ANNO 1 NUMERO 1 - 2017 - Lavoro Diritti Europa · rendere più semplice la vita delle imprese...

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ANNO 1 NUMERO 1 - 2017 DIREZIONE PIERO MARTELLO E ROBERTO COSIO EDIZIONI ISSN 2611 - 3783

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ANNO 1

NUMERO 1 - 2017

DIREZIONE PIERO MARTELLO E ROBERTO COSIO

EDIZIONI

ISSN 2611 - 3783

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INDICE

EDITORIALE di Piero MARTELLO pag.3

PRESENTAZIONE di Roberto COSIO pag.4

UNO SGUARDO DALLE ISTITUZIONI L'azione legislativa del Ministero: un bilancio ed una prospettiva di Giuliano POLETTI

pag.5

FOCUS: I DANNI PUNITIVI

Lo stato dell’arte dei danni punitivi nella prospettiva giuslavoristica di Daniela DI

LEMMA pag. 8

Le Sezioni unite ed i punitive damages: una significativa circolazione di un modello? di

Cesare VACCA' pag.14

I punitive damages nordamericani: Bundesgerichtshof, Cour de cassation e Sezioni Unite

della Cassazione a confronto di Mauro TESCARO pag.25

APPROFONDIMENTI

Appunti sulla inarrestabile metamorfosi della responsabilità solidale negli appalti di Chiara

COLOSIMO pag.31

Le novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico impiego dalla riforma Madia

di Vito TENORE pag.43

Il licenziamento per motivi economici nel “nuovo corso” del diritto del lavoro di Guido

VIDIRI pag.61

I licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito: nozioni e

sovrapposizioni di Francesca MARINELLI pag.68

La costruzione dei fatti e i giudici del lavoro di Simone Pietro EMILIANI pag.75

NOTE A SENTENZA

La sentenza della Cassazione n. 25201/2016 sul GMO. Bilanciamento dei diritti e clausole

generali di Roberto COSIO pag.79

Prime considerazioni sulla questione di costituzionalità del Jobs act sollevata dal Tribunale

di Roma con ordinanza del 26.7.2017 di Carla MUSELLA pag.88

Principio di non discriminazione e lavoro intermittente: la vicenda Abercrombie & Fitch di

Valeria PICCONE pag.100

Una brezza di solidarietà soffia sull’Unione europea di Lucia TRIA pag.108

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE di Leonardo CARBONE

Tecnologia e diritto: fondamenti d'informatica per il Giurista (G. Ziccardi, P. Perri)

pag.124

Casi e Questioni di Diritto Processuale (P. Martello, R. Cosio) pag.126

Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali (G. Bronzini, R.

Cosio) pag.128

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EDITORIALE

di Piero Martello

Presidente del Tribunale del Lavoro di Milano

Da qualche tempo si è diffuso il vezzo di parlar male dell'Europa e di attribuire alle Istituzioni europee l'origine di tante difficoltà che si incontrano sul piano economico, finanziario, sociale.

Si tratta di pregiudizi e di stereotipi il più delle volte infondati, che servono a distogliere l'attenzione dalle vere cause dei problemi, talvolta reali, che affliggono il nostro panorama nazionale.

Sicuramente infondato, comunque, è tale vezzo per quanto riguarda la legislazione europea e la giurisprudenza delle Alte Corti sovranazionali in materia di diritto del lavoro, nella quale l'influsso delle Istituzioni europee e la sempre più incisiva operatività nel diritto interno delle loro statuizioni hanno avuto sicuramente effetti benefici nel fissare principi generali di grande rilevanza e nello stimolare l'azione degli Stati membri in senso più avanzato e più adeguato alla domanda di diritti e di giustizia che proviene dalla Società.

I giuslavoristi hanno, quindi, plurimi motivi di fiducia e di apprezzamento per l'Europa.

È questa la prima ragione per la quale si è ritenuto di dar vita alla Rivista "Lavoro Diritti Europa", con l'intento di dedicare una attenzione privilegiata al contesto europeo -legislativo e giurisprudenziale- e alle sollecitazioni che da esso provengono per l'attività dei giuslavoristi.

La seconda ragione, complementare alla prima, è quella di creare uno strumento di riflessione e di approfondimento che vuole andare al di là del consueto circuito di magistrati, avvocati, accademici e che si rivolge alla più vasta platea di quanti per le più diverse ragioni (di studio, di ricerca, di attività professionale, di soggettività sociale, istituzionali) sono interessati alla problematica giuslavoristica.

Al fine di facilitare l'accesso alla più ampia platea di destinatari la Rivista viene concepita come strumento agile, in formato elettronico e ad accesso libero e gratuito, in modo da rimuovere qualunque ostacolo, anche minimo, per chi abbia interesse a leggere i saggi, le note a sentenza e gli altri contenuti che essa porterà.

La Rivista si avvale di una compagine redazionale particolarmente qualificata e rappresentativa dei diversi ambiti giurisdizionali, scientifici, professionali, il cui apporto servirà ad individuare temi e argomenti che siano al tempo stesso di attualità e di interesse nel panorama giuslavoristico.

Per queste ragioni, vi è l'ambizione di creare non tanto una nuova Rivista ma, piuttosto, una Rivista "Nuova".

Diranno i lettori se i risultati di questo impegno saranno conformi alle aspirazioni.

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PRESENTAZIONE

di Roberto Cosio

Avvocato

La Rivista online “Lavoro, Diritti, Europa” è un periodico trimestrale con accesso libero e

gratuito che utilizza il web come strumento di circolazione di un prodotto culturale

immediatamente fruibile per i lettori.

Il progetto culturale intende sviluppare precedenti filoni di ricerca, in tema di diritto del lavoro, che

sono confluiti in varie monografie (fra cui: Il diritto del lavoro nell’Unione Europea; Il Diritto Europeo nel

dialogo delle Corti; Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell’Unione europea. Volumi editi

nella collana diretta da Guido Alpa, Giuffrè editore), anche di carattere comparato

(CollectiveDismissal in the European Union. A Comparative Analysis; Wolterskluwer).

La nascita della Rivista rappresenta, dunque, un ulteriore step per la realizzazione di un itinerario

culturale che promuova la conoscenza del diritto del lavoro in una visione integrata con

l’ordinamento dell’Unione Europea.

In particolare, la Rivista intende promuovere, in un dialogo fecondo tra dottrina e giurisprudenza, la

conoscenza delle principali sentenze rese, in materia di diritto del lavoro, dalle Alte Corti (Corte di

giustizia, Corte di Strasburgo, Corte costituzionale e Corte di Cassazione) e dai giudici di merito

(con particolare riferimento ai rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia, alle interpretazioni conformi

all’ordinamento Ue e alle “non applicazioni” di diritto interno in contrasto con la disciplina

europea).

Il primo numero raccoglie saggi, focus e note a sentenza con riferimento alle principali sentenze

rese nel 2017.

I contributi sono stati oggetto di valutazione positiva ad esito di una procedura di peerreview che ha

implicato un referaggio in forma anonima.

La Rivista beneficia dell’apporto di un Comitato Scientifico, di un Comitato di Redazione e di

un Comitato di referees di alta specializzazione e gode, tra l’altro, della collaborazione scientifica del

Centro Studi di Diritto del lavoro Domenico Napoletano.

A tutti va il profondo ringraziamento della Direzione della Rivista per la fiducia, il supporto e

l’elevato contributo offerto alla qualità scientifica del prodotto.

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UNO SGUARDO DALLE ISTITUZIONI

L'azione legislativa del Ministero: un bilancio e una prospettiva

di Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali

Gli interventi legislativi sul lavoro promossi dai Governi Renzi e Gentiloni hanno prodotto

cambiamenti strutturali nella regolazione della materia.

Il primo provvedimento, il decreto legge 34/2014 (convertito nella legge 78/2014), ha semplificato

il contratto di apprendistato ed il contratto a tempo determinato, stabilendo, per quest’ultimo,

l’eliminazione della causale, un limite massimo complessivo di durata del rapporto di lavoro, un

numero massimo di proroghe possibili e la percentuale massima di lavoratori a tempo determinato

rispetto all’organico aziendale.

Con lo stesso decreto, abbiamo realizzato un intervento importante di semplificazione

amministrativa, introducendo la procedura per il rilascio on-linedel Durc: un contributo di rilievo per

rendere più semplice la vita delle imprese italiane, facendo loro risparmiare tempo e denaro.

Questo primo intervento è stato seguito dal Jobs Act che, vale la pena ricordarlo, è stato attuato in

tempi rapidi, se si pensa che la legge delega fu approvata dal Parlamento a dicembre 2014 ed il

pacchetto degli otto decreti legislativi di attuazione fu portato a compimento entro settembre 2015.

Con il Jobs Act abbiamo riordinato e semplificato l’impianto complessivo delle relazioni contrattuali

con l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, più moderno e in linea

con l’Europa, e l’eliminazione di forme particolarmente precarizzanti come le collaborazioni a

progetto e l’associazione in partecipazione, procedendo, al contempo, ad una importante

ridefinizione delle caratteristiche del lavoro subordinato e del lavoro autonomo.

Abbiamo semplificato le procedure e gli adempimenti connessi alla costituzione e alla gestione dei

rapporti di lavoro; esteso il diritto all’indennità di maternità a tutte le lavoratrici e rafforzato la

strumentazione per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; razionalizzato il sistema

dei controlli e delle ispezioni; resa impossibile l’odiosa pratica delle cosiddette ‘dimissioni in bianco’.

Abbiamo modificato gli ammortizzatori sociali, ampliando le coperture ed estendendole anche ai

lavoratori delle imprese di minori dimensioni e distinguendo con maggiore precisione le situazioni

di disoccupazione involontaria da quelle di effettiva continuità dei rapporti di lavoro. Infine,

abbiamo riformato il sistema delle politiche attive, con l’obiettivo di realizzare un modello di

sostegno e di accompagnamento dei lavoratori più efficace e coerente con il costante processo di

cambiamento legato alla digitalizzazione e all’automazione.

L’impegno riformatore in materia di lavoro si è poi completato con un intervento normativo

riguardante il lavoro autonomo non imprenditoriale e il lavoro agile, con la presentazione di uno

specifico disegno di legge che è stato definitivamente approvato a maggio di quest’anno. Il

provvedimento punta a sostenere e valorizzare il lavoro autonomo non imprenditoriale, attraverso

un sistema di tutele specifiche, e a migliorare la qualità della vita dei lavoratori dipendenti,

favorendo la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.

Per quanto riguarda, specificamente, il lavoro autonomo, le misure contenute nella legge prevedono

più tutele nelle transazioni commerciali e contro i ritardi nei pagamenti, la deducibilità delle spese

collegate all’attività professionale ed alla formazione, la possibilità di aggregarsi per accedere a bandi

di gara nazionali ed internazionali.

Di particolare significato il riconoscimento dell’indennità di maternità a prescindere dall’effettiva

astensione dal lavoro e l’aumento del congedo parentale da tre a sei mesi, fruibili entro i primi tre

anni di vita del bambino.

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Altra tutela di rilievo è quella introdotta dalla disposizione che rende strutturale la Dis.Coll,

l’indennità di disoccupazione per i collaboratori, tra l’altro ampliando la platea dei beneficiari, che

ora comprende anche gli assegnisti e i dottorandi di ricerca.

Per quanto riguarda il lavoro agile, le misure approvate definiscono strumenti innovativi per

favorire una modalità di organizzazione del lavoro che da una parte risponde all’evoluzione del

sistema produttivo e, dall’altra, permette una migliore conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi

di vita. Tutto questo, delineando un quadro di tutele dei lavoratori che vanno dal diritto ad un

trattamento economico non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei

lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda, alle garanzie

in tema di salute e sicurezza, all’assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie

professionali.

Quali gli effetti delle riforme attuate? È ancora troppo presto per valutare quelli legati alle nuove

disposizioni per il lavoro autonomo e agile.

Per quanto riguarda, invece, il Jobs Act e la riforma del contratto a tempo determinato, sul piano

specificamente giuridico, gli elementi di semplificazione e di chiarezza introdotti dalle novità

normative hanno prodotto, come effetto più evidente, quello di una rilevante riduzione del

contenzioso giudiziale in materia lavoristica.

I dati recentemente diffusi dal Ministero della Giustizia, riferiti al primo semestre 2017, attestano

che i procedimenti iscritti a ruolo presso i tribunali ordinari relativi ai rapporti di lavoro a tempo

determinato sono solo 490 (erano 2.867 nel 2014).

Analoga tendenza si registra nel contenzioso sui licenziamenti.

Sul piano economico-sociale, possiamo dire che il complesso degli interventi, insieme con la

decontribuzione mirata per le assunzioni a tempo indeterminato, ha prodotto un contesto che ha

favorito, in parallelo con la ripresa dell’economia, una crescita degli occupati: secondo i dati Istat, da

febbraio 2014 ad oggi, sono 986mila in più, 535mila dei quali stabili, mentre i disoccupati sono

380mila in meno e gli inattivi, cioè coloro che non cercano un’occupazione, sono calati di 886mila

unità.

Sono risultati che testimoniano, insieme con la riduzione del ricorso agli ammortizzatori sociali, una

dinamica positiva del mercato del lavoro, che recentemente ha visto tornare il numero complessivo

degli occupati ad un livello sostanzialmente analogo a quello precedente alla crisi, ma che non fanno

venire meno l’esigenza di proseguire l’impegno per rafforzare la crescita dell’occupazione, in

particolare di quella giovanile.

Va in questa direzione l’incentivo strutturale all’occupazione giovanile stabile, inserito nella legge di

bilancio 2018, attualmente all’esame del Parlamento, che prevede una decontribuzione triennale del

50%, fino ad un tetto di 3.000 Euro, per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani fino a 29

anni (fino a 35 per il solo 2018).

Si tratta di un incentivo strutturale (si applicherà a tutte le nuove assunzioni stabili di giovani da

quando la norma sarà in vigore) e “portabile” (un giovane che dovesse essere assunto da

un’impresa, e poi licenziato dopo un anno, si porterebbe in dote i due anni residui di incentivo in

caso di assunzione da parte di un’altra impresa).

La misura può essere applicata anche alle trasformazioni in contratto a tempo indeterminato di

rapporti di lavoro a termine ed alla stabilizzazione di contratti di apprendistato professionalizzante.

L’incentivo sale al 100% (sempre con tetto a 3.000 Euro) per le assunzioni con contratto a tutele

crescenti per i giovani che hanno svolto alternanza o contratti di apprendistato di primo o di terzo

livello. Vengono inoltre confermati gli sgravi al 100% (per il 2018) per l’assunzione di Neet iscritti a

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Garanzia Giovani e quelli di ‘Occupazione Sud’ per i giovani disoccupati e per i disoccupati da

almeno sei mesi di tutte le età.

Da queste misure ci aspettiamo un sensibile aumento delle assunzioni di giovani con contratto a

tempo indeterminato già nel triennio 2018-2020.

Nel disegno di legge di bilancio sono inoltre state inserite misure di sostegno al reddito in favore di

lavoratori coinvolti in processi riorganizzativi complessi o piani di risanamento complessi di crisi

delle imprese per le quali lavorano. In concreto, si prevedono fino a 12 mesi in più di CIGS per le

imprese in crisi con organico superiore a 100 unità lavorative, di rilevanza economica strategica

anche a livello regionale, per i casi in cui il programma di riorganizzazione aziendale preveda

investimenti complessi non attuabili nel tetto massimo di durata della CIGS (oggi 24 mesi) o piani

di recupero occupazionale, compresi gli interventi di ricollocazione degli esuberi.

L’eventuale allungamento della CIGS varrà per il 2018 ed il 2019 e sarà finanziato con 100 milioni

per ciascuno dei due anni (risorse a valere sul fondo occupazione e formazione). Una misura

analoga prevede la prosecuzione CIGS e mobilità in deroga anno 2018 nelle aree di crisi complessa,

intervento finanziato con fondi non spesi.

Ancora, si prevede la possibilità di utilizzare l’assegno di ricollocazione anche per i lavoratori in

cassa integrazione. Si tratta di un’opportunità lasciata alla libera scelta del lavoratore che, in caso di

nuova assunzione presso un’altra azienda, beneficerà della detassazione delle eventuali buonuscite

previste dall’azienda (fino a 9 mensilità) e di un “bonus” pari alla metà degli assegni di cassa

integrazione non incassati.

Per quanto riguarda le prospettive di medio periodo, concludo ricordando l’attivazione, presso il

nostro Ministero, con la partecipazione dei Ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Istruzione e

delle parti sociali, di un tavolo di confronto sulle tematiche del ‘lavoro che cambia’.

Le politiche del lavoro, negli anni futuri, dovranno sempre più fare i conti con i cambiamenti

profondi determinati dagli effetti della digitalizzazione, dell’automazione e della globalizzazione.

Dovremo essere capaci di fronteggiare i rischi che questi cambiamenti producono anche nel mondo

del lavoro e di comprenderne e sfruttarne, invece, le opportunità.

Come abbiamo sostenuto nelle conclusioni del G7 lavoro svoltosi a fine settembre a Torino

occorre un impegno comune per la promozione e l’implementazione di “politiche solide ed efficaci per

aumentare la qualità e la quantità del lavoro e per promuovere mercati del lavoro e società inclusive”. In questo

senso, particolarmente importante sarà l’investimento sociale per acquisire, adattare e sviluppare le

competenze richieste per i lavori del futuro lungo tutto l’arco delle loro vite lavorative.

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FOCUS: I DANNI PUNITIVI

Lo stato dell’arte dei danni punitivi nella prospettiva giuslavoristica

Di Daniela di Lemma

Cultore della materia di Diritto del Lavoro – Università Cattolica del Sacro Cuore

Sommario: 1. Introduzione - 2. I danni punitivi, in breve - 3. Funzione unicamente compensativa

vs. polifunzionalità della responsabilità civile nella giurisprudenza - 4. La sentenza n. 16601 del 5

luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione – 5. Argomenti che fondano la polifunzionalità

della responsabilità civile, in particolare: il diritto del lavoro - 6. La prospettiva giuslavoristica

europea conferma la polifunzionalità della responsabilità civile

Abstract: L’autore esamina la portata della sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite

della Cassazione nell’ordinamento interno evidenziandone l’invito in essa insito ad una necessaria

ulteriore riflessione sui danni punitivi. In particolare, dopo aver brevemente descritto l’istituto

anglosassone dei danni punitivi e dato atto della giurisprudenza interna di chiusura sino ad oggi

formatasi sul punto, l’autore rileva che il dischiudersi delle S.U. ai danni punitivi implica il

riconoscimento della polifunzionalità della responsabilità civile, così superando la funzione di sola

corrispettività compensativa di diritto comune. Successivamente, l’autore descrive gli argomenti che

fondano la decisione delle S.U. evidenziando che sono tratti essenzialmente dalla normativa

giuslavoristica e infine esamina l’evoluzione comunitaria, sempre in tema di diritto del lavoro, che

conferma l’impostazione seguita dalle S.U.

1.Introduzione

Se tracciamo una immaginaria linea che gradui la reazione sanzionatoria dell’ordinamento alla

responsabilità civile, all’estremità bassa troveremo il limite minimo presidiato sul versante

contrattuale dall’art. 1229 c.c. mentre all’estremità alta troveremo i c.d. danni punitivi (punitive o

exemplary damages). E non è dunque un caso che tradizionalmente siano proprio queste due

estremità ad essere oggetto delle più immediate alzate di scudi – in particolare sub specie dell’ordine

pubblico – allorquando in questi immaginari confini in alto e in basso venga ipotizzato l’innesto di

regole e istituti di matrice straniera: nell’un caso qualificando ab origine nullo il patto che esclude o

limita preventivamente la responsabilità del debitore per (addirittura) dolo o per colpa grave e

nell’altro caso rigettando l’ipotesi di una responsabilità tale da produrre un danno eccedente il

principio di diritto comune della pura corrispettività compensativa.

La sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione che si annota esplora il

predetto apice alto della responsabilità e rappresenta non già il riconoscimento generale dei danni

punitivi in Italia (ché neppure le S.U. avrebbero potuto farlo sic et simpliciter) bensì un importante

e fecondo invito ad una più matura riflessione sulle funzioni della responsabilità e della correlativa

sanzione nel nostro ordinamento, propedeutica ad un possibile futuro intervento legislativo.

La circostanza che i commentatori abbiano salutato la predetta sentenza n. 16601/2017 con toni

che spaziano dal “riconoscimento” dei danni punitivi al nihil sub sole novum testimonia la necessità

che il tema dei danni punitivi sia fatto oggetto nel prossimo futuro di un più approfondito dibattito

teso ad una eventuale inequivoca modifica legislativa.

2.I danni punitivi, in breve

I danni punitivi, istituto giuridico di origine anglosassone comunemente riconosciuto negli

ordinamenti di common law, costituiscono un risarcimento economico del danno ulteriore rispetto

alla somma necessaria al ristoro del danno subito (compensatory damage). Trattasi di fattispecie

speciale nel senso che anche i sistemi di common law li ammettono per lo più solo nel caso in cui si

accerti che il danneggiante abbia agito con dolo (malice, fraud) o colpa grave (gross neglicence),

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conferendo così alla propria azione un particolare disvalore (c.d. aggravating circumstances).

In sostanza, il danno punitivo, ove riconosciuto, rappresenta un quid pluris economico che si

somma alla sanzione edittale prevista in caso di responsabilità (contrattuale o aquiliana) a carico del

danneggiante. Pertanto, ammettendo i danni punitivi, i sistemi di common law hanno a monte

valutato che per una adeguata risposta dell’ordinamento all’illecito è necessario che alla funzione

risarcitoria tipica della sanzione civile si affianchino anche la funzione “dissuasiva verso altri

potenziali trasgressori, nonché la funzione “afflittiva” (di matrice penalistica) allo scopo di evitare

eventuali recidive del danneggiante, entrambe funzioni che naturalmente hanno altresì lo scopo di

ristorare ulteriormente il danneggiato.

In Italia, tradizionalmente, i danni puntivi sono associati specie al sistema Nord Americano e sono

visti con diffidenza, se non netto disfavore, a causa di taluni risarcimenti monstre che le cronache di

tanto in tanto riportano nonché in considerazione del fatto notorio che la loro quantificazione è

affidata alla discrezionalità della giuria popolare. Al fine di circoscrivere e in parte rettificare questa

comune preoccupazione circa la quantificazione del danno occorre però considerare i seguenti

elementi oggettivi: (i) i danni punitivi sono generalmente soggetti ex lege a predeterminazione

dell’ammontare massimo (cap) che varia a seconda dell’illecito, del danneggiato e financo,

significativamente, del danneggiante (si pensi ad esempio, in caso di discriminazione tra lavoratori,

ai cap variabili graduati in proporzione alle dimensioni del datore di lavoro) ; e (ii) i tribunali

statunitensi, specie a livello di Corte Suprema, tendono piuttosto pacificamente rivedere il quantum

del danno alla luce dei principi costituzionali, così da respingere risarcimenti a titolo di danni

punitivi che risultino all’evidenza eccessivi e dunque in violazione del presidio costituzionale del

Due Process .

In estrema sintesi, i danni punitivi sono strettamente correlati al riconoscimento di una

polifunzionalità della responsabilità civile, argomento sul quale si apre il dibattito quanto mai

attuale, sia in dottrina che in giurisprudenza.

3. Funzione unicamente compensativa vs. polifunzionalità della responsabilità civile nella

giurisprudenza

Prima del grand arrêt delle Sezioni Unite n. 16601/2017, la Corte di Cassazione si era sempre

espressa contro il riconoscimento di una possibile polifunzionalità della responsabilità civile,

riconoscendone invece solo la mono-funzione di corrispettività compensativa. In tal senso si era

nettamente pronunciata con sentenza n. 1183 del 2007 , che sosteneva l’estraneità dell’idea di

punizione e di sanzione al risarcimento del danno e l’irrilevanza della condotta del danneggiante: il

compito della responsabilità civile, dicono i giudici, è unicamente la reintegrazione della sfera

patrimoniale del soggetto danneggiato mediante la corresponsione di una somma di denaro al solo

fine di eliminare le conseguenze del danno arrecato. Coerentemente con tale visione monistica della

responsabilità civile, le successive sentenze della Cassazione n. 1781 del 2012 e n. 12717 del 2015

hanno apertis verbis ritenuto l’istituto dei danni puntivi incompatibile con l’ordinamento italiano.

Tale orientamento è stato fatto proprio dalla giurisprudenza di merito, si veda ad esempio la

sentenza della Corte di Appello di Roma n. 869 del 2014 nella quale - invero in modo molto

tranchant – si statuisce che va respinto ogni tentativo tendente ad introdurre nel nostro sistema i

c.d. danni punitivi o la figura del c.d. danno in re ipsa, in quanto la tutela dei diritti garantiti

dall’ordinamento giuridico non può mai comportare un arricchimento senza giusta causa .

Dunque, il riferito orientamento giurisprudenziale che muoveva da una funzione unicamente

compensativa della responsabilità civile riteneva in insanabile contrasto l’ordine pubblico interno e

l’istituto dei danni punitivi, con il risultato di negare la delibazione di una qualsivoglia sentenza

straniera di condanna al pagamento dei c.d. punitive damages, o, anche in mancanza di un

riferimento espresso all’istituto, al pagamento di una somma che superasse di gran lunga la somma

quantificabile a titolo di mero risarcimento del danno. Il che, a ben vedere, è un approccio assai

rigido poiché postula a monte che la funzione meramente compensativa della responsabilità civile

assurga a rango di valore costituzionale assoluto e inderogabile anche dal legislatore, il che però è e

resta – appunto – un postulato non essendo stati mai individuati elementi che lo comprovino. Ma

tant’è.

Invero, si sono registrate anche pronunzie di segno contrario le quali – pur rimanendo assai isolate

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– avevano aperto ad una polifunzionalità della responsabilità civile. Tra queste si segnala la sentenza

della Cassazione a Sezioni Unite n. 9100 del 2015 tramite la quale i giudici avevano evidenziato

come l’ulteriore funzione “sanzionatoria” del risarcimento del danno non fosse più da considerarsi

incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, a condizione che una qualche norma

di legge chiaramente la preveda, in difetto della quale il connotato sanzionatorio resterebbe

comunque escluso ex art. 25 Cost., comma 2, oltreché ex art. 7 della Convenzione Europea sulla

salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

4. La sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 delle Sezioni Unite della Cassazione

Tutto ciò fino al 5 luglio 2017 quando, con la sentenza n. 16601 in commento, le Sezioni Unite, a

seguito dell’ordinanza di rimessione n. 9978 del 2016 della prima sezione della Corte di Cassazione ,

hanno ammesso il riconoscimento di una sentenza statunitense contenente la condanna del

soggetto danneggiante al risarcimento di danni ultracompensatori, ammettendo dunque,

quantomeno a livello di principio, la compatibilità dei risarcimenti punitivi con il vigente

ordinamento italiano.

Considerando che la precedente giurisprudenza, richiamata supra, era viceversa stata granitica nel

giudicare l’istituto dei c.d. danni punitivi inesorabilmente incompatibile con il nostro ordinamento,

la sentenza che si annota ha uno spiccato carattere innovativo.

Per giungere a tale conclusione le Sezioni Unite sono partite dalla presa di consapevolezza della

profonda evoluzione della nozione di ordine pubblico che si è registrata nel nostro ordinamento:

non più autarchico baluardo dei principi sui quali si fonda la struttura etico-sociale della nostra

comunità nazionale, bensì l’insieme dei principi fondamentali dell’ordinamento interno che tenga

conto della non più procrastinabile armonizzazione con il diritto internazionale e - soprattutto - con

il diritto comunitario.

Su tale base le Sezioni Unite hanno sancito il superamento del dogma del carattere monofunzionale

della responsabilità civile, ammettendo accanto alla tradizionale finalità di corrispettività

compensativa, atta a restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione

ripristinandone lo status quo ante il danno, anche la funzione preventiva deterrente o dissuasiva

nonché la funzione sanzionatorio-punitiva. Il principio di diritto enunciato è, infatti, il seguente:

“Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la

sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione

di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente

incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

Al contempo, le Sezioni Unite avvertono però che non possono essere recepite dal sistema

giuridico italiano indiscriminatamente tutte le decisioni relative a danni punitivi, ciò poiché essendo

indefettibile il rispetto dei principi sanciti dagli artt. 23 e 25 Cost., il connotato sanzionatorio può

ammettersi solo qualora chiaramente previsto da una adeguata norma di legge dell'ordinamento

straniero. Il principio di diritto enunciato sul punto è altrettanto chiaro: “Il riconoscimento di una

sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla

condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la

tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere

riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità

con l'ordine pubblico”.

La sentenza che si annota oltre non poteva andare. Tuttavia, come detto, l’invito ad una ulteriore

riflessione su un tema così gravido di conseguenze nel tessuto sociale emerge chiaramente nelle

parole dei Supremi Giudici: “non è dunque puramente teorica la possibilità che viene schiusa con la

revisione giurisprudenziale che le Sezioni Unite stanno adottando” e necessita dunque di “ulteriori

approfondimenti, che la casistica potrà incaricarsi di vagliare”.

Nel formulare tale invito la Cassazione offre anche una serie di spunti di esegesi che corrispondono

ad altrettante normative speciali domestiche nelle quali è già possibile scorgere la polifunzionalità

della responsabilità civile. I predetti spunti sono tratti dai Supremi Giudici specie da due aree del

diritto interno corrispondenti (i) ai diritti di proprietà industriale e intellettuale e (ii) al diritto del

lavoro . Sulla prima area basterà ricordare l’art. 158 della L. 22 aprile 1941, n. 633 (LDA) e l’art. 125

del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 art. 125 (CPI), che riconoscono al danneggiato un risarcimento

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corrispondente ai profitti realizzati dall'autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e

deterrente, laddove l'agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita

dal danneggiato. O, ancora, basterà ricordare l’annosa questione del danno in re ipsa che, per

quanto dichiarata spesso formula stereotipata e insufficiente, spesso viene di fatto recepita dalle

decisioni in materia industrialistica . Sulla seconda area ci soffermeremo al paragrafo che segue.

Non prima di aver sottolineato come, ancora una volta, non è un caso che i Supremi Giudici

abbiano individuato la normativa più gravida di sviluppi (se non più avanzata) proprio nelle aree

nelle quali la tensione, anche ideale, tra le parti è più forte: (i) nell’un caso perché si contrappone al

creatore di un asset immateriale sfruttabile potenzialmente all’infinito un usurpatore generalmente

parassitario e (ii) nell’altro caso perché si fronteggiano i ben noti valori e interessi economico-sociali

propri di datore e lavoratore. Così facendo, neanche questo è un caso, i Supremi Giudici rimettono

quei necessari “ulteriori approfondimenti” a giudici di sezioni specializzate che, in quanto tali,

sviluppano una sensibilità che li rende naturalmente meglio attrezzati alla più matura esegesi sui

punitive damages proposta dalla sentenza in commento.

5. Argomenti che fondano la polifunzionalità della responsabilità civile, in particolare: il diritto del

lavoro

La natura polifunzionale della responsabilità civile è stata individuata in più normative di matrice

giuslavoristica, il che – invero – non stupisce atteso che l’invocata evoluzione esegetica sulla

funzione della responsabilità civile trova naturalmente il suo terreno d’elezione proprio lì dove i

valori in gioco sono tali da incidere sul tessuto sociale e prima ancora culturale dell’ordinamento

interno.

Tra le anzidette normative, che hanno come tratto distintivo comune la predeterminazione ex lege

di una determinata pena per il trasgressore, rileva anzitutto l’art. 18, comma 2, dello Statuto dei

Lavoratori, il quale nell’ambito della tutela reale prevede che il giudice con la sentenza con cui

dichiara la nullità del licenziamento (in tutti i casi di nullità previsti per legge) e ordina al datore di

lavoro la reintegrazione del lavoratore, condanna altresì a risarcire il danno subito dal lavoratore per

il licenziamento di cui risulti accertata la nullità, stabilendo un’indennità che abbia come base di

calcolo l’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino al giorno

dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale aliunde perceptum nel periodo di estromissione,

oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo. In ogni caso,

ex lege la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione

globale di fatto. Ebbene, se si considera il limite minimo delle cinque mensilità di retribuzione

dovute per il periodo di estromissione dal posto di lavoro, anche qualora il giudizio abbia una

durata inferiore alle cinque mensilità, non può non riconoscersi in esso oltre alla funzione

meramente reintegratoria dei perduti guadagni del lavoratore vittorioso, anche la funzione punitivo-

sanzionatoria di tale indennità, che finisce con il costituire una sorta di vera e propria penale.

Rileva poi l’art. 18, comma 14, dello Statuto dei Lavoratori, ove, sulla medesima scia del comma 2, a

fronte dell’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, è prevista una

sanzione aggiuntiva in capo al datore di lavoro inottemperante per la mancata reintegrazione, che

consiste nell’obbligo del datore di lavoro di versare, per ogni giorno di ritardo, una somma pari

all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore in favore del Fondo adeguamento pensioni:

anche in tal caso la predetta somma – imposta con frequenza addirittura giornaliera – ha per se una

funzione punitivo-sanzionatoria oltreché deterrente.

Ancora, l’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015 in materia di tutela del lavoratore assunto a

tempo determinato, nonché l’anteriore norma di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183 del

2010, sono indicativi di una funzione punitivo-sanzionatoria laddove prevedono, nei casi di

conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell’apposizione del termine, una

forfettizzazione del risarcimento.

Infine, è utile ricordare l’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 sulle controversie in materia di

discriminazione, che riconosce al giudice la facoltà di condannare il convenuto al risarcimento del

danno tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono

ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività

del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

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Tutti i predetti spunti esegetici sono proposti della sentenza n. 16601 del 2007 che si annota e

permettono di concludere nel senso che nella sfera giuslavoristica già esistono de facto oltre che la

funzione puramente compensativa del risarcimento anche le funzioni punitiva-sanzionatoria e

deterrente del risarcimento dovuto dal datore. Funzioni ulteriori che, si badi, pare urgente

riconoscere espressamente in un’area che recentemente ha visto una progressiva erosione delle

garanzie del lavoratore (basti pensare alle modifiche subite dall’art. 18 S.L.) in nome di un mercato

del lavoro che sovente appare sempre più piegato alle esigenze datoriali di flessibilità.

6. La prospettiva giuslavoristica europea conferma la polifunzionalità della responsabilità civile

La descritta riflessione della sentenza della Cassazione S.U. n. 16601 del 2007 si rivela ancora più

preziosa se si considera che essa è coerente con lo sviluppo della normativa e della giurisprudenza

dell’Unione Europea, specie in tema di repressione della ingiusta discriminazione tra lavoratori.

Al riguardo, giova ricordare anzitutto i principi che postulano un eguale trattamento in termini

generali e assoluti, quali l’articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea (TEU) , l’articolo 19 del

Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFEU) nonché l’articolo 21 della Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione Europea . Giova poi ricordare le norme che proibiscono nello specifico la

discriminazione, ossia: (i) in tema di genere, l’articolo 8 del TFEU e l’articolo 159 del TFEU nonché

la Direttiva 2006/54/CE ; (ii) in tema di razza, la Direttiva 2000/43/CE ; e (iii) in tema di religione,

convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, la Direttiva 2000/78/CE . Ebbene, dalla

lettura della predetta normativa emerge chiaramente il forte intento del legislatore europeo di

assicurare che alla responsabilità ascritta al datore danneggiante si ricolleghi una riparazione a favore

del lavoratore danneggiato di tipo “reale”, “effettivo”, ““proporzionato” e – last but not least –

“dissuasivo”. Dunque, viene espressamente riconosciuta anche una funzione dissuasiva, che è

comunque sempre interconnessa a quella punitiva. A testuale riprova, si veda la regola in tema di

“Risarcimento o riparazione” stabilita dall’articolo 18 della Direttiva 2006/54/CE: “Gli Stati

membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali le misure necessarie per garantire,

per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, un

indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi

e proporzionati al danno subito”. Tale regola è ripresa analogamente dall’articolo 25 della medesima

Direttiva 2006/54/CE, dall’articolo 15 della Direttiva 2000/43/CE nonché dall’articolo 17 della

Direttiva 2000/78/CE.

Altrettanto chiaramente si è espressa, ormai da tempo, anche la Corte di giustizia dell'Unione

europea (ECJ). Nel caso Von Colson risalente al 1984 la ECJ, occupandosi della sanzione da

applicare ad una discriminazione tra lavoratori basata sul genere, ha statuito al punto 23 che “la

sanzione stessa [deve essere] tale da garantire la tutela giurisdizionale effettiva ed efficace. Essa deve

inoltre avere per il datore un effetto dissuassivo reale. Ne consegue che, qualora lo stato membro

decida di reprimere la trasgressione del divieto di discriminazione mediante un indennizzo, questo

deve essere in ogni caso adeguato al danno subito”. La natura polifunzionale della responsabilità

che avevano già allora in mente i giudici di Lussemburgo è chiara: alla corrispettività compensativa

si aggiunge la funzione dissuasiva, come testimonia letteralmente anche l’inciso “Essa deve inoltre

avere (…)” (ancora più accentuato nella versione inglese della decisione ove si legge “Moreover it

must also have a real deterrent effect on the employer”). Successivamente, nel 1990, nel caso

Dekker la ECJ occupandosi della sanzione da applicare ad una discriminazione tra lavoratori basata

ancora sul genere ha richiamato espressamente il caso Von Colson statuendo nuovamente che la

sanzione “deve inoltre avere, nei confronti del datore di lavoro, un effettivo potere di dissuasione”

(punto 23). Pochi anni dopo la ECJ conferma ancora una volta la sua posizione nel caso Marshall

ove si legge che le sanzioni “devono garantire una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace ed

avere per il datore di lavoro un effetto dissuasivo reale” (punto 24). Questo indirizzo

giurisprudenziale è pienamente confermato negli anni successivi e in particolare nel caso

Draehmpaehl , relativo sempre ad una fattispecie di parità di trattamento fra i lavoratori di sesso

maschile e femminile, nel quale i giudici ancora una volta osservano che “la sanzione scelta dagli

Stati membri debba avere un effetto dissuasivo reale nei confronti del datore di lavoro e debba

essere adeguata ai danni subiti, al fine di garantire una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace”

(punto 39), formulazione ripresa in maniera pressoché pedissequa dalla ECJ anche nel successivo

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caso Paquay (specie punti 45 e 49).

Da ultimo, nel caso Camacho del 2015 i giudici di Lussemburgo ammettono espressamente i

punitive damages nell’ordinamento comunitario scrivendo che “l’articolo 25 della direttiva 2006/54

permette, ma non impone, agli Stati membri di adottare provvedimenti che prevedano il

versamento di danni punitivi alla vittima di una discriminazione fondata sul sesso” (punto 40).

Anche in questo caso, i giudici non potevano andare oltre poiché la domanda di pronuncia

pregiudiziale proveniva da un paese (la Spagna) nel quale i danni punitivi non sono ammessi e

dunque alla ECJ non rimane che rilevare che “in tali condizioni, in assenza di una disposizione

dell’ordinamento nazionale che permetta il versamento di danni punitivi ad una persona lesa da una

discriminazione fondata sul sesso, l’articolo 25 della direttiva 2006/54 non prevede che il giudice

nazionale possa esso stesso condannare l’autore della suddetta discriminazione a risarcire danni di

tale tipo” (punto 43).

In conclusione, il legislatore e il giudice comunitario hanno chiaramente individuato da tempo nella

polifunzionalità della responsabilità civile la strada da seguire per aspirare ad una sanzione efficace.

Tuttavia, spesso tale chiarezza si perde poi a livello dei singoli Stati Membri, Italia in primis , specie

a causa dell’assenza di una matura riflessione sulle funzioni della responsabilità e della correlativa

sanzione, ossia esattamente di quella riflessione alla quale, come si è detto in apertura, invita la

sentenza n. 16601/2017 qui in commento.

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Le Sezioni unite ed i punitive damages: una significativa

circolazione di un modello?

Di Cesare Vaccà

Professore di Diritto Privato – Università di Milano - Bicocca

Abstract

L’articolo considera dapprima alcuni noti casi che hanno indotto la Corte Suprema degli Stati Uniti

a porre degli argini alla concessione dei punitive damages nelle cause civili.

L’articolo percorre, poi, le decisioni che, nel nostro Paese in sede di delibazione di sentenze

statunitensi caratterizzate dalla concessione dei danni punitivi hanno dovuto affrontare il tema della

compatibilità con il nostro ordinamento di una condanna avente anche finalità sanzionatorie e

deterrenti.

E’ esaminata, infine, la sentenza n. 16601 resa a sezioni unite dalla Corte di cassazione il 5 luglio

2017, che appare senz’altro di spiccata rilevanza per molte ragioni: considerata l’evoluzione della

nozione di ordine pubblico essa nega, infatti, che possano ravvisarsi ragioni ostative alla

riconoscibilità di sentenze statunitensi che si pronuncino favorevolmente sui punitive damages;

esclude che debba continuarsi a considerare estranea al sistema della responsabilità civile la

funzione sanzionatoria, alla luce anche di non pochi elementi già presenti nel nostro ordinamento;

invita, infine, il legislatore a considerare senza pregiudizi la delicata questione.

Sommario

1.I tratti dei punitive damages

2. I punitive damages di fronte alla giustizia italiana

3. Le Sezioni Unite si pronunciano rendendo un principio di diritto nell’interesse della

legge

1. I tratti dei punitive damages

I punitive damages, o exemplary damages secondo la dizione britannica, hanno natura non

compensatory, e sono liquidati a favore del danneggiato in aggiunta ai compensatory damages:

mentre quest’ultima espressione corrisponde al risarcimento della tradizione di civil law, la prima

assolve ad una vera e propria funzione sanzionatoria nei confronti del soggetto che –essenzialmente

nell’ambito del tort, quindi della sfera extracontrattuale- si sia comportato in modo eticamente

riprovevole, scorretto, malvagio, violento o fraudolento.

I punitive damages, pertanto, non hanno lo scopo di risarcire il danneggiato, bensì di punire il

danneggiante: vengono infatti riconosciuti qualora quest’ultimo abbia agito in malafede, o per colpa

grave, oppure abbia creato un grave rischio per la salute, la sicurezza ed il benessere delle persone.

L’origine di questa figura è fatta risalire all’Inghilterra del XIV secolo, quale condanna di una

condotta disdicevole, sviluppatasi in un sistema ove la distinzione fra illecito civile ed illecito penale

è sempre stata più sfuocata rispetto alla nostra tradizione , rispetto alla quale viene talvolta

prospettata la assimilabilità alle cosiddette pene private delle quali beneficia il danneggiato .

I punitivi damages in Inghilterra sono andati assumendo una peculiare connotazione quale sanzione

specie per le violazioni commesse da organi pubblici e sono, comunque, oggetto di riflessione: la

Law Commission, autorità indipendente britannica presieduta da un giudice della High Court cui è

conferito il compito di mantenere efficace l’ordinamento proponendo agli organi legislativi sia

nuove leggi, sia l’abrogazione di quelle obsolete od inefficaci, da tempo con un ponderoso studio ha

indicato possibili alternative nell’eventualità del superamento dell’attuale sistema .

Negli Stati Uniti, invece, si è enfatizzata la loro funzione deterrente, volta ad indurre in modo

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esemplare non soltanto il responsabile, ma chicchessia, ad astenersi in futuro da porre in essere

comportamenti simili a quello sanzionato: tuttavia, proprio questa prospettiva ha portato ad

applicazioni estreme, in seguito alle quali gran parte delle legislazioni statali ha adottato limitazioni

più o meno rigorose.

Non è estranea alla impressionante lievitazione degli importi accordati a titolo di punitive damages

la circostanza che negli Stati Uniti i procedimenti per responsabilità civile si caratterizzano per

l’intervento in primo grado della giuria, cui sono demandate le questioni di fatto, mentre il giudice

decide quelle di diritto: anche in ciò, ai nostri occhi, è ravvisabile una non netta demarcazione fra la

sfera penale e quella civile, ed è un dato di fatto che le giurie siano assai generose nell’accordare

importi pressocché invariabilmente destinati ad essere ridimensionati dalle Corti chiamate a

pronunciarsi in sede di ricorso del soccombente.

Il caso che ha dato modo alla Corte Suprema di dettare i criteri per arginare la inquietante

lievitazione dei punitive damages ha riguardato un medico che nel 1990 acquistò a quarantamila

dollari presso un concessionario un’auto Bmw nuova ,, scoprendo in seguito che era stata

riverniciata in conseguenza dei danni riportati prima della vendita.

Nel corso del giudizio emerse che questo era il normale comportamento di Bmw ogniqualvolta i

danni riportati durante i trasporti non eccedessero il 3% del prezzo di listino.

In primo grado Bmw venne condannata dalla giuria al pagamento di quattromila dollari a titolo di

danni compensativi e quattro milioni di dollari a titolo di punitive damages, motivati in ragione della

“gross, oppressive and malicious fraud” (‘malice’ nella nostra cultura corrisponde sostanzialente al

dolo) ravvisabile nell’aver nascosto all’acquirente le riparazioni che avevano interessato un costoso

veicolo venduto come nuovo.

Alla astronomica cifra –ed alla esorbitante sproporzione fra le due facce della condanna – il

rapporto è di 1 a 500- la giuria pervenne facendo leva sul profilo sanzionatorio-deterrente,

calcolando il plausibile numero di casi in cui, per anni, Bmw of North America aveva operato in

questo modo: una sanzione, quindi, ex post per tutti i pregressi comportamenti fraudolenti o,

quantomeno, commercialmente scorretti .

Su ricorso della Bmw la Corte d’Appello dell’Alabama dimezzò l’importo dei punitive damages, ma

la pur sempre esorbitante somma di due milioni di dollari venne successivamente ritenuta ‘grossly

excessive’ dalla Corte Suprema federale, che ridusse l’importo a cinquantamila dollari formulando

tre regole da osservare nella liquidazione dei punitive damages: il non elevato grado di

reprovevolezza del comportamento di Bmw -fra l’altro non era ravvisabile alcun pericolo per la

salute o la sicurezza delle persone- la sproporzione fra le voci di danno liquidate, ed infine la

comparazione fra l’ammontare liquidato a titolo di punitive damages e le sanzioni penali ed

amministrative che avrebbero potuto applicarsi alla stessa Bmw in ragione dei suoi ‘fraudulent

purposes’ commerciali.

Un altro caso che, in tutto il mondo, ha acceso i riflettori sui punitive damages è quello egualmente

deciso dalla Corte Suprema : un fumatore di tre pacchetti di sigarette al giorno morì a 67 anni a

causa di un tumore ai polmoni e la vedova agì in giudizio nei confronti di Philip Morris, il

produttore delle sigarette fumate dal marito.

Come è noto, a fondamento delle numerose sentenze statunitensi in tema di ‘tobacco litigation’, vi è

l’imputazione di una condotta di mala fede ai produttori di sigarette, in quanto i rischi da fumo

erano a loro ben noti quantomeno dagli anni sessanta, ma sono stati maliziosamente occultati, e

sono state –anzi- realizzate campagne pubblicitarie volte ad associare l’idea del fumo a quella del

benessere fisico, facendo altresì tavolta ricorso a pseudo ricerche scientifiche volte a negare i rischi

del fumo.

Alla vedova vennero in primo grado riconosciuti 821 mila dollari a titolo di compensatory damages

e settantanove milioni e mezzo di dollari a titolo di punitive damages ; dopo alterne sentenze, anche

in sede di rinvio da parte della Corte Suprema federale ai giudici dell’Oregon, Philip Morris nel 2011

ha pagato la somma complessiva di 99 milioni di dollari, comprensiva degli interessi maturati.

Nello sterminato repertorio delle sentenze che hanno accordato punitive damages d’importo per

noi sbalorditivo, merita richiamare anche il ben noto caso della signora settantanovenne che nel

tentativo di aprire il coperchio della tazza di caffè acquistata da McDonald’s appoggiandola sulle

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ginocchia, riportò ustioni di terzo grado alle ginocchia stesse, che resero necessario un trapianto

cutaneo e trattamenti medici protrattisi per due anni.

Emerse poi, nel corso del giudizio, che nel decennio 1982-1992 si erano verificati almeno altri 700

analoghi casi di ustioni, pur se non tutti di eguale entità.

Rispetto all’iniziale liquidazione da parte della giuria di 200.000 dollari quale risarcimento, e due

milioni e settecentomila a titolo di punitive damages, la decisione definitiva ha ridotto a 480.000

dollari la seconda voce.

Non a caso ai punitive damages negli Usa si coniuga, con una efficace espressione, il ‘windfall

myth’, il mito di poter facilmente raccogliere la manna che piove dal cielo, miracolo cui certo non

sono estranei i legali ai quali il sistema di contingency fee o patto di quota lite che dir si voglia- fa

premio mediamente della metà di quanto riconosciuto al cliente: abbastanza inevitabile, quindi, che

molti Stati progressivamente reagissero dotandosi di strumenti legislativi, cosiddetti ‘split-recovery’,

a norma dei quali una percentuale di ogni importo liquidato a titolo di punitive damages compete

allo Stato stesso, che la destina ad iniziative di rilevanza etica e sociale, quali sono, ad esempio, i

fondi a favore delle vittime di reati; al contempo in gran parte degli Stati vi sono precisi limiti,

spesso in sede legislativa, altre volte giurisprudenziale, volti a contenere esorbitanti liquidazioni .

I tratti punitivi ed espiatori della condotta del danneggiante mantengono, comunque, inalterata la

loro funzione grazie alle legislazioni dei singoli Stati recanti divieti e limitazioni alla assicurabilità dei

punitive damages che, ove consentita, ridurrebbe con tutta evidenza, ad un simulacro la loro

indubbia funzione sanzionatoria e deterrente.

2. I punitivi damages di fronte alla giustizia italiana

Nelle nostre aule giudiziarie la voce dei danni punitivi (come, per consolidata traduzione, sono

definiti) risuona sempre più spesso, non soltanto in sede di delibazione di sentenze statunitensi ma

anche nell’applicazione di norme dell’ordinamento nazionale nelle quali si vuole vedere –più o

meno fondatamente- l’eco di questa discussa figura peculiare degli ordinamenti di common law.

Fra i casi più noti, innanzitutto la Corte d’appello di Napoli si è pronunciata in relazione alla

delibazione di una sentenza californiana recante la condanna per concorrenza sleale e

contraffazione di marchio: la particolarità risiede nella circostanza che l’illecito è stato commesso

tramite internet, mediante la creazione di un website contraddistinto dai segni distintivi altrui ove

erano commercializzati beni e servizi .

Un comportamento doloso le cui conseguenze, come ben sottolineato dalla Corte, si producono

globalmente, imponendo così l’adattamento delle tradizionali formule per la determinazione del

locus commissi delicti.

La sentenza napoletana è lineare nell’indicare le ragioni che precludono l’esecuzione in Italia delle

decisioni volte a liquidare i punitive damages: come è noto, dal 1995 al riconoscimento delle

sentenze straniere in Italia non osta più la contrarietà ‘all'ordine pubblico italiano’, bensì

semplicemente ’all'ordine pubblico’ nell’accezione internazionale , che è “costituito dai principi

fondamentali e caratterizzanti l'atteggiamento etico - giuridico dell'ordinamento in un determinato

periodo storico" , sì che "la nozione di ordine pubblico internazionale [...] non è enucleabile

esclusivamente sulla base dell'assetto ordinamentale interno [... ] dovendo, di contro ravvisarsi nei

principi fondamentali della nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in

essa collocazione, rispondono all'esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali

dell'uomo, o che informano l'intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno

stravolgimento dei valori fondanti dell'intero assetto ordinamentale" ).

Siamo, pertanto, di fronte alla circolazione transnazionale delle regole, fenomeno che vieppiù

caratterizza l’odierno diritto, ma ciò necessita, comunque, di parametri certi onde evitare di dilatare

la sfera della discrezionalità .

Opportunamente la Corte di appello di Napoli rileva come la sentenza statunitense non dia alcuna

prova del danno effettivo derivante dalla violazione dei marchi commerciali dell'attore protrattasi

per quattro o cinque mesi, ma nondimeno riconosca i punitive damages in relazione alla violazione

di un diritto tutelato dalla legge come deterrente nei confronti del futuro utilizzo dei marchi stessi

da parte del convenuto.

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Accordare una somma di denaro in assenza della prova di danni effettivi, a totale discrezionalità ed

in funzione deterrente ed afflittiva, si pone in contrasto con l'ordine pubblico per la estraneità sia

agli ordinamenti dell’Europa continentale, sia a quello italiano, fondato su una netta separazione tra

sanzioni civili e penali .

La Corte napoletana non può, quindi, che ritenere contrarie all'ordine pubblico le sentenze che si

prefiggono anche finalità deterrenti, sanzionatorie o punitive mediante somme determinate

discrezionalmente dal giudice, avulse da qualsiasi prova dell’esistenza del danno, ed in modo non

dissimile è indirizzata la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, sovente in ambito

giuslavoristico, orientata a rispettare la correlazione fra danno e risarcimento .

Su di un piano assai diverso si colloca l’azione intrapresa presso la Corte di appello di Torino da un

giovane (trentasettenne all’epoca del sinistro) reso totalmente disabile da una lesione permanente

provocatagli da un difettoso macchinario industriale prodotto in Italia: due identiche sentenze della

Corte Suprema di Cambridge (Massachussets) gli avevano riconosciuto il diritto di ottenere

indennizzi di notevole consistenza da due società appartenenti al medesimo gruppo italiano

produttore del manufatto .

Un infortunio sul lavoro, quindi, in relazione al quale la Corte torinese dichiarò il riconoscimento e

l’efficacia in Italia di una soltanto delle due sentenze , e questa decisione giunse successivamente al

giudizio della Corte di cassazione .

La particolarità del caso, dal punto di vista che qui si considera, risiede nella circostanza che le due

sentenze statunitensi, pur liquidando complessivamente circa 18 milioni di dollari, mai menzionano

i punitive damages: lecito pensare che dovendo il giudicato trovare riconoscimento ed esecuzione in

Italia la Corte del Massachussets abbia deliberatamente ritenuto opportuno non fare alcuna

menzione ai punitive damages, pur se la imbarazzante somma liquidata li evoca con immediatezza?

La Corte torinese (efficacia dell’escamotage della Corte del Massachussets ?) da un lato esclude che

possa affermarsi in via presuntiva la ricorrenza dei punitive damages, dall’altro ricorre ampiamente

alle presunzioni escludendo la configurabilità di interessi usurari, o ritenendo il danno ascrivibile a

profili diversi da quelli punitivi, quali il danno biologico o alla vita di relazione, nella perdita della

capacità lavorativa anche in rapporto alla giovane età del danneggiato, scordando che negli Stati

Uniti la condanna di tipo punitivo è comminata secondo criteri che prescindono dalle sofferenze

del danneggiato; infine, neppure valuta la circostanza che negli Usa il giudizio si era svolto in

contumacia, circostanza ivi ritenuta riprovevole e meritevole di sanzione punitiva, né si interroga

sulle ragioni che hanno portato ad una condanna di importo pari a volte volte il richiesto, segnando

così una plateale distanza dal sistema italiano di risarcimento del danno.

I cripto-danni punitivi accordati dalla Corte del Massachussets vengono, invece, riscontrati dal

Supremo Collegio che cassa con rinvio ad altra sezione torinese la decisione, ricordando che nella

nostra tradizione l’idea di sanzione è estranea al risarcimento del danno, avendo la responsabilità

civile il “compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione,

mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno

arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui

risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono

irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre

altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di

concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi

in re ipsa” ).

Quello che è comunemente considerato il leading case italiano in tema di danni punitivi, vale a dire

Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183 , trova ascendenza in una sentenza della Corte di

appello di Venezia che, facendo ricorso anche ad accurati riferimenti comparatistici, escluse che

negli ordinamenti dell’Europa continentale possano trovare riscontro i punitive damages.

