la
funzione pubblica, entro venti giorni dalla loro adozione. Al fine di tutelare la riservatezza del
dipendente, il nominativo dello stesso e' sostituito da un codice identificativo (5) (B).
5. La comunicazione di contestazione dell'addebito al dipendente, nell'ambito del procedimento
disciplinare, e' effettuata tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente dispone di
idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. In alternativa all'uso della posta elettronica
certificata o della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale
con ricevuta di ritorno. Per le comunicazioni successive alla contestazione dell'addebito, e'
consentita la comunicazione tra l'amministrazione ed i propri dipendenti tramite posta elettronica o
altri strumenti informatici di comunicazione, ai sensi dell'articolo 47, comma 3, secondo periodo,
del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ovvero anche al numero di fax o altro indirizzo di posta
elettronica, previamente comunicati dal dipendente o dal suo procuratore (6).
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6. Nel corso dell'istruttoria, l'Ufficio per i procedimenti disciplinari puo' acquisire da altre
amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento.
La predetta attivita' istruttoria non determina la sospensione del procedimento, ne' il differimento
dei relativi termini (7).
7. Il [lavoratore] dipendente o il dirigente, appartenente alla stessa o a una diversa amministrazione
pubblica dell'incolpato [o ad una diversa], che, essendo a conoscenza per ragioni di ufficio o di
servizio di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso, rifiuta, senza
giustificato motivo, la collaborazione richiesta dall'Ufficio disciplinare procedente ovvero rende
dichiarazioni false o reticenti, e' soggetto all'applicazione, da parte dell'amministrazione di
appartenenza, della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione, commisurata alla gravita' dell'illecito contestato al dipendente, fino ad un massimo di
quindici giorni (8).
8. In caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un'altra amministrazione pubblica,
il procedimento disciplinare e' avviato o concluso e la sanzione e' applicata presso quest'ultima. In
caso di trasferimento del dipendente in pendenza di procedimento disciplinare, l'ufficio per i
procedimenti disciplinari che abbia in carico gli atti provvede alla loro tempestiva trasmissione al
competente ufficio disciplinare dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito. In tali casi
il procedimento disciplinare e' interrotto e dalla data di ricezione degli atti da parte dell'ufficio
disciplinare dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito decorrono nuovi termini per
la contestazione dell'addebito o per la conclusione del procedimento. Nel caso in cui
l'amministrazione di provenienza venga a conoscenza dell'illecito disciplinare successivamente al
trasferimento del dipendente, la stessa Amministrazione provvede a segnalare immediatamente e
comunque entro venti giorni i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare all'Ufficio per i procedimenti
disciplinari dell'amministrazione presso cui il dipendente e' stato trasferito e dalla data di ricezione
della predetta segnalazione decorrono i termini per la contestazione dell'addebito e per la
conclusione del procedimento. Gli esiti del procedimento disciplinare vengono in ogni caso
comunicati anche all'amministrazione di provenienza del dipendente (9).
9. La cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per
l'infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la
sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli
effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro (10).
9-bis. Sono nulle le disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne,
comunque qualificate, che prevedano per l'irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o
procedurali ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il
procedimento disciplinare (11).
9-ter. La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli
articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia
imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'invalidita' degli atti e della
sanzione irrogata, purche' non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del
dipendente, e le modalita' di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli
accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di
tempestivita'. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da
considerarsi perentori il termine per la contestazione dell'addebito e il termine per la conclusione
del procedimento (12).
9-quater. Per il personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le
istituzioni scolastiche ed educative statali, il procedimento disciplinare per le infrazioni per le quali e'
prevista l'irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione
per dieci giorni e' di competenza del responsabile della struttura in possesso di qualifica dirigenziale
e si svolge secondo le disposizioni del presente articolo. Quando il responsabile della struttura non
ha qualifica dirigenziale o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni piu' gravi di quelle
indicate nel primo periodo, il procedimento disciplinare si svolge dinanzi all'Ufficio competente per
i procedimenti disciplinari (13).
(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
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(2) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(4) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(5) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(6) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(7) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera f), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(8) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera g), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(9) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera h), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(10) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(11) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(12) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(13) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226.
(B) In riferimento al presente comma vedi: Parere Autorità garante per la protezione dei dati
personali 08 maggio 2013, n. 2501216.
ARTICOLO N.55 ter
Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale (1) (A)
1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali
procede l'autorita' giudiziaria, e' proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale.
[Per le infrazioni di minore gravita', di cui all'articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non e'
ammessa la sospensione del procedimento.] Per le infrazioni per le quali e' applicabile una sanzione
superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, l'ufficio
competente per i procedimenti disciplinari, nei casi di particolare complessita' dell'accertamento del
fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a
motivare l'irrogazione della sanzione, puo' sospendere il procedimento disciplinare fino al termine
di quello penale . Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso puo'
essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per
concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in
ogni caso salva la possibilita' di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti
del dipendente (2).
2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e,
successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione
che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o
che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'ufficio competente per i procedimenti
disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi
dall'irrevocabilita' della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o
confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale (3).
3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una
sentenza irrevocabile di condanna, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il
procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il
procedimento disciplinare e' riaperto, altresi', se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il
fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre
ne e' stata applicata una diversa (4).
4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il procedimento disciplinare e', rispettivamente, ripreso o
riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell'addebito, entro sessanta giorni dalla
comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all'amministrazione di
appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento dell'istanza di riapertura. Il procedimento si
svolge secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi
previsti per la conclusione dello stesso. Ai fini delle determinazioni conclusive, l'ufficio procedente,
nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell'articolo 653, commi 1 e
1-bis, del codice di procedura penale (5).
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(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(4) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(5) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226.
ARTICOLO N.55 quater
Licenziamento disciplinare (1) (A)
1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve
ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del
licenziamento nei seguenti casi:
a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della
presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante
una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore
a tre nell'arco di un biennio o comunque per piu' di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni
ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione;
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di
servizio;
d) falsita' documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto
di lavoro ovvero di progressioni di carriera;
e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o
ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignita' personale altrui;
f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale e' prevista l'interdizione perpetua dai pubblici
uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell'articolo 54, comma 3 (2);
f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'articolo 55-sexies, comma
3 (3);
f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia
determinato l'applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo
complessivo superiore a un anno nell'arco di un biennio (4);
f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la
prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o
individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante
valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a
tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009 (5)
1-bis. Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalita' fraudolenta posta
in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attivita' lavorativa circa il rispetto dell'orario
di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta
attiva o omissiva la condotta fraudolenta (6).
[2. Il licenziamento in sede disciplinare e' disposto, altresi', nel caso di prestazione lavorativa,
riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l'amministrazione di
appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione
del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo
e' dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme
legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti
dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54.] (7)
3. Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento e' senza preavviso. Nei casi in
cui le condotte punibili con il licenziamento sono accertate in flagranza, si applicano le previsioni
55
dei commi da 3-bis a 3-quinquies (8).
3-bis. Nel caso di cui al comma 1, lettera a), la falsa attestazione della presenza in servizio, accertata
in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle
presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente, fatto salvo il
diritto all'assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti,
senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato. La sospensione e' disposta dal responsabile
della struttura in cui il dipendente lavora o, ove ne venga a conoscenza per primo, dall'ufficio di cui
all'articolo 55-bis, comma 4, con provvedimento motivato, in via immediata e comunque entro
quarantotto ore dal momento in cui i suddetti soggetti ne sono venuti a conoscenza. La violazione
di tale termine non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'inefficacia della sospensione
cautelare, fatta salva l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia imputabile (9).
3-ter. Con il medesimo provvedimento di sospensione cautelare di cui al comma 3-bis si procede
anche alla contestuale contestazione per iscritto dell'addebito e alla convocazione del dipendente
dinanzi all'Ufficio di cui all'articolo 55-bis, comma 4. Il dipendente e' convocato, per il
contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno quindici giorni e puo' farsi assistere da un
procuratore ovvero da un rappresentante dell'associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o
conferisce mandato. Fino alla data dell'audizione, il dipendente convocato puo' inviare una memoria
scritta o, in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento, formulare motivata istanza di rinvio
del termine per l'esercizio della sua difesa per un periodo non superiore a cinque giorni. Il
differimento del termine a difesa del dipendente puo' essere disposto solo una volta nel corso del
procedimento. L'Ufficio conclude il procedimento entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del
dipendente, della contestazione dell'addebito. La violazione dei suddetti termini, fatta salva
l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza
dall'azione disciplinare ne' l'invalidita' della sanzione irrogata, purche' non risulti irrimediabilmente
compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del
procedimento di cui all'articolo 55-bis, comma 4 (10).
3-quater. Nei casi di cui al comma 3-bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla
competente procura regionale della Corte dei conti avvengono entro venti giorni dall'avvio del
procedimento disciplinare. La Procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti,
emette invito a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di
licenziamento. L'azione di responsabilita' e' esercitata, con le modalita' e nei termini di cui
all'articolo 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge
14 gennaio 1994, n. 19, entro i centocinquanta giorni successivi alla denuncia, senza possibilita' di
proroga. L'ammontare del danno risarcibile e' rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche
in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna
non puo' essere inferiore a sei mensilita' dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di
giustizia (11).
3-quinquies. Nei casi di cui al comma 3-bis, per i dirigenti che abbiano acquisito conoscenza del
fatto, ovvero, negli enti privi di qualifica dirigenziale, per i responsabili di servizio competenti,
l'omessa attivazione del procedimento disciplinare e l'omessa adozione del provvedimento di
sospensione cautelare, senza giustificato motivo, costituiscono illecito disciplinare punibile con il
licenziamento e di esse e' data notizia, da parte dell'ufficio competente per il procedimento
disciplinare, all'Autorita' giudiziaria ai fini dell'accertamento della sussistenza di eventuali reati (12).
3-sexies. I provvedimenti di cui ai commi 3-bis e 3-ter e quelli conclusivi dei procedimenti di cui al
presente articolo sono comunicati all'Ispettorato per la funzione pubblica ai sensi di quanto previsto
dall'articolo 55-bis, comma 4 (13).
(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(4) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(5) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(6) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.
(7) Comma abrogato dall'articolo 15, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
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(8) Comma modificato dall'articolo 15, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(9) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.
(10) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.
(11) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come
modificato dall'articolo 2 del D.Lgs. 20 luglio 2017 n. 118.
(12) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.
(13) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come
modificato dall'articolo 2 del D.Lgs. 20 luglio 2017 n. 118.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226.
ARTICOLO N.55 quinquies
False attestazioni o certificazioni (1) (A)
1. Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica
amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei
sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustifica l'assenza
dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia e'
punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La
medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.
2. Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilita' penale e disciplinare e le relative
sanzioni, e' obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di
retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonche' il danno
d'immagine di cui all'articolo 55-quater, comma 3-quater (2).
3. La sentenza definitiva di condanna o di applicazione della pena per il delitto di cui al comma 1
comporta, per il medico, la sanzione disciplinare della radiazione dall'albo ed altresi', se dipendente
di una struttura sanitaria pubblica o se convenzionato con il servizio sanitario nazionale, il
licenziamento per giusta causa o la decadenza dalla convenzione. Le medesime sanzioni disciplinari
si applicano se il medico, in relazione all'assenza dal servizio, rilascia certificazioni che attestano dati
clinici non direttamente constatati ne' oggettivamente documentati.
3-bis. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 55-quater, comma 1, lettere a) e b), i contratti
collettivi nazionali individuano le condotte e fissano le corrispondenti sanzioni disciplinari con
riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuita' con le giornate
festive e di riposo settimanale, nonche' con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in
determinati periodi nei quali e' necessario assicurare continuita' nell'erogazione dei servizi all'utenza
(3).
(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) Comma modificato dall'articolo 16, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226.
ARTICOLO N.55 sexies
Responsabilita' disciplinare per condotte pregiudizievoli per l'amministrazione e limitazione della
responsabilita' per l'esercizio dell'azione disciplinare (1) (A)
1. La violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato la
condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, comporta comunque, nei confronti del
dipendente responsabile, l'applicazione della sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi, in proporzione all'entita' del
risarcimento, salvo che ricorrano i presupposti per l'applicazione di una piu' grave sanzione
disciplinare (2).
2. Fuori dei casi previsti nel comma 1, il lavoratore, quando cagiona grave danno al normale
funzionamento dell'ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate
dall'amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione
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del personale delle amministrazioni pubbliche, e' collocato in disponibilita', all'esito del
procedimento disciplinare che accerta tale responsabilita', e si applicano nei suoi confronti le
disposizioni di cui all'articolo 33, comma 8, e all'articolo 34, commi 1, 2, 3 e 4. Il provvedimento
che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le mansioni e la qualifica per le quali puo' avvenire
l'eventuale ricollocamento. Durante il periodo nel quale e' collocato in disponibilita', il lavoratore
non ha diritto di percepire aumenti retributivi sopravvenuti.
3. Il mancato esercizio o la decadenza dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo,
senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione di cui
all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza
dell'illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i
soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi,
salva la maggiore sanzione del licenziamento prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1,
lettera f-ter), e comma 3-quinquies. Tale condotta, per il personale con qualifica dirigenziale o
titolare di funzioni o incarichi dirigenziali, e' valutata anche ai fini della responsabilita' di cui
all'articolo 21 del presente decreto. Ogni amministrazione individua preventivamente il titolare
dell'azione disciplinare per le infrazioni di cui al presente comma commesse da soggetti responsabili
dell'ufficio di cui all'articolo 55-bis, comma 4 (3).
4. La responsabilita' civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di
illiceita' nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare e' limitata, in
conformita' ai principi generali, ai casi di dolo o colpa grave.
(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226.
ARTICOLO N.55 septies
Controlli sulle assenze (1) (A)
1. Nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni
caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente
mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico
convenzionato con il Servizio sanitario nazionale. I controlli sulla validita' delle suddette
certificazioni restano in capo alle singole amministrazioni pubbliche interessate (2).
2. In tutti i casi di assenza per malattia la certificazione medica e' inviata per via telematica,
direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia, all'Istituto nazionale della
previdenza sociale, secondo le modalita' stabilite per la trasmissione telematica dei certificati medici
nel settore privato dalla normativa vigente, e in particolare dal decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri previsto dall'articolo 50, comma 5-bis, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, introdotto dall'articolo 1,
comma 810, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e dal predetto Istituto e' immediatamente resa
disponibile, con le medesime modalita', all'amministrazione interessata. L'Istituto nazionale della
previdenza sociale utilizza la medesima certificazione per lo svolgimento delle attivita' di cui al
successivo comma 3 anche mediante la trattazione dei dati riferiti alla diagnosi. I relativi certificati
devono contenere anche il codice nosologico. Il medico o la struttura sanitaria invia
telematicamente la medesima certificazione all’indirizzo di posta elettronica personale del lavoratore
qualora il medesimo ne faccia espressa richiesta fornendo un valido indirizzo (3).
2-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia sono effettuati,
sul territorio nazionale, in via esclusiva dall'Inps d'ufficio o su richiesta con oneri a carico dell'Inps
che provvede nei limiti delle risorse trasferite delle Amministrazioni interessate. Il rapporto tra
l'Inps e i medici di medicina fiscale e' disciplinato da apposite convenzioni, stipulate dall'Inps con le
organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative in campo nazionale. L'atto di
indirizzo per la stipula delle convenzioni e' adottato con decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e
58
con il Ministro della salute, sentito l'Inps per gli aspetti organizzativo-gestionali e sentite la
Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri e le organizzazioni
sindacali di categoria maggiormente rappresentative. Le convenzioni garantiscono il prioritario
ricorso ai medici iscritti nelle liste di cui all'articolo 4, comma 10-bis, del decreto-legge 31 agosto
2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, per tutte le funzioni
di accertamento medico-legali sulle assenze dal servizio per malattia dei pubblici dipendenti, ivi
comprese le attivita' ambulatoriali inerenti alle medesime funzioni. Il predetto atto di indirizzo
stabilisce, altresi', la durata delle convenzioni, demandando a queste ultime, anche in funzione della
relativa durata, la disciplina delle incompatibilita' in relazione alle funzioni di certificazione delle
malattie (4).
3. L'Istituto nazionale della previdenza sociale, gli enti del servizio sanitario nazionale e le altre
amministrazioni interessate svolgono le attivita' di cui al comma 2 con le risorse finanziarie,
strumentali e umane disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica.
4. L'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica
concernente assenze di lavoratori per malattia di cui al comma 2 costituisce illecito disciplinare e, in
caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici
in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in
modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi. Affinché si configuri l’ipotesi di illecito
disciplinare devono ricorrere sia l’elemento oggettivo dell’inosservanza all’obbligo di trasmissione,
sia l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Le sanzioni sono applicate secondo criteri di
gradualità e proporzionalità, secondo le previsioni degli accordi e dei contratti collettivi di
riferimento (5).
5. Le pubbliche amministrazioni dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei
dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all'effettuazione
della visita, tenendo conto dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo. Il controllo e' in
ogni caso richiesto sin dal primo giorno quando l'assenza si verifica nelle giornate precedenti o
successive a quelle non lavorative (6).
5-bis. Al fine di armonizzare la disciplina dei settori pubblico e privato, con decreto del Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, sono stabilite le fasce orarie di reperibilita' entro le quali devono essere effettuate le
visite di controllo e sono definite le modalita' per lo svolgimento delle visite medesime e per
l'accertamento, anche con cadenza sistematica e ripetitiva, delle assenze dal servizio per malattia.
Qualora il dipendente debba allontanarsi dall'indirizzo comunicato durante le fasce di reperibilita'
per effettuare visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi,
che devono essere, a richiesta, documentati, e' tenuto a darne preventiva comunicazione
all'amministrazione che, a sua volta, ne da' comunicazione all'Inps (7).
5-ter. Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici il permesso e' giustificato mediante la presentazione
di attestazione, anche in ordine all'orario, rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che
hanno svolto la visita o la prestazione o trasmessa da questi ultimi mediante posta elettronica (8)
6. Il responsabile della struttura in cui il dipendente lavora nonche' il dirigente eventualmente
preposto all'amministrazione generale del personale, secondo le rispettive competenze, curano
l'osservanza delle disposizioni del presente articolo, in particolare al fine di prevenire o contrastare,
nell'interesse della funzionalita' dell'ufficio, le condotte assenteistiche. Si applicano, al riguardo, le
disposizioni degli articoli 21 e 55-sexies, comma 3.
(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.
(2) Comma modificato dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(3) Comma modificato dall' articolo 7, comma 1-bis, del D.L. 18 ottobre 2012 n. 179 come
modificato in sede di conversione e successivamente dall'articolo 18, comma 1, lettera b), del D.Lgs.
25 maggio 2017, n. 75 .
(4) Comma inserito dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(5) Comma modificato dall’ articolo 13, comma 3-bis, del D.L. 18 ottobre 2012 n.179 e
59
successivamente dall'articolo 18, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(6) Comma sostituito dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98.
(7) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 e successivamente
sostituito dall'articolo 18, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(8) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 e successivamente
modificato dall'articolo 4, comma 16-bis, lettere a), b) e c), del D.L. 31 agosto 2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 ottobre 2013, n. 125.
(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,
n. 9226 , Circolare dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici 23 febbraio 2011, Circolare
Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici n. 1 del 23 febbraio 2011, la Circolare della Presidenza
del Consiglio dei Ministri (vari dipartimenti) 4 febbraio 2014, n. 2/2014; la Circolare della
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione Pubblica 17 febbraio 2014, n.
2;Nota del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca 22 aprile 2014, n. 5181.
ARTICOLO N.63
Controversie relative ai rapporti di lavoro
Art. 63
(Art. 68 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 33 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi
dall'art. 29 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 18 del d.lgs n. 387 del
1998).
1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative
ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2,
ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie
concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la
responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque
denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando
questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi.
L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella
controversia non è causa di sospensione del processo.
2. Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di
accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le
quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di
norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del
rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento,
condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di
un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilita',
dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attivita' lavorative. Il datore
di lavoro e' condannato, altresi', per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali
e assistenziali (1).
2-bis. Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalita', il giudice
puo' rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti,
tenendo conto della gravita' del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato (2).
3. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a
comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20
maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da
organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di
contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto.
4. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di
procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in
sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi
comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi.
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5. Nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui all'articolo 64, comma 3, il ricorso per
cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi
collettivi nazionali di cui all'articolo 40.
(1) Comma modificato dall'articolo 21, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
(2) Comma aggiunto dall'articolo 21, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.
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Il licenziamento per motivi economici nel “nuovo corso” del
diritto del lavoro
Di Guido Vidiri
Già Presidente della sez. Lavoro della Corte di Cassazione
Abstract: Il saggio affronta la complessa tematica sul licenziamento per ragioni economiche per
patrocinare una lettura del dato normativo incentrato su una lettura del disposto dell’art. 41 Cost. in
conformità del diritto dell’Unione europea. In questa ottica viene esaminata anche la problematica
attinente all’istituto del c.d. repechage ed alla ripartizione tra le parti del relativo onere probatorio
con la presa di distanza da soluzioni suscettibili di risultare permeate da condizionamenti di natura
ideologica e/o politica, tendenti a ribaltare sul versante processuale i principi fondanti dell’art. 2697
c.c.
Sommario: -1. La “grande avventura” del diritto del lavoro. -2. La moltiplicazione delle fonti
normative ed il “declino” del diritto del lavoro ….. -3. …. e l’inizio di un “nuovo corso”. -4. Il
licenziamento per ragioni economiche nella contrapposizione del diritto alla libertà di impresa ed
alla conservazione del posto di lavoro. –5. L’art. 41 Cost. e la libertà di impresa nella dottrina e nella
giurisprudenza nel diritto dell’Unione europea. -6. Il licenziamento per ragioni economiche ed il c.d.
repechage. -7- Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, repechage e giudice “terzo” ed
“imparziale”.
1. In uno scritto dal titolo “La grande avventura giuslavoristica”, risalente intorno agli anni dieci di
questo secolo, un illustre storico del diritto - nell’elogiare il contenuto di un volume redatto da P.
Ichino, R. De Luca Tamajo, G. Ferraro e R. Del Punta – attraverso il quale veniva effettuata la
ricostruzione dei sessanta anni di evoluzione del diritto del lavoro correnti dalla liberazione sino alla
fine del novecento - ha rimarcato come per i giuristi rimanesse un grosso lavoro da fare e come
risultasse necessario un altrettanto grosso impegno perché soprattutto nel settore giuslavoristico
andava vietata la “secca” di una arida posizione, che è la “perversione nichilistica ”.
Nello stesso scritto si è ricordato che nell’ultima nota a chiusura del suo saggio R. Del Punta, ha
riportato un lungo frammento di un intervento tenuto in sede accademica nel 2005 da un
giuslavorista - universalmente rimpianto (Matteo Dell’Olio ) - nel corso del quale era stato
affermato “che il diritto del lavoro è sempre stato valorista, ha sempre perseguito dei valori e il
valore di fondo … è quello della libertà e della dignità del lavoratore“ sicchè “la tutela della libertà
umana del lavoratore …… non può essere annegato, con il pretesto della partecipazione, nel diritto
commerciale, né con questo, magari con tutto il diritto, nell’economia” . Ed in successione
argomentativa si è concluso con l’affermazione di credere “che la dottrina giuslavoristica meriti
pienamente quell’appellativo che un nostro pensoso civilista, Vittorio Polacco, dava al diritto
commerciale, e cioè di essere il vero bersagliere del diritto privato” .
Benché siano trascorsi solo pochi anni dal menzionato scritto non può sottacersi che l’innegabile e
progressivo degrado del generale contesto socio-economico abbia accreditato nel giurista – che
intenda abbandonare il pur doveroso ottimismo della volontà e conseguentemente valutare con la
sola ragione la realtà in cui opera - l’opinione che l’epoca attuale sia caratterizzata da una evidente
eclissi del diritto per essersi perduti quelli che erano per la scienza giuridica i tradizionali, comuni e
rassicuranti punti di riferimento .
Tutto ciò spiega le ragioni del “disincanto” ed anche il senso di “frustrazione” di chi, avendo da
sempre privilegiato ed affinato lo studio di normative che, sul piano sostanziale e processuale,
hanno fatto del diritto del lavoro un “diritto valoriale” , si vede ora costretto ad approcciarsi con un
ordinamento complesso a più livelli, nel cui ambito si inserisce una legislazione di “disinvolta
tecnicità”, lacunosa, ambigua, come tale responsabile in buona misura anche di una giurisprudenza
62
“anarchica”, “ballerina”, “creatrice”, e non di rado anche “strabica” perché ideologicamente
condizionata .
2. Il descritto declino del diritto deve in qualche misura farsi risalire alla moltiplicazione delle fonti
normative ed alla difficile compatibilità in molti settori tra norme interne e norme di diritto europeo
stante la diversa disponibilità dei singoli Paesi a rinunziare ad una parte della propria sovranità. Dal
che conseguono effetti pregiudizievoli in termini di certezza del diritto , per essere l’ordinamento
europeo incentrato, come si è detto, su più livelli, e per di più correlato ad una legislazione interna
anche essa di difficile lettura , tale pertanto da determinare consistenti dubbi interpretativi
segnatamente sulla regolamentazione del rapporto lavorativo in sede di recesso e, più in generale,
sulla regolamentazione delle relazioni industriali, in ragione anche di un linguaggio non veritiero .
Non può negarsi infatti che nell’ambito del diritto privato proprio nel settore giuslavoristico si
assista ora con maggiore frequenza ad un proliferare di leggi prive di progettualità, volte spesso
unicamente all’acquisizione di facili ed immediati consensi, e per di più indecifrabili nei contenuti e
nei valori di supporto anche perché articolate in una pluralità di disposizioni, spesso sovrapponibili
(se non in palese contraddizione) tra loro.
3. La veridicità di quanto detto è agevolmente dimostrabile attraverso l’esame di quello che può
considerarsi, per le numerose e radicali innovazioni introdotte, un che, iniziato con la legge 28
giugno 2012 n. 92 (cosiddetta legge Fornero), è stato seguito dai diversi decreti del Jobs Act, che
hanno innovato l’assetto normativo precedente e ridotto drasticamente le tutele del lavoratore,
limitandone la libertà e la dignità.
Invero, più della legge Fornero, sono stati i numerosi interventi normativi del Jobs Act a
determinare un graduale smantellamento delle tutele del lavoratore e delle stesse organizzazioni
sindacali, con un conseguente avvicinamento dei contratti di lavoro ai contratti di scambio a
contenuto patrimoniale, con l’effetto di una progressiva del rapporto di lavoro.
Più specificamente l’art. 3 del d. lgs 15 giugno 2015 n. 81 nel modificare il disposto dell’art. 2103
c.c. in materia di , unitamente all’art. 3 del d. lgs. 4 marzo 2015 n 23 nel disciplinare il licenziamento
per giustificato motivo e giusta causa in tema di contratto di lavoro a tempo indeterminato “a tutele
crescenti”, hanno ampliato notevolmente - mediante un non equilibrato bilanciamento dei diversi
diritti coinvolti - i poteri direttivi del datore di lavoro con una più accentuata flessibilità sia nella
gestione del rapporto lavorativo che in sede di sua cessazione . Ed a tali deludenti risultati si è
pervenuti - è bene ribadirlo ancora una volta – attraverso una pluralità di norme “mal fatte”, che
oltre ad accrescere il contenzioso e conseguentemente la lunghezza dei processi, configurano una
minaccia al principio della certezza del diritto, con dirette e gravi ricadute negative sul tessuto socio-
economico del Paese anche in termini di investimenti e quindi di occupazione .
In questo nuovo assetto ordinamentale è destinato a crescere il travaglio dei difensori di quanti
intendono far valere i diritti riconosciuti al cittadino come e come < persona>. Costoro infatti -
oltre a doversi muovere tra un ginepraio di fonti normative (statali ed europee), di leggi,
regolamenti, direttive e precetti di diverso genere e natura – devono anche misurarsi con le insidie
di un processo, che attende ancora che l’intero disposto dell’art. 111 Cost. non abbia soltanto una
funzione evocativa ma trovi invece una compiuta e pronta attuazione al fine di non rimanere sino a
quando non si riceva, in tempi , giustizia da un giudice e .
Quanto ora detto spiega - soprattutto in quei casi in cui vengono in contrasto due o più diritti a
copertura costituzionale - le ragioni che conducono ad una dilagante incertezza derivante da un
mutevole soggettivismo giudiziario in sede decisionale, che impedisce sovente la formazione di
approdi giurisdizionali affidabili e resistenti nel tempo e che, quindi, non agevola la magistratura di
legittimità nell’esercizio della sua istituzionale funzione nomofilattica.
Il presente scritto non ha certo la presunzione di affrontare, né tanto meno di risolvere, tutte le
numerose problematiche scaturenti dalla intera lettura del già citato art. 3 del d. lgs n. 23 del 2015
(avente ad oggetto il “licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ”) ma solo quello di
limitarsi ad alcune riflessioni- meritevoli certo di ulteriori affinamenti- sull’istituto del licenziamento
per ragioni economiche in ragione della sua obiettiva rilevanza.
63
Non può al riguardo dubitarsi che la regolamentazione del suddetto istituto comporti in sede
applicativa il non agevole compito della interpretazione di una norma – quale quella dell’art. 41 Cost
– non agevolmente decifrabile e che per tale motivo presenta il pericolo di condizionamenti di
natura ideologica, culturale o politica nella individuazione , in sede decisionale, di un equo
bilanciamento tra due contrapposti diritti a copertura costituzionale : quello alla libertà di impresa e
quello alla conservazione del posto di lavoro .
4. In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dipendente da ragioni di
carattere economico, si riscontrano da tempo opinioni differenziate per quanto attiene agli elementi
richiesti per riconoscerne la legittimità.
Ed invero, un primo indirizzo ha già in passato statuito che il suddetto licenziamento va giustificato
sulla base della necessità di far fronte a spese di notevole entità o a “sfavorevoli situazioni
dell’impresa che non siano meramente contingenti e che inoltre influiscano negativamente in modo
rilevante sull’attività produttiva” .
Indirizzo questo che ha trovato di recente supporti in articolate argomentazioni secondo cui per la
legittimità del licenziamento economico risultano sempre necessarie oltre, come ricordato, una
“sfavorevole situazione economica” , anche “l’effettività e la non pretestuosità del riassetto
organizzativo”, dovendosi però escludere comunque la legittimità del recesso datoriale nel caso in
cui si sia agito in via strumentale unicamente per perseguire un profitto mediante un abbattimento
del costo di lavoro .
All’indicato indirizzo si è contrapposto un diverso orientamento che – sulla base di una lettura del
combinato disposto dei primi due commi dell’art. 41 Cost. – riconosce all’imprenditore, come capo
dell’impresa (art. 2082 c.c. ), una maggiore libertà nella gestione dell’azienda.
In questa ottica si è poi affermato che le ragioni inerenti alle esigenze produttive ovvero all’assetto
organizzativo e strutturale dell’impresa possono, a vario titolo, legittimare il licenziamento
individuale ai sensi dell’art. 3 della l. 15 luglio 1966 n. 604 anche in quei casi in cui la scelta datoriale
non è stata determinata dalla volontà di fronteggiare una grave crisi aziendale ma invece da un reale
e serio intento di incrementare la produzione o eliminare il pericolo di ridurre per il futuro i risultati
vantaggiosi già ottenuti .
L’esigenza di proseguire nell’excursus argomentativo con la necessaria chiarezza rende opportuna
una premessa metodologica volta a rimarcare come la problematica in esame imponga dapprima
una interpretazione della clausola generale dell’art. 3 l. m. 604/1966 (“licenziamento per giustificato
motivo”), in conformità degli standards normativi dettati dall’art. 41 Cost., per misurare poi la
tenuta di una tale interpretazione a fronte dei principi del diritto europeo.
Percorso questo destinato a risultare particolarmente impervio e scivoloso per chi è chiamato a
definire i limiti dell’applicabilità della nozione di “giustificato motivo di licenziamento” al recesso
disposto per ragioni economiche non solo per l’incertezza scaturente dalle norme interne, ma anche
in ragione di lacune e di principi non sempre chiari del diritto sovranazionale.
Ed un ulteriore impedimento al raggiungimento di un diritto europeo di “ragionevole stabilità” è
rappresentato dai c.d. controlimiti, vere e proprie barriere sollevate da ciascuno Stato per evitare
l’ingresso di principi ritenuti estranei ai valori fondanti della propria Costituzione o al proprio
assetto ordinamentale .
Al riguardo non può trascurasi di rimarcare come le stesse Alte Corti dell’Unione europea risultino
non di rado in tensione con la politica, volta a garantire comunque margini di sovranità statali
reputati irrinunciabili tanto da creare zone di oscurità ed ambiguità, ostacolando in tal modo il
formarsi di un “diritto vivente” e di una “nomofilachia europea” .
5. L’art. 41 Cost. è stata redatto all’esito di un acceso dibattito – avvenuto in sede di III
Sottocommissione dell’Assemblea Costituente su due distinti articoli (37 e 39), espressivi di due
diverse opinioni dell’attività economica, che riflettevano due opposte opzioni culturali e politiche
circa la qualificazione dell’iniziativa economica e la dimensione ed operatività dell’intervento statale.
Il testo definitivo della norma è stato aspramente criticato per la sua “pericolosa genericità” dovuta
alla impossibilità di coniugare la due tesi su cui si era discusso: l’una volta a configurare l’attività
64
economica come interamente finalizzata alla realizzazione di scopi sociali, l’altra invece deputata a
riconoscere l’iniziativa privata come libera e con il solo limite di non arrecare il danno alla
collettività .
Nell’esaminare il contenuto e la portata valoriale dell’ora vigente art. 41 Cost. si è in dottrina
affermato : che della suddetta norma è mancata “una chiave di lettura unitaria” perché è prevalsa la
sempre dominante tradizione della nostra cultura giuridica di leggere la Costituzione con gli occhiali
della ideologia ; che il precetto costituzionale in esame presenta per l’interprete le medesime
difficoltà delle clausole generali (di cui agli artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604 del 1966), perché tale precetto
per la sua indeterminatezza non è idoneo a definire con chiarezza i confini entro i quali può
esercitarsi liberamente l’iniziativa economica privata dell’imprenditore ; che nel dato letterale della
disposizione si scorge inoltre una “irriducibile poliedricità” nell’applicabilità della nozione di “utilità
sociale” a due distinti campi applicativi , costituiti ora dai rapporti dell’unità produttiva ora dalla sua
attività prodotta all’esterno .