Il tragico caso sottoposto ai nostri giudici ha riguardato la delibazione della sentenza di una Corte

dell’Alabama che condannò una società italiana a pagare un milione di dollari alla madre di un

ragazzo deceduto in un incidente motociclistico per aver perso il casco a causa di un difetto di

progettazione e costruzione della fibbia di chiusura, prodotta per l’appunto dalla società italiana.

Non è secondario sottolineare che è stata questa una delle molteplici azioni promosse dall’attrice,

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che già aveva ottenuto ragguardevoli somme dalla conducente dell'auto che provocò l’incidente,

dalla società produttrice del casco e da ulteriori soggetti convenuti in giudizio.

Il Supremo Collegio condivide il percorso seguito dalla Corte veneziana nel rilevare innanzitutto la

carenza di qualsiasi indicazione circa i criteri seguiti per la determinazione sia dell'importo del

risarcimento, sia della natura e della specie del danno arrecato, alla eliminazione delle cui

conseguenze è volta la condanna; in secondo luogo sottolinea come non ci si possa esimere da una

valutazione di eccessività della somma liquidata in relazione ai criteri generalmente seguiti dai

giudici italiani.

Nel rigettare tutti i motivi addotti dalla ricorrente, la Cassazione ha modo di affrontare la questione

prospettata dalla stessa secondo la quale il riconoscimento dei danni punitivi non sarebbe contrario

all'ordine pubblico, in quanto anche il nostro ordinamento disporrebbe di istituti “aventi natura e

finalità sanzionatoria e afflittiva, quali la clausola penale e il risarcimento del danno morale o non

patrimoniale”.

Ma la clausola penale, innanzitutto, è priva di finalità sanzionatorie o punitive, assolvendo la

funzione di rafforzare il vincolo contrattuale mediante la preventiva estimazione della prestazione

risarcitoria che, qualora secondo l'apprezzamento del giudice, dovesse eccedere i limiti

dell’equilibrio contrattuale, può dallo stesso essere equamente ridotta, in ciò differenziandosi

totalmente dai punitive damages che prescindono dal tipo di lesione del danneggiato e si

caratterizzano per la sproporzione fra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito, per

tacer poi del ruolo del giudice, che in un caso liquida, nell’altro riduce.

Bene avrebbe fatto, inoltre, la Corte a sottolineare che la somma indicata in contratto a titolo di

penale è preventivamente concordata fra le parti, anche in ciò distaccandosi totalmente dai punitive

damages, pur se l’esperienza anglosassone proprio in tema di penali contrattuali conosce una

autonoma figura, senz’altro affine ai punitive damages: alla nostra nozione di penale corrisponde,

infatti, la figura dei liquidated damages, cui può affiancarsi una penalty volta a sanzionare

l’inadempimento rafforzando così la funzione deterrente che della penale è propria, la cui

legittimità, tuttavia, è attualmente negata proprio in quegli stessi ordinamenti ove si è sviluppata,

mentre sembrerebbe godere di maggiore considerazione in Europa .

Non meno infondata è qualsiasi equiparazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai danni

punitivi: il primo corrisponde infatti ad una lesione subita dal danneggiato che, in ogni caso, deve

essere provata; l'accento cade, inoltre, nella sfera del danneggiato e non del danneggiante, in quanto

la finalità perseguita –pecunia doloris !- è quella di compensare –per quanto possibile- la lesione,

mentre nel caso dei punitive damages non rilevano in alcun modo la sfera del danneggiato, l’entità e

la tipologia del danno da questo subito, la corrispondenza fra l'ammontare del risarcimento e il

danno stesso.

La decisione della Corte, in totale armonia con quella, impugnata, della corte veneziana, ancora una

volta rimarca che nel vigente ordinamento punizione e sanzione sono estranee al risarcimento del

danno, in quanto alla responsabilità civile è assegnato il compito di reintegrare la sfera patrimoniale

del danneggiato mediante il pagamento di importi che tendano ad eliminare le conseguenze del

danno arrecato: ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il

cui risarcimento, proprio perchè non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, occorre la

prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito mediante concrete circostanze di fatto

da cui presumerla, escludendo che la prova possa considerarsi in re ipsa .

Ai rapporti fra i punitive damages ed il nostro ordinamento è impressa una svolta dall’ordinanza

della Corte di cassazione n. 9978 del 16 maggio 2016, est. La Morgese, secondo la quale “deve

essere rimessa al Primo Presidente, perché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la

questione relativa alla riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi.

L’attuale vigenza nell’ordinamento del principio di non delibabilità, per contrarietà all’ordine

pubblico, delle sentenze straniere che riconoscano danni punitivi desta infatti perplessità, alla luce

della progressiva evoluzione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione del

principio di ordine pubblico, originariamente inteso come espressione di un limite riferibile

esclusivamente all’ordinamento giuridico nazionale, ma che è andato successivamente ad

identificarsi con l'ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi

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fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su

esigenze di tutela, comuni ai diversi ordinamenti, dei diritti fondamentali dell’uomo e desumibili dai

sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”.

A monte di questa ordinanza, per lo più accolta quale epocale apertura nei confronti dei punitive

damages, vi è la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 3 gennaio 2014 in sede di delibazione

di tre sentenze statunitensi, ancora una volta concernenti un casco rivelatosi inidoneo all’uso con

conseguenti danni per un motociclista .

Gli esiti, però, in questo caso, furono meno drammatici: il motociclista ha subito danni alla persona

per un incidente avvenuto nel corso di una gara di motocross a causa dei vizi del casco prodotto in

Italia e distribuito da una società statunitense: nel giudizio promosso dal danneggiato, anche nei

confronti di un terzo soggetto, la società importatrice del casco, il distributore aveva accettato la

proposta transattiva del motociclista, forfettariamente riferita anche ai danni punitivi, ed il giudice

ha ritenuto sussistere un obbligo di manleva da parte del produttore italiano.

La Corte veneziana ha escluso la violazione del principio di ordine pubblico in quanto la condanna

del produttore del casco non trova titolo nel risarcimento del danno in favore del motociclista

danneggiato, bensì nell’obbligo di manleva del medesimo produttore nei confronti del distributore

statunitense.

Il produttore italiano aveva avuto, peraltro, la possibilità di costituirsi nell’interesse del distributore e

di difendersi nel giudizio contro il danneggiato, eventualmente contestando la propria

responsabilità, ma non lo ha fatto, e mai ha sollevato obiezioni alla proposta transattiva del

danneggiato stesso, che gli è stata comunicata ed è stata giudicata seria dal giudice americano tenuto

conto del rischio della soccombenza nel giudizio che avrebbe comportato per il distributore –ed

indirettamente per il produttore- un risarcimento ben maggiore del milione di dollari effettivamente

corrisposto al motociclista dal distributore medesimo.

Il produttore è quindi nella condizione di subire gli effetti della transazione stipulata negli Usa

avendone beneficiato, poiché ha successivamente concluso una propria transazione con il

motociclista per l’esiguo importo di 50.000 $, ammontare ritenuto accettabile da quest'ultimo in

ragione di quanto già ricevuto dal distributore.

In questo modo il produttore ha tacitato le richieste del danneggiato nei suoi confronti, evitando

l’accertamento della propria responsabilità nel merito; la sentenza americana si limita quindi a

riconoscere che il produttore è tenuto a rifondere al distributore l’importo della transazione

principale, senza specificare di quali voci di danno si tratti ed, ammesso anche che le parti nel

determinare il quantum dell’accordo transattivo abbiamo convenzionalmente considerato pure i

danni punitivi, ad essi non è fatta però alcuna esplicita menzione.

L’ordinanza di rimessione alle S.U. sviluppa approfondite riflessioni sui limiti alla riconoscibilità

delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei danni punitivi ed, al contempo, sulla

opportunità di considerare la circolazione dei modelli giuridici i cui tempi e modalità sono

accentuati dalla globalizzazione.

Se è vero, come ritenuto dalla già richiamata sentenza dello stesso Supremo Collegio relativa alla

difettosità del macchinario causa di un infortunio sul lavoro che a giustificare il diniego di

riconoscimento è sufficiente anche il solo dubbio dell’esistenza di una condanna ai punitive

damages, non essendo necessario che nella pronuncia straniera ricorra la loro esplicita menzione, ne

consegue che al giudice della delibazione, ai fini della verifica di compatibilità con l’ordine pubblico,

si chiede di conoscere il percorso giuridico seguito dal giudice straniero, in particolare per quanto

concerne la qualificazione della responsabilità e delle conseguenti voci di danno risarcibili, onde

evincere la causa giustificatrice dell’attribuzione e potere, quindi, controllare la ragionevolezza e la

proporzionalità di quanto liquidato all’estero in rapporto non solo alle specificità dell’illecito ed alle

sue conseguenze dannose, ma altresì ai criteri risarcitori nazionali.

Ciò tenendo conto, come si legge nell’ordinanza del 16 maggio 2016, della evoluzione del concetto

di ordine pubblico, che “segna un progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia

tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori

estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla

Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

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Europea e, indirettamente, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”.

La giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mancato di rilevare come il rispetto dell’ordine

pubblico sia garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari stranieri,

con riferimento non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della

soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti”

quanto alla compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento: “in altri termini,

l’ordine pubblico non si identifica con quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le norme di

conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi

contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le

regole del diritto internazionale privato” .

Il principio di ordine pubblico, che tradizionalmente ha rappresentato un ostacolo alla circolazione

di taluni modelli giuridici, va così affievolendosi a favore del sistema del diritto internazionale

privato e può trovare un limite soltanto nella potenziale aggressione recata dalla figura giuridica

straniera ai valori essenziali dell’ordinamento interno, da valutarsi in armonia con quelli della

comunità internazionale.

La lucida analisi dell’ordinanza affida pertanto al giudice della delibazione il compito di verificare

preventivamente la compatibilità della norma straniera con questi valori, desumibili direttamente da

norme e principi sovraordinati -costituzionali ed internazionali- dovendosi escludere il contrasto

con i valori dell’ordinamento in presenza di una incompatibilità della norma straniera con l’assetto

normativo interno qualora l’incompatibilità possa considerarsi ‘temporanea’, in quanto ascrivibile

alla discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico.

Non può che sottolinearsi la portata dirompente di una simile interpretazione evolutiva che,

astrattamente, socchiude la porta ad una più indolore sovrannazionalizzazione delle regole

giuridiche: con le parole dell’ordinanza, “si tratta di un giudizio simile a quello di costituzionalità,

ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso

in cui al legislatore ordinario sia precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una ipotetica

norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari”.

Riportando, in modo ancor più esplicito, il discorso dal piano generale a quello particolare,

l’ordinanza afferma che “in questa prospettiva, non dovrebbe considerarsi pregiudizialmente

contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi, all’ordine pubblico

internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo:

una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata

effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto, che tenga conto delle

‘circostanze del caso di specie e dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito’

secondo il Considerando 32 del Regolamento CE 11 luglio 2007, n. 864, sulla legge applicabile alle

obbligazioni extracontrattuali”.

L’ordinanza, che apre la strada alla sentenza delle Sezioni unite 5 luglio 2017, n. 16601, propone,

poi, una riflessione sui limiti della funzione riparatoria-compensativa quale unica finalità attribuibile

al rimedio risarcitorio, ad esclusione quindi di qualsiasi connotazione punitiva-deterrente quali sono

quelle offerte dalle sentenze straniere.

Opporre un principio di ordine pubblico desumibile da categorie e nozioni di diritto interno

sortisce l’effetto di trattare la sentenza straniera alla stregua di una di merito pronunciata da un

giudice italiano, ma soprattutto, la funzione del rimedio risarcitorio, attualmente configurato in

termini esclusivamente compensatori, finisce con l’essere elevata a rango costituzionale. conclusione

questa cui non si spinge neppure Cass., s. u., 22 luglio 2015, n. 15350 nel porre ristretti limiti al

riconoscimento del danno cosiddetto tanatologico.

I tempi potrebbero essere quindi maturi, anche in ragione “della dinamicità o polifunzionalità del

sistema della responsabilità civile, nella prospettiva della globalizzazione degli ordinamenti giuridici

in senso transnazionale, che invoca la circolazione delle regole giuridiche, non la loro

frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali” per considerare la “evoluzione della tecnica di

tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente”, come si

espresse Cass., sez. I civ., 15 aprile 2015, n. 7613 considerando le affinità fra i punitive damages e le

astraintes di matrice francese .

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Resta fermo, in ogni caso, l'apprezzamento del giudice della delibazione sull’eventuale sproporzione

dell'importo liquidato dal giudice straniero, nonché sulla qualificazione della natura punitiva e

sanzionatoria della condanna, poiché si tratta di un giudizio di fatto, riservato al medesimo giudice,

insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato.

Nel caso di specie la sentenza statunitense, come già si è rilevato, non ha specificato quali danni

siano stati indennizzati, poiché ha recepito l'importo della transazione con il danneggiato, un

milione di dollari (due, considerando la parallela transazione stipulata dall'infortunato con la società

importatrice) che non può considerarsi ‘un quantum risarcitorio abnorme’, come rilevano le S.U., a

fronte di lesioni craniche e postumi invalidanti subiti dall'infortunato, oltre alle spese mediche

sostenute per 335.000 dollari, ed una perdita della capacità di guadagno dello stesso corridore

professionista stimata dai due a tre milioni di dollari.

Pertanto, pur in assenza di indicazioni nella sentenza circa le regole ed i criteri di liquidazione del

danno, non può presumersi una natura parzialmente sanzionatoria del quantum transatto, che si

mantiene sotto i limiti della sola componente patrimoniale del danno subito: ne consegue, come

rilevano le S.U., “che non v'è alcun modo per ipotizzare il carattere ‘punitivo’ della condanna

pronunciata, carattere che comunque non si può presumere sol perché manchi nella sentenza, o

meglio nella transazione recepita dal giudice americano, una chiara distinzione delle componenti del

danno”.

3. Le Sezioni Unite si pronunciano rendendo un principio di diritto nell’interesse della legge

L’importante sentenza delle S.U. del 5 luglio 2017 avrebbe potuto così concludersi, ma il Collegio

ha ritenuto di andare oltre, avvalendosi del potere riconosciutogli dal terzo comma dell’art. 363 cod.

proc. civ., secondo il quale: “il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche

d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la

questione decisa è di particolare importanza”.

Viene così sottolineato, innanzitutto, che al tendenziale rifiuto opposto dal Supremo Collegio

all’ampliamento della gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguato riscontro normativo, si

contrappone tuttavia quanto offerto dalle traiettorie seguite dall'istituto della responsabilità civile: se

la funzione primaria rimane quella riparatoria, nondimeno “è emersa una natura polifunzionale che

si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o

dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”, come mostrano non pochi interventi legislativi, segno

della “urgenza che avverte il legislatore di ricorrere all'armamentario della responsabilità civile per

dare risposta a bisogni emergenti”.

Non a caso l’espressione ‘danni punitivi’ ricorre in un gran numero di sentenze nazionali che nulla

hanno direttamente a spartire con l’istituto di matrice anglosassone: è un fenomeno interessante,

che denota il successo, almeno sul piano terminologico, della circolazione di questo modello presso

i nostri giudici in conseguenza dell’adozione, ad opera del legislatore, di figure che –in qualche

modo- la evocano .

Sebbene quindi questo istituto rimanga estraneo al nostro ordinamento secondo i tratti che gli sono

propri, nondimeno diverse norme, anche recenti, si prestano ad una istintiva assimilazione, pur nella

immensa distanza dei valori pecuniari che ad esse, rispettivamente, si riferiscono.

Necessario ricordare che, in alcuni casi, le radici possono essere trovate in norme presenti da tempo

nel nostro ordinamento, quali l’art. 96 cod. proc. civ. sulla responsabilità aggravata per lite temeraria

, cui la l. 18 giugno 2009, n. 69 ha aggiunto il terzo comma a norma del quale “il giudice, anche

d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di

una somma equitativamente determinata”, contestualmente è stato abrogato il quarto comma

dell'art. 385 cod. proc. civ. volto a disincentivare azzardati ricorsi per cassazione, riconoscendo alla

stessa il potere di condannare “la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di

una somma, equitativamente determinata non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene

che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave" .

La legge di riforma del 2009 ha pertanto conferito valenza generale al principio sanzionatorio, così

manifestando non soltanto la preoccupazione nei confronti dei futili contenziosi che inflazionano i

ruoli delle sedi giudiziarie, ma –per quanto qui di interesse- ha riconosciuto la possibilità di

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attribuire funzione sanzionatoria al pagamento disposto dal giudice di una somma di denaro non già

a favore dell’erario, bensì della controparte indipendentemente dalla prova del danno.

L’entità dell’ammontare dell’importo liquidato dal giudice costituisce un tema sul quale si è

pronunciato anche il Consiglio di Stato , affermando che “nel silenzio della legge sul punto

concernente l'individuazione dei parametri cui agganciare la determinazione equitativa, possono

considerarsi ammissibili una molteplicità di criteri alcuni dei quali ispirati alla logica dei danni

punitivi di matrice anglosassone che ben si prestano ad assicurare, pur nell'alveo della responsabilità

civile, la (indiretta) funzione di deterrenza sanzionatoria del proliferare dei processi, sganciati come

sono dalla dimostrazione anche presuntiva di un pregiudizio da compensare (il riferimento è al

rimedio del disgorgement che consente all'interessato di colpire l'autore della condotta contra ius

attraverso la retroversione degli utili conseguiti). Tale impostazione ha trovato ingresso nella più

recente giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353

relativa a fattispecie di liquidazione del risarcimento del danno all'immagine ammesso in una logica

non meramente compensativa del pregiudizio subito); in questo caso gli eventuali utili conseguiti a

cagione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo e della sua durata, ben potrebbero

costituire parametro di riferimento, accanto ovviamente, a più tradizionali criteri, come quello del

valore della controversia ovvero al riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla

parte vincitrice (in tal senso è la prassi forense civile formatasi in sede di prima applicazione dell'art.

96, co. 3, c.pc.”

Il principio espresso dal terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rimasto alquanto sotto traccia, è in

realtà dirompente in quanto codifica una forma di pena privata in funzione sanzionatoria di un

comportamento dannoso nei confronti della controparte e della collettività, che ha interesse ad un

efficiente funzionamento del sistema di amministrazione della giustizia.

E’ anche interessante osservare che una tipica figura statunitense presenta indubbie analogie con

questo strumento sanzionatorio: le frivolous lawusit sono azioni legali senza reale fondamento, ad

esempio perché escluse dalle leggi: in base alla Rule 11 delle Federal Rules of Civile Procedure, (c)

Sanctions, “ If, after notice and a reasonable opportunity to respond, the court determines that Rule

11 has been violated, the court may impose an appropriate sanction on any attorney, law firm, or

party that violated the rule or is responsible for the violation” .

Una innovazione di questa portata non poteva non suscitare reazioni di rigetto: il Tribunale di

Firenze ha infatti sollevato d’ufficio la questione di costituzionalità del terzo comma dell’art. 96 cod.

proc. civ., e la Corte, con sentenza 23 giugno 2016, n. 152, ha quindi affrontato il tema del diritto di

cittadinanza nel nostro ordinamento di “una fattispecie a carattere sanzionatorio, che si

discosterebbe dalla struttura tipica dell'illecito civile, propria della responsabilità aggravata di cui ai

primi due commi del medesimo art. 96 e confluirebbe, invece, in quella, del tutto diversa, delle

cosiddette ‘condanne afflittive’”.

La Corte non ha alcun dubbio circa la natura essenzialmente non risarcitoria, bensì sanzionatoria -

con finalità deflattive del carico giudiziario- della disposizione chiamata a valutare, sottolineando

che depongono in questo senso anche significativi elementi lessicali, quali la condanna al

‘pagamento di una somma’ che segna una netta differenza terminologica rispetto al ‘risarcimento

dei danni’, oggetto della condanna cui si riferiscono i primi due commi dello stesso art. 96 cod.

proc. civ.; inoltre, la condanna di cui al terzo comma è sistematicamente collegata al contenuto della

‘pronuncia sulle spese’ e la sua adottabilità ‘anche d'ufficio’ la sottrae all'iniziativa di parte e ne

conferma, ulteriormente, la funzione volta alla tutela di un interesse che trascende quello della parte

stessa, assumendo tratti indubbiamente pubblicistici in ragione di una lesione arrecata al puntuale

funzionamento del sistema giudiziario.

Deve, infatti, essere garantita la ragionevole durata di un giusto processo in attuazione di un

interesse di rango costituzionale: in questa prospettiva il beneficiario della sanzione, come

prospettato dal Tribunale fiorentino in sede di remissione, avrebbe potuto essere, con una diversa

scelta legislativa, lo Stato medesimo.

Come in altri casi considerati dall’ordinamento sarebbe stata una soluzione ragionevole, ma ciò non

comporta per sé la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del 2009,

ascrivibile alla finalità di assicurare una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente

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allo strumento deflattivo, per tacer, poi, del fatto che la regola così delineata si presta a soddisfare

una concorrente finalità indennizzatoria nei confronti della parte vittoriosa -pregiudicata anch'essa

da una temeraria chiamata in giudizio- nelle non infrequenti ipotesi in cui sia arduo per essa provare

l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento accordato dai

primi due commi dell'art. 96 cod. proc. civ.

La norma oggetto del giudizio di costituzionalità non presenta, quindi, connotati di

irragionevolezza, ma riflette una fra le possibili opzioni del legislatore, la cui discrezionalità non è

costituzionalmente vincolata nell'individuare il beneficiario di una misura che sanziona un

comportamento processuale abusivo fungendo, al contempo, da deterrente al radicarsi di simili

condotte.

Non appare fuori luogo, a questo punto, ritenere che la funzione sanzionatoria di una condanna

correlata ad un comportamento socialmente reprovevole abbia pieno diritto di cittadinanza nel

nostro ordinamento, con quali ripercussioni future è da vedere.

Altrettanto risalenti sono le radici di un altro caso in cui il legislatore ha dato recentemente prova di

guardare con favore alle sanzioni di tipo ‘privato’: è curiosa la sorte dell’art. 70 disp. att. cod. civ.

istitutivo della sanzione di cento lire a favore del bilancio condominiale per ogni infrazione al

regolamento, a lungo forse l’unico caso di pena privata presente nel nostro ordinamento, lasciato -

di fatto- morire per la mancata rivalutazione della sanzione –ridicolmente divenuta € 0,05- che la l.

11 dicembre 2012, n. 220 in sede di riforma del condominio ha rivitalizzato elevando l’importo a €

200 ed, in caso di recidiva, a € 800.

Molte sono le fattispecie rispetto alle quali il legislatore ha dato accesso in epoca recente, ma non

solo, a strumenti sanzionatori, ed è forse l’ambito giuslavoristico quello che presenta le maggiori

opportunità di sviluppo dei rimedi non direttamente risarcitori: la sentenza delle S.U. è molto

accurata nella ricognizione delle numerose fattispecie .

L’indicazione delle S.U. è chiara: è sterile la ricerca di una piena corrispondenza fra istituti stranieri

ed istituti italiani, e non presenta alcuna “utilità chiedersi se la ratio della funzione deterrente della

responsabilità civile nel nostro sistema sia identica a quella che genera i punitive damages.

L'interrogativo è solo il seguente: se l'istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con

l'intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione”.

La risposta si trova, sempre ad avviso delle S.U., nella verifica del principio di legalità, secondo il

quale la condanna straniera a ‘risarcimenti punitivi’ deve essere riposta “su una fonte normativa

riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate,

che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità. Deve esservi insomma una legge, o simile fonte,

che abbia regolato la materia ‘secondo principi e soluzioni’ di quel paese, con effetti che risultino

non contrastanti con l'ordinamento italiano”.

Fondamentale per l’analisi della compatibilità è, comunque, l'art. 49 della Carta dei diritti

fondamentali dell'Unione europea, relativo ai "Principi della legalità e della proporzionalità dei reati

e delle pene", la cui applicazione comporta che “il controllo delle Corti di appello sia portato a

verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra

quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione”

in quanto “la proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a prescindere da questo

disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile”.

Grande attenzione deve essere prestata agli effetti che la pronuncia del giudice straniero può

produrre in Italia, con la profondità della verifica che si deve dedicare al recepimento “di un istituto

sconosciuto, ma in via generale non incompatibile con il sistema”.

L’affermazione è, comprensibilmente, di enorme portata innovativa, e risolve, quindi, in modo

affermativo l’annosa questione della compatibilità con l’ordinamento delle sanzioni punitive, o

deterrenti, consentendo alle S.U. di enunciare un principio di diritto dalle grandi implicazioni

evolutive.

“Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la

sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione

di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.

Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine

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statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una

pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa

nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la

prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione,

unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico”.

La decisione resa a s. u. dal Supremo Collegio il 5 luglio 2017 appare potenzialmente foriera di

sviluppi di grande interesse, specie –ma non solo- se il legislatore vorrà cogliere le dirompenti

indicazioni che essa offre.

L’approfondimento dell’attuale latitudine della nozione di ordine pubblico, nella prospettiva

transnazionale, il riconoscimento al sistema della responsabilità civile di funzioni diverse da quella

meramente risarcitoria, costituiscono principi con i quali non ci si potrà non confrontare di fronte

ad “un humus comune in cui si sviluppano e si radicano principi generali che finiscono per

comporre un diritto privato non più domestico, ma tale da pervadere tutti i Paesi europei, e perciò

denominato ‘diritto privato europeo’” .

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I punitive damages nordamericani: Bundesgerichtshof, Cour

de cassation e Sezioni Unite della Cassazione a confronto

Di Mauro Tescaro

Professore Aggregato di Diritto del Lavoro – Universtà di Verona

I. – Introduzione

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16601 del 2017, in merito alla possibilità di

eseguire in Italia una pronuncia nordamericana di condanna a punitive damages , e al tempo stesso

in merito alla funzione, o per meglio dire alle funzioni della responsabilità civile , è senza dubbio

destinata a essere un punto di riferimento e a suscitare numerose riflessioni da tante prospettive

diverse.

La particolare prospettiva che si intende proporre in questa sede è quella di un confronto tra la

pronuncia italiana e le paragonabili – in quanto provenienti anch’esse dai vertici delle relative

giurisdizioni e in quanto divenute anch’esse punti di riferimento nei rispettivi Paesi – pronunce di

Francia e Germania, ovverosia i due ordinamenti giuridici europei cui il nostro, tradizionalmente,

più intensamente si ispira.

Il confronto riguarderà innanzi tutto la questione dei punitive damages nordamericani, ma sarà poi

anche l’occasione per talune riflessioni più generali sulle diverse tecniche di redazione delle sentenze

e di decisione giurisprudenziale nei principali Paesi di civil law.

II. – La posizione del Bundesgerichtshof del 1992

In Germania, la pronuncia fondamentale – nonostante che non manchino, nella stessa

giurisprudenza tedesca, posizioni almeno in parte dissonanti – rimane ancora oggi un Urteil del

Bundesgerichtshof del 1992 .

Il caso di specie concerne un cittadino tedesco di nascita, il quale aveva poi acquistato pure la

cittadinanza degli Stati Uniti d’America, dove aveva fino a un certo punto anche vissuto, e il quale,

dopo essersi trasferito in Germania, essendo lì titolare di un patrimonio immobiliare, è condannato,

da un giudice statunitense, innanzi tutto a una lunga pena detentiva per avere abusato sessualmente

di un adolescente, cittadino nordamericano. Quest’ultimo soggetto ottiene poi, da una diversa

autorità giudiziaria nordamericana, pure la condanna del reo a un notevole risarcimento

complessivo , e chiede dunque che la medesima condanna sia dichiarata eseguibile in Germania,

arrivando appunto dinanzi al BGH. La sentenza statunitense non contiene una illustrazione

dettagliata né della fattispecie concreta né delle motivazioni della decisione, ma dal verbale del

processo nordamericano si desumono, innanzi tutto, le seguenti voci risarcitorie: una cifra

trascurabile a titolo di spese mediche già sostenute, una cifra importante a titolo di spese mediche

future, nonché una cifra significativa per costi di soggiorno che si prevedono necessari a tale ultimo

fine. Davvero elevata è, inoltre, la quantificazione a titolo di – potremmo tradurre – danno non

patrimoniale. Pressoché pari, o per meglio dire di poco superiore alla somma di tutte le altre voci

indicate in precedenza è, poi, la quantificazione a titolo di punitive damages .

In estrema sintesi, il BGH adotta una impostazione particolarmente favorevole al danneggiato

straniero in relazione a tutte le voci di danno diverse dal risarcimento punitivo, nonostante che tali

voci di danno, in un caso analogo che fosse stato deciso da un giudice tedesco secondo il diritto

interno tedesco, sarebbero risultate, per motivi diversi, da escludere o almeno da limitare

notevolmente nella loro quantificazione , e una impostazione di segno opposto in relazione ai

punitive damages, con riguardo ai quali si conclude che «una sentenza degli Stati Uniti d’America in

merito a un risarcimento punitivo […] di ammontare non irrilevante, riconosciuto globalmente in

aggiunta all’attribuzione di un risarcimento per danni patrimoniali e non patrimoniali, non può, di

regola, essere dichiarata, sotto tale profilo, eseguibile in Germania» .

La sentenza tedesca integra, nella sostanza, un pregevole saggio dottrinale, essendo le citazioni non

solo della giurisprudenza precedente ma anche della copiosa dottrina in argomento continue e

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appropriate, oltre che facilmente verificabili da parte di chiunque (il BGH, infatti, proprio come si

addice a un saggio dottrinale, precisa persino i numeri di pagina delle opere di volta in volta

richiamate).

La medesima sentenza, anche se è scritta con uno stile tutto sommato essenziale, è assai estesa,

soprattutto in quanto si preoccupa di argomentare approfonditamente (ancora una volta, come si

addice a un saggio dottrinale) le proprie tesi, e così anche la già menzionata scelta di una netta

chiusura ai puntive damages, per la quale si fa leva su due argomentazioni fondamentali (incentrate

l’una sul principio di proporzionalità, con il quale inesorabilmente contrasterebbe il fatto che una

sentenza di condanna civile persegua interessi pubblici da ricondurre al monopolio punitivo dello

Stato, al di fuori delle relative garanzie sostanziali e procedurali; e l’altra sul principio di uguaglianza,

nel senso che l’introduzione dei punitive damages in un ordinamento che d’ordinario non li

conosce si tradurrebbe in una irragionevole disparità di trattamento dei creditori nazionali rispetto

ai creditori stranieri), accennandosene pure una terza (consistente nel dubbio che il risarcimento

punitivo statunitense, pur avendo natura civilistica, ma perseguendo finalità pubblicistiche affini a

quelle delle pene criminali, contrasti altresì con il principio del ne bis in idem in materia penale).

Il BGH, inoltre, argomenta diffusamente anche in prospettiva comparatistica, soprattutto (ma non

solo: per esempio chiarendosi, in un punto della sentenza, come pochi altri Stati nel mondo

contemplino i punitive damages) con riguardo al diritto statunitense. La sentenza tedesca lascia

dunque trasparire la convinzione che occorra avvicinarsi alla materia rinunciando a ogni aprioristico

particolarismo giuridico, e così anche rispettando massimamente il diritto nordamericano: per

questo motivo, la (non) compatibilità dei punitive damages con l’ordine pubblico tedesco è valutata

solo all’esito di una dettagliata ricostruzione dei tratti essenziali dell’istituto nel Paese di origine .

III. – La posizione della Cour de cassation francese del 2010

In Francia, la pronuncia di riferimento – sia per la dottrina sia per la giurisprudenza – risale al 2010

.

Nel caso di specie, una coppia di coniugi statunitensi aveva acquistato, per il prezzo di circa 800.000

dollari , per finalità di svago, una barca di pregio (precisamente un catamarano) prodotta da una

società francese. Tale barca era però risultata gravemente difettosa per numerosi motivi diversi, e la

società francese aveva tenuto un comportamento particolarmente riprovevole e malizioso, avendo

essa occultato alcuni vizi fondamentali insorti già prima della consegna ed essendosi poi anche

rifiutata di effettuare le necessarie riparazioni. I coniugi ottengono dunque una sentenza

statunitense che condanna la società francese al pagamento di più di 3 milioni di dollari, di cui poco

meno della metà a titolo di punitive damages , e vorrebbero eseguirla in Francia, giungendo, all’esito

di un iter processuale piuttosto complicato, dinanzi alla Cour de cassation, la quale afferma che, «si

le principe d’une condamnation à des dommages-intérêts punitifs, n’est pas, en soi, contraire à

l’ordre public, il en est autrement lorsque le montant alloué est disproportionné au regard du

préjudice subi et des manquements aux obligations contractuelles du débiteur». La conclusione, in

altre parole, è che l’esecuzione in Francia di simili decisioni straniere è in linea di principio

concedibile, salva però la necessità di verificare di volta in volta la proporzionalità del risarcimento

punitivo, che nel caso di specie mancherebbe, negandosi così, in relazione al medesimo caso di

specie, qualsivoglia esecuzione – sia pure con riguardo alle sole voci risarcitorie meramente

compensative – della sentenza statunitense.

La pronuncia francese può sembrare, a prima vista, una significativa apertura ai punitive damages

nordamericani (e proprio in questo senso è frequentemente citata in dottrina e in giurisprudenza ),

ma il presupposto della proporzionalità, pur rimanendo ampiamente indeterminato, si rivela

pesantissimo, in quanto – vale la pena di ribadirlo – nel caso di specie è ritenuto senz’altro assente,

nonostante che il risarcimento punitivo non fosse nemmeno pari alla somma di tutte le altre voci di

danno, e in quanto tale assenza – sia pure probabilmente anche a causa di una errata strategia

processuale degli attori, i quali non si erano preoccupati di domandare l’esecuzione parziale della

sentenza straniera – porta addirittura alla conseguenza, che pare francamente eccessiva , della

negazione di qualsivoglia risarcimento. Ciò ha spinto taluni commentatori francesi a parlare di un

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«trompe-l’œil» giurisprudenziale , ovverosia di una sostanziale, netta chiusura ai punitive damages

nordamericani (sia pure mascherata da apertura).

La sentenza non menziona alcuna posizione dottrinale né lascia anche solo vagamente intendere di

avere preso spunto da particolari elaborazioni teoriche precedenti, nonostante che non manchino,

nella letteratura francese successiva, rivendicazioni di autori che sottolineano di avere proposto

sostanzialmente la medesima soluzione poi fatta propria dalla Cour de cassation .

Conformemente alla ben nota tradizione francese (in linea di massima, quella del giudice che

dovrebbe limitarsi a essere bouche de la loi ), la sentenza in esame è, inoltre, brevissima, dedicando

essa poche righe, per non dire poche parole alla specifica questione dei punitive damages, senza

svolgere vere e proprie argomentazioni al fine di sostenere la tesi propugnata (un poco più

approfondito, ma sempre essenziale, è il ragionamento nella parte in cui si evidenziano gli aspetti

più rilevanti della fattispecie concreta).

La Cour de cassation non compie, inoltre, il benché minimo riferimento allo stato dell’arte sui

punitive damages in ordinamenti giuridici stranieri, evitando essa anche solo di accennare i loro

tratti essenziali negli Stati Uniti d’America.

IV. – La posizione delle Sezioni Unite della Cassazione del 2017

Il caso di specie (particolarmente complicato) affrontato dalla sentenza delle Sezioni Unite della

Cassazione n. 16601 del 2017 concerne una società italiana condannata, negli Stati Uniti d’America,

a pagare una somma complessiva di poco superiore a 1.500.000 dollari a una società nordamericana

al fine di manlevare quest’ultima, la quale aveva pagato una cifra di poco inferiore a un motociclista

statunitense che aveva subito danni alla persona nell’ambito di un incidente accaduto durante una

gara, a causa di un vizio del casco prodotto dalla società italiana e rivenduto dalla società

nordamericana. Il motocilista aveva precedentemente proposto, anche a titolo di punitive damages,

alla società nordamericana (peraltro coinvolgendo pure la società italiana e permettendone

l’intervento nelle trattative), il pagamento in parola nell’ambito di una transazione, prontamente

accettata da quest’ultima, che aveva poi corrisposto la somma concordata e però anche ottenuto

alcune pronunce statunitensi in cui si sanciva, come già accennato, l’obbligo di manleva in capo alla

società italiana. Di tali pronunce è chiesto il riconoscimento in Italia, che la Corte d’appello di

Venezia concede, precisando, tra l’altro, che la condanna della società italiana trovava titolo non

nell’obbligo di risarcimento del danno in favore del motociclista danneggiato, ma nell’obbligo di

manleva verso la società nordamericana, senza alcun riguardo ai punitive damages. La società

italiana, però, ricorre per Cassazione, dove si giunge alla citata pronuncia delle Sezioni Unite le

quali, con dettagliate e persuasive argomentazioni (su cui non vale la pena di soffermarsi in questa

sede), innanzi tutto confermano come il caso di specie, per il suo particolare atteggiarsi, nemmeno

ponga la questione dei punitive damages, essendo, già solo per questa via, il ricorso senz’altro

rigettato. Ciò nonostante, le medesime Sezioni Unite ritengono di potersi pronunciare anche su tale

questione (ai sensi dell’art. 363, 3° co., c.p.c.), enunciando il seguente principio di diritto: «Nel

vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera

patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di

deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente

incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il

riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però

corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative

che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti

quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto

straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».

Orbene, le Sezioni Unite, pur attuando senz’altro un revirement rispetto all’orientamento

giurisprudenziale tradizionale , lo fanno, a ben vedere, in modo particolarmente cauto, o moderato

(soprattutto considerate le innovazioni più radicali che erano state prefigurate da una precedente

ordinanza interlocutoria e da parte della dottrina ).

Con riguardo alle funzioni della responsabilità civile italiana, infatti, alla generalità che la massima

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sembra assegnare – apparentemente sullo stesso piano di quella compensativa – pure alle funzioni

deterrente e sanzionatoria, si contrappone la motivazione della sentenza dove si trova, invece,

chiaramente affermato come, nel diritto italiano, tali ultime funzioni possano essere assunte dalla

responsabilità civile solo là dove specifiche previsioni di legge lo prevedano, nel doveroso rispetto

degli artt. 23 e 25, comma 2, Cost. , ribadendosi testualmente l’«esigenza di smentire sollecitazioni

tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa», e altresì la

«preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto». Così precisata, la tesi è

condivisibile, sia in quanto tiene conto dell’orientamento dottrinale ormai dominante (pur non

mancando varie posizioni diverse) in Italia, sostanzialmente conformandosi a esso, sia soprattutto in

quanto è particolarmente moderata nel “superare” il tradizionale principio della riparazione

integrale del danno e la connessa funzione squisitamente compensativa della responsabilità civile ,

che risultano anzi, a ben vedere, riaffermati, ammettendosi solo la possibilità di talune eccezioni,

qualora la legge italiana specificamente le preveda.

Venendo più direttamente alla riconoscibilità in Italia di sentenze straniere di condanna a punitive

damages, le Sezioni Unite sostanzialmente seguono – sia pure senza dichiararlo espressamente – il

modello francese, però dimostrandosi ancora più caute, in quanto, come presupposti per il

riconoscimento, indicano, in aggiunta alla proporzionalità (su cui si incentra, come già rammentato,

la posizione della Cour de cassation francese), anche la tipicità e la prevedibilità della sanzione

straniera (presupposti, questi, evidentemente cumulativi e che dovranno essere in futuro

attentamente verificati in relazione a ciascun caso di specie). L’idea di fondo pare insomma che le

fondamentali garanzie sostanziali (ma non anche quelle procedurali) del diritto penale debbano

valere pure per le sanzioni civili para-penali .

La sentenza italiana è fortemente debitrice, in più punti, verso talune elaborazioni dottrinali, non

facendo essa nulla per nasconderlo, e anzi non di rado apertamente sottolineandolo (con

espressioni del tipo: «casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico», «la dottrina ha spiegato», «è

stato notato anche in dottrina»), sia pure, come di consueto per la Corte di Cassazione, senza citare

mai né i nomi degli autori, né le loro opere.

La medesima sentenza, inoltre, pur essendo più breve di altre della giurisprudenza italiana (senza

contare che già solo le particolarità della fattispecie concreta indubbiamente richiedevano un

notevole approfondimento), è relativamente ampia (tanto più che si tratta, nella parte poco sopra

sintetizzata, sostanzialmente di un obiter dictum).

Infine, le Sezioni Unite – a differenza dell’ordinanza interlocutoria del 2016, ricca di riferimenti

comparatistici – evitano di menzionare le posizioni assunte in argomento da altri Paesi di civil law.

Poiché è però certo che i Supremi giudici erano a conoscenza di dette posizioni , non rimane che

ritenere che essi, trascurandole, abbiano deciso di sottolineare l’autonomia della nostra

giurisdizione, cioè il fatto che essa non ha alcun bisogno di trovare al di fuori dei nostri confini (e, a

ben vedere, nemmeno entro i confini dell’Unione europea, perlomeno in relazione a una questione,

come quella in esame, in cui si trattava di applicare una disciplina squisitamente nazionale, ovverosia

l’art. 64 della l. n. 218 del 1995, e la nozione di ordine pubblico in essa contenuta) argomentazioni a

supporto delle proprie scelte fondamentali. Vi sono peraltro, nella sentenza italiana, molteplici

riferimenti, sia pure sintetici e collocati solo in chiusura, allo stato dell’arte del diritto statunitense.

V. – Riepilogo dei diversi approcci: con riguardo ai punitive damages nordamericani

Là dove si volesse stilare una sorta di classifica del maggiore o minore favore verso l’istituto

straniero, si potrebbe, a prima vista, pensare di mettere al primo posto la Cour de cassation, che

apre ai punitive damages con la sola limitazione della proporzionalità, al secondo posto le Sezioni

Unite, che pongono invece le tre concorrenti limitazioni della tipicità, della prevedibilità e della

proporzionalità, e al terzo e ultimo posto il Bundesgerichtshof, che considera il risarcimento

punitivo statunitense – sia pure solo se «di ammontare non irrilevante», tale essendo senz’altro

giudicato, peraltro, già solo un risarcimento punitivo all’incirca pari alla somma di tutte le altre voci

di danno – radicalmente incompatibile con l’ordine pubblico tedesco.

All’esito di un più attento esame dei contenuti delle sentenze, e delle loro conseguenze sui casi di

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specie di volta in volta affrontati, peraltro, tale classifica risulta da modificare, se non da ribaltare. In

quest’ottica, al primo posto dovremmo infatti collocare il Bundesgerichtshof, il quale si occupa di

una fattispecie concreta in cui il danneggiato straniero, nonostante la negazione di qualsivoglia

risarcimento punitivo, finisce per ottenere un ristoro particolarmente elevato, in ogni caso molto

più elevato di quello che avrebbe potuto ottenere là dove si fosse applicato il diritto tedesco; e

dovremmo senz’altro collocare all’ultimo posto la Cour de cassation, la quale affronta un caso di

specie in cui, nonostante la declamazione apparentemente di notevole apertura ai punitive damages,

il danneggiato straniero non riesce a conseguire nemmeno il risarcimento puramente compensativo.

La Sezioni Unite, invece, più che da collocare nella posizione intermedia sopra ipotizzata, risultano

forse, per meglio dire, non classificabili, in quanto la fattispecie concreta di cui si occupano, a ben

vedere, nemmeno concerne i punitive damages.

VI. – (segue) E con riguardo alle tecniche di redazione delle sentenze e di decisione

giurisprudenziale

Tentiamo ora di spingere il confronto tra le citate pronunce persino oltre, aprendolo alla

prospettiva assai più generale delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di decisione

giurisprudenziale.

Dal punto di vista del rapporto tra giurisprudenza e dottrina, la sentenza più debitrice verso la

letteratura giuridica è senza dubbio quella del Bundesgerichtshof, potendo essa stessa considerarsi –

anche proprio per la sua tecnica di redazione –, nella sostanza, un saggio dottrinale, per di più

pregevole. A questo modello si avvicina fortemente la pronuncia delle Sezioni Unite, la quale

peraltro si limita a lasciare appena trasparire i suoi riferimenti culturali, che sono comunque

abbastanza facilmente individuabili da parte di chi conosca la – sia pure copiosa e sempre più

difficile da dominare – letteratura giuridica in argomento, mentre da esso si allontana radicalmente

la sentenza della Cour de cassation, la quale – non esplicitando né lasciando intendere qualsivoglia

consonanza con una o più posizioni dottrinali – integra un chiaro esempio della perdurante solidità

(che altri potranno definire rigidità) di un ordinamento giuridico, quello francese, che sembra

riuscire a mantenere interdipendenti ma nettamente separati – in ossequio a una precisa,

rispettabilissima tradizione nazionale in tal senso – i ruoli di legislatore, giurisprudenza e dottrina .

Considerando poi il punto di vista della maggiore o minore concisione dei provvedimenti

giurisprudenziali, alla brevità massima – si potrebbe pensare eccessiva, in realtà perfettamente

giustificabile proprio nella prospettiva, appena accennata, di un ruolo giurisprudenziale nettamente

separato da quello dottrinale, là dove solo a quest’ultimo compete di esplicitare i fondamenti teorici

delle tesi affermatesi nel diritto vivente – della pronuncia della Cour de cassation si

contrappongono le entrambe assai più estese sentenze del Bundesgerichtshof e delle Sezioni Unite,

le quali appaino pertanto, sotto questo profilo, tendenzialmente accostabili (anche se taluni

potrebbero criticamente osservare, con riguardo alla sola pronuncia italiana, come essa si dilunghi

nell’affrontare, nella sostanza, un semplice obiter dictum; argomento, questo, cui si potrebbe

peraltro replicare che i tempi per un revirement, sia pure solo “moderato”, erano ormai considerati

maturi dai più).

La sentenza italiana, peraltro, si contraddistingue per una eleganza stilistica magistrale, contenendo

essa formulazioni (si pensi, per limitarsi a un solo esempio tra i tanti, al punto sull’ordine pubblico,

specialmente dove si afferma che le sentenze straniere debbono «misurarsi con il portato della

Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle

parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale», aggiungendosi che

«Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato

di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il

contesto internazionale in cui lo Stato si colloca») di una bellezza espressiva e al tempo stesso anche

di una efficacia argomentativa che solo le migliori opere accademiche sanno d’ordinario

raggiungere.

Infine, dal punto di vista della disponibilità, oppure non, ad argomentare anche in prospettiva

comparatistica, si colloca nella posizione di maggiore apertura il Bundesgerichtshof, ma pure le

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Sezioni Unite, come abbiamo rammentato, esplicitano quantomeno lo stato dell’arte essenziale del

diritto statunitense, mentre è netta la chiusura della Cour de cassation, la posizione della quale sul

punto potrebbe, per un verso, giustificarsi semplicemente alla luce della estrema sinteticità della sua

pronuncia, anche se, per altro verso, si può ipotizzare la volontà dei giudici francesi di ostentare (se

non la loro superiorità, almeno) la loro più totale autonomia rispetto a qualsivoglia ordinamento

giuridico straniero.

VII. – Conclusioni

La recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sui punitive damages, pur realizzando

un importante revirement della giurisprudenza italiana, può essere considerata, nel complesso,

“moderata”, collocandosi essa, tutto sommato, in una sorta di posizione intermedia tra il modello

francese e quello tedesco, non solo per la tesi di fondo prescelta (e per le sue probabili conseguenze

applicative), ma anche dal punto di vista delle diverse tecniche di redazione delle sentenze e di

decisione giurisprudenziale.

Integrando la moderazione innegabilmente una virtù, la pronuncia italiana può senz’altro essere

apprezzata; anche se taluni potrebbero criticamente osservare che il modello tedesco della sentenza

quale – per così dire – saggio dottrinale e il modello francese della sentenza quale – sempre per così

dire – mera applicazione al caso di specie di regole decise altrove hanno entrambi (sia pure per

motivi diversi, innanzi tutto storici) sicuramente senso ed efficacia per il funzionamento dei sistemi

giuridici in cui si sono rispettivamente sviluppati solo se mantenuti puri, sconsigliandosi

conseguentemente vie intermedie o ibride come quella italiana.

E però, anche là dove si condividesse quest’ultimo ragionamento, e si volesse pertanto auspicare

una evoluzione della tecnica di redazione delle sentenze italiane più nettamente verso il modello

tedesco (magari con citazioni esplicite e immediatamente verificabili della dottrina), oppure più

nettamente verso il modello francese (magari con una stringente brevità che lasci solo ad altri il

compito di precisare le basi teoriche), dovrebbe, a parere di chi scrive, tenersi ferma almeno la più

pregevole particolarità italiana, che emerge così chiaramente proprio dalla sentenza delle Sezioni

Unite qui commentata, ovverosia la straordinaria (bellezza e) ricchezza semantica della nostra lingua

nazionale. Che essa sia mantenuta, anche in relazione alle controversie più spiccatamente

internazionali, la sola lingua ufficiale di redazione delle sentenze italiane (salve ovviamente le

deroghe già previste per il doveroso rispetto di talune autonomie locali ) potrà magari sembrare un

auspicio piuttosto scontato, ma vale comunque la pena di formularlo.

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Appunti sulla inarrestabile metamorfosi della responsabilità

solidale negli appalti

Di Chiara Colosimo

Giudice della sez. Lavoro del Tribunale Ordinario di Milano

Abstract

L’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, che regola la responsabilità solidale di committenti e

subappaltatori per crediti retributivi e contributivi, è una delle disposizioni più travagliate dell’ultimo

decennio. Quella attualmente in vigore, risultato di oltre sei novelle intervenute per la maggior parte

nell’ultimo lustro, si presenta quale norma oltremodo complessa, destinata a regolamentare tanto

profili sostanziali quanto processuali. Nel prossimo futuro, tuttavia, il contenzioso non potrà che

essere disciplinato dalla disposizione previgente (così modificata dall’art. 4, co. 31, lett. a) e b) Legge

92/2012) che non ha mancato di sollevare, e ancora presenta, molteplici criticità soprattutto di

ordine processuale. Il presente lavoro affronta le principali problematiche di questa norma ibrida,

avendo cura di esaminare non solo le questioni processuali preliminari più tipiche, ma anche le

peculiarità derivanti dall’intersecarsi di molteplici posizioni giuridiche contrapposte. L’esame si

completa con l’approfondimento riservato al capitolo della responsabilità solidale delle Pubbliche

Amministrazioni.

1. Premessa.

Accostarsi allo studio della disciplina della responsabilità solidale negli appalti delineata dall’art. 29,

co. 2, D. Lgs. 276/2003 significa doversi confrontare con le molteplici modifiche che l’hanno

interessata.

Si tratta, infatti, di una delle disposizioni più travagliate dell’ultimo decennio.

Per come originariamente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, la norma si limitava a disporre “in

caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con

l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i

trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”.

Quella attualmente in vigore è una previsione ben più articolata – che segue, peraltro, una versione

ancor più complessa sotto il profilo sostanziale e processuale – che prevede “in caso di appalto di

opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con

l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla

cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di

trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in

relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le

sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente che ha

eseguito il pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai

sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e può

esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali”.

Il vigente assetto normativo è il risultato di reiterati interventi legislativi: l’originario comma

secondo è stato sostituito dall’art. 6, co. 1, D. Lgs. 251/2004 , dall’art. 1, co. 911, Legge 296/2006 ,

n. 296, dall’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito, con modificazioni, in Legge 35/2012) , dall’art. 4,

co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012 , dall’art. 28, co. 2, D. Lgs. 175/2014 e, infine, modificato

dall’art. 2, co. 1, lett. a) e b), D.L. 25/2017 (convertito, senza modificazioni, in Legge 49/2017) .

Deve rammentarsi che, a norma dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013, convertito con modificazioni in

Legge 99/2013, le disposizioni di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 trovano applicazione anche

in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei

lavoratori con contratto di lavoro autonomo.

La disciplina in commento, infine, si completa con la seconda parte dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013

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che ha previsto che “le medesime disposizioni non trovano applicazione in relazione ai contratti di

appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto

legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Le disposizioni dei contratti collettivi di cui all’articolo 29, comma

2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, hanno effetto

esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto con

esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”.

Come si avrà modo di osservare, l’applicazione di questa travagliata disposizione ha presentato

severe criticità soprattutto in ordine al precipitato delle innovazioni legislative sul rapporto

processuale tra i soggetti coinvolti nella filiera.

La ragione del continuo intervento del Legislatore può ben comprendersi ove si rifletta sul fatto che

si tratta di una previsione destinata a porre a carico di soggetti estranei al rapporto di lavoro

obbligazioni fondamentali del rapporto stesso a fronte della sussistenza di condizioni meramente

oggettive: una norma che tratteggia un’ipotesi di responsabilità solidale destinata ad avere ricadute

sostanziali oltremodo rilevanti nelle relazioni commerciali e imprenditoriali e che rappresenta,

talvolta, un ostacolo alle stesse.

In un simile contesto, ancor più in una realtà socio-economica caratterizzata dalla scarsità di risorse

e da una generale crisi delle relazioni industriali, la ricerca dell’equilibrio tra i contrapposti interessi è

quanto mai complessa e critica. Proprio nella criticità degli equilibri economici e sociali generati dal

fenomeno in esame, tuttavia, deve essere ricercata la ratio della disciplina di cui si discute.

Come osservato dal Parlamento Europeo nella risoluzione dell’11 luglio 2007 , “oggigiorno in molte

industrie il processo produttivo assume la forma di una catena di produzione frammentata che si è

allungata ed estesa formando una catena logistica (in senso sia orizzontale che verticale) e una

catena di valore a carattere economico-produttivo con determinati compiti o funzioni specialistiche

che vengono spesso a piccole imprese o a lavoratori autonomi”, inoltre “il subappalto e

l’outsourcing verso imprese indipendenti non genera indipendenza”, ma crea “squilibri economici e

sociali tra i lavoratori e potrebbe scatenare una corsa al ribasso delle condizioni di lavoro” .

Sulla base di tali rilievi, il Parlamento Europeo ha ritenuto di accogliere “favorevolmente il fatto che

otto Stati membri (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Spagna)

abbiano dato una risposta ai problemi legati agli obblighi dei subappaltatori in qualità di datori di

lavoro attraverso la definizione di meccanismi nazionali di responsabilità e incoraggia gli altri Stati

membri a valutare l’introduzione di soluzioni analoghe”, con l’auspicio che la Commissione

definisse “uno strumento giuridico comunitario chiaro, che introduca la responsabilità solidale a

livello comunitario” .

2. Le questioni – rectius “complicazioni” – preliminari di una norma ibrida.

Sotto il profilo temporale, i continui interventi del Legislatore pongono in primo luogo all’interprete

un evidente problema di coordinamento in tutti quei casi in cui i crediti azionati in giudizio sono

maturati in un periodo anteriore a quello di entrata in vigore delle novelle legislative.

A seguito dell’introduzione del beneficio della preventiva escussione e della previsione del

litisconsorzio necessario tra i soggetti della filiera, si sono registrati due distinti orientamenti.

Un primo orientamento guardava alle norme processuali di cui all’art. 29 D. Lgs. 276/2003 come a

un unicum rispetto alla disciplina sostanziale: ragionando sulla strumentalità del litisconsorzio

necessario rispetto al beneficio della preventiva escussione, applicava il regime processuale in vigore

al tempo del sorgere del credito del lavoratore . L’orientamento opposto riteneva di dover più

semplicemente scindere il piano sostanziale da quello processuale, disciplinando il primo secondo le

regole in vigore al tempo in cui i crediti retributivi o contributivi erano sorti, e il secondo in virtù

del principio tempus regit actum: applicando, dunque, le nuove regole processuali a tutti i giudizi

introdotti in epoca successiva alla novella, indipendentemente dalla data di maturazione del diritto

di credito.

Avuto specifico riguardo alle modifiche introdotte con l’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito con

modificazioni in Legge 35/2012) e l’art. 4, co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012, la questione era

destinata a trovar soluzione nel fisiologico scorrere del tempo. Infatti, in ragione del regime

decadenziale previsto in materia, le possibilità di scissione temporale tra maturazione del credito e

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disciplina processuale di riferimento parevano destinate a esaurirsi progressivamente.

Sennonché, come anticipato, la norma ha subito una ulteriore modifica con l’art. 2, co. 1, lett. a) e

b), D.L. 25/2017, convertito senza modificazioni dalla Legge 49/2017, che ha soppresso la parte

della disposizione che stabiliva “il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in

giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il

committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della

preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In

tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può

essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo

l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.

L’intervento normativo è destinato a far risorgere l’originario contrasto.

Chi ha ritenuto, sin dal principio, di guardare al beneficio della preventiva escussione nella sua

essenza di norma sostanziale – rispetto alla quale il litisconsorzio delineato dall’art. 29, co. 2, D. Lgs.

276/2003 si poneva in un rapporto servente, di pura strumentalità – non potrà che dare alla novella

legislativa un’applicazione limitata ai contratti di appalto stipulati dopo la sua entrata in vigore. Il

beneficio della preventiva escussione, infatti, era garanzia introdotta a tutela della posizione del

committente, e non può revocarsi in dubbio che la possibilità di avvalersi di questa peculiare forma

di tutela fosse naturalmente destinata a incidere sugli equilibri del contratto tra committente e

appaltatore.

Per contro, quanti hanno ritenuto di concentrare la propria attenzione sulle ricadute prettamente

processuali delle disposizioni soppresse (sul giudizio di merito, quanto alle problematiche inerenti al

litisconsorzio; sul giudizio di esecuzione, quanto alla possibilità di eccepire il beneficio della

preventiva escussione) non potranno che confermare l’applicazione della regola tempus regit actum.

Questione preliminare che non ha mancato di presentare criticità oltremodo peculiari è anche quella

relativa all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria territorialmente compente.

Soprattutto a seguito dell’introduzione del litisconsorzio necessario, si è registrato il tentativo di

ottenere l’applicazione dell’art. 33 c.p.c. nella parte in cui dispone che “le cause contro più persone

che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono

connesse per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di

residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo”.

Nei giudizi caratterizzati dal contraddittorio tra appaltatore e committente, l’art. 33 c.p.c. è stato

invocato quale disposizione idonea a derogare alla competenza territoriale dei fori speciali previsti

per il rito del lavoro, sul presupposto che simili fattispecie dovrebbero essere disciplinate in ragione

del criterio residuale di cui all’art. 413, co. 7, c.p.c. : meccanismo che consentirebbe di dar luogo a

una sorta di “competenza aggiuntiva” in considerazione della sede legale dei committenti o dei

subappaltatori.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che, “nel caso in cui il lavoratore agisca nei

confronti di due o più datori di lavoro che si sono succeduti nel tempo a seguito di cessione

dell’appalto di opere o servizi, per far valere l’illegittimità della trattenuta sulla retribuzione

effettuata a titolo di trattamento di fine rapporto o di indennità di mancato preavviso, può

convenire ciascun datore di lavoro anche nel foro generale delle persone fisiche o nel foro generale

delle persone giuridiche - pur se l’art. 413, VII comma, cod. proc. civ. fa riferimento solo al primo

di essi - quando la connessione tra le varie domande proposte ecceda il mero cumulo soggettivo tra

cause previsto dall’art. 33 cod. proc. civ. e integri una più intensa ipotesi di connessione, assimilabile

a quelle di cui all’art. 31 cod. proc. civ. ovvero dall’art. 331 cod. proc. civ. pur non vertendosi in

ipotesi di litisconsorzio” .

È un orientamento, tuttavia, che concerne una controversia relativa all’applicazione della

disposizione previgente rispetto a quella novellata dall’art. 21, co. 1, D.L. 5/2012 (convertito con

modificazioni in Legge 35/2012) e dall’art. 4, co. 31, lett. a) e b), Legge 92/2012 e al quale, avuto

specifico riguardo al successivo quadro normativo, non pare possibile aderire.

Nell’imporre che il committente dovesse essere “convenuto in giudizio per il pagamento

unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori”, il Legislatore ha guardato alla

necessità di rendere parte dei giudizi ex art. 29 D. Lgs 276/2003 il debitore principale – ossia, il

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datore di lavoro – in quanto unico soggetto in grado di instaurare un sostanziale contraddittorio

nell’accertamento dei crediti del lavoratore.

Considerato che si tratta di un accertamento che ha ad oggetto l’adempimento delle principali

obbligazioni del rapporto di lavoro, non si ritiene che lo stesso possa essere sottratto agli

inderogabili criteri di competenza territoriale previsti dal rito speciale (art. 413 c.p.c.).

La stessa Corte di Cassazione, d’altronde, seppur in relazione alla fattispecie di cui all’art. 1676 c.c.,

ha avuto modo di affermare che, “in tema di competenza territoriale, ove venga simultaneamente

proposta azione nei confronti dell’appaltatore - datore di lavoro con condanna, in solido, ex art.

1676 cod. civ., degli enti committenti, e le domande non si limitino a pretendere il pagamento delle

retribuzioni dovute per le prestazioni eseguite, investendo, come nella specie, il corrispettivo

rispetto alla qualifica contrattuale, all’orario di servizio, ecc., quanto dovuto per tali titoli costituisce

l’oggetto della domanda rivolta al datore di lavoro e solo in seguito a tale accertamento nei

confronti del datore di lavoro, all’esito del quale si cristallizza la pretesa, ovvero al momento

successivo alla definizione del rapporto controverso, sorge la responsabilità sussidiaria, ancorché

solidale, dei restanti chiamati i quali ne subiscono, anche sotto il profilo processuale della

competenza, gli effetti. Peraltro tra i soggetti evocati sussiste soltanto un litisconsorzio processuale,

ed eventuale, stante la posizione sussidiaria e meramente accidentale dei terzi, nei cui confronti si

svolge una domanda autonoma” .

Medesimo accertamento caratterizza le azioni promosse ex art. 29 D. Lgs. 276/2003 poiché, anche

in questo caso, l’accertamento della sussistenza del credito nei confronti del datore di

lavoro/appaltatore è presupposto logico-giuridico – in uno con l’esistenza del contratto di appalto –

dell’accertamento della responsabilità solidale degli altri soggetti della filiera. Peraltro, analogo

accertamento è necessario ai fini della verifica del corretto adempimento da parte del datore di

lavoro dell’obbligazione contributiva, così come emergente dalle buste paga in possesso del

dipendente.

In merito alla richiamata pronunzia della Corte di Legittimità sugli artt. 31 e 33 c.p.c. , si ritiene che

si debba anche tener conto del rapporto tra foro generale (artt. 18 e 19 c.p.c.) e fori speciali (art 413

c.p.c.) per come delineato dalla disciplina codicistica: se i primi prevedono l’applicabilità “salvo che

la legge disponga altrimenti” e l’art. 413, co. 7, c.p.c. trova applicazione “qualora non trovino

applicazione le disposizioni dei commi precedenti”, non pare esservi motivo di derogare ai criteri di

cui all’art 413 c.p.c. ogni volta in cui venga convenuto in giudizio il datore di lavoro quale

legittimato passivo principale del giudizio di accertamento e condanna.

Avuto specifico riguardo al tema della legittimazione attiva, deve rammentarsi che la norma dispone

che il committente e gli altri obbligati solidali sono tenuti “a corrispondere ai lavoratori i trattamenti

retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i

premi assicurativi dovuti”: stante il tenore della norma, non può revocarsi in dubbio che gli unici

soggetti legittimati siano i lavoratori titolari dei diritti di credito e gli Enti Previdenziali e Assicurativi

cui debbono essere versati i contributi . Deve escludersi, per contro, che l’art. 29 D. Lgs. 276/2003

possa essere autonomamente invocato da uno dei condebitori solidali per agire nei confronti degli

altri condebitori e ottenere da questi ultimi, in tutto o in parte, il pagamento del dovuto.

Ultima questione a portata generale che merita di essere richiamata in premessa è quella che attiene

al riparto degli oneri probatori.

Trattandosi di presupposti costitutivi dell’azione, grava sul lavoratore ricorrente l’onere di

dimostrare l’esistenza del contratto di appalto posto a fondamento dell’azione, l’assegnazione ad

attività che rientrano nell’ambito dello stesso, così come il periodo di svolgimento della prestazione

. A fronte dell’eccezione di decadenza, sarà parimenti onere del lavoratore provare la tempestività

dell’azione.

Per il resto, il riparto degli oneri probatori segue le regole correlate alla struttura del rapporto di

lavoro: grava sulla parte datoriale l’onere di provare il puntuale adempimento delle proprie

obbligazioni, grava sul prestatore l’onere di provare la ricorrenza di quei fatti (orario di lavoro

differente, svolgimento di mansioni superiori, etc.) che possono fondare pretese ulteriori rispetto a

quelle discendenti dal rapporto per come formalizzato.

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3. Le principali problematiche processuali dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 “intermedio”.

Approcciarsi allo studio dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 muovendo dal presupposto della sua

essenza di norma sostanziale significa ammettere che la materia dovrà intendersi regolata –

quantomeno nel futuro più prossimo – più che dalla disposizione attualmente in vigore , ancora da

quella previgente (“intermedia” ), dovendosi in proposito far riferimento alla data di stipula del

contratto di appalto in funzione del quale la prestazione lavorativa è stata resa e non soltanto

all’epoca in cui i crediti sono sorti.

La norma “intermedia” è, senza dubbio, quella contraddistinta dalle maggiori peculiarità di ordine

processuale, prevalentemente circoscritte nel periodo centrale del comma secondo ove si dispone

che “il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento

unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori”, che “il committente

imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva

escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori”, e che “il

giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere

intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa

escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.

Dunque, in occasione delle modifiche più recenti, si è stabilito che il committente imprenditore o

datore di lavoro deve essere convenuto in giudizio “unitamente” agli altri soggetti coinvolti nella

filiera di appalto: si tratta di un’ipotesi di litisconsorzio necessario che, nella fase preliminare del

giudizio, impone al giudice di verificare che siano stati convenuti tutti i soggetti coinvolti in uno

specifico appalto, indipendentemente dalle domande che le parti resistenti possono eventualmente

svolgere nei confronti di terzi chiedendone la chiamata in giudizio.

La previsione del litisconsorzio necessario solleva una molteplicità di problematiche che, allo stato,

non risultano del tutto risolte.

In primo luogo, merita senz’altro una riflessione il rapporto tra procedimento monitorio e

procedimento ordinario.

In passato, non vi era dubbio circa la possibilità per il lavoratore di agire con ricorso per decreto

ingiuntivo per ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo

direttamente, ed esclusivamente, nei confronti del committente. L’unica condizione dell’azione così

promossa era che il prestatore fosse in grado di dimostrare – con idonea documentazione –

l’esistenza dell’appalto tra committente e datore di lavoro, in uno con il periodo di assegnazione allo

stesso.

L’introduzione del litisconsorzio necessario, tuttavia, ha imposto un ripensamento: da un lato, in

presenza di una catena composta da più subappaltatori, non si ritiene più possibile l’emissione di un

decreto ingiuntivo nei soli confronti di uno dei soggetti coinvolti; dall’altro, deve dubitarsi che il

decreto ingiuntivo possa ancora essere emesso provvisoriamente esecutivo.

Se la norma dispone che l’accertamento deve essere compiuto, necessariamente, nell’ambito di un

procedimento che vede convenuti tutti i soggetti interessati dalla filiera di appalto, non può

ammettersi che il vincolo normativo possa essere eluso dal lavoratore semplicemente operando una

scelta processuale – quella dell’azione per decreto ingiuntivo – caratterizzata, peraltro,

dall’emanazione di un provvedimento in assenza di contraddittorio.

La previsione del litisconsorzio necessario, inoltre, è strumentale e direttamente funzionale

all’operatività della seconda parte della norma, ove il Legislatore consente al committente

imprenditore di eccepire il beneficio della preventiva escussione dell’appaltatore e degli eventuali

subappaltatori soltanto nell’ambito del giudizio di merito e, peraltro, in fase di costituzione.

Nel caso della procedura monitoria, la prima occasione per il committente di eccepire il beneficio

della preventiva escussione non potrebbe che essere il giudizio di opposizione, ma la previsione

normativa verrebbe svuotata di efficacia qualora l’azione per decreto ingiuntivo consentisse al

lavoratore di munirsi di un titolo provvisoriamente esecutivo: il committente diventerebbe

potenziale destinatario dell’esecuzione prima di poter, materialmente e giuridicamente, avvalersi

della facoltà di legge.

Una volta eccepito, il beneficio della preventiva escussione non determina nessuna particolare

conseguenza nell’ambito del giudizio di merito: il giudice si limiterà a dare atto in sentenza del

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tempestivo esercizio della facoltà di legge, cristallizzando nel dispositivo l’accertamento del diritto e

la condanna al pagamento di tutti gli obbligati solidali. Gli effetti dell’eccezione si produrranno nella

successiva fase esecutiva atteso che “l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del

committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio

dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”.

Quanto alla dimostrazione della “infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore”,

l’orientamento prevalente della giurisprudenza di merito è quello di ritenere sufficiente, nel caso di

fallimento del datore di lavoro, attendere il piano di riparto della procedura e, negli altri casi, che il

lavoratore dimostri di aver tentato infruttuosamente il pignoramento.

A seguito dell’introduzione litisconsorzio necessario, altri aspetti che debbono necessariamente

essere considerati sono quelli relativi alle vicende processuali che coinvolgono i partecipanti della

filiera e quelli propri dei rapporti interni tra i vari soggetti dell’appalto.

Sotto il profilo della domanda, deve ritenersi esclusa la possibilità per il lavoratore-creditore di

frazionare soggettivamente le proprie pretese, azionando in tempi diversi le medesime domande nei

confronti di soggetti differenti.

È evenienza tutt’altro che rara soprattutto avuto riguardo alla posizione del datore di lavoro e nelle

cause in cui le parti convenute restano contumaci. Può accadere infatti che, in un giudizio promosso

nei soli confronti di quest’ultimo, le allegazioni e le deduzioni della parte ricorrente non consentano

al giudicante di avvedersi dell’esistenza di una catena di appalti e subappalti e che,

conseguentemente, la decisione sia erroneamente assunta nei confronti di una sola parte dei soggetti

coinvolti nella filiera.

In siffatte ipotesi, tuttavia, deve ritenersi preclusa al lavoratore la possibilità di agire in un momento

successivo nei confronti dei soggetti intermedi in quanto, diversamente argomentando, si

ammetterebbe l’ingresso di condotte processuali volte a vanificare a priori la portata e la ratio

dell’introduzione del litisconsorzio necessario. In proposito, il Tribunale di Milano ha avuto modo

di osservare come, azionando “in tempi diversi la medesima domanda nei confronti di soggetti

diversi, tutti solidalmente responsabili, [la parte ricorrente abbia] reso di fatto impossibile

quell’unitarietà di giudizio che, oggi, l’ordinamento impone” .

Sotto un profilo propriamente soggettivo, merita una riflessione la vicenda del fallimento che

coinvolga uno dei soggetti della filiera, questione rispetto alla quale si è registrata una importante

evoluzione nel contrasto e negli orientamenti della giurisprudenza di merito .

In un primo momento, infatti, si era prevalentemente ritenuto che il litisconsorzio necessario non

consentisse la prosecuzione del procedimento innanzi al giudice del lavoro in ragione della ritenuta

impossibilità, da un lato, di celebrare il giudizio in assenza di una parte e, dall’altro lato, di operare

nei confronti del soggetto fallito un accertamento evidentemente funzionale alla sola condanna al

pagamento preclusa, tuttavia, alla competenza lavoristica . Fallito un soggetto della filiera di appalto,

dunque, il giudizio veniva interrotto nei confronti di tutti i convenuti litisconsorti necessari, con la

previsione che l’eventuale successiva riassunzione nei confronti del fallimento e degli altri

litisconsorti non potesse che rientrare nella competenza esclusiva del Tribunale Fallimentare.

Le pronunce ponevano l’accento sul carattere inevitabilmente unitario del giudizio delineato dal

rinnovato art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, proprio in quanto caratterizzato dal litisconsorzio

necessario degli obbligati solidali, nel quale il Giudice era chiamato ad accertare “la responsabilità

solidale di tutti gli obbligati”: un accertamento che, tuttavia, si riteneva precluso al giudice del lavoro

ove rivolto nei confronti di un fallimento in quanto proprio della competenza funzionale ed

esclusiva del giudice fallimentare.

L’orientamento in esame era considerato l’unico idoneo a garantire la piena tutela di tutti i creditori

della massa fallimentare, consentendo un accertamento unitario dei debiti del fallimento, nel pieno

rispetto del principio della par condicio creditorum e in ossequio alle pronunzie del Supremo

Collegio secondo cui “…devono, però, ritenersi collegate alla procedura non soltanto le

controversie che derivano direttamente dalla stessa e si basano su di essa, ma anche quelle che sono

destinate comunque ad incidere sulla procedura concorsuale e come tali debbono necessariamente

essere esaminate nell’ambito di quest’ultima per assicurarne l’unità e per garantire la parità tra i

creditori…” .

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Oggi è possibile individuare due diverse posizioni.

Da un lato, vi è chi ritiene che la vicenda fallimentare non sia destinata a incidere sulla regolazione

sostanziale dei rapporti tra gli altri debitori solidali: la parte fallita, sia esso l’appaltatore o un altro

soggetto della filiera, resta parte necessaria ai soli fini dell’integrità del contraddittorio, senza che

possa operare il meccanismo dell’improcedibilità dell’azione nei confronti del soggetto fallito e la vis

attractiva del Tribunale Fallimentare. Che il fallimento intervenga prima o durante il giudizio, il

soggetto fallito è o diviene (eventualmente a seguito di riassunzione post interruzione) parte del

giudizio in una prospettiva di pura litis denuntiatio, senza che possa essere pronunziata nei suoi

confronti alcuna sentenza di condanna.

Dall’altro lato, vi è chi ritiene che il fallimento determini una scissione del vincolo processuale in

quanto si tratterebbe di una peculiare forma di litisconsorzio di matrice prettamente legale,

strumentale all’accertamento dei crediti e alla previsione del beneficio della preventiva escussione,

ma del tutto avulso dalla natura sostanziale degli interessi coinvolti: in caso di fallimento, dunque, il

giudizio può essere instaurato o essere riassunto nei confronti dei soli soggetti in bonis.

4. Della decadenza e della natura retributiva dei crediti garantiti.

Questioni di ordine sostanziale che continuano a non avere una compiuta definizione sono, altresì,

quella della decadenza e quella della individuazione dei crediti riconducibili alla disciplina in esame.

In punto di decadenza, il contrasto giurisprudenziale attiene all’idoneità o meno a impedirla di

eventuali atti di messa in mora stragiudiziali: vi è, infatti, chi ritiene che la stessa possa essere evitata

solo con il deposito entro il termine di legge del ricorso introduttivo del giudizio, e chi afferma che

qualsiasi atto di messa in mora consenta il perfezionamento dell’effetto legale.

I fautori del primo orientamento si sono normalmente concentrati sul fatto che l’art. 29, co. 2, D.

Lgs. 276/2003, oltre a prevedere il termine decadenziale biennale, ha sempre disciplinato anche gli

aspetti processuali della materia. In senso opposto si sono pronunziati quanti hanno sottolineato

che la norma non richiede espressamente la proposizione dell’azione giudiziale nel biennio della

cessazione dell’appalto e hanno ritenuto, quindi, la richiesta stragiudiziale al committente idonea a

impedire la decadenza .

In merito, la Corte di Cassazione ha affermato che “…il termine biennale dalla cessazione

dell’appalto previsto dalla suddetta disposizione ha natura di termine di decadenza per la

proposizione dell’azione giudiziale per i crediti per i quali vi sia tale possibilità” .

Quanto ai crediti riconducibili a questa peculiare ipotesi di tutela, il Supremo Collegio ha affermato

che “la locuzione “trattamenti retributivi” di cui all’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003,

dev’essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli

emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti” . Il Giudice

di Legittimità ha ritenuto, in questo modo, di escludere dalla nozione di retribuzione propriamente

intesa le somme dovute per buoni pasto e indennità sostitutiva ferie, valutando invece di

ricomprendervi gli importi per riduzione orario di lavoro.

La pronunzia fa proprio un orientamento difforme da quello di una parte significativa della

giurisprudenza di merito che, con specifico riferimento ai buoni pasto, ne aveva riconosciuto la

natura sostanzialmente retributiva in ragione della continuità della corresponsione e della relazione

di corrispettività rispetto alla prestazione lavorativa .

La stessa Corte di Cassazione, peraltro, aveva precedentemente avallato l’interpretazione volta a

ricondurre nella disciplina in parola i crediti a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute,

osservando che “l’indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura mista, sia risarcitoria che

retributiva, sicché mentre ai fini della verifica della prescrizione va ritenuto prevalente il carattere

risarcitorio, volto a compensare il danno derivante dalla perdita del diritto al riposo, cui va

assicurata la più ampia tutela applicando il termine ordinario decennale, la natura retributiva, quale

corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che avrebbe dovuto essere retribuito ma non

lavorato, assume invece rilievo quando ne va valutata l’incidenza sul trattamento di fine rapporto, ai

fini del calcolo degli accessori o dell’assoggettamento a contribuzione” .

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5. Il capitolo della responsabilità solidale della Pubblica Amministrazione.

In occasione della penultimo intervento normativo, il Legislatore si è espressamente occupato della

questione inerente all’applicabilità della previsione di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 alle

Pubbliche Amministrazioni, tema oltremodo dibattuto e le cui criticità non possono ritenersi sopite.

In proposito, pare opportuno rammentare come sulla questione si fossero registrati due distinti

orientamenti giurisprudenziali tesi, il primo, ad ammettere l’applicabilità della norma alle Pubbliche

Amministrazioni e, il secondo, invece, a escluderla.

La riflessione di quanti ritenevano sussistere la responsabilità solidale del soggetto pubblico si

concentrava sia sul tenore letterale della disposizione in commento sia sul complessivo impianto del

Decreto Legislativo 276/2003 avuto anche riguardo alle previsioni della Legge delega.

Quanto all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, si riteneva che il riferimento alternativo al committente

“imprenditore o datore di lavoro” fosse tale da comprendere sia i soggetti aventi natura di impresa

commerciale, sia i datori di lavoro di genere diverso; si osservava, peraltro, come la disposizione

non contenesse nessuna esplicita limitazione circa la natura pubblica o privata del contratto di

appalto intercorso fra datore di lavoro e committente.

Si riteneva poi, in ragione di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della

previsione normativa con particolare riferimento all’art. 76 Costituzione, che l’art. 1, co. 2, D. Lgs.

276/2003 (“il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro

personale”) non potesse essere interpretato nel senso di escludere dall’ambito applicativo dell’art. 29

D. Lgs. 276/2003, tanto il personale delle Pubbliche Amministrazioni, quanto le Pubbliche

Amministrazioni nella loro veste di committenti.

La Legge Delega 30/2003, infatti, aveva previsto all’art. 6 che “le disposizioni degli articoli da 1 a 5”

non dovessero applicarsi “al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano

espressamente richiamate”: disposizioni che riguardavano la revisione della disciplina dei servizi

pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella

somministrazione di lavoro (art. 1); il riordino dei contratti a contenuto formativo e di tirocinio (art.

2); la disciplina del lavoro a tempo parziale (art. 3); la disciplina delle tipologie di lavoro a chiamata,

temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite (art. 4); la

certificazione dei rapporti di lavoro (art. 5). Per contro, l’art. 2 Legge 30/2003 aveva espressamente

previsto l’applicazione, in via generale, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche

Amministrazioni delle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa. Pertanto, l’art. 6 veniva inteso

quale deroga espressa alla disposizione e dettata dall’art. 2, quale specificazione dei casi nei quali le

Pubbliche Amministrazioni dovevano ritenersi escluse dall’ambito applicativo della normativa

prevista dalla legge delega medesima. Una prospettiva, questa, che induceva a ritenere che il

Legislatore delegato fosse stato autorizzato a escludere l’applicazione della normativa oggetto di

delega solo “al personale delle pubbliche amministrazioni” e non già alle Pubbliche

Amministrazioni sotto il profilo soggettivo.

Sulla base di queste considerazioni, si riteneva che l’unica interpretazione corretta dell’art. 1, co. 2,

D. Lgs. 276/2003, conforme a Costituzione, fosse quella volta a escludere dall’ambito applicativo

del decreto, non già le Pubbliche Amministrazioni in quanto tali, bensì esclusivamente il personale

alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni datrici di lavoro .

L’orientamento opposto si fermava al dato puramente testuale dell’art. 1, co. 2, D. Lgs. 276/2003

per escludere a priori l’applicazione dell’art. 29, co. 2, nei confronti delle Pubbliche

Amministrazioni .

Nel contrasto giurisprudenziale così delineato, è intervenuto il Legislatore con l’art. 9, co. 1, D.L.

76/2013 che ha stabilito che “le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo

10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, trovano applicazione anche in relazione ai

compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con

contratto di lavoro autonomo. Le medesime disposizioni non trovano applicazione in relazione ai

contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del

decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Le disposizioni dei contratti collettivi di cui all’articolo

29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, hanno

effetto esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati

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nell’appalto con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”.

La definizione dell’ambito di efficacia temporale e la delimitazione dei soggetti che ne sono

destinatari sono gli aspetti di maggior criticità della norma.

5.1. La definizione dell’ambito di efficacia temporale

Quanto al primo profilo, una parte della dottrina e della giurisprudenza afferma che si tratta di una

norma di interpretazione autentica e, come tale, destinata a operare ex tunc; non manca, tuttavia,

chi sostiene che si tratti di una vera e propria novella legislativa destinata quindi a operare

esclusivamente ex nunc.

Le conseguenze dell’adesione all’uno o all’altro orientamento sono di immediata percezione.

I sostenitori della tesi dell’interpretazione autentica si concentrano, in primo luogo, sul fatto che il

Legislatore non ha modificato direttamente il testo dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, ma ha

introdotto una previsione ad esso collegata, imponendo una lettura congiunta delle due norme:

l’effetto della nuova disposizione sarebbe, quindi, quella di precisare gli ambiti di applicazione della

vecchia.

Il rilievo, tuttavia, non pare dirimente in quanto nell’epoca moderna il Legislatore ha utilizzato più

volte siffatta tecnica legislativa per interventi che nessun interprete ha dubitato fossero di

innovazione e non di interpretazione, si pensi ad esempio alle previsioni introdotte con il Collegato

Lavoro o con la Riforma Fornero: disposizioni che, solo in parte, sono state inserite e/o sostituite

in modo sistematico nei corpi normativi preesistenti.

La necessità di procedere a una lettura combinata di due disposizioni, dunque, non è sufficiente per

sostenere la natura interpretativa dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013.

L’altro elemento su cui si concentra l’orientamento in esame sono i lavori preparatori nei quali

vengono individuate espressioni che farebbero emergere la volontà di emanare una legge di

interpretazione autentica. Tali sarebbero i rilievi ove si afferma che l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013

“estende l’ambito di applicazione della responsabilità solidale… esclude dall’ambito della disciplina

richiamate contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni… specifica che le eventuali

clausole derogatorie contenute nei contratti collettivi abbiano effetto esclusivamente in relazione

trattamenti retributivi”. L’impiego dei verbi “estendere”, “escludere” e “specificare”, in uno con la

scelta di non intervenire direttamente sul testo dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, sarebbero

espressione della volontà di precisare, nel senso di interpretare, le disposizioni del dettato

normativo piuttosto che di predisporre una nuova norma.

L’approccio, tuttavia, non convince in quanto il soggetto dell’estendere, dell’escludere e dello

specificare è, per l’appunto, proprio l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013.

Se l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 “estende” l’ambito di applicazione della responsabilità solidale in

relazione agli obblighi nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo, più che una

specificazione dell’originario art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, è un’estensione dello stesso.

D’altronde, sarebbe errato dimenticare che copiosa giurisprudenza ha costantemente individuato il

presupposto per l’applicazione della disposizione di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 nella

sussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con l’appaltatore inadempiente.

Con specifico riferimento alla questione della solidarietà delle Pubbliche Amministrazioni, peraltro,

è il tenore letterale dell’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 a non permettere di affermarne la natura

interpretativa in quanto la norma parrebbe destinata a disporre per il presente: “le medesime

disposizioni non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche

amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

Peraltro, considerato che il Decreto Legislativo 276/2003 prevedeva già, per i fautori della tesi più

restrittiva, siffatta esclusione all’art. 1, co. 2 (“il presente decreto non trova applicazione per le

pubbliche amministrazioni per il loro personale”), mal si comprende come possa affermarsi la

natura interpretativa della nuova disposizione in assenza di qualsivoglia riferimento alla previsione

appena richiamata.

Da ultimo, innovativa pare essere anche la terza previsione contenuta nell’art. 9, co. 1,

D.L.76/2013, che stabilisce che le disposizioni dei contratti collettivi hanno effetto esclusivamente

in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto “con esclusione di

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qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”. Tale limitazione non esisteva

nell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003, e non può ritenersi che fosse sottintesa poiché i contratti

collettivi erano contemplati – con portata evidentemente generale – nella prima parte della

disposizione e non nella seconda in cui il Legislatore chiarisce che la solidarietà opera per i

“trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi

previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di

appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile

dell’inadempimento”.

Non vi è chi non veda, comunque, come l’esigenza di ricorrere all’esame dei lavori preparatori sia

prova del fatto che l’art. 9, co. 1, D.L. 76/2013 non contiene alcun elemento letterale che consenta

di presumere che si tratti di legge interpretativa.

Sulla questione, la Corte di Cassazione ha recentemente affermato che “ai sensi del comma 2

dell’art. 1 d.lg. n. 276 del 2003 non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità

solidale prevista dal comma 2 dell’art. 29 del richiamato decreto. L’art. 9 d.l. n. 76 del 2013, nella

parte in cui prevede l’inapplicabilità dell’art. 29 ai contratti di appalto stipulati dalla pubbliche

amministrazioni di cui all’art. 1 d.lg. n. 165 del 2001, non ha carattere di norma di interpretazione

autentica, dotata di efficacia retroattiva, né ha innovato il quadro normativo previgente, avendo solo

esplicitato un precetto già desumibile dal testo del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni”

.

5.2. La delimitazione dell’ambito soggettivo.

Sotto il profilo soggettivo, la previsione in commento opera un richiamo espresso alle “pubbliche

amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, che

definisce cosa debba intendersi “per amministrazioni pubbliche” ai fini dell’applicazione delle

norme del Testo Unico: “si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e

scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad

ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e

associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio,

industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali,

regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia

per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al

decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le

disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI”.

Non manca, nondimeno, chi sostiene che debbono essere ricompresi nell’ambito di applicazione

della norma in commento tutti quei soggetti che, indipendentemente dalla natura che gli è propria,

siano chiamati ad applicare il Codice degli Appalti Pubblici.

La tesi non può essere condivisa.

Considerato il tenore letterale della norma (che si riferisce a tutti i committenti), deve ritenersi che il

principio sancito dall’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 abbia efficacia di carattere generale e che

l’unica deroga alla sua applicazione non possa che essere interpretata in senso restrittivo.

In assenza di una disposizione che espressamente precluda l’applicabilità della norma nei confronti

del committente privato soggetto alla disciplina del Codice degli Appalti, non si può ritenere che lo

stesso sia tenuto indenne dal regime della responsabilità solidale. D’altronde, la natura di un

soggetto non muta per il sol fatto della particolare disciplina legale cui può essere assoggettato, ed è

principio consolidato in giurisprudenza quello per cui “non è l’oggetto dell’attività che determina il

discrimine tra ente pubblico non economico, ente pubblico economico ed azienda speciale, ma la

struttura giuridica ed il modo in cui l’ente esercita la propria attività” .

Peraltro, l’obbligo di rispettare i principi – anche di derivazione comunitaria – di trasparenza,

pubblicità e imparzialità, non implica l’esercizio di pubblici poteri: le connotazioni pubblicistiche

che caratterizzano una società per azioni a partecipazione pubblica, pertanto, non incidono in alcun

modo sulla sua natura privatistica ed essa rimane, in assenza di specifiche deroghe, integralmente

assoggettata alla normativa di diritto privato alla stregua di tutte le altre società per azioni private.

Per le società per azioni eventualmente partecipate da un ente pubblico, è lo Stato medesimo che si

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assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza

di forme e nuove possibilità realizzatrici, per cui la scelta della Pubblica Amministrazione di

acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della

forma giuridica prescelta.

Ne consegue che, in difetto di norme esplicite che introducano deroghe puntuali, è ai principi

generali e alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo.

In questo senso, d’altronde, si è recentemente pronunciata anche la Corte di Cassazione: “in materia

di appalti pubblici, la responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003,

esclusa per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, è,

invece, applicabile ai soggetti privati (nella specie Trenitalia s.p.a., società partecipata pubblica),

assoggettati, quali “enti aggiudicatori” al codice dei contratti pubblici. Tale differente

regolamentazione non viola l’art. 3 Cost. in ragione della diversità delle situazioni a confronto, non

incontrando i privati imprenditori alcun limite nella scelta del contraente, laddove nelle procedure di

evidenza pubblica la tutela del lavoratore è assicurata sin dal momento della scelta suddetta, né

limita l’iniziativa economica dei privati imprenditori per l’aggravio di responsabilità, non essendo

precluso al legislatore modulare le tutele dei lavoratori in rapporto alla diversa natura dei

committenti” .

Invero, il Supremo Collegio aveva già sostenuto “…la inapplicabilità del D. Lgs. n. 276 del 2003,

art. 29, comma 2, ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni ed il principio di

diritto è stato poi ribadito, in motivazione, dalle recenti sentenze 23.5.2016 n. 10664 e 24.5.2016 n.

10731, con le quali, peraltro, si è escluso che detto principio potesse essere esteso anche alle società

di diritto privato tenute al rispetto della procedura di evidenza pubblica” .

L’orientamento era già proprio del Tribunale di Milano che aveva avuto modo di osservare come,

“a prescindere da ogni questione relativa all’interpretazione e portata dell’art. 1, comma 2, del D.

Lgs. n.276/03 (“il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il

loro personale”) e da ogni questione relativa alla natura interpretativa o meno dell’art. 9, comma 1,

del D.L. n. 76/2013 (secondo cui le norme dell’art. 29, comma 2, del D. Lgs. n. 276/03 “non

trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di

cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165”), appare risolutiva la

considerazione che Ferservizi s.p.a. non è una pubblica amministrazione e non rientra nelle

amministrazioni pubbliche elencate all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001. A tal fine non

assume alcun rilievo il fatto che Ferservizi s.p.a. sia tenuta ad applicare le norme di evidenza

pubblica in materia di appalti” .

6. Brevi considerazioni conclusive.

Dei fenomeni giuridici il Giudice conosce solo la patologia. Questa, d’altronde, è la funzione che

l’ordinamento demanda all’Autorità Giudiziaria: dirimere le controversie, risolvere i conflitti,

ricondurre la regolazione dei rapporti a un sistema improntato alla legalità. La prospettiva

dell’organo giudicante è, quindi, sicuramente parziale e diversa da quella degli operatori del mercato

che, conoscendo coerenza e patologia, occupano una posizione privilegiata nella valutazione del

rapporto tra efficienza e disfunzioni del sistema.

Nelle aule giudiziarie, il fenomeno in esame si caratterizza per un progressivo e oltremodo

significativo incremento delle vicende disfunzionali, del radicarsi di un meccanismo che sta

elevando la patologia a sistema: una realtà che sta assumendo dimensioni tali da far quasi presumere

che il futuro potrà essere caratterizzato da una progressiva re-internalizzazione dei servizi e delle

attività.

Sotto il profilo prettamente economico e sociologico, prima ancora che giuridico, la diffusione del

fenomeno delle esternalizzazioni sembrerebbe destinato a consolidare due fondamentali effetti

negativi.

Il primo è la trasformazione dell’imprenditore datore di lavoro nell’imprenditore committente, in un

soggetto che nella gestione delle proprie attività non può più avvalersi in via diretta degli strumenti

del rapporto di lavoro, ma deve intervenire in via mediata dialogando – secondo le regole comuni in

materia di contratti – con una o più controparti terze. In questa prospettiva, il meccanismo

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dell’esternalizzazione determina un’inevitabile soluzione di continuità nella linea gerarchica, e

impedisce l’esercizio diretto dei più tipici poteri del rapporto di lavoro subordinato.

Il secondo è il radicarsi di una concorrenza alterata che, nel privilegiare il meccanismo del ribasso,

tende a escludere dal mercato soggetti affidabili e virtuosi, per favorire soggetti che spesso si

rivelano sfuggenti ed effimeri: operatori che spariscono dal mercato e dalle aule giudiziarie lasciando

agli obbligati solidali, committenti e subappaltatori, l’onere di adempiere alle obbligazioni che gli

sono proprie. Ne consegue un’inevitabile duplicazione degli oneri economici.

Dagli obbligati solidali, il meccanismo delineato dall’art. 29 D. Lgs. 276/2003 nella sua versione

“intermedia” è stato spesso guardato con favore nella sua essenza di strumento destinato a incidere

in modo significativo sui tempi di definizione delle controversie, allontanando il momento della

eventuale esecuzione a carico del responsabile solidale.

È una prospettiva che non convince.

Il complicarsi degli incombenti e l’allungarsi dei tempi delle vicende processuali è destinato, sul

medio e lungo periodo, a determinare un esponenziale incremento dei costi che dovranno essere

affrontati dagli obbligati solidali: costi che saranno tanto più elevati, quanto più lunga e faticosa si

rivelerà la vicenda giudiziaria; costi che, infine, non potranno essere recuperati.

La soluzione deve essere ricercata a monte, e non può che essere di politica economica.

Si tratta di riattivare il meccanismo di quella concorrenza funzionale che privilegia l’affidabilità e la

correttezza, l’eccellenza non il prezzo, e che esclude dal mercato soggetti che operano al di sotto

della soglia di sostenibilità, riversando i propri rischi su controparti contrattuali e lavoratori. Si tratta

di attivare meccanismi rigorosi di controllo in ordine alla correttezza della gestione da parte degli

appaltatori dei rapporti di lavoro; prevedere strumenti economici di tutela e garanzia che

consentano agli obbligati solidali di agire in prevenzione a fronte dell’inadempimento altrui,

evitando il contenzioso o precostituendosi condizioni che possano favorire la soluzione conciliativa

delle controversie.

Con la risoluzione 11 luglio 2007, “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del

XXI secolo”, il Parlamento Europeo affermava che il “sistema di responsabilità congiunta e solidale

dei contraenti principali nei confronti degli obblighi dei loro subappaltatori incoraggia i contraenti

principali a garantire il rispetto della legislazione del lavoro da parte dei loro partner commerciali”.

In questa prospettiva deve guardarsi all’ultima novella dell’art. 29, co. 2, D. Lgs. 273/2003, ossia

quella introdotta dall’art. 2, co. 1, lett. a) e b), del D.L. 25/2017 convertito, senza modificazioni,

dalla Legge 49/2017.

Nell’eliminare il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma secondo (“il committente

imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore

e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può

eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore

medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di

tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente

imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e

degli eventuali subappaltatori”), l’intervento normativo parrebbe aver restituito alla norma, nel

rispetto dei contrapposti interessi, il necessario equilibrio tra i differenti rapporti di forza,

stimolando un recupero della responsabilizzazione del contraente.

D’altronde, l’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva

poiché, come opportunamente osservato, “il principio fondante dell’art. 29 d.lg. n. 276 del 2003

consiste nell’introdurre la responsabilità di chi abbia in concreto beneficiato della prestazione

lavorativa” per fare impresa.

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Le novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico

impiego dalla riforma Madia (d.lgs. n.75 del 2017 e n.118 del

2017)

Di Vito Tenore

Consigliere della Corte dei Conti

1. Le recenti modifiche al procedimento disciplinare apportate dai d.lgs. n.75 del 2017 e n.118 del

2017.

Alcuni recenti studi hanno approfondito il complesso tema del procedimento disciplinare nel

pubblico impiego, tematica centrale nell’azione degli ultimi Governi per un recupero etico-

comportamentale all’interno della pubblica amministrazione.

Crescenti, e non lievi, fenomeni di malcostume e di illegalità all’interno della P.A. hanno dunque

spinto, anche l’attuale Governo, ad inasprire i trattamenti punitivi interni per alcune condotte, a

snellire l’iter procedimentale, a favorire la specializzazione punitiva, ad attenuare i rischi di

annullamenti delle sanzioni per vizi meramente formali.

Tale percorso, già intrapreso dal Ministro Brunetta con la nota riforma del d.lgs. n.150 del 2009 , è

stato proseguito dal Ministro Madia con il più ampio d.lgs. 25 maggio 2017 n.75 (in G.U. 7 giugno

2017, testo attuativo della legge delega 7 agosto 2015 n.124) entrato in vigore il 22 giugno 2017, e

con il più settoriale d.lgs. 20 luglio 2017 n. 118 che ha apportato lievi modifiche al d.lgs. n.116 del

2016 sui c.d. “furbetti del cartellino”.

Molte critiche alla iniziale bozza di decreto Madia circolata a febbraio 2017, mosse a livello

scientifico (es. sulla improvvida trasformazione in ordinatori di tutti i termini del procedimento

disciplinare e sulla riduzione a soli 90 gg. del termine finale per la chiusura del procedimento),

hanno indotto, anche sulla scorta di un accurato parere del Consiglio di Stato sul decreto , ad una

felice rimeditazione del legislatore delegato, che ha così partorito in Gazzetta Ufficiale un testo più

equilibrato e sostanzialmente condivisibile .

Queste le principali novità apportate dal d.lgs. n.75 del 2017 e dal d.lgs. n.118 del 2017 (correttivo

del d.lgs. n.116 del 2016) al d.lgs. n.165 del 2001:

a) è stato felicemente modificato nell’art. 55-bis, co.1, d.lgs. n. 165 del 2001 il riparto di competenze

tra capi-struttura ed U.P.D., attribuendo nuovamente ai capi-struttura, anche se non rivestano

qualifica dirigenziale , la sola sanzione minimale, ristretta al solo richiamo verbale (secondo le

modalità procedurali fissate dal CCNL), assegnando la competenze su tutte le restanti all’U.P.D.

La modifica è dettata dalla presa d’atto che i capi struttura per ragioni varie (non adeguata

competenza e specializzazione nella complessa materia; estrazione non giuridica di molti di essi;

vicinitas fisica con l’incolpato; pavidità e buonismo dettati dalla contiguità con il subordinato) non

esercitano (pur essendo tali inerzie gestionali punibili, ma spesso solo sulla carta) o mal esercitano

l’azione disciplinare, con frequenti contenziosi che vedono la P.A. soccombente, o, in altri casi,

infliggono sanzioni troppo blande. L’U.P.D., invece, ha maggior competenza tecnica derivante da

adeguata selezione del personale, maggior specializzazione e garantisce maggiore uniformità

valutativa (prevenendo contenziosi per disparità di trattamento tra casi eguali), avendo una visione

centralistica sull’intero ente e, soprattutto, garantisce più terzietà con un maggior distacco “fisico”

dall’incolpato (garanzia di serenità e indipendenza di giudizio), essendo struttura operante a livello

centrale e, come tale, non vicina al lavoratore.

Ad ulteriore garanzia di terzietà e competenza tecnica degli U.P.D. non è da escludere, in futuro,

l’introduzione, ope legis, di un componente esterno, magistrato o avvocato, come felicemente

avvenuto nei regimi disciplinari delle libere professioni ad opera del d.P.R. 7 agosto 2012 n.137 . In

assenza di tale auspicabile copertura legislativa, in via amministrativa ci sembrerebbe una mossa

azzardata (che espone a danni erariali), ex art.7, d.lgs. n.165, fare questa scelta sin da oggi, avendo la

p.a. adeguate competenze interne ostative ad incarichi esterni remunerati.

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Tuttavia, è già oggi praticabile la scelta di gestioni comuni con un unitario U.P.D. al servizio di più

amministrazioni: l’art. 55-bis, co. 3, d.lgs. n. 165, introdotto dal d.lgs. n.75 del 2017, recependo un

nostro auspicio , prevede testualmente la possibilità di convenzionamenti tra enti (non

necessariamente dello stesso Comparto a nostro avviso) per la “gestione unificata delle funzioni”

dell’U.P.D. Va dunque fortemente incoraggiata la creazione di U.P.D. unitari territoriali, con

composizione promiscua, al servizio di più amministrazioni , al fine di valorizzare la terzietà

decisoria, la specializzazione in materia e, soprattutto, per aiutare enti di piccole dimensioni privi di

personale, oppure dove la vicinitas tra incolpato e giudicante interno pone conflitti di interesse o

porta ad inerzie o buonismi decisionali.

Va ben sottolineato che la novella Madia, nell’attribuire una quasi esclusiva competenza degli

U.P.D. in materia, impone di fatto un forte potenziamento di tali uffici, il cui organico andrebbe se

non decuplicato (per enti di maggiori dimensioni, quali Ministeri e grandi enti pubblici) almeno

raddoppiato: altrimenti si correrà il rischio che il poderoso carico di lavoro, un tempo decentrato tra

centinaia di capi-struttura, ed oggi concentrato su questo unitario ufficio, porterà a sistematici

sforamenti dei tempi procedimentali perentori.

Inoltre, tutti i capi struttura, anche quelli privi di qualifica dirigenziale (art.55-bis, co.1 e 4), vanno

resi edotti, con idonea attività formativa, che permane in capo agli stessi un obbligo di segnalazione

all’U.P.D. di illeciti su cui non abbiano potestà punitiva, la cui omissione, al pari delle inerzie (o

lentezze) disciplinari o i buonismi punitivi degli U.P.D., assumono valenza disciplinare (e di

responsabilità dirigenziale) che l’art.55-sexies, co.3 novellato dal d.lgs. n.75 ha inasprito.

Va segnalata poi una anomalia: solo per il comparto Scuola, l’art.55-bis, co.9-quater attribuisce al

dirigente scolastico (soggetto in verità già oberato di incombenze davvero onerose e privo di

adeguate conoscenze giuridiche, stante la sua estrazione umanistica o tecnica) la competenza

all'irrogazione di sanzioni, maggiori del richiamo verbale, ovvero fino alla sospensione dal servizio

con privazione della retribuzione per dieci giorni. Solo se il responsabile della struttura non ha

qualifica dirigenziale, o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi di quella

suddetta, il procedimento disciplinare si svolge dinanzi all'Ufficio competente per i procedimenti

disciplinari. La scelta, invero opinabile, è frutto verosimilmente dell’esigenza di decentrare la potestà

punitiva nella vasta amministrazione scolastica, connotata da Istituti scolastici che godono di

autonomia.

b) I termini procedimentali per le sanzioni di competenza dell’U.P.D. sono stati unificati e ritoccati,

stabilendo un termine di 10 giorni (e non più 5) per il capo-struttura (anche non dirigente) per

segnalare i fatti all’U.P.D., un successivo termine di 30 giorni (non più 40 come nella previgente

formulazione) dalla conoscenza (piena) dei fatti per notificare (atto recettizio) la contestazione degli

addebiti, un termine dilatorio di 20 giorni per l’audizione e un termine di 120 giorni (non già 90,

come nella bozza di decreto circolata a febbraio 2017) per la adozione della sanzione (atto non

recettizio).

In base all’art.55-bis, co.1, alle infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale si applica

invece la disciplina stabilita dal contratto collettivo, che, nell’attuale silente regolamentazione,

dovrebbe ricalcare, in forma semplificata, il regime dell’U.P.D.

Inoltre, assai opportunamente , il termine di 120 giorni assegnato dall’art. 55-bis, co. 4, d.lgs. n. 165

all’U.P.D. per chiudere il procedimento disciplinare non è più ancorato, come in passato, alla

pregressa conoscenza dell’illecito da parte del capo-struttura (che aveva 5 gg. per segnalarlo

all’U.P.D., termine ordinatorio oggi elevato a 10 gg.), ma da una data più certa e chiara, ovvero dalla

(notifica della) contestazione degli addebiti fatta dall’U.P.D. al lavoratore nel suddetto termine di 30

giorni dalla conoscenza dei fatti. La modifica è stata ritenuta necessaria per evitare che, nel

pregresso regime, tardive segnalazioni all’U.P.D. da parte di abulici capi-struttura che sforassero i 10

(un tempo 5) giorni ordinatori di legge potessero restringere troppo il tempo (120 gg.) di cui

dispone l’U.P.D. per complesse istruttorie.

Il regime resta invece “accelerato” (48 ore per la notifica della contestazione degli addebiti e 30

giorni per la chiusura del procedimento) non solo nei casi previsti dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116

sui “furbetti del cartellino” come integrato dal d.lgs. 20 luglio 2017 n.118 (ovvero quelli dell’art. 55-

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quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165), ma anche, in base al novello art. 55-quater, co.3, nei casi in

cui le condotte punite con il licenziamento siano accertate in flagranza. Da rimarcare che

l’accertamento della falsa presenza in servizio viene testualmente ritenuta accertabile ”in flagranza

ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi e delle presenze”, così

dandosi ulteriore conferma dell’utilizzo di videocamere di sorveglianza a fini disciplinari .

c) Tali termini procedimentali, come in passato, restano di regola ordinatori, salvo il termine iniziale

per la notifica della contestazione degli addebiti (30 gg. dalla conoscenza piena-protocollazione ) e

quello finale per l’adozione della sanzione (120 gg. dalla contestazione), che conservano assai

opportunamente natura perentoria, come da noi auspicato e come confermato in sede consultiva

dal Consiglio di Stato . I soli termini infraprocedimentali, tra cui quello in capo al capo-struttura per

segnalare all’U.P.D. i fatti, restano quindi ordinatori, ferma restando la regola generale di

tempestività da osservare , che risulterebbe violata da dilazioni smodate e irragionevoli anche di

termini ordinatori, come ribadito dal novello art.55-bis, co.9-ter introdotto dal d.lgs. n.75 .

La versione finale del d.lgs. n.75 del 2017 116, ribadendo il previgente regime, ha così scongiurato,

assai opportunamente, il rischio di trasformare (improvvidamente) in ordinatorio anche il termine

iniziale e quello finale come aveva infelicemente previsto la “bozza” di decreto “Madia” circolata a

febbraio 2017 e da noi aspramente stigmatizzata : tale trasformazione avrebbe reso nella p.a. di fatto

“canzonatori” i termini iniziali e finali, a causa della consueta allegra e abulica gestione indolente dei

tempi procedimentali ordinatori (foriera di contenziosi) da parte dei dirigenti pubblici, che

necessitano invece di “certezze” temporali, garantite dalla perentorietà.

Restano invece opportunamente ordinatori gli assai ristretti termini iniziale e finale del

procedimento “accelerato” per i furbetti del cartellino (art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165)

e per gli autori di condotte punite con il licenziamento e accertate in flagranza (art. 55-quater, co.3).

Tuttavia, l’art.55-quater, co.3-ter precisa che non va comunque superato, per la conclusione, il

termine massimo e perentorio di 120 giorni dalla contestazione, chiarendo che “La violazione dei

suddetti termini, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non

determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'invalidità della sanzione irrogata, purchè non

risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il

termine per la conclusione del procedimento di cui all'articolo 55-bis, comma 4”.

d) Nell’art.55-quater sono state inserite, sia dal d.lgs. n.116 del 2016 che dal d.lgs. n.75 del 2017,

nuove ipotesi di licenziamento disciplinare per:

f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell'articolo 54, comma 3;

f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'articolo 55-sexies, comma

3;

f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia

determinato l'applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo

complessivo superiore a un anno nell'arco di un biennio;

f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la

prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o

individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante

valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a

tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009.

Va comunque rimarcato che tali ipotesi di licenziamento vanno lette alla luce del generale e

prevalente principio di proporzionalità punitiva, che potrebbe consentire, a fronte di manifestazioni

più tenui di tali illeciti, di infliggere anche sanzioni conservative, pur a fronte di un dato testuale che

sembra imporre in via esclusiva il licenziamento.

e) Sono state inasprite le pene che, in ossequio al principio di proporzionalità, possono giungere

anche al licenziamento:

- sia in caso di violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbia determinato la

condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, evenienza per la quale si potrà infiggere

una sanzione anche più elevata della previgente massima sospensione dal servizio fino a tre mesi

(art.55-sexies, co.1);

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- sia in caso di dolose o gravemente colpose (v.art.55-quater, co.1, lett.f-ter) inerzie (o lentezze con

sforamento di termini) disciplinari o buonismi punitivi (archiviazioni immotivate) degli U.P.D., o

omesse segnalazioni dei capi-struttura, che assumono oggi maggior valenza punitiva rispetto alla

previgente sospensione dal servizio fino a tre mesi (oltre a poter configurare una responsabilità

dirigenziale) in base all’art.55-sexies, co.3 novellato dal d.lgs. n.75.

f) Nell’art.55-quinquies, al fine di proseguire il percorso intrapreso sul piano legislativo nella lotta

all’assenteismo ed alle finte malattie vicine a giorni feriali (venerdi e lunedi, come è noto), è stato

introdotto un comma 3-bis, che demanda ai contratti collettivi nazionali l’individuazione delle

condotte e delle corrispondenti sanzioni disciplinari con riferimento alle ipotesi di ripetute e

ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale,

nonchè con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è

necessario assicurare continuità nell'erogazione dei servizi all'utenza.

g) Sempre nel percorso normativo di lotta ai “furbetti del cartellino”, è stato ampliato dal d.lgs.

n.118 del 2017 da 120 a 150 giorni dalla denuncia il termine riconosciuto nell’art.55-quater, co.3-

quater, d.lgs. n.165 alla Procura Corte dei Conti per intraprendere l’azione di responsabilità anche

per danno all’immagine della p.a., sulla cui introduzione nei decreti attuativi della riforma Madia il

Consiglio di Stato ha mostrato serie perplessità .

h) E’ stato opportunamente chiarito, attraverso la novella all’art.63, co.2-bis del d.lgs. n.165 ad

opera del d.lgs. n.75 del 2017, che in sede di impugnativa di sanzioni disciplinari, il giudice, qualora

ravvisi un difetto di proporzionalità della sanzione inflitta dalla P.A. al proprio dipendente, può egli

stesso sostituire, anche senza domanda di parte, la sanzione eccessiva con quella proporzionata (in

melius e non in peius), convertendola in ossequio al principio di proporzionalità. Tale scelta

legislativa ci sembra preferibile alla ipotizzata, ma più complessa, alternativa di demandare, dopo il

mero annullamento della sanzione sproporzionata da parte del giudice, alla stessa P.A. il riesercizio

dell’azione punitiva emendata dal vizio riscontrato dal giudice (soluzione proposta nella bozza di

decreto “Madia” di febbraio 2017, criticata dal Consiglio di Stato ).

La felice novella, che chiude un antico dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla possibilità o

meno di conversione giudiziale della sanzione sproporzionata , serve ad evitare che dopo

l’annullamento per sproporzione punitiva da parte del giudice, a fronte comunque di fatti di

inequivoca valenza disciplinare, la statuizione meramente “demolitoria” del giudicante impedisca

alla p.a.-datrice il riesercizio dell’ormai consumato (anche per scadenza dei termini perentori e

tenuto conto del ne bis in idem) potere disciplinare: con la felice soluzione legislativa si attribuisce

al giudice il potere di equa rideterminazione punitiva in materia.

i) Sempre in materia di poteri decisori del giudice, il d.lgs. n.75 ha poi novellato l’art.63, co.2 del

d.lgs. n.165 statuendo che “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il

licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al

pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il

calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino

a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro

mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Il datore di lavoro e' condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi

previdenziali e assistenziali”.

La norma, da un lato, recepisce e dà un imprimatur legislativo all’indirizzo giurisprudenziale volto

ad escludere il regime sostanziale delle c.d. tutele crescenti della riforma Fornero (l.28 giugno 2012

n.92, che modifica l’art.18, St.lav.) , riconoscendo al lavoratore pubblico la sola e preesistente tutela

reale in caso di illegittimo licenziamento. Ma, nel contempo, fissa sia un tetto alla ricostruzione

retributiva, sia l’obbligo di valutazione, a scomputo, di quanto aliunde perceptum durante l’assenza

“coartata” dal lavoro.