Al fine di definire l’effettivo ambito di operatività del rapporto tra il primo ed il secondo comma
dell’art. 41 Cost. si è pure rilevato come sia necessario mettere a confronto testi giuridici diversi
attraverso quella che è stata definita interpretazione conforme , perché configura un procedimento
ermeneutico (letterale e teologico) attraverso il quale le norme del diritto interno si rendono
conformi alle norme sovranazionali .
In tale ottica una lettura dell’art. 41 Cost. rispettosa del diritto comunitario induce a prendere atto
che si è ormai giunti a livello normativo all’affermazione del principio secondo il quale l’iniziativa
economica va garantita come presupposto imprescindibile di un sistema economico funzionale alle
esigenze delle domande di mercato, con la conseguenza che l’intervento legislativo nella materia
non può condizionare le scelte imprenditoriali in modo così incisivo da determinare “ la
funzionalizzazione dell’attività economica” o più in generale la limitazione in rigidi confini dello
spazio operativo dell’attività imprenditoriale .
Né può tralasciarsi di evidenziare come per la giurisprudenza comunitaria la libertà di impresa abbia
una portata molto ampia riguardando in modo esteso l’esercizio dell’attività imprenditoriale intesa
sia come libertà di esercitare una attività economica o commerciale, sia come libertà contrattuale, sia
infine come libertà di svolgere una attività di libera concorrenza. Al riguardo si è precisato che la
Corte di Giustizia ha costruito l’attività di impresa come esercizio di attività economica personale,
che va conservata nella sua forma “pura” come “potere di libertà” , arrivando in tal modo ad
affermare che si sono compressi in modo precostituito gli stessi diritti sociali a vantaggio delle
libertà economiche .
E in linea con quanto prescritto dell’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali la giurisprudenza di
legittimità - nel rispetto del diritto dell’Unione, dei principi valoriali di cui all’art. 41 Cost. e della
legislazione interna - ha poi nella realtà fattuale più volte ribadito la legittimità del licenziamento
individuale per ragioni economiche in tutti quei casi in cui l’imprenditore esercita i suoi poteri di
gestione e di riorganizzazione dell’azienda procedendo, ad esempio : alla soppressione del posto o
del reparto cui è addetto il singolo lavoratore licenziato ; al licenziamento per ragioni inerenti
all’attività produttiva nel cui ambito rientra il riassetto organizzativo attuato per la più economica
gestione dell’azienda ; ad una suddivisione delle mansioni - in precedenza assegnate al lavoratore
licenziato - tra il personale rimasto in servizio, al fine di una più economica ed efficiente gestione
dell’impresa ; al licenziamento c.d. tecnologico nel quale la soppressione nel posto di lavoro deriva
dalla scelta dell’imprenditore in base alla quale l’attività lavorativa è allocata diversamente a seguito
di una complessiva riorganizzazione del sistema produttivo modellato sulla impresa-rete o su forme
di delocalizzazione di sedi, di reparti, o settori produttivi dell’azienda
In conclusione, l’evoluzione nel corso del tempo della giurisprudenza in ordine alla libertà di
iniziativa economica induce ad affermare che tale libertà viene attualmente ad essere pienamente
tutelata dal comma primo dell’art. 41 Cost. perché nel contrato tra l’interesse del lavoratore alla
conservazione del posto di lavoro e quello del datore di lavoro a rinunziare ad unità lavorative non
più funzionali alle esigenze dell’impresa , deve prevalere quest’ultimo interesse soprattutto in
ragione dell’incremento della produzione che ne consegue, e con esso della occupazione. Dal che
l’impossibilità di sindacare il merito delle scelte gestionali dell’imprenditore con riferimento alla
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indispensabilità o alla convenienza in senso economico della ristrutturazione, della riconversione o
delle modifiche dell’apparato organizzativo dell’azienda per essere insito nel libero esercizio di ogni
intrapresa economica il “rischio di impresa”.
Al giudice rimane, pertanto, consentito solo verificare la veridicità e la non pretestuosità della
condotta datoriale attraverso un riscontro sul nesso di causalità, da intendersi come legame di
coerenza e di stretta dipendenza tra esigenze imprenditoriali e recesso
6. In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è da tempo consolidato il principio
del c.d. repechage, consistente nell’obbligo del datore di lavoro di utilizzare il lavoratore anche in
mansioni diverse rispetto a quelle in precedenza svolte, se reperibili in azienda, ponendosi a
fondamento di tale indirizzo l’assunto che il licenziamento va considerato come extrema ratio oltre
la quale non può spingersi il bilanciamento tra il diritto dell’imprenditore ad una libera iniziativa
economica, da una parte, ed il diritto del lavoratore alla conservazione del posto, dall’altra .
Sul versante processuale, con riferimento all’onere probatorio connesso all’obbligo del repechage, la
dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, nel periodo antecedente al d.lgs. n. 81 del 2015
(modificativo dell’art. 2103 c.c.), hanno poi statuito che essendo il licenziamento, come detto, una
extrema ratio, incombe al datore di lavoro la prova della impossibilità di adibire il lavoratore a
mansioni differenti dalle precedenti.
A tale conclusione sono pervenute precisando che non è il solo datore di lavoro tenuto a fornire ad
ogni costo “elementi utili” ad individuare in concreto la impossibilità di individuazione nell’azienda
di posizioni lavorative equivalenti a quelle in precedenza svolte dal lavoratore licenziato, risultando
indispensabile per tale individuazione una concreta collaborazione di quest’ultimo .
Come è noto, il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ha rotto un argine che, ha a lungo resistito a difesa
della professionalità e dignità del lavoratore, perché soltanto di recente con l’art. 3 del d.lgs. n.
81/2015 si è ammesso espressamente, sia pure in presenza di alcuni presupposti, una modifica
peggiorativa nel tempo delle mansioni assegnate al lavoratore, anche a costo di una possibile perdita
o depauperamento della sua precedente acquisita professionalità .
Il carattere spiccatamente innovativo della nuova disciplina assume rilevanza anche sul piano
processuale perché priva di un qualsiasi fondamento la tesi, già in precedenza minoritaria, che
addossa nel repechage sul solo datore di lavoro la prova sull’impossibilità di una diversa
utilizzabilità del lavoratore in mansioni diverse da quelle in precedenza svolte.
A sostegno di quest’ultimo indirizzo si è di recente evidenziato che esso si basa sulla realistica
impossibilità del lavoratore di segnalare le diverse e nuove mansioni da svolgere perché la piena e
complessiva cognizione dell’organizzazione aziendale è prerogativa del datore di lavoro . A tale
riguardo si è fatto espresso riferimento all’art. 3 l. n. 604/1966, il cui tenore – si è poi precisato- osta
alla configurazione di un onere sostitutivo del lavoratore di allegare le diverse posizioni lavorative
nelle quali egli può essere utilmente utilizzato .
Di contro si è però addotto che è l’indicato carattere innovativo della novella sulle mansioni che
attesta la inconfigurabilità dell’obbligo del repechage, o quanto meno la riduzione del suo ambito
applicativo sul versante processuale. Si è così negato in radice il fondamento di quella
giurisprudenza che ha posto a totale carico dell’imprenditore la prova della impossibilità di una
utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quella in precedenza svolte.
Opinione questa incentrata sulla lettera e la ratio dell’art. 3 d. lgs n. 81/2015, che comprovano la
insussistenza del suddetto obbligo datoriale nel caso disciplinato dal primo comma della suddetta
disposizione, in cui il licenziamento consegue ad obiettive ragioni economiche, che portano alla
soppressione del posto di lavoro nell’ambito di posizione omogenee. In tale eventualità infatti non è
consentito richiamarsi al repechage dal momento che altri posti di lavoro in cui potrebbe essere
collocato il dipendente licenziato sono già occupati da suoi colleghi, sempre che ciò non nasconda
però un intento discriminatorio ai danni del licenziato.
Ancora più consistenti ragioni si rinvengono per non addossare interamente sull’imprenditore
l’onere probatorio nel caso di ius variandi in peius in ragione della lettera del secondo comma del
citato art. 3, che con l’usare il “può” invece del “deve” comprova come, nell’assegnare al
dipendente mansioni inferiori, il datore di lavoro eserciti un potere discrezionale .
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Nè può trascurarsi di considerare che motivi di coerenza logico-istituzionale portano ad escludere
che la novella sulle mansioni nel momento in cui ha inteso riconoscere maggiori spazi di flessibilità
nella gestione del rapporto lavorativo all’imprenditore - legittimando l’assegnazione del lavoratore a
ciascuna delle molteplici e diverse mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore
(purchè rientranti nella medesima categoria legale), comprese quelle previste dalla contrattazione
collettiva – abbia poi voluto addossargli interamente il diabolico compito di provare da solo
l’inutilizzabilità del lavoratore licenziato in ciascuno delle molteplici mansioni di livello inferiore
riscontrabili nell’azienda. E tutto questo senza una minima collaborazione da parte del lavoratore
nell’indicazione del posto di lavoro che intende in concreto occupare e della nuove mansioni che
voglia svolgere .
Tanto meno vale in contrario addurre il disposto dell’art. 3 l. n. 604 n. 1966, dal momento che la
formulazione testuale di tale norma - per riguardare la fattispecie del giustificato motivo oggettivo -
non può assumere alcun valore ai fini della ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c..
Il repechage infatti richiede che sia valutata la singola e soggettiva posizione del lavoratore
licenziato nonché le particolari condizioni solo in presenza delle quali il datore di lavoro può
legittimamente recedere dal rapporto sicchè il suddetto istituto opera su di un piano ben diverso da
quello valutativo riguardante il riparto dell’onere della prova da espletare .
Le argomentazioni sinora svolte inducono, pertanto, a concludere sul punto che il lavoratore che
impugni il licenziamento è tenuto a collaborare nell’accertamento di un possibile repechage
mediante l’indicazione dei posti di lavoro nei quali egli intende essere ricollocato perché solo da tale
indicazione può conseguire l’onere datoriale di provarne la non utilizzabilità nei predetti posti,
vigendo tra le parti i principi generali di correttezza e buon fede nei rapporti obbligatori (artt. 1175
e 1375 c.c.) e nei rapporti processuali quelli di lealtà e probità (art. 88 c.p.c.) .
7. La sempre discussa e tormentata tematica del repechage nei licenziamenti economici –
soprattutto per quanto attiene alla ripartizione dell’onere della prova – sollecita ulteriori riflessioni
di natura istituzionale perché la sua soluzione è suscettibile di venire condizionata da valutazione
extra-giuridiche in ragione delle sue rilevanti ricadute sul piano socio-economico .
Intorno agli anni quaranta del secolo scorso un noto filosofo del diritto, dopo avere qualificato
come minacce alcune cause ostative alla certezza del diritto, riscontrabili ancora oggi (ambiguità e
oscurità della norme, mutazione continua di esse, aggiunta perdurante di leggi nuove a leggi vecchie
con conseguente loro ipertrofia, moltiplicarsi delle fonti del diritto di diverso livello, lunghezza dei
giudizi) , rilevava poi che mentre in esse c’è una consapevolezza oscura e non una dichiarazione
programmatica, questa si ritrova invece nelle correnti di pensiero che tendono proprio a scalzare
questa certezza, tanto che illustri giuristi hanno in tutte le epoche espresso il timore che perdurando
tutto ciò si corresse il rischio di arrivare a contrapporre il giudice alla legge .
Pericolo sussistente tuttora soprattutto per una legislazione di cattiva fattura, che agevola uno
sconfinamento dei poteri dell’ordine giudiziario con invasioni di campo e sovrapposizioni di
competenze su altri poteri, con l’effetto finale di elevare di fatto la giurisprudenza a fonte
normativa, consentendo in tal modo al giudice di sottrarsi nel giudicare alla “autorità della legge” .
E’ doveroso infatti prendere atto che nella realtà fattuale sempre più spesso si assiste alla presenza
di un giudice propenso ad esercitare in sede interpretativa una attività creativa piuttosto che a
ricercare attraverso la lettura del dato letterale la voluntas legis.
Effetto questo in misura non certo trascurabile correlato proprio ad “opzioni culturali” riscontrabili
in ampi settori di un correntismo che, dilagante nell’ ordine giudiziario e nel suo assetto
organizzativo, mostra - nella voluta ed interessata inerzia della politica – di volere di fatto
privilegiare sulla figura di un giudice che dà del suo agire quotidiano concreta e silenziosa
testimonianza della sua “terzietà” ed “imparzialità”, quella di un giudice, che autocelebrandosi ed
autocertificandosi - con l’ausilio di incisivi apparati mass-mediatici – “autentico interprete e garante
della costituzione”, viene primo legittimato dal consenso popolare allo svolgimento di compiti
impropri, e di poi non di rado anche gratificato, sovente con ripetute messe fuori ruolo, attraverso
incarichi extragiudiziari di dubbia opportunità.
In tal modo la normativa del di cui all’art. 111 Cost. corre il rischio di rimanere ancora a lungo di
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natura evocativa e programmatica anche e soprattutto: nel diritto penale in presenza di reati regolati
da norme dal contenuto indecifrabile ; e, nell’ambito giuslavoristico, relativamente ad istituti, quale
quello in questa sede scrutinato, che richiedono una valutazione su contrapposti diritti il cui
bilanciamento - è bene evidenziarlo ancora una volta – viene operato in non poche occasioni con
“gli occhiali della ideologia” .
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I licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo
illecito: nozioni e sovrapposizioni
Di Francesca Marinelli
Professore Aggregato di Diritto del Lavoro – Università degli studi di Milano
Abstract: Il presente lavoro si propone di operare un distinguo tra le figure dei licenziamenti
ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito, partendo dalle rispettive nozioni legali, per, poi,
indagarne le sovrapposizioni. Tale operazione non ha un rilievo solo teorico, ma anche (e
soprattutto) pratico, se è vero che le tre fattispecie in parola – anche alla luce delle recenti riforme
del diritto del lavoro (in particolare la c.d. Riforma Fornero e il c.d. Jobs Act) – si trovano oggi
assoggettate non solo ad un diverso regime sanzionatorio (id est la tutela reintegratoria piena per i
licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito versus, di regola, la tutela indennitaria per il
licenziamento ingiustificato), ma anche probatorio (se è vero che mentre il licenziamento
discriminatorio gode del meccanismo di c.d. agevolazione dell’onere della prova previsto dalla
normativa antidiscriminatoria ed il licenziamento ingiustificato del regime in base al quale spetta al
datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo di recesso, il licenziamento
per motivo illecito segue, invece, la regola generale sancita dall’art. 2697 c.c. secondo cui «chi vuol
far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»).
Sommario: 1. Finalità e ragioni dell’indagine. – 2. Le definizioni legali di licenziamento
ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito. – 3. La sovrapposizione tra i licenziamenti
discriminatorio e per motivo illecito. – 4. Segue. La sovrapposizione con il licenziamento
ingiustificato. – 5. Conclusioni: i riflessi sull’onere probatorio.
1. Finalità e ragioni dell’indagine.
L’intento del presente contributo è quello di effettuare un’actio finium regundorum tra le fattispecie
dei licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito al fine di chiarire, all’indomani
della Riforma Fornero e del c.d. Jobs Act , quali siano i rapporti tra le tre figure in parola.
Una indagine di tal fatta pare, a ben vedere, utile non solo dal punto di vista teorico, ma anche in
prospettiva pratica, se solo si pone mente al fatto che, a seguito delle recenti riforme appena
menzionate, le ipotesi in parola si trovano assoggettate a una differente disciplina sia sanzionatoria
(se è vero che al licenziamento ingiustificato, anche se irrogato nelle unità produttive assoggettate al
campo di applicazione dell’art. 18 St. lav., non viene più accordata la tutela reintegratoria piena) , sia
probatoria (dal momento che, come si avrà modo di chiarire nel § 5, l’ordinamento sottopone le tre
figure in esame a un diverso regime).
2. Le definizioni legali di licenziamento ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito.
L’analisi non può che prendere le mosse dalle definizioni legislative delle fattispecie in esame.
Il quesito appare piuttosto semplice volgendo lo sguardo al licenziamento ingiustificato; la relativa
nozione appare infatti ricavabile agilmente interpretando per difetto l’art. 2119 c. 1 c.c. e l’art. 3 l. n.
604 del 1966 in combinato disposto con l’art. 1 della stessa legge 604 . Se le disposizioni in parola
qualificano come giustificato il recesso datoriale sorretto da una giusta causa o da un giustificato
motivo, è evidente che, a contrario, sarà da ritenere ingiustificato il recesso datoriale che sia di ciò
privo. Ne segue che, in base all’interpretazione consolidata delle norme in parola , nel nostro
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ordinamento il licenziamento è da ritenere ingiustificato tutte le volte in cui non sia motivato nè da
una causa in grado di alterare la fiducia – da intendere in senso oggettivo – del datore di lavoro
nell’adempimento della prestazione; né da un notevole inadempimento del lavoratore; né, infine, da
una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro o al regolare
funzionamento di essa.
Questione assai più complessa è quella che attiene alla individuazione delle nozioni di licenziamento
discriminatorio e per motivo illecito, in ragione della maggiore complessità della loro evoluzione
storica. Infatti, diversamente dal licenziamento ingiustificato, che, come visto, è stato ricondotto a
sistema dal legislatore con la l. n. 604 del 1966 – e da allora non è stato oggetto di alcuna ulteriore
modifica, almeno sotto il profilo della nozione –, ai licenziamenti per motivo illecito e
discriminatorio è toccata sorte ben diversa.
Partendo dal licenziamento per motivo illecito, lo stesso ha subito una evoluzione per così dire “a
parabola” : si tratta, infatti, di una figura forgiata all’inizio anni ’50 del secolo scorso dalla dottrina;
fatta poi assurgere ad ipotesi legalmente nominata dal legislatore con la l. n. 92 del 2012 e tornata,
infine, nell’ombra con il d.lgs. n. 23 del 2015 di attuazione del c.d. Jobs Act . Nonostante questi
“passaggi di stato”, tuttavia, la nozione di licenziamento per motivo illecito è rimasta, a ben
guardare, sempre la medesima : con tale espressione si intende, infatti, quel recesso datoriale in cui
l’interesse perseguito dal datore di lavoro, in modo determinante ed esclusivo, risulta contrario a
norme imperative , all’ordine pubblico o al buon costume o in frode alla legge .
Più complessa è la questione relativa al licenziamento discriminatorio. La figura è stata infatti
introdotta nel nostro ordinamento, per la prima volta, dall’art. 4 della l. n. 604 del 1966 per essere,
poi, ribadita dall’art. 15 St. lav. e trovare, infine, esplicita definizione nell’ art. 3 della l. n. 108 del
1990 (a norma del quale è tale il licenziamento «determinato da ragioni di credo politico o fede
religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali […]
indipendentemente dalla motivazione adottata» (art. 4 l. n. 604 del 1966) o irrogato al lavoratore «a
causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero o
[…] dirett[o] a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di
età o basat[o] sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali» (art. 15 St. lav.)).
Questa ipotesi di licenziamento discriminatorio non esaurisce, tuttavia, la fattispecie. Occorre infatti
dare conto del fatto che, soprattutto in virtù dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea ,
ulteriori ipotesi di licenziamento discriminatorio sono implicitamente ricavabili da altre disposizioni
, quali in particolare: l’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998 (da cui risulta che è discriminatorio qualsiasi
licenziamento che produca l’effetto di discriminare anche indirettamente i lavoratori in ragione della
loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad
una cittadinanza qualora questi ultimi non costituiscano requisiti essenziali allo svolgimento della
attività lavorativa); gli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 215 del 2003 (in base al quale è discriminatorio qualsiasi
licenziamento per razza o origine etnica o apparentemente neutro ma in grado di mettere le persone
di una determinata razza od origine etnica in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad
altre persone sempre che non si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e
determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima); gli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2003
(da cui risulta come discriminatorio qualunque licenziamento irrogato per religione, per convinzioni
personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale o apparentemente neutro, ma in grado
di mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le
persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in
una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone sempre che non si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento
dell’attività medesima); gli artt. 25 e 26 del d.lgs. n. 198 del 2006 (e, cioè, il licenziamento che
produce un effetto pregiudizievole discriminando i lavoratori in ragione del loro sesso, o del loro
stato di gravidanza o di maternità o paternità anche adottive o della titolarità o esercizio dei diritti
conseguenti a tali stati, o dell’esercizio di una azione volta ad ottenere il rispetto di tale principio di
parità di trattamento, o dovuto al rifiuto o alla sottoposizione a molestie o molestie sessuali, nonché
tutti quei licenziamenti apparentemente neutri, ma in grado di mettere i lavoratori portatori di un
fattore di cui sopra in una situazione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori non portatori di
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tali fattori, salvo che – ancora una volta – si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività
lavorativa).
Nonostante la richiamata pluralità di ipotesi possa indurre taluno a ritenere impossibile delineare
una nozione unitaria di licenziamento discriminatorio, a chi scrive questa operazione di reductio ad
unum appare, invece, plausibile facendo leva sul fatto che tutte le ipotesi presentano un comune
denominatore, in quanto, a ben vedere, costituiscono tutte tipologie di recesso suscettibili di
arrecare, indipendentemente dall’animus del datore di lavoro , uno svantaggio a uno o più lavoratori
portatori di uno o più fattori discriminatori tassativamente individuati dalla legge e inconferenti
rispetto all’attività lavorativa da svolgere .
Una volta definite le tre fattispecie non rimane che verificare se sia o meno possibile che esse
possano finire per sovrapporsi l’un l’altra.
3. La sovrapposizione tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito.
La questione sulla quale gli addetti ai lavori si interrogano da più tempo riguarda il rapporto tra i
licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito.
Volendo semplificare un dibattito in realtà per nulla piano, si può dire che la relazione tra le due
figure è stata letta dalla maggioranza degli interpreti per quasi cinquant’anni (e cioè fino al varo della
Riforma Fornero), come rapporto di species ad genus (quando non di vera e propria identità) .
La l. n. 92 del 2012, avendo fatto assurgere, come detto, il licenziamento per motivo illecito a
ipotesi nominata dal legislatore, ha indotto la maggior parte degli interpreti a riconsiderare la
questione, inducendo a un importante cambio di rotta.
In particolare, dottrina e giurisprudenza hanno rilevato, da un lato, l’esistenza di requisiti diversi tra
le due figure (se è vero che alla luce di quanto rilevato nel § 2 l’animus discriminandi e la sua
esclusività appartengono necessariamente solo alla figura del licenziamento per motivo illecito);
dall’altro la loro diversa ratio (se è vero che mentre il licenziamento per motivo illecito – derivando
dall’art. 1345 c.c. –, sottopone il recesso datoriale a un controllo motivazionale di conformità
all’ordinamento giuridico cui sono tradizionalmente assoggettati, in base alla norma in parola, tutti i
negozi giuridici a contenuto patrimoniale, in quanto espressione dell’autonomia individuale; le
ipotesi di licenziamento discriminatorio sottopongono il recesso datoriale ad un controllo circa i
suoi effetti – sconosciuto al nostro ordinamento codicistico –, volto a preservare l’integrità di
alcune puntuali caratteristiche dei lavoratori che, se coinvolte tout court nel rapporto di lavoro (e,
cioè, a prescindere da una valutazione circa la loro inevitabile inclusione nell’obbligazione
contrattuale di lavorare), finirebbero necessariamente per minarne la dignità.
Alla luce delle suesposte considerazioni pare plausibile concludere che le due figure in parola sono
tra loro diverse; ciò tuttavia non toglie che esse possano, talvolta, coincidere.
Un caso potrebbe essere, ad esempio, quello in cui il proprietario di una ferramenta licenziasse una
dipendente solo per le sue idee politiche. In tale ipotesi il licenziamento potrebbe essere considerato
discriminatorio, in quanto, alla luce delle notazioni svolte nel § 2, si tratterebbe di un recesso idoneo
a creare nei confronti di una lavoratrice, in ragione di un fattore tassativo (quale le opinioni
politiche), uno svantaggio pregiudizievole e del tutto ingiustificato (non sembrando plausibile, nel
caso di specie, configurare alcuna correlazione tra le idee politiche della lavoratrice e le sue
mansioni). Ciò detto, anche qualora le opinioni politiche non fossero ricomprese tra le ragioni
discriminatorie, il licenziamento potrebbe, non di meno, essere qualificato per motivo illecito se è
vero che, nel caso in esame, da un lato, il licenziamento verrebbe irrogato in modo determinante ed
esclusivo con l’animus di allontanare la lavoratrice dal posto di lavoro per le sue idee politiche e,
dall’altro, appare un valore fondante del nostro ordinamento quello per cui la libertà della persona
non può, quando non rientrante nella prestazione, essere oggetto di commercio tra gli uomini .
L’ipotizzabile sovrapposizione tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito nulla toglie,
tuttavia, alla tesi qui sostenuta secondo la quale le due figure sono tra loro autonome; lo dimostra il
fatto che è possibile configurare ipotesi in cui il licenziamento può essere qualificato per motivo
illecito, ma non anche come discriminatorio. Potrebbe, ad esempio, configurare tale ipotesi il caso
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in cui – sempre riprendendo l’esempio sopra formulato – il proprietario della ferramenta licenziasse
la dipendente solo per l’improvvisa comparsa sul viso della stessa di una importante couperose. Il
recesso in parola potrebbe, infatti, risultare contrario ad un valore fondamentale dell’ordinamento
giuridico – ossia la dignità sociale di ciascun individuo indipendentemente dalla sua condizione
personale qualora non afferente all’oggetto della prestazione di lavoro –, ma non potrebbe in
nessun caso essere etichettato come discriminatorio, non rientrando (legibus sic stantibus) l’aspetto
fisico tra i fattori discriminatori tassativamente indicati dalla legge.
Così, pare plausibile immaginare casi in cui un licenziamento possa dirsi discriminatorio ma non per
motivo illecito; potrebbe configurarlo, ad esempio, l’ipotesi in cui una emittente televisiva,
adducendo ragioni inerenti all’organizzazione del lavoro, licenziasse tutti i lavoratori non in grado di
utilizzare alcuni strumenti tecnologici e ciò finisse, indirettamente, per colpire tutti i lavoratori più
anziani. Tale ipotesi, infatti – qualora fosse provata la mancata attinenza tra l’utilizzo dello
strumento in questione e le mansioni da svolgere – potrebbe configurare un licenziamento
discriminatorio per discriminazione indiretta ratione aetatis, ma, in assenza della prova dell’intento
determinante ed esclusivo del datore di lavoro circa la volontà di pregiudicare i lavoratori solo in
ragione di un motivo anagrafico, non consentirebbe di configurare un licenziamento per motivo
illecito.
Un caso emblematico di sovrapposizione tra il licenziamento discriminatorio e quello per motivo
illecito lo configura, ad esempio, il cd. licenziamento ritorsivo, id est quel recesso «costituito
dall’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro a un comportamento legittimo tenuto dal
lavoratore colpito […] o anche da un’altra persona a quest’ultimo legata […], che attribuisce all’atto
stesso il connotato dell’ingiustificata vendetta» . Se è vero, infatti, che il licenziamento irrogato in via
determinate ed esclusiva come ingiusta reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore
rientra necessariamente tra i negozi conclusi per motivo illecito ex art. 1345 c.c. – posto che la
vendetta appare da sempre «il più tipico attentato all’ordine pubblico» –, è vero anche che, quando
la vendetta è legata a fattori discriminatori, in tal caso l’intento (discriminatorio) del datore di lavoro
di colpire un modo di essere o di pensare del lavoratore non può che prevalere su quello di
dissuaderlo dal far valere in giudizio i propri diritti .
4. Segue. La sovrapposizione con il licenziamento ingiustificato.
Una volta sciolto il nodo relativo al rapporto tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito
rimane da chiarire quale sia la relazione tra questi ultimi e il licenziamento ingiustificato.
Tale questione si è posta prepotentemente all’attenzione degli addetti ai lavori quando, all’indomani
del varo della legge Fornero, qualcuno è arrivato a sostenere la tesi secondo la quale il licenziamento
totalmente privo di giusta causa o di giustificato motivo costituisce strutturalmente anche un
licenziamento discriminatorio o per motivo illecito (così avallando la teoria – qui non condivisa –
circa l’esistenza di un rapporto di species ad genus tra le due figure).
Ad avviso di chi scrive, per risolvere il quesito è sostanzialmente necessario porsi due domande: in
primis, se sia possibile considerare un licenziamento ingiustificato per ciò solo anche come
licenziamento discriminatorio o per motivo illecito; in secundis, se sia possibile qualificare un
licenziamento giustificato, al contempo, anche come licenziamento per motivo illecito o
discriminatorio.
Con riguardo alla prima questione, occorre dare conto del fatto che gli interpreti appaiono divisi.
Infatti, mentre, come appena detto, una dottrina minoritaria ritiene che qualsiasi ragione
giustificativa del licenziamento diversa da quella lato sensu tecnico-organizzativa (id est diversa dalla
giusta causa o dal giustificato motivo) sia, come tale, da considerare discriminatoria o per motivo
illecito – in quanto inevitabilmente collegata a caratteristiche della persona del lavoratore non
attinenti alla prestazione lavorativa –, vi è un orientamento dominante che critica la richiamata
teoria, facendo leva, in particolare, sul fatto che, seguendo la strada della identità tra le figure in
parola si finirebbe per eliminare, in via interpretativa, la tutela obbligatoria prevista ad hoc dalla l. n.
604 del 1966 per il licenziamento ingiustificato irrogato ai lavoratori esclusi dal campo di
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applicazione dell’art. 18 St. lav.
Ad avviso di chi scrive per sciogliere il descritto nodo interpretativo, in primis, occorre valorizzare il
diverso ruolo che le figure in parola svolgono nell’ordinamento, ed, in particolare, il fatto che
mentre la normativa volta a reprimere i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito mira a
reprimere atti contrari rispettivamente alla dignità umana o ad altri valori fondamentali
dell’ordinamento giuridico, la disciplina volta a reprimere il licenziamento ingiustificato intende, in
prima battuta, sanzionare l’esercizio di un diritto potestativo privo dei requisiti richiesti
dall’ordinamento ; in secundis, pare necessario fare leva sul fatto che sono configurabili
licenziamenti ingiustificati, ma leciti; lo sono, ad esempio, tutti quelli in cui il giudice accerti che, pur
non essendo configurabile la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento addotti (perché,
ad esempio, il fatto contestato non sussiste (non è stato Tizio ma Caio a rubare i beni aziendali) o
perché manca il nesso di causalità tra le esigenze tecnico-organizzative addotte dal datore di lavoro
e la soppressione del singolo posto di lavoro (poiché, ad esempio, nell’ambito di una
ristrutturazione di un supermercato si licenzia il verduraio pur essendo la salumeria il reparto da
chiudere), non sia provata la discriminatorietà o il motivo illecito dell’atto di recesso.
Rimane, infine, da chiedersi se sia possibile considerare un recesso giustificato, al contempo, anche
come licenziamento per motivo illecito o discriminatorio e, cioè, se sia plausibile che ragioni
discriminatorie o per motivo illecito possano contemporaneamente integrare anche una giusta causa
o un giustificato motivo di licenziamento.
Sebbene qualcuno ritenga configurabile, almeno in astratto, tale ipotesi, ad avviso di chi scrive essa
appare giuridicamente implausibile. Per dimostrarlo basta far leva sulla dottrina che si è interrogata
sulla causa dell’atto di licenziamento .
In estrema sintesi (il che comporta la necessità di banalizzare uno dei temi più controversi del
diritto civile), la tesi in parola sostiene quanto segue: nel nostro ordinamento la causa del
licenziamento – intesa (secondo tradizione) come l’«interesse che [l’atto …] stesso è dirett[o] a
soddisfare» – è, di regola tipica (essendo il licenziamento, in quanto atto unilaterale, tipico per
definizione ) e consiste nel«l’interesse del datore di lavoro-creditore a non rimanere vincolato a un
contratto» in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento .
Conseguentemente, nel caso concreto, possono verificarsi solo due ipotesi: che il licenziamento
abbia causa tipica, id est sia giustificato (ed allora sarà sempre legittimo) o che il licenziamento abbia
causa atipica (e in quanto tale sarà sempre illegittimo). Se questo è vero, poiché la causa del negozio
non può che essere unitaria , risulta chiaro che l’atto di licenziamento non può sottendere, al
contempo, due cause diverse: una tipica e l’altra atipica. Da qui l’impossibilità giuridica di
configurare un licenziamento giustificato che sia, contemporaneamente, per la stessa ragione, anche
discriminatorio o per motivo illecito.
Se si concorda con quanto sopra detto ne deriva che il licenziamento, ad esempio, di una modella
per aver perso un occhio in seguito ad un incidente domestico sarà sempre da considerare
giustificato – nonostante l’irrogazione del recesso dipenda da un handicap (ossia da una ragione
discriminatoria) –, nel caso in cui la perdita dell’occhio oltre a compromettere la vista sfigurasse il
viso della modella; di contro, il medesimo recesso dovrà essere considerato discriminatorio qualora
la perdita dell’occhio comportasse una mera diminuzione della capacità visiva della lavoratrice, non
accompagnata da alterazioni estetiche. Allo stesso modo, come lucidamente rilevato in dottrina,
sebbene il licenziamento irrogato, ad esempio, ad un dipendente per avere intrattenuto una
relazione sentimentale con la moglie del datore di lavoro potrebbe essere considerato per motivo
illecito, l’inevitabile inimicizia personale tra datore e prestatore potrebbe, nondimeno, costituire
«per le dimensioni dell’impresa e/o la collocazione particolare del lavoratore nel suo organigramma
[…] un fattore oggettivo di rilevante turbativa del normale svolgimento dell’attività aziendale,
venendo pertanto a costituire motivo legittimo del licenziamento, in quanto motivo inerente
all’economia del rapporto contrattuale» .