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j) Ancora in materia di poteri decisori del giudice del lavoro, è stato chiarito nel novello art.55-bis,

co.9-ter, d.lgs. n.165, a fronte di frequenti censure di avvocati su profili meramente formali della

procedura disciplinare, che “La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento

disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del

dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne'

l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purchè non risulti irrimediabilmente compromesso il

diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione

della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il

principio di tempestività”. Dunque, alla luce di tale testuale dequotazione normativa dei vizi formali

(già statuita per i procedimenti amministrativi dall’art.21-octies della legge n.241 del 1990), il giudice

valuterà se gli stessi (es.sforamento di termini ordinatori o dilatori, errori procedurali etc.) abbiano o

meno un effetto invalidante sulla sanzione a seconda della sussistenza o meno della violazione del

diritto alla difesa e del generale principio di tempestività .

k) Sono state poi effettuate diverse limature procedurali:

k.1) all’art.55-bis, co.8 è stata meglio normata la potestà punitiva nei confronti del personale

trasferito (in mobilità o in comando), stabilendosi che “In caso di trasferimento del dipendente in

pendenza di procedimento disciplinare, l'ufficio per i procedimenti disciplinari che abbia in carico

gli atti provvede alla loro tempestiva trasmissione al competente ufficio disciplinare

dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito. In tali casi il procedimento disciplinare e'

interrotto e dalla data di ricezione degli atti da parte dell'ufficio disciplinare dell'amministrazione

presso cui il dipendente è trasferito decorrono nuovi termini per la contestazione dell'addebito o

per la conclusione del procedimento. Nel caso in cui l'amministrazione di provenienza venga a

conoscenza dell'illecito disciplinare successivamente al trasferimento del dipendente, la stessa

Amministrazione provvede a segnalare immediatamente e comunque entro venti giorni i fatti

ritenuti di rilevanza disciplinare all'Ufficio per i procedimenti disciplinari dell'amministrazione

presso cui il dipendente è stato trasferito e dalla data di ricezione della predetta segnalazione

decorrono i termini per la contestazione dell'addebito e per la conclusione del procedimento. Gli

esiti del procedimento disciplinare vengono in ogni caso comunicati anche all'amministrazione di

provenienza del dipendente»;

k.2) nell’art.55-bis, co.4 novellato, nel ribadirsi che il responsabile della struttura presso cui presta

servizio il dipendente, “segnala immediatamente, e comunque entro dieci giorni, all'ufficio

competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto

conoscenza”, è stato eliminato il previgente obbligo (contenuto nel vecchio comma 3 dell’art.55-

bis) di comunicare all’interessato l’avvenuta segnalazione all’U.P.D.: trattavasi di incombente inutile

già nel previgente testo, in quanto il pieno contraddittorio è comunque garantito innanzi all’U.P.D.

e la mancata comunicazione all’interessato non aveva dunque un effetto invalidante, come chiarito

dalla Cassazione .

l) Circa i rapporti tra procedimento penale e procedimento penale, la novella del d.lgs. n.75 del

2017, nel lasciare fermo il previgente regime (art.55-ter, d.lgs. n.165) che ha di regola superato la

pregiudiziale penale, lasciando quest’ultima come eccezione qualora i fatti addebitati sia

oggettivamente complessi , ha però previsto che l’azione disciplinare sospesa possa essere riattivata,

come avevamo in via interpretativa prospettato nel nostro studio , anche prima del giudicato penale,

qualora sopravvenuti elementi probatori, tra i quali la sentenza penale di merito (di primo o

secondo grado), siano sufficienti secondo l’U.P.D. a supportare sul piano probatorio l’azione

disciplinare. La parte finale del novello primo comma dell’art.55-ter recita infatti “Fatto salvo

quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora

l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento,

ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di

adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.

m) Sempre in punto di rapporti tra azione disciplinare ed azione penale, la novella del d.lgs. n.75 del

2017 modifica i termini per la riattivazione e sospensione nelle tre evenienze delineate dall’art.55-

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ter, d.lgs. n.165: in precedenza l’U.P.D. disponeva di 60 giorni dalla comunicazione della sentenza

penale per la riattivazione e di 180 giorni da tale riattivazione per la chiusura. Mentre ora il secondo

termine è ridotto agli ordinari 120 giorni del procedimento generale, che decorrono integralmente e

nuovamente . Recita infatti il novello art.55-ter, co.4, che “Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il

procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto, mediante rinnovo della

contestazione dell'addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della

cancelleria del giudice, all'amministrazione di appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento

dell'istanza di riapertura. Il procedimento si svolge secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis con

integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la conclusione dello stesso”.

n) Con la novella del d.lgs. n.75 all’art.55-bis, co.4 del d.lgs. n.165 è stato attribuito all’Ispettorato

della Funzione pubblica il monitoraggio sul funzionamento del procedimento disciplinare e delle

misure cautelari: sia su esiti disciplinari che su archiviazioni (attività in parte già svolta in passato da

tale organo ), oltre che sulle sospensioni cautelari. Il problema, che resta irrisolto, è quello delle

inerzie disciplinari, ovvero le mancate iniziative che, in quanto tali, non vengono segnalate

all’Ispettorato. Sarebbe stato forse opportuno estendere tale monitoraggio, che potrebbe essere

svolto anche dalle Sezioni controllo della Corte dei Conti, anche alle sentenze definitive civili,

penali, contabili, amministrative e tributarie che vedano soccombente la P.A. o condannati pubblici

dipendenti. Tali monitoraggi servono per verificare se vi sia poi stato un seguito disciplinare

all’interno dell’amministrazione nei confronti degli autori del danno risarcito dalla P.A., dell’atto o

del contratto annullato, della cartella esattoriale annullata, o del soggetto destinatario di condanna

penale o giuscontabile. Tra i soggetti da coinvolgere (con opportuni raccordi con Corte dei Conti e

Ispettorato della Funzione Pubblica) in tale delicato e atomistico riscontro, andrebbero inserite

anche l’ANAC, le avvocature interne e l’Avvocatura dello Stato, che hanno un capillare

monitoraggio di tutti i contenziosi riguardanti il proprio ente, o comunque presso le pubbliche

amministrazioni.

o) In punto di regime transitorio, infine, l’art.22, co.13 del d.lgs. n.70, statuisce che “Le disposizioni

di cui al Capo VII si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata

in vigore del presente decreto”. Trattasi di disposizione ispirata ai noti principi sulla successione

delle norme afflittive nel tempo, già ben recepiti nella Circolare 27 novembre 2009 n. 9 del Ministro

per la p.a. e l’innovazione allorquando fu adottata la riforma Brunetta del 2009.

2. Ulteriori possibili interventi correttivi non recepiti nel d.lgs. n.75 del 2017. Le imminenti

modifiche da parte della contrattazione collettiva.

Nel testo del decreto n.75 del 2017 si è invece persa l’occasione per apportare qualche ulteriore

rilevante correttivo alla regolamentazione del procedimento disciplinare contenuta nel d.lgs. n.165

del 2001. In particolare, come avevamo rimarcato nel nostro Studio sul procedimento disciplinare:

a) l’attuale obbligo di segnalare fatti di valenza disciplinare desunti da sentenze penali (ivi comprese

quelle assolutorie), sancito dall’art. 154-ter, disp.att.c.p. (d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271) introdotto

dall’art. 70 del d.lgs. n. 150 del 2009, non andrebbe posto più a carico della Cancelleria del giudice

che ha pronunciato una sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di

un’amministrazione pubblica, pur se non irrevocabile, ma andrebbe più coerentemente imposto al

giudice estensore, unico ad aver letto le carte e riscontrato i fatti, ed unico in grado di capire se la

sentenza riguardi un pubblico dipendente.

La modifica appare necessaria in quanto non può essere imposta al Cancelliere di un Ufficio

giudiziario (Tribunale, Corte d’Appello o Cassazione, ma lo stesso vale per le magistrature speciali)

la lettura integrale di tutte le sentenze depositate nel proprio ufficio da decine di giudici per cogliere

eventuali profili di illecito disciplinare da segnalare all’amministrazione di appartenenza di una delle

parti del processo: tale accertamento può ben farlo, e assai agevolmente (poche righe nel

dispositivo), l’estensore della sentenza, che ha letto le carte, ha valutato i fatti e conosce la qualifica

di pubblico dipendente dell’imputato o della parte in causa che ha giudicato.

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E tale obbligo gravante sul giudice estensore non andrebbe limitato alle sentenze penali di

condanna, ma andrebbe esteso anche a quelle assolutorie “perche il fatto non costituisce illecito

penale” o di prescrizione, che evidenzino comunque profili disciplinari del dipendente giudicato.

Ma la stessa regola andrebbe estesa ai pronunciamenti dei giudici amministrativi, contabili, militari e

tributari, qualora nel depositare la propria sentenza ravvisino profili di responsabilità disciplinare in

capo a funzionari pubblici coinvolti nel proprio giudizio. Identico obbligo di segnalazione

all’U.P.D. potrebbe essere imposto alle Avvocature interne e all’Avvocatura dello Stato, che hanno

un monitoraggio capillare di tutte le sentenze, civili, penali, contabili, tributarie, relative ad enti

pubblici, dalle quali desumere condotte colpose o dolose di dipendenti nei campi più vari.

Nulla sul punto ha purtroppo previsto la novella del d.lgs. n.75 del 2017 al d.lgs. n. 165.

b) Parimenti andrebbe quanto prima corretta la assai opinabile previsione del cennato art. 154-ter,

disp.att.c.p. che attualmente impone alle Cancellerie penali di comunicare il solo dispositivo della

sentenza all’amministrazione di appartenenza del dipendente e, se richiesto da quest’ultima, di

trasmettere copia integrale del provvedimento. Trattasi di inutile doppia trasmissione, avendo

l’amministrazione necessità da subito dell’intera sentenza (di condanna ma anche assolutoria che

contenga aspetti di rilevanza interna) per trarne profili di eventuale valenza disciplinare che,

ovviamente, il solo dispositivo non evidenzia assolutamente. Anche su questo punto la novella al

d.lgs. n. 165 apportata dal d.lgs. n.75 del 2017 è rimasta silente.

c)Andrebbe corretta l’anomala procedura “accelerata” dell’art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n.

165 (introdotta dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116 sui “furbetti del cartellino” come integrato dal d.lgs.

20 luglio 2017 n.118) nella parte in cui attribuisce il potere-dovere di contestazione degli addebiti

non già in capo all’U.P.D., ma al capo-struttura in 48 ore dalla conoscenza dei fatti, e la successiva

competenza dell’U.P.D. per la sanzione espulsiva. Riteniamo che, essendo materia che dà luogo a

licenziamento (o, comunque, a sanzione diversa dal mero richiamo verbale), la competenza a

contestare gli addebiti dovrebbe essere riconosciuta all’U.P.D. (su tempestiva segnalazione del capo-

struttura), anche per coerenza con il potere istruttorio e decisorio allo stesso attribuito.

Da ultimo, a chiusura di queste brevi riflessioni, va ricordato che sono in corso le procedure di

rinnovo contrattuale per i lavoratori pubblici.

L’Aran e la controparte sindacale dovranno fatalmente recepire, sul piano sostanziale e procedurale,

i numerosi mutamenti legislativi intervenuti negli ultimi anni in materia disciplinare, configuranti

norme imperative non derogabili sul piano negoziale. E ciò in ossequio ai (pluri) novellati art.2, 40 e

55 segg. del d.lgs. n.165 del 2001 che, sul piano della gerarchia delle fonti lavoristiche, sanciscono in

primo luogo che “La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali

e si svolge con le modalità previste dal presente decreto. Nelle materie relative alle sanzioni

disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio,

della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge”

(art.40, co.1). E proprio la legge, in particolare l’art.55, co.1, chiarisce che “Le disposizioni del

presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai

sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai

rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di

cui all'articolo 1, comma 2”.

Inoltre il novello art.55-bis, co.9-bis, d.lgs. n.165 introdotto dal d.lgs. n.75, ribadisce che “Sono

nulle le disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne, comunque

qualificate, che prevedano per l'irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o procedurali

ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il procedimento

disciplinare”.

Infine, l’art.2, co.2 e co.3-bis, esplicita che “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni

pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle

leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel

presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di

legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di

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lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di

essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'articolo

40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o

accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili [, solo qualora

ciò sia espressamente previsto dalla legge]” (co.2) e “Nel caso di nullità delle disposizioni

contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione collettiva, si

applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile” (co.3-bis).

Tra gli interventi più attesi nell’imminente CCNL vi è la regolamentazione procedurale e temporale

del procedimento di competenza del capo-struttura teso alla inflizione del richiamo verbale, che il

d.lgs. n.165 demanda alla contrattazione. Sarebbe opportuno a nostro avviso snellire il

procedimento-tipo previsto per le sanzioni di competenza dell’U.P.D., dimezzando i termini (ad

esempio portando a 15 i giorni per la contestazione degli addebiti e a 60 i giorni per la chiusura del

procedimento) e consentendo una più snella formulazione della pur necessaria verbalizzazione della

sanzione inflitta non già ad substantiam, ma ad probationem, per lasciare traccia cioè della sanzione

inflitta (inserendola nel fascicolo personale del lavoratore) per poter un domani contestare la

recidiva, di cui altrimenti si perderebbero i presupposti a fronte di richiami verbali non trasfusi in

un atto scritto (che, ovviamente, non trasforma, sul piano giuridico, la sanzione in un richiamo

scritto, chiarendo il capo-strutura nel corpo del testo che si tratta di richiamo verbale, trasfuso in

forma scritta a soli fini probatori).

DECRETO LEGISLATIVO 30 marzo 2001, n. 165 (in Suppl. ordinario n. 112 alla Gazz. Uff., 9

maggio, n. 106). - Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni

pubbliche (LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLA PA) (T.U. PUBBLICO IMPIEGO) dopo

le modifiche apportate dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 e dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come

modificato dall'articolo 2 del d.lgs. 20 luglio 2017 n. 118.

(articoli estratti)

ARTICOLO N.55

Responsabilità, infrazioni e sanzioni, procedure conciliative (1) (2)

Art. 55

1. Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono

norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice

civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle

amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2. La violazione dolosa o colposa delle

suddette disposizioni costituisce illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro

applicazione (3).

2. Ferma la disciplina in materia di responsabilita' civile, amministrativa, penale e contabile, ai

rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto

previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni e'

definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del

codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti

gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavoro.

3. La contrattazione collettiva non puo' istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti

disciplinari. Resta salva la facolta' di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di

conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali e' prevista la sanzione disciplinare del

licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla

contestazione dell'addebito e comunque prima dell'irrogazione della sanzione. La sanzione

concordemente determinata all'esito di tali procedure non puo' essere di specie diversa da quella

prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l'infrazione per la quale si procede e non e'

soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di

apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito

negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano

l'inizio e la conclusione.

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4. Fermo quanto previsto nell'articolo 21, per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi

degli articoli 55-bis, comma 7, e 55-sexies, comma 3, si applicano, ove non diversamente stabilito

dal contratto collettivo, le disposizioni di cui al comma 4 del predetto articolo 55-bis, ma le

determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di

incarico conferito ai sensi dell'articolo 19, comma 3.

(1) Articolo sostituito dall'articolo 68, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011, n.

9226.

(3) Comma modificato dall'articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

ARTICOLO N.55 bis

Forme e termini del procedimento disciplinare (1) (A)

1. Per le infrazioni di minore gravita', per le quali e' prevista l'irrogazione della sanzione del

rimprovero verbale, il procedimento disciplinare e' di competenza del responsabile della struttura

presso cui presta servizio il dipendente. Alle infrazioni per le quali e' previsto il rimprovero verbale

si applica la disciplina stabilita dal contratto collettivo (2).

2. Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell'ambito della propria

organizzazione, individua l'ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni

punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarita' e responsabilita'

(3).

3. Le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni

dell'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica

(4).

4. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, per le infrazioni per

le quali e' prevista l'irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale, il responsabile della

struttura presso cui presta servizio il dipendente, segnala immediatamente, e comunque entro dieci

giorni, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di

cui abbia avuto conoscenza. L'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con immediatezza

e comunque non oltre trenta giorni decorrenti dal ricevimento della predetta segnalazione, ovvero

dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza

disciplinare, provvede alla contestazione scritta dell'addebito e convoca l'interessato, con un

preavviso di almeno venti giorni, per l'audizione in contraddittorio a sua difesa. Il dipendente puo'

farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell'associazione sindacale cui

aderisce o conferisce mandato. In caso di grave ed oggettivo impedimento, ferma la possibilita' di

depositare memorie scritte, il dipendente puo' richiedere che l'audizione a sua difesa sia differita, per

una sola volta, con proroga del termine per la conclusione del procedimento in misura

corrispondente. Salvo quanto previsto dall'articolo 54-bis, comma 4, il dipendente ha diritto di

accesso agli atti istruttori del procedimento. L'ufficio competente per i procedimenti disciplinari

conclude il procedimento, con l'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro

centoventi giorni dalla contestazione dell'addebito. Gli atti di avvio e conclusione del procedimento

disciplinare, nonche' l'eventuale provvedimento di sospensione cautelare del dipendente, sono

comunicati dall'ufficio competente di ogni amministrazione, per via telematica, all'Ispettorato per la

funzione pubblica, entro venti giorni dalla loro adozione. Al fine di tutelare la riservatezza del

dipendente, il nominativo dello stesso e' sostituito da un codice identificativo (5) (B).

5. La comunicazione di contestazione dell'addebito al dipendente, nell'ambito del procedimento

disciplinare, e' effettuata tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente dispone di

idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. In alternativa all'uso della posta elettronica

certificata o della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale

con ricevuta di ritorno. Per le comunicazioni successive alla contestazione dell'addebito, e'

consentita la comunicazione tra l'amministrazione ed i propri dipendenti tramite posta elettronica o

altri strumenti informatici di comunicazione, ai sensi dell'articolo 47, comma 3, secondo periodo,

del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ovvero anche al numero di fax o altro indirizzo di posta

elettronica, previamente comunicati dal dipendente o dal suo procuratore (6).

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6. Nel corso dell'istruttoria, l'Ufficio per i procedimenti disciplinari puo' acquisire da altre

amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento.

La predetta attivita' istruttoria non determina la sospensione del procedimento, ne' il differimento

dei relativi termini (7).

7. Il [lavoratore] dipendente o il dirigente, appartenente alla stessa o a una diversa amministrazione

pubblica dell'incolpato [o ad una diversa], che, essendo a conoscenza per ragioni di ufficio o di

servizio di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso, rifiuta, senza

giustificato motivo, la collaborazione richiesta dall'Ufficio disciplinare procedente ovvero rende

dichiarazioni false o reticenti, e' soggetto all'applicazione, da parte dell'amministrazione di

appartenenza, della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della

retribuzione, commisurata alla gravita' dell'illecito contestato al dipendente, fino ad un massimo di

quindici giorni (8).

8. In caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un'altra amministrazione pubblica,

il procedimento disciplinare e' avviato o concluso e la sanzione e' applicata presso quest'ultima. In

caso di trasferimento del dipendente in pendenza di procedimento disciplinare, l'ufficio per i

procedimenti disciplinari che abbia in carico gli atti provvede alla loro tempestiva trasmissione al

competente ufficio disciplinare dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito. In tali casi

il procedimento disciplinare e' interrotto e dalla data di ricezione degli atti da parte dell'ufficio

disciplinare dell'amministrazione presso cui il dipendente e' trasferito decorrono nuovi termini per

la contestazione dell'addebito o per la conclusione del procedimento. Nel caso in cui

l'amministrazione di provenienza venga a conoscenza dell'illecito disciplinare successivamente al

trasferimento del dipendente, la stessa Amministrazione provvede a segnalare immediatamente e

comunque entro venti giorni i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare all'Ufficio per i procedimenti

disciplinari dell'amministrazione presso cui il dipendente e' stato trasferito e dalla data di ricezione

della predetta segnalazione decorrono i termini per la contestazione dell'addebito e per la

conclusione del procedimento. Gli esiti del procedimento disciplinare vengono in ogni caso

comunicati anche all'amministrazione di provenienza del dipendente (9).

9. La cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per

l'infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la

sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli

effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro (10).

9-bis. Sono nulle le disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne,

comunque qualificate, che prevedano per l'irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o

procedurali ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il

procedimento disciplinare (11).

9-ter. La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli

articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia

imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'invalidita' degli atti e della

sanzione irrogata, purche' non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del

dipendente, e le modalita' di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli

accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di

tempestivita'. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da

considerarsi perentori il termine per la contestazione dell'addebito e il termine per la conclusione

del procedimento (12).

9-quater. Per il personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le

istituzioni scolastiche ed educative statali, il procedimento disciplinare per le infrazioni per le quali e'

prevista l'irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione

per dieci giorni e' di competenza del responsabile della struttura in possesso di qualifica dirigenziale

e si svolge secondo le disposizioni del presente articolo. Quando il responsabile della struttura non

ha qualifica dirigenziale o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni piu' gravi di quelle

indicate nel primo periodo, il procedimento disciplinare si svolge dinanzi all'Ufficio competente per

i procedimenti disciplinari (13).

(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

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(2) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(4) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(5) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(6) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(7) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera f), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(8) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera g), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(9) Comma modificato dall'articolo 13, comma 1, lettera h), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(10) Comma sostituito dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(11) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(12) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(13) Comma aggiunto dall'articolo 13, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226.

(B) In riferimento al presente comma vedi: Parere Autorità garante per la protezione dei dati

personali 08 maggio 2013, n. 2501216.

ARTICOLO N.55 ter

Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale (1) (A)

1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali

procede l'autorita' giudiziaria, e' proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale.

[Per le infrazioni di minore gravita', di cui all'articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non e'

ammessa la sospensione del procedimento.] Per le infrazioni per le quali e' applicabile una sanzione

superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, l'ufficio

competente per i procedimenti disciplinari, nei casi di particolare complessita' dell'accertamento del

fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a

motivare l'irrogazione della sanzione, puo' sospendere il procedimento disciplinare fino al termine

di quello penale . Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso puo'

essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per

concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in

ogni caso salva la possibilita' di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti

del dipendente (2).

2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e,

successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione

che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o

che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'ufficio competente per i procedimenti

disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi

dall'irrevocabilita' della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o

confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale (3).

3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una

sentenza irrevocabile di condanna, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il

procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il

procedimento disciplinare e' riaperto, altresi', se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il

fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre

ne e' stata applicata una diversa (4).

4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il procedimento disciplinare e', rispettivamente, ripreso o

riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell'addebito, entro sessanta giorni dalla

comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all'amministrazione di

appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento dell'istanza di riapertura. Il procedimento si

svolge secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi

previsti per la conclusione dello stesso. Ai fini delle determinazioni conclusive, l'ufficio procedente,

nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell'articolo 653, commi 1 e

1-bis, del codice di procedura penale (5).

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(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(4) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(5) Comma modificato dall'articolo 14, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226.

ARTICOLO N.55 quater

Licenziamento disciplinare (1) (A)

1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve

ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del

licenziamento nei seguenti casi:

a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della

presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante

una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;

b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore

a tre nell'arco di un biennio o comunque per piu' di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni

ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato

dall'amministrazione;

c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di

servizio;

d) falsita' documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto

di lavoro ovvero di progressioni di carriera;

e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o

ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignita' personale altrui;

f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale e' prevista l'interdizione perpetua dai pubblici

uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.

f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell'articolo 54, comma 3 (2);

f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'articolo 55-sexies, comma

3 (3);

f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia

determinato l'applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo

complessivo superiore a un anno nell'arco di un biennio (4);

f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la

prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o

individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante

valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a

tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009 (5)

1-bis. Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalita' fraudolenta posta

in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno

l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attivita' lavorativa circa il rispetto dell'orario

di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta

attiva o omissiva la condotta fraudolenta (6).

[2. Il licenziamento in sede disciplinare e' disposto, altresi', nel caso di prestazione lavorativa,

riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l'amministrazione di

appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione

del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo

e' dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme

legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti

dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54.] (7)

3. Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento e' senza preavviso. Nei casi in

cui le condotte punibili con il licenziamento sono accertate in flagranza, si applicano le previsioni

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dei commi da 3-bis a 3-quinquies (8).

3-bis. Nel caso di cui al comma 1, lettera a), la falsa attestazione della presenza in servizio, accertata

in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle

presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente, fatto salvo il

diritto all'assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti,

senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato. La sospensione e' disposta dal responsabile

della struttura in cui il dipendente lavora o, ove ne venga a conoscenza per primo, dall'ufficio di cui

all'articolo 55-bis, comma 4, con provvedimento motivato, in via immediata e comunque entro

quarantotto ore dal momento in cui i suddetti soggetti ne sono venuti a conoscenza. La violazione

di tale termine non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'inefficacia della sospensione

cautelare, fatta salva l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia imputabile (9).

3-ter. Con il medesimo provvedimento di sospensione cautelare di cui al comma 3-bis si procede

anche alla contestuale contestazione per iscritto dell'addebito e alla convocazione del dipendente

dinanzi all'Ufficio di cui all'articolo 55-bis, comma 4. Il dipendente e' convocato, per il

contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno quindici giorni e puo' farsi assistere da un

procuratore ovvero da un rappresentante dell'associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o

conferisce mandato. Fino alla data dell'audizione, il dipendente convocato puo' inviare una memoria

scritta o, in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento, formulare motivata istanza di rinvio

del termine per l'esercizio della sua difesa per un periodo non superiore a cinque giorni. Il

differimento del termine a difesa del dipendente puo' essere disposto solo una volta nel corso del

procedimento. L'Ufficio conclude il procedimento entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del

dipendente, della contestazione dell'addebito. La violazione dei suddetti termini, fatta salva

l'eventuale responsabilita' del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza

dall'azione disciplinare ne' l'invalidita' della sanzione irrogata, purche' non risulti irrimediabilmente

compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del

procedimento di cui all'articolo 55-bis, comma 4 (10).

3-quater. Nei casi di cui al comma 3-bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla

competente procura regionale della Corte dei conti avvengono entro venti giorni dall'avvio del

procedimento disciplinare. La Procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti,

emette invito a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di

licenziamento. L'azione di responsabilita' e' esercitata, con le modalita' e nei termini di cui

all'articolo 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge

14 gennaio 1994, n. 19, entro i centocinquanta giorni successivi alla denuncia, senza possibilita' di

proroga. L'ammontare del danno risarcibile e' rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche

in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna

non puo' essere inferiore a sei mensilita' dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di

giustizia (11).

3-quinquies. Nei casi di cui al comma 3-bis, per i dirigenti che abbiano acquisito conoscenza del

fatto, ovvero, negli enti privi di qualifica dirigenziale, per i responsabili di servizio competenti,

l'omessa attivazione del procedimento disciplinare e l'omessa adozione del provvedimento di

sospensione cautelare, senza giustificato motivo, costituiscono illecito disciplinare punibile con il

licenziamento e di esse e' data notizia, da parte dell'ufficio competente per il procedimento

disciplinare, all'Autorita' giudiziaria ai fini dell'accertamento della sussistenza di eventuali reati (12).

3-sexies. I provvedimenti di cui ai commi 3-bis e 3-ter e quelli conclusivi dei procedimenti di cui al

presente articolo sono comunicati all'Ispettorato per la funzione pubblica ai sensi di quanto previsto

dall'articolo 55-bis, comma 4 (13).

(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(4) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(5) Lettera inserita dall'articolo 15, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(6) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.

(7) Comma abrogato dall'articolo 15, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

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(8) Comma modificato dall'articolo 15, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(9) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.

(10) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.

(11) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come

modificato dall'articolo 2 del D.Lgs. 20 luglio 2017 n. 118.

(12) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116.

(13) Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 20 giugno 2016 n. 116, come

modificato dall'articolo 2 del D.Lgs. 20 luglio 2017 n. 118.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226.

ARTICOLO N.55 quinquies

False attestazioni o certificazioni (1) (A)

1. Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica

amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei

sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustifica l'assenza

dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia e'

punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La

medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.

2. Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilita' penale e disciplinare e le relative

sanzioni, e' obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di

retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonche' il danno

d'immagine di cui all'articolo 55-quater, comma 3-quater (2).

3. La sentenza definitiva di condanna o di applicazione della pena per il delitto di cui al comma 1

comporta, per il medico, la sanzione disciplinare della radiazione dall'albo ed altresi', se dipendente

di una struttura sanitaria pubblica o se convenzionato con il servizio sanitario nazionale, il

licenziamento per giusta causa o la decadenza dalla convenzione. Le medesime sanzioni disciplinari

si applicano se il medico, in relazione all'assenza dal servizio, rilascia certificazioni che attestano dati

clinici non direttamente constatati ne' oggettivamente documentati.

3-bis. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 55-quater, comma 1, lettere a) e b), i contratti

collettivi nazionali individuano le condotte e fissano le corrispondenti sanzioni disciplinari con

riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuita' con le giornate

festive e di riposo settimanale, nonche' con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in

determinati periodi nei quali e' necessario assicurare continuita' nell'erogazione dei servizi all'utenza

(3).

(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) Comma modificato dall'articolo 16, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226.

ARTICOLO N.55 sexies

Responsabilita' disciplinare per condotte pregiudizievoli per l'amministrazione e limitazione della

responsabilita' per l'esercizio dell'azione disciplinare (1) (A)

1. La violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato la

condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, comporta comunque, nei confronti del

dipendente responsabile, l'applicazione della sospensione dal servizio con privazione della

retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi, in proporzione all'entita' del

risarcimento, salvo che ricorrano i presupposti per l'applicazione di una piu' grave sanzione

disciplinare (2).

2. Fuori dei casi previsti nel comma 1, il lavoratore, quando cagiona grave danno al normale

funzionamento dell'ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate

dall'amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione

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del personale delle amministrazioni pubbliche, e' collocato in disponibilita', all'esito del

procedimento disciplinare che accerta tale responsabilita', e si applicano nei suoi confronti le

disposizioni di cui all'articolo 33, comma 8, e all'articolo 34, commi 1, 2, 3 e 4. Il provvedimento

che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le mansioni e la qualifica per le quali puo' avvenire

l'eventuale ricollocamento. Durante il periodo nel quale e' collocato in disponibilita', il lavoratore

non ha diritto di percepire aumenti retributivi sopravvenuti.

3. Il mancato esercizio o la decadenza dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo,

senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione di cui

all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza

dell'illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i

soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi,

salva la maggiore sanzione del licenziamento prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1,

lettera f-ter), e comma 3-quinquies. Tale condotta, per il personale con qualifica dirigenziale o

titolare di funzioni o incarichi dirigenziali, e' valutata anche ai fini della responsabilita' di cui

all'articolo 21 del presente decreto. Ogni amministrazione individua preventivamente il titolare

dell'azione disciplinare per le infrazioni di cui al presente comma commesse da soggetti responsabili

dell'ufficio di cui all'articolo 55-bis, comma 4 (3).

4. La responsabilita' civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di

illiceita' nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare e' limitata, in

conformita' ai principi generali, ai casi di dolo o colpa grave.

(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226.

ARTICOLO N.55 septies

Controlli sulle assenze (1) (A)

1. Nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni

caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente

mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico

convenzionato con il Servizio sanitario nazionale. I controlli sulla validita' delle suddette

certificazioni restano in capo alle singole amministrazioni pubbliche interessate (2).

2. In tutti i casi di assenza per malattia la certificazione medica e' inviata per via telematica,

direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia, all'Istituto nazionale della

previdenza sociale, secondo le modalita' stabilite per la trasmissione telematica dei certificati medici

nel settore privato dalla normativa vigente, e in particolare dal decreto del Presidente del Consiglio

dei Ministri previsto dall'articolo 50, comma 5-bis, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269,

convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, introdotto dall'articolo 1,

comma 810, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e dal predetto Istituto e' immediatamente resa

disponibile, con le medesime modalita', all'amministrazione interessata. L'Istituto nazionale della

previdenza sociale utilizza la medesima certificazione per lo svolgimento delle attivita' di cui al

successivo comma 3 anche mediante la trattazione dei dati riferiti alla diagnosi. I relativi certificati

devono contenere anche il codice nosologico. Il medico o la struttura sanitaria invia

telematicamente la medesima certificazione all’indirizzo di posta elettronica personale del lavoratore

qualora il medesimo ne faccia espressa richiesta fornendo un valido indirizzo (3).

2-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia sono effettuati,

sul territorio nazionale, in via esclusiva dall'Inps d'ufficio o su richiesta con oneri a carico dell'Inps

che provvede nei limiti delle risorse trasferite delle Amministrazioni interessate. Il rapporto tra

l'Inps e i medici di medicina fiscale e' disciplinato da apposite convenzioni, stipulate dall'Inps con le

organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative in campo nazionale. L'atto di

indirizzo per la stipula delle convenzioni e' adottato con decreto del Ministro del lavoro e delle

politiche sociali, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e

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con il Ministro della salute, sentito l'Inps per gli aspetti organizzativo-gestionali e sentite la

Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri e le organizzazioni

sindacali di categoria maggiormente rappresentative. Le convenzioni garantiscono il prioritario

ricorso ai medici iscritti nelle liste di cui all'articolo 4, comma 10-bis, del decreto-legge 31 agosto

2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, per tutte le funzioni

di accertamento medico-legali sulle assenze dal servizio per malattia dei pubblici dipendenti, ivi

comprese le attivita' ambulatoriali inerenti alle medesime funzioni. Il predetto atto di indirizzo

stabilisce, altresi', la durata delle convenzioni, demandando a queste ultime, anche in funzione della

relativa durata, la disciplina delle incompatibilita' in relazione alle funzioni di certificazione delle

malattie (4).

3. L'Istituto nazionale della previdenza sociale, gli enti del servizio sanitario nazionale e le altre

amministrazioni interessate svolgono le attivita' di cui al comma 2 con le risorse finanziarie,

strumentali e umane disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della

finanza pubblica.

4. L'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica

concernente assenze di lavoratori per malattia di cui al comma 2 costituisce illecito disciplinare e, in

caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici

in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in

modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi. Affinché si configuri l’ipotesi di illecito

disciplinare devono ricorrere sia l’elemento oggettivo dell’inosservanza all’obbligo di trasmissione,

sia l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Le sanzioni sono applicate secondo criteri di

gradualità e proporzionalità, secondo le previsioni degli accordi e dei contratti collettivi di

riferimento (5).

5. Le pubbliche amministrazioni dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei

dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all'effettuazione

della visita, tenendo conto dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo. Il controllo e' in

ogni caso richiesto sin dal primo giorno quando l'assenza si verifica nelle giornate precedenti o

successive a quelle non lavorative (6).

5-bis. Al fine di armonizzare la disciplina dei settori pubblico e privato, con decreto del Ministro per

la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro del lavoro e delle

politiche sociali, sono stabilite le fasce orarie di reperibilita' entro le quali devono essere effettuate le

visite di controllo e sono definite le modalita' per lo svolgimento delle visite medesime e per

l'accertamento, anche con cadenza sistematica e ripetitiva, delle assenze dal servizio per malattia.

Qualora il dipendente debba allontanarsi dall'indirizzo comunicato durante le fasce di reperibilita'

per effettuare visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi,

che devono essere, a richiesta, documentati, e' tenuto a darne preventiva comunicazione

all'amministrazione che, a sua volta, ne da' comunicazione all'Inps (7).

5-ter. Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie,

prestazioni specialistiche od esami diagnostici il permesso e' giustificato mediante la presentazione

di attestazione, anche in ordine all'orario, rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che

hanno svolto la visita o la prestazione o trasmessa da questi ultimi mediante posta elettronica (8)

6. Il responsabile della struttura in cui il dipendente lavora nonche' il dirigente eventualmente

preposto all'amministrazione generale del personale, secondo le rispettive competenze, curano

l'osservanza delle disposizioni del presente articolo, in particolare al fine di prevenire o contrastare,

nell'interesse della funzionalita' dell'ufficio, le condotte assenteistiche. Si applicano, al riguardo, le

disposizioni degli articoli 21 e 55-sexies, comma 3.

(1) Articolo inserito dall'articolo 69, comma 1, del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

(2) Comma modificato dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(3) Comma modificato dall' articolo 7, comma 1-bis, del D.L. 18 ottobre 2012 n. 179 come

modificato in sede di conversione e successivamente dall'articolo 18, comma 1, lettera b), del D.Lgs.

25 maggio 2017, n. 75 .

(4) Comma inserito dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(5) Comma modificato dall’ articolo 13, comma 3-bis, del D.L. 18 ottobre 2012 n.179 e

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successivamente dall'articolo 18, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(6) Comma sostituito dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98.

(7) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 e successivamente

sostituito dall'articolo 18, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(8) Comma aggiunto dall'articolo 16, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 e successivamente

modificato dall'articolo 4, comma 16-bis, lettere a), b) e c), del D.L. 31 agosto 2013, n. 101,

convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 ottobre 2013, n. 125.

(A) In riferimento al presente articolo, vedi: Circolare del Ministero della Difesa 11 febbraio 2011,

n. 9226 , Circolare dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici 23 febbraio 2011, Circolare

Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici n. 1 del 23 febbraio 2011, la Circolare della Presidenza

del Consiglio dei Ministri (vari dipartimenti) 4 febbraio 2014, n. 2/2014; la Circolare della

Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione Pubblica 17 febbraio 2014, n.

2;Nota del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca 22 aprile 2014, n. 5181.

ARTICOLO N.63

Controversie relative ai rapporti di lavoro

Art. 63

(Art. 68 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 33 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi

dall'art. 29 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 18 del d.lgs n. 387 del

1998).

1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative

ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2,

ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie

concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la

responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque

denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando

questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi.

L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella

controversia non è causa di sospensione del processo.

2. Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di

accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le

quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di

norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del

rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento,

condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di

un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del

trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello

dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilita',

dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attivita' lavorative. Il datore

di lavoro e' condannato, altresi', per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali

e assistenziali (1).

2-bis. Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalita', il giudice

puo' rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti,

tenendo conto della gravita' del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato (2).

3. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a

comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20

maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da

organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di

contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto.

4. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di

procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in

sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi

comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi.

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5. Nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui all'articolo 64, comma 3, il ricorso per

cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi

collettivi nazionali di cui all'articolo 40.

(1) Comma modificato dall'articolo 21, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

(2) Comma aggiunto dall'articolo 21, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75.

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Il licenziamento per motivi economici nel “nuovo corso” del

diritto del lavoro

Di Guido Vidiri

Già Presidente della sez. Lavoro della Corte di Cassazione

Abstract: Il saggio affronta la complessa tematica sul licenziamento per ragioni economiche per

patrocinare una lettura del dato normativo incentrato su una lettura del disposto dell’art. 41 Cost. in

conformità del diritto dell’Unione europea. In questa ottica viene esaminata anche la problematica

attinente all’istituto del c.d. repechage ed alla ripartizione tra le parti del relativo onere probatorio

con la presa di distanza da soluzioni suscettibili di risultare permeate da condizionamenti di natura

ideologica e/o politica, tendenti a ribaltare sul versante processuale i principi fondanti dell’art. 2697

c.c.

Sommario: -1. La “grande avventura” del diritto del lavoro. -2. La moltiplicazione delle fonti

normative ed il “declino” del diritto del lavoro ….. -3. …. e l’inizio di un “nuovo corso”. -4. Il

licenziamento per ragioni economiche nella contrapposizione del diritto alla libertà di impresa ed

alla conservazione del posto di lavoro. –5. L’art. 41 Cost. e la libertà di impresa nella dottrina e nella

giurisprudenza nel diritto dell’Unione europea. -6. Il licenziamento per ragioni economiche ed il c.d.

repechage. -7- Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, repechage e giudice “terzo” ed

“imparziale”.

1. In uno scritto dal titolo “La grande avventura giuslavoristica”, risalente intorno agli anni dieci di

questo secolo, un illustre storico del diritto - nell’elogiare il contenuto di un volume redatto da P.

Ichino, R. De Luca Tamajo, G. Ferraro e R. Del Punta – attraverso il quale veniva effettuata la

ricostruzione dei sessanta anni di evoluzione del diritto del lavoro correnti dalla liberazione sino alla

fine del novecento - ha rimarcato come per i giuristi rimanesse un grosso lavoro da fare e come

risultasse necessario un altrettanto grosso impegno perché soprattutto nel settore giuslavoristico

andava vietata la “secca” di una arida posizione, che è la “perversione nichilistica ”.

Nello stesso scritto si è ricordato che nell’ultima nota a chiusura del suo saggio R. Del Punta, ha

riportato un lungo frammento di un intervento tenuto in sede accademica nel 2005 da un

giuslavorista - universalmente rimpianto (Matteo Dell’Olio ) - nel corso del quale era stato

affermato “che il diritto del lavoro è sempre stato valorista, ha sempre perseguito dei valori e il

valore di fondo … è quello della libertà e della dignità del lavoratore“ sicchè “la tutela della libertà

umana del lavoratore …… non può essere annegato, con il pretesto della partecipazione, nel diritto

commerciale, né con questo, magari con tutto il diritto, nell’economia” . Ed in successione

argomentativa si è concluso con l’affermazione di credere “che la dottrina giuslavoristica meriti

pienamente quell’appellativo che un nostro pensoso civilista, Vittorio Polacco, dava al diritto

commerciale, e cioè di essere il vero bersagliere del diritto privato” .

Benché siano trascorsi solo pochi anni dal menzionato scritto non può sottacersi che l’innegabile e

progressivo degrado del generale contesto socio-economico abbia accreditato nel giurista – che

intenda abbandonare il pur doveroso ottimismo della volontà e conseguentemente valutare con la

sola ragione la realtà in cui opera - l’opinione che l’epoca attuale sia caratterizzata da una evidente

eclissi del diritto per essersi perduti quelli che erano per la scienza giuridica i tradizionali, comuni e

rassicuranti punti di riferimento .

Tutto ciò spiega le ragioni del “disincanto” ed anche il senso di “frustrazione” di chi, avendo da

sempre privilegiato ed affinato lo studio di normative che, sul piano sostanziale e processuale,

hanno fatto del diritto del lavoro un “diritto valoriale” , si vede ora costretto ad approcciarsi con un

ordinamento complesso a più livelli, nel cui ambito si inserisce una legislazione di “disinvolta

tecnicità”, lacunosa, ambigua, come tale responsabile in buona misura anche di una giurisprudenza

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“anarchica”, “ballerina”, “creatrice”, e non di rado anche “strabica” perché ideologicamente

condizionata .

2. Il descritto declino del diritto deve in qualche misura farsi risalire alla moltiplicazione delle fonti

normative ed alla difficile compatibilità in molti settori tra norme interne e norme di diritto europeo

stante la diversa disponibilità dei singoli Paesi a rinunziare ad una parte della propria sovranità. Dal

che conseguono effetti pregiudizievoli in termini di certezza del diritto , per essere l’ordinamento

europeo incentrato, come si è detto, su più livelli, e per di più correlato ad una legislazione interna

anche essa di difficile lettura , tale pertanto da determinare consistenti dubbi interpretativi

segnatamente sulla regolamentazione del rapporto lavorativo in sede di recesso e, più in generale,

sulla regolamentazione delle relazioni industriali, in ragione anche di un linguaggio non veritiero .

Non può negarsi infatti che nell’ambito del diritto privato proprio nel settore giuslavoristico si

assista ora con maggiore frequenza ad un proliferare di leggi prive di progettualità, volte spesso

unicamente all’acquisizione di facili ed immediati consensi, e per di più indecifrabili nei contenuti e

nei valori di supporto anche perché articolate in una pluralità di disposizioni, spesso sovrapponibili

(se non in palese contraddizione) tra loro.

3. La veridicità di quanto detto è agevolmente dimostrabile attraverso l’esame di quello che può

considerarsi, per le numerose e radicali innovazioni introdotte, un che, iniziato con la legge 28

giugno 2012 n. 92 (cosiddetta legge Fornero), è stato seguito dai diversi decreti del Jobs Act, che

hanno innovato l’assetto normativo precedente e ridotto drasticamente le tutele del lavoratore,

limitandone la libertà e la dignità.

Invero, più della legge Fornero, sono stati i numerosi interventi normativi del Jobs Act a

determinare un graduale smantellamento delle tutele del lavoratore e delle stesse organizzazioni

sindacali, con un conseguente avvicinamento dei contratti di lavoro ai contratti di scambio a

contenuto patrimoniale, con l’effetto di una progressiva del rapporto di lavoro.

Più specificamente l’art. 3 del d. lgs 15 giugno 2015 n. 81 nel modificare il disposto dell’art. 2103

c.c. in materia di , unitamente all’art. 3 del d. lgs. 4 marzo 2015 n 23 nel disciplinare il licenziamento

per giustificato motivo e giusta causa in tema di contratto di lavoro a tempo indeterminato “a tutele

crescenti”, hanno ampliato notevolmente - mediante un non equilibrato bilanciamento dei diversi

diritti coinvolti - i poteri direttivi del datore di lavoro con una più accentuata flessibilità sia nella

gestione del rapporto lavorativo che in sede di sua cessazione . Ed a tali deludenti risultati si è

pervenuti - è bene ribadirlo ancora una volta – attraverso una pluralità di norme “mal fatte”, che

oltre ad accrescere il contenzioso e conseguentemente la lunghezza dei processi, configurano una

minaccia al principio della certezza del diritto, con dirette e gravi ricadute negative sul tessuto socio-

economico del Paese anche in termini di investimenti e quindi di occupazione .

In questo nuovo assetto ordinamentale è destinato a crescere il travaglio dei difensori di quanti

intendono far valere i diritti riconosciuti al cittadino come e come < persona>. Costoro infatti -

oltre a doversi muovere tra un ginepraio di fonti normative (statali ed europee), di leggi,

regolamenti, direttive e precetti di diverso genere e natura – devono anche misurarsi con le insidie

di un processo, che attende ancora che l’intero disposto dell’art. 111 Cost. non abbia soltanto una

funzione evocativa ma trovi invece una compiuta e pronta attuazione al fine di non rimanere sino a

quando non si riceva, in tempi , giustizia da un giudice e .

Quanto ora detto spiega - soprattutto in quei casi in cui vengono in contrasto due o più diritti a

copertura costituzionale - le ragioni che conducono ad una dilagante incertezza derivante da un

mutevole soggettivismo giudiziario in sede decisionale, che impedisce sovente la formazione di

approdi giurisdizionali affidabili e resistenti nel tempo e che, quindi, non agevola la magistratura di

legittimità nell’esercizio della sua istituzionale funzione nomofilattica.

Il presente scritto non ha certo la presunzione di affrontare, né tanto meno di risolvere, tutte le

numerose problematiche scaturenti dalla intera lettura del già citato art. 3 del d. lgs n. 23 del 2015

(avente ad oggetto il “licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ”) ma solo quello di

limitarsi ad alcune riflessioni- meritevoli certo di ulteriori affinamenti- sull’istituto del licenziamento

per ragioni economiche in ragione della sua obiettiva rilevanza.

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Non può al riguardo dubitarsi che la regolamentazione del suddetto istituto comporti in sede

applicativa il non agevole compito della interpretazione di una norma – quale quella dell’art. 41 Cost

– non agevolmente decifrabile e che per tale motivo presenta il pericolo di condizionamenti di

natura ideologica, culturale o politica nella individuazione , in sede decisionale, di un equo

bilanciamento tra due contrapposti diritti a copertura costituzionale : quello alla libertà di impresa e

quello alla conservazione del posto di lavoro .

4. In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dipendente da ragioni di

carattere economico, si riscontrano da tempo opinioni differenziate per quanto attiene agli elementi

richiesti per riconoscerne la legittimità.

Ed invero, un primo indirizzo ha già in passato statuito che il suddetto licenziamento va giustificato

sulla base della necessità di far fronte a spese di notevole entità o a “sfavorevoli situazioni

dell’impresa che non siano meramente contingenti e che inoltre influiscano negativamente in modo

rilevante sull’attività produttiva” .

Indirizzo questo che ha trovato di recente supporti in articolate argomentazioni secondo cui per la

legittimità del licenziamento economico risultano sempre necessarie oltre, come ricordato, una

“sfavorevole situazione economica” , anche “l’effettività e la non pretestuosità del riassetto

organizzativo”, dovendosi però escludere comunque la legittimità del recesso datoriale nel caso in

cui si sia agito in via strumentale unicamente per perseguire un profitto mediante un abbattimento

del costo di lavoro .

All’indicato indirizzo si è contrapposto un diverso orientamento che – sulla base di una lettura del

combinato disposto dei primi due commi dell’art. 41 Cost. – riconosce all’imprenditore, come capo

dell’impresa (art. 2082 c.c. ), una maggiore libertà nella gestione dell’azienda.

In questa ottica si è poi affermato che le ragioni inerenti alle esigenze produttive ovvero all’assetto

organizzativo e strutturale dell’impresa possono, a vario titolo, legittimare il licenziamento

individuale ai sensi dell’art. 3 della l. 15 luglio 1966 n. 604 anche in quei casi in cui la scelta datoriale

non è stata determinata dalla volontà di fronteggiare una grave crisi aziendale ma invece da un reale

e serio intento di incrementare la produzione o eliminare il pericolo di ridurre per il futuro i risultati

vantaggiosi già ottenuti .

L’esigenza di proseguire nell’excursus argomentativo con la necessaria chiarezza rende opportuna

una premessa metodologica volta a rimarcare come la problematica in esame imponga dapprima

una interpretazione della clausola generale dell’art. 3 l. m. 604/1966 (“licenziamento per giustificato

motivo”), in conformità degli standards normativi dettati dall’art. 41 Cost., per misurare poi la

tenuta di una tale interpretazione a fronte dei principi del diritto europeo.

Percorso questo destinato a risultare particolarmente impervio e scivoloso per chi è chiamato a

definire i limiti dell’applicabilità della nozione di “giustificato motivo di licenziamento” al recesso

disposto per ragioni economiche non solo per l’incertezza scaturente dalle norme interne, ma anche

in ragione di lacune e di principi non sempre chiari del diritto sovranazionale.

Ed un ulteriore impedimento al raggiungimento di un diritto europeo di “ragionevole stabilità” è

rappresentato dai c.d. controlimiti, vere e proprie barriere sollevate da ciascuno Stato per evitare

l’ingresso di principi ritenuti estranei ai valori fondanti della propria Costituzione o al proprio

assetto ordinamentale .

Al riguardo non può trascurasi di rimarcare come le stesse Alte Corti dell’Unione europea risultino

non di rado in tensione con la politica, volta a garantire comunque margini di sovranità statali

reputati irrinunciabili tanto da creare zone di oscurità ed ambiguità, ostacolando in tal modo il

formarsi di un “diritto vivente” e di una “nomofilachia europea” .

5. L’art. 41 Cost. è stata redatto all’esito di un acceso dibattito – avvenuto in sede di III

Sottocommissione dell’Assemblea Costituente su due distinti articoli (37 e 39), espressivi di due

diverse opinioni dell’attività economica, che riflettevano due opposte opzioni culturali e politiche

circa la qualificazione dell’iniziativa economica e la dimensione ed operatività dell’intervento statale.

Il testo definitivo della norma è stato aspramente criticato per la sua “pericolosa genericità” dovuta

alla impossibilità di coniugare la due tesi su cui si era discusso: l’una volta a configurare l’attività

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economica come interamente finalizzata alla realizzazione di scopi sociali, l’altra invece deputata a

riconoscere l’iniziativa privata come libera e con il solo limite di non arrecare il danno alla

collettività .

Nell’esaminare il contenuto e la portata valoriale dell’ora vigente art. 41 Cost. si è in dottrina

affermato : che della suddetta norma è mancata “una chiave di lettura unitaria” perché è prevalsa la

sempre dominante tradizione della nostra cultura giuridica di leggere la Costituzione con gli occhiali

della ideologia ; che il precetto costituzionale in esame presenta per l’interprete le medesime

difficoltà delle clausole generali (di cui agli artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604 del 1966), perché tale precetto

per la sua indeterminatezza non è idoneo a definire con chiarezza i confini entro i quali può

esercitarsi liberamente l’iniziativa economica privata dell’imprenditore ; che nel dato letterale della

disposizione si scorge inoltre una “irriducibile poliedricità” nell’applicabilità della nozione di “utilità

sociale” a due distinti campi applicativi , costituiti ora dai rapporti dell’unità produttiva ora dalla sua

attività prodotta all’esterno .

Al fine di definire l’effettivo ambito di operatività del rapporto tra il primo ed il secondo comma

dell’art. 41 Cost. si è pure rilevato come sia necessario mettere a confronto testi giuridici diversi

attraverso quella che è stata definita interpretazione conforme , perché configura un procedimento

ermeneutico (letterale e teologico) attraverso il quale le norme del diritto interno si rendono

conformi alle norme sovranazionali .

In tale ottica una lettura dell’art. 41 Cost. rispettosa del diritto comunitario induce a prendere atto

che si è ormai giunti a livello normativo all’affermazione del principio secondo il quale l’iniziativa

economica va garantita come presupposto imprescindibile di un sistema economico funzionale alle

esigenze delle domande di mercato, con la conseguenza che l’intervento legislativo nella materia

non può condizionare le scelte imprenditoriali in modo così incisivo da determinare “ la

funzionalizzazione dell’attività economica” o più in generale la limitazione in rigidi confini dello

spazio operativo dell’attività imprenditoriale .

Né può tralasciarsi di evidenziare come per la giurisprudenza comunitaria la libertà di impresa abbia

una portata molto ampia riguardando in modo esteso l’esercizio dell’attività imprenditoriale intesa

sia come libertà di esercitare una attività economica o commerciale, sia come libertà contrattuale, sia

infine come libertà di svolgere una attività di libera concorrenza. Al riguardo si è precisato che la

Corte di Giustizia ha costruito l’attività di impresa come esercizio di attività economica personale,

che va conservata nella sua forma “pura” come “potere di libertà” , arrivando in tal modo ad

affermare che si sono compressi in modo precostituito gli stessi diritti sociali a vantaggio delle

libertà economiche .

E in linea con quanto prescritto dell’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali la giurisprudenza di

legittimità - nel rispetto del diritto dell’Unione, dei principi valoriali di cui all’art. 41 Cost. e della

legislazione interna - ha poi nella realtà fattuale più volte ribadito la legittimità del licenziamento

individuale per ragioni economiche in tutti quei casi in cui l’imprenditore esercita i suoi poteri di

gestione e di riorganizzazione dell’azienda procedendo, ad esempio : alla soppressione del posto o

del reparto cui è addetto il singolo lavoratore licenziato ; al licenziamento per ragioni inerenti

all’attività produttiva nel cui ambito rientra il riassetto organizzativo attuato per la più economica

gestione dell’azienda ; ad una suddivisione delle mansioni - in precedenza assegnate al lavoratore

licenziato - tra il personale rimasto in servizio, al fine di una più economica ed efficiente gestione

dell’impresa ; al licenziamento c.d. tecnologico nel quale la soppressione nel posto di lavoro deriva

dalla scelta dell’imprenditore in base alla quale l’attività lavorativa è allocata diversamente a seguito

di una complessiva riorganizzazione del sistema produttivo modellato sulla impresa-rete o su forme

di delocalizzazione di sedi, di reparti, o settori produttivi dell’azienda

In conclusione, l’evoluzione nel corso del tempo della giurisprudenza in ordine alla libertà di

iniziativa economica induce ad affermare che tale libertà viene attualmente ad essere pienamente

tutelata dal comma primo dell’art. 41 Cost. perché nel contrato tra l’interesse del lavoratore alla

conservazione del posto di lavoro e quello del datore di lavoro a rinunziare ad unità lavorative non

più funzionali alle esigenze dell’impresa , deve prevalere quest’ultimo interesse soprattutto in

ragione dell’incremento della produzione che ne consegue, e con esso della occupazione. Dal che

l’impossibilità di sindacare il merito delle scelte gestionali dell’imprenditore con riferimento alla

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indispensabilità o alla convenienza in senso economico della ristrutturazione, della riconversione o

delle modifiche dell’apparato organizzativo dell’azienda per essere insito nel libero esercizio di ogni

intrapresa economica il “rischio di impresa”.

Al giudice rimane, pertanto, consentito solo verificare la veridicità e la non pretestuosità della

condotta datoriale attraverso un riscontro sul nesso di causalità, da intendersi come legame di

coerenza e di stretta dipendenza tra esigenze imprenditoriali e recesso

6. In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è da tempo consolidato il principio

del c.d. repechage, consistente nell’obbligo del datore di lavoro di utilizzare il lavoratore anche in

mansioni diverse rispetto a quelle in precedenza svolte, se reperibili in azienda, ponendosi a

fondamento di tale indirizzo l’assunto che il licenziamento va considerato come extrema ratio oltre

la quale non può spingersi il bilanciamento tra il diritto dell’imprenditore ad una libera iniziativa

economica, da una parte, ed il diritto del lavoratore alla conservazione del posto, dall’altra .

Sul versante processuale, con riferimento all’onere probatorio connesso all’obbligo del repechage, la

dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, nel periodo antecedente al d.lgs. n. 81 del 2015

(modificativo dell’art. 2103 c.c.), hanno poi statuito che essendo il licenziamento, come detto, una

extrema ratio, incombe al datore di lavoro la prova della impossibilità di adibire il lavoratore a

mansioni differenti dalle precedenti.

A tale conclusione sono pervenute precisando che non è il solo datore di lavoro tenuto a fornire ad

ogni costo “elementi utili” ad individuare in concreto la impossibilità di individuazione nell’azienda

di posizioni lavorative equivalenti a quelle in precedenza svolte dal lavoratore licenziato, risultando

indispensabile per tale individuazione una concreta collaborazione di quest’ultimo .

Come è noto, il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ha rotto un argine che, ha a lungo resistito a difesa

della professionalità e dignità del lavoratore, perché soltanto di recente con l’art. 3 del d.lgs. n.

81/2015 si è ammesso espressamente, sia pure in presenza di alcuni presupposti, una modifica

peggiorativa nel tempo delle mansioni assegnate al lavoratore, anche a costo di una possibile perdita

o depauperamento della sua precedente acquisita professionalità .

Il carattere spiccatamente innovativo della nuova disciplina assume rilevanza anche sul piano

processuale perché priva di un qualsiasi fondamento la tesi, già in precedenza minoritaria, che

addossa nel repechage sul solo datore di lavoro la prova sull’impossibilità di una diversa

utilizzabilità del lavoratore in mansioni diverse da quelle in precedenza svolte.

A sostegno di quest’ultimo indirizzo si è di recente evidenziato che esso si basa sulla realistica

impossibilità del lavoratore di segnalare le diverse e nuove mansioni da svolgere perché la piena e

complessiva cognizione dell’organizzazione aziendale è prerogativa del datore di lavoro . A tale

riguardo si è fatto espresso riferimento all’art. 3 l. n. 604/1966, il cui tenore – si è poi precisato- osta

alla configurazione di un onere sostitutivo del lavoratore di allegare le diverse posizioni lavorative

nelle quali egli può essere utilmente utilizzato .

Di contro si è però addotto che è l’indicato carattere innovativo della novella sulle mansioni che

attesta la inconfigurabilità dell’obbligo del repechage, o quanto meno la riduzione del suo ambito

applicativo sul versante processuale. Si è così negato in radice il fondamento di quella

giurisprudenza che ha posto a totale carico dell’imprenditore la prova della impossibilità di una

utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quella in precedenza svolte.

Opinione questa incentrata sulla lettera e la ratio dell’art. 3 d. lgs n. 81/2015, che comprovano la

insussistenza del suddetto obbligo datoriale nel caso disciplinato dal primo comma della suddetta

disposizione, in cui il licenziamento consegue ad obiettive ragioni economiche, che portano alla

soppressione del posto di lavoro nell’ambito di posizione omogenee. In tale eventualità infatti non è

consentito richiamarsi al repechage dal momento che altri posti di lavoro in cui potrebbe essere

collocato il dipendente licenziato sono già occupati da suoi colleghi, sempre che ciò non nasconda

però un intento discriminatorio ai danni del licenziato.

Ancora più consistenti ragioni si rinvengono per non addossare interamente sull’imprenditore

l’onere probatorio nel caso di ius variandi in peius in ragione della lettera del secondo comma del

citato art. 3, che con l’usare il “può” invece del “deve” comprova come, nell’assegnare al

dipendente mansioni inferiori, il datore di lavoro eserciti un potere discrezionale .

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Nè può trascurarsi di considerare che motivi di coerenza logico-istituzionale portano ad escludere

che la novella sulle mansioni nel momento in cui ha inteso riconoscere maggiori spazi di flessibilità

nella gestione del rapporto lavorativo all’imprenditore - legittimando l’assegnazione del lavoratore a

ciascuna delle molteplici e diverse mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore

(purchè rientranti nella medesima categoria legale), comprese quelle previste dalla contrattazione

collettiva – abbia poi voluto addossargli interamente il diabolico compito di provare da solo

l’inutilizzabilità del lavoratore licenziato in ciascuno delle molteplici mansioni di livello inferiore

riscontrabili nell’azienda. E tutto questo senza una minima collaborazione da parte del lavoratore

nell’indicazione del posto di lavoro che intende in concreto occupare e della nuove mansioni che

voglia svolgere .

Tanto meno vale in contrario addurre il disposto dell’art. 3 l. n. 604 n. 1966, dal momento che la

formulazione testuale di tale norma - per riguardare la fattispecie del giustificato motivo oggettivo -

non può assumere alcun valore ai fini della ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c..

Il repechage infatti richiede che sia valutata la singola e soggettiva posizione del lavoratore

licenziato nonché le particolari condizioni solo in presenza delle quali il datore di lavoro può

legittimamente recedere dal rapporto sicchè il suddetto istituto opera su di un piano ben diverso da

quello valutativo riguardante il riparto dell’onere della prova da espletare .

Le argomentazioni sinora svolte inducono, pertanto, a concludere sul punto che il lavoratore che

impugni il licenziamento è tenuto a collaborare nell’accertamento di un possibile repechage

mediante l’indicazione dei posti di lavoro nei quali egli intende essere ricollocato perché solo da tale

indicazione può conseguire l’onere datoriale di provarne la non utilizzabilità nei predetti posti,

vigendo tra le parti i principi generali di correttezza e buon fede nei rapporti obbligatori (artt. 1175

e 1375 c.c.) e nei rapporti processuali quelli di lealtà e probità (art. 88 c.p.c.) .

7. La sempre discussa e tormentata tematica del repechage nei licenziamenti economici –

soprattutto per quanto attiene alla ripartizione dell’onere della prova – sollecita ulteriori riflessioni

di natura istituzionale perché la sua soluzione è suscettibile di venire condizionata da valutazione

extra-giuridiche in ragione delle sue rilevanti ricadute sul piano socio-economico .

Intorno agli anni quaranta del secolo scorso un noto filosofo del diritto, dopo avere qualificato

come minacce alcune cause ostative alla certezza del diritto, riscontrabili ancora oggi (ambiguità e

oscurità della norme, mutazione continua di esse, aggiunta perdurante di leggi nuove a leggi vecchie

con conseguente loro ipertrofia, moltiplicarsi delle fonti del diritto di diverso livello, lunghezza dei

giudizi) , rilevava poi che mentre in esse c’è una consapevolezza oscura e non una dichiarazione

programmatica, questa si ritrova invece nelle correnti di pensiero che tendono proprio a scalzare

questa certezza, tanto che illustri giuristi hanno in tutte le epoche espresso il timore che perdurando

tutto ciò si corresse il rischio di arrivare a contrapporre il giudice alla legge .

Pericolo sussistente tuttora soprattutto per una legislazione di cattiva fattura, che agevola uno

sconfinamento dei poteri dell’ordine giudiziario con invasioni di campo e sovrapposizioni di

competenze su altri poteri, con l’effetto finale di elevare di fatto la giurisprudenza a fonte

normativa, consentendo in tal modo al giudice di sottrarsi nel giudicare alla “autorità della legge” .

E’ doveroso infatti prendere atto che nella realtà fattuale sempre più spesso si assiste alla presenza

di un giudice propenso ad esercitare in sede interpretativa una attività creativa piuttosto che a

ricercare attraverso la lettura del dato letterale la voluntas legis.

Effetto questo in misura non certo trascurabile correlato proprio ad “opzioni culturali” riscontrabili

in ampi settori di un correntismo che, dilagante nell’ ordine giudiziario e nel suo assetto

organizzativo, mostra - nella voluta ed interessata inerzia della politica – di volere di fatto

privilegiare sulla figura di un giudice che dà del suo agire quotidiano concreta e silenziosa

testimonianza della sua “terzietà” ed “imparzialità”, quella di un giudice, che autocelebrandosi ed

autocertificandosi - con l’ausilio di incisivi apparati mass-mediatici – “autentico interprete e garante

della costituzione”, viene primo legittimato dal consenso popolare allo svolgimento di compiti

impropri, e di poi non di rado anche gratificato, sovente con ripetute messe fuori ruolo, attraverso

incarichi extragiudiziari di dubbia opportunità.

In tal modo la normativa del di cui all’art. 111 Cost. corre il rischio di rimanere ancora a lungo di

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natura evocativa e programmatica anche e soprattutto: nel diritto penale in presenza di reati regolati

da norme dal contenuto indecifrabile ; e, nell’ambito giuslavoristico, relativamente ad istituti, quale

quello in questa sede scrutinato, che richiedono una valutazione su contrapposti diritti il cui

bilanciamento - è bene evidenziarlo ancora una volta – viene operato in non poche occasioni con

“gli occhiali della ideologia” .

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I licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo

illecito: nozioni e sovrapposizioni

Di Francesca Marinelli

Professore Aggregato di Diritto del Lavoro – Università degli studi di Milano

Abstract: Il presente lavoro si propone di operare un distinguo tra le figure dei licenziamenti

ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito, partendo dalle rispettive nozioni legali, per, poi,

indagarne le sovrapposizioni. Tale operazione non ha un rilievo solo teorico, ma anche (e

soprattutto) pratico, se è vero che le tre fattispecie in parola – anche alla luce delle recenti riforme

del diritto del lavoro (in particolare la c.d. Riforma Fornero e il c.d. Jobs Act) – si trovano oggi

assoggettate non solo ad un diverso regime sanzionatorio (id est la tutela reintegratoria piena per i

licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito versus, di regola, la tutela indennitaria per il

licenziamento ingiustificato), ma anche probatorio (se è vero che mentre il licenziamento

discriminatorio gode del meccanismo di c.d. agevolazione dell’onere della prova previsto dalla

normativa antidiscriminatoria ed il licenziamento ingiustificato del regime in base al quale spetta al

datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo di recesso, il licenziamento

per motivo illecito segue, invece, la regola generale sancita dall’art. 2697 c.c. secondo cui «chi vuol

far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»).

Sommario: 1. Finalità e ragioni dell’indagine. – 2. Le definizioni legali di licenziamento

ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito. – 3. La sovrapposizione tra i licenziamenti

discriminatorio e per motivo illecito. – 4. Segue. La sovrapposizione con il licenziamento

ingiustificato. – 5. Conclusioni: i riflessi sull’onere probatorio.

1. Finalità e ragioni dell’indagine.

L’intento del presente contributo è quello di effettuare un’actio finium regundorum tra le fattispecie

dei licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito al fine di chiarire, all’indomani

della Riforma Fornero e del c.d. Jobs Act , quali siano i rapporti tra le tre figure in parola.

Una indagine di tal fatta pare, a ben vedere, utile non solo dal punto di vista teorico, ma anche in

prospettiva pratica, se solo si pone mente al fatto che, a seguito delle recenti riforme appena

menzionate, le ipotesi in parola si trovano assoggettate a una differente disciplina sia sanzionatoria

(se è vero che al licenziamento ingiustificato, anche se irrogato nelle unità produttive assoggettate al

campo di applicazione dell’art. 18 St. lav., non viene più accordata la tutela reintegratoria piena) , sia

probatoria (dal momento che, come si avrà modo di chiarire nel § 5, l’ordinamento sottopone le tre

figure in esame a un diverso regime).

2. Le definizioni legali di licenziamento ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito.

L’analisi non può che prendere le mosse dalle definizioni legislative delle fattispecie in esame.

Il quesito appare piuttosto semplice volgendo lo sguardo al licenziamento ingiustificato; la relativa

nozione appare infatti ricavabile agilmente interpretando per difetto l’art. 2119 c. 1 c.c. e l’art. 3 l. n.

604 del 1966 in combinato disposto con l’art. 1 della stessa legge 604 . Se le disposizioni in parola

qualificano come giustificato il recesso datoriale sorretto da una giusta causa o da un giustificato

motivo, è evidente che, a contrario, sarà da ritenere ingiustificato il recesso datoriale che sia di ciò

privo. Ne segue che, in base all’interpretazione consolidata delle norme in parola , nel nostro

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ordinamento il licenziamento è da ritenere ingiustificato tutte le volte in cui non sia motivato nè da

una causa in grado di alterare la fiducia – da intendere in senso oggettivo – del datore di lavoro

nell’adempimento della prestazione; né da un notevole inadempimento del lavoratore; né, infine, da

una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro o al regolare

funzionamento di essa.

Questione assai più complessa è quella che attiene alla individuazione delle nozioni di licenziamento

discriminatorio e per motivo illecito, in ragione della maggiore complessità della loro evoluzione

storica. Infatti, diversamente dal licenziamento ingiustificato, che, come visto, è stato ricondotto a

sistema dal legislatore con la l. n. 604 del 1966 – e da allora non è stato oggetto di alcuna ulteriore

modifica, almeno sotto il profilo della nozione –, ai licenziamenti per motivo illecito e

discriminatorio è toccata sorte ben diversa.

Partendo dal licenziamento per motivo illecito, lo stesso ha subito una evoluzione per così dire “a

parabola” : si tratta, infatti, di una figura forgiata all’inizio anni ’50 del secolo scorso dalla dottrina;

fatta poi assurgere ad ipotesi legalmente nominata dal legislatore con la l. n. 92 del 2012 e tornata,

infine, nell’ombra con il d.lgs. n. 23 del 2015 di attuazione del c.d. Jobs Act . Nonostante questi

“passaggi di stato”, tuttavia, la nozione di licenziamento per motivo illecito è rimasta, a ben

guardare, sempre la medesima : con tale espressione si intende, infatti, quel recesso datoriale in cui

l’interesse perseguito dal datore di lavoro, in modo determinante ed esclusivo, risulta contrario a

norme imperative , all’ordine pubblico o al buon costume o in frode alla legge .

Più complessa è la questione relativa al licenziamento discriminatorio. La figura è stata infatti

introdotta nel nostro ordinamento, per la prima volta, dall’art. 4 della l. n. 604 del 1966 per essere,

poi, ribadita dall’art. 15 St. lav. e trovare, infine, esplicita definizione nell’ art. 3 della l. n. 108 del

1990 (a norma del quale è tale il licenziamento «determinato da ragioni di credo politico o fede

religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali […]

indipendentemente dalla motivazione adottata» (art. 4 l. n. 604 del 1966) o irrogato al lavoratore «a

causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero o

[…] dirett[o] a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di

età o basat[o] sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali» (art. 15 St. lav.)).

Questa ipotesi di licenziamento discriminatorio non esaurisce, tuttavia, la fattispecie. Occorre infatti

dare conto del fatto che, soprattutto in virtù dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea ,

ulteriori ipotesi di licenziamento discriminatorio sono implicitamente ricavabili da altre disposizioni

, quali in particolare: l’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998 (da cui risulta che è discriminatorio qualsiasi

licenziamento che produca l’effetto di discriminare anche indirettamente i lavoratori in ragione della

loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad

una cittadinanza qualora questi ultimi non costituiscano requisiti essenziali allo svolgimento della

attività lavorativa); gli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 215 del 2003 (in base al quale è discriminatorio qualsiasi

licenziamento per razza o origine etnica o apparentemente neutro ma in grado di mettere le persone

di una determinata razza od origine etnica in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad

altre persone sempre che non si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e

determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima); gli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2003

(da cui risulta come discriminatorio qualunque licenziamento irrogato per religione, per convinzioni

personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale o apparentemente neutro, ma in grado

di mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le

persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in

una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone sempre che non si tratti di

caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento

dell’attività medesima); gli artt. 25 e 26 del d.lgs. n. 198 del 2006 (e, cioè, il licenziamento che

produce un effetto pregiudizievole discriminando i lavoratori in ragione del loro sesso, o del loro

stato di gravidanza o di maternità o paternità anche adottive o della titolarità o esercizio dei diritti

conseguenti a tali stati, o dell’esercizio di una azione volta ad ottenere il rispetto di tale principio di

parità di trattamento, o dovuto al rifiuto o alla sottoposizione a molestie o molestie sessuali, nonché

tutti quei licenziamenti apparentemente neutri, ma in grado di mettere i lavoratori portatori di un

fattore di cui sopra in una situazione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori non portatori di

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tali fattori, salvo che – ancora una volta – si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività

lavorativa).

Nonostante la richiamata pluralità di ipotesi possa indurre taluno a ritenere impossibile delineare

una nozione unitaria di licenziamento discriminatorio, a chi scrive questa operazione di reductio ad

unum appare, invece, plausibile facendo leva sul fatto che tutte le ipotesi presentano un comune

denominatore, in quanto, a ben vedere, costituiscono tutte tipologie di recesso suscettibili di

arrecare, indipendentemente dall’animus del datore di lavoro , uno svantaggio a uno o più lavoratori

portatori di uno o più fattori discriminatori tassativamente individuati dalla legge e inconferenti

rispetto all’attività lavorativa da svolgere .

Una volta definite le tre fattispecie non rimane che verificare se sia o meno possibile che esse

possano finire per sovrapporsi l’un l’altra.

3. La sovrapposizione tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito.

La questione sulla quale gli addetti ai lavori si interrogano da più tempo riguarda il rapporto tra i

licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito.

Volendo semplificare un dibattito in realtà per nulla piano, si può dire che la relazione tra le due

figure è stata letta dalla maggioranza degli interpreti per quasi cinquant’anni (e cioè fino al varo della

Riforma Fornero), come rapporto di species ad genus (quando non di vera e propria identità) .

La l. n. 92 del 2012, avendo fatto assurgere, come detto, il licenziamento per motivo illecito a

ipotesi nominata dal legislatore, ha indotto la maggior parte degli interpreti a riconsiderare la

questione, inducendo a un importante cambio di rotta.

In particolare, dottrina e giurisprudenza hanno rilevato, da un lato, l’esistenza di requisiti diversi tra

le due figure (se è vero che alla luce di quanto rilevato nel § 2 l’animus discriminandi e la sua

esclusività appartengono necessariamente solo alla figura del licenziamento per motivo illecito);

dall’altro la loro diversa ratio (se è vero che mentre il licenziamento per motivo illecito – derivando

dall’art. 1345 c.c. –, sottopone il recesso datoriale a un controllo motivazionale di conformità

all’ordinamento giuridico cui sono tradizionalmente assoggettati, in base alla norma in parola, tutti i

negozi giuridici a contenuto patrimoniale, in quanto espressione dell’autonomia individuale; le

ipotesi di licenziamento discriminatorio sottopongono il recesso datoriale ad un controllo circa i

suoi effetti – sconosciuto al nostro ordinamento codicistico –, volto a preservare l’integrità di

alcune puntuali caratteristiche dei lavoratori che, se coinvolte tout court nel rapporto di lavoro (e,

cioè, a prescindere da una valutazione circa la loro inevitabile inclusione nell’obbligazione

contrattuale di lavorare), finirebbero necessariamente per minarne la dignità.

Alla luce delle suesposte considerazioni pare plausibile concludere che le due figure in parola sono

tra loro diverse; ciò tuttavia non toglie che esse possano, talvolta, coincidere.

Un caso potrebbe essere, ad esempio, quello in cui il proprietario di una ferramenta licenziasse una

dipendente solo per le sue idee politiche. In tale ipotesi il licenziamento potrebbe essere considerato

discriminatorio, in quanto, alla luce delle notazioni svolte nel § 2, si tratterebbe di un recesso idoneo

a creare nei confronti di una lavoratrice, in ragione di un fattore tassativo (quale le opinioni

politiche), uno svantaggio pregiudizievole e del tutto ingiustificato (non sembrando plausibile, nel

caso di specie, configurare alcuna correlazione tra le idee politiche della lavoratrice e le sue

mansioni). Ciò detto, anche qualora le opinioni politiche non fossero ricomprese tra le ragioni

discriminatorie, il licenziamento potrebbe, non di meno, essere qualificato per motivo illecito se è

vero che, nel caso in esame, da un lato, il licenziamento verrebbe irrogato in modo determinante ed

esclusivo con l’animus di allontanare la lavoratrice dal posto di lavoro per le sue idee politiche e,

dall’altro, appare un valore fondante del nostro ordinamento quello per cui la libertà della persona

non può, quando non rientrante nella prestazione, essere oggetto di commercio tra gli uomini .

L’ipotizzabile sovrapposizione tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito nulla toglie,

tuttavia, alla tesi qui sostenuta secondo la quale le due figure sono tra loro autonome; lo dimostra il

fatto che è possibile configurare ipotesi in cui il licenziamento può essere qualificato per motivo

illecito, ma non anche come discriminatorio. Potrebbe, ad esempio, configurare tale ipotesi il caso

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in cui – sempre riprendendo l’esempio sopra formulato – il proprietario della ferramenta licenziasse

la dipendente solo per l’improvvisa comparsa sul viso della stessa di una importante couperose. Il

recesso in parola potrebbe, infatti, risultare contrario ad un valore fondamentale dell’ordinamento

giuridico – ossia la dignità sociale di ciascun individuo indipendentemente dalla sua condizione

personale qualora non afferente all’oggetto della prestazione di lavoro –, ma non potrebbe in

nessun caso essere etichettato come discriminatorio, non rientrando (legibus sic stantibus) l’aspetto

fisico tra i fattori discriminatori tassativamente indicati dalla legge.

Così, pare plausibile immaginare casi in cui un licenziamento possa dirsi discriminatorio ma non per

motivo illecito; potrebbe configurarlo, ad esempio, l’ipotesi in cui una emittente televisiva,

adducendo ragioni inerenti all’organizzazione del lavoro, licenziasse tutti i lavoratori non in grado di

utilizzare alcuni strumenti tecnologici e ciò finisse, indirettamente, per colpire tutti i lavoratori più

anziani. Tale ipotesi, infatti – qualora fosse provata la mancata attinenza tra l’utilizzo dello

strumento in questione e le mansioni da svolgere – potrebbe configurare un licenziamento

discriminatorio per discriminazione indiretta ratione aetatis, ma, in assenza della prova dell’intento

determinante ed esclusivo del datore di lavoro circa la volontà di pregiudicare i lavoratori solo in

ragione di un motivo anagrafico, non consentirebbe di configurare un licenziamento per motivo

illecito.

Un caso emblematico di sovrapposizione tra il licenziamento discriminatorio e quello per motivo

illecito lo configura, ad esempio, il cd. licenziamento ritorsivo, id est quel recesso «costituito

dall’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro a un comportamento legittimo tenuto dal

lavoratore colpito […] o anche da un’altra persona a quest’ultimo legata […], che attribuisce all’atto

stesso il connotato dell’ingiustificata vendetta» . Se è vero, infatti, che il licenziamento irrogato in via

determinate ed esclusiva come ingiusta reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore

rientra necessariamente tra i negozi conclusi per motivo illecito ex art. 1345 c.c. – posto che la

vendetta appare da sempre «il più tipico attentato all’ordine pubblico» –, è vero anche che, quando

la vendetta è legata a fattori discriminatori, in tal caso l’intento (discriminatorio) del datore di lavoro

di colpire un modo di essere o di pensare del lavoratore non può che prevalere su quello di

dissuaderlo dal far valere in giudizio i propri diritti .

4. Segue. La sovrapposizione con il licenziamento ingiustificato.

Una volta sciolto il nodo relativo al rapporto tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito

rimane da chiarire quale sia la relazione tra questi ultimi e il licenziamento ingiustificato.

Tale questione si è posta prepotentemente all’attenzione degli addetti ai lavori quando, all’indomani

del varo della legge Fornero, qualcuno è arrivato a sostenere la tesi secondo la quale il licenziamento

totalmente privo di giusta causa o di giustificato motivo costituisce strutturalmente anche un

licenziamento discriminatorio o per motivo illecito (così avallando la teoria – qui non condivisa –

circa l’esistenza di un rapporto di species ad genus tra le due figure).

Ad avviso di chi scrive, per risolvere il quesito è sostanzialmente necessario porsi due domande: in

primis, se sia possibile considerare un licenziamento ingiustificato per ciò solo anche come

licenziamento discriminatorio o per motivo illecito; in secundis, se sia possibile qualificare un

licenziamento giustificato, al contempo, anche come licenziamento per motivo illecito o

discriminatorio.

Con riguardo alla prima questione, occorre dare conto del fatto che gli interpreti appaiono divisi.

Infatti, mentre, come appena detto, una dottrina minoritaria ritiene che qualsiasi ragione

giustificativa del licenziamento diversa da quella lato sensu tecnico-organizzativa (id est diversa dalla

giusta causa o dal giustificato motivo) sia, come tale, da considerare discriminatoria o per motivo

illecito – in quanto inevitabilmente collegata a caratteristiche della persona del lavoratore non

attinenti alla prestazione lavorativa –, vi è un orientamento dominante che critica la richiamata

teoria, facendo leva, in particolare, sul fatto che, seguendo la strada della identità tra le figure in

parola si finirebbe per eliminare, in via interpretativa, la tutela obbligatoria prevista ad hoc dalla l. n.

604 del 1966 per il licenziamento ingiustificato irrogato ai lavoratori esclusi dal campo di

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applicazione dell’art. 18 St. lav.

Ad avviso di chi scrive per sciogliere il descritto nodo interpretativo, in primis, occorre valorizzare il

diverso ruolo che le figure in parola svolgono nell’ordinamento, ed, in particolare, il fatto che

mentre la normativa volta a reprimere i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito mira a

reprimere atti contrari rispettivamente alla dignità umana o ad altri valori fondamentali

dell’ordinamento giuridico, la disciplina volta a reprimere il licenziamento ingiustificato intende, in

prima battuta, sanzionare l’esercizio di un diritto potestativo privo dei requisiti richiesti

dall’ordinamento ; in secundis, pare necessario fare leva sul fatto che sono configurabili

licenziamenti ingiustificati, ma leciti; lo sono, ad esempio, tutti quelli in cui il giudice accerti che, pur

non essendo configurabile la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento addotti (perché,

ad esempio, il fatto contestato non sussiste (non è stato Tizio ma Caio a rubare i beni aziendali) o

perché manca il nesso di causalità tra le esigenze tecnico-organizzative addotte dal datore di lavoro

e la soppressione del singolo posto di lavoro (poiché, ad esempio, nell’ambito di una

ristrutturazione di un supermercato si licenzia il verduraio pur essendo la salumeria il reparto da

chiudere), non sia provata la discriminatorietà o il motivo illecito dell’atto di recesso.

Rimane, infine, da chiedersi se sia possibile considerare un recesso giustificato, al contempo, anche

come licenziamento per motivo illecito o discriminatorio e, cioè, se sia plausibile che ragioni

discriminatorie o per motivo illecito possano contemporaneamente integrare anche una giusta causa

o un giustificato motivo di licenziamento.

Sebbene qualcuno ritenga configurabile, almeno in astratto, tale ipotesi, ad avviso di chi scrive essa

appare giuridicamente implausibile. Per dimostrarlo basta far leva sulla dottrina che si è interrogata

sulla causa dell’atto di licenziamento .

In estrema sintesi (il che comporta la necessità di banalizzare uno dei temi più controversi del

diritto civile), la tesi in parola sostiene quanto segue: nel nostro ordinamento la causa del

licenziamento – intesa (secondo tradizione) come l’«interesse che [l’atto …] stesso è dirett[o] a

soddisfare» – è, di regola tipica (essendo il licenziamento, in quanto atto unilaterale, tipico per

definizione ) e consiste nel«l’interesse del datore di lavoro-creditore a non rimanere vincolato a un

contratto» in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento .

Conseguentemente, nel caso concreto, possono verificarsi solo due ipotesi: che il licenziamento

abbia causa tipica, id est sia giustificato (ed allora sarà sempre legittimo) o che il licenziamento abbia

causa atipica (e in quanto tale sarà sempre illegittimo). Se questo è vero, poiché la causa del negozio

non può che essere unitaria , risulta chiaro che l’atto di licenziamento non può sottendere, al

contempo, due cause diverse: una tipica e l’altra atipica. Da qui l’impossibilità giuridica di

configurare un licenziamento giustificato che sia, contemporaneamente, per la stessa ragione, anche

discriminatorio o per motivo illecito.

Se si concorda con quanto sopra detto ne deriva che il licenziamento, ad esempio, di una modella

per aver perso un occhio in seguito ad un incidente domestico sarà sempre da considerare

giustificato – nonostante l’irrogazione del recesso dipenda da un handicap (ossia da una ragione

discriminatoria) –, nel caso in cui la perdita dell’occhio oltre a compromettere la vista sfigurasse il

viso della modella; di contro, il medesimo recesso dovrà essere considerato discriminatorio qualora

la perdita dell’occhio comportasse una mera diminuzione della capacità visiva della lavoratrice, non

accompagnata da alterazioni estetiche. Allo stesso modo, come lucidamente rilevato in dottrina,

sebbene il licenziamento irrogato, ad esempio, ad un dipendente per avere intrattenuto una

relazione sentimentale con la moglie del datore di lavoro potrebbe essere considerato per motivo

illecito, l’inevitabile inimicizia personale tra datore e prestatore potrebbe, nondimeno, costituire

«per le dimensioni dell’impresa e/o la collocazione particolare del lavoratore nel suo organigramma

[…] un fattore oggettivo di rilevante turbativa del normale svolgimento dell’attività aziendale,

venendo pertanto a costituire motivo legittimo del licenziamento, in quanto motivo inerente

all’economia del rapporto contrattuale» .

A riprova di tale tesi sovviene, del resto, il fatto che lo stesso legislatore, come visto nel § 2, esclude

a priori che possa configurarsi un licenziamento discriminatorio tutte le volte in cui l’atto

svantaggioso colpisca il lavoratore in ragione del venir meno di una sua caratteristica che, pur

rientrando tra i fattori discriminatori, si trovi lecitamente inserita nell’oggetto della prestazione di

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lavoro quale caratteristica qualitativa della prestazione stessa o in funzione del risultato tipico che la

prestazione è destinata a soddisfare.

Occorre, tuttavia, sottolineare come non sia sempre facile individuare quale sia l’interesse (id est la

causa) sotteso all’atto di licenziamento. Riprendiamo, ad esempio, il caso del proprietario della

ferramenta che licenzi una dipendente di religione induista e con acne tardiva, in seguito a ripetuti e

ingiustificati gravi ritardi al lavoro . In tale ipotesi occorrerà chiedersi quale sia stato l’interesse che

ha guidato l’atto di licenziamento: l’esigenza del datore di lavoro a non rimanere vincolato ad un

contratto con una lavoratrice che non può più essere adibita alle mansioni utiliter per il venir meno

del vincolo fiduciario derivante dal notevole inadempimento o, piuttosto, l’interesse a non rimanere

vincolato ad un contratto con una lavoratrice con caratteristiche a lui non congeniali.

Mentre la giurisprudenza maggioritaria – maldestramente influenzata, come visto, dal principio

dell’esclusività del motivo illecito di cui parla l’art. 1345 c.c. – tende, in tal caso, a far prevalere

sempre la giustificazione del licenziamento rispetto alla sua illiceità/discriminatorietà, la prevalente

dottrina , conscia, da un lato, che «il fatto giustificativo possa essere [...] realizzato ad arte [...] per

dare legittimità formale all’atto ritorsivo o discriminatorio» e, dall’altro, che l’esistenza di una giusta

causa o di un giustificato possono essere addotti a “copertura” e, dunque, in frode alla legge , opta

invece per la soluzione opposta.

Ad avviso di chi scrive per venire a capo della questione può essere utile valorizzare il dato letterale

della legge. Poiché la fattispecie di licenziamento per motivo illecito richiede che quest’ultimo sia

stato esclusivo oltre che determinante nell’economia dell’atto, è chiaro che in tal caso la

giustificazione del licenziamento prevarrà sempre sulla sua illiceità ..

Diversamente accadrà con riguardo al licenziamento discriminatorio. Infatti l’art. 18 St. lav., laddove

riconosce che «qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il

licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie […] trovano applicazione le [relative]

tutele», rende ad avviso di chi scrive inequivocabile il fatto che la presenza di una giusta causa o di

un giustificato motivo di licenziamento non esclude ex se la possibilità per il lavoratore di

dimostrare che la causa concreta del recesso sia stata non l’interesse (tipico) tutelato

dall’ordinamento, ma quello (atipico) discriminatorio . Ne deriva che il lavoratore potrà sempre

essere ammesso a provare che il licenziamento irrogatogli, ad esempio, in presenza di un notevole

inadempimento, sia stato in realtà determinato dal suo aspetto o dal suo abbigliamento e, dunque,

che l’interesse sotteso all’atto di recesso datoriale non sia in realtà quello (tipico e, in quanto tale,

legittimo) di estinguere il rapporto di lavoro con un lavoratore non più utile ma, piuttosto, quello di

allontanare un lavoratore sgradito per sue caratteristiche del tutto irrilevanti ai fini dello svolgimento

della prestazione lavorativa. Alla luce di quanto detto è chiaro che nei casi considerati nel presente

paragrafo «il problema che si profila […] non è concettuale, ma essenzialmente di prova [… in

quanto] si tratta di provare quale sia stata la ragione determinante (la causa in concreto) di quello

specifico atto di recesso» .

Occorre tuttavia puntualizzare che quanto appena detto vale senz’altro per il licenziamento

discriminatorio sorretto da animus discriminandi, ma non può invece valere per l’ipotesi del

licenziamento discriminatorio privo di tale animo. Questo perché in tal caso la discriminazione è

indipendente dalla volontà del soggetto agente e, dunque, prescinde dall’interesse in concreto

sotteso all’atto negoziale.

5. Conclusioni: i riflessi sull’onere probatorio.

Giunti alle conclusioni i risultati della presente indagine sono i seguenti. Il nostro ordinamento, per

limitare il potere datoriale di recesso dal rapporto di lavoro, ha congegnato – a partire grosso modo

dalla metà del secolo scorso – tre figure: il licenziamento ingiustificato, il licenziamento

discriminatorio ed il licenziamento per motivo illecito, tra loro eterogenee non solo sotto il profilo

nozionistico (come visto nel § 2), ma anche dal punto di vista funzionale, se è vero che, mentre i

licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito sono figure predisposte dall’ordinamento al fine

di tutelare interessi di sicura tutela costituzionale quali, rispettivamente, la dignità umana ed i

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principi fondanti dell’ordinamento, il principio della giustificazione del licenziamento mira, in

primis, solo a garantire un controllo di conformità del recesso datoriale al modello astratto delineato

dal legislatore cui sono assoggettati, in base all’art. 1418, c. 1 c.c., tutti i negozi giuridici a contenuto

patrimoniale regolati da norme imperative.

Dalle considerazioni di cui sopra emerge che, nonostante le incertezze talvolta mostrate dagli

addetti ai lavori, non sono giuridicamente configurabili sovrapposizioni tra i licenziamenti

discriminatorio e per motivo illecito, da un lato, ed il licenziamento ingiustificato, dall’altro (§ 4),

mentre sono possibili, ma del tutto accidentali, le sovrapposizioni tra il licenziamento

discriminatorio e quello per motivo illecito (§ 3).

L’importanza di tale actio finium regundorum non può essere sottovalutata. Il descritto assetto,

infatti, rende non soltanto ragionevole il diverso regime sanzionatorio oggi accordato dal legislatore

– come detto in apertura – alle figure in parola, ma permette altresì di chiarire quale sia il regime

probatorio spettante a ciascuna. Cosa, quest’ultima, non da poco se è vero che l’ordinamento

mentre contempla espressamente per il licenziamento ingiustificato il regime probatorio in base al

quale spetta al datore di lavoro l'onere della prova circa la sussistenza della giusta causa o del

giustificato motivo di licenziamento , e per il licenziamento discriminatorio il meccanismo di c.d.

agevolazione dell’onere della prova, in base al quale quando il lavoratore ricorrente fornisca

elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza

di discriminazioni, spetta al convenuto l’onere di provare la sua insussistenza , nulla prevede con

riguardo al licenziamento per motivo illecito. Nonostante il silenzio del legislatore, ad avviso di chi

scrive le differenze sopra rilevate tra il licenziamento discriminatorio e quello per motivo illecito

impongono di sostenere, ex art. 14 disp. prel. c.c. , che anche laddove le riforme hanno portato ad

una omogeneità processuale tra le due figure – sottoponendo entrambe all’applicazione del rito di

cui ai commi da 48 a 68 dell’art. 1, l. n. 92 del 2012 – il licenziamento per motivo illecito deve essere

assoggettato al regime ordinario di cui all’art. 2697 c.c., secondo il quale «chi vuol far valere un

diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».

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La costruzione dei fatti e i giudici del lavoro

Di Simone Pietro Emiliani

Avvocato e professore a contratto – Università degli Studi di Milano

Se è vero che in ogni processo civile gli avvocati devono porre grande attenzione nella costruzione

dei fatti , sembra possibile affermare che nel processo del lavoro tale attenzione deve essere ancora

maggiore, per più di una ragione.

La prima ragione ha a che fare con il rigido sistema di preclusioni che caratterizza l’introduzione dei

fatti nel processo del lavoro, e per effetto del quale la parte che non abbia correttamente adempiuto,

già con il primo atto difensivo del giudizio di primo grado, i suoi oneri di allegazione e di

contestazione delle allegazioni avversarie, si espone ad un rischio molto elevato di soccombenza .

Ma vi sono anche ragioni più profonde, e meno evidenti, che hanno a che fare con la cultura e la

particolare sensibilità che caratterizza i giudici del lavoro .

Per giustificare le affermazioni che precedono, occorre prendere le mosse dalla considerazione dei

motivi per i quali, in generale, la costruzione dei fatti assume fondamentale importanza in ogni

giudizio civile, per poi valutare le ragioni più specifiche per le quali tale importanza diviene ancora

maggiore nel processo del lavoro.

Va, allora, anzitutto ricordato che in ogni giudizio, al fine di ottenere la convinzione e la

persuasione del giudice , gli avvocati sono chiamati ad avvalersi sia di procedimenti di carattere

oggettivo diretti ad ottenere la razionale adesione del giudice sulla richiesta interpretazione ed

applicazione della norma generale ed astratta ovvero sul prospettato bilanciamento di principi, sia di

procedimenti di carattere soggettivo atti a operare nella sfera degli affetti e dei sentimenti e quindi

diretti a produrre emozione, commozione e coinvolgimento psichico in generale , così da ottenere

anche l’assenso del giudice sulla giustizia della soluzione richiesta rispetto al caso concreto .

La fondamentale importanza che la costruzione dei fatti assume in generale in ogni processo civile

deriva quindi da ciò, che essa è destinata a svolgere un ruolo essenziale su entrambi i piani sopra

ricordati, oggettivo e soggettivo.

La costruzione dei fatti è, infatti, destinata a svolgere un ruolo essenziale sul piano oggettivo,

anzitutto perché in ogni giudizio, il più delle volte è la vicenda fattuale oggetto di causa «la molla

dell’interpretazione» , la quale nell’ambito del giudizio è condizionata «dalle irrefrenabili esigenze del

fatto, sia pure entro i vincoli di disposizioni, che vogliono contenerlo nel letto di Procuste della

fattispecie astratta» .

Pertanto, la costruzione dei fatti assume decisiva rilevanza perché da essa il giudice ricaverà la

direzione da dare alla sua attività di interpretazione delle norme o di bilanciamento dei principi,

soprattutto quando l’avvocato sarà riuscito, in quella costruzione, a fare dei nudi fatti un caso,

attribuendo loro senso e valore .

V’è, poi, una seconda ragione per la quale la costruzione dei fatti assume una fondamentale

rilevanza sul piano oggettivo del convincimento razionale.

Ed infatti, alcune ricerche hanno dimostrato che la mente umana, quando è chiamata a ricostruire

avvenimenti passati, tende naturalmente ad inserire le informazioni di cui dispone all’interno di una

storia dotata di coerenza . Storia che viene infatti istintivamente elaborata operando una serie di

astrazioni e stabilendo nessi causali e temporali «anche quando questi non sono immediatamente

evidenti» , oltre che «ricostruendo inferenze laddove alcuni elementi non siano disponibili o siano

insufficienti» , e in tal senso si parla di «comprensione costruttiva» .

In tale prospettiva, ciascun avvocato, al fine di convincere il giudice «che una storia sia “vera”» ,

deve dunque narrarla in modo che sia «coerente, organica e, quindi, priva di contraddizioni. In

questo senso deve essere accettabile sul piano logico, essere cioè convincente perché credibile» . E

ciò, anche in considerazione del fatto che il giudice tenderà «a decidere il caso scegliendo una tra le

due storie raccontate in giudizio, di cui è ripresa la narrazione stessa» .

Pertanto, in quella che si presenta come una vera e propria «battaglia delle storie» in cui ciascun

avvocato tenta di «far prevalere la sua storia rispetto a quella della controparte» , la costruzione dei

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fatti diviene lo strumento fondamentale mediante il quale le vicende fattuali che l’avvocato ritiene

rilevanti possono essere esposte con uno schema di organizzazione , «con cui elementi di

informazione sparsi e frammentari, e “pezzi” di eventi, possono essere combinati e composti in un

complesso di fatti coerente e dotato di senso» .

Non meno rilevante è, però, il ruolo che la costruzione dei fatti è destinata a svolgere, in generale,

sul piano soggettivo.

Ed infatti, altre ricerche hanno ormai dimostrato che i giudici «non decidono in condizioni

emotivamente neutre, ma in base a una valutazione degli eventi associata alla componente affettiva»

. Pertanto, gli aspetti fattuali della vicenda oggetto del giudizio, per la loro capacità di operare «come

stimolo che determina una cifra affettiva» e quindi di «suscitare emozioni, sentimenti, reazioni

affettive», «sono di per sé destinati a influenzare non solo la soluzione del problema giuridico, ma

l’intero processo di ragionamento» .

Peraltro, sul piano soggettivo, occorre tenere conto non soltanto dello «stato emotivo tradottosi in

consapevolezza da parte del giudicante, che appunto reagisce, in modo cosciente», ma anche della

possibilità che il giudice, come ogni uomo, possa essere «influenzato dall’elaborazione emotiva e

dalla selezione stessa delle informazioni che la cifra affettiva determina anche inconsciamente», così

che le sensazioni-sentimento indotte dalla costruzione dei fatti finiscono per assumere rilevanza

anche in relazione alle «sensazioni immediate e viscerali, del tutto inconsapevoli, appunto, innestate

dalla vicenda umana, qualunque essa sia, che sta alla base del processo» .

L’esigenza di tenere conto anche di tali sentimenti inconsapevoli deriva, quindi, soprattutto da ciò

che essi possono determinare il concreto rischio di errori di giudizio , soprattutto quando un

prolungato eccessivo carico di lavoro abbia determinato nel giudice una situazione di «stanchezza

mentale», con l’affaticamento delle «aree cognitive di più alto livello coinvolte nello sforzo razionale

(per esempio la corteccia prefrontale)» .

Pertanto, l’accurata costruzione dei fatti diviene uno strumento fondamentale anche al fine di

aiutare il giudice ad evitare errori di giudizio, perché è con quella costruzione che l’avvocato può

richiamare l’attenzione del giudice e fornirgli, anche nelle situazioni di affaticamento mentale, «un

apporto emotivo che sa accendere la miccia di un percorso razionale» , innescando i meccanismi

della emotività virtuosa .

Se dunque quelli sopra accennati sono i principali motivi per i quali, in generale, la costruzione dei

fatti assume fondamentale importanza in ogni giudizio civile, è ora possibile esaminare le ragioni

più specifiche per le quali tale importanza diviene ancora maggiore nel processo del lavoro, sia sul

piano oggettivo che sul piano soggettivo.

Ed infatti, per quanto riguarda, anzitutto, il piano oggettivo, la maggiore importanza che la

costruzione dei fatti assume nel processo del lavoro è conseguenza della «intensa fattualità» che

caratterizza il diritto del lavoro e della conseguente maggiore rilevanza che assumono gli aspetti

fattuali dei rapporti ai fini della interpretazione ed applicazione delle norme o del bilanciamento di

principi.

Questa caratteristica del diritto del lavoro è, infatti, conseguenza sia della particolare tensione verso

la realtà dei rapporti sociali che caratterizza tale diritto per l’esigenza di realizzare il programma di

trasformazione sociale previsto dall’art. 3 cpv. Cost., in considerazione del quale «il diritto del

lavoro si sforza di sollevare il velo della forma giuridica al fine di individuare gli interessi concreti e

le dinamiche reali di potere ad essi sottostanti» , sia della maturata consapevolezza che il rapporto di

lavoro può coinvolgere l’intera persona del lavoratore il quale, infatti, nello svolgimento di tale

rapporto può esprimere e sviluppare, ma può anche compromettere, la sua personalità.

Dunque la particolare attenzione del diritto del lavoro per gli aspetti fattuali dei rapporti si spiega

anche con ciò che l’assetto di interessi che caratterizza oggettivamente alcuni rapporti di lavoro

viene considerato dalla Costituzione anche come una speciale condizione della persona che

giustifica l’attribuzione di particolari diritti dell’uomo , così che tutte le volte in cui nei fatti quella

speciale condizione possa dirsi realizzata le norme dirette a tutelare la persona che lavora reclamano

attuazione.

Per tali concorrenti ragioni i giudici del lavoro sanno di essere chiamati ad attribuire particolare

rilevanza, più che alla forma dei rapporti, alle circostanze di fatto che caratterizzano la vicenda

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oggetto del giudizio . E ciò, non soltanto quando vi sia un’espressa norma di legge a richiederlo ,

ma appunto in virtù dei principi del diritto del lavoro e della tradizione culturale che caratterizza tale

branca del diritto.

Peraltro, in virtù di tali principi e di tale tradizione, la fattualità del diritto del lavoro è suscettibile di

accentuarsi ulteriormente nelle ipotesi in cui i giudici del lavoro sono chiamati a dare immediata

applicazione alle norme costituzionali o a specificare il precetto di norme che contengono una

clausola generale , quale quella di correttezza ex art. 1375 c.c. In tali ipotesi, infatti, trattandosi di

norme che non costringono l’interprete negli stretti limiti della logica sussuntiva, i giudici del lavoro

hanno la possibilità di rispondere «ad un appello del fatto concreto» , attribuendo rilevanza

«‘immediatamente’, ossia senza mediazioni legislative e tramiti sillogistici, alla ‘concreta realtà di un

rapporto vitale’, a quella che diremmo ‘situazione di vita’, giudicata nella sua identità e specificità» .

Per quanto riguarda, poi, il piano soggettivo, va evidenziato che i giudizi lavoristici si distinguono

dagli altri giudizi civili anche perché hanno sempre ad oggetto una vicenda umana relativa ad un

soggetto c.d. debole, qual è il lavoratore , e che può essere anche particolarmente toccante dal

punto di vista umano.

Pertanto, l’impatto emotivo che, come detto, la costruzione dei fatti è inevitabilmente destinata ad

avere su ogni giudice può essere ancora maggiore rispetto al giudice del lavoro, perché alcune

ricerche hanno dimostrato che i magistrati chiamati a valutare con frequenza fattispecie che

involgono vicende umane anche toccanti, relative a soggetti “deboli”, anziché sviluppare una

maggiore capacità di distacco possono con il tempo subire più degli altri un «coinvolgimento

emotivo» .

Del resto, la possibilità che il giudice del lavoro sia esposto più degli altri giudici civili alla influenza

delle emozioni, è conseguenza anche della oralità che caratterizza il processo del lavoro, oltre che

del contatto diretto con le parti che tale processo impone fin dalla prima udienza. Anche tali

caratteristiche del rito del lavoro possono, infatti, determinare il rischio di un maggiore

coinvolgimento emotivo, perché le ricerche dimostrano che questo viene suscitato in maggior grado

dal contatto visivo .

V’è, poi, un’ulteriore ragione per la quale la costruzione dei fatti assume particolare rilevanza nel

processo del lavoro.

Va, infatti, considerato che nella generalità dei casi i giudici del lavoro hanno una conoscenza

approfondita delle norme che devono applicare, anche perché quali giudici specializzati sono

chiamati quotidianamente ad applicarle in un numero di controversie di gran lunga superiore a

quello che ciascun singolo avvocato ha la possibilità di seguire e trattare personalmente.

Pertanto, nella maggior parte dei casi e salve rarissime eccezioni l’avvocato troverà un giudice del

lavoro che, se non per i suoi studi personali, quanto meno per la sua pratica quotidiana si sarà già

formato un’opinione sulla corretta interpretazione delle norme che deve applicare.

Né tale particolare condizione del giudice del lavoro è impedita dalle riforme che, soprattutto negli

ultimi anni, costantemente mutano anche per aspetti molto rilevanti la disciplina delle materie

giuslavoristiche, perché la straordinaria vivacità e la ricchezza dell’immediato dibattito dottrinale che

accompagna ogni riforma fa sì che le diverse questioni relative all’interpretazione delle nuove

norme vengano tutte discusse e chiarite con largo anticipo rispetto al momento in cui i giudici

devono applicare quelle norme per decidere una controversia.

Peraltro, a quel dibattito partecipano spesso autorevoli magistrati, così che anche il dialogo circolare

fra i giudici e la dottrina che conduce alla sistemazione delle nuove norme finisce per realizzarsi

anch’esso in anticipo rispetto al momento in cui gli avvocati possono invocare in giudizio

l’applicazione della nuova disciplina.

Anche per tali ragioni, la circostanza che il giudice del lavoro è chiamato ad applicare

quotidianamente, in un numero considerevole di controversie, le stesse norme di legge, riduce

grandemente la possibilità di catturare la sua attenzione con discorsi che abbiano ad oggetto

l’interpretazione astratta di quelle norme, sulle quali la sua mente sarà già stata chiamata a

soffermarsi innumerevoli volte in precedenti occasioni anche quando si tratti di norme introdotte

da una recente riforma.

Pertanto, se pure è vero che anche nel processo del lavoro il difensore dovrà anzitutto presentare la

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soluzione favorevole al suo cliente come quella che è imposta dalla legge , l’avvocato che indugiasse

in maniera eccessiva sulle questioni di diritto rischierebbe di non aiutare il giudice ad adottare una

giusta decisione , tenendo anche conto del carico di lavoro che ogni giorno un magistrato è

costretto inevitabilmente ad affrontare .

Si comprende quindi come l’avvocato giuslavorista debba concentrare la sua attenzione soprattutto

sulla narrazione dei fatti se vuole accrescere le sue possibilità di convincere il giudice della bontà

delle ragioni del suo cliente.

Ed infatti, da un lato, la mente dei giudici del lavoro è, per i motivi ai quali sopra è stato fatto

cenno, una mente allenata, che ha già «ragionato in passato» , così che essi sono generalmente in

grado di individuare la soluzione giuridica della controversia anche soltanto sulla base della

conoscenza delle circostanze di fatto oggetto di causa e senza alcuna necessità di dover attendere

anche l’esposizione da parte degli avvocati delle contrapposte ragioni di diritto.

D’altro lato, e soprattutto, è con la narrazione dei fatti di causa che l’avvocato potrà ottenere

l’assenso del giudice sulla giustizia della soluzione richiesta rispetto alle particolari circostanze del

caso concreto , così che anche per tale ragione quella narrazione è destinata ad assumere

un’importanza fondamentale ai fini della decisione della causa .

Né deve ritenersi che la validità di tali affermazioni sia limitata ai due gradi del giudizio di merito,

posto che la mente dei giudici di legittimità è, anche per l’esperienza maturata, allenata in sommo

grado e che la funzione di nomofilachia non impedisce certo a giudici così esperti la considerazione

dei profili di giustizia del caso concreto anche quando non sono chiamati a decidere la causa nel

merito .

Per tutte le ragioni che precedono, l’avvocato giuslavorista, avendo a che fare con giudici che, anche

per la loro cultura e sensibilità, sono particolarmente attenti ai fatti, dovrà dunque avere soprattutto

cura di illustrare in maniera adeguata tutti gli aspetti fattuali della vicenda oggetto del giudizio

necessari a convincere e persuadere il giudice della bontà delle ragioni del suo cliente.

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NOTE A SENTENZA

La sentenza della Cassazione n. 25201/2016 sul GMO.

Bilanciamento dei diritti e clausole generali.

Di Roberto Cosio

Avvocato

Sommario: 1. Premessa. – 2. Sul mancato rinvio alle Sezioni Unite. – 3. Sull’esegesi della norma e

l’interpretazione costituzionalmente orientata. – 4. La compatibilità con l’ordinamento europeo. - 5.

Clausole generali e controllo giudiziale. – 6. Il diritto e l’interprete.

1.Premessa.

L’esame della sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25201 consente di formulare alcune

riflessioni che, almeno in parte, trascendono la materia in esame.

La sentenza prende posizione su due contrastanti orientamenti di legittimità su un tema di grande

attualità: il licenziamento individuale per ragioni economiche.

Un primo orientamento ritiene che il licenziamento individuale per GMO deve essere giustificato

dalla necessità di fare fronte a “sfavorevoli situazioni dell’impresa che non siano meramente

contingenti e che inoltre in modo rilevante influiscano negativamente sull’attività produttiva” .

Per questo orientamento, il licenziamento è legittimo solo nella ricorrenza di “fattori esterni

sfavorevoli , e si configura dunque come extrema ratio, descrivendo “la concatenazione tra i singoli

fattori” (che compongono la fattispecie) “cioè le situazioni sfavorevoli, le scelte aziendali di riassetto

organizzativo e la soppressione del posto di lavoro, in termini esclusivamente di necessità” , o di

“inevitabilità”.

In sostanza, per tale orientamento la sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda assurge

a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Secondo altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui alla legge n. 604

del 1966, art. 3, possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le

finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti (…)

opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art.

41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non

modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua

configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il naturale interesse ad

ottimizzare l’efficienza e la competitività” .

Si è altresì, considerato “estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non

impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento

di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori” .

Con la sentenza in esame, la Corte ha dato continuità (“al fine di consolidarlo”) a questo secondo

orientamento.

La sentenza , definita dal Primo Presidente della cassazione, nella Relazione della giustizia sull’anno

2016, una delle tre sentenze più importanti della sezione lavoro nel 2016 è stata paragonata “a una

sentenza delle Sezioni unite”. L’orientamento si è, peraltro, consolidato nella giurisprudenza di

legittimità del 2017 .

***

2.Sul mancato rinvio alle sezioni unite.

Il richiamo alle Sezione Unite sollecita una prima osservazione, di carattere processuale.

Non è un mistero che, con la sentenza n. 25201/2016, si sia adottato un nuovo metodo deliberativo

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all’interno della sezione lavoro, secondo il quale la questione viene previamente approfondita e

discussa tra tutti i magistrati della Sezione stessa , raggiungendosi così una soluzione interpretativa

condivisa “dalla maggioranza dei componenti e da adottare successivamente da tutti i collegi

giudicanti al fine di evitare orientamenti divergenti” .

Ma questo “metodo” può considerarsi in linea con il dettato dell’art. 374 c.p.c. il quale prevede che

la Corte pronunci a Sezioni Unite su ricorsi che presentano una “questione di diritto già decisa in

modo difforme dalle sezioni semplici” o che presentano una “questione di massima di particolare

importanza” ?