A riprova di tale tesi sovviene, del resto, il fatto che lo stesso legislatore, come visto nel § 2, esclude
a priori che possa configurarsi un licenziamento discriminatorio tutte le volte in cui l’atto
svantaggioso colpisca il lavoratore in ragione del venir meno di una sua caratteristica che, pur
rientrando tra i fattori discriminatori, si trovi lecitamente inserita nell’oggetto della prestazione di
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lavoro quale caratteristica qualitativa della prestazione stessa o in funzione del risultato tipico che la
prestazione è destinata a soddisfare.
Occorre, tuttavia, sottolineare come non sia sempre facile individuare quale sia l’interesse (id est la
causa) sotteso all’atto di licenziamento. Riprendiamo, ad esempio, il caso del proprietario della
ferramenta che licenzi una dipendente di religione induista e con acne tardiva, in seguito a ripetuti e
ingiustificati gravi ritardi al lavoro . In tale ipotesi occorrerà chiedersi quale sia stato l’interesse che
ha guidato l’atto di licenziamento: l’esigenza del datore di lavoro a non rimanere vincolato ad un
contratto con una lavoratrice che non può più essere adibita alle mansioni utiliter per il venir meno
del vincolo fiduciario derivante dal notevole inadempimento o, piuttosto, l’interesse a non rimanere
vincolato ad un contratto con una lavoratrice con caratteristiche a lui non congeniali.
Mentre la giurisprudenza maggioritaria – maldestramente influenzata, come visto, dal principio
dell’esclusività del motivo illecito di cui parla l’art. 1345 c.c. – tende, in tal caso, a far prevalere
sempre la giustificazione del licenziamento rispetto alla sua illiceità/discriminatorietà, la prevalente
dottrina , conscia, da un lato, che «il fatto giustificativo possa essere [...] realizzato ad arte [...] per
dare legittimità formale all’atto ritorsivo o discriminatorio» e, dall’altro, che l’esistenza di una giusta
causa o di un giustificato possono essere addotti a “copertura” e, dunque, in frode alla legge , opta
invece per la soluzione opposta.
Ad avviso di chi scrive per venire a capo della questione può essere utile valorizzare il dato letterale
della legge. Poiché la fattispecie di licenziamento per motivo illecito richiede che quest’ultimo sia
stato esclusivo oltre che determinante nell’economia dell’atto, è chiaro che in tal caso la
giustificazione del licenziamento prevarrà sempre sulla sua illiceità ..
Diversamente accadrà con riguardo al licenziamento discriminatorio. Infatti l’art. 18 St. lav., laddove
riconosce che «qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il
licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie […] trovano applicazione le [relative]
tutele», rende ad avviso di chi scrive inequivocabile il fatto che la presenza di una giusta causa o di
un giustificato motivo di licenziamento non esclude ex se la possibilità per il lavoratore di
dimostrare che la causa concreta del recesso sia stata non l’interesse (tipico) tutelato
dall’ordinamento, ma quello (atipico) discriminatorio . Ne deriva che il lavoratore potrà sempre
essere ammesso a provare che il licenziamento irrogatogli, ad esempio, in presenza di un notevole
inadempimento, sia stato in realtà determinato dal suo aspetto o dal suo abbigliamento e, dunque,
che l’interesse sotteso all’atto di recesso datoriale non sia in realtà quello (tipico e, in quanto tale,
legittimo) di estinguere il rapporto di lavoro con un lavoratore non più utile ma, piuttosto, quello di
allontanare un lavoratore sgradito per sue caratteristiche del tutto irrilevanti ai fini dello svolgimento
della prestazione lavorativa. Alla luce di quanto detto è chiaro che nei casi considerati nel presente
paragrafo «il problema che si profila […] non è concettuale, ma essenzialmente di prova [… in
quanto] si tratta di provare quale sia stata la ragione determinante (la causa in concreto) di quello
specifico atto di recesso» .
Occorre tuttavia puntualizzare che quanto appena detto vale senz’altro per il licenziamento
discriminatorio sorretto da animus discriminandi, ma non può invece valere per l’ipotesi del
licenziamento discriminatorio privo di tale animo. Questo perché in tal caso la discriminazione è
indipendente dalla volontà del soggetto agente e, dunque, prescinde dall’interesse in concreto
sotteso all’atto negoziale.
5. Conclusioni: i riflessi sull’onere probatorio.
Giunti alle conclusioni i risultati della presente indagine sono i seguenti. Il nostro ordinamento, per
limitare il potere datoriale di recesso dal rapporto di lavoro, ha congegnato – a partire grosso modo
dalla metà del secolo scorso – tre figure: il licenziamento ingiustificato, il licenziamento
discriminatorio ed il licenziamento per motivo illecito, tra loro eterogenee non solo sotto il profilo
nozionistico (come visto nel § 2), ma anche dal punto di vista funzionale, se è vero che, mentre i
licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito sono figure predisposte dall’ordinamento al fine
di tutelare interessi di sicura tutela costituzionale quali, rispettivamente, la dignità umana ed i
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principi fondanti dell’ordinamento, il principio della giustificazione del licenziamento mira, in
primis, solo a garantire un controllo di conformità del recesso datoriale al modello astratto delineato
dal legislatore cui sono assoggettati, in base all’art. 1418, c. 1 c.c., tutti i negozi giuridici a contenuto
patrimoniale regolati da norme imperative.
Dalle considerazioni di cui sopra emerge che, nonostante le incertezze talvolta mostrate dagli
addetti ai lavori, non sono giuridicamente configurabili sovrapposizioni tra i licenziamenti
discriminatorio e per motivo illecito, da un lato, ed il licenziamento ingiustificato, dall’altro (§ 4),
mentre sono possibili, ma del tutto accidentali, le sovrapposizioni tra il licenziamento
discriminatorio e quello per motivo illecito (§ 3).
L’importanza di tale actio finium regundorum non può essere sottovalutata. Il descritto assetto,
infatti, rende non soltanto ragionevole il diverso regime sanzionatorio oggi accordato dal legislatore
– come detto in apertura – alle figure in parola, ma permette altresì di chiarire quale sia il regime
probatorio spettante a ciascuna. Cosa, quest’ultima, non da poco se è vero che l’ordinamento
mentre contempla espressamente per il licenziamento ingiustificato il regime probatorio in base al
quale spetta al datore di lavoro l'onere della prova circa la sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento , e per il licenziamento discriminatorio il meccanismo di c.d.
agevolazione dell’onere della prova, in base al quale quando il lavoratore ricorrente fornisca
elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza
di discriminazioni, spetta al convenuto l’onere di provare la sua insussistenza , nulla prevede con
riguardo al licenziamento per motivo illecito. Nonostante il silenzio del legislatore, ad avviso di chi
scrive le differenze sopra rilevate tra il licenziamento discriminatorio e quello per motivo illecito
impongono di sostenere, ex art. 14 disp. prel. c.c. , che anche laddove le riforme hanno portato ad
una omogeneità processuale tra le due figure – sottoponendo entrambe all’applicazione del rito di
cui ai commi da 48 a 68 dell’art. 1, l. n. 92 del 2012 – il licenziamento per motivo illecito deve essere
assoggettato al regime ordinario di cui all’art. 2697 c.c., secondo il quale «chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
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La costruzione dei fatti e i giudici del lavoro
Di Simone Pietro Emiliani
Avvocato e professore a contratto – Università degli Studi di Milano
Se è vero che in ogni processo civile gli avvocati devono porre grande attenzione nella costruzione
dei fatti , sembra possibile affermare che nel processo del lavoro tale attenzione deve essere ancora
maggiore, per più di una ragione.
La prima ragione ha a che fare con il rigido sistema di preclusioni che caratterizza l’introduzione dei
fatti nel processo del lavoro, e per effetto del quale la parte che non abbia correttamente adempiuto,
già con il primo atto difensivo del giudizio di primo grado, i suoi oneri di allegazione e di
contestazione delle allegazioni avversarie, si espone ad un rischio molto elevato di soccombenza .
Ma vi sono anche ragioni più profonde, e meno evidenti, che hanno a che fare con la cultura e la
particolare sensibilità che caratterizza i giudici del lavoro .
Per giustificare le affermazioni che precedono, occorre prendere le mosse dalla considerazione dei
motivi per i quali, in generale, la costruzione dei fatti assume fondamentale importanza in ogni
giudizio civile, per poi valutare le ragioni più specifiche per le quali tale importanza diviene ancora
maggiore nel processo del lavoro.
Va, allora, anzitutto ricordato che in ogni giudizio, al fine di ottenere la convinzione e la
persuasione del giudice , gli avvocati sono chiamati ad avvalersi sia di procedimenti di carattere
oggettivo diretti ad ottenere la razionale adesione del giudice sulla richiesta interpretazione ed
applicazione della norma generale ed astratta ovvero sul prospettato bilanciamento di principi, sia di
procedimenti di carattere soggettivo atti a operare nella sfera degli affetti e dei sentimenti e quindi
diretti a produrre emozione, commozione e coinvolgimento psichico in generale , così da ottenere
anche l’assenso del giudice sulla giustizia della soluzione richiesta rispetto al caso concreto .
La fondamentale importanza che la costruzione dei fatti assume in generale in ogni processo civile
deriva quindi da ciò, che essa è destinata a svolgere un ruolo essenziale su entrambi i piani sopra
ricordati, oggettivo e soggettivo.
La costruzione dei fatti è, infatti, destinata a svolgere un ruolo essenziale sul piano oggettivo,
anzitutto perché in ogni giudizio, il più delle volte è la vicenda fattuale oggetto di causa «la molla
dell’interpretazione» , la quale nell’ambito del giudizio è condizionata «dalle irrefrenabili esigenze del
fatto, sia pure entro i vincoli di disposizioni, che vogliono contenerlo nel letto di Procuste della
fattispecie astratta» .
Pertanto, la costruzione dei fatti assume decisiva rilevanza perché da essa il giudice ricaverà la
direzione da dare alla sua attività di interpretazione delle norme o di bilanciamento dei principi,
soprattutto quando l’avvocato sarà riuscito, in quella costruzione, a fare dei nudi fatti un caso,
attribuendo loro senso e valore .
V’è, poi, una seconda ragione per la quale la costruzione dei fatti assume una fondamentale
rilevanza sul piano oggettivo del convincimento razionale.
Ed infatti, alcune ricerche hanno dimostrato che la mente umana, quando è chiamata a ricostruire
avvenimenti passati, tende naturalmente ad inserire le informazioni di cui dispone all’interno di una
storia dotata di coerenza . Storia che viene infatti istintivamente elaborata operando una serie di
astrazioni e stabilendo nessi causali e temporali «anche quando questi non sono immediatamente
evidenti» , oltre che «ricostruendo inferenze laddove alcuni elementi non siano disponibili o siano
insufficienti» , e in tal senso si parla di «comprensione costruttiva» .
In tale prospettiva, ciascun avvocato, al fine di convincere il giudice «che una storia sia “vera”» ,
deve dunque narrarla in modo che sia «coerente, organica e, quindi, priva di contraddizioni. In
questo senso deve essere accettabile sul piano logico, essere cioè convincente perché credibile» . E
ciò, anche in considerazione del fatto che il giudice tenderà «a decidere il caso scegliendo una tra le
due storie raccontate in giudizio, di cui è ripresa la narrazione stessa» .
Pertanto, in quella che si presenta come una vera e propria «battaglia delle storie» in cui ciascun
avvocato tenta di «far prevalere la sua storia rispetto a quella della controparte» , la costruzione dei
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fatti diviene lo strumento fondamentale mediante il quale le vicende fattuali che l’avvocato ritiene
rilevanti possono essere esposte con uno schema di organizzazione , «con cui elementi di
informazione sparsi e frammentari, e “pezzi” di eventi, possono essere combinati e composti in un
complesso di fatti coerente e dotato di senso» .
Non meno rilevante è, però, il ruolo che la costruzione dei fatti è destinata a svolgere, in generale,
sul piano soggettivo.
Ed infatti, altre ricerche hanno ormai dimostrato che i giudici «non decidono in condizioni
emotivamente neutre, ma in base a una valutazione degli eventi associata alla componente affettiva»
. Pertanto, gli aspetti fattuali della vicenda oggetto del giudizio, per la loro capacità di operare «come
stimolo che determina una cifra affettiva» e quindi di «suscitare emozioni, sentimenti, reazioni
affettive», «sono di per sé destinati a influenzare non solo la soluzione del problema giuridico, ma
l’intero processo di ragionamento» .
Peraltro, sul piano soggettivo, occorre tenere conto non soltanto dello «stato emotivo tradottosi in
consapevolezza da parte del giudicante, che appunto reagisce, in modo cosciente», ma anche della
possibilità che il giudice, come ogni uomo, possa essere «influenzato dall’elaborazione emotiva e
dalla selezione stessa delle informazioni che la cifra affettiva determina anche inconsciamente», così
che le sensazioni-sentimento indotte dalla costruzione dei fatti finiscono per assumere rilevanza
anche in relazione alle «sensazioni immediate e viscerali, del tutto inconsapevoli, appunto, innestate
dalla vicenda umana, qualunque essa sia, che sta alla base del processo» .
L’esigenza di tenere conto anche di tali sentimenti inconsapevoli deriva, quindi, soprattutto da ciò
che essi possono determinare il concreto rischio di errori di giudizio , soprattutto quando un
prolungato eccessivo carico di lavoro abbia determinato nel giudice una situazione di «stanchezza
mentale», con l’affaticamento delle «aree cognitive di più alto livello coinvolte nello sforzo razionale
(per esempio la corteccia prefrontale)» .
Pertanto, l’accurata costruzione dei fatti diviene uno strumento fondamentale anche al fine di
aiutare il giudice ad evitare errori di giudizio, perché è con quella costruzione che l’avvocato può
richiamare l’attenzione del giudice e fornirgli, anche nelle situazioni di affaticamento mentale, «un
apporto emotivo che sa accendere la miccia di un percorso razionale» , innescando i meccanismi
della emotività virtuosa .
Se dunque quelli sopra accennati sono i principali motivi per i quali, in generale, la costruzione dei
fatti assume fondamentale importanza in ogni giudizio civile, è ora possibile esaminare le ragioni
più specifiche per le quali tale importanza diviene ancora maggiore nel processo del lavoro, sia sul
piano oggettivo che sul piano soggettivo.
Ed infatti, per quanto riguarda, anzitutto, il piano oggettivo, la maggiore importanza che la
costruzione dei fatti assume nel processo del lavoro è conseguenza della «intensa fattualità» che
caratterizza il diritto del lavoro e della conseguente maggiore rilevanza che assumono gli aspetti
fattuali dei rapporti ai fini della interpretazione ed applicazione delle norme o del bilanciamento di
principi.
Questa caratteristica del diritto del lavoro è, infatti, conseguenza sia della particolare tensione verso
la realtà dei rapporti sociali che caratterizza tale diritto per l’esigenza di realizzare il programma di
trasformazione sociale previsto dall’art. 3 cpv. Cost., in considerazione del quale «il diritto del
lavoro si sforza di sollevare il velo della forma giuridica al fine di individuare gli interessi concreti e
le dinamiche reali di potere ad essi sottostanti» , sia della maturata consapevolezza che il rapporto di
lavoro può coinvolgere l’intera persona del lavoratore il quale, infatti, nello svolgimento di tale
rapporto può esprimere e sviluppare, ma può anche compromettere, la sua personalità.
Dunque la particolare attenzione del diritto del lavoro per gli aspetti fattuali dei rapporti si spiega
anche con ciò che l’assetto di interessi che caratterizza oggettivamente alcuni rapporti di lavoro
viene considerato dalla Costituzione anche come una speciale condizione della persona che
giustifica l’attribuzione di particolari diritti dell’uomo , così che tutte le volte in cui nei fatti quella
speciale condizione possa dirsi realizzata le norme dirette a tutelare la persona che lavora reclamano
attuazione.
Per tali concorrenti ragioni i giudici del lavoro sanno di essere chiamati ad attribuire particolare
rilevanza, più che alla forma dei rapporti, alle circostanze di fatto che caratterizzano la vicenda
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oggetto del giudizio . E ciò, non soltanto quando vi sia un’espressa norma di legge a richiederlo ,
ma appunto in virtù dei principi del diritto del lavoro e della tradizione culturale che caratterizza tale
branca del diritto.
Peraltro, in virtù di tali principi e di tale tradizione, la fattualità del diritto del lavoro è suscettibile di
accentuarsi ulteriormente nelle ipotesi in cui i giudici del lavoro sono chiamati a dare immediata
applicazione alle norme costituzionali o a specificare il precetto di norme che contengono una
clausola generale , quale quella di correttezza ex art. 1375 c.c. In tali ipotesi, infatti, trattandosi di
norme che non costringono l’interprete negli stretti limiti della logica sussuntiva, i giudici del lavoro
hanno la possibilità di rispondere «ad un appello del fatto concreto» , attribuendo rilevanza
«‘immediatamente’, ossia senza mediazioni legislative e tramiti sillogistici, alla ‘concreta realtà di un
rapporto vitale’, a quella che diremmo ‘situazione di vita’, giudicata nella sua identità e specificità» .
Per quanto riguarda, poi, il piano soggettivo, va evidenziato che i giudizi lavoristici si distinguono
dagli altri giudizi civili anche perché hanno sempre ad oggetto una vicenda umana relativa ad un
soggetto c.d. debole, qual è il lavoratore , e che può essere anche particolarmente toccante dal
punto di vista umano.
Pertanto, l’impatto emotivo che, come detto, la costruzione dei fatti è inevitabilmente destinata ad
avere su ogni giudice può essere ancora maggiore rispetto al giudice del lavoro, perché alcune
ricerche hanno dimostrato che i magistrati chiamati a valutare con frequenza fattispecie che
involgono vicende umane anche toccanti, relative a soggetti “deboli”, anziché sviluppare una
maggiore capacità di distacco possono con il tempo subire più degli altri un «coinvolgimento
emotivo» .
Del resto, la possibilità che il giudice del lavoro sia esposto più degli altri giudici civili alla influenza
delle emozioni, è conseguenza anche della oralità che caratterizza il processo del lavoro, oltre che
del contatto diretto con le parti che tale processo impone fin dalla prima udienza. Anche tali
caratteristiche del rito del lavoro possono, infatti, determinare il rischio di un maggiore
coinvolgimento emotivo, perché le ricerche dimostrano che questo viene suscitato in maggior grado
dal contatto visivo .
V’è, poi, un’ulteriore ragione per la quale la costruzione dei fatti assume particolare rilevanza nel
processo del lavoro.
Va, infatti, considerato che nella generalità dei casi i giudici del lavoro hanno una conoscenza
approfondita delle norme che devono applicare, anche perché quali giudici specializzati sono
chiamati quotidianamente ad applicarle in un numero di controversie di gran lunga superiore a
quello che ciascun singolo avvocato ha la possibilità di seguire e trattare personalmente.
Pertanto, nella maggior parte dei casi e salve rarissime eccezioni l’avvocato troverà un giudice del
lavoro che, se non per i suoi studi personali, quanto meno per la sua pratica quotidiana si sarà già
formato un’opinione sulla corretta interpretazione delle norme che deve applicare.
Né tale particolare condizione del giudice del lavoro è impedita dalle riforme che, soprattutto negli
ultimi anni, costantemente mutano anche per aspetti molto rilevanti la disciplina delle materie
giuslavoristiche, perché la straordinaria vivacità e la ricchezza dell’immediato dibattito dottrinale che
accompagna ogni riforma fa sì che le diverse questioni relative all’interpretazione delle nuove
norme vengano tutte discusse e chiarite con largo anticipo rispetto al momento in cui i giudici
devono applicare quelle norme per decidere una controversia.
Peraltro, a quel dibattito partecipano spesso autorevoli magistrati, così che anche il dialogo circolare
fra i giudici e la dottrina che conduce alla sistemazione delle nuove norme finisce per realizzarsi
anch’esso in anticipo rispetto al momento in cui gli avvocati possono invocare in giudizio
l’applicazione della nuova disciplina.
Anche per tali ragioni, la circostanza che il giudice del lavoro è chiamato ad applicare
quotidianamente, in un numero considerevole di controversie, le stesse norme di legge, riduce
grandemente la possibilità di catturare la sua attenzione con discorsi che abbiano ad oggetto
l’interpretazione astratta di quelle norme, sulle quali la sua mente sarà già stata chiamata a
soffermarsi innumerevoli volte in precedenti occasioni anche quando si tratti di norme introdotte
da una recente riforma.
Pertanto, se pure è vero che anche nel processo del lavoro il difensore dovrà anzitutto presentare la
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soluzione favorevole al suo cliente come quella che è imposta dalla legge , l’avvocato che indugiasse
in maniera eccessiva sulle questioni di diritto rischierebbe di non aiutare il giudice ad adottare una
giusta decisione , tenendo anche conto del carico di lavoro che ogni giorno un magistrato è
costretto inevitabilmente ad affrontare .
Si comprende quindi come l’avvocato giuslavorista debba concentrare la sua attenzione soprattutto
sulla narrazione dei fatti se vuole accrescere le sue possibilità di convincere il giudice della bontà
delle ragioni del suo cliente.
Ed infatti, da un lato, la mente dei giudici del lavoro è, per i motivi ai quali sopra è stato fatto
cenno, una mente allenata, che ha già «ragionato in passato» , così che essi sono generalmente in
grado di individuare la soluzione giuridica della controversia anche soltanto sulla base della
conoscenza delle circostanze di fatto oggetto di causa e senza alcuna necessità di dover attendere
anche l’esposizione da parte degli avvocati delle contrapposte ragioni di diritto.
D’altro lato, e soprattutto, è con la narrazione dei fatti di causa che l’avvocato potrà ottenere
l’assenso del giudice sulla giustizia della soluzione richiesta rispetto alle particolari circostanze del
caso concreto , così che anche per tale ragione quella narrazione è destinata ad assumere
un’importanza fondamentale ai fini della decisione della causa .
Né deve ritenersi che la validità di tali affermazioni sia limitata ai due gradi del giudizio di merito,
posto che la mente dei giudici di legittimità è, anche per l’esperienza maturata, allenata in sommo
grado e che la funzione di nomofilachia non impedisce certo a giudici così esperti la considerazione
dei profili di giustizia del caso concreto anche quando non sono chiamati a decidere la causa nel
merito .
Per tutte le ragioni che precedono, l’avvocato giuslavorista, avendo a che fare con giudici che, anche
per la loro cultura e sensibilità, sono particolarmente attenti ai fatti, dovrà dunque avere soprattutto
cura di illustrare in maniera adeguata tutti gli aspetti fattuali della vicenda oggetto del giudizio
necessari a convincere e persuadere il giudice della bontà delle ragioni del suo cliente.
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NOTE A SENTENZA
La sentenza della Cassazione n. 25201/2016 sul GMO.
Bilanciamento dei diritti e clausole generali.
Di Roberto Cosio
Avvocato
Sommario: 1. Premessa. – 2. Sul mancato rinvio alle Sezioni Unite. – 3. Sull’esegesi della norma e
l’interpretazione costituzionalmente orientata. – 4. La compatibilità con l’ordinamento europeo. - 5.
Clausole generali e controllo giudiziale. – 6. Il diritto e l’interprete.
1.Premessa.
L’esame della sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25201 consente di formulare alcune
riflessioni che, almeno in parte, trascendono la materia in esame.
La sentenza prende posizione su due contrastanti orientamenti di legittimità su un tema di grande
attualità: il licenziamento individuale per ragioni economiche.
Un primo orientamento ritiene che il licenziamento individuale per GMO deve essere giustificato
dalla necessità di fare fronte a “sfavorevoli situazioni dell’impresa che non siano meramente
contingenti e che inoltre in modo rilevante influiscano negativamente sull’attività produttiva” .
Per questo orientamento, il licenziamento è legittimo solo nella ricorrenza di “fattori esterni
sfavorevoli , e si configura dunque come extrema ratio, descrivendo “la concatenazione tra i singoli
fattori” (che compongono la fattispecie) “cioè le situazioni sfavorevoli, le scelte aziendali di riassetto
organizzativo e la soppressione del posto di lavoro, in termini esclusivamente di necessità” , o di
“inevitabilità”.
In sostanza, per tale orientamento la sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda assurge
a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Secondo altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui alla legge n. 604
del 1966, art. 3, possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le
finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti (…)
opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art.
41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non
modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua
configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il naturale interesse ad
ottimizzare l’efficienza e la competitività” .
Si è altresì, considerato “estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non
impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento
di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori” .
Con la sentenza in esame, la Corte ha dato continuità (“al fine di consolidarlo”) a questo secondo
orientamento.
La sentenza , definita dal Primo Presidente della cassazione, nella Relazione della giustizia sull’anno
2016, una delle tre sentenze più importanti della sezione lavoro nel 2016 è stata paragonata “a una
sentenza delle Sezioni unite”. L’orientamento si è, peraltro, consolidato nella giurisprudenza di
legittimità del 2017 .
***
2.Sul mancato rinvio alle sezioni unite.
Il richiamo alle Sezione Unite sollecita una prima osservazione, di carattere processuale.
Non è un mistero che, con la sentenza n. 25201/2016, si sia adottato un nuovo metodo deliberativo
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all’interno della sezione lavoro, secondo il quale la questione viene previamente approfondita e
discussa tra tutti i magistrati della Sezione stessa , raggiungendosi così una soluzione interpretativa
condivisa “dalla maggioranza dei componenti e da adottare successivamente da tutti i collegi
giudicanti al fine di evitare orientamenti divergenti” .
Ma questo “metodo” può considerarsi in linea con il dettato dell’art. 374 c.p.c. il quale prevede che
la Corte pronunci a Sezioni Unite su ricorsi che presentano una “questione di diritto già decisa in
modo difforme dalle sezioni semplici” o che presentano una “questione di massima di particolare
importanza” ?
Nella disposizione si riflette un bilanciamento tra due canoni costituzionali (la soggezione del
giudice solo alla legge e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge) che favorisce l’uniforme
interpretazione della legge.
“Una sorta di principio attenuato di stare decisis”, come è stato definito , “perché non predica la
vincolatività del precedente, come nei sistemi anglosassoni di common law, ma mira a rafforzare la
uniformità della giurisprudenza e a tutelare l’affidamento nella stabilità dei principi di diritto”.
Nell’intervento delle Sezioni Unite sarebbe stato opportuno considerate le implicazioni di carattere
costituzionale (il difficile bilanciamento tra libertà d’impresa e diritto del lavoro) e di diritto europeo
(il ruolo dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali nella fattispecie) che il tema (licenziamento
per ragioni economiche) solleva.
Ma così non è stato.
Sarebbe, viceversa, auspicabile che la Corte, nel rispetto dei ruoli (tra sezioni semplici e sezioni
unite) affidi alle Sezioni unite la soluzione di contrasti giurisprudenziali su materie che richiedono
un delicato bilanciamento tra diritti costituzionalmente protetti.
Scelta che la Corte (in maniera condivisibile) ha, peraltro, ritenuto di percorrere, di recente,
nell’esame della questione della riconducibilità ad ipotesi di nullità o di temporanea inefficacia del
licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato prima del compimento dello
stesso .
Un mutamento di “metodo” (con un ritorno al passato) che, si auspica, si consolidi in futuro.
***
3.Sull’esegesi della norma e l’interpretazione costituzionalmente orientata.
La motivazione muove (correttamente) dal dato esegetico della norma.
L’art. 3 della legge n. 604 del 1966 prevede, com’è noto, che “il licenziamento per giustificato
motivo (..) è determinato (…) da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro
e al regolare funzionamento di essa”.
L’interpretazione letterale della norma, si legge nella sentenza, “esclude che per ritenere giustificato
il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini della integrazione della fattispecie
astratta, un presupposto fattuale – che il datore debba indefettibilmente provare ed il giudice
conseguentemente accertare – identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli ovvero di
spese notevoli di carattere straordinario, cui sia necessario fare fronte”.
Affermazione ineccepibile, salve le necessarie precisazioni in ordine alla natura della norma in
esame (norma generale o clausola generale) su cui si tornerà.
La diversa interpretazione, prosegue la motivazione della sentenza, “non trova riscontro in dati
interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto
e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del
licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna”.
In questa prospettiva, infatti, i limiti al licenziamento per GMO sono enucleati in presa diretta con
l’art. 41, comma 2, Cost. “avocando all’interprete l’arbitraggio tra l’utilità sociale, tutela del
lavoratore e ragioni dell’impresa oppure indagando all’interno dell’ordinamento giuridico del lavoro
subordinato alla ricerca di dati normativi capaci di curvare la disciplina del GMO piegandola ad una
maggiore garanzia del posto di lavoro”.
Tale lettura “tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta”, precisa la Corte.
“In una pluridecennale giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare – in
estrema sintesi e per quanto qui rileva – che nell’art. 4 Cost. non è dato rinvenire un diritto
all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che l’indirizzo di progressiva garanzia del
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diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e dall’art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre
temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla
discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di
attuazione, in rapporto alla situazione economica generale. In assenza di una specifica indicazione
normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto la
legge n. 604 del 1966, art. 3 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra
una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa
optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non
contingenti situazioni di crisi” .
In estrema sintesi, sembra possibile cogliere nelle parole dell’estensore della sentenza una velata
critica all’impostazione metodologica (che stà alla base dell’orientamento non condiviso) che affida
all’interprete, non appagato dal bilanciamento di interessi operato dal legislatore, di forzare il
precetto legale per la ritenuta insufficienza degli esiti del bilanciamento operato in sede di
legislazione ordinaria .
Sul tema, di per sé delicatissimo, torneremo alla fine .
L’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/66 viene, peraltro, supportata, nella sentenza, da una
lettura sistematica della stessa con l’art. 30, comma 1, della legge n. 183/2010 che. Com’ è noto,
dispone che in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico
“contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di (…) recesso, il controllo giudiziale
è limitato, esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del
presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Da quest’ultima norma si desume, come si legge in motivazione, che “una errata ricognizione del
contenuto della fattispecie astratta mediante l’inserimento di un elemento non previsto” comporta
la censurabilità della sentenza per violazione di norme di diritto a mente dell’art. 360, comma 1, n. 3
c.p.c..
***
4. La compatibilità con l’ordinamento europeo.
L’interpretazione proposta nella sentenza “non palesa profili di tensione neanche con
l’ordinamento dell’Unione europea”.
Vengono richiamate, sotto questo profilo, gli art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea e l’art. 24 della Carta sociale europea.
L’art. 30 della Carta, peraltro, non sembra trovare applicazione nella fattispecie.
La Corte di giustizia, con un orientamento costante , ritiene che la violazione del Trattato può
essere fatta valere dinanzi alla Corte soltanto nel caso in cui vi sia una norma interposta, da
intendersi come fonte normativa che espressamente disciplini la materia (ad es. una direttiva).
Nel nostro caso, anche se la materia dei licenziamenti è tra quelle di competenza dell’Unione, ai
sensi dell’art. 153 del trattato di funzionamento dell’UE, l’unica direttiva esistente riguarda i
licenziamenti collettivi e non quelli individuali.
In ogni caso, è utile ricordare che la disposizione della Carta (art. 30 ) si limita a proclamare il diritto
del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato , lasciando al legislatore
comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del
principio enunciato .
La disposizione si “ispira”, come si legge nelle spiegazioni relative alla Carta , “all’art. 24 della Carta
sociale riveduta .
Disposizione che prevede che:
“Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti si
impegnano a riconoscere:
a.Il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o
alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del
servizio.
b. Il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra
adeguata riparazione.
82
A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto
di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere diritto di ricorso contro questa
misura davanti ad un organo imparziale”.
L’ultimo comma della disposizione trova riscontro, all’interno della Carta, nell’art. 47 che assicura il
diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.
La prima parte della disposizione “ispira” , viceversa, l’art. 30 della Carta.
Anche l’art. 24 della Carta sociale europea, peraltro, si limita a stabilire l’impegno delle parti
contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra
essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”.
In dottrina si è ipotizzato l’uso di tale disposizione come norma interposta per una lettura
costituzionalmente orientata del giustificato motivo oggettivo.
Lo stesso Tribunale di Roma, nell’ordinanza del 27 luglio 2017, ha utilizzato l’art. 24 della Carta
sociale come norma interposta (con riferimento all’art. 117 Cost.) al fine di sollevare, sotto
molteplici profili, l’illegittimità costituzionale dello Jobs Act .
Anche il Consiglio di Stato, nell’ordinanza del 4 maggio 2017, n. 2043, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs n. 66 del 2010 (codice militare) nella
parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali di carattere sindacale o di aderire
ad associazioni sindacali, in riferimento all’ art. 117, comma 1, Cost. utilizzando come norme
interposte, gli artt. 11 e 14 della CEDU e l’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea.
Resta il fatto che, allo stato, la Corte costituzionale non ha utilizzato l’art. 24 della Carta sociale
come norme interposta.
Nella stessa sentenza menzionata nell’ordinanza del Tribunale di Roma (la n. 178 del 2015), la Corte
Costituzionale si limita a richiamare la Carta sociale Europea quale fonte sovranazionale di cui
occorre tenere conto nell’interpretazione della fonte costituzionale interna.
Ed è lo stesso Consiglio di Stato, nell’ordinanza già citata, ha precisato che compete alla Corte
costituzionale” stabilire se effettivamente sussista tale contrasto, previo accertamento che la norma
di diritto internazionale convenzionale tratta dall’art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia
idonea ad integrare un parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.”
.
***
5.Clausole generali e controllo giudiziale
La sentenza ha cura di sottolineare alcuni tratti comuni ad entrambi gli orientamenti esaminati.
Gli stessi attengono al controllo “giudiziale del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione
addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite
al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato
nella non pretestuosità della scelta organizzativa”.
L’affermazione, al di là delle esemplificazioni contenute in motivazione, richiede un
approfondimento.
Il legislatore italiano, nell’art. 30 della legge n. 183/010, annovera il giustificato motivo tra le
clausole generali. E la stessa giurisprudenza di legittimità è orientata in tal senso
Ma la qualificazione in dottrina è tutt’altro che scontata.
Parte della dottrina giuslavorisitica, infatti, preferisce optare per l’inquadramento nell’ambito delle
norme generali .
La norma generale, secondo Mengoni , “è una norma completa, costituita da una fattispecie e da un
comando, ma la fattispecie non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di
casi genericamente definiti, mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione il giudice
è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente
vigenti nell’ambiente sociale in cui opera (…). Questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine
maggiore di discrezionalità, e così ammette un certo spazio di oscillazione della decisione; ma si
tratta di una discrezionalità di fatto, non di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme” .