Nella disposizione si riflette un bilanciamento tra due canoni costituzionali (la soggezione del

giudice solo alla legge e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge) che favorisce l’uniforme

interpretazione della legge.

“Una sorta di principio attenuato di stare decisis”, come è stato definito , “perché non predica la

vincolatività del precedente, come nei sistemi anglosassoni di common law, ma mira a rafforzare la

uniformità della giurisprudenza e a tutelare l’affidamento nella stabilità dei principi di diritto”.

Nell’intervento delle Sezioni Unite sarebbe stato opportuno considerate le implicazioni di carattere

costituzionale (il difficile bilanciamento tra libertà d’impresa e diritto del lavoro) e di diritto europeo

(il ruolo dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali nella fattispecie) che il tema (licenziamento

per ragioni economiche) solleva.

Ma così non è stato.

Sarebbe, viceversa, auspicabile che la Corte, nel rispetto dei ruoli (tra sezioni semplici e sezioni

unite) affidi alle Sezioni unite la soluzione di contrasti giurisprudenziali su materie che richiedono

un delicato bilanciamento tra diritti costituzionalmente protetti.

Scelta che la Corte (in maniera condivisibile) ha, peraltro, ritenuto di percorrere, di recente,

nell’esame della questione della riconducibilità ad ipotesi di nullità o di temporanea inefficacia del

licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato prima del compimento dello

stesso .

Un mutamento di “metodo” (con un ritorno al passato) che, si auspica, si consolidi in futuro.

***

3.Sull’esegesi della norma e l’interpretazione costituzionalmente orientata.

La motivazione muove (correttamente) dal dato esegetico della norma.

L’art. 3 della legge n. 604 del 1966 prevede, com’è noto, che “il licenziamento per giustificato

motivo (..) è determinato (…) da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro

e al regolare funzionamento di essa”.

L’interpretazione letterale della norma, si legge nella sentenza, “esclude che per ritenere giustificato

il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini della integrazione della fattispecie

astratta, un presupposto fattuale – che il datore debba indefettibilmente provare ed il giudice

conseguentemente accertare – identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli ovvero di

spese notevoli di carattere straordinario, cui sia necessario fare fronte”.

Affermazione ineccepibile, salve le necessarie precisazioni in ordine alla natura della norma in

esame (norma generale o clausola generale) su cui si tornerà.

La diversa interpretazione, prosegue la motivazione della sentenza, “non trova riscontro in dati

interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto

e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del

licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna”.

In questa prospettiva, infatti, i limiti al licenziamento per GMO sono enucleati in presa diretta con

l’art. 41, comma 2, Cost. “avocando all’interprete l’arbitraggio tra l’utilità sociale, tutela del

lavoratore e ragioni dell’impresa oppure indagando all’interno dell’ordinamento giuridico del lavoro

subordinato alla ricerca di dati normativi capaci di curvare la disciplina del GMO piegandola ad una

maggiore garanzia del posto di lavoro”.

Tale lettura “tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta”, precisa la Corte.

“In una pluridecennale giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare – in

estrema sintesi e per quanto qui rileva – che nell’art. 4 Cost. non è dato rinvenire un diritto

all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che l’indirizzo di progressiva garanzia del

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diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e dall’art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre

temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla

discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di

attuazione, in rapporto alla situazione economica generale. In assenza di una specifica indicazione

normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto la

legge n. 604 del 1966, art. 3 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra

una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa

optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non

contingenti situazioni di crisi” .

In estrema sintesi, sembra possibile cogliere nelle parole dell’estensore della sentenza una velata

critica all’impostazione metodologica (che stà alla base dell’orientamento non condiviso) che affida

all’interprete, non appagato dal bilanciamento di interessi operato dal legislatore, di forzare il

precetto legale per la ritenuta insufficienza degli esiti del bilanciamento operato in sede di

legislazione ordinaria .

Sul tema, di per sé delicatissimo, torneremo alla fine .

L’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/66 viene, peraltro, supportata, nella sentenza, da una

lettura sistematica della stessa con l’art. 30, comma 1, della legge n. 183/2010 che. Com’ è noto,

dispone che in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico

“contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di (…) recesso, il controllo giudiziale

è limitato, esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del

presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,

organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.

Da quest’ultima norma si desume, come si legge in motivazione, che “una errata ricognizione del

contenuto della fattispecie astratta mediante l’inserimento di un elemento non previsto” comporta

la censurabilità della sentenza per violazione di norme di diritto a mente dell’art. 360, comma 1, n. 3

c.p.c..

***

4. La compatibilità con l’ordinamento europeo.

L’interpretazione proposta nella sentenza “non palesa profili di tensione neanche con

l’ordinamento dell’Unione europea”.

Vengono richiamate, sotto questo profilo, gli art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

europea e l’art. 24 della Carta sociale europea.

L’art. 30 della Carta, peraltro, non sembra trovare applicazione nella fattispecie.

La Corte di giustizia, con un orientamento costante , ritiene che la violazione del Trattato può

essere fatta valere dinanzi alla Corte soltanto nel caso in cui vi sia una norma interposta, da

intendersi come fonte normativa che espressamente disciplini la materia (ad es. una direttiva).

Nel nostro caso, anche se la materia dei licenziamenti è tra quelle di competenza dell’Unione, ai

sensi dell’art. 153 del trattato di funzionamento dell’UE, l’unica direttiva esistente riguarda i

licenziamenti collettivi e non quelli individuali.

In ogni caso, è utile ricordare che la disposizione della Carta (art. 30 ) si limita a proclamare il diritto

del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato , lasciando al legislatore

comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del

principio enunciato .

La disposizione si “ispira”, come si legge nelle spiegazioni relative alla Carta , “all’art. 24 della Carta

sociale riveduta .

Disposizione che prevede che:

“Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti si

impegnano a riconoscere:

a.Il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o

alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del

servizio.

b. Il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra

adeguata riparazione.

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A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto

di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere diritto di ricorso contro questa

misura davanti ad un organo imparziale”.

L’ultimo comma della disposizione trova riscontro, all’interno della Carta, nell’art. 47 che assicura il

diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.

La prima parte della disposizione “ispira” , viceversa, l’art. 30 della Carta.

Anche l’art. 24 della Carta sociale europea, peraltro, si limita a stabilire l’impegno delle parti

contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra

essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”.

In dottrina si è ipotizzato l’uso di tale disposizione come norma interposta per una lettura

costituzionalmente orientata del giustificato motivo oggettivo.

Lo stesso Tribunale di Roma, nell’ordinanza del 27 luglio 2017, ha utilizzato l’art. 24 della Carta

sociale come norma interposta (con riferimento all’art. 117 Cost.) al fine di sollevare, sotto

molteplici profili, l’illegittimità costituzionale dello Jobs Act .

Anche il Consiglio di Stato, nell’ordinanza del 4 maggio 2017, n. 2043, ha sollevato questione di

legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs n. 66 del 2010 (codice militare) nella

parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali di carattere sindacale o di aderire

ad associazioni sindacali, in riferimento all’ art. 117, comma 1, Cost. utilizzando come norme

interposte, gli artt. 11 e 14 della CEDU e l’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea.

Resta il fatto che, allo stato, la Corte costituzionale non ha utilizzato l’art. 24 della Carta sociale

come norme interposta.

Nella stessa sentenza menzionata nell’ordinanza del Tribunale di Roma (la n. 178 del 2015), la Corte

Costituzionale si limita a richiamare la Carta sociale Europea quale fonte sovranazionale di cui

occorre tenere conto nell’interpretazione della fonte costituzionale interna.

Ed è lo stesso Consiglio di Stato, nell’ordinanza già citata, ha precisato che compete alla Corte

costituzionale” stabilire se effettivamente sussista tale contrasto, previo accertamento che la norma

di diritto internazionale convenzionale tratta dall’art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia

idonea ad integrare un parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.”

.

***

5.Clausole generali e controllo giudiziale

La sentenza ha cura di sottolineare alcuni tratti comuni ad entrambi gli orientamenti esaminati.

Gli stessi attengono al controllo “giudiziale del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione

addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite

al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato

nella non pretestuosità della scelta organizzativa”.

L’affermazione, al di là delle esemplificazioni contenute in motivazione, richiede un

approfondimento.

Il legislatore italiano, nell’art. 30 della legge n. 183/010, annovera il giustificato motivo tra le

clausole generali. E la stessa giurisprudenza di legittimità è orientata in tal senso

Ma la qualificazione in dottrina è tutt’altro che scontata.

Parte della dottrina giuslavorisitica, infatti, preferisce optare per l’inquadramento nell’ambito delle

norme generali .

La norma generale, secondo Mengoni , “è una norma completa, costituita da una fattispecie e da un

comando, ma la fattispecie non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di

casi genericamente definiti, mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione il giudice

è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente

vigenti nell’ambiente sociale in cui opera (…). Questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine

maggiore di discrezionalità, e così ammette un certo spazio di oscillazione della decisione; ma si

tratta di una discrezionalità di fatto, non di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme” .

Le clausole generali, viceversa, “sono norme incomplete, frammenti di norme; non hanno una

propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi

normativi di altre disposizioni (…). Nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale

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introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti

o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall’esito del confronto

certe conseguenze giuridiche, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie sorte in quell’ambito” .

La distinzione è, ovviamente, estremamente, rilevante, perché nel caso di norme generali la tecnica

legislativa lascia al giudice solo una discrezionalità di fatto e non una discrezionalità produttiva o

integrativa di norme.

Non solo.

Nell’applicazione delle clausole generali, il meccanismo di sussunzione opera alla rovescia.

“E’ il fatto concreto che và sussunto nella norma”, “è il giudizio di fatto (espresso sulla base di

parametri extralegali (…) a riempire il contenuto e a concretizzare la clausola generale” .

Aderendo alla qualificazione del GMO come “clausola generale” occorre ricordare l’insegnamento

della Cassazione che si è formato alla fine del secolo scorso.

La Suprema Corte, fin dal 1998 , ha elaborato, infatti, una serie di principi (in tema di giusta causa)

che devono servire da guida per l’operatore di diritto.

In particolare, la Corte ha chiarito che:

a) Nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica “il giudice di

merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa

(…) in quanto da concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto

tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quanto dal

lavoratore un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè

la legge richieda tale elemento”;

b) Tale “giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice del merito deve (…)

conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad

una serie di standars valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi

compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di lavoro la c.d. civilità del lavoro”;

c) “la valutazione di conformità – agli standars di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in

essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa

che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione

nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida ”.

Si tratta di affermazioni di grande rilievo in cui si coglie la valorizzazione dei c.d. standards

valutativi esistenti nella realtà sociale che insieme ai principi generali offrono supporto (e

legittimazione) all’attività di integrazione giuridica della norma posta in essere dal giudice di merito.

E la “conformità ai principi generali dell’ordinamento”, non a caso, è ribadita nell’art. 30 del

collegato lavoro.

Aderendo a tale ricostruzione va approfondito il tema del controllo giudiziario sul GMO in base ai

tratti comuni dei due orientamenti esaminati nella sentenza in commento.

Occorre ribadire, infatti:

a) che il potere organizzativo può incontrare dei limiti di natura legale (il divieto di effettuare un

decentramento produttivo) o contrattuale (la contrattazione collettiva, ad esempio, può imporre un

numero minimo di addetti per gestire un certo servizio).

La Cassazione (Cass. 5 settembre 2000, n. 11718) ha ritenuto, ad esempio, illegittimo un

licenziamento per GMO disposto a seguito di un decentramento organizzativo realizzato dal datore

di lavoro in violazione dei limiti posti dalla contrattazione collettiva.

Le stesse “valutazioni tecniche”, secondo alcune opinioni, sembrano rientrare (almeno in parte)

nell’ambito del controllo giudiziale allorchè appaiono inattendibili “attraverso un controllo di

ragionevolezza e coerenza tecnica del provvedimento datoriale teso ad accertarne l’attendibilità sul

piano scientifico”

b) Gli stessi contenuti delle ragioni produttive o organizzative non sono esenti da controlli.

Nella soppressione del posto è il riassetto organizzativo il prius e la soppressione del posto di

lavoro il posterius .

Come si legge in Cass. 28.9.2016, n. 19185, infatti, vi è “la necessità di verificare il rapporto di

congruità causale tra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i

compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è

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necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un effetto di

risulta”.

c)Occorre, peraltro, un rapporto di causa-effetto tra la decisione organizzativa ed il licenziamento

del lavoratore. In ossequio alla giurisprudenza dominate non basta accertare l’esistenza di una logica

connessione tra scelta e licenziamento (una delle diverse possibili connessioni) ma occorre verificare

che il licenziamento risulti casualmente necessitato (unica e necessaria conseguenza dell’opzione

organizzativa)

d) Le ragioni del licenziamento vanno, infine, esternate in forma scritta nella lettera di licenziamento

(art. 2, comma 2, l. n. 604/66 come modificato dall’art. 1, comma 37, della l. n. 92/12) in modo

specifico con la conseguenza che una motivazione generica ne può comportare, di per sé,

l’illegittimità (come nel caso esaminato dal Tribunale di Roma nell’ordinanza di rimessione alla

Consulta).

e) A ciò deve aggiungersi la lungimirante indicazione contenuta nella sentenza in commento (n.

25201/16) che, dopo aver affermato la sufficienza per la legittimità del GMO delle ragioni “che

determinano un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una

individuata posizione lavorativa” precisa “ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando

l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere

straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare

ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della

causale addotta dall’imprenditore”.

***

6.Il diritto e l’interprete.

Un’ultima notazione.

Nella sentenza si legge:

“Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l’attività

economica, anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una

singola posizione lavorativa, debba seguire la strada di inibire il licenziamento individuale, fermo

restando che chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa

essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla

concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza

produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi. Non

spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall’art. 3 (…), surrogarsi nella

scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della

mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la

migliore opzione per l’impresa e la collettività”.

E’ altamente istruttivo porre a confronto queste affermazioni con quelle contenute in un’altra

sentenza fondamentale della Cassazione del 2016 (la n. 14188), sempre a sezione semplice, che,

dopo circa 50 anni, ha mutato la qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale

(riconducendola nell’area della responsabilità contrattuale anziché extracontrattuale).

Afferma la Corte (nella sentenza n. 14188/16) che “il significativo ampliamento dell’area di

applicazione della responsabilità contrattuale (…) è certamente frutto di un’evoluzione nel modo di

intendere la responsabilità civile che dottrina e giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di

assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, poiché

involgenti i loro beni ed interessi – sempre più numerose e diffuse nell’evolversi della società, dei

bisogni e delle esigenze dei cittadini – una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita

dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.”.

Nelle parole della Corte, in quest’ultima sentenza, emerge l’esigenza di dare soddisfazione a bisogni

di tutela via via emergenti e non rinvenienti un’adeguata tutela nelle norme in cui tradizionalmente

venivano sussunte.

In questa affermazione si avverte un distacco dalla fattispecie che disvela un bisogno, un’esigenza di

tutela che la fattispecie non ha avuto la volontà di individuare.

Fattispecie è species facti. “descrizione o immagine, non di un fatto già accaduto e quindi

accertabile mercè un giudizio storiografico, ma di un fatto futuro o di una classe di fatti futuri, che

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la norma considera dotati di un qualche grado di probabilità”.

Due fenomeni mettono in crisi il concetto della fattispecie.

A) Lo spostarsi dei criteri di decisione giudiziaria al di sopra della legge. L’innalzarsi dalle leggi

ordinarie alle norme costituzionali (che, in linea di massima, sono norme senza fattispecie).

B) Il “salire” dal diritto ai valori, cioè a criteri supremi che si celano o si calano nelle norme

costituzionali .

I valori valgono in sé e per sé, non hanno bisogno di altre norme o di tramiti, ma si appoggiano

soltanto su stessi. Le parti non espongono al giudice eventi riconducibili a casi “stati di fatto

contrari al diritto”, ma “situazioni di vita”, contenuti di esperienza e domande e risposte nel segno

dei valori.

Il fatto non ha più bisogno di convertirsi in caso, poiché il valore non richiede un tipo di evento,

ma una situazione di vita da approvare o disapprovare. Il giudizio di valore non assegna predicati,

ma piuttosto reagisce a una situazione della vita.

***

Ma la crisi attuale non investe, solo, la categoria della fattispecie ma, più in generale, le categorie

(soggetto, beni, atto di autonomia, responsabilità) sulle quali era costruito l’impianto delle “Dottrine

generali del diritto civile” di Francesco Santoro Passarelli.

Non a caso si afferma che è in atto una rivisitazione di quell’impianto non per contestarne

l’originario equilibrio, ma per rendere esplicito ciò che troppo spesso rimane sottinteso “che il

diritto civile, sede privilegiata di raffinate ricostruzioni operative ricostruttive, deve liberarsi dal letto

di Procuste di categorie assunte come degli a priori, perché ciascuna di esse può essere

legittimamente configurata (e, al limite, rimodellata o accantonata) solo all’esito del procedimento

interpretativo, ormai definitivamente libero dal preconcetto che il suo punto di riferimento

oggettivo sia soltanto un sistema di enunciati posti”. Operazione che richiede un radicale

mutamento di prospettiva. “non più un diritto che nasce dall’alto, nella rarefatta atmosfera di

palazzi dove si fa sintesi dei conflitti sociali (…) ma semmai dal basso nei luoghi in cui questi

conflitti si consumano e trovano soluzioni o in difficili mediazioni socio-economiche o nel delicato

crogiolo del giudizio” (pag. 7).

Ciò implica non soltanto la necessità di rivedere le tradizionali categorie ordinanti, ma impone

“all’uomo di diritto di intendere le novità di un ruolo che non gli chiede più di limitarsi a dati da

altri posti (nell’esercizio che pretende comunque di imporsi alla società), ma lo sollecita a rendersi

artefice di una tessitura per il cui risultato finale spetta fondamentalmente a lui mettere insieme la

trama delle regole dettate con l’ordito delle situazioni concrete, consapevole peraltro che

l’incomparabilità delle persone esclude il riferimento a paradigmi astratti applicabili in maniera

indifferenziata”.

Il paradigma del valore “si sposta dalla legge al giudizio, assegnando al giurista (teorico o pratico)

una funzione che era rimasta soltanto implicita nella stagione delle grandi omologazione

assiologiche (pag. 3). Spostamento che, secondo questa impostazione, impone di liberarsi della falsa

convinzione che la decisione in base alla razionalità sussuntiva offra maggiori certezze di quella

radicata su valori.

In definitiva, il problema sta in ogni caso nella misura di condivisibilità della soluzione. “Nella realtà

del postmoderno il dettato normativo tende inevitabilmente ad essere un punto di arrivo, non un

punto di partenza. Né c’è più necessità di nascondersi dietro lo schermo della precomprensione,

perché ormai anche le Corti costituzionali e i massimi consessi giurisdizionali (…) dichiarano

esplicitamente che l’oggetto delle loro analisi non sono solo i testi, ma contesti, non sono dettati da

esperienze, non sono parole ma fatti” (pag. 5).

***

Rivisitazione di categorie e di ruoli che trova riscontro nelle posizioni dell’attuale Presidente della

Corte costituzionale espresse, da ultimo, nella lezione inaugurale dei corsi di formazione per l’anno

2017 della “Scuola Superiore della Magistratura”.

In particolare, nel saggio sulla odierna incertezza del diritto , Paolo Grossi invita a liberarci della

“forca caudina” costituita dalla netta antitesi certo/incerto.

“La certezza quale principio sommo di cui parla Lopez De Onate deve essere colto come

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strettamente collegato a una civiltà improntata a un fermo assolutismo giuridico (…) deve essere,

insomma, vista come strumentale alla autorità investita del potere di produrre le norme”.

Poiché non era in discussione la giustizia dei contenuti della norma ci si doveva arrestare

all’inestimabile bene della certezza.

Oggi non è più così.

“La rilettura dei testi delle leggi ordinari alla luce dei principi raccolti nella Costituzionale ha, infatti,

consentito di fare esprimere all’interprete la loro potenzialità e ricchezza, ignota a ogni proposizione

legale” (pag. 71).

Basti pensare all’uso del principio di ragionevolezza e alle sue molteplici applicazioni della Consulta

per rendersene conto.

L’avventura costituzionale italiana, insomma, “ha rappresentato la salutare messa in discussione di

una legalità unicamente legislativa e di una certezza unicamente formale” (pag. 75).

Una seconda svolta, epocale, è costituita, nel tempo postmoderno, dal “fertile laboratorio giuridico

rappresentato dall’Europa” (pag. 75) “che ha consentito alla Corte di giustizia (attraverso

l’applicazione di principi quali la proporzionalità) di dare voce alla comunità di diritto che stà alla

base dell’Unione” (pag. 76).

L’asse portante della nostra civiltà post-moderna, conclude Grossi (pag. 81), “è necessariamente

spostata da un nomo tema (troppo spesso impotente o sordo) all’interprete, soprattutto al giudice

che per sua vocazione professionale ha di fronte la questione ed è chiamato a dirimere la

controversia”.

***

Di diverso avviso si mostra, però, IRTI negli scritti raccolti nel volume “Il diritto incalcolabile”.

Il pensare (e decidere) per valori – come che siano intuiti, immanenti o trascendenti, calati dall’alto

o emersi dal basso – “è altezzoso soggettivismo concreto. Il giurista dei valori innalza a valori ciò

che fa valere con l’energia della propria volontà, o d’una volontà comune a sé e d altri. (Nietzsche ci

ha svelato questi percorsi interiori). Egli si pone di fronte alla “situazione di vita”, e risponde con la

concreta immediatezza del valore” (pag. 15).

La crisi della fattispecie non è crisi della decisione.

“Il diritto sente orrore del vuoto e le società umane hanno sempre bisogno del giudizio” (pag. 31)

“La calcolabilità non esclude il nichilismo giuridico ma lo rinserra in vincoli procedurali e in

coerenze argomentative: appunto, il salvagente della forma” (pag. 13 e135).

Cosa intenda IRTI con tale espressione viene chiarito nel saggio I cancelli delle parole (pag. 69-87).

Il punto di partenza del ragionamento consiste nella riaffermazione che “il testo normativo ha da

essere punto di partenza e punto d’arrivo, poiché non c’è nulla al di sopra o al di sotto di esso: tutto

è dentro il suo cerchio” (pag. 70).

Non a caso viene richiamato il monito di Adolf Merkl , la lingua è “il grande portone attraverso il

quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini”.

Due sono le indicazioni essenziali, in questo contesto.

Allargare la mediazione delle leggi ordinarie. La vena di irrazionalità “che oggi percorre

l’ordinamento e affiora inattesa nelle decisioni dei singoli casi, sarebbe arginata o raffrenata, se

norme e principi, generali o universali, si calassero in leggi ordinarie dotate di fattispecie” (pag. 71),

liberando il giudice dalla solitudine della particolarità. La mediazione delle leggi ordinarie è, altresì, o

forse soprattutto, mediazione del linguaggio tecnico, “poiché esse abbandonano parole solenni e

vaghe (…) e scendono alla terminologia propria del diritto”. (pag. 73)

Restituire la sentenza ad applicazione di norme positive e fondare la decisione giudiziaria sull’antico

e saldo terreno della fattispecie (pag. 72).

***

Le considerazioni (e preoccupazioni) di IRTI sono condivise da ampi settori della dottrina e della

giurisprudenza.

Basti qui ricordare (per la dottrina) le parole di Luigi Ferrajoli :

“l’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è che la cultura giuridica, attraverso la teorizzazione e

l’avallo di un ruolo apertamente creativo di un nuovo diritto affidato alla giurisdizione – inteso

come creazione – contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un

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ulteriore ampliamento degli spazi già amplissimi della discrezionalità dell’argomentazione e del

potere giudiziario, fino all’annullamento della separazione dei poteri, al declino del principio di

legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge” (pag.

170).

Preoccupazioni condivise da VIDIRI laddove parla di “un diritto incerto” che trova origine da una

“tecnica legislativa approssimativa e lacunosa” e da una giurisprudenza “non di rado anarchica e

creativa ed anche ideologicamente condizionata” (pag. 7). Ed ancora che il tema della mediazione

giudiziale, nell’applicazione del diritto del lavoro, è “infido e scivoloso dal momento che esso

rischia di essere trattato (…) in chiave politico-ideologica”.

***

Alla luce delle superiori premesse, una lettura, a specchio, delle due sentenze sopra citate e quanto

mai illuminante.

Nella sentenza sulla responsabilità precontrattuale prevale un distacco dalla fattispecie che disvela

un’esigenza di tutela che la fattispecie non ha avuto la capacità di individuare.

Il richiamo al dialogo tra dottrina e giurisprudenza (innalzata a fonte del diritto) assicurerebbe, in

questo contesto, la tenuta, complessiva, del sistema giuridico. Nella sentenza sul licenziamento per

GMO, viceversa, la decisione si fonda “sull’antico e saldo terreno della fattispecie”, pur nella

consapevolezza che i risultati ermeneutici (fondati sull’esegesi del testo) devono fare i conti con

un’interpretazione conforme alla Costituzione e alle fonti europee.

Approccio che, dal punto di vista metodologico, sembra, certamente preferibile.

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Prime considerazioni sulla questione di costituzionalità del

Jobs act sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza del

26.7.2017

Di Carla Musella

Presidente della sez. lavoro del Tribunale di Napoli

Abstract: il commento esamina la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Roma, nel

contesto del principio di giustificazione di ogni recesso, già affermato dalla Corte Costituzionale nel

lontano 1965, con particolare riguardo al parametro dell’art. 3 Cost. ed alla contemporanea vigenza

nel nostro ordinamento giuridico di due diversi regimi di tutela per la stessa tipologia di

licenziamento illegittimo. Il commento, premesso il rispetto delle norme sottoposte al giudice delle

leggi del principio dell’affidamento, esamina i profili della razionalità e ragionevolezza del diverso

regime vigente per gli assunti prima del 7.3.2015, ai quali si applica l’art. 18 Statuto come modificato

dalla legge 2012/92 e per quelli assunti dopo, ai quali si applica il decreto legislativo 2015/23

emanato sulla base della legge delega 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c).

1. Le norme del Jobs act oggetto dell’ordinanza del tribunale di Roma.

La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma riguarda la sanzione economica

prevista dal complesso normativo legge 183/2014 art. 1 comma 7 lettera c) e decreto legislativo

23/2015, artt. 2, 3 e 4.

Tuttavia, se l’occasione per la rimessione al giudice delle leggi è stata la sanzione prevista per il

licenziamento economico per giustificato motivo oggettivo, è l’intero sistema sanzionatorio per i

licenziamenti illegittimi, a partire dalla legge delega, che viene investito delle censure di violazione

degli artt. 3, 4, 76 e 117 Cost. .

Tutto il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo, a cui fa rinvio anche l’art. 10 del decreto

legislativo n. 23/2015 relativo ai licenziamenti collettivi, sarà sottoposto al vaglio del giudice delle

leggi. Del resto sospetti di incostituzionalità della nuova disciplina sono stati avanzati dalla dottrina

immediatamente dopo la sua entrata in vigore , anche se si sono levate voci in favore della

compatibilità costituzionale e comunitaria del Jobs Act.

Qualunque sia l’opinione che può aversi al riguardo, è bene premettere che il decreto legislativo

23/2015 rispetta il principio costituzionale, più volte applicato dalla Corte, della tutela

dell’affidamento nei rapporti di durata, vale a dire l’attenuazione del principio di uguaglianza nel

passaggio da un regime giuridico ad un altro tipico delle leggi di riforma che non si applicano ai

rapporti giuridici sorti prima della loro entrata in vigore.

Come è noto il decreto legislativo 4.3.2015 n. 23, oltre a non aver creato una nuova tipologia di

contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato , ha modificato unicamente le sanzioni per

tutti i tipi di licenziamento illegittimo solo nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tempo

indeterminato dal 7.3.2015. Per i lavoratori già in servizio a quella data si continua, invece, ad

applicare la legge 28.6.2012 n. 92 di riforma del mercato del lavoro. Risulta, pertanto, rispettato l’art.

3 cost sotto il profilo della tutela dell’affidamento nei rapporti di durata, come sarà più ampiamente

trattato nel paragrafo 7.

Ma il vaglio di costituzionalità non riguarda affatto quest’aspetto che certamente, da solo, non può

valere a rendere le nuove norme compatibili con la costituzione.

L’ordinanza rimette, dunque, alla Corte l’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi

del Jobs act incluso l’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 per il licenziamento discriminatorio,

nullo ed intimato in forma orale.

La scelta di rimettere alla Corte Costituzionale anche l’art. 2 del decreto legislativo 2015/23 appare

tecnicamente ineccepibile in quanto il giudice ha ritenuto la non conformità alla Costituzione

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dell’intero sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi disciplinato dagli art. 2, 3 e 4 del

DLVO 23/2015 come fondato sulla legge delega art. 1 comma 7 lettera c).

Non si condivide, quindi, la critica, contenuta in uno dei primi commenti all’ordinanza di

rimessione, sulla incomprensibile inclusione nella questione di costituzionalità della disciplina del

licenziamento nullo, discriminatorio di cui all’art. 2 del DLVO 23/2015.

L’autore sostiene che non si comprende perché venga sollevata la questione di legittimità anche

dell’art.2 DLVO 23/2015 quando, secondo lo stesso iter argomentativo dell’ordinanza di

rimessione, non sarebbero presenti nella tutela reintegratoria forte prevista dall’art. 2 DLVO

23/2015 quei motivi di inadeguatezza e irragionevolezza che il Giudice rileva in relazione alla sola

tutela indennitaria.

In realtà è tutto l’impianto normativo che disciplina la tutela dei lavoratori assunti dopo il 7.3.2015

che è investito delle censure, tenuto conto che esso è destinato interamente a sostituire l’art. 18

dello Statuto, come novellato dalla legge 2012/92, rimasto in vigore per i rapporti di lavoro

subordinato stipulati antecedentemente al 7.3.2015 data di entrata in vigore del decreto legislativo

4.3.2015 n. 23.

Del resto non avrebbe avuto senso rimettere alla Corte Costituzionale solo la disciplina della

sanzione nei licenziamenti economici perché è evidente il collegamento logico e giuridico tra le

norme del decreto legislativo 2015/23 emanate sulla base delle regole contenute nell’art. 1 comma 7

lettera c) della legge delega 10.12.2014 n. 183; scelta, quindi, tecnicamente ineccepibile quella del

giudice remittente, anche in base al rilievo che la reintegra nel posto di lavoro non viene ritenuta,

nell’ordinanza di rimessione, tutela costituzionalmente necessitata e, quindi, non viene censurata la

esclusione della reintegra per i licenziamenti economici, ma appunto la disparità di trattamento tra

vecchi e nuovi assunti, l’entità della sanzione, l’assenza di discrezionalità del giudice nell’applicare la

sanzione concreta e così via, nel contesto di una riforma delle sanzioni per il licenziamento

illegittimo che ha riguardato anche i casi di nullità del licenziamento, rispetto alla disciplina vigente

del 2012. Anche la disciplina del licenziamento nullo e discriminatorio contenuta nell’art. 2 del

decreto legislativo 2015/23 presenta alcune differenze di disciplina rispetto alla riforma del 2012,

come evidenziato dalla dottrina. E come si vedrà nel prosieguo, è proprio sul terreno della

contemporanea vigenza di due diversi regimi sanzionatori per i licenziamenti illegittimi che si fonda

la questione di costituzionalità.

L’eventuale accoglimento integrale della sollevata questione comporterebbe l’estensione del sistema

sanzionatorio previsto dalla legge precedente n. 92 del 2012 cd. legge Fornero e, quindi, l’art. 18

novellato con le tutele differenziate ivi previste anche agli assunti dopo il 7.3.2015 .

In definitiva la Corte, in caso di accoglimento, è chiamata ad un’operazione chirurgica di

invalidazione integrale delle nuove norme anche con riguardo alla disciplina dei licenziamenti nulli e

discriminatori, che comporterebbe l’applicazione di un solo regime sanzionatorio per i licenziamenti

illegittimi nell’area di applicazione dell’art. 18 statuto.

Ovviamente ciò vale in caso di accoglimento, mentre gli esiti del giudizio di costituzionalità

possono essere di inammissibilità o rigetto tout court della questione, oppure interpretativa di

rigetto o di accoglimento, o ancora manipolativa o con monito al legislatore.

2. Il principio di giustificazione di ogni forma di recesso nella giurisprudenza della Corte

costituzionale.

Il giudice remittente, come si è appena detto, espressamente esclude la censura di illegittimità

costituzionale delle nuove regole in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo per

l’avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria – se non per i licenziamenti nulli e discriminatori e

per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare - in conformità a quanto più volte ribadito

dalla Corte costituzionale e ritiene conforme a Costituzione l’avvenuta marginalizzazione della

reintegra .

Il giudice delle leggi ha, invero, ripetutamente escluso che la tutela reintegratoria costituisca l’unico

possibile paradigma attuativo dei precetti costituzionali di cui agli art. 4 e 35 cost. (sentenze

46/2000, 44/1996 e 194/1970).

Tuttavia nella sentenza 46/2000, relativa alla proposta di referendum abrogativo dell’art.18 Statuto,

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in particolare, la Corte Costituzionale, dopo un breve excursus storico normativo sul pregresso

regime di libera recedibilità ex art. 2118 c.c. con obbligo di preavviso, afferma la introduzione,

attraverso la legge 15.7.1966 n. 604, del principio di necessaria giustificazione del licenziamento e

sottolinea come l’art. 18 Statuto sia indubbiamente manifestazione dell’indirizzo di progressiva

garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 cost che ha portato nel tempo ad introdurre

temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro.

Al tempo stesso la Corte costituzionale affida alla discrezionalità del legislatore le modalità di

realizzazione a tale temperamento, ritenendo che la reintegra non concreti l’unico paradigma

possibile dei principi ricollegabili agli artt. 4 e 35 Cost.

La decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale degli art. 1 comma 7 lettera c)

della legge delega 183/2014 e artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 2015/23 avrà, dunque, un peso

decisivo sulla perdurante tenuta o meno, nel nostro ordinamento, del principio di giustificazione di

ogni forma di recesso; principio opposto a quello di libera recedibilità che, già dal 1965, la Corte

Costituzionale ha affermato chiaramente non essere più un principio del nostro ordinamento, tanto

da determinare l’emanazione, di lì a poco, della legge 1966/604.

In definitiva il principio di giustificazione di ogni forma di recesso dal rapporto di lavoro

subordinato costituisce il frutto del bilanciamento di diversi principi presenti nella Costituzione e,

quindi, un limite alla pur ampia discrezionalità del legislatore nel difficile compito di innovazione

del diritto del lavoro.

Tale principio trova inoltre riscontro nelle fonti internazionali, richiamate dal giudice remittente, tra

cui in particolare l’art. 30 carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui deve ritenersi

costituzionalizzata la garanzia del lavoratore ad essere licenziato solo per giustificato motivo.

Conclusivamente l’inesistenza del principio di libera recedibilità è una certezza dell’ordinamento

giuridico attuale con conseguente impossibilità per il legislatore di reintrodurlo attraverso forme

attenuate o tendenziali.

3. La questione principale: Art. 3 Cost. razionalità e ragionevolezza

Pur essendo richiamati vari profili di illegittimità costituzionale delle nuove norme nell’ordinanza di

rimessione, il filo rosso della decisione della corte costituzionale sarà verosimilmente rappresentato

dal principio di uguaglianza nelle sue declinazioni della razionalità e ragionevolezza.

Il tema principale sembra rappresentato dalla concomitante esistenza di due diverse forme di tutela,

a parità sostanziale di situazioni, tra i lavoratori assunti prima del 7.3.2015 ai quali, in caso di

licenziamento economico illegittimo si applica una sanzione che varia a seconda della situazione e

della tipologia di illegittimità previste dalla legge 2012/92 e i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 ai

quali si applica una sanzione economica prefissata dal legislatore che cresce di due mensilità di

retribuzione per ogni anno di servizio.

Come sarà analizzato al paragrafo 6, il cuore della censura di illegittimità costituzionale riguarda la

diversità di regime a parità di condizioni sostanziali e di identica illegittimità del licenziamento e,

quindi, investe il principio di razionalità della legge.

La giurisprudenza costituzionale ha fissato il principio di razionalità nella formula “a situazioni

uguali, legge uguale, a situazioni diverse leggi diverse” . E’ chiaro che il problema per il giudice delle

leggi sarà quello di verificare l’equivalenza delle situazioni di fatto tra lavoratori assunti prima e

dopo il 7.3.2015 e controllare se la data di assunzione sia in grado di evitare la “rottura dell’interna

coerenza dell’ordinamento giuridico”.

In tale giudizio la Corte seguirà lo schema ternario diverso da quello binario legge – costituzione. Il

contrasto non dovrà essere esaminato direttamente tra norme della legge delega e del decreto

legislativo n. 23 del 2015 e art. 3 Cost, ma dovrà intervenire nel giudizio il terzo attore il cd. tertium

comparationis rappresentato dalla norma di paragone che è costituita dalla legge 2012/92.

Il controllo del giudice delle leggi riguarda, altresì, la ragionevolezza vale a dire la prudenza e l’equità

della scelta legislativa nel contesto dell’insieme delle prescrizioni costituzionali.

Riguarda, infine, l’art. 3 Cost. con riferimento all’automatismo legislativo previsto in caso di

illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla fattispecie concreta, che impone al giudice di

applicare, in ogni caso, la sanzione economica prevista dalla legge aumentata di due mensilità per

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ogni anno di servizio, precludendo, quindi, qualsiasi discrezionalità idonea ad adattare la regola

astratta al caso concreto.

Ed è proprio il caso concreto che mette a nudo la capacità del diritto di regolare con efficacia e

ragionevolezza i comportamenti umani e di costituire un limite all’arbitrio.

Appare, quindi, opportuno, prima di analizzare più ampiamente il tema dei principi costituzionali

coinvolti nel procedimento davanti alla Corte, ora sommariamente esposto, partire dalla fattispecie

concreta e dalla sua qualificazione nel giudizio a quo.

4. La fattispecie concreta

L’incipit dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Roma contiene la

motivazione del licenziamento economico impugnato davanti al giudice da una lavoratrice assunta

nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre dello stesso anno: si tratta di una motivazione tautologica

definita evanescente che accenna a “crescenti problematiche di carattere economico-produttivo”.

Non vi è altro. Ti licenzio perché ti licenzio.

Non si comprende se è in atto una crisi economica aziendale, se sussistano invece ragioni

produttive e/o decisioni imprenditoriali alla base della riduzione o cancellazione di un posto di

lavoro, a prescindere da eventi catalogabili come crisi vera e propria, o altra ragione organizzativa o

produttiva.

Ben diversa normalmente appare la casistica giurisprudenziale in correlazione alla fattispecie astratta

definita dall’art. 3 della legge 604/1966 che indica, nel giustificato motivo oggettivo, ragioni

attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art.

3 legge 604/1966).

La contumacia del convenuto, nel caso concreto esaminato dal giudice del Tribunale di Roma,

cristallizza l’assenza sostanziale di motivazione e di prova sulla reale natura “economica” del

licenziamento intimato ad una lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015.

Dall’ordinanza di rimessione si comprende anche che non è stata allegata altra circostanza di fatto

idonea a radicare un’ipotesi di nullità del licenziamento, che non è per nulla dedotta dalla parte

attrice tanto che il giudice ritiene impraticabile la strada della interpretazione conforme.

La vicenda, quindi, che sta alla base dell’ordinanza di rimessione presenta delle caratteristiche

peculiari, sia sul piano processuale per la contumacia del datore di lavoro e per le allegazioni limitate

della parte istante, che sul piano sostanziale - carenza assoluta di motivazione di un licenziamento

qualificato economico dal datore di lavoro. Soprattutto sembra esclusa, sulla base delle

prospettazioni ma anche sulla base dei testi normativi in comparazione tra loro, legge 2012 e legge

2014-2015, la possibilità per il giudice di accedere ad una diversa interpretazione del testo

normativo.

5. Nozione di licenziamento economico. Il giustificato motivo oggettivo

La qualificazione del licenziamento da parte del giudice: limiti.

Si tratta, dunque, di un licenziamento qualificato “economico” per il quale la legge delega sul Jobs

ACT art. 1 comma 7 lettera c) legge 183/2014, senza possibilità di equivoci, esclude la reintegra.

La legge delega (art. 1, comma 7 lettera c legge 183/2014), come è noto, esclude del tutto per i

licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro,

prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio.

La nuova terminologia usata nella legge delega n. 183 del 2014 “licenziamento economico”, è stata

criticata da alcuni in quanto assimila nella nozione “licenziamento economico” due istituti

profondamente diversi, sul piano giuridico, nel nostro ordinamento, quali sono il licenziamento per

giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi.

Altra parte della dottrina, in realtà, già usava la locuzione oggi adottata dal legislatore delegante

“licenziamenti economici”, con riferimento sia al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia

al licenziamento collettivo, sulla scorta della terminologia adoperata in altri paesi . E va ricordato

che entrambi i licenziamenti, quello collettivo e quello individuale per giustificato motivo oggettivo,

costituiscono un atto di recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro determinato da ragioni

economiche e produttive e non, quindi, da motivi inerenti la persona del lavoratore.

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In altri paesi, come la Francia, si parla di licenziamenti per motivi economici; locuzione quest’ultima

che sembra più corretta sotto un profilo lessicale, rispetto alla formula “licenziamento economico”

che è obiettivamente generica. Proprio dal code du travail francese art. L 1233-3 traiamo la

definizione di licenziamento per motivi economici, in negativo, come “licenziamento non inerente

la persona del lavoratore” ed, in positivo “licenziamento dipendente da difficoltà economiche e/o

innovazioni tecnologiche”.

La locuzione “licenziamento economico” nella legge delega 183/2014 e l’equazione licenziamento

economico = no reintegra ha una spiegazione ed un effetto immediato nell’impatto sociale (cd law

in action).

La spiegazione è che il diktat della legge delega, con la chiara esclusione di ogni forma di reintegra

per i licenziamenti “economici”, risponde alla pressione della Governance economica europea che,

da anni, richiedeva al governo italiano di modificare la vigente legislazione in materia di

licenziamento sul presupposto che la realizzazione di riforme del mercato del lavoro possa ridurre il

lavoro sommerso ed aumentare la partecipazione al mercato del lavoro. Ed in effetti, in relazione

alla disciplina dei licenziamenti, la Commissione, già nel Libro Verde del 2006, ha rivolto pressanti

inviti alle riforme in tema di licenziamento soprattutto riguardo al licenziamento economico .

La soluzione adottata dal legislatore italiano ha, dunque, un suo antecedente specifico nel libro

verde della commissione CE 2006 e nelle tesi di alcuni economisti francesi che considerano

l’imprevedibilità della decisione giudiziale, in materia di licenziamento per motivi economici, una

remora per i datori di lavori ad assumere personale.

Se, dunque, la legge delega n. 183/2014 chiude un percorso costellato dai pressanti inviti della

commissione Europea a modernizzare il diritto del lavoro ed escludere la reintegra nel posto di

lavoro per i licenziamenti economici, già iniziato con la riforma del mercato del lavoro del 2012

(legge 2012/92), dall’altro lato, la nitida indicazione della legge delega del 2014 costituisce un

indubbio invito ai datori di lavoro a scegliere comunque la strada del licenziamento economico per

essere al riparo dall’eventualità della reintegra. L’effetto della legge 183/2014, in altri termini, è un

incentivo ad optare, comunque, per la qualificazione del licenziamento in termini di licenziamento

“economico”.

Tuttavia accanto alla law in action esiste pur sempre il sistema (law in the code).

Se la legge delega stabilisce l’equazione licenziamento economico = no reintegra, occorre porsi la

domanda se la totale carenza del motivo economico possa comportare le stesse conseguenze di un

licenziamento economico ingiustificato.

In linea generale può affermarsi che il principio di effettività che caratterizza la tutela del lavoratore,

in ragione della inderogabilità delle norme in materia di lavoro, determina la necessità che

l’interprete privilegi la ragione sostanziale rispetto all’ aspetto formale.

Pur essendo ovviamente riservata al datore di lavoro la motivazione del licenziamento, non è

consentita un’operazione di auto qualificazione del licenziamento per scegliersi la tutela meno

gravosa a prescindere dalla sostanza dell’atto, vale a dire dalla vera ragione giustificatrice del

licenziamento e invadere l’area del giustificato motivo oggettivo con un licenziamento, ad esempio,

ontologicamente disciplinare.

Ciò è tanto più evidente nel momento in cui non solo sono stati introdotti nell’ordinamento

giuridico vari tipi di sanzioni in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento, dalla

legge di riforma del mercato del lavoro 2012, ma è stato previsto dalla successiva legge delega

2014/183, “il divieto” di reintegra per il licenziamento economico.

Né è ipotizzabile la inclusione nella nozione di giustificato motivo oggettivo della previsione di un

evento futuro idoneo a determinare il recesso per ragioni economiche atteso che, secondo la

giurisprudenza costante di legittimità, il giustificato motivo oggettivo deve riguardare circostanze

attuali e non future .

Sul punto non può concordarsi con la tesi, espressa in uno dei primi commenti all’ordinanza di

rimessione alla corte costituzionale, che ravvisa nel giustificato motivo oggettivo una “perdita attesa

superiore a una soglia prestabilita” che implica il riconoscimento che, salvi i casi di crisi aziendale

gravissima e quindi immediatamente evidente, il g.m.o. non è suscettibile di prova giudiziale in

senso proprio, perché è costituito da un evento futuro; e un evento futuro non può mai essere

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oggetto di prova, né documentale né testimoniale.

Il giustificato motivo oggettivo, secondo l’attuale disciplina, così come interpretata dal diritto

vivente, non può riguardare eventi futuri e mere previsioni ma deve riguardare, per essere

considerato legittimo, una scelta organizzativa attuale.

A ben guardare l’interpretazione giurisprudenziale del giustificato motivo oggettivo come riferito ad

eventi attuali di natura organizzativa e produttive e non a previsioni ed eventi futuri deriva

direttamente dal principio di necessaria giustificazione di ogni recesso come contrapposto al

principio di libera recedibilità di cui si è tratto nel paragrafo 2.

Si concorda pienamente sul fatto che le circostanze future non possano essere oggetto di prova né

testimoniale né documentale, ma in un contesto in cui è preclusa la libera recedibilità, la previsione

di un evento futuro ed incerto non può giustificare un licenziamento per g.m.o perché si finisce per

dar luogo ad un recesso equiparabile, sul piano giuridico, ad una scelta rimessa alla pura volontà del

datore di lavoro, tornando tendenzialmente al principio civilistico di libera recedibilità che già dal

1965, secondo la Corte costituzionale, non costituisce un principio generale del nostro

ordinamento.

L’eventuale carenza totale del motivo economico può comportare, dunque, la qualificazione del

licenziamento come non economico.

L’ipotesi è quella che di fronte alla carenza radicale di un motivo economico serio che sorregga il

licenziamento, questi perda la sua natura di licenziamento economico - per motivi economici, per

dirla alla francese, e si trasformi in un licenziamento nullo perché inerente la persona del lavoratore

e non più sorretto dal motivo economico.

D’altro canto la tesi degli economisti francesi e del pensiero di law and economics che si è tradotto

nel “divieto” di stabilire la reintegra per i licenziamenti economici è, appunto, quello di evitare che il

datore di lavoro, nel compiere modificazioni o decisioni riguardanti la sua impresa, trovi ostacolo

nelle lungaggini delle decisioni giudiziarie. Ma quegli stessi autori non mettono in dubbio che non

può aversi un finto licenziamento economico che giustifichi l’assenza di vaglio giudiziario . Sicché la

successiva proposizione logica a tale affermazione dovrebbe comportare una differenza di sanzione

tra il licenziamento economico vero e quello finto.

Se tale ipotesi può avanzarsi in astratto, e potrebbe alla lunga incidere sul diritto vivente (inteso

come interpretazione consolidata della Corte di cassazione), che si formerà sul Jobs act, nel caso

concreto del procedimento pendente innanzi al giudice del Tribunale di Roma, il giudice remittente,

in assenza di una domanda relativa alla nullità del licenziamento di reintegra nel posto di lavoro, di

allegazioni sulla natura ontologicamente disciplinare del licenziamento e/o discriminatoria, non

avrebbe potuto verosimilmente dar luogo ad una qualificazione diversa da quella del licenziamento

economico e accedere ad una qualificazione del fatto in termini di licenziamento inerente la persona

del lavoratore. Il principio della rilevabilità di ufficio di ipotesi di nullità va coordinato con il

principio dispositivo e della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c come spesso affermato dalla

giurisprudenza .

Ma soprattutto ad impedire, allo stato, un’interpretazione del genere di quella sopra prospettata è

proprio la legge delega e la differenza tra la legge del 2012 e la riforma del 2014-2015 che consiste

proprio, quanto ai licenziamenti economici (sia per giustificato motivo oggettivo che collettivi),

nella esclusione della reintegra anche nei casi di manifesta insussistenza del fatto, come sarà più

ampiamente analizzato nel paragrafo successivo: il giudice non poteva ignorare quanto prescritto

dalla nuova legge e avventurarsi in un’operazione interpretativa creativa sulla base della legge del

2012, inapplicabile ai nuovi assunti. E, d’altro canto, nel nostro ordinamento non è dato al giudice

decidere secondo il fatto, sia pure così suggestivo come quello del caso sottoposto al giudice di

Roma. Il giudice deve decidere secondo legge per realizzare la calcolabilità giuridica che è un tratto

ispiratore, tra l’altro, della riforma del jobs act.

Il Jobs act nasce, quanto al regime sanzionatorio dei licenziamenti, anche come reazione

all’eccessiva discrezionalità del giudice prevista dalla legge di riforma del mercato del lavoro del

2012 e, quindi, con un’ottica di semplificazione di una disciplina, quella della riforma del mercato

del lavoro del 2012, apparsa a molti troppo complessa.

Anche sotto tale profilo la motivazione dell’ordinanza del tribunale di Roma riportata alla nota 15

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appare pienamente condivisibile. L’interpretazione del giudice non può spingersi fino al punto di

obliterare il diritto vigente , tenuto conto dell’art. 101 della Cost e del sistema di soggezione del

giudice alla legge che consente unicamente decisioni secondo la legge e non secondo il precedente,

il fatto o i valori .

Resta dunque la considerazione che la legge delega costituisce un incentivo a ricorrere al

licenziamento economico e tale effetto sembra concretizzarsi in casi come quello portato davanti al

giudice del tribunale di Roma, lavoratrice assunta nel maggio 2015 e licenziata nel dicembre 2015

senza alcun motivo economico dedotto.

Il giudice si è, dunque, trovato di fronte all’alternativa di condannare il datore di lavoro alle 4

mensilità o sollevare la questione di costituzionalità.

Il nodo principale che dovrà sciogliere la Corte Costituzionale non riguarda tuttavia l’entità in sé

della sanzione stabilita dalla legge delle 4 mensilità di retribuzione, ma la circostanza che

nell’ordinamento esiste un’altra forma di tutela per la stessa illegittimità molto più forte che è quella

prevista dalla legge 28.6.2012 n. 92.

6. Art. 3 COST. Le differenti discipline di tutela dal licenziamento economico illegittimo: legge

2012 /92 e Jobs act a confronto, anche in relazione alle altre norme della costituzione richiamate

nella ordinanza.

Il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale rispetto a situazioni uguali e trattamento

diverso rispetto a fattispecie diverse.

Qualche autore afferma che la previgente disciplina dell’art. 18 Statuto, nel testo originario, prima

della legge di riforma del mercato del lavoro del 2012, offriva una tutela non ragionevolmente

indifferenziata delle varie ipotesi di illegittimità da esso previste, di talché poteva fruire della stessa

tutela il lavoratore licenziato per una banale ragione formale, come, ad esempio, il mancato rispetto,

seppure di poco, di un termine a difesa in caso di licenziamento disciplinare e, allo stesso modo, il

lavoratore oggetto della più pesante e conclamata discriminazione.

La legge di riforma del mercato del lavoro ha certamente avuto il merito di introdurre molte diverse

tutele consentendo un’ampia – secondo taluni eccessiva – discrezionalità del giudice.

Relativamente ai licenziamenti “economici”, oggetto del diktat della commissione Europea, la

riforma del 2012 ha cercato di differenziare la tutela e, pur intaccando il precedente regime di

reintegra indifferenziata in caso di illegittimità del licenziamento economico, per recepire le tesi

sulla modernizzazione del diritto del lavoro, ha introdotto un’importante differenziazione.

In particolare, per il caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è prevista, nella legge

2012/92, la ipotesi di manifesta insussistenza del fatto.

La fattispecie del licenziamento per manifesta insussistenza del fatto previsto dalla legge Fornero,

quanto al giustificato motivo oggettivo, risponde bene nelle ipotesi di totale inconsistenza del

motivo economico e si ricollega proprio alle teorie di law and economics che stanno alla base della

tesi per cui nessuno meglio dell’imprenditore può stabilire per quale ragione assumere o licenziare i

lavoratori e non è il caso che i giudici mettano il becco su faccende relative alle dimensioni e

all’organizzazione dell’impresa.

La legge 28.6.2012 n. 92 risponde alla tesi sopra enunciata eliminando sostanzialmente la reintegra

nei licenziamenti economici, ma al tempo stesso scoraggiando comportamenti arbitrari del datore di

lavoro. L’ ipotesi del 5° comma dell’art. 18 Statuto, come modificato dalla riforma del 2012, con

tutela meramente indennitaria, senza reintegra si verifica in tutti i casi in cui vi è un difetto di

giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per mancata prova dell’obbligo

di repechage, oppure perché il motivo addotto sussiste ma non è tale da potersi considerare un

giustificato motivo, alla luce della giurisprudenza maturata sul punto. Ed è prevista, in tali casi, la

tutela indennitaria e, quindi, solo economica anche se ben più cospicua di quella prevista per i

lavoratori poco anziani dal Jobs act.

Ma quando il motivo economico addotto non esiste, si ricade nella ipotesi eccezionale della cd

tutela reintegratoria debole di cui al 4° comma, dell’art. 18 novellato dalla riforma del 2012 con

reintegra ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, applicabile al licenziamento per giustificato

motivo oggettivo.

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Nel caso in cui non vi sia un difetto di giustificato motivo oggettivo, ma una totale assenza di esso,

la ipotesi di recesso, nella previsione della riforma del 2012, perde il collegamento con ragioni

economiche derivanti dalla gestione dell’impresa e si colloca in prossimità concettuale ai

licenziamenti adottati per motivi inerenti la persona del lavoratore.

In altri termini, se una ragione economica oggettiva non vi è per nulla, il recesso viene ad assumere

connotati del tutto diversi da quelli del licenziamento economico e ciò spiega e rende razionale e

bilanciata la scelta legislativa del 2012 di adottare una sanzione simile, anche se non identica, a

quella prevista per i licenziamenti discriminatori.

Analoghe considerazioni possono farsi per i licenziamenti collettivi in quanto il vizio relativo ai

criteri di scelta comporta la tendenziale assimilazione del licenziamento economico collettivo a

quello per motivi inerenti la persona del lavoratore.

In definitiva nel nostro sistema esiste una disciplina dei licenziamenti economici, con previsione

residuale della reintegra, che risponde razionalmente alle esigenze di modernizzazione del diritto del

lavoro senza tuttavia dar luogo ad un regresso sbilanciato delle tutele del lavoratore.

La razionalità della scelta di introdurre la reintegra in tutte le ipotesi in cui il licenziamento

economico e, quindi, per ragioni oggettive non sia tale ma riveli una considerazione della persona

del lavoratore appare di palmare evidenza, per la prossimità tendenziale al licenziamento

discriminatorio.

Ora nel caso sottoposto al giudice del Tribunale di Roma si tratta proprio di manifesta insussistenza

del motivo economico che, tuttavia, non consente al giudice di trattare il licenziamento alla stregua

di un licenziamento non economico per le carenti allegazioni e l’assenza di domanda, oltre che per

la ragione fondamentale che la legge delega esclude in materia rigida e tassativa la reintegra per i

licenziamenti economici, come si è già detto.