Le clausole generali, viceversa, “sono norme incomplete, frammenti di norme; non hanno una
propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi
normativi di altre disposizioni (…). Nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale
83
introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti
o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall’esito del confronto
certe conseguenze giuridiche, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie sorte in quell’ambito” .
La distinzione è, ovviamente, estremamente, rilevante, perché nel caso di norme generali la tecnica
legislativa lascia al giudice solo una discrezionalità di fatto e non una discrezionalità produttiva o
integrativa di norme.
Non solo.
Nell’applicazione delle clausole generali, il meccanismo di sussunzione opera alla rovescia.
“E’ il fatto concreto che và sussunto nella norma”, “è il giudizio di fatto (espresso sulla base di
parametri extralegali (…) a riempire il contenuto e a concretizzare la clausola generale” .
Aderendo alla qualificazione del GMO come “clausola generale” occorre ricordare l’insegnamento
della Cassazione che si è formato alla fine del secolo scorso.
La Suprema Corte, fin dal 1998 , ha elaborato, infatti, una serie di principi (in tema di giusta causa)
che devono servire da guida per l’operatore di diritto.
In particolare, la Corte ha chiarito che:
a) Nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica “il giudice di
merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa
(…) in quanto da concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto
tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quanto dal
lavoratore un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè
la legge richieda tale elemento”;
b) Tale “giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice del merito deve (…)
conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad
una serie di standars valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi
compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di lavoro la c.d. civilità del lavoro”;
c) “la valutazione di conformità – agli standars di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in
essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa
che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione
nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida ”.
Si tratta di affermazioni di grande rilievo in cui si coglie la valorizzazione dei c.d. standards
valutativi esistenti nella realtà sociale che insieme ai principi generali offrono supporto (e
legittimazione) all’attività di integrazione giuridica della norma posta in essere dal giudice di merito.
E la “conformità ai principi generali dell’ordinamento”, non a caso, è ribadita nell’art. 30 del
collegato lavoro.
Aderendo a tale ricostruzione va approfondito il tema del controllo giudiziario sul GMO in base ai
tratti comuni dei due orientamenti esaminati nella sentenza in commento.
Occorre ribadire, infatti:
a) che il potere organizzativo può incontrare dei limiti di natura legale (il divieto di effettuare un
decentramento produttivo) o contrattuale (la contrattazione collettiva, ad esempio, può imporre un
numero minimo di addetti per gestire un certo servizio).
La Cassazione (Cass. 5 settembre 2000, n. 11718) ha ritenuto, ad esempio, illegittimo un
licenziamento per GMO disposto a seguito di un decentramento organizzativo realizzato dal datore
di lavoro in violazione dei limiti posti dalla contrattazione collettiva.
Le stesse “valutazioni tecniche”, secondo alcune opinioni, sembrano rientrare (almeno in parte)
nell’ambito del controllo giudiziale allorchè appaiono inattendibili “attraverso un controllo di
ragionevolezza e coerenza tecnica del provvedimento datoriale teso ad accertarne l’attendibilità sul
piano scientifico”
b) Gli stessi contenuti delle ragioni produttive o organizzative non sono esenti da controlli.
Nella soppressione del posto è il riassetto organizzativo il prius e la soppressione del posto di
lavoro il posterius .
Come si legge in Cass. 28.9.2016, n. 19185, infatti, vi è “la necessità di verificare il rapporto di
congruità causale tra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i
compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è
84
necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un effetto di
risulta”.
c)Occorre, peraltro, un rapporto di causa-effetto tra la decisione organizzativa ed il licenziamento
del lavoratore. In ossequio alla giurisprudenza dominate non basta accertare l’esistenza di una logica
connessione tra scelta e licenziamento (una delle diverse possibili connessioni) ma occorre verificare
che il licenziamento risulti casualmente necessitato (unica e necessaria conseguenza dell’opzione
organizzativa)
d) Le ragioni del licenziamento vanno, infine, esternate in forma scritta nella lettera di licenziamento
(art. 2, comma 2, l. n. 604/66 come modificato dall’art. 1, comma 37, della l. n. 92/12) in modo
specifico con la conseguenza che una motivazione generica ne può comportare, di per sé,
l’illegittimità (come nel caso esaminato dal Tribunale di Roma nell’ordinanza di rimessione alla
Consulta).
e) A ciò deve aggiungersi la lungimirante indicazione contenuta nella sentenza in commento (n.
25201/16) che, dopo aver affermato la sufficienza per la legittimità del GMO delle ragioni “che
determinano un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una
individuata posizione lavorativa” precisa “ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando
l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere
straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare
ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della
causale addotta dall’imprenditore”.
***
6.Il diritto e l’interprete.
Un’ultima notazione.
Nella sentenza si legge:
“Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l’attività
economica, anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una
singola posizione lavorativa, debba seguire la strada di inibire il licenziamento individuale, fermo
restando che chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa
essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla
concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza
produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi. Non
spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall’art. 3 (…), surrogarsi nella
scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della
mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la
migliore opzione per l’impresa e la collettività”.
E’ altamente istruttivo porre a confronto queste affermazioni con quelle contenute in un’altra
sentenza fondamentale della Cassazione del 2016 (la n. 14188), sempre a sezione semplice, che,
dopo circa 50 anni, ha mutato la qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale
(riconducendola nell’area della responsabilità contrattuale anziché extracontrattuale).
Afferma la Corte (nella sentenza n. 14188/16) che “il significativo ampliamento dell’area di
applicazione della responsabilità contrattuale (…) è certamente frutto di un’evoluzione nel modo di
intendere la responsabilità civile che dottrina e giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di
assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, poiché
involgenti i loro beni ed interessi – sempre più numerose e diffuse nell’evolversi della società, dei
bisogni e delle esigenze dei cittadini – una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita
dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.”.
Nelle parole della Corte, in quest’ultima sentenza, emerge l’esigenza di dare soddisfazione a bisogni
di tutela via via emergenti e non rinvenienti un’adeguata tutela nelle norme in cui tradizionalmente
venivano sussunte.
In questa affermazione si avverte un distacco dalla fattispecie che disvela un bisogno, un’esigenza di
tutela che la fattispecie non ha avuto la volontà di individuare.
Fattispecie è species facti. “descrizione o immagine, non di un fatto già accaduto e quindi
accertabile mercè un giudizio storiografico, ma di un fatto futuro o di una classe di fatti futuri, che
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la norma considera dotati di un qualche grado di probabilità”.
Due fenomeni mettono in crisi il concetto della fattispecie.
A) Lo spostarsi dei criteri di decisione giudiziaria al di sopra della legge. L’innalzarsi dalle leggi
ordinarie alle norme costituzionali (che, in linea di massima, sono norme senza fattispecie).
B) Il “salire” dal diritto ai valori, cioè a criteri supremi che si celano o si calano nelle norme
costituzionali .
I valori valgono in sé e per sé, non hanno bisogno di altre norme o di tramiti, ma si appoggiano
soltanto su stessi. Le parti non espongono al giudice eventi riconducibili a casi “stati di fatto
contrari al diritto”, ma “situazioni di vita”, contenuti di esperienza e domande e risposte nel segno
dei valori.
Il fatto non ha più bisogno di convertirsi in caso, poiché il valore non richiede un tipo di evento,
ma una situazione di vita da approvare o disapprovare. Il giudizio di valore non assegna predicati,
ma piuttosto reagisce a una situazione della vita.
***
Ma la crisi attuale non investe, solo, la categoria della fattispecie ma, più in generale, le categorie
(soggetto, beni, atto di autonomia, responsabilità) sulle quali era costruito l’impianto delle “Dottrine
generali del diritto civile” di Francesco Santoro Passarelli.
Non a caso si afferma che è in atto una rivisitazione di quell’impianto non per contestarne
l’originario equilibrio, ma per rendere esplicito ciò che troppo spesso rimane sottinteso “che il
diritto civile, sede privilegiata di raffinate ricostruzioni operative ricostruttive, deve liberarsi dal letto
di Procuste di categorie assunte come degli a priori, perché ciascuna di esse può essere
legittimamente configurata (e, al limite, rimodellata o accantonata) solo all’esito del procedimento
interpretativo, ormai definitivamente libero dal preconcetto che il suo punto di riferimento
oggettivo sia soltanto un sistema di enunciati posti”. Operazione che richiede un radicale
mutamento di prospettiva. “non più un diritto che nasce dall’alto, nella rarefatta atmosfera di
palazzi dove si fa sintesi dei conflitti sociali (…) ma semmai dal basso nei luoghi in cui questi
conflitti si consumano e trovano soluzioni o in difficili mediazioni socio-economiche o nel delicato
crogiolo del giudizio” (pag. 7).
Ciò implica non soltanto la necessità di rivedere le tradizionali categorie ordinanti, ma impone
“all’uomo di diritto di intendere le novità di un ruolo che non gli chiede più di limitarsi a dati da
altri posti (nell’esercizio che pretende comunque di imporsi alla società), ma lo sollecita a rendersi
artefice di una tessitura per il cui risultato finale spetta fondamentalmente a lui mettere insieme la
trama delle regole dettate con l’ordito delle situazioni concrete, consapevole peraltro che
l’incomparabilità delle persone esclude il riferimento a paradigmi astratti applicabili in maniera
indifferenziata”.
Il paradigma del valore “si sposta dalla legge al giudizio, assegnando al giurista (teorico o pratico)
una funzione che era rimasta soltanto implicita nella stagione delle grandi omologazione
assiologiche (pag. 3). Spostamento che, secondo questa impostazione, impone di liberarsi della falsa
convinzione che la decisione in base alla razionalità sussuntiva offra maggiori certezze di quella
radicata su valori.
In definitiva, il problema sta in ogni caso nella misura di condivisibilità della soluzione. “Nella realtà
del postmoderno il dettato normativo tende inevitabilmente ad essere un punto di arrivo, non un
punto di partenza. Né c’è più necessità di nascondersi dietro lo schermo della precomprensione,
perché ormai anche le Corti costituzionali e i massimi consessi giurisdizionali (…) dichiarano
esplicitamente che l’oggetto delle loro analisi non sono solo i testi, ma contesti, non sono dettati da
esperienze, non sono parole ma fatti” (pag. 5).
***
Rivisitazione di categorie e di ruoli che trova riscontro nelle posizioni dell’attuale Presidente della
Corte costituzionale espresse, da ultimo, nella lezione inaugurale dei corsi di formazione per l’anno
2017 della “Scuola Superiore della Magistratura”.
In particolare, nel saggio sulla odierna incertezza del diritto , Paolo Grossi invita a liberarci della
“forca caudina” costituita dalla netta antitesi certo/incerto.
“La certezza quale principio sommo di cui parla Lopez De Onate deve essere colto come
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strettamente collegato a una civiltà improntata a un fermo assolutismo giuridico (…) deve essere,
insomma, vista come strumentale alla autorità investita del potere di produrre le norme”.
Poiché non era in discussione la giustizia dei contenuti della norma ci si doveva arrestare
all’inestimabile bene della certezza.
Oggi non è più così.
“La rilettura dei testi delle leggi ordinari alla luce dei principi raccolti nella Costituzionale ha, infatti,
consentito di fare esprimere all’interprete la loro potenzialità e ricchezza, ignota a ogni proposizione
legale” (pag. 71).
Basti pensare all’uso del principio di ragionevolezza e alle sue molteplici applicazioni della Consulta
per rendersene conto.
L’avventura costituzionale italiana, insomma, “ha rappresentato la salutare messa in discussione di
una legalità unicamente legislativa e di una certezza unicamente formale” (pag. 75).
Una seconda svolta, epocale, è costituita, nel tempo postmoderno, dal “fertile laboratorio giuridico
rappresentato dall’Europa” (pag. 75) “che ha consentito alla Corte di giustizia (attraverso
l’applicazione di principi quali la proporzionalità) di dare voce alla comunità di diritto che stà alla
base dell’Unione” (pag. 76).
L’asse portante della nostra civiltà post-moderna, conclude Grossi (pag. 81), “è necessariamente
spostata da un nomo tema (troppo spesso impotente o sordo) all’interprete, soprattutto al giudice
che per sua vocazione professionale ha di fronte la questione ed è chiamato a dirimere la
controversia”.
***
Di diverso avviso si mostra, però, IRTI negli scritti raccolti nel volume “Il diritto incalcolabile”.
Il pensare (e decidere) per valori – come che siano intuiti, immanenti o trascendenti, calati dall’alto
o emersi dal basso – “è altezzoso soggettivismo concreto. Il giurista dei valori innalza a valori ciò
che fa valere con l’energia della propria volontà, o d’una volontà comune a sé e d altri. (Nietzsche ci
ha svelato questi percorsi interiori). Egli si pone di fronte alla “situazione di vita”, e risponde con la
concreta immediatezza del valore” (pag. 15).
La crisi della fattispecie non è crisi della decisione.
“Il diritto sente orrore del vuoto e le società umane hanno sempre bisogno del giudizio” (pag. 31)
“La calcolabilità non esclude il nichilismo giuridico ma lo rinserra in vincoli procedurali e in
coerenze argomentative: appunto, il salvagente della forma” (pag. 13 e135).
Cosa intenda IRTI con tale espressione viene chiarito nel saggio I cancelli delle parole (pag. 69-87).
Il punto di partenza del ragionamento consiste nella riaffermazione che “il testo normativo ha da
essere punto di partenza e punto d’arrivo, poiché non c’è nulla al di sopra o al di sotto di esso: tutto
è dentro il suo cerchio” (pag. 70).
Non a caso viene richiamato il monito di Adolf Merkl , la lingua è “il grande portone attraverso il
quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini”.
Due sono le indicazioni essenziali, in questo contesto.
Allargare la mediazione delle leggi ordinarie. La vena di irrazionalità “che oggi percorre
l’ordinamento e affiora inattesa nelle decisioni dei singoli casi, sarebbe arginata o raffrenata, se
norme e principi, generali o universali, si calassero in leggi ordinarie dotate di fattispecie” (pag. 71),
liberando il giudice dalla solitudine della particolarità. La mediazione delle leggi ordinarie è, altresì, o
forse soprattutto, mediazione del linguaggio tecnico, “poiché esse abbandonano parole solenni e
vaghe (…) e scendono alla terminologia propria del diritto”. (pag. 73)
Restituire la sentenza ad applicazione di norme positive e fondare la decisione giudiziaria sull’antico
e saldo terreno della fattispecie (pag. 72).
***
Le considerazioni (e preoccupazioni) di IRTI sono condivise da ampi settori della dottrina e della
giurisprudenza.
Basti qui ricordare (per la dottrina) le parole di Luigi Ferrajoli :
“l’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è che la cultura giuridica, attraverso la teorizzazione e
l’avallo di un ruolo apertamente creativo di un nuovo diritto affidato alla giurisdizione – inteso
come creazione – contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un
87
ulteriore ampliamento degli spazi già amplissimi della discrezionalità dell’argomentazione e del
potere giudiziario, fino all’annullamento della separazione dei poteri, al declino del principio di
legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge” (pag.
170).
Preoccupazioni condivise da VIDIRI laddove parla di “un diritto incerto” che trova origine da una
“tecnica legislativa approssimativa e lacunosa” e da una giurisprudenza “non di rado anarchica e
creativa ed anche ideologicamente condizionata” (pag. 7). Ed ancora che il tema della mediazione
giudiziale, nell’applicazione del diritto del lavoro, è “infido e scivoloso dal momento che esso
rischia di essere trattato (…) in chiave politico-ideologica”.
***
Alla luce delle superiori premesse, una lettura, a specchio, delle due sentenze sopra citate e quanto
mai illuminante.
Nella sentenza sulla responsabilità precontrattuale prevale un distacco dalla fattispecie che disvela
un’esigenza di tutela che la fattispecie non ha avuto la capacità di individuare.
Il richiamo al dialogo tra dottrina e giurisprudenza (innalzata a fonte del diritto) assicurerebbe, in
questo contesto, la tenuta, complessiva, del sistema giuridico. Nella sentenza sul licenziamento per
GMO, viceversa, la decisione si fonda “sull’antico e saldo terreno della fattispecie”, pur nella
consapevolezza che i risultati ermeneutici (fondati sull’esegesi del testo) devono fare i conti con
un’interpretazione conforme alla Costituzione e alle fonti europee.
Approccio che, dal punto di vista metodologico, sembra, certamente preferibile.
88
Prime considerazioni sulla questione di costituzionalità del
Jobs act sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza del
26.7.2017
Di Carla Musella
Presidente della sez. lavoro del Tribunale di Napoli
Abstract: il commento esamina la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Roma, nel
contesto del principio di giustificazione di ogni recesso, già affermato dalla Corte Costituzionale nel
lontano 1965, con particolare riguardo al parametro dell’art. 3 Cost. ed alla contemporanea vigenza
nel nostro ordinamento giuridico di due diversi regimi di tutela per la stessa tipologia di
licenziamento illegittimo. Il commento, premesso il rispetto delle norme sottoposte al giudice delle
leggi del principio dell’affidamento, esamina i profili della razionalità e ragionevolezza del diverso
regime vigente per gli assunti prima del 7.3.2015, ai quali si applica l’art. 18 Statuto come modificato
dalla legge 2012/92 e per quelli assunti dopo, ai quali si applica il decreto legislativo 2015/23
emanato sulla base della legge delega 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c).
1. Le norme del Jobs act oggetto dell’ordinanza del tribunale di Roma.
La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma riguarda la sanzione economica
prevista dal complesso normativo legge 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c) e decreto legislativo
23/2015, artt. 2, 3 e 4.
Tuttavia, se l’occasione per la rimessione al giudice delle leggi è stata la sanzione prevista per il
licenziamento economico per giustificato motivo oggettivo, è l’intero sistema sanzionatorio per i
licenziamenti illegittimi, a partire dalla legge delega, che viene investito delle censure di violazione
degli artt. 3, 4, 76 e 117 Cost. .
Tutto il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo, a cui fa rinvio anche l’art. 10 del decreto
legislativo n. 23/2015 relativo ai licenziamenti collettivi, sarà sottoposto al vaglio del giudice delle
leggi. Del resto sospetti di incostituzionalità della nuova disciplina sono stati avanzati dalla dottrina
immediatamente dopo la sua entrata in vigore , anche se si sono levate voci in favore della
compatibilità costituzionale e comunitaria del Jobs Act.
Qualunque sia l’opinione che può aversi al riguardo, è bene premettere che il decreto legislativo
23/2015 rispetta il principio costituzionale, più volte applicato dalla Corte, della tutela
dell’affidamento nei rapporti di durata, vale a dire l’attenuazione del principio di uguaglianza nel
passaggio da un regime giuridico ad un altro tipico delle leggi di riforma che non si applicano ai
rapporti giuridici sorti prima della loro entrata in vigore.
Come è noto il decreto legislativo 4.3.2015 n. 23, oltre a non aver creato una nuova tipologia di
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato , ha modificato unicamente le sanzioni per
tutti i tipi di licenziamento illegittimo solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tempo
indeterminato dal 7.3.2015. Per i lavoratori già in servizio a quella data si continua, invece, ad
applicare la legge 28.6.2012 n. 92 di riforma del mercato del lavoro. Risulta, pertanto, rispettato l’art.
3 cost sotto il profilo della tutela dell’affidamento nei rapporti di durata, come sarà più ampiamente
trattato nel paragrafo 7.
Ma il vaglio di costituzionalità non riguarda affatto quest’aspetto che certamente, da solo, non può
valere a rendere le nuove norme compatibili con la costituzione.
L’ordinanza rimette, dunque, alla Corte l’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi
del Jobs act incluso l’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 per il licenziamento discriminatorio,
nullo ed intimato in forma orale.
La scelta di rimettere alla Corte Costituzionale anche l’art. 2 del decreto legislativo 2015/23 appare
tecnicamente ineccepibile in quanto il giudice ha ritenuto la non conformità alla Costituzione
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dell’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi disciplinato dagli art. 2, 3 e 4 del
DLVO 23/2015 come fondato sulla legge delega art. 1 comma 7 lettera c).
Non si condivide, quindi, la critica, contenuta in uno dei primi commenti all’ordinanza di
rimessione, sulla incomprensibile inclusione nella questione di costituzionalità della disciplina del
licenziamento nullo, discriminatorio di cui all’art. 2 del DLVO 23/2015.
L’autore sostiene che non si comprende perché venga sollevata la questione di legittimità anche
dell’art.2 DLVO 23/2015 quando, secondo lo stesso iter argomentativo dell’ordinanza di
rimessione, non sarebbero presenti nella tutela reintegratoria forte prevista dall’art. 2 DLVO
23/2015 quei motivi di inadeguatezza e irragionevolezza che il Giudice rileva in relazione alla sola
tutela indennitaria.
In realtà è tutto l’impianto normativo che disciplina la tutela dei lavoratori assunti dopo il 7.3.2015
che è investito delle censure, tenuto conto che esso è destinato interamente a sostituire l’art. 18
dello Statuto, come novellato dalla legge 2012/92, rimasto in vigore per i rapporti di lavoro
subordinato stipulati antecedentemente al 7.3.2015 data di entrata in vigore del decreto legislativo
4.3.2015 n. 23.
Del resto non avrebbe avuto senso rimettere alla Corte Costituzionale solo la disciplina della
sanzione nei licenziamenti economici perché è evidente il collegamento logico e giuridico tra le
norme del decreto legislativo 2015/23 emanate sulla base delle regole contenute nell’art. 1 comma 7
lettera c) della legge delega 10.12.2014 n. 183; scelta, quindi, tecnicamente ineccepibile quella del
giudice remittente, anche in base al rilievo che la reintegra nel posto di lavoro non viene ritenuta,
nell’ordinanza di rimessione, tutela costituzionalmente necessitata e, quindi, non viene censurata la
esclusione della reintegra per i licenziamenti economici, ma appunto la disparità di trattamento tra
vecchi e nuovi assunti, l’entità della sanzione, l’assenza di discrezionalità del giudice nell’applicare la
sanzione concreta e così via, nel contesto di una riforma delle sanzioni per il licenziamento
illegittimo che ha riguardato anche i casi di nullità del licenziamento, rispetto alla disciplina vigente
del 2012. Anche la disciplina del licenziamento nullo e discriminatorio contenuta nell’art. 2 del
decreto legislativo 2015/23 presenta alcune differenze di disciplina rispetto alla riforma del 2012,
come evidenziato dalla dottrina. E come si vedrà nel prosieguo, è proprio sul terreno della
contemporanea vigenza di due diversi regimi sanzionatori per i licenziamenti illegittimi che si fonda
la questione di costituzionalità.
L’eventuale accoglimento integrale della sollevata questione comporterebbe l’estensione del sistema
sanzionatorio previsto dalla legge precedente n. 92 del 2012 cd. legge Fornero e, quindi, l’art. 18
novellato con le tutele differenziate ivi previste anche agli assunti dopo il 7.3.2015 .
In definitiva la Corte, in caso di accoglimento, è chiamata ad un’operazione chirurgica di
invalidazione integrale delle nuove norme anche con riguardo alla disciplina dei licenziamenti nulli e
discriminatori, che comporterebbe l’applicazione di un solo regime sanzionatorio per i licenziamenti
illegittimi nell’area di applicazione dell’art. 18 statuto.
Ovviamente ciò vale in caso di accoglimento, mentre gli esiti del giudizio di costituzionalità
possono essere di inammissibilità o rigetto tout court della questione, oppure interpretativa di
rigetto o di accoglimento, o ancora manipolativa o con monito al legislatore.
2. Il principio di giustificazione di ogni forma di recesso nella giurisprudenza della Corte
costituzionale.
Il giudice remittente, come si è appena detto, espressamente esclude la censura di illegittimità
costituzionale delle nuove regole in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo per
l’avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria – se non per i licenziamenti nulli e discriminatori e
per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare - in conformità a quanto più volte ribadito
dalla Corte costituzionale e ritiene conforme a Costituzione l’avvenuta marginalizzazione della
reintegra .
Il giudice delle leggi ha, invero, ripetutamente escluso che la tutela reintegratoria costituisca l’unico
possibile paradigma attuativo dei precetti costituzionali di cui agli art. 4 e 35 cost. (sentenze
46/2000, 44/1996 e 194/1970).
Tuttavia nella sentenza 46/2000, relativa alla proposta di referendum abrogativo dell’art.18 Statuto,
90
in particolare, la Corte Costituzionale, dopo un breve excursus storico normativo sul pregresso
regime di libera recedibilità ex art. 2118 c.c. con obbligo di preavviso, afferma la introduzione,
attraverso la legge 15.7.1966 n. 604, del principio di necessaria giustificazione del licenziamento e
sottolinea come l’art. 18 Statuto sia indubbiamente manifestazione dell’indirizzo di progressiva
garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 cost che ha portato nel tempo ad introdurre
temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro.
Al tempo stesso la Corte costituzionale affida alla discrezionalità del legislatore le modalità di
realizzazione a tale temperamento, ritenendo che la reintegra non concreti l’unico paradigma
possibile dei principi ricollegabili agli artt. 4 e 35 Cost.
La decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale degli art. 1 comma 7 lettera c)
della legge delega 183/2014 e artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 2015/23 avrà, dunque, un peso
decisivo sulla perdurante tenuta o meno, nel nostro ordinamento, del principio di giustificazione di
ogni forma di recesso; principio opposto a quello di libera recedibilità che, già dal 1965, la Corte
Costituzionale ha affermato chiaramente non essere più un principio del nostro ordinamento, tanto
da determinare l’emanazione, di lì a poco, della legge 1966/604.
In definitiva il principio di giustificazione di ogni forma di recesso dal rapporto di lavoro
subordinato costituisce il frutto del bilanciamento di diversi principi presenti nella Costituzione e,
quindi, un limite alla pur ampia discrezionalità del legislatore nel difficile compito di innovazione
del diritto del lavoro.
Tale principio trova inoltre riscontro nelle fonti internazionali, richiamate dal giudice remittente, tra
cui in particolare l’art. 30 carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui deve ritenersi
costituzionalizzata la garanzia del lavoratore ad essere licenziato solo per giustificato motivo.
Conclusivamente l’inesistenza del principio di libera recedibilità è una certezza dell’ordinamento
giuridico attuale con conseguente impossibilità per il legislatore di reintrodurlo attraverso forme
attenuate o tendenziali.
3. La questione principale: Art. 3 Cost. razionalità e ragionevolezza
Pur essendo richiamati vari profili di illegittimità costituzionale delle nuove norme nell’ordinanza di
rimessione, il filo rosso della decisione della corte costituzionale sarà verosimilmente rappresentato
dal principio di uguaglianza nelle sue declinazioni della razionalità e ragionevolezza.
Il tema principale sembra rappresentato dalla concomitante esistenza di due diverse forme di tutela,
a parità sostanziale di situazioni, tra i lavoratori assunti prima del 7.3.2015 ai quali, in caso di
licenziamento economico illegittimo si applica una sanzione che varia a seconda della situazione e
della tipologia di illegittimità previste dalla legge 2012/92 e i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 ai
quali si applica una sanzione economica prefissata dal legislatore che cresce di due mensilità di
retribuzione per ogni anno di servizio.
Come sarà analizzato al paragrafo 6, il cuore della censura di illegittimità costituzionale riguarda la
diversità di regime a parità di condizioni sostanziali e di identica illegittimità del licenziamento e,
quindi, investe il principio di razionalità della legge.
La giurisprudenza costituzionale ha fissato il principio di razionalità nella formula “a situazioni
uguali, legge uguale, a situazioni diverse leggi diverse” . E’ chiaro che il problema per il giudice delle
leggi sarà quello di verificare l’equivalenza delle situazioni di fatto tra lavoratori assunti prima e
dopo il 7.3.2015 e controllare se la data di assunzione sia in grado di evitare la “rottura dell’interna
coerenza dell’ordinamento giuridico”.
In tale giudizio la Corte seguirà lo schema ternario diverso da quello binario legge – costituzione. Il
contrasto non dovrà essere esaminato direttamente tra norme della legge delega e del decreto
legislativo n. 23 del 2015 e art. 3 Cost, ma dovrà intervenire nel giudizio il terzo attore il cd. tertium
comparationis rappresentato dalla norma di paragone che è costituita dalla legge 2012/92.
Il controllo del giudice delle leggi riguarda, altresì, la ragionevolezza vale a dire la prudenza e l’equità
della scelta legislativa nel contesto dell’insieme delle prescrizioni costituzionali.
Riguarda, infine, l’art. 3 Cost. con riferimento all’automatismo legislativo previsto in caso di
illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla fattispecie concreta, che impone al giudice di
applicare, in ogni caso, la sanzione economica prevista dalla legge aumentata di due mensilità per
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ogni anno di servizio, precludendo, quindi, qualsiasi discrezionalità idonea ad adattare la regola
astratta al caso concreto.
Ed è proprio il caso concreto che mette a nudo la capacità del diritto di regolare con efficacia e
ragionevolezza i comportamenti umani e di costituire un limite all’arbitrio.
Appare, quindi, opportuno, prima di analizzare più ampiamente il tema dei principi costituzionali
coinvolti nel procedimento davanti alla Corte, ora sommariamente esposto, partire dalla fattispecie
concreta e dalla sua qualificazione nel giudizio a quo.
4. La fattispecie concreta
L’incipit dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Roma contiene la
motivazione del licenziamento economico impugnato davanti al giudice da una lavoratrice assunta
nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre dello stesso anno: si tratta di una motivazione tautologica
definita evanescente che accenna a “crescenti problematiche di carattere economico-produttivo”.
Non vi è altro. Ti licenzio perché ti licenzio.
Non si comprende se è in atto una crisi economica aziendale, se sussistano invece ragioni
produttive e/o decisioni imprenditoriali alla base della riduzione o cancellazione di un posto di
lavoro, a prescindere da eventi catalogabili come crisi vera e propria, o altra ragione organizzativa o
produttiva.
Ben diversa normalmente appare la casistica giurisprudenziale in correlazione alla fattispecie astratta
definita dall’art. 3 della legge 604/1966 che indica, nel giustificato motivo oggettivo, ragioni
attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art.
3 legge 604/1966).
La contumacia del convenuto, nel caso concreto esaminato dal giudice del Tribunale di Roma,
cristallizza l’assenza sostanziale di motivazione e di prova sulla reale natura “economica” del
licenziamento intimato ad una lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015.
Dall’ordinanza di rimessione si comprende anche che non è stata allegata altra circostanza di fatto
idonea a radicare un’ipotesi di nullità del licenziamento, che non è per nulla dedotta dalla parte
attrice tanto che il giudice ritiene impraticabile la strada della interpretazione conforme.
La vicenda, quindi, che sta alla base dell’ordinanza di rimessione presenta delle caratteristiche
peculiari, sia sul piano processuale per la contumacia del datore di lavoro e per le allegazioni limitate
della parte istante, che sul piano sostanziale - carenza assoluta di motivazione di un licenziamento
qualificato economico dal datore di lavoro. Soprattutto sembra esclusa, sulla base delle
prospettazioni ma anche sulla base dei testi normativi in comparazione tra loro, legge 2012 e legge
2014-2015, la possibilità per il giudice di accedere ad una diversa interpretazione del testo
normativo.
5. Nozione di licenziamento economico. Il giustificato motivo oggettivo
La qualificazione del licenziamento da parte del giudice: limiti.
Si tratta, dunque, di un licenziamento qualificato “economico” per il quale la legge delega sul Jobs
ACT art. 1 comma 7 lettera c) legge 183/2014, senza possibilità di equivoci, esclude la reintegra.
La legge delega (art. 1, comma 7 lettera c legge 183/2014), come è noto, esclude del tutto per i
licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro,
prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio.
La nuova terminologia usata nella legge delega n. 183 del 2014 “licenziamento economico”, è stata
criticata da alcuni in quanto assimila nella nozione “licenziamento economico” due istituti
profondamente diversi, sul piano giuridico, nel nostro ordinamento, quali sono il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi.
Altra parte della dottrina, in realtà, già usava la locuzione oggi adottata dal legislatore delegante
“licenziamenti economici”, con riferimento sia al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia
al licenziamento collettivo, sulla scorta della terminologia adoperata in altri paesi . E va ricordato
che entrambi i licenziamenti, quello collettivo e quello individuale per giustificato motivo oggettivo,
costituiscono un atto di recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro determinato da ragioni
economiche e produttive e non, quindi, da motivi inerenti la persona del lavoratore.
92
In altri paesi, come la Francia, si parla di licenziamenti per motivi economici; locuzione quest’ultima
che sembra più corretta sotto un profilo lessicale, rispetto alla formula “licenziamento economico”
che è obiettivamente generica. Proprio dal code du travail francese art. L 1233-3 traiamo la
definizione di licenziamento per motivi economici, in negativo, come “licenziamento non inerente
la persona del lavoratore” ed, in positivo “licenziamento dipendente da difficoltà economiche e/o
innovazioni tecnologiche”.
La locuzione “licenziamento economico” nella legge delega 183/2014 e l’equazione licenziamento
economico = no reintegra ha una spiegazione ed un effetto immediato nell’impatto sociale (cd law
in action).
La spiegazione è che il diktat della legge delega, con la chiara esclusione di ogni forma di reintegra
per i licenziamenti “economici”, risponde alla pressione della Governance economica europea che,
da anni, richiedeva al governo italiano di modificare la vigente legislazione in materia di
licenziamento sul presupposto che la realizzazione di riforme del mercato del lavoro possa ridurre il
lavoro sommerso ed aumentare la partecipazione al mercato del lavoro. Ed in effetti, in relazione
alla disciplina dei licenziamenti, la Commissione, già nel Libro Verde del 2006, ha rivolto pressanti
inviti alle riforme in tema di licenziamento soprattutto riguardo al licenziamento economico .
La soluzione adottata dal legislatore italiano ha, dunque, un suo antecedente specifico nel libro
verde della commissione CE 2006 e nelle tesi di alcuni economisti francesi che considerano
l’imprevedibilità della decisione giudiziale, in materia di licenziamento per motivi economici, una
remora per i datori di lavori ad assumere personale.