In tale contesto, pur non volendo condividere la tesi espressa dal giudice remittente della

irrazionalità della entità della sanzione che contrasta, per la sua pochezza, con la tutela del lavoro ed

il principio di uguaglianza, non può non colpire il fatto obiettivo che, in identica situazione di fatto,

se il lavoratore fosse stato assunto il 3.3.2015, avrebbe goduto di una tutela molto più intensa.

La disparità di trattamento è data proprio dalla coesistenza di diversi regimi di tutela unicamente

collegati alla data di assunzione.

Pur volendo aderire alla tesi avanzata da P. Ichino per cui la sanzione in sé non è irrisoria, tenuto

conto che si tratta di una lavoratrice che ha lavorato per soli 5 mesi e considerato che anche negli

altri paesi europei non è prevista una tutela indennitaria così forte , occorrerà, comunque,

scrutinarne, sotto il profilo della razionalità, l’adeguatezza e la congruità nel paragone con quella

garantita, in identica fattispecie, ai lavoratori dalla Riforma del Mercato del lavoro del 2012.

Il trattamento deteriore previsto per “i nuovi” lavoratori non sembra giustificato.

La data di assunzione non sembra elemento idoneo ad evitare la “rottura dell’interna coerenza

dell’ordinamento giuridico”, secondo quanto si è già indicato al paragrafo 3.

In decisione recente della Corte Costituzionale relativa alla destituzione dei dipendenti dell’arma dei

carabinieri è stato affermato che la disciplina censurata viola il principio di uguaglianza, in quanto

sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore l'appartenente all'Arma dei carabinieri, in caso di

condanna, rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche.

La comparazione tra i due regimi rende la sanzione stabilita dal Jobs act anche contrastante con le

fonti comunitarie ed internazionali richiamate nell’ordinanza di rimessione. Il giudice remittente,

molto opportunamente, nel dispositivo richiede alla Corte Costituzionale lo scrutinio degli art.

3,4,76 e 117 cost. letti autonomamente ma anche in combinazione tra di loro.

La sanzione di 4 mensilità, oltre ad essere obiettivamente non di entità cospicua, non appare né

adeguata secondo l’art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una

adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato); né appropriata ai sensi della convenzione

ILO n. 158/1982, né congrua ed adeguata secondo l’art. 24 della carta sociale europea, soprattutto

se raffrontata con la sanzione prevista in identiche fattispecie per i lavoratori “anziani” dalla legge

del 2012.

Ed è quindi ancora una volta l’art. 3 cost che dà corpo alle violazioni indicate dal giudice degli artt.

76 e 117 Cost. tenuto conto che sempre il comma 7 dell’art. 1 legge 183/2014 detta il criterio al

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legislatore delegato di agire in coerenza con la regolazione dell’Unione Europea e le convenzioni

internazionali.

Per l’altro licenziamento economico, quello collettivo (disciplinato dagli artt. 3 e 10 del DLVO

23/2015), interamente regolato da normativa europea, l’entità della sanzione prevista dal decreto

legislativo 23/2015 e la coesistenza delle diverse tutele dal licenziamento illegittimo per i lavoratori

già in servizio al 7.3.2015 determina l’assenza delle caratteristiche previste dalla Corte di Giustizia

per le sanzioni in caso di violazioni del diritto comunitario. Sin dalla sentenza C-383/92

dell’8.6.1994 la Corte di Giustizia ha elencato le caratteristiche che deve avere una sanzione stabilita

dal diritto interno, per essere compatibile con il diritto comunitario .

La necessaria presenza di efficacia dissuasiva ed idonea a garantire effettività nel rispetto del

principio di equivalenza rispetto a situazioni analoghe delle misure dirette a sanzionare violazioni

delle norme comunitarie (e tali sono tutte quelle che disciplinano il licenziamento collettivo) è del

resto affermato innumerevoli volte dalla Corte di Giustizia .

E’ evidente che l’esistenza di due categorie di lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 con

differenti tutele in caso di licenziamento non solo non conferisce alcuna capacità dissuasiva alla

sanzione per i licenziamenti collettivi illegittimi, ma la oggettiva entità diversa della sanzione per il

licenziamento collettivo relativamente agli assunti dopo il 7.3.2015 potrebbe addirittura innescare

meccanismi discriminatori incentivando il licenziamento proprio dei lavoratori più giovani o indurre

comportamenti discriminatori e non oggettivi nella scelta dei lavoratori da licenziare nei

licenziamenti collettivi.

Tali considerazioni riguardano direttamente solo il licenziamento collettivo che è interamente

disciplinato dalle norme comunitarie, che, proprio per la derivazione comunitaria di tutte le norme

che lo disciplinano, non era originariamente compreso nella riforma del 2014-2015 o quantomeno è

stato oggetto di forti richiami in sede di lavori preparatori al decreto legislativo 23/2015 .

7. segue Art. 3 cost. Tutela dell’affidamento, non discriminazione, ragionevolezza. Gli automatismi

legislativi.

Il principio di tutela dell’affidamento e la costante affermazione della giurisprudenza costituzionale

in tema di riforme che non si applicano ai rapporti già in corso risultano sicuramente rispettati dal

Jobs act. Tuttavia ciò non è ovviamente sufficiente ad escludere la violazione dell’art. 3 Cost.. e

degli altri principi costituzionali richiamati.

Come si è già detto, ma conviene ripeterlo visto che i fautori della compatibilità costituzionale del

jobs act hanno il faro acceso solo su questo principio e tengono in ombra tutto il resto, la diversità

di tutele, a seconda della diversa data di assunzione, prima o dopo il 7.3.2015, rispetta il profilo della

tutela dell’affidamento, spesso indicato dalla Corte costituzionale come corollario dell’art. 3 Cost;

indubbiamente il legislatore del 2014-2015 si è posto il problema che un’eventuale estensione

indifferenziata del nuovo regime di tutela dal licenziamento illegittimo, se avesse colpito tutti i

rapporti di lavoro subordinato, poteva creare problemi sotto il profilo della tutela dell’affidamento.

Sotto tale aspetto certamente si è tenuto conto, nella riforma del 2014-2015, della giurisprudenza

costituzionale sugli interventi legislativi nei rapporti di durata e si è scelto di limitare la riforma ai

nuovi rapporti di lavoro. Il problema di compatibilità costituzionale in materia di interventi

legislativi sui rapporti di durata si è presentato, ad esempio, in tema di limiti massimi di entità della

retribuzione in rapporti di lavoro di determinati settori .

Non è pertanto invocabile, né, d’altra parte, è stato richiamato dal giudice remittente il profilo della

tutela dell’affidamento.

Se il profilo di tutela dell’affidamento nei rapporti di durata avalla la scelta legislativa di applicare il

nuovo regime solo ai nuovi rapporti di lavoro sorti dopo la sua entrata in vigore, vi sono altri aspetti

del principio di uguaglianza che vengono in considerazione e che sembrano compromessi dalla

scelta legislativa.

In primo luogo se il contratto a tutele crescenti identificasse un nuovo modello di contratto di

lavoro subordinato a tempo indeterminato, come era nelle originarie intenzioni del legislatore,

diretto a superare il dualismo del mercato del lavoro, tra insider ed outsider , non vi sarebbe stato

problema di violazione del principio di uguaglianza perché la disciplina del contratto di lavoro

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subordinato sarebbe stata differenziata giuridicamente con conseguente esclusioni di arbitrari

livellamenti di situazioni diverse .

Il riferimento è ai tanti disegni di legge e, soprattutto a quello Boeri e Garibaldi sul contratto unico a

tutele progressive cui fa cenno anche il giudice remittente quando richiama la temporaneità della

regressione di tutela da licenziamento illegittimo.

La scelta legislativa è stata invece, quella di non modificare il contratto di lavoro subordinato a

tempo indeterminato e di intervenire solo sui licenziamenti stabilendo tutele crescenti riguardanti

unicamente la crescita della indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo con l’anzianità di

servizio.

La soluzione legislativa risponde all’esigenza di garantire la prevedibilità da parte dell’imprenditore

del costo del licenziamento sottraendola a scelte variabili della giurisdizione.

Tuttavia la scelta legislativa guidata anche dallo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel

mondo del lavoro da parte di chi è in cerca di un’occupazione (art. 1 comma 7 legge 183/2014) e di

favorire l’occupazione stabile dei giovani potrebbe paradossalmente creare un effetto

discriminatorio in ragione dell’età oltre a presentare profili di irragionevolezza e sproporzione

rispetto all’obiettivo sopra indicato.

Gli assunti dopo il 7.3.2015 che vengono illegittimamente licenziati presto con minore anzianità di

servizio e, quindi, destinatari di indennità più basse sono con molta probabilità proprio

statisticamente i più giovani provenienti dal bacino degli esclusi dal lavoro, i cd outsider.

La tutela obiettivamente meno intensa del posto di lavoro, li rende soggetti più deboli e, quindi, più

facilmente oggetto di provvedimenti di recesso da parte del datore di lavoro e potrebbe orientare

anche le scelte nei licenziamenti collettivi come osservato dai primi commentatori della riforma del

2015.

Ed è proprio il criterio rigido ed unico del calcolo della indennità risarcitoria in funzione automatica

dell’anzianità di servizio, senza alcuna possibilità di modulazione e di valutazione di altri criteri, che

dà luogo a discriminazione, in quanto, verosimilmente, i più giovani sono assunti dopo il 7.3.2015 e

per quelli che vengono licenziati subito, come la lavoratrice del giudizio sospeso in attesa della

decisione della Corte, potrebbe crearsi una discriminazione indiretta per ragione di età in violazione

della direttiva 2000/78 e del principio generale del diritto comunitario che vieta le discriminazioni in

ragione dell’età.

Il jobs act che doveva servire, nelle intenzioni del legislatore, a favorire la conclusione di contratti

stabili di lavoro per i cd outsider ed i giovani, spesso assunti a termine, potrebbe paradossalmente

dar luogo a risultati molto diversi dalle intenzioni del legislatore come dimostra la vicenda concreta

del licenziamento della lavoratrice a distanza di soli sette mesi dall’assunzione. Quasi un contratto a

tempo determinato con la differenza che, avendo concluso un contratto di lavoro subordinato a

tempo indeterminato, l’impresa ha potuto godere degli sgravi contributivi per 36 mesi previsto dalla

legge n. 190/2014.

Va, dunque, considerato l’aspetto della congruità e proporzionalità di una scelta legislativa così

rigida, rispetto all’obiettivo di rivitalizzare il mercato del lavoro e favorire l’occupazione.

Sotto il profilo della ragionevolezza, l’art. 3 cost è stato ritenuto violato in una norma relativa a

versamenti richiesti alla Cassa Previdenza dottori commercialisti per l'incongrua scelta di sacrificare

l'interesse istituzionale della CNPADC (cassa nazionale Previdenza assistenza dottori

commercialisti) ad un generico e macro economicamente esiguo impiego nel bilancio statale.

I dati provenienti dall’ISTAT in questi giorni sul perdurante massiccio ricorso al contratto a tempo

determinato confermano che il Jobs act non sembra neppure aver raggiunto quel risultato di

favorire l’occupazione stabile dei più giovani, realizzando così un modesto risultato sotto il profilo

dell’incentivo dell’occupazione rispetto alla precedente riforma del mercato del lavoro del 2012.

Va poi sottolineato che vi è accordo quasi unanime della dottrina sul fatto che le norme giuridiche

non creano posti di lavoro .

Altro aspetto che riguarda l’art. 3 Cost concerne l’automatismo risarcitorio collegato unicamente all’

anzianità di servizio.

Se come si è visto il principio di uguaglianza richiede trattamento uguale per situazioni uguali e

trattamenti differenziati per situazioni diverse, è evidente che qualora la legge non consenta al

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giudice l’adeguamento della sanzione alla fattispecie concreta si crea una rigidità che impedisce il

rispetto concreto del principio di uguaglianza.

Quando la tutela è unicamente offerta dalla sanzione economica, come nel caso dei licenziamenti

illegittimi economici, appare norma bilanciata quella che consente al giudice di calibrare il quantum

del risarcimento alla vicenda concreta.

Non sembra invece rispondere ad un criterio di ragionevolezza una norma che stabilisce la

progressione solo in funzione dell’anzianità di servizio.

La Corte costituzionale, sovente, sottopone al vaglio di ragionevolezza gli “automatismi legislativi”,

vale a dire quelle previsioni che al verificarsi di una data evenienza ricollegano una conseguenza

giuridica predeterminata e inderogabile. Sempre più frequentemente la Corte costituzionale dichiara

l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che contengono tali “automatismi”, in

particolare quando esse sono formulate in modo tale da non permettere al giudice (o eventualmente

alla pubblica amministrazione) di tenere conto delle peculiarità del caso concreto e di modulare gli

effetti della regola in relazione alle peculiarità della specifica situazione .

Ed anche qui deve richiamarsi la ben diversa situazione dei lavoratori “anziani” per i quali è invece

prevista la possibilità per il giudice di graduare la sanzione per il licenziamento illegittimo in base al

caso concreto. La legge deve riconoscere la sua impotenza a regolare il fatto concreto e, quindi,

deve lasciare al giudice un margine di discrezionalità nell’adeguare la sanzione al caso concreto così

come del resto avviene per i licenziamenti economici dei lavoratori “anziani”( assunti prima del

7.3.2015) ove è prevista, nella legge di riforma del mercato del lavoro 2012, qualora non vi sia la

reintegra, un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un

massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità

del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività

economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a

tale riguardo.

Ancora una volta il tertium comparationis rende piuttosto evidente la carenza di ragionevolezza

delle nuove norme che stabiliscono rigidamente il crescere della indennità risarcitoria di due

mensilità per ogni anno di servizio.

La rigidità del meccanismo fissato dall’art. 3 del DLVO 2015/23 è in funzione della necessità delle

imprese di conoscere il costo del licenziamento e costituisce una reazione ai costi eccessivi del

passato dovuti anche alla durata dei processi ed al meccanismo rigido della reintegra nel posto di

lavoro previsto dall’originaria norma dell’art. 18 statuto. Tuttavia essa era già stata modificata dalla

riforma del mercato del lavoro del 2012 che ha previsto anche un rito accelerato per le controversie

in materia di licenziamento; rito che ha raggiunto il risultato di abbattere i tempi del processo e

diminuire di molto le cause di impugnativa di licenziamento. Tale diminuzione oggettiva deve

ascriversi, del resto, ad una serie di riforme tra cui l’art. 32 della legge 183/2010 cd collegato lavoro

del 2010 che ha introdotto il doppio termine di decadenza.

Il quadro legislativo complessivo ed i risultati già raggiunti sull’abbattimento dei tempi del processo

forse avrebbero dovuto costituire un freno ad ulteriori interventi riduttivi delle tutele dei lavoratori.

Conclusioni

La Corte è quindi chiamata a compiere una decisione che terrà conto della complessità di principi

che figurano nella costituzione e che riguarderà, anche da una parte, le ragioni dell’impresa e,

dall’altra, quelle dei lavoratori.

Pur non richiamato nell’ordinanza di rimessione, il convitato di pietra della vicenda è l’art. 41 cost.

primo comma che tutela la libertà di iniziativa economica privata; norma da sempre collegata al

tema del licenziamento economico ; sull’altro piatto della bilancia vanno posti gli artt.4 e 35 Cost.

che, peraltro, non riguardano solo le ragioni dei lavoratori occupati ma anche le politiche di

inclusione dirette a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e l’accesso dei giovani al lavoro con

rapporto di lavoro stabile.

Il problema è che non è chiaro per nulla se il regresso di tutele favorisca l’inclusione stabile degli

outsider e qualche dato statistico sembra smentire questa tesi e dare ragione a quella dottrina sopra

richiamata, che afferma che il diritto non crea occupazione.

Sul bilanciamento tra ragioni dei lavoratori e dell’impresa si fonda, a sua volta, il principio

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giustificativo di ogni forma di recesso che si è visto costituire un argine indiscusso alla

discrezionalità del legislatore.

La decisione della Corte, pur tenendo conto del complesso quadro di principi finirà, soprattutto in

caso di sentenza di rigetto o accoglimento, per applicare un principio piuttosto che un altro. Mentre

infatti il bilanciamento tra i principi costituzionali è tipico dell’attività legislativa, nelle decisioni della

Corte, tendenzialmente il risultato finale del bilanciamento è una scelta che consente ad un

principio di prevalere su un altro in quella specifica decisione.

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Principio di non discriminazione e lavoro intermittente: la

vicenda Abercrombie & Fitch

Di Valeria Piccone

magistrato attualmente applicato alle udienze della Sezione Lavoro.

Due le premesse imprescindibili per chi si accinga ad affrontare i nodi posti dalla normativa

nazionale sul lavoro intermittente per come declinata nella vicenda Abercrombie & Fitch; la prima:

la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione rappresenta ormai la cartina di tornasole circa lo stato

di salute dei diritti fondamentali nell’ordinamento interno. Ne consegue che, posta l’estensione

dell’applicazione della Carta in tutti gli ambiti che in qualche misura presentino punti di contatto

con il diritto dell’Unione, sicuramente ogni settore riconducibile alla solidarietà sociale può oggi

ritenersi scandagliabile nell’ottica del rispetto della Carta dei diritti fondamentali.

La seconda: la portata “centrale” del principio di non discriminazione nell’ambito del diritto

dell’Unione, per come chiarita in questo breve commento, rende sicuramente meno “drammatica”

proprio la questione inerente l’applicazione della Carta nel diritto interno.

Muoviamo da questa seconda premessa. Nel cuore delle conclusioni presentate dall’Avvocato

Generale Michal Bobek il 23 marzo scorso nella vicenda in questione la centralità della Carta nel

suo dialogo incessante con la tutela del principio di uguaglianza emerge in tutta la sua portata.

Osserva l’Avvocato Generale che l’opzione tesa ad assumere la direttiva come ambito di analisi

principale non preclude in alcun modo la contestuale applicabilità dell’articolo 21, paragrafo 1, della

Carta. Infatti, fintantoché le disposizioni in questione rientrano nell’ambito del diritto dell’Unione

attraverso l’applicazione della direttiva 2000/78, l’ambito di tutela della Carta stessa trova

applicazione in forza del suo articolo 51, paragrafo 1. Aggiunge l’Avvocato Generale che, quindi, il

rapporto tra l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e la direttiva 2000/78 non è di reciproca

esclusione. Si tratta, piuttosto, di un rapporto di attuazione e complementarietà atteso che la

direttiva rappresenta una specifica espressione del principio generale sancito dalla Carta, tanto che il

contesto di analisi rispettivamente fornito da entrambe è così destinato ad essere similare. Inoltre,

ove opportuno, l’approccio seguito in entrambe dovrebbe perseguire la medesima logica, al fine di

garantire un approccio coerente al controllo giurisdizionale del diritto dell’Unione e del diritto

nazionale nell’ambito del divieto di discriminazione in base all’età nel settore dell’occupazione.

Soprattutto, l’Avvocato Generale precisa che il principio di non discriminazione, quale sancito

dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, resta applicabile anche a fronte di una contestuale

applicazione della direttiva 2000/78. Ed è in due situazioni, segnatamente, che l’articolo 21,

paragrafo 1, della Carta mantiene il proprio rilievo: in primo luogo, le sue disposizioni restano

pienamente applicabili ai fini di una potenziale coerente interpretazione del diritto derivato

dell’Unione europea e del diritto nazionale rientrante nell’ambito di applicazione del diritto

dell’Unione. Ma, soprattutto, secondo il parere dell’Avvocato Generale, le disposizioni della Carta

rappresentano il criterio di riferimento ultimo (proprio la cartina di tornasole cui si faceva cenno)

per la validità del diritto derivato dell’Unione. Infine, la «vita autonoma» del principio della parità di

trattamento come principio generale di diritto o come diritto fondamentale sancito dalla Carta

assume particolare rilievo ogni qualvolta la possibilità di ricorrere alla direttiva risulti ostacolata dal

fatto che la controversia riguarda soggetti privati. Per la prima volta possiamo dire che quel

concetto di “vita autonoma” espresso dalla Corte nella sentenza Kucukdevci trova una sua chiara

conformazione nelle conclusioni dell’Avvocato generale.

Ma procediamo con ordine.

Nella vicenda Abercrombie il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con “contratto a

chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla

data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall’1/1/20012 il contratto c.d.

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“intermittente” era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle

ipotesi legittimanti previste dal D.Lgs. 276/03; terminato il 26/7/2012 il piano di lavoro, non era

stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail gli era stato comunicato che

avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell’età, era da

considerarsi cessato alla suddetta data. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l’improponibilità

delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato – con richiesta di

condanna alle conseguenze di cui all’art. 18 St.Lav. - respingendo quelle dirette ad accertare la

natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un

rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.

La Corte di appello di Milano ha accolto l’impugnazione ritenendo la proponibilità di tutte le

domande avanzate sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento

discriminatorio della società resistente non era, in realtà, domanda avente ad oggetto

l’impugnazione del licenziamento, che sarebbe stata assoggettata, secondo parte appellante, al rito

speciale di cui alla l. n. 92/2012, bensì domanda diretta ad ottenere la rimozione degli effetti della

discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all’art. 18 St. Lav. e, cioè, la rimessione in

servizio.

Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, la Corte sottolinea come l’unico requisito

rilevante al momento dell’assunzione del ricorrente ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 276/03 fosse quello

anagrafico (meno di 25 anni o più di 45). Essa premette che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25

delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento

essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione,

ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono

essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione

degli stati membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e

di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e

necessari. La Corte richiama a questo punto Mangold e Kucukdeveci nella parte in cui hanno

statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione

dell’età ed il compito del giudice nazionale, chiamato a dirimere una controversia, di assicurare la

tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, oltre ad aver riconosciuto la possibilità per gli

Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in

presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l’occupazione di soggetti con

difficoltà di accesso al lavoro e purché lo strumento utilizzato non fosse sproporzionato rispetto

alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga

ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di

trattamento con il fine perseguito.

Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio

generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all’art.

6 TUE e alla Carta di Nizza, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati, fa si, secondo la Corte,

che il principio di uguaglianza viva “di una vita propria” che prescinde dai comportamenti attuativi

o omissivi degli Stati membri. Osserva la Corte come dalla natura precisa ed incondizionata di tale

principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i

propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso

altri privati.

La Corte di Giustizia, infine, precisa la Corte, ha evidenziato che l’art. 6 della direttiva 2000/78

impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all’età, due precisi requisiti

dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il

perseguimento degli obiettivi, requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il

legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all’età, allo scopo di introdurre un

trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es.

disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo

esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile. La eliminazione della necessità

che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso

dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni)

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frutto delle modifiche apportate all’impianto originario dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14

maggio 2005, n. 80, ha determinato l’intervento correttivo della Corte.

Il mero requisito dell’età, quindi, secondo la Corte, non può giustificare l’applicazione di un

contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a

tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i

25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è

ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba

essere risolto.

Alla luce di tali argomentazioni, quindi, secondo il giudice d’appello di Milano, si evidenzia il

contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell’art. 34 del D.Lgs. 276/03 ed i principi affermati

dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto

espressione di un principio generale dell’Unione Europea.

Ritenuto, quindi, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il

comportamento della società appellata che aveva proceduto all’assunzione dell’appellante con un

contratto intermittente esclusivamente sulla base dell’età anagrafica e condannato la Abercrombie a

rimuovere gli effetti della sua condotta discriminatoria e, ritenuto costituito tra le parti un ordinario

rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento al sesto livello e orario part time

secondo quanto affermato dalle parti stesse e che tale contratto non era mai stato validamente

risolto, ha condannato la società appellata a riammettere l’appellante nel posto di lavoro ed a

risarcirgli il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della

risoluzione del rapporto a quella della sentenza.

Sembra configurarsi qualcosa di simile a ciò che avviene, mutatis mutandis, nei contratti a tempo

determinato. Non è possibile in questa sede soffermarsi sugli approdi della importante sentenza

delle Sezioni Unite n. 5072/2016 sulla “compatibilità comunitaria” e la connessa responsabilità da

violazione del diritto dell’Unione, ma può essere opportuno sottolineare che, riguardando la più

recente disciplina che concerne il contratto a termine sotto la lente di ingrandimento europea ed alla

luce della giurisprudenza Mascolo, considerata la liberalizzazione nell’apposizione del termine che lo

caratterizza, perché la normativa interna possa considerarsi compatibile con i principi dell’Unione, il

contratto dovrà essere “strutturalmente” a termine e, cioè, l’apposizione del termine deve

rispondere ad esigenze ontologiche del contratto, in quanto volto a fronteggiare esclusivamente

esigenze temporanee.

Nel caso che qui ci interessa, ancora una volta l’interpretazione conforme conduce

all’accantonamento della norma interna confliggente e si sostanzia, nonostante la Corte non vi

faccia alcun riferimento, nella disapplicazione della norma stessa. Come è stato osservato, la Corte

di Milano ha escluso il rinvio pregiudiziale perché la Corte di Giustizia aveva già ampiamente

chiarito portata e limiti della discriminazione diretta in base all’età.

Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza,

appare di grande evidenza nella decisione della Corte d’Appello: la Corte richiama più volte

l’obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme

al diritto dell’Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad

optare per la disapplicazione della norma interna contrastante ritenendo, quindi, costituito fra le

parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nonostante il nucleo della sentenza (quello che concerne il carattere discriminatorio del

regolamento contrattuale considerato), appaia molto succinto nella motivazione della Corte

d’Appello, esso non lascia adito a dubbi: il mero requisito dell’età, non accompagnato da ulteriori

specificazioni, non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per

il lavoratore. Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato

- diremmo, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold - tanto da indurre

la Corte d’Appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di

discriminazione per l’assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore.

La sentenza è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. La società condannata,

infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18 l. 300/70 sotto diversi profili, ha

dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l’art. 28 d.lgs. 150 del 2011 e 702 bis c.p.c. e,

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cioè la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire

mediante ricorso al procedimento di cui all’art. 1, commi 48 e segg. della legge 28 giugno 2012, n.

92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/03, della

direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella

specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi,

sovrapponibile alla normativa dell’Unione. Chiedeva, poi, il ricorrente il rinvio pregiudiziale alla

Corte di Giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l’esclusiva possibilità di ottenere il

risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento

del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte.

La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza secondo cui l’inesattezza

del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi

uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una

precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle

prerogative processuali protette della parte.

I giudici di legittimità osservano, a questo punto, che l’art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il

principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale

dell’Unione cui la direttiva 2000/78 da espressione concreta e che è sancito anche dall’art. 21 della

Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. L'art. 6, n.

1, primo comma, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento

in base all'età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente

giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi

di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il

conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell’art. 34 vigente all’epoca

dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art.

6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78.

Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell'art. 267

del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui

all'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso

essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età,

sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla

Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1).

La vicenda è passata allora nelle mani della Corte di Giustizia, cui è stato rimesso il compito di

chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio

generale di uguaglianza che imponesse la rimozione della norma interna con esso contrastante.

Con sentenza della prima Sezione del 19 luglio scorso, nella causa C-143/16 la Corte di giustizia

fornisce la risposta attesa.

La Corte muove, come sempre, dall’art. 1 della Direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale

per la lotta alle discriminazioni, per poi passare ad esaminare compiutamente il diritto interno onde

rispondere alla questione pregiudiziale posta dalla Corte di cassazione circa il se la normativa

nazionale di cui all’articolo 34 del decreto legislativo n. 276/2003, secondo la quale il contratto di

lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti

con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età,

di cui alla direttiva 2000/78 e all’ articolo 21, paragrafo 1 della Carta.

Preliminarmente i giudici di Lussemburgo richiamano la propria giurisprudenza secondo cui,

quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, nella quale

trova espressione concreta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il principio di non

discriminazione fondata sull’età, ora sancito dall’articolo 21 della Carta, gli Stati membri e le parti

sociali devono agire nel rispetto di tale direttiva (fra le altre, il richiamo è alla recente Corte di

giustizia del 21 dicembre 2016, Bowman, C-539/15).

Il punto centrale diventa, quindi, verificare se una disposizione quale quella di cui al d.lgs. 276/2003

comporti una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 2000/78.

Osserva la Corte che per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi

discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 della medesima

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direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 precisa che, ai fini

dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta quando,

sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 della direttiva, una persona è trattata in

modo meno favorevole di un’altra in una situazione analoga.

Interessante la ricostruzione della Corte circa la figura del lavoratore (che, quindi, possa confluire

nella normativa garantistica in esame) alla luce della normativa europea; la Corte precisa che, ai sensi

dell’articolo 45 TFUE, secondo una giurisprudenza europea costante, “tale nozione ha portata

autonoma e non dev’essere interpretata restrittivamente”. Pertanto, deve essere qualificata come

«lavoratore» ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività

talmente ridotte da risultare puramente marginali e accessorie. La caratteristica del rapporto di

lavoro è, secondo tale giurisprudenza, la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo

di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in relazione alle quali

riceva una retribuzione (il richiamo è, in primis, alla nota sentenza del 3 luglio 1986, Lawrie-Blum,

66/85).

La Corte evidenzia che occorre vengano presi in considerazione elementi relativi non solo alla

durata del lavoro e al livello della retribuzione, ma anche all’eventuale diritto a ferie retribuite, alla

continuità della retribuzione in caso di malattia, all’applicabilità al contratto di lavoro di un contratto

collettivo, al versamento di contributi e, nel caso, alla natura di questi ultimi (v., in tal senso, Corte

Giust. 4 febbraio 2010, Genc, C-14/09).

Ancora una volta, tuttavia, nonostante la Corte affermi che verosimilmente spetta all’interessato la

qualifica di lavoratore,viene chiarito che spetta al giudice del rinvio - che è l’unico ad avere

conoscenza approfondita e diretta della controversia - verificare se effettivamente tale opzione

possa essere confermata.

Passando più direttamente all’esame della questione inerente la discriminazione, la Corte afferma

che il decreto legislativo n. 276/2003 ha introdotto due diversi regimi, non solo per l’accesso e le

condizioni di lavoro, ma anche per il licenziamento dei lavoratori intermittenti, in funzione della

fascia di età alla quale detti lavoratori appartengono. Infatti, nel caso di lavoratori di età compresa

tra i 25 e i 45 anni, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso solo per l’esecuzione di

prestazioni a carattere discontinuo o intermittente, secondo le modalità specificate dai contratti

collettivi e per periodi predeterminati, mentre, nel caso di lavoratori di età inferiore ai 25 anni o

superiore ai 45, la conclusione di un simile contratto di lavoro intermittente non è subordinata ad

alcuna di tali condizioni e può avvenire «in ogni caso», e i contratti conclusi con lavoratori di età

inferiore ai 25 anni cessano automaticamente quando i medesimi compiono 25 anni.

Ritiene quindi la Corte che, per l’applicazione di disposizioni come quelle di cui al procedimento in

esame, la situazione di un lavoratore licenziato in ragione del solo compimento dei 25 anni di età è

oggettivamente comparabile con quella dei lavoratori che rientrano in un’altra fascia di età.

Ne consegue che la disposizione considerata, nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro

intermittente possa essere concluso «in ogni caso» con un lavoratore di età inferiore a 25 anni e

cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento

basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

Ma il vero nodo gordiano è ora stabilire se tale disparità di trattamento possa ritenersi giustificata.

E’ la stessa Direttiva 2000/78, all’art. 6, paragrafo 1, ad affermare che gli Stati membri possono

prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove

esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una

finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di

formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e

necessari.

Il richiamo è, quindi, all’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri, non solo

nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di

occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (sul punto, si veda Corte di

giustizia 11 novembre 2014, Schmitzer, C-530/13).

La flessibilità del mercato del lavoro, quale strumento per incrementare l’occupazione, al centro,

secondo la Corte, della scelta politica operata dal legislatore italiano; in particolare, la facoltà

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accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di

risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo, secondo quanto

sostenuto dalla difesa, di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Secondo la Corte,

come sottolineato dal Governo, l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in

difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani. D’altro canto, la possibilità di

entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo,

può costituire un trampolino verso nuove possibilità d’impiego.

La Corte ritiene di valorizzare il passaggio della difesa nazionale incentrato sul rilievo che assume,

per i giovani, un primo accesso al mercato del lavoro anche se non su base stabile. Si tratterebbe,

quindi, di fornire loro una prima esperienza, che possa successivamente metterli in una situazione di

vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Conseguentemente, la disposizione sarebbe

relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.

Nodale l’essere rivolte tali agevolazioni ai giovani alla ricerca di un primo impiego e, cioè, ad una

delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale.

Viene rammentato, quindi, che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, lettera a), della

direttiva 2000/78, la disparità di trattamento può consistere nella «definizione di condizioni speciali

di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le

condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori più anziani e i lavoratori con

persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi».

Secondo la Corte assume rilievo incontestabile la circostanza che la promozione delle assunzioni

costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in

particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (sul

punto, in particolare, Corte Giust. 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C-159/10 e C-160/10). La stessa

giurisprudenza europea aveva già affermato, d’altro canto, che l’obiettivo di favorire il collocamento

dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la

protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della

direttiva 2000/78 (Corte Giust. 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15) ed in particolare come

rappresenti una finalità legittima l’agevolazione dell’assunzione di giovani lavoratori aumentando la

flessibilità nella gestione del personale (non può non richiamarsi, in tal senso, Corte Giust. 19

gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07).

Conclude, quindi, la Corte, che la disposizione nazionale oggetto d’esame, avendo la finalità di

favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi

dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

Occorre tuttavia un ultimo passaggio: verificare se i mezzi adoperati per il conseguimento di tale

finalità siano appropriati e necessari.

Relativamente all’adeguatezza, si rileva che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere

contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati

membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato

del lavoro, in considerazione della probabile tendenza delle aziende ad essere sollecitate

dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e,

quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani

lavoratori.

Infine, in ordine alla necessarietà della disposizione considerata si osserva, sposando le conclusioni

della società Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata,

la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro

flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è

preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si

ritrovi disoccupato. Secondo il governo italiano, d’altro canto, dette forme flessibili di lavoro sono

necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del

lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale,

eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali, mentre il massimo accesso a tali forme

agevolate può essere possibile soltanto se non se ne garantisce la stabilità.

Le tutele che accompagnano le misure, e, soprattutto, l’impossibilità di assegnare al lavoratore

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intermittente un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto

al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, confermano ulteriormente la adeguatezza

della scelta.

Valorizzando, quindi, l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri non solo nella

scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma,

altresì, nella definizione delle misure atte a realizzarlo, la Corte dichiara che l’articolo 21 della Carta

nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della

direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano a una disposizione,

quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un

contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la

natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del

venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro

e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

La valutazione della Corte è proprio quella di necessità a appropriatezza dell’intervento indagata

dalla Corte d’Appello di Milano. Le conclusioni, tuttavia, sono opposte. La lacunosità e la

sofferenza della normativa interna non ostano, tuttavia, secondo i giudici di Lussemburgo, al

perseguimento di quegli obiettivi di politica del lavoro a sostegno dei giovani che hanno condotto

alla previsione di un accesso agevolato a determinati tipi di negozio, unitamente a quella di un

recesso agevolato dallo stesso.

Ad oltre dieci anni di distanza da Mangold i percorsi argomentativi compiuti dalla Corte rispetto al

D.lgs. n. 276/03 non sono dissimili rispetto a quelli concernenti la legge Hartz. Ancora una volta la

Corte entra nell’esame diretto e concreto della normativa nazionale valutandone congruità e

adeguatezza rispetto alle esigenze di politica occupazionale sottese alle misure discriminatorie

adottate dal legislatore interno.

Uguaglianza e non discriminazione confermano il proprio ruolo di concetti per così dire

mainstreaming, del diritto dell’Unione, quelli che non si risolvono in una competenza, ma tagliano

trasversalmente tutto il diritto dell’Unione e che, muovendo dalla parità retributiva fra uomini e

donne, sono approdati prepotentemente sui divieti di discriminazione per età ampliando

enormemente il proprio raggio di azione: secondo la nota immagine di Supiot, «non tener conto

delle ineguaglianze di fatto significa lasciare pieno gioco ai rapporti di forza>>

La cifra del rilievo della parità di trattamento nell’ordinamento dell’Unione emerge in tutta la sua

evidenza nella decisione del 28 luglio 2016, Krantzer, non tanto per il contenuto della decisione,

quanto per lo stesso oggetto di essa; il giudice del rinvio chiedeva, infatti, se l’articolo 3, paragrafo 1,

lettera a), della direttiva 2000/78 e l’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/54

vadano interpretati nel senso che una situazione in cui una persona la quale, candidandosi per un

posto di lavoro, miri a ottenere non tale posto di lavoro, bensì soltanto lo status formale di

candidato, con l’unico scopo di poter azionare diritti al risarcimento del danno, rientri nella nozione

di «accesso all’occupazione o al lavoro dipendente» ai sensi di tali disposizioni e se, in base al diritto

dell’Unione, tale situazione possa essere valutata come abuso di diritto. La Corte afferma che una

persona che si candida per un posto di lavoro in tali condizioni, non cerca manifestamente di

ottenere il posto di lavoro per il quale si è formalmente candidata e, pertanto, non può avvalersi

della tutela offerta dalle direttive 2000/78 e 2006/54.

Proprio con riguardo alla discriminazione per età, d’altra parte, diventa lampante che il concetto di

uguaglianza è concetto mutevole che evolve di pari passo con l’evoluzione della società e dei

costumi, trovando un proprio peculiare ubi consistam nella diversità del contesto sociale in cui

opera: leggendo la sentenza Marshall (in cui secondo l'ordinanza di rinvio, il solo motivo del

licenziamento era nel fatto che la ricorrente era una donna che aveva superato « l'età del

pensionamento ») si evince chiaramente che, agli esordi, il diritto comunitario non ha mai

considerato l’età (centrale nella discussa e più recente Mangold, nonché in Kücükdeveci, Dansk

Industri e, oggi, Abercrombie & Fitch) come ovvio indice di discriminazione; in quella pronunzia, la

direttiva 76/207/CE, pur non avendo effetti “orizzontali”, veniva ritenuta invocabile dalla

ricorrente “verticalmente” perché il suo datore di lavoro era una emanazione dello Stato. Nel 1986

le distinzioni per motivi di età – differenti da quelle in base al sesso – erano considerate ovviamente

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rilevanti ai fini della cessazione del rapporto di lavoro e di conseguenza ammissibili in base al

principio di uguaglianza del diritto comunitario: ove così non fosse stato, verosimilmente, la signora

Marshall avrebbe invocato il divieto di discriminazione per motivi attinenti all’età a sostegno del

proprio argomento principale.

Nel 2009, il trattato di Lisbona ha introdotto una clausola orizzontale volta a integrare la lotta

contro le discriminazioni in tutte le politiche e le azioni dell’Unione (articolo 10 TFUE) con la

previsione di una procedura legislativa speciale: il Consiglio deve deliberare all’unanimità e previa

approvazione del Parlamento europeo.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, oggi fonte stricto sensu, e, anzi, fonte di diritto

primario,nel sancire, all’art. 21, l’inserimento della non discriminazione fra i diritti fondamentali

della persona e, quindi, nell’ambito dei principi generali del diritto comunitario, statuisce, nel

successivo art. 23, che ‘la parità tra uomini e donne dev’essere assicurata in tutti i campi, compreso

in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione’ precisando, tuttavia, che ‘il principio della

parità non osta al mantenimento od all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore

del sesso sottorappresentato”.

In verità, l’art. 119 del Trattato conferiva in origine rilievo esclusivo ed assorbente, in ambito

antidiscriminatorio, alla parità di trattamento in materia retributiva, allo scopo di evitare forme di

concorrenza nel mercato fondate sulla sottoretribuzione del lavoro femminile; si deve soprattutto

all’intervento della giurisprudenza della Corte di Giustizia l’aver dato l’input per un numero

considerevole di direttive in materia che hanno poi inciso, con il passaggio attraverso il Trattato di

Amsterdam, sulla nuova formulazione dell’art. 119 medesimo (poi dal 1° maggio 1999, art. 141) del

Trattato. Partendo dall’art. 119 del Trattato e, cioè, dalla parità retributiva tra uomini e donne, il

principio di uguaglianza è andato assumendo un ruolo di spicco nella costruzione di uno jus

commune. Si può affermare, anzi, che questo principio rappresenta, ormai, la lente di

ingrandimento attraverso la quale ogni nuovo intervento legislativo interno deve essere riguardato

per verificarne la c.d. “compatibilità comunitaria”.

In un sistema in cui il contenuto dell’art. 2 TUE rimane “sostanzialmente vago”, il principio

generale di uguaglianza appare sempre più significativamente uno dei principi ordinatori della

Comunità. Le disposizioni sull’uguaglianza di fronte alla legge, che appartengono alle tradizioni

costituzionali comuni degli Stati membri, si stagliano, nell’interpretazione offertane dalla Corte di

Giustizia, quale strumento cardine per la salvaguardia degli european values e per i diritti

fondamentali di derivazione domestica.

Eppure, la Corte ammonisce, esigenze di politica sociale impongono, talora, una declinazione

dell’uguaglianza in chiave di ammissibilità di misure occupazionali direttamente discriminatorie.

A differenza di quanto essa fa di solito e del percorso seguito dallo stesso Avvocato Generale, la

Corte non ritiene che spetti al giudice nazionale ulteriormente indagare sulla compatibilità di

determinate misure occupazionali con i divieti discriminatori sanciti dal diritto dell’Unione.

La Corte entra direttamente nel corpus legislativo interno e ne esamina necessità ed adeguatezza,

tenendo altresì conto della situazione economica nazionale e della grave crisi occupazionale

vigente.

L’uguaglianza fra lavoratori comparabili è, secondo la Corte, rispettata.

La palla passa ancora una volta al giudice nazionale che, nell’adempimento al proprio gravoso

impegno teso a “conciliare l’inconciliabile” (per usare l’icastica espressione dell’Avvocato generale

Poiares Maduro nelle conclusioni della causa Arcelor Atlantique et Lorraine) trova l’interpretazione

autentica resa dalla Corte di Giustizia nel reputare compatibile il contesto normativo interno con

l’assetto europeo come straordinario sostegno in via di pregiudizialità.

Sembrava impossibile, ai tempi di Mangold, che la nostra legislazione interna potesse formare

oggetto di un rinvio pregiudiziale in termini di possibile lesione del divieto di discriminazione per

età. La proliferazione normativa e la frammentazione dei tipi contrattuali ha reso evidente, tuttavia,

anche per il nostro ordinamento, la continua necessità di verificare la compatibilità dei nuovi

strumenti contrattuali con i principi dell’Unione consolidatisi intorno al principio generale di

uguaglianza, vero e proprio metaprincipio del diritto dell’Unione, cartina di tornasole del rispetto di

tutti gli altri diritti fondamentali.

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Una brezza di solidarietà soffia sull’Unione europea

Di Lucia Tria

Consigliere della Corte di Cassazione

SOMMARIO: 1.- Introduzione. 2.- Sintesi della sentenza. 2.1.- Adeguatezza dell’articolo 78,

paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione impugnata. 2.2.- Temporaneità della

misura. 2.3.- Situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi

terzi e inefficienze dei regimi di asilo greco e italiano. 2.4.- Regolarità procedurale. 2.5.- Censure

riguardanti il merito delle misure temporanee adottate. 2.5.1.- Principio di proporzionalità. 2.5.2.-

Prospettata inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo da essa perseguito. 2.5.3.-

Carattere asseverativamente non necessario della decisione impugnata in rapporto all’obiettivo da

essa perseguito. 2.5.4.- Il doveroso principio di solidarietà nell’ambito dell’attuazione della politica

comune dell’Unione in materia di asilo. 2.5.5.- L’opportunità della scelta di non utilizzare il sistema

di protezione temporanea previsto dalla direttiva 2001/55. 2.5.6.- La formale richiesta dell’Ungheria

di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione. 2.5.7.- Carattere

discriminatorio di eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione

internazionale. 2.5.8.- La salvaguardia dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna

da parte degli Stati membri. 2.5.9.- Criteri per determinare lo Stato di ricollocazione. 2.5.10.- I

rapporti tra la decisione impugnata e il sistema Dublino III. 3.- Osservazioni.

1.- Introduzione

Poco dopo la decisione del Consiglio UE 2015/1523 ‒ che aveva previsto la ripartizione “per

consenso” tra gli Stati membri di un numero di migranti pari 40.000 unità rivelatosi da subito

insufficiente ‒ il 22 settembre 2015, è stata adottata dallo stesso Consiglio UE, a maggioranza

qualificata, su proposta della Commissione UE, la decisione 2015/1601, istitutiva, come misura

temporanea nel settore della protezione internazionale, della ricollocazione di 120.000 richiedenti

una protezione internazionale, a partire dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri Stati membri. La

Repubblica ceca, l’Ungheria, la Romania e la Repubblica slovacca hanno votato contro l’adozione di

tale proposta. La Repubblica di Finlandia si è astenuta.

Successivamente la Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno proposto due ricorsi alla Corte di

Giustizia, chiedendo l’annullamento della suddetta decisione 2015/1601, sia per vizi derivanti dalla

scelta di una base giuridica inappropriata sia per errori di ordine procedurale commessi nel relativo

procedimento di adozione, sia per vizi di merito consistenti della sua inidoneità a rispondere alla

crisi migratoria e della sua non necessarietà a tal fine.

Nel procedimento davanti alla Corte, la Polonia è intervenuta a sostegno sia della Slovacchia sia

dell’Ungheria, mentre Belgio, Germania, Grecia, Francia, Italia, Lussemburgo, Svezia e la

Commissione europea sono intervenuti a favore del Consiglio UE.

Con l’articolata sentenza della Grande Sezione 6 settembre 2017, cause riunite C 643/15 e C

647/15, la Corte ha respinto integralmente i ricorsi proposti da Slovacchia e Ungheria.

2.- Sintesi della sentenza

La Corte ha, in primo luogo, precisato di dovere esaminare per primi i motivi di ricorso relativi

all’inadeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione

impugnata, in quanto la base giuridica di un atto determina la procedura da seguire per l’adozione

dello stesso (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2015, Parlamento/Consiglio, C 363/14,

punto 17), per passare poi alla valutazione dei motivi relativi ad irregolarità procedurali

asseverativamente commesse in occasione dell’adozione di tale decisione e configuranti violazioni di

forme sostanziali, e, infine all’esame dei motivi attinenti il merito delle questioni.

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2.1.- Adeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE a fungere da base giuridica della decisione

impugnata

La Corte ha respinto le censure relative alla prospettata inadeguatezza dell’articolo 78, paragrafo 3,

TFUE a fungere da base giuridica della decisione impugnata, rilevando, innanzi tutto, che un atto

giuridico può essere qualificato come atto legislativo dell’Unione soltanto se è stato adottato sul

fondamento di una disposizione dei Trattati nella quale si fa espresso riferimento o alla procedura

legislativa ordinaria oppure alla procedura legislativa speciale.

L’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, pur prevedendo che il Consiglio adotti le misure temporanee da

esso contemplate su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, non

contiene alcun espresso riferimento né alla procedura legislativa ordinaria né alla procedura

legislativa speciale. Mentre, l’articolo 78, paragrafo 2, TFUE stabilisce espressamente che le misure

elencate alle lettere da a) a g) di tale disposizione vengono adottate «secondo la procedura legislativa

ordinaria.

Ne consegue che le misure suscettibili di essere adottate sul fondamento dell’articolo 78, paragrafo

3, TFUE devono essere qualificate come «atti non legislativi», in quanto esse non vengono adottate

all’esito di una procedura legislativa.

D’altra parte, mentre nel caso dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, si tratta di misure temporanee a

carattere non legislativo intese a rispondere a breve termine ad una determinata situazione di

emergenza che gli Stati membri si trovino a dover affrontare, nel caso dell’articolo 78, paragrafo 2,

TFUE, si contemplano atti di carattere legislativo che mirano a disciplinare, per un periodo

indeterminato e in modo generale, un problema strutturale che si pone nel quadro della politica

comune dell’Unione in materia di asilo.

Quanto al secondo profilo della censura ‒ secondo cui l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE non poteva

servire quale base giuridica per l’adozione della decisione impugnata, in quanto tale decisione

costituisce un atto non legislativo che deroga a svariati atti legislativi, mentre soltanto un atto

legislativo potrebbe derogare a un altro atto legislativo ‒ la Corte ha precisato che l’articolo 78,

paragrafo 3, TFUE non definisce la natura delle «misure temporanee» che possono essere adottate

in forza di tale disposizione.

Diversamente da quanto sostenuto dalla Repubblica slovacca e dall’Ungheria la formulazione

dell’articolo 78, paragrafo 3, cit. non può suffragare, di per sé, un’interpretazione restrittiva della

nozione di «misure temporanee», implicante che quest’ultima contemplerebbe unicamente misure di

accompagnamento supportanti un atto legislativo adottato sulla base dell’articolo 78, paragrafo 2,

TFUE e vertenti, in particolare, su un sostegno finanziario, tecnico od operativo fornito agli Stati

membri che si trovino in una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di

cittadini di Paesi terzi.

Peraltro, il considerando 23 della decisione impugnata dichiara che la ricollocazione dall’Italia e

dalla Grecia prevista da tale decisione implica una «deroga temporanea» a talune disposizioni di atti

legislativi del diritto dell’Unione, tra le quali l’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III,

a norma del quale la Repubblica ellenica o la Repubblica italiana sarebbero state in linea di principio

competenti per l’esame di una domanda di protezione internazionale sulla base dei criteri enunciati

nel capo III di detto regolamento, e l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 516/2014, il quale

esige il consenso della persona richiedente una protezione internazionale.

Ebbene, si tratta di deroghe a disposizioni particolari di atti legislativi che obbediscono all’esigenza

di una delimitazione del loro ambito di applicazione sostanziale e temporale e non hanno né per

oggetto né per effetto di sostituire o di modificare in modo permanente disposizioni di atti

legislativi e sono quindi suscettibili di essere adottate sul fondamento del citato art. 78, paragrafo 3,

con una procedura non legislativa.

Esse, infatti, si applicano soltanto per un periodo di due anni, salva la possibilità di una proroga di

tale termine prevista dall’articolo 4, paragrafo 5, della decisione impugnata, e sono state quindi

concepite come destinate a scadere il 26 settembre 2017. Inoltre, esse riguardano un numero

limitato di 120.000 cittadini di alcuni Paesi terzi, che hanno presentato una domanda di protezione

internazionale in Grecia o in Italia e appartengono a una delle nazionalità contemplate dall’articolo

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3, paragrafo 2, della decisione impugnata, i quali verranno ricollocati a partire da uno dei suddetti

due Stati membri e che sono arrivati in questi ultimi tra il 24 marzo 2015 e il 26 settembre 2017.

Il carattere temporaneo delle diverse misure contenute nella decisione impugnata è confermato dal

citato articolo 4, paragrafo 5, che prevede, in presenza di «circostanze eccezionali», la possibilità di

una proroga del periodo di 24 mesi fissato all’articolo 13, paragrafo 2, di detta decisione per un

periodo massimo di 12 mesi nel quadro del meccanismo di sospensione temporanea e parziale

dell’obbligo di ricollocazione dei richiedenti protezione internazionale che incombe allo Stato

membro interessato. Infatti, l’attivazione di tale meccanismo è stata condizionata alla previa notifica

da parte di uno Stato membro da effettuare entro il 26 dicembre 2015.

La Corte afferma, quindi, che la scelta del Consiglio di determinare il periodo di applicazione delle

misure in 24 mesi appare giustificata per il fatto che una ricollocazione di un numero significativo di

persone quale quella prevista dalla decisione impugnata è un’operazione al tempo stesso inedita e

complessa, che necessita di un certo tempo di preparazione e di attuazione, in particolare sul piano

del coordinamento tra le amministrazioni degli Stati membri, prima che essa abbia “un impatto

reale ai fini del sostegno fornito all’Italia e alla Grecia nella gestione dei forti flussi migratori nei loro

territori”.

In sintesi: a) con l’adozione della decisione impugnata sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3,

TFUE, non è stata aggirata la procedura legislativa ordinaria prevista dall’articolo 78, paragrafo 2,

TFUE; b) il fatto che la decisione impugnata, la cui qualificazione come atto non legislativo non

può essere rimessa in discussione, comporti delle deroghe a disposizioni particolari di atti legislativi,

non era idoneo ad impedire la sua adozione sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE; c) per gli

stessi motivi, è da respingere anche l’argomentazione della Repubblica slovacca relativa ad una

violazione dell’articolo 10, paragrafi 1 e 2, TUE, dell’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché dei

principi di certezza del diritto, di democrazia rappresentativa e dell’equilibrio istituzionale.

2.2.- Temporaneità della misura

Le ricorrenti sostenevano anche che la decisione impugnata non avrebbe potuto essere qualificata

come «misura temporanea», ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, applicandosi, a norma del

suo articolo 13, paragrafo 2, fino al 26 settembre 2017, ossia per un periodo di due anni, il quale

può essere prolungato di un ulteriore anno ai sensi dell’articolo 4, paragrafi 5 e 6, della medesima

decisione.

La Corte ha respinto la censura rilevando, in primo luogo, che l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, pur

esigendo che le misure da esso contemplate siano temporanee, riserva al Consiglio un margine di

discrezionalità per stabilire, caso per caso, il loro periodo di applicazione in funzione delle

circostanze del caso di specie e, in particolare, alla luce delle specificità della situazione di emergenza

che giustifica tali misure.

Nella specie la decisione ha un periodo di applicazione limitato, fissato in 24 mesi con una scelta del

tutto giustificata, come si è detto.

2.3.- Situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi e

inefficienze dei regimi di asilo greco e italiano.

Secondo la Repubblica slovacca l’afflusso di cittadini di Paesi terzi nei territori greco e italiano nel

corso dell’anno 2015 non poteva essere qualificato come «improvviso», ai sensi dell’articolo 78,

paragrafo 3, TFUE, in quanto esso si inseriva nel solco di un afflusso già consistente constatato

durante l’anno 2014, sicché esso era prevedibile.

La Corte ha sottolineato che il Consiglio con ampie ricerche ha constatato, sulla base di dati

statistici non contestati dalla Repubblica slovacca, un forte aumento dell’afflusso di cittadini di Paesi

terzi in Grecia e in Italia in un breve lasso di tempo, in particolare durante i mesi di luglio e di

agosto dell’anno 2015.

In tali circostanze, il Consiglio ben poteva, senza incorrere in un manifesto errore di valutazione,

qualificare come «improvviso» ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE un siffatto aumento di

afflusso, anche se esso si iscriveva nel solco di un periodo di arrivi già massicci di migranti.

La Corte ricorda, infatti, che occorre riconoscere alle istituzioni dell’Unione un ampio potere

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discrezionale allorché esse adottano misure in settori che implicano, da parte loro, scelte aventi

segnatamente natura politica e valutazioni complesse. Di conseguenza, solo il carattere

manifestamente inappropriato di una misura decisa in uno di tali settori, rispetto all’obiettivo che

dette istituzioni intendono perseguire, può inficiare la legittimità della misura in questione (v., in tal

senso, sentenza del 4 maggio 2016, Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 79 e la

giurisprudenza ivi citata).

Dai dati statistici menzionati è emerso un nesso sufficientemente stretto tra la situazione di

emergenza in Grecia e in Italia, vale a dire la pressione considerevole esercitata sui regimi di asilo di

tali Stati membri, e l’afflusso di migranti nel corso dell’anno 2015 e in particolare nei mesi di luglio e

di agosto di quell’anno.

Tale constatazione di fatto non può essere rimessa in discussione dall’esistenza di altri fattori che

possono aver anch’essi contribuito a questa situazione di emergenza, tra i quali le carenze strutturali

dei regimi suddetti in termini di mancanza di capacità di accoglienza e di trattamento delle

domande. Tanto più che l’entità dell’afflusso di migranti con il quale si trovavano a confrontarsi i

regimi di asilo greco e italiano nel corso dell’anno 2015 era tale che avrebbe perturbato qualsiasi

regime di asilo, ivi compreso un regime non contrassegnato da debolezze strutturali.