Se, dunque, la legge delega n. 183/2014 chiude un percorso costellato dai pressanti inviti della
commissione Europea a modernizzare il diritto del lavoro ed escludere la reintegra nel posto di
lavoro per i licenziamenti economici, già iniziato con la riforma del mercato del lavoro del 2012
(legge 2012/92), dall’altro lato, la nitida indicazione della legge delega del 2014 costituisce un
indubbio invito ai datori di lavoro a scegliere comunque la strada del licenziamento economico per
essere al riparo dall’eventualità della reintegra. L’effetto della legge 183/2014, in altri termini, è un
incentivo ad optare, comunque, per la qualificazione del licenziamento in termini di licenziamento
“economico”.
Tuttavia accanto alla law in action esiste pur sempre il sistema (law in the code).
Se la legge delega stabilisce l’equazione licenziamento economico = no reintegra, occorre porsi la
domanda se la totale carenza del motivo economico possa comportare le stesse conseguenze di un
licenziamento economico ingiustificato.
In linea generale può affermarsi che il principio di effettività che caratterizza la tutela del lavoratore,
in ragione della inderogabilità delle norme in materia di lavoro, determina la necessità che
l’interprete privilegi la ragione sostanziale rispetto all’ aspetto formale.
Pur essendo ovviamente riservata al datore di lavoro la motivazione del licenziamento, non è
consentita un’operazione di auto qualificazione del licenziamento per scegliersi la tutela meno
gravosa a prescindere dalla sostanza dell’atto, vale a dire dalla vera ragione giustificatrice del
licenziamento e invadere l’area del giustificato motivo oggettivo con un licenziamento, ad esempio,
ontologicamente disciplinare.
Ciò è tanto più evidente nel momento in cui non solo sono stati introdotti nell’ordinamento
giuridico vari tipi di sanzioni in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento, dalla
legge di riforma del mercato del lavoro 2012, ma è stato previsto dalla successiva legge delega
2014/183, “il divieto” di reintegra per il licenziamento economico.
Né è ipotizzabile la inclusione nella nozione di giustificato motivo oggettivo della previsione di un
evento futuro idoneo a determinare il recesso per ragioni economiche atteso che, secondo la
giurisprudenza costante di legittimità, il giustificato motivo oggettivo deve riguardare circostanze
attuali e non future .
Sul punto non può concordarsi con la tesi, espressa in uno dei primi commenti all’ordinanza di
rimessione alla corte costituzionale, che ravvisa nel giustificato motivo oggettivo una “perdita attesa
superiore a una soglia prestabilita” che implica il riconoscimento che, salvi i casi di crisi aziendale
gravissima e quindi immediatamente evidente, il g.m.o. non è suscettibile di prova giudiziale in
senso proprio, perché è costituito da un evento futuro; e un evento futuro non può mai essere
93
oggetto di prova, né documentale né testimoniale.
Il giustificato motivo oggettivo, secondo l’attuale disciplina, così come interpretata dal diritto
vivente, non può riguardare eventi futuri e mere previsioni ma deve riguardare, per essere
considerato legittimo, una scelta organizzativa attuale.
A ben guardare l’interpretazione giurisprudenziale del giustificato motivo oggettivo come riferito ad
eventi attuali di natura organizzativa e produttive e non a previsioni ed eventi futuri deriva
direttamente dal principio di necessaria giustificazione di ogni recesso come contrapposto al
principio di libera recedibilità di cui si è tratto nel paragrafo 2.
Si concorda pienamente sul fatto che le circostanze future non possano essere oggetto di prova né
testimoniale né documentale, ma in un contesto in cui è preclusa la libera recedibilità, la previsione
di un evento futuro ed incerto non può giustificare un licenziamento per g.m.o perché si finisce per
dar luogo ad un recesso equiparabile, sul piano giuridico, ad una scelta rimessa alla pura volontà del
datore di lavoro, tornando tendenzialmente al principio civilistico di libera recedibilità che già dal
1965, secondo la Corte costituzionale, non costituisce un principio generale del nostro
ordinamento.
L’eventuale carenza totale del motivo economico può comportare, dunque, la qualificazione del
licenziamento come non economico.
L’ipotesi è quella che di fronte alla carenza radicale di un motivo economico serio che sorregga il
licenziamento, questi perda la sua natura di licenziamento economico - per motivi economici, per
dirla alla francese, e si trasformi in un licenziamento nullo perché inerente la persona del lavoratore
e non più sorretto dal motivo economico.
D’altro canto la tesi degli economisti francesi e del pensiero di law and economics che si è tradotto
nel “divieto” di stabilire la reintegra per i licenziamenti economici è, appunto, quello di evitare che il
datore di lavoro, nel compiere modificazioni o decisioni riguardanti la sua impresa, trovi ostacolo
nelle lungaggini delle decisioni giudiziarie. Ma quegli stessi autori non mettono in dubbio che non
può aversi un finto licenziamento economico che giustifichi l’assenza di vaglio giudiziario . Sicché la
successiva proposizione logica a tale affermazione dovrebbe comportare una differenza di sanzione
tra il licenziamento economico vero e quello finto.
Se tale ipotesi può avanzarsi in astratto, e potrebbe alla lunga incidere sul diritto vivente (inteso
come interpretazione consolidata della Corte di cassazione), che si formerà sul Jobs act, nel caso
concreto del procedimento pendente innanzi al giudice del Tribunale di Roma, il giudice remittente,
in assenza di una domanda relativa alla nullità del licenziamento di reintegra nel posto di lavoro, di
allegazioni sulla natura ontologicamente disciplinare del licenziamento e/o discriminatoria, non
avrebbe potuto verosimilmente dar luogo ad una qualificazione diversa da quella del licenziamento
economico e accedere ad una qualificazione del fatto in termini di licenziamento inerente la persona
del lavoratore. Il principio della rilevabilità di ufficio di ipotesi di nullità va coordinato con il
principio dispositivo e della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c come spesso affermato dalla
giurisprudenza .
Ma soprattutto ad impedire, allo stato, un’interpretazione del genere di quella sopra prospettata è
proprio la legge delega e la differenza tra la legge del 2012 e la riforma del 2014-2015 che consiste
proprio, quanto ai licenziamenti economici (sia per giustificato motivo oggettivo che collettivi),
nella esclusione della reintegra anche nei casi di manifesta insussistenza del fatto, come sarà più
ampiamente analizzato nel paragrafo successivo: il giudice non poteva ignorare quanto prescritto
dalla nuova legge e avventurarsi in un’operazione interpretativa creativa sulla base della legge del
2012, inapplicabile ai nuovi assunti. E, d’altro canto, nel nostro ordinamento non è dato al giudice
decidere secondo il fatto, sia pure così suggestivo come quello del caso sottoposto al giudice di
Roma. Il giudice deve decidere secondo legge per realizzare la calcolabilità giuridica che è un tratto
ispiratore, tra l’altro, della riforma del jobs act.
Il Jobs act nasce, quanto al regime sanzionatorio dei licenziamenti, anche come reazione
all’eccessiva discrezionalità del giudice prevista dalla legge di riforma del mercato del lavoro del
2012 e, quindi, con un’ottica di semplificazione di una disciplina, quella della riforma del mercato
del lavoro del 2012, apparsa a molti troppo complessa.
Anche sotto tale profilo la motivazione dell’ordinanza del tribunale di Roma riportata alla nota 15
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appare pienamente condivisibile. L’interpretazione del giudice non può spingersi fino al punto di
obliterare il diritto vigente , tenuto conto dell’art. 101 della Cost e del sistema di soggezione del
giudice alla legge che consente unicamente decisioni secondo la legge e non secondo il precedente,
il fatto o i valori .
Resta dunque la considerazione che la legge delega costituisce un incentivo a ricorrere al
licenziamento economico e tale effetto sembra concretizzarsi in casi come quello portato davanti al
giudice del tribunale di Roma, lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015
senza alcun motivo economico dedotto.
Il giudice si è, dunque, trovato di fronte all’alternativa di condannare il datore di lavoro alle 4
mensilità o sollevare la questione di costituzionalità.
Il nodo principale che dovrà sciogliere la Corte Costituzionale non riguarda tuttavia l’entità in sé
della sanzione stabilita dalla legge delle 4 mensilità di retribuzione, ma la circostanza che
nell’ordinamento esiste un’altra forma di tutela per la stessa illegittimità molto più forte che è quella
prevista dalla legge 28.6.2012 n. 92.
6. Art. 3 COST. Le differenti discipline di tutela dal licenziamento economico illegittimo: legge
2012 /92 e Jobs act a confronto, anche in relazione alle altre norme della costituzione richiamate
nella ordinanza.
Il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale rispetto a situazioni uguali e trattamento
diverso rispetto a fattispecie diverse.
Qualche autore afferma che la previgente disciplina dell’art. 18 Statuto, nel testo originario, prima
della legge di riforma del mercato del lavoro del 2012, offriva una tutela non ragionevolmente
indifferenziata delle varie ipotesi di illegittimità da esso previste, di talché poteva fruire della stessa
tutela il lavoratore licenziato per una banale ragione formale, come, ad esempio, il mancato rispetto,
seppure di poco, di un termine a difesa in caso di licenziamento disciplinare e, allo stesso modo, il
lavoratore oggetto della più pesante e conclamata discriminazione.
La legge di riforma del mercato del lavoro ha certamente avuto il merito di introdurre molte diverse
tutele consentendo un’ampia – secondo taluni eccessiva – discrezionalità del giudice.
Relativamente ai licenziamenti “economici”, oggetto del diktat della commissione Europea, la
riforma del 2012 ha cercato di differenziare la tutela e, pur intaccando il precedente regime di
reintegra indifferenziata in caso di illegittimità del licenziamento economico, per recepire le tesi
sulla modernizzazione del diritto del lavoro, ha introdotto un’importante differenziazione.
In particolare, per il caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è prevista, nella legge
2012/92, la ipotesi di manifesta insussistenza del fatto.
La fattispecie del licenziamento per manifesta insussistenza del fatto previsto dalla legge Fornero,
quanto al giustificato motivo oggettivo, risponde bene nelle ipotesi di totale inconsistenza del
motivo economico e si ricollega proprio alle teorie di law and economics che stanno alla base della
tesi per cui nessuno meglio dell’imprenditore può stabilire per quale ragione assumere o licenziare i
lavoratori e non è il caso che i giudici mettano il becco su faccende relative alle dimensioni e
all’organizzazione dell’impresa.
La legge 28.6.2012 n. 92 risponde alla tesi sopra enunciata eliminando sostanzialmente la reintegra
nei licenziamenti economici, ma al tempo stesso scoraggiando comportamenti arbitrari del datore di
lavoro. L’ ipotesi del 5° comma dell’art. 18 Statuto, come modificato dalla riforma del 2012, con
tutela meramente indennitaria, senza reintegra si verifica in tutti i casi in cui vi è un difetto di
giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per mancata prova dell’obbligo
di repechage, oppure perché il motivo addotto sussiste ma non è tale da potersi considerare un
giustificato motivo, alla luce della giurisprudenza maturata sul punto. Ed è prevista, in tali casi, la
tutela indennitaria e, quindi, solo economica anche se ben più cospicua di quella prevista per i
lavoratori poco anziani dal Jobs act.
Ma quando il motivo economico addotto non esiste, si ricade nella ipotesi eccezionale della cd
tutela reintegratoria debole di cui al 4° comma, dell’art. 18 novellato dalla riforma del 2012 con
reintegra ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, applicabile al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo.
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Nel caso in cui non vi sia un difetto di giustificato motivo oggettivo, ma una totale assenza di esso,
la ipotesi di recesso, nella previsione della riforma del 2012, perde il collegamento con ragioni
economiche derivanti dalla gestione dell’impresa e si colloca in prossimità concettuale ai
licenziamenti adottati per motivi inerenti la persona del lavoratore.
In altri termini, se una ragione economica oggettiva non vi è per nulla, il recesso viene ad assumere
connotati del tutto diversi da quelli del licenziamento economico e ciò spiega e rende razionale e
bilanciata la scelta legislativa del 2012 di adottare una sanzione simile, anche se non identica, a
quella prevista per i licenziamenti discriminatori.
Analoghe considerazioni possono farsi per i licenziamenti collettivi in quanto il vizio relativo ai
criteri di scelta comporta la tendenziale assimilazione del licenziamento economico collettivo a
quello per motivi inerenti la persona del lavoratore.
In definitiva nel nostro sistema esiste una disciplina dei licenziamenti economici, con previsione
residuale della reintegra, che risponde razionalmente alle esigenze di modernizzazione del diritto del
lavoro senza tuttavia dar luogo ad un regresso sbilanciato delle tutele del lavoratore.
La razionalità della scelta di introdurre la reintegra in tutte le ipotesi in cui il licenziamento
economico e, quindi, per ragioni oggettive non sia tale ma riveli una considerazione della persona
del lavoratore appare di palmare evidenza, per la prossimità tendenziale al licenziamento
discriminatorio.
Ora nel caso sottoposto al giudice del Tribunale di Roma si tratta proprio di manifesta insussistenza
del motivo economico che, tuttavia, non consente al giudice di trattare il licenziamento alla stregua
di un licenziamento non economico per le carenti allegazioni e l’assenza di domanda, oltre che per
la ragione fondamentale che la legge delega esclude in materia rigida e tassativa la reintegra per i
licenziamenti economici, come si è già detto.
In tale contesto, pur non volendo condividere la tesi espressa dal giudice remittente della
irrazionalità della entità della sanzione che contrasta, per la sua pochezza, con la tutela del lavoro ed
il principio di uguaglianza, non può non colpire il fatto obiettivo che, in identica situazione di fatto,
se il lavoratore fosse stato assunto il 3.3.2015, avrebbe goduto di una tutela molto più intensa.
La disparità di trattamento è data proprio dalla coesistenza di diversi regimi di tutela unicamente
collegati alla data di assunzione.
Pur volendo aderire alla tesi avanzata da P. Ichino per cui la sanzione in sé non è irrisoria, tenuto
conto che si tratta di una lavoratrice che ha lavorato per soli 5 mesi e considerato che anche negli
altri paesi europei non è prevista una tutela indennitaria così forte , occorrerà, comunque,
scrutinarne, sotto il profilo della razionalità, l’adeguatezza e la congruità nel paragone con quella
garantita, in identica fattispecie, ai lavoratori dalla Riforma del Mercato del lavoro del 2012.
Il trattamento deteriore previsto per “i nuovi” lavoratori non sembra giustificato.
La data di assunzione non sembra elemento idoneo ad evitare la “rottura dell’interna coerenza
dell’ordinamento giuridico”, secondo quanto si è già indicato al paragrafo 3.
In decisione recente della Corte Costituzionale relativa alla destituzione dei dipendenti dell’arma dei
carabinieri è stato affermato che la disciplina censurata viola il principio di uguaglianza, in quanto
sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore l'appartenente all'Arma dei carabinieri, in caso di
condanna, rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche.
La comparazione tra i due regimi rende la sanzione stabilita dal Jobs act anche contrastante con le
fonti comunitarie ed internazionali richiamate nell’ordinanza di rimessione. Il giudice remittente,
molto opportunamente, nel dispositivo richiede alla Corte Costituzionale lo scrutinio degli art.
3,4,76 e 117 cost. letti autonomamente ma anche in combinazione tra di loro.
La sanzione di 4 mensilità, oltre ad essere obiettivamente non di entità cospicua, non appare né
adeguata secondo l’art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una
adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato); né appropriata ai sensi della convenzione
ILO n. 158/1982, né congrua ed adeguata secondo l’art. 24 della carta sociale europea, soprattutto
se raffrontata con la sanzione prevista in identiche fattispecie per i lavoratori “anziani” dalla legge
del 2012.
Ed è quindi ancora una volta l’art. 3 cost che dà corpo alle violazioni indicate dal giudice degli artt.
76 e 117 Cost. tenuto conto che sempre il comma 7 dell’art. 1 legge 183/2014 detta il criterio al
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legislatore delegato di agire in coerenza con la regolazione dell’Unione Europea e le convenzioni
internazionali.
Per l’altro licenziamento economico, quello collettivo (disciplinato dagli artt. 3 e 10 del DLVO
23/2015), interamente regolato da normativa europea, l’entità della sanzione prevista dal decreto
legislativo 23/2015 e la coesistenza delle diverse tutele dal licenziamento illegittimo per i lavoratori
già in servizio al 7.3.2015 determina l’assenza delle caratteristiche previste dalla Corte di Giustizia
per le sanzioni in caso di violazioni del diritto comunitario. Sin dalla sentenza C-383/92
dell’8.6.1994 la Corte di Giustizia ha elencato le caratteristiche che deve avere una sanzione stabilita
dal diritto interno, per essere compatibile con il diritto comunitario .
La necessaria presenza di efficacia dissuasiva ed idonea a garantire effettività nel rispetto del
principio di equivalenza rispetto a situazioni analoghe delle misure dirette a sanzionare violazioni
delle norme comunitarie (e tali sono tutte quelle che disciplinano il licenziamento collettivo) è del
resto affermato innumerevoli volte dalla Corte di Giustizia .
E’ evidente che l’esistenza di due categorie di lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 con
differenti tutele in caso di licenziamento non solo non conferisce alcuna capacità dissuasiva alla
sanzione per i licenziamenti collettivi illegittimi, ma la oggettiva entità diversa della sanzione per il
licenziamento collettivo relativamente agli assunti dopo il 7.3.2015 potrebbe addirittura innescare
meccanismi discriminatori incentivando il licenziamento proprio dei lavoratori più giovani o indurre
comportamenti discriminatori e non oggettivi nella scelta dei lavoratori da licenziare nei
licenziamenti collettivi.
Tali considerazioni riguardano direttamente solo il licenziamento collettivo che è interamente
disciplinato dalle norme comunitarie, che, proprio per la derivazione comunitaria di tutte le norme
che lo disciplinano, non era originariamente compreso nella riforma del 2014-2015 o quantomeno è
stato oggetto di forti richiami in sede di lavori preparatori al decreto legislativo 23/2015 .
7. segue Art. 3 cost. Tutela dell’affidamento, non discriminazione, ragionevolezza. Gli automatismi
legislativi.
Il principio di tutela dell’affidamento e la costante affermazione della giurisprudenza costituzionale
in tema di riforme che non si applicano ai rapporti già in corso risultano sicuramente rispettati dal
Jobs act. Tuttavia ciò non è ovviamente sufficiente ad escludere la violazione dell’art. 3 Cost.. e
degli altri principi costituzionali richiamati.
Come si è già detto, ma conviene ripeterlo visto che i fautori della compatibilità costituzionale del
jobs act hanno il faro acceso solo su questo principio e tengono in ombra tutto il resto, la diversità
di tutele, a seconda della diversa data di assunzione, prima o dopo il 7.3.2015, rispetta il profilo della
tutela dell’affidamento, spesso indicato dalla Corte costituzionale come corollario dell’art. 3 Cost;
indubbiamente il legislatore del 2014-2015 si è posto il problema che un’eventuale estensione
indifferenziata del nuovo regime di tutela dal licenziamento illegittimo, se avesse colpito tutti i
rapporti di lavoro subordinato, poteva creare problemi sotto il profilo della tutela dell’affidamento.
Sotto tale aspetto certamente si è tenuto conto, nella riforma del 2014-2015, della giurisprudenza
costituzionale sugli interventi legislativi nei rapporti di durata e si è scelto di limitare la riforma ai
nuovi rapporti di lavoro. Il problema di compatibilità costituzionale in materia di interventi
legislativi sui rapporti di durata si è presentato, ad esempio, in tema di limiti massimi di entità della
retribuzione in rapporti di lavoro di determinati settori .
Non è pertanto invocabile, né, d’altra parte, è stato richiamato dal giudice remittente il profilo della
tutela dell’affidamento.
Se il profilo di tutela dell’affidamento nei rapporti di durata avalla la scelta legislativa di applicare il
nuovo regime solo ai nuovi rapporti di lavoro sorti dopo la sua entrata in vigore, vi sono altri aspetti
del principio di uguaglianza che vengono in considerazione e che sembrano compromessi dalla
scelta legislativa.
In primo luogo se il contratto a tutele crescenti identificasse un nuovo modello di contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, come era nelle originarie intenzioni del legislatore,
diretto a superare il dualismo del mercato del lavoro, tra insider ed outsider , non vi sarebbe stato
problema di violazione del principio di uguaglianza perché la disciplina del contratto di lavoro
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subordinato sarebbe stata differenziata giuridicamente con conseguente esclusioni di arbitrari
livellamenti di situazioni diverse .
Il riferimento è ai tanti disegni di legge e, soprattutto a quello Boeri e Garibaldi sul contratto unico a
tutele progressive cui fa cenno anche il giudice remittente quando richiama la temporaneità della
regressione di tutela da licenziamento illegittimo.
La scelta legislativa è stata invece, quella di non modificare il contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato e di intervenire solo sui licenziamenti stabilendo tutele crescenti riguardanti
unicamente la crescita della indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo con l’anzianità di
servizio.
La soluzione legislativa risponde all’esigenza di garantire la prevedibilità da parte dell’imprenditore
del costo del licenziamento sottraendola a scelte variabili della giurisdizione.
Tuttavia la scelta legislativa guidata anche dallo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel
mondo del lavoro da parte di chi è in cerca di un’occupazione (art. 1 comma 7 legge 183/2014) e di
favorire l’occupazione stabile dei giovani potrebbe paradossalmente creare un effetto
discriminatorio in ragione dell’età oltre a presentare profili di irragionevolezza e sproporzione
rispetto all’obiettivo sopra indicato.
Gli assunti dopo il 7.3.2015 che vengono illegittimamente licenziati presto con minore anzianità di
servizio e, quindi, destinatari di indennità più basse sono con molta probabilità proprio
statisticamente i più giovani provenienti dal bacino degli esclusi dal lavoro, i cd outsider.
La tutela obiettivamente meno intensa del posto di lavoro, li rende soggetti più deboli e, quindi, più
facilmente oggetto di provvedimenti di recesso da parte del datore di lavoro e potrebbe orientare
anche le scelte nei licenziamenti collettivi come osservato dai primi commentatori della riforma del
2015.
Ed è proprio il criterio rigido ed unico del calcolo della indennità risarcitoria in funzione automatica
dell’anzianità di servizio, senza alcuna possibilità di modulazione e di valutazione di altri criteri, che
dà luogo a discriminazione, in quanto, verosimilmente, i più giovani sono assunti dopo il 7.3.2015 e
per quelli che vengono licenziati subito, come la lavoratrice del giudizio sospeso in attesa della
decisione della Corte, potrebbe crearsi una discriminazione indiretta per ragione di età in violazione
della direttiva 2000/78 e del principio generale del diritto comunitario che vieta le discriminazioni in
ragione dell’età.
Il jobs act che doveva servire, nelle intenzioni del legislatore, a favorire la conclusione di contratti
stabili di lavoro per i cd outsider ed i giovani, spesso assunti a termine, potrebbe paradossalmente
dar luogo a risultati molto diversi dalle intenzioni del legislatore come dimostra la vicenda concreta
del licenziamento della lavoratrice a distanza di soli sette mesi dall’assunzione. Quasi un contratto a
tempo determinato con la differenza che, avendo concluso un contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato, l’impresa ha potuto godere degli sgravi contributivi per 36 mesi previsto dalla
legge n. 190/2014.
Va, dunque, considerato l’aspetto della congruità e proporzionalità di una scelta legislativa così
rigida, rispetto all’obiettivo di rivitalizzare il mercato del lavoro e favorire l’occupazione.
Sotto il profilo della ragionevolezza, l’art. 3 cost è stato ritenuto violato in una norma relativa a
versamenti richiesti alla Cassa Previdenza dottori commercialisti per l'incongrua scelta di sacrificare
l'interesse istituzionale della CNPADC (cassa nazionale Previdenza assistenza dottori
commercialisti) ad un generico e macro economicamente esiguo impiego nel bilancio statale.
I dati provenienti dall’ISTAT in questi giorni sul perdurante massiccio ricorso al contratto a tempo
determinato confermano che il Jobs act non sembra neppure aver raggiunto quel risultato di
favorire l’occupazione stabile dei più giovani, realizzando così un modesto risultato sotto il profilo
dell’incentivo dell’occupazione rispetto alla precedente riforma del mercato del lavoro del 2012.
Va poi sottolineato che vi è accordo quasi unanime della dottrina sul fatto che le norme giuridiche
non creano posti di lavoro .
Altro aspetto che riguarda l’art. 3 Cost concerne l’automatismo risarcitorio collegato unicamente all’
anzianità di servizio.
Se come si è visto il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale per situazioni uguali e
trattamenti differenziati per situazioni diverse, è evidente che qualora la legge non consenta al
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giudice l’adeguamento della sanzione alla fattispecie concreta si crea una rigidità che impedisce il
rispetto concreto del principio di uguaglianza.
Quando la tutela è unicamente offerta dalla sanzione economica, come nel caso dei licenziamenti
illegittimi economici, appare norma bilanciata quella che consente al giudice di calibrare il quantum
del risarcimento alla vicenda concreta.
Non sembra invece rispondere ad un criterio di ragionevolezza una norma che stabilisce la
progressione solo in funzione dell’anzianità di servizio.
La Corte costituzionale, sovente, sottopone al vaglio di ragionevolezza gli “automatismi legislativi”,
vale a dire quelle previsioni che al verificarsi di una data evenienza ricollegano una conseguenza
giuridica predeterminata e inderogabile. Sempre più frequentemente la Corte costituzionale dichiara
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che contengono tali “automatismi”, in
particolare quando esse sono formulate in modo tale da non permettere al giudice (o eventualmente
alla pubblica amministrazione) di tenere conto delle peculiarità del caso concreto e di modulare gli
effetti della regola in relazione alle peculiarità della specifica situazione .
Ed anche qui deve richiamarsi la ben diversa situazione dei lavoratori “anziani” per i quali è invece
prevista la possibilità per il giudice di graduare la sanzione per il licenziamento illegittimo in base al
caso concreto. La legge deve riconoscere la sua impotenza a regolare il fatto concreto e, quindi,
deve lasciare al giudice un margine di discrezionalità nell’adeguare la sanzione al caso concreto così
come del resto avviene per i licenziamenti economici dei lavoratori “anziani”( assunti prima del
7.3.2015) ove è prevista, nella legge di riforma del mercato del lavoro 2012, qualora non vi sia la
reintegra, un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un
massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità
del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività
economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a
tale riguardo.
Ancora una volta il tertium comparationis rende piuttosto evidente la carenza di ragionevolezza
delle nuove norme che stabiliscono rigidamente il crescere della indennità risarcitoria di due
mensilità per ogni anno di servizio.
La rigidità del meccanismo fissato dall’art. 3 del DLVO 2015/23 è in funzione della necessità delle
imprese di conoscere il costo del licenziamento e costituisce una reazione ai costi eccessivi del
passato dovuti anche alla durata dei processi ed al meccanismo rigido della reintegra nel posto di
lavoro previsto dall’originaria norma dell’art. 18 statuto. Tuttavia essa era già stata modificata dalla
riforma del mercato del lavoro del 2012 che ha previsto anche un rito accelerato per le controversie
in materia di licenziamento; rito che ha raggiunto il risultato di abbattere i tempi del processo e
diminuire di molto le cause di impugnativa di licenziamento. Tale diminuzione oggettiva deve
ascriversi, del resto, ad una serie di riforme tra cui l’art. 32 della legge 183/2010 cd collegato lavoro
del 2010 che ha introdotto il doppio termine di decadenza.
Il quadro legislativo complessivo ed i risultati già raggiunti sull’abbattimento dei tempi del processo
forse avrebbero dovuto costituire un freno ad ulteriori interventi riduttivi delle tutele dei lavoratori.
Conclusioni
La Corte è quindi chiamata a compiere una decisione che terrà conto della complessità di principi
che figurano nella costituzione e che riguarderà, anche da una parte, le ragioni dell’impresa e,
dall’altra, quelle dei lavoratori.
Pur non richiamato nell’ordinanza di rimessione, il convitato di pietra della vicenda è l’art. 41 cost.
primo comma che tutela la libertà di iniziativa economica privata; norma da sempre collegata al
tema del licenziamento economico ; sull’altro piatto della bilancia vanno posti gli artt.4 e 35 Cost.
che, peraltro, non riguardano solo le ragioni dei lavoratori occupati ma anche le politiche di
inclusione dirette a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e l’accesso dei giovani al lavoro con
rapporto di lavoro stabile.
Il problema è che non è chiaro per nulla se il regresso di tutele favorisca l’inclusione stabile degli
outsider e qualche dato statistico sembra smentire questa tesi e dare ragione a quella dottrina sopra
richiamata, che afferma che il diritto non crea occupazione.
Sul bilanciamento tra ragioni dei lavoratori e dell’impresa si fonda, a sua volta, il principio
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giustificativo di ogni forma di recesso che si è visto costituire un argine indiscusso alla
discrezionalità del legislatore.
La decisione della Corte, pur tenendo conto del complesso quadro di principi finirà, soprattutto in
caso di sentenza di rigetto o accoglimento, per applicare un principio piuttosto che un altro. Mentre
infatti il bilanciamento tra i principi costituzionali è tipico dell’attività legislativa, nelle decisioni della
Corte, tendenzialmente il risultato finale del bilanciamento è una scelta che consente ad un
principio di prevalere su un altro in quella specifica decisione.
100
Principio di non discriminazione e lavoro intermittente: la
vicenda Abercrombie & Fitch
Di Valeria Piccone
magistrato attualmente applicato alle udienze della Sezione Lavoro.
Due le premesse imprescindibili per chi si accinga ad affrontare i nodi posti dalla normativa
nazionale sul lavoro intermittente per come declinata nella vicenda Abercrombie & Fitch; la prima:
la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione rappresenta ormai la cartina di tornasole circa lo stato
di salute dei diritti fondamentali nell’ordinamento interno. Ne consegue che, posta l’estensione
dell’applicazione della Carta in tutti gli ambiti che in qualche misura presentino punti di contatto
con il diritto dell’Unione, sicuramente ogni settore riconducibile alla solidarietà sociale può oggi
ritenersi scandagliabile nell’ottica del rispetto della Carta dei diritti fondamentali.
La seconda: la portata “centrale” del principio di non discriminazione nell’ambito del diritto
dell’Unione, per come chiarita in questo breve commento, rende sicuramente meno “drammatica”
proprio la questione inerente l’applicazione della Carta nel diritto interno.
Muoviamo da questa seconda premessa. Nel cuore delle conclusioni presentate dall’Avvocato
Generale Michal Bobek il 23 marzo scorso nella vicenda in questione la centralità della Carta nel
suo dialogo incessante con la tutela del principio di uguaglianza emerge in tutta la sua portata.
Osserva l’Avvocato Generale che l’opzione tesa ad assumere la direttiva come ambito di analisi
principale non preclude in alcun modo la contestuale applicabilità dell’articolo 21, paragrafo 1, della
Carta. Infatti, fintantoché le disposizioni in questione rientrano nell’ambito del diritto dell’Unione
attraverso l’applicazione della direttiva 2000/78, l’ambito di tutela della Carta stessa trova
applicazione in forza del suo articolo 51, paragrafo 1. Aggiunge l’Avvocato Generale che, quindi, il
rapporto tra l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e la direttiva 2000/78 non è di reciproca
esclusione. Si tratta, piuttosto, di un rapporto di attuazione e complementarietà atteso che la
direttiva rappresenta una specifica espressione del principio generale sancito dalla Carta, tanto che il
contesto di analisi rispettivamente fornito da entrambe è così destinato ad essere similare. Inoltre,
ove opportuno, l’approccio seguito in entrambe dovrebbe perseguire la medesima logica, al fine di
garantire un approccio coerente al controllo giurisdizionale del diritto dell’Unione e del diritto
nazionale nell’ambito del divieto di discriminazione in base all’età nel settore dell’occupazione.
Soprattutto, l’Avvocato Generale precisa che il principio di non discriminazione, quale sancito
dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, resta applicabile anche a fronte di una contestuale
applicazione della direttiva 2000/78. Ed è in due situazioni, segnatamente, che l’articolo 21,
paragrafo 1, della Carta mantiene il proprio rilievo: in primo luogo, le sue disposizioni restano
pienamente applicabili ai fini di una potenziale coerente interpretazione del diritto derivato
dell’Unione europea e del diritto nazionale rientrante nell’ambito di applicazione del diritto
dell’Unione. Ma, soprattutto, secondo il parere dell’Avvocato Generale, le disposizioni della Carta
rappresentano il criterio di riferimento ultimo (proprio la cartina di tornasole cui si faceva cenno)
per la validità del diritto derivato dell’Unione. Infine, la «vita autonoma» del principio della parità di
trattamento come principio generale di diritto o come diritto fondamentale sancito dalla Carta
assume particolare rilievo ogni qualvolta la possibilità di ricorrere alla direttiva risulti ostacolata dal
fatto che la controversia riguarda soggetti privati. Per la prima volta possiamo dire che quel
concetto di “vita autonoma” espresso dalla Corte nella sentenza Kucukdevci trova una sua chiara
conformazione nelle conclusioni dell’Avvocato generale.
Ma procediamo con ordine.
Nella vicenda Abercrombie il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con “contratto a
chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla
data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall’1/1/20012 il contratto c.d.
101
“intermittente” era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle
ipotesi legittimanti previste dal D.Lgs. 276/03; terminato il 26/7/2012 il piano di lavoro, non era
stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail gli era stato comunicato che
avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell’età, era da
considerarsi cessato alla suddetta data. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l’improponibilità
delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato – con richiesta di
condanna alle conseguenze di cui all’art. 18 St.Lav. - respingendo quelle dirette ad accertare la
natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un
rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.
La Corte di appello di Milano ha accolto l’impugnazione ritenendo la proponibilità di tutte le
domande avanzate sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento
discriminatorio della società resistente non era, in realtà, domanda avente ad oggetto
l’impugnazione del licenziamento, che sarebbe stata assoggettata, secondo parte appellante, al rito
speciale di cui alla l. n. 92/2012, bensì domanda diretta ad ottenere la rimozione degli effetti della
discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all’art. 18 St. Lav. e, cioè, la rimessione in
servizio.
Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, la Corte sottolinea come l’unico requisito
rilevante al momento dell’assunzione del ricorrente ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 276/03 fosse quello
anagrafico (meno di 25 anni o più di 45). Essa premette che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25
delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento
essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione,
ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono
essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione
degli stati membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e
di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e
necessari. La Corte richiama a questo punto Mangold e Kucukdeveci nella parte in cui hanno
statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione
dell’età ed il compito del giudice nazionale, chiamato a dirimere una controversia, di assicurare la
tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, oltre ad aver riconosciuto la possibilità per gli
Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in
presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l’occupazione di soggetti con
difficoltà di accesso al lavoro e purché lo strumento utilizzato non fosse sproporzionato rispetto
alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga
ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di
trattamento con il fine perseguito.
Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio
generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all’art.
6 TUE e alla Carta di Nizza, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati, fa si, secondo la Corte,
che il principio di uguaglianza viva “di una vita propria” che prescinde dai comportamenti attuativi
o omissivi degli Stati membri. Osserva la Corte come dalla natura precisa ed incondizionata di tale
principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i
propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso
altri privati.
La Corte di Giustizia, infine, precisa la Corte, ha evidenziato che l’art. 6 della direttiva 2000/78
impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all’età, due precisi requisiti
dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il
perseguimento degli obiettivi, requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il
legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all’età, allo scopo di introdurre un
trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es.
disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo
esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile. La eliminazione della necessità
che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso
dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni)
102
frutto delle modifiche apportate all’impianto originario dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14
maggio 2005, n. 80, ha determinato l’intervento correttivo della Corte.
Il mero requisito dell’età, quindi, secondo la Corte, non può giustificare l’applicazione di un
contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a
tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i
25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è
ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba
essere risolto.
Alla luce di tali argomentazioni, quindi, secondo il giudice d’appello di Milano, si evidenzia il
contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell’art. 34 del D.Lgs. 276/03 ed i principi affermati
dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto
espressione di un principio generale dell’Unione Europea.
Ritenuto, quindi, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il
comportamento della società appellata che aveva proceduto all’assunzione dell’appellante con un
contratto intermittente esclusivamente sulla base dell’età anagrafica e condannato la Abercrombie a
rimuovere gli effetti della sua condotta discriminatoria e, ritenuto costituito tra le parti un ordinario
rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento al sesto livello e orario part time
secondo quanto affermato dalle parti stesse e che tale contratto non era mai stato validamente
risolto, ha condannato la società appellata a riammettere l’appellante nel posto di lavoro ed a
risarcirgli il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della
risoluzione del rapporto a quella della sentenza.
Sembra configurarsi qualcosa di simile a ciò che avviene, mutatis mutandis, nei contratti a tempo
determinato. Non è possibile in questa sede soffermarsi sugli approdi della importante sentenza
delle Sezioni Unite n. 5072/2016 sulla “compatibilità comunitaria” e la connessa responsabilità da
violazione del diritto dell’Unione, ma può essere opportuno sottolineare che, riguardando la più
recente disciplina che concerne il contratto a termine sotto la lente di ingrandimento europea ed alla
luce della giurisprudenza Mascolo, considerata la liberalizzazione nell’apposizione del termine che lo
caratterizza, perché la normativa interna possa considerarsi compatibile con i principi dell’Unione, il
contratto dovrà essere “strutturalmente” a termine e, cioè, l’apposizione del termine deve
rispondere ad esigenze ontologiche del contratto, in quanto volto a fronteggiare esclusivamente
esigenze temporanee.
Nel caso che qui ci interessa, ancora una volta l’interpretazione conforme conduce
all’accantonamento della norma interna confliggente e si sostanzia, nonostante la Corte non vi
faccia alcun riferimento, nella disapplicazione della norma stessa. Come è stato osservato, la Corte
di Milano ha escluso il rinvio pregiudiziale perché la Corte di Giustizia aveva già ampiamente
chiarito portata e limiti della discriminazione diretta in base all’età.
Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza,
appare di grande evidenza nella decisione della Corte d’Appello: la Corte richiama più volte
l’obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme
al diritto dell’Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad
optare per la disapplicazione della norma interna contrastante ritenendo, quindi, costituito fra le
parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Nonostante il nucleo della sentenza (quello che concerne il carattere discriminatorio del
regolamento contrattuale considerato), appaia molto succinto nella motivazione della Corte
d’Appello, esso non lascia adito a dubbi: il mero requisito dell’età, non accompagnato da ulteriori
specificazioni, non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per
il lavoratore. Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato
- diremmo, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold - tanto da indurre
la Corte d’Appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di
discriminazione per l’assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore.
La sentenza è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. La società condannata,
infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18 l. 300/70 sotto diversi profili, ha
dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l’art. 28 d.lgs. 150 del 2011 e 702 bis c.p.c. e,
103
cioè la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire
mediante ricorso al procedimento di cui all’art. 1, commi 48 e segg. della legge 28 giugno 2012, n.
92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/03, della
direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella
specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi,
sovrapponibile alla normativa dell’Unione. Chiedeva, poi, il ricorrente il rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l’esclusiva possibilità di ottenere il
risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento
del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte.
La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza secondo cui l’inesattezza
del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi
uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una
precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle
prerogative processuali protette della parte.
I giudici di legittimità osservano, a questo punto, che l’art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il
principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale
dell’Unione cui la direttiva 2000/78 da espressione concreta e che è sancito anche dall’art. 21 della
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. L'art. 6, n.
1, primo comma, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento
in base all'età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente
giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi
di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il
conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell’art. 34 vigente all’epoca
dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art.
6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78.
Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell'art. 267
del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui
all'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso
essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età,
sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1).
La vicenda è passata allora nelle mani della Corte di Giustizia, cui è stato rimesso il compito di
chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio
generale di uguaglianza che imponesse la rimozione della norma interna con esso contrastante.
Con sentenza della prima Sezione del 19 luglio scorso, nella causa C-143/16 la Corte di giustizia
fornisce la risposta attesa.
La Corte muove, come sempre, dall’art. 1 della Direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale
per la lotta alle discriminazioni, per poi passare ad esaminare compiutamente il diritto interno onde
rispondere alla questione pregiudiziale posta dalla Corte di cassazione circa il se la normativa
nazionale di cui all’articolo 34 del decreto legislativo n. 276/2003, secondo la quale il contratto di
lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti
con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età,
di cui alla direttiva 2000/78 e all’ articolo 21, paragrafo 1 della Carta.
Preliminarmente i giudici di Lussemburgo richiamano la propria giurisprudenza secondo cui,
quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, nella quale
trova espressione concreta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il principio di non
discriminazione fondata sull’età, ora sancito dall’articolo 21 della Carta, gli Stati membri e le parti
sociali devono agire nel rispetto di tale direttiva (fra le altre, il richiamo è alla recente Corte di
giustizia del 21 dicembre 2016, Bowman, C-539/15).
Il punto centrale diventa, quindi, verificare se una disposizione quale quella di cui al d.lgs. 276/2003
comporti una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 2000/78.
Osserva la Corte che per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi
discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 della medesima
104
direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 precisa che, ai fini
dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta quando,
sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 della direttiva, una persona è trattata in
modo meno favorevole di un’altra in una situazione analoga.
Interessante la ricostruzione della Corte circa la figura del lavoratore (che, quindi, possa confluire
nella normativa garantistica in esame) alla luce della normativa europea; la Corte precisa che, ai sensi
dell’articolo 45 TFUE, secondo una giurisprudenza europea costante, “tale nozione ha portata
autonoma e non dev’essere interpretata restrittivamente”. Pertanto, deve essere qualificata come
«lavoratore» ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività
talmente ridotte da risultare puramente marginali e accessorie. La caratteristica del rapporto di
lavoro è, secondo tale giurisprudenza, la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo
di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in relazione alle quali
riceva una retribuzione (il richiamo è, in primis, alla nota sentenza del 3 luglio 1986, Lawrie-Blum,
66/85).
La Corte evidenzia che occorre vengano presi in considerazione elementi relativi non solo alla
durata del lavoro e al livello della retribuzione, ma anche all’eventuale diritto a ferie retribuite, alla
continuità della retribuzione in caso di malattia, all’applicabilità al contratto di lavoro di un contratto
collettivo, al versamento di contributi e, nel caso, alla natura di questi ultimi (v., in tal senso, Corte
Giust. 4 febbraio 2010, Genc, C-14/09).
Ancora una volta, tuttavia, nonostante la Corte affermi che verosimilmente spetta all’interessato la
qualifica di lavoratore,viene chiarito che spetta al giudice del rinvio - che è l’unico ad avere
conoscenza approfondita e diretta della controversia - verificare se effettivamente tale opzione
possa essere confermata.
Passando più direttamente all’esame della questione inerente la discriminazione, la Corte afferma
che il decreto legislativo n. 276/2003 ha introdotto due diversi regimi, non solo per l’accesso e le
condizioni di lavoro, ma anche per il licenziamento dei lavoratori intermittenti, in funzione della
fascia di età alla quale detti lavoratori appartengono. Infatti, nel caso di lavoratori di età compresa
tra i 25 e i 45 anni, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso solo per l’esecuzione di
prestazioni a carattere discontinuo o intermittente, secondo le modalità specificate dai contratti
collettivi e per periodi predeterminati, mentre, nel caso di lavoratori di età inferiore ai 25 anni o
superiore ai 45, la conclusione di un simile contratto di lavoro intermittente non è subordinata ad
alcuna di tali condizioni e può avvenire «in ogni caso», e i contratti conclusi con lavoratori di età
inferiore ai 25 anni cessano automaticamente quando i medesimi compiono 25 anni.
Ritiene quindi la Corte che, per l’applicazione di disposizioni come quelle di cui al procedimento in
esame, la situazione di un lavoratore licenziato in ragione del solo compimento dei 25 anni di età è
oggettivamente comparabile con quella dei lavoratori che rientrano in un’altra fascia di età.
Ne consegue che la disposizione considerata, nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro
intermittente possa essere concluso «in ogni caso» con un lavoratore di età inferiore a 25 anni e
cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento
basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.
Ma il vero nodo gordiano è ora stabilire se tale disparità di trattamento possa ritenersi giustificata.
E’ la stessa Direttiva 2000/78, all’art. 6, paragrafo 1, ad affermare che gli Stati membri possono
prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove
esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una
finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di
formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e
necessari.
Il richiamo è, quindi, all’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri, non solo
nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di
occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (sul punto, si veda Corte di
giustizia 11 novembre 2014, Schmitzer, C-530/13).
La flessibilità del mercato del lavoro, quale strumento per incrementare l’occupazione, al centro,
secondo la Corte, della scelta politica operata dal legislatore italiano; in particolare, la facoltà
105
accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di
risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo, secondo quanto
sostenuto dalla difesa, di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Secondo la Corte,
come sottolineato dal Governo, l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in
difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani. D’altro canto, la possibilità di
entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo,
può costituire un trampolino verso nuove possibilità d’impiego.
La Corte ritiene di valorizzare il passaggio della difesa nazionale incentrato sul rilievo che assume,
per i giovani, un primo accesso al mercato del lavoro anche se non su base stabile. Si tratterebbe,
quindi, di fornire loro una prima esperienza, che possa successivamente metterli in una situazione di
vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Conseguentemente, la disposizione sarebbe
relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.
Nodale l’essere rivolte tali agevolazioni ai giovani alla ricerca di un primo impiego e, cioè, ad una
delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale.
Viene rammentato, quindi, che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, lettera a), della
direttiva 2000/78, la disparità di trattamento può consistere nella «definizione di condizioni speciali
di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le
condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori più anziani e i lavoratori con
persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi».
Secondo la Corte assume rilievo incontestabile la circostanza che la promozione delle assunzioni
costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in
particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (sul
punto, in particolare, Corte Giust. 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C-159/10 e C-160/10). La stessa
giurisprudenza europea aveva già affermato, d’altro canto, che l’obiettivo di favorire il collocamento
dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la
protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della
direttiva 2000/78 (Corte Giust. 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15) ed in particolare come
rappresenti una finalità legittima l’agevolazione dell’assunzione di giovani lavoratori aumentando la
flessibilità nella gestione del personale (non può non richiamarsi, in tal senso, Corte Giust. 19
gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07).
Conclude, quindi, la Corte, che la disposizione nazionale oggetto d’esame, avendo la finalità di
favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi
dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.
Occorre tuttavia un ultimo passaggio: verificare se i mezzi adoperati per il conseguimento di tale
finalità siano appropriati e necessari.
Relativamente all’adeguatezza, si rileva che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere
contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati
membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato
del lavoro, in considerazione della probabile tendenza delle aziende ad essere sollecitate
dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e,
quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani
lavoratori.
Infine, in ordine alla necessarietà della disposizione considerata si osserva, sposando le conclusioni
della società Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata,
la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro
flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è
preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si
ritrovi disoccupato. Secondo il governo italiano, d’altro canto, dette forme flessibili di lavoro sono
necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del
lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale,
eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali, mentre il massimo accesso a tali forme
agevolate può essere possibile soltanto se non se ne garantisce la stabilità.
Le tutele che accompagnano le misure, e, soprattutto, l’impossibilità di assegnare al lavoratore
106
intermittente un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto
al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, confermano ulteriormente la adeguatezza
della scelta.
Valorizzando, quindi, l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri non solo nella
scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma,
altresì, nella definizione delle misure atte a realizzarlo, la Corte dichiara che l’articolo 21 della Carta
nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della
direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano a una disposizione,
quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un
contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la
natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del
venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro
e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.
La valutazione della Corte è proprio quella di necessità a appropriatezza dell’intervento indagata
dalla Corte d’Appello di Milano. Le conclusioni, tuttavia, sono opposte. La lacunosità e la
sofferenza della normativa interna non ostano, tuttavia, secondo i giudici di Lussemburgo, al
perseguimento di quegli obiettivi di politica del lavoro a sostegno dei giovani che hanno condotto
alla previsione di un accesso agevolato a determinati tipi di negozio, unitamente a quella di un
recesso agevolato dallo stesso.
Ad oltre dieci anni di distanza da Mangold i percorsi argomentativi compiuti dalla Corte rispetto al
D.lgs. n. 276/03 non sono dissimili rispetto a quelli concernenti la legge Hartz. Ancora una volta la
Corte entra nell’esame diretto e concreto della normativa nazionale valutandone congruità e
adeguatezza rispetto alle esigenze di politica occupazionale sottese alle misure discriminatorie
adottate dal legislatore interno.
Uguaglianza e non discriminazione confermano il proprio ruolo di concetti per così dire
mainstreaming, del diritto dell’Unione, quelli che non si risolvono in una competenza, ma tagliano
trasversalmente tutto il diritto dell’Unione e che, muovendo dalla parità retributiva fra uomini e
donne, sono approdati prepotentemente sui divieti di discriminazione per età ampliando
enormemente il proprio raggio di azione: secondo la nota immagine di Supiot, «non tener conto
delle ineguaglianze di fatto significa lasciare pieno gioco ai rapporti di forza>>
La cifra del rilievo della parità di trattamento nell’ordinamento dell’Unione emerge in tutta la sua
evidenza nella decisione del 28 luglio 2016, Krantzer, non tanto per il contenuto della decisione,
quanto per lo stesso oggetto di essa; il giudice del rinvio chiedeva, infatti, se l’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78 e l’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/54
vadano interpretati nel senso che una situazione in cui una persona la quale, candidandosi per un
posto di lavoro, miri a ottenere non tale posto di lavoro, bensì soltanto lo status formale di
candidato, con l’unico scopo di poter azionare diritti al risarcimento del danno, rientri nella nozione
di «accesso all’occupazione o al lavoro dipendente» ai sensi di tali disposizioni e se, in base al diritto
dell’Unione, tale situazione possa essere valutata come abuso di diritto. La Corte afferma che una
persona che si candida per un posto di lavoro in tali condizioni, non cerca manifestamente di
ottenere il posto di lavoro per il quale si è formalmente candidata e, pertanto, non può avvalersi
della tutela offerta dalle direttive 2000/78 e 2006/54.
Proprio con riguardo alla discriminazione per età, d’altra parte, diventa lampante che il concetto di
uguaglianza è concetto mutevole che evolve di pari passo con l’evoluzione della società e dei
costumi, trovando un proprio peculiare ubi consistam nella diversità del contesto sociale in cui
opera: leggendo la sentenza Marshall (in cui secondo l'ordinanza di rinvio, il solo motivo del
licenziamento era nel fatto che la ricorrente era una donna che aveva superato « l'età del
pensionamento ») si evince chiaramente che, agli esordi, il diritto comunitario non ha mai
considerato l’età (centrale nella discussa e più recente Mangold, nonché in Kücükdeveci, Dansk
Industri e, oggi, Abercrombie & Fitch) come ovvio indice di discriminazione; in quella pronunzia, la
direttiva 76/207/CE, pur non avendo effetti “orizzontali”, veniva ritenuta invocabile dalla
ricorrente “verticalmente” perché il suo datore di lavoro era una emanazione dello Stato. Nel 1986
le distinzioni per motivi di età – differenti da quelle in base al sesso – erano considerate ovviamente
107
rilevanti ai fini della cessazione del rapporto di lavoro e di conseguenza ammissibili in base al
principio di uguaglianza del diritto comunitario: ove così non fosse stato, verosimilmente, la signora
Marshall avrebbe invocato il divieto di discriminazione per motivi attinenti all’età a sostegno del
proprio argomento principale.
Nel 2009, il trattato di Lisbona ha introdotto una clausola orizzontale volta a integrare la lotta
contro le discriminazioni in tutte le politiche e le azioni dell’Unione (articolo 10 TFUE) con la
previsione di una procedura legislativa speciale: il Consiglio deve deliberare all’unanimità e previa
approvazione del Parlamento europeo.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, oggi fonte stricto sensu, e, anzi, fonte di diritto
primario,nel sancire, all’art. 21, l’inserimento della non discriminazione fra i diritti fondamentali
della persona e, quindi, nell’ambito dei principi generali del diritto comunitario, statuisce, nel
successivo art. 23, che ‘la parità tra uomini e donne dev’essere assicurata in tutti i campi, compreso
in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione’ precisando, tuttavia, che ‘il principio della
parità non osta al mantenimento od all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore
del sesso sottorappresentato”.
In verità, l’art. 119 del Trattato conferiva in origine rilievo esclusivo ed assorbente, in ambito
antidiscriminatorio, alla parità di trattamento in materia retributiva, allo scopo di evitare forme di
concorrenza nel mercato fondate sulla sottoretribuzione del lavoro femminile; si deve soprattutto
all’intervento della giurisprudenza della Corte di Giustizia l’aver dato l’input per un numero
considerevole di direttive in materia che hanno poi inciso, con il passaggio attraverso il Trattato di
Amsterdam, sulla nuova formulazione dell’art. 119 medesimo (poi dal 1° maggio 1999, art. 141) del
Trattato. Partendo dall’art. 119 del Trattato e, cioè, dalla parità retributiva tra uomini e donne, il
principio di uguaglianza è andato assumendo un ruolo di spicco nella costruzione di uno jus
commune. Si può affermare, anzi, che questo principio rappresenta, ormai, la lente di
ingrandimento attraverso la quale ogni nuovo intervento legislativo interno deve essere riguardato
per verificarne la c.d. “compatibilità comunitaria”.
In un sistema in cui il contenuto dell’art. 2 TUE rimane “sostanzialmente vago”, il principio
generale di uguaglianza appare sempre più significativamente uno dei principi ordinatori della
Comunità. Le disposizioni sull’uguaglianza di fronte alla legge, che appartengono alle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, si stagliano, nell’interpretazione offertane dalla Corte di
Giustizia, quale strumento cardine per la salvaguardia degli european values e per i diritti
fondamentali di derivazione domestica.
Eppure, la Corte ammonisce, esigenze di politica sociale impongono, talora, una declinazione
dell’uguaglianza in chiave di ammissibilità di misure occupazionali direttamente discriminatorie.
A differenza di quanto essa fa di solito e del percorso seguito dallo stesso Avvocato Generale, la
Corte non ritiene che spetti al giudice nazionale ulteriormente indagare sulla compatibilità di
determinate misure occupazionali con i divieti discriminatori sanciti dal diritto dell’Unione.
La Corte entra direttamente nel corpus legislativo interno e ne esamina necessità ed adeguatezza,
tenendo altresì conto della situazione economica nazionale e della grave crisi occupazionale
vigente.
L’uguaglianza fra lavoratori comparabili è, secondo la Corte, rispettata.
La palla passa ancora una volta al giudice nazionale che, nell’adempimento al proprio gravoso
impegno teso a “conciliare l’inconciliabile” (per usare l’icastica espressione dell’Avvocato generale
Poiares Maduro nelle conclusioni della causa Arcelor Atlantique et Lorraine) trova l’interpretazione
autentica resa dalla Corte di Giustizia nel reputare compatibile il contesto normativo interno con
l’assetto europeo come straordinario sostegno in via di pregiudizialità.
Sembrava impossibile, ai tempi di Mangold, che la nostra legislazione interna potesse formare
oggetto di un rinvio pregiudiziale in termini di possibile lesione del divieto di discriminazione per
età. La proliferazione normativa e la frammentazione dei tipi contrattuali ha reso evidente, tuttavia,
anche per il nostro ordinamento, la continua necessità di verificare la compatibilità dei nuovi
strumenti contrattuali con i principi dell’Unione consolidatisi intorno al principio generale di
uguaglianza, vero e proprio metaprincipio del diritto dell’Unione, cartina di tornasole del rispetto di
tutti gli altri diritti fondamentali.
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Una brezza di solidarietà soffia sull’Unione europea
Di Lucia Tria
Consigliere della Corte di Cassazione
SOMMARIO: 1.- Introduzione. 2.- Sintesi della sentenza. 2.1.- Adeguatezza dell’articolo 78,
paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione impugnata. 2.2.- Temporaneità della
misura. 2.3.- Situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi
terzi e inefficienze dei regimi di asilo greco e italiano. 2.4.- Regolarità procedurale. 2.5.- Censure
riguardanti il merito delle misure temporanee adottate. 2.5.1.- Principio di proporzionalità. 2.5.2.-
Prospettata inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo da essa perseguito. 2.5.3.-
Carattere asseverativamente non necessario della decisione impugnata in rapporto all’obiettivo da
essa perseguito. 2.5.4.- Il doveroso principio di solidarietà nell’ambito dell’attuazione della politica
comune dell’Unione in materia di asilo. 2.5.5.- L’opportunità della scelta di non utilizzare il sistema
di protezione temporanea previsto dalla direttiva 2001/55. 2.5.6.- La formale richiesta dell’Ungheria
di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione. 2.5.7.- Carattere
discriminatorio di eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione
internazionale. 2.5.8.- La salvaguardia dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna
da parte degli Stati membri. 2.5.9.- Criteri per determinare lo Stato di ricollocazione. 2.5.10.- I
rapporti tra la decisione impugnata e il sistema Dublino III. 3.- Osservazioni.
1.- Introduzione
Poco dopo la decisione del Consiglio UE 2015/1523 ‒ che aveva previsto la ripartizione “per
consenso” tra gli Stati membri di un numero di migranti pari 40.000 unità rivelatosi da subito
insufficiente ‒ il 22 settembre 2015, è stata adottata dallo stesso Consiglio UE, a maggioranza
qualificata, su proposta della Commissione UE, la decisione 2015/1601, istitutiva, come misura
temporanea nel settore della protezione internazionale, della ricollocazione di 120.000 richiedenti
una protezione internazionale, a partire dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri Stati membri. La
Repubblica ceca, l’Ungheria, la Romania e la Repubblica slovacca hanno votato contro l’adozione di
tale proposta. La Repubblica di Finlandia si è astenuta.
Successivamente la Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno proposto due ricorsi alla Corte di
Giustizia, chiedendo l’annullamento della suddetta decisione 2015/1601, sia per vizi derivanti dalla
scelta di una base giuridica inappropriata sia per errori di ordine procedurale commessi nel relativo
procedimento di adozione, sia per vizi di merito consistenti della sua inidoneità a rispondere alla
crisi migratoria e della sua non necessarietà a tal fine.
Nel procedimento davanti alla Corte, la Polonia è intervenuta a sostegno sia della Slovacchia sia
dell’Ungheria, mentre Belgio, Germania, Grecia, Francia, Italia, Lussemburgo, Svezia e la
Commissione europea sono intervenuti a favore del Consiglio UE.
Con l’articolata sentenza della Grande Sezione 6 settembre 2017, cause riunite C 643/15 e C
647/15, la Corte ha respinto integralmente i ricorsi proposti da Slovacchia e Ungheria.
2.- Sintesi della sentenza
La Corte ha, in primo luogo, precisato di dovere esaminare per primi i motivi di ricorso relativi
all’inadeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione
impugnata, in quanto la base giuridica di un atto determina la procedura da seguire per l’adozione
dello stesso (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2015, Parlamento/Consiglio, C 363/14,
punto 17), per passare poi alla valutazione dei motivi relativi ad irregolarità procedurali
asseverativamente commesse in occasione dell’adozione di tale decisione e configuranti violazioni di
forme sostanziali, e, infine all’esame dei motivi attinenti il merito delle questioni.
109
2.1.- Adeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione
impugnata
La Corte ha respinto le censure relative alla prospettata inadeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3,
TFUE a fungere da base giuridica della decisione impugnata, rilevando, innanzi tutto, che un atto
giuridico può essere qualificato come atto legislativo dell’Unione soltanto se è stato adottato sul
fondamento di una disposizione dei Trattati nella quale si fa espresso riferimento o alla procedura
legislativa ordinaria oppure alla procedura legislativa speciale.
L’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, pur prevedendo che il Consiglio adotti le misure temporanee da
esso contemplate su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, non
contiene alcun espresso riferimento né alla procedura legislativa ordinaria né alla procedura
legislativa speciale. Mentre, l’articolo 78, paragrafo 2, TFUE stabilisce espressamente che le misure
elencate alle lettere da a) a g) di tale disposizione vengono adottate «secondo la procedura legislativa
ordinaria.
Ne consegue che le misure suscettibili di essere adottate sul fondamento dell’articolo 78, paragrafo
3, TFUE devono essere qualificate come «atti non legislativi», in quanto esse non vengono adottate
all’esito di una procedura legislativa.
D’altra parte, mentre nel caso dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, si tratta di misure temporanee a
carattere non legislativo intese a rispondere a breve termine ad una determinata situazione di
emergenza che gli Stati membri si trovino a dover affrontare, nel caso dell’articolo 78, paragrafo 2,
TFUE, si contemplano atti di carattere legislativo che mirano a disciplinare, per un periodo
indeterminato e in modo generale, un problema strutturale che si pone nel quadro della politica
comune dell’Unione in materia di asilo.
Quanto al secondo profilo della censura ‒ secondo cui l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE non poteva
servire quale base giuridica per l’adozione della decisione impugnata, in quanto tale decisione
costituisce un atto non legislativo che deroga a svariati atti legislativi, mentre soltanto un atto
legislativo potrebbe derogare a un altro atto legislativo ‒ la Corte ha precisato che l’articolo 78,
paragrafo 3, TFUE non definisce la natura delle «misure temporanee» che possono essere adottate
in forza di tale disposizione.
Diversamente da quanto sostenuto dalla Repubblica slovacca e dall’Ungheria la formulazione
dell’articolo 78, paragrafo 3, cit. non può suffragare, di per sé, un’interpretazione restrittiva della
nozione di «misure temporanee», implicante che quest’ultima contemplerebbe unicamente misure di
accompagnamento supportanti un atto legislativo adottato sulla base dell’articolo 78, paragrafo 2,
TFUE e vertenti, in particolare, su un sostegno finanziario, tecnico od operativo fornito agli Stati
membri che si trovino in una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di
cittadini di Paesi terzi.
Peraltro, il considerando 23 della decisione impugnata dichiara che la ricollocazione dall’Italia e
dalla Grecia prevista da tale decisione implica una «deroga temporanea» a talune disposizioni di atti
legislativi del diritto dell’Unione, tra le quali l’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III,
a norma del quale la Repubblica ellenica o la Repubblica italiana sarebbero state in linea di principio
competenti per l’esame di una domanda di protezione internazionale sulla base dei criteri enunciati
nel capo III di detto regolamento, e l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 516/2014, il quale
esige il consenso della persona richiedente una protezione internazionale.
Ebbene, si tratta di deroghe a disposizioni particolari di atti legislativi che obbediscono all’esigenza
di una delimitazione del loro ambito di applicazione sostanziale e temporale e non hanno né per
oggetto né per effetto di sostituire o di modificare in modo permanente disposizioni di atti
legislativi e sono quindi suscettibili di essere adottate sul fondamento del citato art. 78, paragrafo 3,
con una procedura non legislativa.
Esse, infatti, si applicano soltanto per un periodo di due anni, salva la possibilità di una proroga di
tale termine prevista dall’articolo 4, paragrafo 5, della decisione impugnata, e sono state quindi
concepite come destinate a scadere il 26 settembre 2017. Inoltre, esse riguardano un numero
limitato di 120.000 cittadini di alcuni Paesi terzi, che hanno presentato una domanda di protezione
internazionale in Grecia o in Italia e appartengono a una delle nazionalità contemplate dall’articolo
110
3, paragrafo 2, della decisione impugnata, i quali verranno ricollocati a partire da uno dei suddetti
due Stati membri e che sono arrivati in questi ultimi tra il 24 marzo 2015 e il 26 settembre 2017.
Il carattere temporaneo delle diverse misure contenute nella decisione impugnata è confermato dal
citato articolo 4, paragrafo 5, che prevede, in presenza di «circostanze eccezionali», la possibilità di
una proroga del periodo di 24 mesi fissato all’articolo 13, paragrafo 2, di detta decisione per un
periodo massimo di 12 mesi nel quadro del meccanismo di sospensione temporanea e parziale
dell’obbligo di ricollocazione dei richiedenti protezione internazionale che incombe allo Stato
membro interessato. Infatti, l’attivazione di tale meccanismo è stata condizionata alla previa notifica
da parte di uno Stato membro da effettuare entro il 26 dicembre 2015.
La Corte afferma, quindi, che la scelta del Consiglio di determinare il periodo di applicazione delle
misure in 24 mesi appare giustificata per il fatto che una ricollocazione di un numero significativo di
persone quale quella prevista dalla decisione impugnata è un’operazione al tempo stesso inedita e
complessa, che necessita di un certo tempo di preparazione e di attuazione, in particolare sul piano
del coordinamento tra le amministrazioni degli Stati membri, prima che essa abbia “un impatto
reale ai fini del sostegno fornito all’Italia e alla Grecia nella gestione dei forti flussi migratori nei loro
territori”.
In sintesi: a) con l’adozione della decisione impugnata sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3,
TFUE, non è stata aggirata la procedura legislativa ordinaria prevista dall’articolo 78, paragrafo 2,
TFUE; b) il fatto che la decisione impugnata, la cui qualificazione come atto non legislativo non
può essere rimessa in discussione, comporti delle deroghe a disposizioni particolari di atti legislativi,
non era idoneo ad impedire la sua adozione sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE; c) per gli
stessi motivi, è da respingere anche l’argomentazione della Repubblica slovacca relativa ad una
violazione dell’articolo 10, paragrafi 1 e 2, TUE, dell’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché dei
principi di certezza del diritto, di democrazia rappresentativa e dell’equilibrio istituzionale.
2.2.- Temporaneità della misura
Le ricorrenti sostenevano anche che la decisione impugnata non avrebbe potuto essere qualificata
come «misura temporanea», ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, applicandosi, a norma del
suo articolo 13, paragrafo 2, fino al 26 settembre 2017, ossia per un periodo di due anni, il quale
può essere prolungato di un ulteriore anno ai sensi dell’articolo 4, paragrafi 5 e 6, della medesima
decisione.
La Corte ha respinto la censura rilevando, in primo luogo, che l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, pur
esigendo che le misure da esso contemplate siano temporanee, riserva al Consiglio un margine di
discrezionalità per stabilire, caso per caso, il loro periodo di applicazione in funzione delle
circostanze del caso di specie e, in particolare, alla luce delle specificità della situazione di emergenza
che giustifica tali misure.
Nella specie la decisione ha un periodo di applicazione limitato, fissato in 24 mesi con una scelta del
tutto giustificata, come si è detto.
2.3.- Situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi e
inefficienze dei regimi di asilo greco e italiano.
Secondo la Repubblica slovacca l’afflusso di cittadini di Paesi terzi nei territori greco e italiano nel
corso dell’anno 2015 non poteva essere qualificato come «improvviso», ai sensi dell’articolo 78,
paragrafo 3, TFUE, in quanto esso si inseriva nel solco di un afflusso già consistente constatato
durante l’anno 2014, sicché esso era prevedibile.
La Corte ha sottolineato che il Consiglio con ampie ricerche ha constatato, sulla base di dati
statistici non contestati dalla Repubblica slovacca, un forte aumento dell’afflusso di cittadini di Paesi
terzi in Grecia e in Italia in un breve lasso di tempo, in particolare durante i mesi di luglio e di
agosto dell’anno 2015.
In tali circostanze, il Consiglio ben poteva, senza incorrere in un manifesto errore di valutazione,
qualificare come «improvviso» ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE un siffatto aumento di
afflusso, anche se esso si iscriveva nel solco di un periodo di arrivi già massicci di migranti.
La Corte ricorda, infatti, che occorre riconoscere alle istituzioni dell’Unione un ampio potere
111
discrezionale allorché esse adottano misure in settori che implicano, da parte loro, scelte aventi
segnatamente natura politica e valutazioni complesse. Di conseguenza, solo il carattere
manifestamente inappropriato di una misura decisa in uno di tali settori, rispetto all’obiettivo che
dette istituzioni intendono perseguire, può inficiare la legittimità della misura in questione (v., in tal
senso, sentenza del 4 maggio 2016, Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 79 e la
giurisprudenza ivi citata).
Dai dati statistici menzionati è emerso un nesso sufficientemente stretto tra la situazione di
emergenza in Grecia e in Italia, vale a dire la pressione considerevole esercitata sui regimi di asilo di
tali Stati membri, e l’afflusso di migranti nel corso dell’anno 2015 e in particolare nei mesi di luglio e
di agosto di quell’anno.
Tale constatazione di fatto non può essere rimessa in discussione dall’esistenza di altri fattori che
possono aver anch’essi contribuito a questa situazione di emergenza, tra i quali le carenze strutturali
dei regimi suddetti in termini di mancanza di capacità di accoglienza e di trattamento delle
domande. Tanto più che l’entità dell’afflusso di migranti con il quale si trovavano a confrontarsi i
regimi di asilo greco e italiano nel corso dell’anno 2015 era tale che avrebbe perturbato qualsiasi
regime di asilo, ivi compreso un regime non contrassegnato da debolezze strutturali.
Va, inoltre, considerato che ‒ siccome i flussi migratori possono evolvere rapidamente, in
particolare spostandosi verso altri Stati membri ‒ la decisione impugnata prevede diversi
meccanismi, in particolare all’articolo 1, paragrafo 2, all’articolo 4, paragrafi 2 e 3, e all’articolo 11,
paragrafo 2, intesi ad aggiustare il suo contenuto prescrittivo in funzione di un eventuale
mutamento della situazione di emergenza iniziale, in particolare nel caso in cui questa arrivasse a
manifestarsi in altri Stati membri e ciò è consentito dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE per il quale
siffatti meccanismi di aggiustamento possono aggiungersi alle misure temporanee adottate ai sensi
di tale disposizione.
2.4.- Regolarità procedurale
La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno sostenuto che il Consiglio avrebbe violato l’articolo 68
TFUE nonché le forme sostanziali, in quanto la decisione impugnata è stata adottata a maggioranza
qualificata, mentre dalle conclusioni del Consiglio europeo dei giorni 25 e 26 giugno 2015 risultava
che essa doveva essere adottata «per consenso» e «rispecchiando le situazioni specifiche degli Stati
membri».
La Corte ha respinto tale censura sottolineando che l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE permette al
Consiglio di adottare misure a maggioranza qualificata, così come il Consiglio ha fatto adottando la
decisione impugnata. Il principio dell’equilibrio istituzionale vieta che il Consiglio europeo
modifichi tale regola di voto imponendo, mediante conclusioni formulate ai sensi dell’articolo 68
TFUE, una regola di voto all’unanimità.
Del resto, in base alla giurisprudenza della Corte, le norme relative alla formazione della volontà
delle istituzioni dell’Unione trovano la loro fonte nei Trattati e pertanto non sono derogabili né
dagli Stati membri né dalle stesse istituzioni, perché solamente i Trattati possono, in casi specifici,
autorizzare un’istituzione a modificare una procedura decisionale da essi prevista (sentenza del 10
settembre 2015, Parlamento/Consiglio, C 363/14, punto 43).
La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno anche sostenuto che poiché il Consiglio ha apportato
modifiche sostanziali alla proposta iniziale della Commissione ed ha adottato la decisione
impugnata senza consultare di nuovo il Parlamento, esso avrebbe violato le forme sostanziali
prescritte dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, dal che conseguirebbe l’annullamento della decisione
impugnata. La Repubblica slovacca ha aggiunto che, procedendo in tal modo, il Consiglio avrebbe
violato anche l’articolo 10, paragrafi 1 e 2, e l’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché i principi di
democrazia rappresentativa, dell’equilibrio istituzionale e di buona amministrazione.
La Corte, attraverso una puntuale ricostruzione dell’iter procedurale con il quale si è pervenuti alla
decisione impugnata, ha considerato rispettato l’obbligo di consultazione del Parlamento previsto
dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE.
La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno anche sostenuto che il Consiglio, adottando la decisione
impugnata, avrebbe violato la forma sostanziale prescritta dall’articolo 293, paragrafo 1, TFUE,
112
avendo emendato la proposta della Commissione senza rispettare l’unanimità richiesta da tale
disposizione. La Repubblica slovacca ha aggiunto che, così facendo, il Consiglio avrebbe violato
anche l’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché i principi dell’equilibrio istituzionale e di buona
amministrazione.
La Corte ha sottolineato che, nel caso di specie, la Commissione ha esercitato il proprio potere di
modifica previsto dall’articolo 293, paragrafo 2, TFUE, in quanto risulta chiaramente dalla
partecipazione di tale istituzione al processo di adozione della decisione impugnata che la proposta
modificata è stata approvata dalla Commissione tramite due dei suoi membri che erano autorizzati
dal collegio dei commissari ad adottare le modifiche in questione.
Pertanto, il requisito dell’unanimità previsto dall’articolo 293, paragrafo 1, TFUE non doveva essere
rispettato dal Consiglio.
La Repubblica slovacca, in via subordinata, e l’Ungheria hanno sostenuto che, in occasione
dell’adozione della decisione impugnata, non sarebbe stato rispettato il diritto dei Parlamenti
nazionali di emettere un parere su qualsiasi progetto di atto legislativo, quale previsto dai protocolli
n. 1 e n. 2.
La Corte ha respinto tale censura ricordando che la decisione impugnata deve essere qualificata
come atto non legislativo, sicché la sua adozione nel quadro di una procedura non legislativa non
era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei Parlamenti nazionali previsti dai
protocolli n. 1 e n. 2, né a quelli relativi al carattere pubblico della deliberazione e del voto in seno al
Consiglio, il cui rispetto si impone soltanto nell’ambito dell’adozione di progetti di atti legislativi.
L’Ungheria ha dedotto che la decisione impugnata era viziata da un’irregolarità procedurale
sostanziale in quanto il Consiglio non aveva rispettato il diritto dell’Unione in materia di uso delle
lingue perché, in violazione dell’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento interno del Consiglio,
sono stati inviati agli Stati membri unicamente in lingua inglese i testi contenenti le modifiche
successivamente apportate alla proposta iniziale della Commissione, ivi compreso, alla fine, il testo
della decisione impugnata quale adottato dal Consiglio.
La Corte ha rilevato che – come affermato dal Consiglio ‒ il suddetto articolo deve essere
interpretato – e viene in pratica applicato da detta istituzione – nel senso che, sebbene il suo
paragrafo 1 prescriva che i progetti che sono «alla base» delle deliberazioni del Consiglio – nel caso
di specie, la proposta iniziale della Commissione – devono in linea di principio essere redatti in tutte
le lingue ufficiali dell’Unione, il paragrafo 2 del medesimo articolo 14 prevede un regime
semplificato per gli emendamenti che non devono essere imperativamente disponibili in tutte le
lingue ufficiali dell’Unione. Soltanto in caso di opposizione di uno Stato membro dovrebbero essere
presentate al Consiglio anche le versioni linguistiche designate da tale Stato prima che detta
istituzione possa continuare a deliberare. In particolare, l’articolo 14, paragrafo 2, di tale
regolamento consente a ciascun membro del Consiglio di opporsi alla deliberazione qualora il testo
degli eventuali emendamenti non sia redatto in tutte le lingue ufficiali dell’Unione.
Benché l’Unione attribuisca grande rilievo alla preservazione del multilinguismo, la cui importanza
viene ricordata all’articolo 3, paragrafo 3, quarto comma, TUE (v., in tal senso, sentenza del 5
maggio 2015, Spagna/Consiglio, C 147/13, punto 42), l’interpretazione offerta dal Consiglio
riguardo al proprio regolamento interno è l’esito di un approccio equilibrato e flessibile che
favorisce l’efficacia e la rapidità dei lavori di tale istituzione, che rivestono una speciale importanza
nel particolare contesto di urgenza che caratterizza la procedura di adozione delle misure
temporanee prese sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE.
Di qui il rigetto della censura, essendo pacifico che, nel caso di specie, la proposta iniziale della
Commissione è stata messa a disposizione di tutte le delegazioni degli Stati membri in tutte le lingue
ufficiali dell’Unione. Inoltre, l’Ungheria non ha contestato neppure il fatto che nessuno Stato
membro si è opposto ad una deliberazione sulla base di testi che riprendevano le modifiche
concordate redatte in lingua inglese, e che, inoltre, tutte le modifiche sono state lette dal Presidente
del Consiglio e interpretate simultaneamente in tutte le lingue ufficiali dell’Unione.
2.5.- Censure riguardanti il merito delle misure temporanee adottate.
2.5.1.- Principio di proporzionalità
Sul punto la Corte ha, in primo luogo, ricordato la propria costante giurisprudenza, secondo cui il
113
principio di proporzionalità esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei a realizzare i
legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa da applicare e non eccedano i limiti di quanto è
necessario alla realizzazione di tali obiettivi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra
più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non
devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti (v., segnatamente, sentenza del 4 maggio 2016,
Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 78 e la giurisprudenza ivi citata).
Dalla stessa giurisprudenza si desume che solo la manifesta inappropriatezza rispetto all’obiettivo
che si intende perseguire può inficiare la legittimità delle misure adottate nel settore della politica
comune dell’Unione in materia di asilo e, in particolare, delle misure temporanee adottate sulla base
dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, quali quelle previste dalla decisione impugnata, che implicano
scelte essenzialmente di natura politica e valutazioni complesse da effettuare, per giunta, entro
termini brevi al fine di rispondere in maniera rapida e concreta ad una «situazione di emergenza», ai
sensi della disposizione sopra citata (v. in tal senso, segnatamente, sentenza del 4 maggio 2016,
Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 79 e la giurisprudenza ivi citata).
Nella specie, come si è detto, tale situazione di manifesta inappropriatezza rispetto all’obiettivo
perseguito è stata esclusa.
2.5.2.- Prospettata inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo da essa perseguito
La Repubblica slovacca, sostenuta dalla Repubblica di Polonia, ha, in particolare, sostenuto
l’inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo perseguito e quindi la sua contrarietà al
principio di proporzionalità, quale sancito all’articolo 5, paragrafo 4, TUE nonché agli articoli 1 e 5
del protocollo n. 2.
Tale inidoneità sarebbe da ascrivere al fatto che il previsto meccanismo di ricollocazione non è di
natura tale da rimediare alle carenze strutturali dei regimi di asilo greco e italiano. Tali carenze,
collegate alla mancanza di capacità di accoglienza e di trattamento delle domande di protezione
internazionale, avrebbero dovuto essere previamente risolte prima che detta ricollocazione potesse
essere effettivamente attuata. Inoltre, dal numero poco elevato di ricollocazioni fin qui effettuate si
desumerebbe che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata era, sin dalla
sua adozione, inadatto al raggiungimento dell’obiettivo ricercato.
La Corte ha, in primo luogo, precisato che l’idoneità del meccanismo di ricollocazione previsto dalla
decisione impugnata a realizzare i propri obiettivi non può essere valutata isolatamente, bensì deve
essere considerata nel quadro dell’insieme di misure in cui esso si inserisce, che sono dirette ad
alleggerire l’onere gravante su Italia e Grecia, anche al fine di migliorare il funzionamento del
rispettivo regime di asilo di tali Stati.
In particolare la decisione impugnata (articolo 8) ha previsto ‒ onde fornire “soluzioni strutturali”
per ovviare alle pressioni eccezionali sui sistemi di asilo e migrazione della Grecia e dell’Italia con
l’istituzione di “un quadro strategico solido che consenta di far fronte alla situazione di crisi e
intensifichi il processo di riforma in corso in questi settori” ‒ misure complementari, segnatamente
in materia di rafforzamento della capacità, della qualità e dell’efficacia dei regimi d’asilo, da adottare
a cura della Repubblica ellenica e della Repubblica italiana, le quali si aggiungono alle misure già
imposte dall’articolo 8 della decisione 2015/1523 al suddetto scopo.
Inoltre, l’articolo 7 della decisione impugnata ha previsto la fornitura di un sostegno operativo ai
suddetti Stati membri, mentre l’articolo 10 della medesima decisione ha previsto un sostegno
finanziario a loro beneficio per ciascuna persona ricollocata.
Comunque, la ricollocazione si aggiunge ad altre misure che mirano a sostenere i regimi di asilo
italiano e greco che sono stati gravemente perturbati dagli afflussi massicci succedutisi constatati a
partire dall’anno 2014.
È questo il caso del programma europeo di reinsediamento di 22.504 persone bisognose di
protezione internazionale, che gli Stati membri e gli Stati associati al sistema derivante
dall’applicazione del regolamento Dublino III hanno concordato il 20 luglio 2015, della decisione
2015/1523 vertente sulla ricollocazione di 40.000 persone manifestamente bisognose di protezione
internazionale, o anche dell’istituzione di «hotspot» in Italia e in Grecia nell’ambito dei quali
114
l’insieme delle agenzie dell’Unione competenti in materia di asilo e gli esperti degli Stati membri
lavorano concretamente con le autorità nazionali e locali per aiutare gli Stati membri interessati ad
adempiere ai loro obblighi previsti dal diritto dell’Unione nei confronti di tali persone, in termini di
controllo, di identificazione, di registrazione delle testimonianze e di raccolta di impronte digitali.
Inoltre, come ricordato dal considerando 15 della decisione impugnata, la Repubblica ellenica e la
Repubblica italiana hanno potuto beneficiare di un sostegno operativo e di aiuti finanziari notevoli
da parte dell’Unione nel quadro della politica migratoria e di asilo.
Infine, la Corte ha sottolineato che non si può dedurre a posteriori dal numero poco elevato di
ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata che quest’ultima fosse,
sin dall’origine, inadatta al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, così come sostenuto dalla
Repubblica slovacca, nonché dall’Ungheria.
Infatti, per consolidata giurisprudenza della Corte, la validità di un atto dell’Unione non può
dipendere da valutazioni retrospettive riguardanti il suo grado di efficacia. Quando il legislatore
dell’Unione si trova a valutare gli effetti futuri di una normativa da adottare, malgrado che questi
non possano essere previsti con esattezza, la sua valutazione può essere censurata solo qualora
appaia manifestamente erronea alla luce degli elementi di cui esso disponeva al momento
dell’adozione della normativa stessa (v., in particolare, sentenze del 12 luglio 2001, Jippes e a., C
189/01, punto 84, e del 9 giugno 2016, Pesce e a., C 78/16 e C 79/16, punto 50).
Nel caso di specie, come risulta in particolare dai considerando 13, 14 e 26 della decisione
impugnata, allorché ha adottato il meccanismo di ricollocazione di un numero significativo di
richiedenti una protezione internazionale, il Consiglio ha proceduto, sulla base di un esame
dettagliato dei dati statistici disponibili all’epoca, ad un’analisi prognostica degli effetti di tale misura
sulla situazione di emergenza in questione. Orbene, alla luce di tali dati, l’analisi di cui sopra non
appare manifestamente erronea.
D’altra parte, il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della
decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva
certamente prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, in particolare, la mancanza
di cooperazione di alcuni Stati membri.
2.5.3.- Carattere asseritamente non necessario della decisione impugnata in rapporto all’obiettivo da
essa perseguito
La Repubblica slovacca, sostenuta dalla Repubblica di Polonia, ha dedotto che l’obiettivo perseguito
dalla decisione impugnata avrebbe potuto essere realizzato in maniera altrettanto efficace
ricorrendo ad altre misure adottabili nell’ambito di strumenti normativi esistenti, misure che
sarebbero state meno restrittive per gli Stati membri e meno incidenti sul diritto «sovrano» di
ciascuno di essi di decidere liberamente dell’ammissione nel proprio territorio di cittadini di Paesi
terzi, nonché sul diritto degli Stati membri, enunciato all’articolo 5 del protocollo n. 2, a che l’onere
finanziario ed amministrativo sia il meno elevato possibile. In particolare, secondo la ricorrente e la
Polonia:
a) sarebbe stato possibile applicare il meccanismo previsto dalla direttiva 2001/55/CE del
Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea
in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati
membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi;
b) la Repubblica ellenica e la Repubblica italiana avrebbero potuto attivare il meccanismo cosiddetto
di «protezione civile dell’Unione», previsto dall’articolo 8-bis del regolamento (CE) n. 2007/2004
del Consiglio, del 26 ottobre 2004, che istituisce un’Agenzia europea per la gestione della
cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (GU 2004, L
349, pag. 1) e tale meccanismo avrebbe potuto fornir loro l’assistenza materiale necessaria;
c) la Repubblica ellenica e la Repubblica italiana avrebbero potuto anche, in terzo luogo, richiedere
un’assistenza all’agenzia Frontex sotto forma di «interventi rapidi»;
d) allo stesso modo, in conformità dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera f), e dell’articolo 9, paragrafi 1
e 1 ter, del regolamento n. 2007/2004, i suddetti due Stati membri avrebbero potuto sollecitare
l’agenzia Frontex affinché procurasse loro l’assistenza necessaria per l’organizzazione delle
115
operazioni di rimpatrio;
e) in base all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE sarebbe stato possibile anche adottare misure meno
restrittive per gli Stati membri, ma ugualmente idonee ai fini della realizzazione dell’obiettivo
perseguito, quali la fornitura di un aiuto per facilitare il rimpatrio e la registrazione ovvero un
sostegno finanziario, materiale, tecnico e personale ai regimi di asilo italiano e greco;
f) infine, gli Stati membri avrebbero potuto assumere, su base volontaria, iniziative bilaterali al fine
di fornire un simile sostegno e comunque iniziative del genere erano già state intraprese.
Infine, si rileva che la ricollocazione dei richiedenti prevista dalla decisione impugnata
comporterebbe inevitabilmente un onere finanziario e amministrativo per gli Stati membri e che
l’imposizione di tale onere non sarebbe stata necessaria, proprio perché sarebbero state ipotizzabili
altre misure meno vincolanti.
Di conseguenza, tale decisione sarebbe da considerare come una misura superflua e prematura che
si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità e con l’articolo 5 del protocollo n. 2.
La Corte, in primo luogo, ha ricordato che la decisione è stata adottata in un contesto
particolarmente delicato, rappresentato dalla situazione di grave emergenza, esistente all’epoca in
Grecia e in Italia, caratterizzata da un afflusso massiccio e improvviso di cittadini di Paesi terzi
durante i mesi di luglio e di agosto dell’anno 2015.
In tale frangente la decisione di adottare un meccanismo vincolante di ricollocazione di 120.000
persone in base all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE ‒ in aggiunta a quello previsto dalla precedente
decisione 2015/1523, per alleggerire la pressione che si esercitava sulla Repubblica italiana e
soprattutto sulla Repubblica ellenica in considerazione di una nuova situazione di emergenza
derivante dall’afflusso massiccio di migranti in situazione irregolare in tali Stati membri che si era
verificato nel corso dei primi otto mesi dell’anno 2015, e in particolare nel corso dei mesi di luglio e
di agosto di quell’anno ‒ se certo doveva essere fondata su criteri oggettivi, potrebbe essere
censurata dalla Corte soltanto in ipotesi di constatazione della commissione da parte del Consiglio ‒
nel momento dell’adozione della decisione impugnata, sulla base delle informazioni e dei dati
disponibili all’epoca ‒ di un errore manifesto di valutazione, nel senso che avrebbe potuto essere
adottata entro gli stessi termini un’altra misura meno vincolante ma altrettanto efficace.
Nella specie, come si è detto, è da escludere che il Consiglio abbia commesso un simile errore per il
fatto di aver ritenuto, alla luce dei dati più recenti che erano a sua disposizione, che la situazione di
emergenza esistente alla data del 22 settembre 2015 giustificasse la ricollocazione di 120.000
persone e che la ricollocazione di 40.000 persone già prevista dalla decisione 2015/1523 non
sarebbe stata sufficiente.
D’altra parte, per quanto riguarda l’incidenza della decisione impugnata sul quadro normativo
disciplinante l’ammissione di cittadini di Paesi terzi, occorre rilevare che il meccanismo di
ricollocazione previsto da tale decisione, pur avendo carattere vincolante, si applica però soltanto
per un periodo di due anni e riguarda un numero limitato di migranti manifestamente bisognosi di
protezione internazionale.
Inoltre, l’effetto vincolante della decisione impugnata risulta limitato anche dalla previsione secondo
cui come presupposto per la ricollocazione si richiede che gli Stati membri indichino, a intervalli
regolari, e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che sono in grado di ricollocare
rapidamente nel proprio territorio (articolo 5, paragrafo 2, della decisione impugnata), e che essi
siano d’accordo con la ricollocazione delle singole persone in questione (articolo 5, paragrafo 4, di
detta decisione), restando inteso però che, a norma dell’articolo 5, paragrafo 7, della suddetta
decisione, uno Stato membro non può rifiutarsi di ricollocare un richiedente se non in presenza di
un motivo legittimo attinente all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale.
Infine, se è stato adottato un meccanismo vincolante che comporta una ripartizione su base
numerica e obbligatoria, sotto forma di quote, delle persone da ricollocare tra gli Stati membri, ciò è
dipeso da una congrua valutazione del Consiglio operata alla luce del fallimento della ripartizione
per consenso tra gli Stati membri delle 40.000 persone interessate dalla decisione 2015/1523 e alle
difficoltà riscontrate nell’ambito dei negoziati relativi alla decisione impugnata, che portavano a
considerare impossibile di ottenere a breve termine il consenso sulla ripartizione delle persone
116
ricollocate.
2.5.4.- Il doveroso principio di solidarietà nell’ambito dell’attuazione della politica comune
dell’Unione in materia di asilo.
La Corte, in primo luogo, ha precisato che il Consiglio ha anche considerato che era essenziale dar
prova di solidarietà nei confronti dei due Stati membri Grecia e Italia e completare le misure fino
allora adottate disponendo le misure temporanee previste dalla suddetta decisione.
Infatti, nell’adottare la decisione impugnata, il Consiglio era effettivamente tenuto, come risulta
d’altronde dal considerando 2 di detta decisione, a dare attuazione al principio di solidarietà e di
equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario, la cui
osservanza si impone, a norma dell’articolo 80 TFUE, nell’ambito dell’attuazione della politica
comune dell’Unione in materia di asilo.
Pertanto, non si può imputare al Consiglio di aver commesso un errore manifesto di valutazione
per il fatto di aver ritenuto di dover adottare, in considerazione dell’urgenza specifica della
situazione, sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, letto alla luce dell’articolo 80 TFUE e del
principio di solidarietà tra Stati membri in esso sancito, misure temporanee consistenti nell’imporre
un meccanismo di ricollocazione vincolante, quale quello previsto dalla decisione impugnata.
2.5.5.- L’opportunità della scelta di non utilizzare il sistema di protezione temporanea previsto dalla
direttiva 2001/55.
D’altra parte, il Consiglio ha altresì sostenuto, senza essere contraddetto sul punto, che il sistema di
protezione temporanea previsto dalla direttiva 2001/55 non offriva una risposta effettiva al
problema che si poneva nel caso di specie, ossia la saturazione completa delle infrastrutture di
accoglienza in Grecia e in Italia e la necessità di sgravare questi Stati membri il più rapidamente
possibile di un numero rilevante di migranti già arrivati sul loro territorio, dato che tale sistema di
protezione temporanea prevede che le persone ammesse a beneficiarne hanno diritto a una
protezione nello Stato membro in cui esse si trovano.
Peraltro, la scelta operata nella decisione impugnata di concedere una protezione internazionale
piuttosto che uno status che conferisce diritti più limitati, quale quello della protezione temporanea
previsto dalla direttiva 2001/55, è una scelta essenzialmente politica, la cui opportunità non può
essere esaminata dalla Corte.
2.5.6.- La formale richiesta dell’Ungheria di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della
ricollocazione.
Quanto, in particolare, all’Ungheria viene ricordato che, nella sua proposta del 9 settembre 2015, la
Commissione aveva collocato l’Ungheria tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione, in
quanto i dati per i primi otto mesi dell’anno 2015, e in particolare per i mesi di luglio e di agosto di
quell’anno, rivelavano un arrivo massiccio, per la rotta cosiddetta dei «Balcani occidentali», di
migranti provenienti prevalentemente dalla Grecia, che esercitavano così una pressione
considerevole sul regime di asilo ungherese, paragonabile a quella esercitata sui regimi di asilo greco
e italiano.
Tuttavia, a seguito della costruzione da parte dell’Ungheria di una barriera sulla sua frontiera con la
Serbia e del transito massiccio di migranti presenti in Ungheria verso ovest, principalmente verso la
Germania, tale pressione si è considerevolmente alleggerita verso la metà del mese di settembre
2015, in quanto il numero di migranti in situazione irregolare presenti nel territorio ungherese si è
ridotto in maniera significativa.
Nel contesto di tali avvenimenti, verificatisi nel mese di settembre 2015, l’Ungheria ha formalmente
chiesto al Consiglio di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione e il
Consiglio ha preso atto di tale domanda.
Ne deriva che, di fronte al rifiuto dell’Ungheria di beneficiare del meccanismo di ricollocazione
come era stato proposto dalla Commissione, il Consiglio non può essere censurato, sotto il profilo
del principio di proporzionalità, per aver dedotto dal principio di solidarietà e di equa ripartizione
delle responsabilità imposto dall’articolo 80 TFUE che l’Ungheria doveva vedersi attribuire delle
117
quote di ricollocazione, al pari di tutti gli altri Stati membri che non beneficiavano di tale
meccanismo di ricollocazione.
Nel suo ricorso l’Ungheria ha sostenuto altresì che l’imposizione di quote vincolanti nei suoi
confronti costituirebbe un onere sproporzionato, tenuto conto del fatto che essa si trovava, anche
dopo la metà del mese di settembre 2015, in una situazione di emergenza, in quanto la pressione
migratoria sulle sue frontiere non era diminuita, ma si era tutt’al più spostata verso la sua frontiera
con la Croazia dove ogni giorno si sarebbero verificati significativi attraversamenti irregolari.
Pertanto, poiché l’Ungheria si sarebbe sempre trovata, anche al momento dell’adozione della
decisione impugnata, a confronto con una situazione di emergenza, la decisione di includerla tra gli
Stati membri di ricollocazione e di imporle a tale titolo oneri supplementari sotto forma di quote di
ricollocazione sarebbe stata presa in violazione dell’obiettivo perseguito dall’articolo 78, paragrafo 3,
TFUE, che mira ad aiutare gli Stati membri che si trovino in una situazione siffatta.
Al riguardo la Corte sottolinea che la decisione impugnata, prevedendo in particolare una
ripartizione obbligatoria tra tutti gli Stati membri dei migranti che devono essere ricollocati a partire
dalla Grecia e dall’Italia, da un lato, ha un impatto sull’insieme degli Stati membri di ricollocazione
e, dall’altro, esige che sia garantito un equilibrio tra i diversi interessi in gioco, tenuto conto degli
obiettivi perseguiti da detta decisione. Pertanto, la ricerca di un siffatto equilibrio, che prenda in
considerazione non già la situazione particolare di un singolo Stato membro, bensì quella
dell’insieme degli Stati membri, non può essere considerata contraria al principio di proporzionalità
(v., per analogia, sentenza del 18 giugno 2015, Estonia/Parlamento e Consiglio, C 508/13, punto
39).
Se uno o più Stati membri si trovino in una situazione di emergenza, ai sensi dell’articolo 78,
paragrafo 3, TFUE, gli oneri derivanti dalle misure temporanee adottate in virtù di tale disposizione
a beneficio di questo o di questi Stati membri devono, in linea di principio, essere ripartiti tra tutti
gli altri Stati membri, conformemente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle
responsabilità tra gli Stati membri, dal momento che, ai sensi dell’articolo 80 TFUE, tale principio
disciplina la politica dell’Unione in materia di asilo.
Pertanto, correttamente la Commissione e il Consiglio hanno ritenuto, nel caso di specie, in
occasione dell’adozione della decisione impugnata, che la ripartizione dei richiedenti ricollocati tra
tutti gli Stati membri, in conformità del principio sancito all’articolo 80 TFUE, costituisse un
elemento fondamentale della decisione impugnata. Ciò risulta dai molteplici riferimenti al suddetto
principio contenuti nella decisione impugnata, segnatamente nei considerando 2, 16, 26 e 30 di
quest’ultima.
Del resto, la decisione impugnata prevede, all’articolo 4, paragrafo 5, e all’articolo 9, la possibilità
per uno Stato membro, a certe condizioni, di chiedere una sospensione degli obblighi che gli
incombono in quanto Stato membro di ricollocazione ai sensi di tale decisione.
Così, mediante la decisione 2016/408, adottata a norma dell’articolo 4, paragrafo 5, della decisione
impugnata, il Consiglio, riconoscendo in particolare che la Repubblica d’Austria si trovava dinanzi a
circostanze eccezionali e a una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di
cittadini di Paesi terzi nel suo territorio e che tale Stato membro era, dopo il Regno di Svezia, il
secondo Paese dell’Unione con il maggior numero di richiedenti una protezione internazionale per
abitante, ha deciso che gli obblighi incombenti alla Repubblica d’Austria a titolo della quota di
ricollocazione ad essa assegnata dovevano essere sospesi a concorrenza del 30% di tale quota per la
durata di un anno.
Allo stesso modo, mediante la decisione 2016/946, il Consiglio, ritenendo in particolare che il
Regno di Svezia si trovasse dinanzi a una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso
improvviso di cittadini di Paesi terzi nel suo territorio a motivo di un brusco spostamento dei flussi
migratori e che tale Stato membro contasse, di gran lunga, il maggior numero di richiedenti una
protezione internazionale per abitante nell’Unione, ha deciso che gli obblighi ad esso incombenti in
quanto Stato membro di ricollocazione a titolo della decisione impugnata dovevano essere sospesi
per un periodo di un anno.
In linea generale, risulta dal meccanismo di aggiustamento, previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, della
decisione impugnata, che uno Stato membro, il quale ritenga di trovarsi in una situazione di
118
emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi a causa di un brusco
spostamento dei flussi migratori, può, adducendo motivi debitamente giustificati, avvisare la
Commissione e il Consiglio di tale situazione di emergenza, ciò che può condurre ad una modifica
della decisione suddetta, di modo che tale Stato membro possa beneficiare, a partire dal 26
settembre 2016, della ricollocazione del numero di 54.000 richiedenti previsto dall’articolo 4,
paragrafo 1, lettera c), di questa stessa decisione.
Queste differenti misure di aggiustamento dimostrano che il meccanismo di ricollocazione previsto
dalla decisione impugnata, considerato nel suo insieme, permette di tener conto, in modo
proporzionato, della situazione specifica di ciascuno Stato membro sotto questo aspetto, come è
confermato dalla chiave di ripartizione in funzione della quale sono state fissate, rispettivamente
nell’allegato I e nell’allegato II della decisione impugnata, le quote di ricollocazione in provenienza
dalla Grecia e dall’Italia.
Tale chiave di distribuzione è finalizzata a garantire una ripartizione delle persone ricollocate tra gli
Stati membri interessati che sia segnatamente proporzionata al peso economico di ciascuno di essi e
alla pressione migratoria esercitata sul loro regime di asilo.
Infatti, è basata sui seguenti criteri: a) popolazione complessiva (40%); b) PIL (40%); c) media delle
domande di asilo per milione di abitanti nel periodo 2010-2014 (10% con un tetto massimo del
30% dell’effetto popolazione e PIL sulla chiave, onde evitare effetti sproporzionati sulla
distribuzione globale); d) tasso di disoccupazione (10% con un tetto massimo del 30% dell’effetto
popolazione e PIL sulla chiave, onde evitare effetti sproporzionati sulla distribuzione globale).
2.5.7.- Carattere discriminatorio di eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei
richiedenti una protezione internazionale.
Viene quindi respinta l’argomentazione della Polonia secondo cui gli effetti dell’imposizione di
quote vincolanti sarebbero del tutto sproporzionati per gli Stati membri che sono «pressoché
omogenei etnicamente come la Polonia» con una popolazione che differirebbe, da un punto di vista
culturale e linguistico, dai migranti che devono essere ricollocati nel rispettivo territorio.
Al riguardo la Corte precisa che se la ricollocazione dovesse essere strettamente subordinata
all’esistenza di legami culturali o linguistici tra ciascun richiedente una protezione internazionale e lo
Stato membro di ricollocazione, ne risulterebbe l’impossibilità di ripartire tali richiedenti tra tutti gli
Stati membri nel rispetto del principio di solidarietà imposto dall’articolo 80 TFUE e, dunque, di
adottare un meccanismo di ricollocazione vincolante.
Inoltre, eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione
internazionale non possono essere prese in esame, in quanto esse sarebbero, con tutta evidenza,
contrarie al diritto dell’Unione e in particolare all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), cioè sarebbero discriminatorie.
2.5.8.- La salvaguardia dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna da parte degli
Stati membri.
Viene anche respinta l’ulteriore argomentazione della Repubblica di Polonia secondo cui la
decisione impugnata sarebbe contraria al principio di proporzionalità, in quanto non permetterebbe
agli Stati membri di garantire l’esercizio effettivo delle responsabilità ad essi incombenti per il
mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna ai sensi dell’articolo 72
TFUE, il che sarebbe tanto più grave per il fatto che detta decisione darebbe luogo a importanti
movimenti cosiddetti «secondari», provocati dall’uscita di richiedenti dal loro Stato membro
ospitante prima che quest’ultimo abbia potuto decidere definitivamente sulla loro domanda di
protezione internazionale.
A questo proposito la Corte ricorda che il considerando 32 della decisione impugnata enuncia, in
particolare, che occorre prendere in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico per
tutta la durata della procedura di ricollocazione, fino al trasferimento effettivo del richiedente, e che,
in tale contesto, si impone il pieno rispetto dei diritti fondamentali del richiedente, comprese le
pertinenti regole in materia di protezione dei dati.
119
In tale prospettiva, l’articolo 5 della decisione impugnata, intitolato «Procedura di ricollocazione»,
stabilisce, al paragrafo 7, che gli Stati membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione di un
richiedente solo qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione
costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico nel loro territorio.
Se, come sostenuto dalla Repubblica di Polonia, il meccanismo previsto dall’articolo 5, paragrafo 7,
della decisione impugnata fosse inefficace perché obbligherebbe gli Stati membri a controllare
numerose persone in poco tempo, simili difficoltà di ordine pratico sono considerate non inerenti al
suddetto meccanismo e, se del caso, da risolvere nello spirito di cooperazione e di reciproca fiducia
tra le autorità degli Stati membri beneficiari della ricollocazione e quelle degli Stati membri di
ricollocazione, il quale deve imporsi nel quadro dell’attuazione della procedura di ricollocazione
prevista dall’articolo 5 della decisione sopra citata.
2.5.9.- Criteri per determinare lo Stato di ricollocazione
Quanto alla critica mossa dall’Ungheria secondo cui la decisione impugnata non fisserebbe alcun
criterio per determinare lo Stato membro di ricollocazione, la Corte ha ribadito che la decisione in
parola ha tenuto conto dell’articolo 80 TFUE ‒ il quale trova applicazione nell’attuazione della
politica dell’Unione in materia di asilo e, segnatamente, in occasione dell’adozione di misure
temporanee fondate sull’articolo 78, paragrafo 3, TFUE ‒ da cui risulta che la determinazione dello
Stato membro di ricollocazione deve essere fondata su criteri connessi alla solidarietà e all’equa
ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri.
Inoltre, l’articolo 6, paragrafi 1 e 2, della decisione impugnata prevede alcuni criteri specifici di
determinazione dello Stato membro di ricollocazione, connessi all’interesse superiore del minore e
ai legami familiari, che sono d’altronde analoghi a quelli previsti dal regolamento Dublino III;
mentre il considerando 34 della decisione impugnata elenca un insieme di elementi che sono
preordinati, in particolare, a che i richiedenti vengano ricollocati in uno Stato membro verso il quale
essi intrattengono legami familiari, culturali o sociali e di cui occorre tener conto in modo
particolare al momento della designazione dello Stato membro di ricollocazione, e ciò “allo scopo
di favorire l’integrazione dei richiedenti in seno a tale Stato”.
2.5.10.- I rapporti tra la decisione impugnata e il sistema Dublino III
La Corte quindi ha sottolineato che è da escludere che la decisione impugnata abbia dato vita ad un
sistema arbitrario che si sarebbe sostituito al sistema oggettivo dettato dal regolamento Dublino III,
in quanto, al contrario, questi due sistemi, in definitiva, non differiscono sostanzialmente l’uno
dall’altro, nel senso che il sistema istituito dalla decisione impugnata è fondato, al pari del sistema
istituito dal regolamento Dublino III, su criteri oggettivi, e non sull’espressione di una preferenza da
parte del richiedente una protezione internazionale.
In particolare, la regola della competenza dello Stato membro di primo ingresso, prevista
dall’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III ‒ che è l’unica regola di determinazione
dello Stato membro competente dettata da tale regolamento alla quale la decisione impugnata
apporta una deroga ‒ non si ricollega alle preferenze del richiedente per un determinato Stato
membro ospitante e non mira specificamente a garantire che sussista un legame linguistico, culturale
o sociale tra tale richiedente e lo Stato membro competente.
A questo proposito, la Corte ha precisato che il Consiglio ha giustamente ricordato, al considerando
35 della decisione impugnata, che il diritto dell’Unione non consente ai richiedenti di scegliere lo
Stato membro competente per l’esame della loro domanda. Infatti, i criteri previsti dal regolamento
Dublino III per determinare lo Stato membro competente a trattare una domanda di protezione
internazionale non si ricollegano alle preferenze del richiedente per un determinato Stato membro
ospitante.
Infine, dalla Convenzione del 1951 e dal protocollo del 1967 relativi allo status di rifugiati non è
possibile desumere che la Convenzione di Ginevra sancisca, a beneficio di un richiedente la
protezione internazionale, il diritto di restare nello Stato di presentazione della domanda di
protezione fintanto che questa è pendente.
120
3.- Osservazioni.
Come si può notare dalla precedente sintesi la sentenza in commento risulta, nella sua integralità,
diretta a riaffermare la solidarietà tra gli Stati membri, valore che permea anche per il rispetto delle
norme dei Trattati di tipo procedurale.
Del resto, le numerose e specifiche censure degli Stati ricorrenti (e della Polonia che li ha
espressamente sostenuti in qualche caso), anche per le parti relative alla contestazione della base
giuridica dell’impugnata decisione del Consiglio UE 2015/1601 e alle presunte irregolarità
procedurali commesse in occasione dell’adozione della decisione stessa, erano intrise di un
sentimento di non solidarietà, in molti casi espressamente manifestato.
Anzi si può dire che proprio le censure di tipo tecnico-procedurale dimostrano, in modo molto
significativo, quale sia oggi lo stato dell’Unione e come sia difficile pervenire a decisioni politiche
condivise tra i diversi Governi.
Questo, purtroppo, si verifica specialmente in tema di immigrazione.
Sappiamo che ormai da anni questo tema è diventato quello che maggiormente divide gli Stati
membri e dobbiamo anche constare come non tutti abbiano presente che l’efficacia degli strumenti
che regolano la condizione dei migranti, specialmente extra-UE, rappresenta, in un certo senso, il
banco di prova delle democrazie contemporanee.
Il nostro Stato e la stessa Unione europea sono fondati sul principio democratico e fin dai tempi del
famoso “Elogio della democrazia ateniese” di Pericle viene affermato che un elemento
fondamentale della democrazia è la fiducia che i consociati hanno nelle relazioni reciproche oltre
che nei rapporti con le Istituzioni e le Pubbliche Amministrazioni.
Si dice, infatti, che l’essenza della democrazia è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è
la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza, il che vale, in base ai Trattati,
anche nei rapporti tra gli Stati UE, a ciascuno dei quali è riconosciuta pari dignità rispetto agli altri
Stati oltre a stabilirsi che i reciproci rapporti sono retti dal principio di solidarietà e di equa
ripartizione della responsabilità.
Ma va aggiunto anche che perché si crei questo circolo “virtuoso” è, in primo luogo, necessario che
ognuno abbia fiducia in sé stesso e, per gli Stati, che i Governi, forti della fiducia riscossa dal corpo
elettorale, con coraggio, effettuino scelte “ambiziose” (secondo un’espressione usata dalla
Commissione UE) perseguendo l’idea di Platone secondo la quale il politico sapiente è colui che
viene liberamente scelto dai governati per prendersi cura delle loro esigenze con il ruolo di “pilota
dei suoi passeggeri”, esperto nello schivare e prevenire i pericoli e non è invece colui che è capo di
un gregge di animali, che si limita ad evitare di perdere qualche capo di bestiame e a godere della sua
posizione di privilegio.
E, quanto alla conquista della fiducia dei cittadini dei singoli Stati ed europei, si può ricordare che il
successo di Churchill, Adenauer, De Gaulle, De Gasperi e anche Jaques Delors, si fa derivare
principalmente dalla percezione da loro data alla popolazione europea di garantire l’affermazione di
principi fondamentali per un futuro pacifico e prospero del continente, certamente non concentrato
soltanto sul rispetto delle regole del bilancio UE soprattutto davanti alla crescente crisi umanitaria
provocata dall’afflusso di rifugiati provenienti da Paesi devastati dalla guerra, come oggi
principalmente la Siria, dalla fame e dalle calamità naturali, tanto più di fronte alla preoccupante
diffusione di sentimenti e partiti euro-scettici.
Sicché, in un Sistema di asilo che non è mai diventato realmente “comune” ‒ come quello chiamato
Sistema europeo comune di asilo o CEAS nell’acronimo inglese (Common European Asylum
System) ‒ con l’aumento delle migrazioni verso il nostro continente, non si sono create le
condizioni per superare gli egoismi – degli Stati e dei singoli – e quindi neppure per combattere la
logica della “paura dell’altro”, che alimenta sentimenti xenofobi, razzisti e antieuropeisti, che sono
quelli che, a loro volta, determinano la nascita di partiti politici e movimenti che li veicolano.
E questo è da collegare ad una diminuzione nei cittadini europei ‒ in misure diverse ‒ della fiducia
in sé stessi e nelle Istituzioni nazionali ed europee.
Infatti, come affermava Pericle: “ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la
fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione; ed è per questo che la nostra
121
città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero”.
Così avendo perso la memoria del passato abbiamo difficoltà a costruire il futuro.
E in questo vivere nel presente diamo sempre più spazio, nei singoli Stati membri UE e nello stesso
Parlamento europeo, a partiti e movimenti che fomentano le divisioni e le separazioni non solo nei
confronti dei migranti provenienti da Paesi terzi, ma anche tra cittadini europei, cui i Governi degli
Stati membri non hanno per anni, nell’ambito delle varie istituzioni UE, dimostrato la forza di far
prevalere il coraggio di adottare scelte coraggiose ‒ pur se non condivise dalla popolazione ‒ ma
destinate a creare le premesse per superare le difficoltà e far prevalere un’avveduta solidarietà, nei
reciproci rapporti e nei riguardi dei migranti.
Tutto ciò ‒ di cui si ha triste conferma nei risultati delle recenti elezioni politiche tedesche, del 24
settembre 2017 ‒ può dirsi il frutto del “sonno della ragione” e di un appannamento della memoria
delle nostre radici e del patto nazionale ed europeo circa l’effettività della tutela dei diritti
fondamentali, da sempre considerata il presupposto della legittimità democratica del «progetto
europeo» e il suo tratto caratteristico in ogni settore.
In tutto questo, benché il tema dell’immigrazione sia tornato ad essere considerato centrale sia per
tutti i singoli Paesi europei sia per l’Europa tuttavia non sembra che tutti i Governi abbiano
compreso ‒ e che le Istituzioni UE si siano attivate in tal senso ‒ che siamo in presenza di una sfida
che mette in gioco lo stesso ruolo del vecchio continente nel mondo e la sua capacità di partecipare
da protagonista alla ridefinizione degli equilibri globali, salvaguardando i propri interessi ma anche
riscoprendo la “sua anima”, cioè i propri nobili valori fondanti.
Ne deriva che le ‒ ormai consuete ‒”incertezze” dei Governi non consentono di superare uno dei
più grandi difetti congeniti del CEAS rappresentato dal fatto che il destino dei diritti umani e/o
fondamentali ‒ dei migranti e non solo ‒ è quello di essere più popolari se si difendono a casa degli
altri che a casa propria e il perpetuarsi di questo double standard non è ascrivibile solo alle
diplomazie, ma è profondamente radicato in molti componenti dei corpi elettorali cui fanno
riferimento i Governi europei.
Così, anche alla luce delle passate esperienze, l’ulteriore modifica (c.d. Dublino IV) alla quale stanno
lavorando la Commissione UE e il Parlamento resta una grande incognita perché non è ancora
chiaro quale direzione si vuole seguire.
Per tutte queste ragioni, da tempo, illustri giuristi come Valerio Onida sostengono che “il diritto dei
diritti fondamentali” oggigiorno non è tanto di competenza dei legislatori – le cui scelte sono spesso
condizionate dal dare risposta ai transeunti problemi che, via via, sono sentiti come urgenti dalla
volontà popolare – quanto piuttosto dei giudici, perché involge problemi di equilibrio tra principi
fondanti che possono essere assicurati meglio in sede giudiziaria, a condizione che i giudici siano
aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo
all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la
Corte EDU e la Corte di giustizia UE, costruendo, così, una strada più facile per creare un nuovo
modello di produzione del diritto in senso oggettivo — una sorta di diritto comune dei diritti
fondamentali — che avvicina i Paesi di civil law a quelli di common law.
In effetti, non si può fare a meno di registrare che, specialmente negli ultimi anni, si sono avuti
molti progressi nel riconoscimento concreto dei diritti fondamentali dei migranti soprattutto grazie
all’opera delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo, delle Corti costituzionali e supreme nazionali e
dei Giudici europei di ogni ordine e grado.
Comunque, pur con tutti gli sforzi interpretativi che si possono fare, quel che è certo è che senza
scelte politiche coraggiose da parte dei Governi e delle Istituzioni non si riesce a dare una risposta
appagante ad una questione – quella migratoria ‒ che certamente non è “emergenziale” e che ci
accompagnerà per i prossimi decenni, tanto più che molte delle cause di tale fenomeno sono
ascrivibili, direttamente o indirettamente, a comportamenti degli stessi Stati occidentali ed europei.
E queste scelte sono da fare subito, in quanto la loro assenza, insieme con la mancata corretta
informazione sul fenomeno, ha già determinato molti guasti.
Basta pensare che ‒ in un clima di quasi indifferenza, mista a scarsa consapevolezza ‒ siamo
arrivati, nel giro di pochi anni, ad una situazione nella quale non solo aumentano, di minuto in
122
minuto, le diseguaglianze e le discriminazioni, ma si stimano addirittura dai 27 milioni ai 200 milioni
di nuovi schiavi nel mondo, di cui molti anche in Italia (in tutte le Regioni) e in Europa, in tutti i
campi.
Ovviamente i soggetti più colpiti da tali tremendi fenomeni sono i giovani e i soggetti socialmente
vulnerabili e a rischio discriminazione – tra i quali anche in ambito UE, vengono compresi le
donne, le persone minorenni, le persone con disabilità e gli immigrati – cui vanno aggiunti i “nuovi”
soggetti socialmente vulnerabili, ossia le persone che, pur partendo da una condizione economica
decorosa, scivolano silenziosamente verso il disagio oppure verso la povertà.
In questo clima la bella sentenza 6 settembre 2017 della Grande Sezione della Corte di Giustizia
sicuramente fa ben sperare e porta una “brezza” di solidarietà nei rapporti fra gli Stati membri.
Però se non si manifesta una reale volontà di modificare il modo in cui pensare al futuro
dell’Europa e, quindi di modificare la stessa impostazione del CEAS ed anche la Convenzione di
Dublino, difficilmente si può pensare che si instauri nei fatti – e nelle prassi dei diversi Stati ‒ una
reale solidarietà, a partire dall’immigrazione.
Sicuramente è degno di nota l’insistente riferimento ‒ contenuto nella sentenza ‒ al principio di
solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, che, ai sensi dell’articolo 80
TFUE, disciplina la politica dell’Unione in materia di asilo.
Ma non si può non metterlo in relazione alle reazioni manifestate dagli Stati ricorrenti alla
pubblicazione della sentenza così come alla sconfortante “mancanza di cooperazione di alcuni Stati
membri”, registrata dalla Corte a proposito sia del fallimento della decisione del Consiglio UE
2015/1523 in data 20 luglio 2015, che aveva previsto la ricollocazione per consenso di 40.000
persone manifestamente bisognose di protezione internazionale.
Inoltre, la sentenza non offre indicazioni certe per superare la norma maggiormente controversa del
CEAS che è quella che stabilisce che lo Stato membro competente per la protezione sia quello di
primo ingresso (vedi art. 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III).
Nella sentenza si afferma che a questa regola la decisione impugnata da Slovacchia e Ungheria ‒
oltre a ribadire alcuni criteri specifici di determinazione dello Stato membro di ricollocazione,
connessi all’interesse superiore del minore e ai legami familiari (che sono d’altronde analoghi a
quelli previsti dal regolamento Dublino III) ‒ apporta una deroga in quanto il considerando 34 della
decisione impugnata elenca un insieme di elementi che sono preordinati, in particolare, a che i
richiedenti vengano ricollocati in uno Stato membro verso il quale essi intrattengono legami
familiari, culturali o sociali, di cui occorre tener conto in modo particolare al momento della
designazione dello Stato membro di ricollocazione, e ciò “allo scopo di favorire l’integrazione dei
richiedenti in seno a tale Stato”.
Però la Corte sottolinea che non si tratta di una innovazione che ricollega la scelta alle “preferenze
del richiedente” per un determinato Stato membro ospitante e che essa non mira specificamente a
garantire che sussista un legame linguistico, culturale o sociale tra tale richiedente e lo Stato
membro competente. Infatti, il sistema istituito dalla decisione impugnata è fondato, al pari del
sistema istituito dal regolamento Dublino III, su criteri oggettivi, e non sull’espressione di una
preferenza da parte del richiedente una protezione internazionale.
Anche se la Corte sottolinea che neppure lo Stato membro destinatario della ricollocazione può
subordinarne l’effettuazione all’esistenza/inesistenza di legami culturali o linguistici tra ciascun
richiedente una protezione internazionale e lo Stato stesso, perché questo renderebbe impossibile
ripartire tali richiedenti tra tutti gli Stati membri nel rispetto del principio di solidarietà imposto
dall’articolo 80 TFUE e, dunque, adottare un meccanismo di ricollocazione vincolante e comunque
eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione internazionale
sarebbero, con tutta evidenza, discriminatorie e quindi contrarie al diritto dell’Unione e in
particolare all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ebbene, sarebbe auspicabile che almeno un simile mitigamento della norma originaria fosse
contenuto nella riforma di Dublino III in itinere, in quanto pur non consentendo ai richiedenti di
scegliere lo Stato membro competente per l’esame della loro domanda, comunque introduce degli
elementi ‒ oggettivi, ma da valutare ‒ che possono favorirne l’integrazione.
123
È notorio − e lo ha autorevolmente ribadito l’organizzazione dei gesuiti JRS Europa , proprio a
commento delle norme contenute in Dublino III – che “l’unico modo in cui il sistema di asilo
dell’UE può funzionare umanamente” è quello di dare la possibilità agli interessati di “influenzare
personalmente la scelta del Paese di destinazione”;
Infatti questo è l’ingrediente migliore per garantire la riuscita della integrazione delle persone che
hanno diritto al riconoscimento di uno status di protezione e tale riuscita corrisponde non soltanto
all’interesse dei migranti, ma anche ai principi del diritto internazionale e UE, oltre che agli interessi
– anche economici – degli Stati di approdo, in tutto il mondo.
Pertanto, se si modificasse la norma che obbliga il migrante a restare nello Stato di primo approdo,
a prescindere dai suoi desideri, sia pure con criteri oggettivi si potrebbe tenere conto dei legami
familiari, culturali o sociali dell’interessato.
Questo ovviamente non basta per “favorire l’integrazione” realmente – come afferma la Corte di
Giustizia ‒ perché è poi necessario seguire l’inserimento ed evitare l’isolamento dei migranti una
volta entrati in uno Stato ed anche evitare di costringerli alla nullafacenza e, se minorenni, inserirli
adeguatamente nel circuito scolastico.
Peraltro, allo stesso tempo, sarebbe bene che, anche al livello UE, si desse l’avvio a campagne di
informazione sulla reale condizione dei migranti onde evitare o mitigare atteggiamenti di xenofobia
o addirittura di razzismo.
Tutto questo andrebbe fatto specialmente nelle aree di disagio sociale, i cui problemi vanno
affrontati insieme con quelli dei migranti, che sono per definizione soggetti “vulnerabili” per la UE.
E va aggiunto che, come di recente affermato anche dall’Agenzia dell’ONU, la crisi umanitaria che
coinvolge tutti gli Stati del mondo non è solo questione di condivisione di valori e visioni, ma è
anche una questione di sicurezza su scala globale perché migrazioni e sicurezza vanno di pari passo.
Certamente questo non significa che vi sia un collegamento diretto tra migranti e terroristi
organizzati o meno, ma significa tenere presente che coloro che vengono reclutati dall’ISIS in Paesi
asiatici o africani spesso aderiscono al reclutamento perché hanno fame, tanto che in Libia, al
momento, pare non ci siano reclute perché il Governo dà un sussidio mensile anche ai bisognosi.
D’altra parte, rimandare indietro migranti c.d. economici che vengono, ad esempio, da Paesi africani
molto popolosi come la Nigeria può favorire, nel tempo, il nascere di guerre civili e quindi, a quel
punto, l’aumento del numero dei migranti forzati e mettere in pericolo la sicurezza di quello Stato.
Allora, se la recente proposta di alcuni Governi degli Stati membri di prevedere deroghe al principio
di libera circolazione del Codice Schengen è finalizzata ad un maggiore controllo dei confini
nazionali per evitare attentati terroristici come quelli verificatisi a Parigi e Bruxelles, forse seguendo
la strada tracciata dall’ONU potrebbe essere utile, allo stesso fine, ripensare al Sistema comune di
asilo ed anche dettare principi comuni per vari sistemi di integrazione nazionali, attualmente
piuttosto insoddisfacenti (tutti), perché comunque influenzati dal desiderio sempre più diffuso di
“rimandare a casa gli intrusi”.
Ebbene, anche da questo punto di vista, sarebbe bene considerare che avere al proprio interno
persone emarginate, maltrattate se non addirittura ridotte in schiavitù oltre ad essere contrario a
tutti i principi fondamentali che ci siamo dati vuol dire coltivare aree di disperazione che, al di là
delle apparenze, possono anche essere pericolose per la sicurezza.
Perché come risulta dalle statistiche più accreditate, se l’Europa fosse ‒ e apparisse ‒ più solidale
forse sarebbe anche più sicura.
Certo per mostrarsi solidale la UE dovrebbe essere realmente solidale al suo interno, specialmente
in materia di immigrazione.
Questo è il messaggio forte della sentenza in commento: speriamo che sia seguito da
comportamenti virtuosi!
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SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
A cura di Leonardo Carbone
TECNOLOGIA E DIRITTO. FONDAMENTI D’INFORMATICA PER IL GIURISTA.
Giovanni Ziccardi-Pierluigi Perri (a cura di), Giuffrè editore, 2017.
E’ una approfondita TAC sull’informatica giuridica, analizzata sotto ogni aspetto. E’ il lavoro curato
per la Giuffrè editore da Ziccardi-Perri, con la collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi
(Boccaccini, Cristiano, Pallone, Pedrazzini, Vertua, Bianchi, Sorrentino, De Maio, Agostini, Dal
Checco,Sagliocca, Farina, Ruggieri, Pacelli, Perrone, Bergonzi, Pozzato,Alagna,
Reale,Salmeri,Felcher, Gallus, Gargano, Deplano, Familiari, Massaro, Fedorova, Icardi, Micozzi,
Zanaboni, Martinelli, Salluce, Marrazza).
Il volume contiene tutto quello che c’è da sapere in tema di informatica giuridica, e, certamente
contribuirà a fare superare al giurista in genere la “diffidenza” verso l’informatica giuridica. Infatti,
non si può ignorare che gli strumenti informatici e telematici fino alla fine del secolo scorso – ma
anche nei primi anni del nuovo secolo - rappresentavano per il giurista uno strumento anzi un
oggetto volto a sostituire la macchina da scrivere o le comunicazioni mediante posta ordinaria. In
pochi anni, come si legge nella quarta di copertina, gli strumenti informatici sono diventati soggetto
della professione giuridiche ponendo sempre più interrogativi e problemi che il futuro operatore
deve conoscere e risolvere. Il volume recensito, tiene conto di queste due differenti anime delle
abilità informatiche: quella più documentale e di supporto nell’attività quotidiana, ma anche quella
più strettamente giuridica con i temi ed i problemi oggi in discussione nelle corti di giustizia
nazionali ed internazionali.
Certamente, per gli autori del volume, considerata la velocità con la quale muta il panorama
tecnologico,vi è il rischio che le nozioni illustrate diventino obsolete subito dopo la pubblicazione
del volume. Ma il compito dell’informatica giuridica è sempre stato quello di garantire, accanto a
sofisticate elaborazioni teoriche, un approccio pratico che consenta al giurista di trarre un’utilità
immediata dall’impiego dei nuovi strumenti tecnologici.
L’analfabetismo digitale è ancora molto diffuso, nonostante nelle varie facoltà di giurisprudenza (e
non solo) sono ormai “fisse” le cattedre di informatica giuridica; per il consolidamento di una
cultura informatica/giuridica è però, sempre più necessario spiegare, ribadire, schematizzare e
sintetizzare i numerosi benefici che la tecnologia porta all’uso personale e professionale quotidiano,
tenendo, però, presente che nozioni troppo dettagliate, o strettamente legate “al presente”, si
rivelino rapidamente inattuali.
Il lavoro che gli autori (e sono tanti e tutti “esperti” della materia) del volume recensito hanno
cercato di fare, come si legge nella prefazione del volume, è duplice:
da un lato di creare dei fondamenti solidi, per il giurista che non conosce la tecnologia, o che crede
di conoscerla ma, in realtà, non la domina. Dall’altro, il disegnare, tra le righe, dei percorsi di
approfondimento che permettano al lettore interessato di aumentare le sue competenze seguendo i
suggerimenti bibliografici e i numerosi spunti di ricerca.
Gli argomenti trattati nel volume sono tutti prettamente “informatici”, ma gli autori si sono spinti
anche ai diritti dell’informatica, individuando le basi di alcuni fenomeni e istituti che iniziano a
125
essere molto comuni nella vita professionale. Sono stati infatti trattati i temi della sicurezza
personale e professionale – visti i numerosi incidenti informatici che hanno coinvolto tanti studi
legali - e delle deontologia ed il comportamento responsabile da tenere in rete.
Ogni argomento trattato è accompagnato da una bibliografia essenziale.
E’ un volume che tutti gli operatori del diritto – avvocati, magistrati, operatori della giustizia in
generale, studenti e cultori della materia – non possono ignorare.
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CASI E QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE.
Roberto Cosio - Piero Martello (a cura di), editore Guerini Next, 2017
Il volume recensito, con la prefazione di Francesco Paolo Luiso, contiene le relazioni del corso “Il
processo del lavoro, tra stabilità e flessibilità” svoltosi a Catania e coordinato da Roberto Cosio e
Piero Martello.
Il libro è “scomponibile” in quattro parti.
Nella prima parte, curata da Guido Vidiri, è affrontata la questione della indispensabilità delle prove
nel rito del lavoro, ed in particolare dei “nuovi mezzi di prova” e produzione di “nuovi documenti”
in sede di gravame, dopo il revirement della giurisprudenza di legittimità. Attenzione particolare è
dedicata alla difficile individuazione del significato di “indispensabilità” dei nova in appello e del
potere del giudice nell’ammissione in appello del prove “indispensabili”.
Sempre nella prima parte del volume, ed a cura di Francesco Paolo Luiso, sono state affrontati gli
argomenti concernenti la “de-giurisdizionalizzazione” e la moltiplicazione dei riti. Quanto alla “de-
giurisdizionalizzazione”, per l’autore non costituisce una diminutio di quanto prevede l’art.24 Cost.,
ma solo l’esatto inquadramento di ciò che è giurisdizionale per necessità oppure per opportunità.
Quanto alla moltiplicazione dei riti, per l’autore la diversità del rito può trovare la sua giustificazione
in una diversità del diritto sostanziale oppure costituisce un dannoso ed inutile tentativo di porre
rimedio all’inefficienza della struttura giurisdizionale.
La parte seconda è “occupata” dal procedimento di primo grado secondo il rito del lavoro (curata
da Paolo Sordi) e dalle controversie in materia di lavoro e previdenziali (a cura di Carla Musella).
Sulla prima tematica l’autore esamina la problematica del trasferimento alla sede arbitrale di
procedimenti pendenti dinanzi l’autorità giudiziaria, della negoziazione assistita, della nuova
disciplina della compensazione delle spese processuali e degli interessi legali successivi alla
proposizione della domanda. Sulla seconda tematica l’autore affronta le controversie previdenziali
con la novità costituita dall’accertamento tecnico preventivo.
La parte terza “contiene” tematiche di attualità: il filtro nell’appello del lavoro (a cura di Giovanni
Raiti), il divieto di discriminazione e tutele giudiziali (a cura di Elisabetta Tarquini), il ricorso per
cassazione dopo la riforma del 2016 (a cura di Pietro Curzio).
Quanto al filtro nell’appello viene esaminata in particolare l’impugnabilità dell’ordinanza-filtro e gli
interventi della cassazione. In ordine al tema del procedimento discriminatorio si evidenzia come sia
uno strumento che è poco utilizzato, e la prova è costituita dalla pochissima giurisprudenza
esistente. In ordine al ricorso per cassazione l’autore fa un “viaggio” all’interno della Cassazione,
passando dal filtro della sesta sezione, alla scelta fra trattazione in sesta o dinanzi alle sezioni
semplici ordinarie, alla procedura camerale….alla udienza pubblica, senza dimenticare i riti camerali
speciali.
Nella parte quarta del libro vengono affrontati il tema dell’autosufficienza del ricorso per
cassazione,curato da Fabrizio Amendola (in particolare l’autore tratta della portata dell’art.366,
comma 1, cpc, delle applicazioni del principio di autosufficienza e del protocolla del 17.12.2015), e
della rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (a cura di Roberto Cosio), che rappresenta uno
strumento di straordinario dialogo tra le Corti nazionali e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
tant’è che nella prefazione F.P.Luiso, afferma che “L’importanza del diritto sovranazionale è
sempre maggiore, e chiudersi nei confini dello Stato è miope e perdente”.
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Quando cervelli pensanti ed intelligenti fanno lega, è inevitabile che il prodotto sia di qualità, virtù
che non difetta nel volume recensito. E’ un volume che tutti gli operatori del diritto – avvocati,
magistrati, operatori della giustizia in generale, studenti e cultori della materia – non possono
ignorare: costituisce uno strumento importante per gli operatori del diritto che affrontano le
tematiche del mondo del lavoro, in quanto gli argomenti trattati riguardano alcune delle questioni
più attuali e dibattute in materia di processo civile in genere e di processo del lavoro in particolare.
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INTERPRETAZIONE CONFORME, BILANCIAMENTO DEI DIRITTI E
CLAUSOLE GENERALI.
Giuseppe Bronzini-Roberto Cosio (a cura di), Giuffrè editore, 2017
Il libro recensito – a più ed autorevoli voci - è testualmente dedicato all’ordinamento complesso ed
ad alcune delle ragioni che alimentano tale complessità, ed in memoria di Fabrizio Miani Canevari,
che purtroppo ci ha lasciati prima di vedere stampato il volume ed il suo pregevole contributo.
Tutti i contributi, nessuno escluso, vanno segnalati per la limpidezza di argomentazione, nonché per
la scelta sapiente dei vari aspetti di complessità dell’intero sistema, di norme interne ed esterne
coordinate fino ai limiti dell’integrazione.
Come si legge nella prefazione, curata da Giuseppe Tesauro, “l’interpretazione conforme, il
bilanciamento e le clausole generali, è di indubbio stimolo, quale ne fosse l’intenzione, ad una
riflessione sul metodo e le implicazioni del ruolo della giurisprudenza o piuttosto del modo di
essere e di giudicare del giudice”. E gli argomenti trattati danno conto di quanto appena detto.
Le tematiche affrontate nel volume sono suddivise in quattro parti:
- nella prima e seconda parte le problematiche della certezza del diritto e dell’interpretazione
conforme;
- nella terza parte la tematica del bilanciamento dei diritti.
- nella parte quarta le clausole generali.
Infatti, nella prima e seconda parte, si “discute delle problematiche della certezza del diritto e
dell’interpretazione conforme. Il contributo di Guido Vidiri affronta la problematica della certezza
del diritto tra “positivismo giuridico” e “giusnaturalismo”, della crisi del processo e “terzietà” ed
“imparzialità” del giudice. Roberto Cosio tratta le tematiche dell’interpretazione conforme al diritto
dell’Unione Europea, in particolare del vincolo del precedente nell’ordinamento nazionale e con
riferimento alla CEDU, e nell’ordinamento dell’Unione Europea, e, per finire, alla creatività della
giurisprudenza della Corte di Giustizia. Viene affrontato (Piccone) la tematica della parità di
trattamento e principio di non discriminazione, e soprattutto del ruolo dell’interpretazione
conforme, esaminando anche fattispecie attuali, quale il tema del lavoro intermittente e a contratto
di lavoro a tutele crescenti secondo il jobs act e la “compatibilità europea”. Il successivo contributo
di Ruggeri illustra dettagliatamente la tematica dell’interpretazione conforme a CEDU, i lineamenti
del modello costituzionale, i suoi più rilevanti scostamenti registratisi nell’esperienza, gli auspicabili
rimedi.
Nella parte terza si affronta la tematica del bilanciamento dei diritti. Si “parte” (Bronzini) dai dubbi
su come bilanciare la sovranità popolare, delle radici dell’espansione del potere dei giudici ed i
giudizi di ponderazione e dei rischi di un bilanciamento “sbilanciato”. Si prosegue (Ferrajoli) con
l’argomentazione interpretativa e argomentazione equitativa contro il creazionismo
giurisprudenziale,con la crisi della legalità e l’espansione odierna degli spazi di discrezionalità, di
argomentazione e di potere della giurisdizione; in particolare l’autore evidenzia la distinzione tra
argomentazione in senso proprio e creazione del diritto. E come si legge nella prefazione “il vero
tema centrale della ricerca complessiva che è alla base ed a fondamento dell’intero volume, quasi a
far emergere ciò che spesso anche il cittadino comune riesce ad individuare nell’attuale contingenza
del sistema giustizia come variabile danno, fuorviante ed in parte, ma solo in parte, anche ingiusta”.
Prosegue la parte terza con Lucia Tria, che affronta il bilanciamento nella giurisprudenza della Corte
costituzionale,evidenziando il ruolo “pervasivo” del criterio della ragionevolezza/proporzionalità
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nel giudizio di costituzionalità delle leggi della nostra Corte costituzionale e delle differenze rispetto
alle Corti europee centrali. Si sofferma anche sullo stretto collegamento tra tecnica argomentativa
del bilanciamento e motivazione della decisione, evidenziando la differenza fra la motivazione
sintetica e la motivazione breve. Il contributo di Roberto Conti, invece, tratta del bilanciamento
come nuova frontiera dell’attività giudiziaria: bilanciamento spetta al giudice comune?
Bilanciamento e margine nazionale di apprezzamento. Il margine di apprezzamento degli Stati
aderenti alla CEDU è curata da Francesco Buffa, mentre il margine di apprezzamento nella CEDU
(inquadramento ed analisi comparativa) è curata da Pierpaolo Gori, che tratta in particolare il nesso
tra margine di apprezzamento e diritto comparato nella dottrina del “margine di apprezzamento”.
Chiude la parte terza il contributo di Giuseppe Allegri, concernente il bilanciamento tra autonomia
e solidarietà per un nuovo modello socie europeo.
La parte quarta tratta delle clausole generali. Inizia la trattazione il contributo di Fabrizio Miani
Canevari sulla interpretazione delle clausole generali. Come si legge nella prefazione “E’ una ricerca
puntigliosa e rigorosa per trovare una sistemazione alle clausole generali o alle norme vaghe
comunque denominate. Sono ora norme di chiusura dell’ordinamento, ora norme semplicemente
costruite da dottrina e/o giurisprudenza per rimediare a qualche vera o presunta lacuna o
semplicemente per estendere o comunque condizionare l’interpretazione. Prosegue sull’argomento
Giovanni Mammone con le tematiche delle clausole generali e il controllo giudiziale dei poteri
datoriali, evidenziando i limiti al controllo giudiziale sui poteri datoriali. Chiude la parte quarta il
contributo di Filippo Curcuruto sulla tematica delle clausole generali davanti al giudice di legittimità.
Nonostante la complessità della materia trattata ed i numerosi contributi, coordinati dal duo
Bronzini-Cosio, nel complesso il libro recensito, che è un “bel volume”, si lascia leggere
agevolmente e provoca senz’altro stimoli intellettuali di sicuro interesse per “chi ama osservare il
modo di essere e di produrre giustizia dell’attuale sistema”.