Va, inoltre, considerato che ‒ siccome i flussi migratori possono evolvere rapidamente, in

particolare spostandosi verso altri Stati membri ‒ la decisione impugnata prevede diversi

meccanismi, in particolare all’articolo 1, paragrafo 2, all’articolo 4, paragrafi 2 e 3, e all’articolo 11,

paragrafo 2, intesi ad aggiustare il suo contenuto prescrittivo in funzione di un eventuale

mutamento della situazione di emergenza iniziale, in particolare nel caso in cui questa arrivasse a

manifestarsi in altri Stati membri e ciò è consentito dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE per il quale

siffatti meccanismi di aggiustamento possono aggiungersi alle misure temporanee adottate ai sensi

di tale disposizione.

2.4.- Regolarità procedurale

La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno sostenuto che il Consiglio avrebbe violato l’articolo 68

TFUE nonché le forme sostanziali, in quanto la decisione impugnata è stata adottata a maggioranza

qualificata, mentre dalle conclusioni del Consiglio europeo dei giorni 25 e 26 giugno 2015 risultava

che essa doveva essere adottata «per consenso» e «rispecchiando le situazioni specifiche degli Stati

membri».

La Corte ha respinto tale censura sottolineando che l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE permette al

Consiglio di adottare misure a maggioranza qualificata, così come il Consiglio ha fatto adottando la

decisione impugnata. Il principio dell’equilibrio istituzionale vieta che il Consiglio europeo

modifichi tale regola di voto imponendo, mediante conclusioni formulate ai sensi dell’articolo 68

TFUE, una regola di voto all’unanimità.

Del resto, in base alla giurisprudenza della Corte, le norme relative alla formazione della volontà

delle istituzioni dell’Unione trovano la loro fonte nei Trattati e pertanto non sono derogabili né

dagli Stati membri né dalle stesse istituzioni, perché solamente i Trattati possono, in casi specifici,

autorizzare un’istituzione a modificare una procedura decisionale da essi prevista (sentenza del 10

settembre 2015, Parlamento/Consiglio, C 363/14, punto 43).

La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno anche sostenuto che poiché il Consiglio ha apportato

modifiche sostanziali alla proposta iniziale della Commissione ed ha adottato la decisione

impugnata senza consultare di nuovo il Parlamento, esso avrebbe violato le forme sostanziali

prescritte dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, dal che conseguirebbe l’annullamento della decisione

impugnata. La Repubblica slovacca ha aggiunto che, procedendo in tal modo, il Consiglio avrebbe

violato anche l’articolo 10, paragrafi 1 e 2, e l’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché i principi di

democrazia rappresentativa, dell’equilibrio istituzionale e di buona amministrazione.

La Corte, attraverso una puntuale ricostruzione dell’iter procedurale con il quale si è pervenuti alla

decisione impugnata, ha considerato rispettato l’obbligo di consultazione del Parlamento previsto

dall’articolo 78, paragrafo 3, TFUE.

La Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno anche sostenuto che il Consiglio, adottando la decisione

impugnata, avrebbe violato la forma sostanziale prescritta dall’articolo 293, paragrafo 1, TFUE,

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avendo emendato la proposta della Commissione senza rispettare l’unanimità richiesta da tale

disposizione. La Repubblica slovacca ha aggiunto che, così facendo, il Consiglio avrebbe violato

anche l’articolo 13, paragrafo 2, TUE, nonché i principi dell’equilibrio istituzionale e di buona

amministrazione.

La Corte ha sottolineato che, nel caso di specie, la Commissione ha esercitato il proprio potere di

modifica previsto dall’articolo 293, paragrafo 2, TFUE, in quanto risulta chiaramente dalla

partecipazione di tale istituzione al processo di adozione della decisione impugnata che la proposta

modificata è stata approvata dalla Commissione tramite due dei suoi membri che erano autorizzati

dal collegio dei commissari ad adottare le modifiche in questione.

Pertanto, il requisito dell’unanimità previsto dall’articolo 293, paragrafo 1, TFUE non doveva essere

rispettato dal Consiglio.

La Repubblica slovacca, in via subordinata, e l’Ungheria hanno sostenuto che, in occasione

dell’adozione della decisione impugnata, non sarebbe stato rispettato il diritto dei Parlamenti

nazionali di emettere un parere su qualsiasi progetto di atto legislativo, quale previsto dai protocolli

n. 1 e n. 2.

La Corte ha respinto tale censura ricordando che la decisione impugnata deve essere qualificata

come atto non legislativo, sicché la sua adozione nel quadro di una procedura non legislativa non

era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei Parlamenti nazionali previsti dai

protocolli n. 1 e n. 2, né a quelli relativi al carattere pubblico della deliberazione e del voto in seno al

Consiglio, il cui rispetto si impone soltanto nell’ambito dell’adozione di progetti di atti legislativi.

L’Ungheria ha dedotto che la decisione impugnata era viziata da un’irregolarità procedurale

sostanziale in quanto il Consiglio non aveva rispettato il diritto dell’Unione in materia di uso delle

lingue perché, in violazione dell’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento interno del Consiglio,

sono stati inviati agli Stati membri unicamente in lingua inglese i testi contenenti le modifiche

successivamente apportate alla proposta iniziale della Commissione, ivi compreso, alla fine, il testo

della decisione impugnata quale adottato dal Consiglio.

La Corte ha rilevato che – come affermato dal Consiglio ‒ il suddetto articolo deve essere

interpretato – e viene in pratica applicato da detta istituzione – nel senso che, sebbene il suo

paragrafo 1 prescriva che i progetti che sono «alla base» delle deliberazioni del Consiglio – nel caso

di specie, la proposta iniziale della Commissione – devono in linea di principio essere redatti in tutte

le lingue ufficiali dell’Unione, il paragrafo 2 del medesimo articolo 14 prevede un regime

semplificato per gli emendamenti che non devono essere imperativamente disponibili in tutte le

lingue ufficiali dell’Unione. Soltanto in caso di opposizione di uno Stato membro dovrebbero essere

presentate al Consiglio anche le versioni linguistiche designate da tale Stato prima che detta

istituzione possa continuare a deliberare. In particolare, l’articolo 14, paragrafo 2, di tale

regolamento consente a ciascun membro del Consiglio di opporsi alla deliberazione qualora il testo

degli eventuali emendamenti non sia redatto in tutte le lingue ufficiali dell’Unione.

Benché l’Unione attribuisca grande rilievo alla preservazione del multilinguismo, la cui importanza

viene ricordata all’articolo 3, paragrafo 3, quarto comma, TUE (v., in tal senso, sentenza del 5

maggio 2015, Spagna/Consiglio, C 147/13, punto 42), l’interpretazione offerta dal Consiglio

riguardo al proprio regolamento interno è l’esito di un approccio equilibrato e flessibile che

favorisce l’efficacia e la rapidità dei lavori di tale istituzione, che rivestono una speciale importanza

nel particolare contesto di urgenza che caratterizza la procedura di adozione delle misure

temporanee prese sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE.

Di qui il rigetto della censura, essendo pacifico che, nel caso di specie, la proposta iniziale della

Commissione è stata messa a disposizione di tutte le delegazioni degli Stati membri in tutte le lingue

ufficiali dell’Unione. Inoltre, l’Ungheria non ha contestato neppure il fatto che nessuno Stato

membro si è opposto ad una deliberazione sulla base di testi che riprendevano le modifiche

concordate redatte in lingua inglese, e che, inoltre, tutte le modifiche sono state lette dal Presidente

del Consiglio e interpretate simultaneamente in tutte le lingue ufficiali dell’Unione.

2.5.- Censure riguardanti il merito delle misure temporanee adottate.

2.5.1.- Principio di proporzionalità

Sul punto la Corte ha, in primo luogo, ricordato la propria costante giurisprudenza, secondo cui il

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principio di proporzionalità esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei a realizzare i

legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa da applicare e non eccedano i limiti di quanto è

necessario alla realizzazione di tali obiettivi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra

più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non

devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti (v., segnatamente, sentenza del 4 maggio 2016,

Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 78 e la giurisprudenza ivi citata).

Dalla stessa giurisprudenza si desume che solo la manifesta inappropriatezza rispetto all’obiettivo

che si intende perseguire può inficiare la legittimità delle misure adottate nel settore della politica

comune dell’Unione in materia di asilo e, in particolare, delle misure temporanee adottate sulla base

dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, quali quelle previste dalla decisione impugnata, che implicano

scelte essenzialmente di natura politica e valutazioni complesse da effettuare, per giunta, entro

termini brevi al fine di rispondere in maniera rapida e concreta ad una «situazione di emergenza», ai

sensi della disposizione sopra citata (v. in tal senso, segnatamente, sentenza del 4 maggio 2016,

Polonia/Parlamento e Consiglio, C 358/14, punto 79 e la giurisprudenza ivi citata).

Nella specie, come si è detto, tale situazione di manifesta inappropriatezza rispetto all’obiettivo

perseguito è stata esclusa.

2.5.2.- Prospettata inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo da essa perseguito

La Repubblica slovacca, sostenuta dalla Repubblica di Polonia, ha, in particolare, sostenuto

l’inidoneità della decisione impugnata a realizzare l’obiettivo perseguito e quindi la sua contrarietà al

principio di proporzionalità, quale sancito all’articolo 5, paragrafo 4, TUE nonché agli articoli 1 e 5

del protocollo n. 2.

Tale inidoneità sarebbe da ascrivere al fatto che il previsto meccanismo di ricollocazione non è di

natura tale da rimediare alle carenze strutturali dei regimi di asilo greco e italiano. Tali carenze,

collegate alla mancanza di capacità di accoglienza e di trattamento delle domande di protezione

internazionale, avrebbero dovuto essere previamente risolte prima che detta ricollocazione potesse

essere effettivamente attuata. Inoltre, dal numero poco elevato di ricollocazioni fin qui effettuate si

desumerebbe che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata era, sin dalla

sua adozione, inadatto al raggiungimento dell’obiettivo ricercato.

La Corte ha, in primo luogo, precisato che l’idoneità del meccanismo di ricollocazione previsto dalla

decisione impugnata a realizzare i propri obiettivi non può essere valutata isolatamente, bensì deve

essere considerata nel quadro dell’insieme di misure in cui esso si inserisce, che sono dirette ad

alleggerire l’onere gravante su Italia e Grecia, anche al fine di migliorare il funzionamento del

rispettivo regime di asilo di tali Stati.

In particolare la decisione impugnata (articolo 8) ha previsto ‒ onde fornire “soluzioni strutturali”

per ovviare alle pressioni eccezionali sui sistemi di asilo e migrazione della Grecia e dell’Italia con

l’istituzione di “un quadro strategico solido che consenta di far fronte alla situazione di crisi e

intensifichi il processo di riforma in corso in questi settori” ‒ misure complementari, segnatamente

in materia di rafforzamento della capacità, della qualità e dell’efficacia dei regimi d’asilo, da adottare

a cura della Repubblica ellenica e della Repubblica italiana, le quali si aggiungono alle misure già

imposte dall’articolo 8 della decisione 2015/1523 al suddetto scopo.

Inoltre, l’articolo 7 della decisione impugnata ha previsto la fornitura di un sostegno operativo ai

suddetti Stati membri, mentre l’articolo 10 della medesima decisione ha previsto un sostegno

finanziario a loro beneficio per ciascuna persona ricollocata.

Comunque, la ricollocazione si aggiunge ad altre misure che mirano a sostenere i regimi di asilo

italiano e greco che sono stati gravemente perturbati dagli afflussi massicci succedutisi constatati a

partire dall’anno 2014.

È questo il caso del programma europeo di reinsediamento di 22.504 persone bisognose di

protezione internazionale, che gli Stati membri e gli Stati associati al sistema derivante

dall’applicazione del regolamento Dublino III hanno concordato il 20 luglio 2015, della decisione

2015/1523 vertente sulla ricollocazione di 40.000 persone manifestamente bisognose di protezione

internazionale, o anche dell’istituzione di «hotspot» in Italia e in Grecia nell’ambito dei quali

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l’insieme delle agenzie dell’Unione competenti in materia di asilo e gli esperti degli Stati membri

lavorano concretamente con le autorità nazionali e locali per aiutare gli Stati membri interessati ad

adempiere ai loro obblighi previsti dal diritto dell’Unione nei confronti di tali persone, in termini di

controllo, di identificazione, di registrazione delle testimonianze e di raccolta di impronte digitali.

Inoltre, come ricordato dal considerando 15 della decisione impugnata, la Repubblica ellenica e la

Repubblica italiana hanno potuto beneficiare di un sostegno operativo e di aiuti finanziari notevoli

da parte dell’Unione nel quadro della politica migratoria e di asilo.

Infine, la Corte ha sottolineato che non si può dedurre a posteriori dal numero poco elevato di

ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata che quest’ultima fosse,

sin dall’origine, inadatta al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, così come sostenuto dalla

Repubblica slovacca, nonché dall’Ungheria.

Infatti, per consolidata giurisprudenza della Corte, la validità di un atto dell’Unione non può

dipendere da valutazioni retrospettive riguardanti il suo grado di efficacia. Quando il legislatore

dell’Unione si trova a valutare gli effetti futuri di una normativa da adottare, malgrado che questi

non possano essere previsti con esattezza, la sua valutazione può essere censurata solo qualora

appaia manifestamente erronea alla luce degli elementi di cui esso disponeva al momento

dell’adozione della normativa stessa (v., in particolare, sentenze del 12 luglio 2001, Jippes e a., C

189/01, punto 84, e del 9 giugno 2016, Pesce e a., C 78/16 e C 79/16, punto 50).

Nel caso di specie, come risulta in particolare dai considerando 13, 14 e 26 della decisione

impugnata, allorché ha adottato il meccanismo di ricollocazione di un numero significativo di

richiedenti una protezione internazionale, il Consiglio ha proceduto, sulla base di un esame

dettagliato dei dati statistici disponibili all’epoca, ad un’analisi prognostica degli effetti di tale misura

sulla situazione di emergenza in questione. Orbene, alla luce di tali dati, l’analisi di cui sopra non

appare manifestamente erronea.

D’altra parte, il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della

decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva

certamente prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, in particolare, la mancanza

di cooperazione di alcuni Stati membri.

2.5.3.- Carattere asseritamente non necessario della decisione impugnata in rapporto all’obiettivo da

essa perseguito

La Repubblica slovacca, sostenuta dalla Repubblica di Polonia, ha dedotto che l’obiettivo perseguito

dalla decisione impugnata avrebbe potuto essere realizzato in maniera altrettanto efficace

ricorrendo ad altre misure adottabili nell’ambito di strumenti normativi esistenti, misure che

sarebbero state meno restrittive per gli Stati membri e meno incidenti sul diritto «sovrano» di

ciascuno di essi di decidere liberamente dell’ammissione nel proprio territorio di cittadini di Paesi

terzi, nonché sul diritto degli Stati membri, enunciato all’articolo 5 del protocollo n. 2, a che l’onere

finanziario ed amministrativo sia il meno elevato possibile. In particolare, secondo la ricorrente e la

Polonia:

a) sarebbe stato possibile applicare il meccanismo previsto dalla direttiva 2001/55/CE del

Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea

in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati

membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi;

b) la Repubblica ellenica e la Repubblica italiana avrebbero potuto attivare il meccanismo cosiddetto

di «protezione civile dell’Unione», previsto dall’articolo 8-bis del regolamento (CE) n. 2007/2004

del Consiglio, del 26 ottobre 2004, che istituisce un’Agenzia europea per la gestione della

cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (GU 2004, L

349, pag. 1) e tale meccanismo avrebbe potuto fornir loro l’assistenza materiale necessaria;

c) la Repubblica ellenica e la Repubblica italiana avrebbero potuto anche, in terzo luogo, richiedere

un’assistenza all’agenzia Frontex sotto forma di «interventi rapidi»;

d) allo stesso modo, in conformità dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera f), e dell’articolo 9, paragrafi 1

e 1 ter, del regolamento n. 2007/2004, i suddetti due Stati membri avrebbero potuto sollecitare

l’agenzia Frontex affinché procurasse loro l’assistenza necessaria per l’organizzazione delle

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operazioni di rimpatrio;

e) in base all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE sarebbe stato possibile anche adottare misure meno

restrittive per gli Stati membri, ma ugualmente idonee ai fini della realizzazione dell’obiettivo

perseguito, quali la fornitura di un aiuto per facilitare il rimpatrio e la registrazione ovvero un

sostegno finanziario, materiale, tecnico e personale ai regimi di asilo italiano e greco;

f) infine, gli Stati membri avrebbero potuto assumere, su base volontaria, iniziative bilaterali al fine

di fornire un simile sostegno e comunque iniziative del genere erano già state intraprese.

Infine, si rileva che la ricollocazione dei richiedenti prevista dalla decisione impugnata

comporterebbe inevitabilmente un onere finanziario e amministrativo per gli Stati membri e che

l’imposizione di tale onere non sarebbe stata necessaria, proprio perché sarebbero state ipotizzabili

altre misure meno vincolanti.

Di conseguenza, tale decisione sarebbe da considerare come una misura superflua e prematura che

si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità e con l’articolo 5 del protocollo n. 2.

La Corte, in primo luogo, ha ricordato che la decisione è stata adottata in un contesto

particolarmente delicato, rappresentato dalla situazione di grave emergenza, esistente all’epoca in

Grecia e in Italia, caratterizzata da un afflusso massiccio e improvviso di cittadini di Paesi terzi

durante i mesi di luglio e di agosto dell’anno 2015.

In tale frangente la decisione di adottare un meccanismo vincolante di ricollocazione di 120.000

persone in base all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE ‒ in aggiunta a quello previsto dalla precedente

decisione 2015/1523, per alleggerire la pressione che si esercitava sulla Repubblica italiana e

soprattutto sulla Repubblica ellenica in considerazione di una nuova situazione di emergenza

derivante dall’afflusso massiccio di migranti in situazione irregolare in tali Stati membri che si era

verificato nel corso dei primi otto mesi dell’anno 2015, e in particolare nel corso dei mesi di luglio e

di agosto di quell’anno ‒ se certo doveva essere fondata su criteri oggettivi, potrebbe essere

censurata dalla Corte soltanto in ipotesi di constatazione della commissione da parte del Consiglio ‒

nel momento dell’adozione della decisione impugnata, sulla base delle informazioni e dei dati

disponibili all’epoca ‒ di un errore manifesto di valutazione, nel senso che avrebbe potuto essere

adottata entro gli stessi termini un’altra misura meno vincolante ma altrettanto efficace.

Nella specie, come si è detto, è da escludere che il Consiglio abbia commesso un simile errore per il

fatto di aver ritenuto, alla luce dei dati più recenti che erano a sua disposizione, che la situazione di

emergenza esistente alla data del 22 settembre 2015 giustificasse la ricollocazione di 120.000

persone e che la ricollocazione di 40.000 persone già prevista dalla decisione 2015/1523 non

sarebbe stata sufficiente.

D’altra parte, per quanto riguarda l’incidenza della decisione impugnata sul quadro normativo

disciplinante l’ammissione di cittadini di Paesi terzi, occorre rilevare che il meccanismo di

ricollocazione previsto da tale decisione, pur avendo carattere vincolante, si applica però soltanto

per un periodo di due anni e riguarda un numero limitato di migranti manifestamente bisognosi di

protezione internazionale.

Inoltre, l’effetto vincolante della decisione impugnata risulta limitato anche dalla previsione secondo

cui come presupposto per la ricollocazione si richiede che gli Stati membri indichino, a intervalli

regolari, e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che sono in grado di ricollocare

rapidamente nel proprio territorio (articolo 5, paragrafo 2, della decisione impugnata), e che essi

siano d’accordo con la ricollocazione delle singole persone in questione (articolo 5, paragrafo 4, di

detta decisione), restando inteso però che, a norma dell’articolo 5, paragrafo 7, della suddetta

decisione, uno Stato membro non può rifiutarsi di ricollocare un richiedente se non in presenza di

un motivo legittimo attinente all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale.

Infine, se è stato adottato un meccanismo vincolante che comporta una ripartizione su base

numerica e obbligatoria, sotto forma di quote, delle persone da ricollocare tra gli Stati membri, ciò è

dipeso da una congrua valutazione del Consiglio operata alla luce del fallimento della ripartizione

per consenso tra gli Stati membri delle 40.000 persone interessate dalla decisione 2015/1523 e alle

difficoltà riscontrate nell’ambito dei negoziati relativi alla decisione impugnata, che portavano a

considerare impossibile di ottenere a breve termine il consenso sulla ripartizione delle persone

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ricollocate.

2.5.4.- Il doveroso principio di solidarietà nell’ambito dell’attuazione della politica comune

dell’Unione in materia di asilo.

La Corte, in primo luogo, ha precisato che il Consiglio ha anche considerato che era essenziale dar

prova di solidarietà nei confronti dei due Stati membri Grecia e Italia e completare le misure fino

allora adottate disponendo le misure temporanee previste dalla suddetta decisione.

Infatti, nell’adottare la decisione impugnata, il Consiglio era effettivamente tenuto, come risulta

d’altronde dal considerando 2 di detta decisione, a dare attuazione al principio di solidarietà e di

equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario, la cui

osservanza si impone, a norma dell’articolo 80 TFUE, nell’ambito dell’attuazione della politica

comune dell’Unione in materia di asilo.

Pertanto, non si può imputare al Consiglio di aver commesso un errore manifesto di valutazione

per il fatto di aver ritenuto di dover adottare, in considerazione dell’urgenza specifica della

situazione, sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, letto alla luce dell’articolo 80 TFUE e del

principio di solidarietà tra Stati membri in esso sancito, misure temporanee consistenti nell’imporre

un meccanismo di ricollocazione vincolante, quale quello previsto dalla decisione impugnata.

2.5.5.- L’opportunità della scelta di non utilizzare il sistema di protezione temporanea previsto dalla

direttiva 2001/55.

D’altra parte, il Consiglio ha altresì sostenuto, senza essere contraddetto sul punto, che il sistema di

protezione temporanea previsto dalla direttiva 2001/55 non offriva una risposta effettiva al

problema che si poneva nel caso di specie, ossia la saturazione completa delle infrastrutture di

accoglienza in Grecia e in Italia e la necessità di sgravare questi Stati membri il più rapidamente

possibile di un numero rilevante di migranti già arrivati sul loro territorio, dato che tale sistema di

protezione temporanea prevede che le persone ammesse a beneficiarne hanno diritto a una

protezione nello Stato membro in cui esse si trovano.

Peraltro, la scelta operata nella decisione impugnata di concedere una protezione internazionale

piuttosto che uno status che conferisce diritti più limitati, quale quello della protezione temporanea

previsto dalla direttiva 2001/55, è una scelta essenzialmente politica, la cui opportunità non può

essere esaminata dalla Corte.

2.5.6.- La formale richiesta dell’Ungheria di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della

ricollocazione.

Quanto, in particolare, all’Ungheria viene ricordato che, nella sua proposta del 9 settembre 2015, la

Commissione aveva collocato l’Ungheria tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione, in

quanto i dati per i primi otto mesi dell’anno 2015, e in particolare per i mesi di luglio e di agosto di

quell’anno, rivelavano un arrivo massiccio, per la rotta cosiddetta dei «Balcani occidentali», di

migranti provenienti prevalentemente dalla Grecia, che esercitavano così una pressione

considerevole sul regime di asilo ungherese, paragonabile a quella esercitata sui regimi di asilo greco

e italiano.

Tuttavia, a seguito della costruzione da parte dell’Ungheria di una barriera sulla sua frontiera con la

Serbia e del transito massiccio di migranti presenti in Ungheria verso ovest, principalmente verso la

Germania, tale pressione si è considerevolmente alleggerita verso la metà del mese di settembre

2015, in quanto il numero di migranti in situazione irregolare presenti nel territorio ungherese si è

ridotto in maniera significativa.

Nel contesto di tali avvenimenti, verificatisi nel mese di settembre 2015, l’Ungheria ha formalmente

chiesto al Consiglio di non figurare più tra gli Stati membri beneficiari della ricollocazione e il

Consiglio ha preso atto di tale domanda.

Ne deriva che, di fronte al rifiuto dell’Ungheria di beneficiare del meccanismo di ricollocazione

come era stato proposto dalla Commissione, il Consiglio non può essere censurato, sotto il profilo

del principio di proporzionalità, per aver dedotto dal principio di solidarietà e di equa ripartizione

delle responsabilità imposto dall’articolo 80 TFUE che l’Ungheria doveva vedersi attribuire delle

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quote di ricollocazione, al pari di tutti gli altri Stati membri che non beneficiavano di tale

meccanismo di ricollocazione.

Nel suo ricorso l’Ungheria ha sostenuto altresì che l’imposizione di quote vincolanti nei suoi

confronti costituirebbe un onere sproporzionato, tenuto conto del fatto che essa si trovava, anche

dopo la metà del mese di settembre 2015, in una situazione di emergenza, in quanto la pressione

migratoria sulle sue frontiere non era diminuita, ma si era tutt’al più spostata verso la sua frontiera

con la Croazia dove ogni giorno si sarebbero verificati significativi attraversamenti irregolari.

Pertanto, poiché l’Ungheria si sarebbe sempre trovata, anche al momento dell’adozione della

decisione impugnata, a confronto con una situazione di emergenza, la decisione di includerla tra gli

Stati membri di ricollocazione e di imporle a tale titolo oneri supplementari sotto forma di quote di

ricollocazione sarebbe stata presa in violazione dell’obiettivo perseguito dall’articolo 78, paragrafo 3,

TFUE, che mira ad aiutare gli Stati membri che si trovino in una situazione siffatta.

Al riguardo la Corte sottolinea che la decisione impugnata, prevedendo in particolare una

ripartizione obbligatoria tra tutti gli Stati membri dei migranti che devono essere ricollocati a partire

dalla Grecia e dall’Italia, da un lato, ha un impatto sull’insieme degli Stati membri di ricollocazione

e, dall’altro, esige che sia garantito un equilibrio tra i diversi interessi in gioco, tenuto conto degli

obiettivi perseguiti da detta decisione. Pertanto, la ricerca di un siffatto equilibrio, che prenda in

considerazione non già la situazione particolare di un singolo Stato membro, bensì quella

dell’insieme degli Stati membri, non può essere considerata contraria al principio di proporzionalità

(v., per analogia, sentenza del 18 giugno 2015, Estonia/Parlamento e Consiglio, C 508/13, punto

39).

Se uno o più Stati membri si trovino in una situazione di emergenza, ai sensi dell’articolo 78,

paragrafo 3, TFUE, gli oneri derivanti dalle misure temporanee adottate in virtù di tale disposizione

a beneficio di questo o di questi Stati membri devono, in linea di principio, essere ripartiti tra tutti

gli altri Stati membri, conformemente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle

responsabilità tra gli Stati membri, dal momento che, ai sensi dell’articolo 80 TFUE, tale principio

disciplina la politica dell’Unione in materia di asilo.

Pertanto, correttamente la Commissione e il Consiglio hanno ritenuto, nel caso di specie, in

occasione dell’adozione della decisione impugnata, che la ripartizione dei richiedenti ricollocati tra

tutti gli Stati membri, in conformità del principio sancito all’articolo 80 TFUE, costituisse un

elemento fondamentale della decisione impugnata. Ciò risulta dai molteplici riferimenti al suddetto

principio contenuti nella decisione impugnata, segnatamente nei considerando 2, 16, 26 e 30 di

quest’ultima.

Del resto, la decisione impugnata prevede, all’articolo 4, paragrafo 5, e all’articolo 9, la possibilità

per uno Stato membro, a certe condizioni, di chiedere una sospensione degli obblighi che gli

incombono in quanto Stato membro di ricollocazione ai sensi di tale decisione.

Così, mediante la decisione 2016/408, adottata a norma dell’articolo 4, paragrafo 5, della decisione

impugnata, il Consiglio, riconoscendo in particolare che la Repubblica d’Austria si trovava dinanzi a

circostanze eccezionali e a una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di

cittadini di Paesi terzi nel suo territorio e che tale Stato membro era, dopo il Regno di Svezia, il

secondo Paese dell’Unione con il maggior numero di richiedenti una protezione internazionale per

abitante, ha deciso che gli obblighi incombenti alla Repubblica d’Austria a titolo della quota di

ricollocazione ad essa assegnata dovevano essere sospesi a concorrenza del 30% di tale quota per la

durata di un anno.

Allo stesso modo, mediante la decisione 2016/946, il Consiglio, ritenendo in particolare che il

Regno di Svezia si trovasse dinanzi a una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso

improvviso di cittadini di Paesi terzi nel suo territorio a motivo di un brusco spostamento dei flussi

migratori e che tale Stato membro contasse, di gran lunga, il maggior numero di richiedenti una

protezione internazionale per abitante nell’Unione, ha deciso che gli obblighi ad esso incombenti in

quanto Stato membro di ricollocazione a titolo della decisione impugnata dovevano essere sospesi

per un periodo di un anno.

In linea generale, risulta dal meccanismo di aggiustamento, previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, della

decisione impugnata, che uno Stato membro, il quale ritenga di trovarsi in una situazione di

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emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi a causa di un brusco

spostamento dei flussi migratori, può, adducendo motivi debitamente giustificati, avvisare la

Commissione e il Consiglio di tale situazione di emergenza, ciò che può condurre ad una modifica

della decisione suddetta, di modo che tale Stato membro possa beneficiare, a partire dal 26

settembre 2016, della ricollocazione del numero di 54.000 richiedenti previsto dall’articolo 4,

paragrafo 1, lettera c), di questa stessa decisione.

Queste differenti misure di aggiustamento dimostrano che il meccanismo di ricollocazione previsto

dalla decisione impugnata, considerato nel suo insieme, permette di tener conto, in modo

proporzionato, della situazione specifica di ciascuno Stato membro sotto questo aspetto, come è

confermato dalla chiave di ripartizione in funzione della quale sono state fissate, rispettivamente

nell’allegato I e nell’allegato II della decisione impugnata, le quote di ricollocazione in provenienza

dalla Grecia e dall’Italia.

Tale chiave di distribuzione è finalizzata a garantire una ripartizione delle persone ricollocate tra gli

Stati membri interessati che sia segnatamente proporzionata al peso economico di ciascuno di essi e

alla pressione migratoria esercitata sul loro regime di asilo.

Infatti, è basata sui seguenti criteri: a) popolazione complessiva (40%); b) PIL (40%); c) media delle

domande di asilo per milione di abitanti nel periodo 2010-2014 (10% con un tetto massimo del

30% dell’effetto popolazione e PIL sulla chiave, onde evitare effetti sproporzionati sulla

distribuzione globale); d) tasso di disoccupazione (10% con un tetto massimo del 30% dell’effetto

popolazione e PIL sulla chiave, onde evitare effetti sproporzionati sulla distribuzione globale).

2.5.7.- Carattere discriminatorio di eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei

richiedenti una protezione internazionale.

Viene quindi respinta l’argomentazione della Polonia secondo cui gli effetti dell’imposizione di

quote vincolanti sarebbero del tutto sproporzionati per gli Stati membri che sono «pressoché

omogenei etnicamente come la Polonia» con una popolazione che differirebbe, da un punto di vista

culturale e linguistico, dai migranti che devono essere ricollocati nel rispettivo territorio.

Al riguardo la Corte precisa che se la ricollocazione dovesse essere strettamente subordinata

all’esistenza di legami culturali o linguistici tra ciascun richiedente una protezione internazionale e lo

Stato membro di ricollocazione, ne risulterebbe l’impossibilità di ripartire tali richiedenti tra tutti gli

Stati membri nel rispetto del principio di solidarietà imposto dall’articolo 80 TFUE e, dunque, di

adottare un meccanismo di ricollocazione vincolante.

Inoltre, eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione

internazionale non possono essere prese in esame, in quanto esse sarebbero, con tutta evidenza,

contrarie al diritto dell’Unione e in particolare all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali

dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), cioè sarebbero discriminatorie.

2.5.8.- La salvaguardia dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna da parte degli

Stati membri.

Viene anche respinta l’ulteriore argomentazione della Repubblica di Polonia secondo cui la

decisione impugnata sarebbe contraria al principio di proporzionalità, in quanto non permetterebbe

agli Stati membri di garantire l’esercizio effettivo delle responsabilità ad essi incombenti per il

mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna ai sensi dell’articolo 72

TFUE, il che sarebbe tanto più grave per il fatto che detta decisione darebbe luogo a importanti

movimenti cosiddetti «secondari», provocati dall’uscita di richiedenti dal loro Stato membro

ospitante prima che quest’ultimo abbia potuto decidere definitivamente sulla loro domanda di

protezione internazionale.

A questo proposito la Corte ricorda che il considerando 32 della decisione impugnata enuncia, in

particolare, che occorre prendere in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico per

tutta la durata della procedura di ricollocazione, fino al trasferimento effettivo del richiedente, e che,

in tale contesto, si impone il pieno rispetto dei diritti fondamentali del richiedente, comprese le

pertinenti regole in materia di protezione dei dati.

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In tale prospettiva, l’articolo 5 della decisione impugnata, intitolato «Procedura di ricollocazione»,

stabilisce, al paragrafo 7, che gli Stati membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione di un

richiedente solo qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione

costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico nel loro territorio.

Se, come sostenuto dalla Repubblica di Polonia, il meccanismo previsto dall’articolo 5, paragrafo 7,

della decisione impugnata fosse inefficace perché obbligherebbe gli Stati membri a controllare

numerose persone in poco tempo, simili difficoltà di ordine pratico sono considerate non inerenti al

suddetto meccanismo e, se del caso, da risolvere nello spirito di cooperazione e di reciproca fiducia

tra le autorità degli Stati membri beneficiari della ricollocazione e quelle degli Stati membri di

ricollocazione, il quale deve imporsi nel quadro dell’attuazione della procedura di ricollocazione

prevista dall’articolo 5 della decisione sopra citata.

2.5.9.- Criteri per determinare lo Stato di ricollocazione

Quanto alla critica mossa dall’Ungheria secondo cui la decisione impugnata non fisserebbe alcun

criterio per determinare lo Stato membro di ricollocazione, la Corte ha ribadito che la decisione in

parola ha tenuto conto dell’articolo 80 TFUE ‒ il quale trova applicazione nell’attuazione della

politica dell’Unione in materia di asilo e, segnatamente, in occasione dell’adozione di misure

temporanee fondate sull’articolo 78, paragrafo 3, TFUE ‒ da cui risulta che la determinazione dello

Stato membro di ricollocazione deve essere fondata su criteri connessi alla solidarietà e all’equa

ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri.

Inoltre, l’articolo 6, paragrafi 1 e 2, della decisione impugnata prevede alcuni criteri specifici di

determinazione dello Stato membro di ricollocazione, connessi all’interesse superiore del minore e

ai legami familiari, che sono d’altronde analoghi a quelli previsti dal regolamento Dublino III;

mentre il considerando 34 della decisione impugnata elenca un insieme di elementi che sono

preordinati, in particolare, a che i richiedenti vengano ricollocati in uno Stato membro verso il quale

essi intrattengono legami familiari, culturali o sociali e di cui occorre tener conto in modo

particolare al momento della designazione dello Stato membro di ricollocazione, e ciò “allo scopo

di favorire l’integrazione dei richiedenti in seno a tale Stato”.

2.5.10.- I rapporti tra la decisione impugnata e il sistema Dublino III

La Corte quindi ha sottolineato che è da escludere che la decisione impugnata abbia dato vita ad un

sistema arbitrario che si sarebbe sostituito al sistema oggettivo dettato dal regolamento Dublino III,

in quanto, al contrario, questi due sistemi, in definitiva, non differiscono sostanzialmente l’uno

dall’altro, nel senso che il sistema istituito dalla decisione impugnata è fondato, al pari del sistema

istituito dal regolamento Dublino III, su criteri oggettivi, e non sull’espressione di una preferenza da

parte del richiedente una protezione internazionale.

In particolare, la regola della competenza dello Stato membro di primo ingresso, prevista

dall’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III ‒ che è l’unica regola di determinazione

dello Stato membro competente dettata da tale regolamento alla quale la decisione impugnata

apporta una deroga ‒ non si ricollega alle preferenze del richiedente per un determinato Stato

membro ospitante e non mira specificamente a garantire che sussista un legame linguistico, culturale

o sociale tra tale richiedente e lo Stato membro competente.

A questo proposito, la Corte ha precisato che il Consiglio ha giustamente ricordato, al considerando

35 della decisione impugnata, che il diritto dell’Unione non consente ai richiedenti di scegliere lo

Stato membro competente per l’esame della loro domanda. Infatti, i criteri previsti dal regolamento

Dublino III per determinare lo Stato membro competente a trattare una domanda di protezione

internazionale non si ricollegano alle preferenze del richiedente per un determinato Stato membro

ospitante.

Infine, dalla Convenzione del 1951 e dal protocollo del 1967 relativi allo status di rifugiati non è

possibile desumere che la Convenzione di Ginevra sancisca, a beneficio di un richiedente la

protezione internazionale, il diritto di restare nello Stato di presentazione della domanda di

protezione fintanto che questa è pendente.

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3.- Osservazioni.

Come si può notare dalla precedente sintesi la sentenza in commento risulta, nella sua integralità,

diretta a riaffermare la solidarietà tra gli Stati membri, valore che permea anche per il rispetto delle

norme dei Trattati di tipo procedurale.

Del resto, le numerose e specifiche censure degli Stati ricorrenti (e della Polonia che li ha

espressamente sostenuti in qualche caso), anche per le parti relative alla contestazione della base

giuridica dell’impugnata decisione del Consiglio UE 2015/1601 e alle presunte irregolarità

procedurali commesse in occasione dell’adozione della decisione stessa, erano intrise di un

sentimento di non solidarietà, in molti casi espressamente manifestato.

Anzi si può dire che proprio le censure di tipo tecnico-procedurale dimostrano, in modo molto

significativo, quale sia oggi lo stato dell’Unione e come sia difficile pervenire a decisioni politiche

condivise tra i diversi Governi.

Questo, purtroppo, si verifica specialmente in tema di immigrazione.

Sappiamo che ormai da anni questo tema è diventato quello che maggiormente divide gli Stati

membri e dobbiamo anche constare come non tutti abbiano presente che l’efficacia degli strumenti

che regolano la condizione dei migranti, specialmente extra-UE, rappresenta, in un certo senso, il

banco di prova delle democrazie contemporanee.

Il nostro Stato e la stessa Unione europea sono fondati sul principio democratico e fin dai tempi del

famoso “Elogio della democrazia ateniese” di Pericle viene affermato che un elemento

fondamentale della democrazia è la fiducia che i consociati hanno nelle relazioni reciproche oltre

che nei rapporti con le Istituzioni e le Pubbliche Amministrazioni.

Si dice, infatti, che l’essenza della democrazia è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è

la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza, il che vale, in base ai Trattati,

anche nei rapporti tra gli Stati UE, a ciascuno dei quali è riconosciuta pari dignità rispetto agli altri

Stati oltre a stabilirsi che i reciproci rapporti sono retti dal principio di solidarietà e di equa

ripartizione della responsabilità.

Ma va aggiunto anche che perché si crei questo circolo “virtuoso” è, in primo luogo, necessario che

ognuno abbia fiducia in sé stesso e, per gli Stati, che i Governi, forti della fiducia riscossa dal corpo

elettorale, con coraggio, effettuino scelte “ambiziose” (secondo un’espressione usata dalla

Commissione UE) perseguendo l’idea di Platone secondo la quale il politico sapiente è colui che

viene liberamente scelto dai governati per prendersi cura delle loro esigenze con il ruolo di “pilota

dei suoi passeggeri”, esperto nello schivare e prevenire i pericoli e non è invece colui che è capo di

un gregge di animali, che si limita ad evitare di perdere qualche capo di bestiame e a godere della sua

posizione di privilegio.

E, quanto alla conquista della fiducia dei cittadini dei singoli Stati ed europei, si può ricordare che il

successo di Churchill, Adenauer, De Gaulle, De Gasperi e anche Jaques Delors, si fa derivare

principalmente dalla percezione da loro data alla popolazione europea di garantire l’affermazione di

principi fondamentali per un futuro pacifico e prospero del continente, certamente non concentrato

soltanto sul rispetto delle regole del bilancio UE soprattutto davanti alla crescente crisi umanitaria

provocata dall’afflusso di rifugiati provenienti da Paesi devastati dalla guerra, come oggi

principalmente la Siria, dalla fame e dalle calamità naturali, tanto più di fronte alla preoccupante

diffusione di sentimenti e partiti euro-scettici.

Sicché, in un Sistema di asilo che non è mai diventato realmente “comune” ‒ come quello chiamato

Sistema europeo comune di asilo o CEAS nell’acronimo inglese (Common European Asylum

System) ‒ con l’aumento delle migrazioni verso il nostro continente, non si sono create le

condizioni per superare gli egoismi – degli Stati e dei singoli – e quindi neppure per combattere la

logica della “paura dell’altro”, che alimenta sentimenti xenofobi, razzisti e antieuropeisti, che sono

quelli che, a loro volta, determinano la nascita di partiti politici e movimenti che li veicolano.

E questo è da collegare ad una diminuzione nei cittadini europei ‒ in misure diverse ‒ della fiducia

in sé stessi e nelle Istituzioni nazionali ed europee.

Infatti, come affermava Pericle: “ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la

fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione; ed è per questo che la nostra

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città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero”.

Così avendo perso la memoria del passato abbiamo difficoltà a costruire il futuro.

E in questo vivere nel presente diamo sempre più spazio, nei singoli Stati membri UE e nello stesso

Parlamento europeo, a partiti e movimenti che fomentano le divisioni e le separazioni non solo nei

confronti dei migranti provenienti da Paesi terzi, ma anche tra cittadini europei, cui i Governi degli

Stati membri non hanno per anni, nell’ambito delle varie istituzioni UE, dimostrato la forza di far

prevalere il coraggio di adottare scelte coraggiose ‒ pur se non condivise dalla popolazione ‒ ma

destinate a creare le premesse per superare le difficoltà e far prevalere un’avveduta solidarietà, nei

reciproci rapporti e nei riguardi dei migranti.

Tutto ciò ‒ di cui si ha triste conferma nei risultati delle recenti elezioni politiche tedesche, del 24

settembre 2017 ‒ può dirsi il frutto del “sonno della ragione” e di un appannamento della memoria

delle nostre radici e del patto nazionale ed europeo circa l’effettività della tutela dei diritti

fondamentali, da sempre considerata il presupposto della legittimità democratica del «progetto

europeo» e il suo tratto caratteristico in ogni settore.

In tutto questo, benché il tema dell’immigrazione sia tornato ad essere considerato centrale sia per

tutti i singoli Paesi europei sia per l’Europa tuttavia non sembra che tutti i Governi abbiano

compreso ‒ e che le Istituzioni UE si siano attivate in tal senso ‒ che siamo in presenza di una sfida

che mette in gioco lo stesso ruolo del vecchio continente nel mondo e la sua capacità di partecipare

da protagonista alla ridefinizione degli equilibri globali, salvaguardando i propri interessi ma anche

riscoprendo la “sua anima”, cioè i propri nobili valori fondanti.

Ne deriva che le ‒ ormai consuete ‒”incertezze” dei Governi non consentono di superare uno dei

più grandi difetti congeniti del CEAS rappresentato dal fatto che il destino dei diritti umani e/o

fondamentali ‒ dei migranti e non solo ‒ è quello di essere più popolari se si difendono a casa degli

altri che a casa propria e il perpetuarsi di questo double standard non è ascrivibile solo alle

diplomazie, ma è profondamente radicato in molti componenti dei corpi elettorali cui fanno

riferimento i Governi europei.

Così, anche alla luce delle passate esperienze, l’ulteriore modifica (c.d. Dublino IV) alla quale stanno

lavorando la Commissione UE e il Parlamento resta una grande incognita perché non è ancora

chiaro quale direzione si vuole seguire.

Per tutte queste ragioni, da tempo, illustri giuristi come Valerio Onida sostengono che “il diritto dei

diritti fondamentali” oggigiorno non è tanto di competenza dei legislatori – le cui scelte sono spesso

condizionate dal dare risposta ai transeunti problemi che, via via, sono sentiti come urgenti dalla

volontà popolare – quanto piuttosto dei giudici, perché involge problemi di equilibrio tra principi

fondanti che possono essere assicurati meglio in sede giudiziaria, a condizione che i giudici siano

aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo

all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la

Corte EDU e la Corte di giustizia UE, costruendo, così, una strada più facile per creare un nuovo

modello di produzione del diritto in senso oggettivo — una sorta di diritto comune dei diritti

fondamentali — che avvicina i Paesi di civil law a quelli di common law.

In effetti, non si può fare a meno di registrare che, specialmente negli ultimi anni, si sono avuti

molti progressi nel riconoscimento concreto dei diritti fondamentali dei migranti soprattutto grazie

all’opera delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo, delle Corti costituzionali e supreme nazionali e

dei Giudici europei di ogni ordine e grado.

Comunque, pur con tutti gli sforzi interpretativi che si possono fare, quel che è certo è che senza

scelte politiche coraggiose da parte dei Governi e delle Istituzioni non si riesce a dare una risposta

appagante ad una questione – quella migratoria ‒ che certamente non è “emergenziale” e che ci

accompagnerà per i prossimi decenni, tanto più che molte delle cause di tale fenomeno sono

ascrivibili, direttamente o indirettamente, a comportamenti degli stessi Stati occidentali ed europei.

E queste scelte sono da fare subito, in quanto la loro assenza, insieme con la mancata corretta

informazione sul fenomeno, ha già determinato molti guasti.

Basta pensare che ‒ in un clima di quasi indifferenza, mista a scarsa consapevolezza ‒ siamo

arrivati, nel giro di pochi anni, ad una situazione nella quale non solo aumentano, di minuto in

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minuto, le diseguaglianze e le discriminazioni, ma si stimano addirittura dai 27 milioni ai 200 milioni

di nuovi schiavi nel mondo, di cui molti anche in Italia (in tutte le Regioni) e in Europa, in tutti i

campi.

Ovviamente i soggetti più colpiti da tali tremendi fenomeni sono i giovani e i soggetti socialmente

vulnerabili e a rischio discriminazione – tra i quali anche in ambito UE, vengono compresi le

donne, le persone minorenni, le persone con disabilità e gli immigrati – cui vanno aggiunti i “nuovi”

soggetti socialmente vulnerabili, ossia le persone che, pur partendo da una condizione economica

decorosa, scivolano silenziosamente verso il disagio oppure verso la povertà.

In questo clima la bella sentenza 6 settembre 2017 della Grande Sezione della Corte di Giustizia

sicuramente fa ben sperare e porta una “brezza” di solidarietà nei rapporti fra gli Stati membri.

Però se non si manifesta una reale volontà di modificare il modo in cui pensare al futuro

dell’Europa e, quindi di modificare la stessa impostazione del CEAS ed anche la Convenzione di

Dublino, difficilmente si può pensare che si instauri nei fatti – e nelle prassi dei diversi Stati ‒ una

reale solidarietà, a partire dall’immigrazione.

Sicuramente è degno di nota l’insistente riferimento ‒ contenuto nella sentenza ‒ al principio di

solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, che, ai sensi dell’articolo 80

TFUE, disciplina la politica dell’Unione in materia di asilo.

Ma non si può non metterlo in relazione alle reazioni manifestate dagli Stati ricorrenti alla

pubblicazione della sentenza così come alla sconfortante “mancanza di cooperazione di alcuni Stati

membri”, registrata dalla Corte a proposito sia del fallimento della decisione del Consiglio UE

2015/1523 in data 20 luglio 2015, che aveva previsto la ricollocazione per consenso di 40.000

persone manifestamente bisognose di protezione internazionale.

Inoltre, la sentenza non offre indicazioni certe per superare la norma maggiormente controversa del

CEAS che è quella che stabilisce che lo Stato membro competente per la protezione sia quello di

primo ingresso (vedi art. 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III).

Nella sentenza si afferma che a questa regola la decisione impugnata da Slovacchia e Ungheria ‒

oltre a ribadire alcuni criteri specifici di determinazione dello Stato membro di ricollocazione,

connessi all’interesse superiore del minore e ai legami familiari (che sono d’altronde analoghi a

quelli previsti dal regolamento Dublino III) ‒ apporta una deroga in quanto il considerando 34 della

decisione impugnata elenca un insieme di elementi che sono preordinati, in particolare, a che i

richiedenti vengano ricollocati in uno Stato membro verso il quale essi intrattengono legami

familiari, culturali o sociali, di cui occorre tener conto in modo particolare al momento della

designazione dello Stato membro di ricollocazione, e ciò “allo scopo di favorire l’integrazione dei

richiedenti in seno a tale Stato”.

Però la Corte sottolinea che non si tratta di una innovazione che ricollega la scelta alle “preferenze

del richiedente” per un determinato Stato membro ospitante e che essa non mira specificamente a

garantire che sussista un legame linguistico, culturale o sociale tra tale richiedente e lo Stato

membro competente. Infatti, il sistema istituito dalla decisione impugnata è fondato, al pari del

sistema istituito dal regolamento Dublino III, su criteri oggettivi, e non sull’espressione di una

preferenza da parte del richiedente una protezione internazionale.

Anche se la Corte sottolinea che neppure lo Stato membro destinatario della ricollocazione può

subordinarne l’effettuazione all’esistenza/inesistenza di legami culturali o linguistici tra ciascun

richiedente una protezione internazionale e lo Stato stesso, perché questo renderebbe impossibile

ripartire tali richiedenti tra tutti gli Stati membri nel rispetto del principio di solidarietà imposto

dall’articolo 80 TFUE e, dunque, adottare un meccanismo di ricollocazione vincolante e comunque

eventuali considerazioni connesse all’origine etnica dei richiedenti una protezione internazionale

sarebbero, con tutta evidenza, discriminatorie e quindi contrarie al diritto dell’Unione e in

particolare all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Ebbene, sarebbe auspicabile che almeno un simile mitigamento della norma originaria fosse

contenuto nella riforma di Dublino III in itinere, in quanto pur non consentendo ai richiedenti di

scegliere lo Stato membro competente per l’esame della loro domanda, comunque introduce degli

elementi ‒ oggettivi, ma da valutare ‒ che possono favorirne l’integrazione.

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È notorio − e lo ha autorevolmente ribadito l’organizzazione dei gesuiti JRS Europa , proprio a

commento delle norme contenute in Dublino III – che “l’unico modo in cui il sistema di asilo

dell’UE può funzionare umanamente” è quello di dare la possibilità agli interessati di “influenzare

personalmente la scelta del Paese di destinazione”;

Infatti questo è l’ingrediente migliore per garantire la riuscita della integrazione delle persone che

hanno diritto al riconoscimento di uno status di protezione e tale riuscita corrisponde non soltanto

all’interesse dei migranti, ma anche ai principi del diritto internazionale e UE, oltre che agli interessi

– anche economici – degli Stati di approdo, in tutto il mondo.

Pertanto, se si modificasse la norma che obbliga il migrante a restare nello Stato di primo approdo,

a prescindere dai suoi desideri, sia pure con criteri oggettivi si potrebbe tenere conto dei legami

familiari, culturali o sociali dell’interessato.

Questo ovviamente non basta per “favorire l’integrazione” realmente – come afferma la Corte di

Giustizia ‒ perché è poi necessario seguire l’inserimento ed evitare l’isolamento dei migranti una

volta entrati in uno Stato ed anche evitare di costringerli alla nullafacenza e, se minorenni, inserirli

adeguatamente nel circuito scolastico.

Peraltro, allo stesso tempo, sarebbe bene che, anche al livello UE, si desse l’avvio a campagne di

informazione sulla reale condizione dei migranti onde evitare o mitigare atteggiamenti di xenofobia

o addirittura di razzismo.

Tutto questo andrebbe fatto specialmente nelle aree di disagio sociale, i cui problemi vanno

affrontati insieme con quelli dei migranti, che sono per definizione soggetti “vulnerabili” per la UE.

E va aggiunto che, come di recente affermato anche dall’Agenzia dell’ONU, la crisi umanitaria che

coinvolge tutti gli Stati del mondo non è solo questione di condivisione di valori e visioni, ma è

anche una questione di sicurezza su scala globale perché migrazioni e sicurezza vanno di pari passo.

Certamente questo non significa che vi sia un collegamento diretto tra migranti e terroristi

organizzati o meno, ma significa tenere presente che coloro che vengono reclutati dall’ISIS in Paesi

asiatici o africani spesso aderiscono al reclutamento perché hanno fame, tanto che in Libia, al

momento, pare non ci siano reclute perché il Governo dà un sussidio mensile anche ai bisognosi.

D’altra parte, rimandare indietro migranti c.d. economici che vengono, ad esempio, da Paesi africani

molto popolosi come la Nigeria può favorire, nel tempo, il nascere di guerre civili e quindi, a quel

punto, l’aumento del numero dei migranti forzati e mettere in pericolo la sicurezza di quello Stato.

Allora, se la recente proposta di alcuni Governi degli Stati membri di prevedere deroghe al principio

di libera circolazione del Codice Schengen è finalizzata ad un maggiore controllo dei confini

nazionali per evitare attentati terroristici come quelli verificatisi a Parigi e Bruxelles, forse seguendo

la strada tracciata dall’ONU potrebbe essere utile, allo stesso fine, ripensare al Sistema comune di

asilo ed anche dettare principi comuni per vari sistemi di integrazione nazionali, attualmente

piuttosto insoddisfacenti (tutti), perché comunque influenzati dal desiderio sempre più diffuso di

“rimandare a casa gli intrusi”.

Ebbene, anche da questo punto di vista, sarebbe bene considerare che avere al proprio interno

persone emarginate, maltrattate se non addirittura ridotte in schiavitù oltre ad essere contrario a

tutti i principi fondamentali che ci siamo dati vuol dire coltivare aree di disperazione che, al di là

delle apparenze, possono anche essere pericolose per la sicurezza.

Perché come risulta dalle statistiche più accreditate, se l’Europa fosse ‒ e apparisse ‒ più solidale

forse sarebbe anche più sicura.

Certo per mostrarsi solidale la UE dovrebbe essere realmente solidale al suo interno, specialmente

in materia di immigrazione.

Questo è il messaggio forte della sentenza in commento: speriamo che sia seguito da

comportamenti virtuosi!

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SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

A cura di Leonardo Carbone

TECNOLOGIA E DIRITTO. FONDAMENTI D’INFORMATICA PER IL GIURISTA.

Giovanni Ziccardi-Pierluigi Perri (a cura di), Giuffrè editore, 2017.

E’ una approfondita TAC sull’informatica giuridica, analizzata sotto ogni aspetto. E’ il lavoro curato

per la Giuffrè editore da Ziccardi-Perri, con la collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi

(Boccaccini, Cristiano, Pallone, Pedrazzini, Vertua, Bianchi, Sorrentino, De Maio, Agostini, Dal

Checco,Sagliocca, Farina, Ruggieri, Pacelli, Perrone, Bergonzi, Pozzato,Alagna,

Reale,Salmeri,Felcher, Gallus, Gargano, Deplano, Familiari, Massaro, Fedorova, Icardi, Micozzi,

Zanaboni, Martinelli, Salluce, Marrazza).

Il volume contiene tutto quello che c’è da sapere in tema di informatica giuridica, e, certamente

contribuirà a fare superare al giurista in genere la “diffidenza” verso l’informatica giuridica. Infatti,

non si può ignorare che gli strumenti informatici e telematici fino alla fine del secolo scorso – ma

anche nei primi anni del nuovo secolo - rappresentavano per il giurista uno strumento anzi un

oggetto volto a sostituire la macchina da scrivere o le comunicazioni mediante posta ordinaria. In

pochi anni, come si legge nella quarta di copertina, gli strumenti informatici sono diventati soggetto

della professione giuridiche ponendo sempre più interrogativi e problemi che il futuro operatore

deve conoscere e risolvere. Il volume recensito, tiene conto di queste due differenti anime delle

abilità informatiche: quella più documentale e di supporto nell’attività quotidiana, ma anche quella

più strettamente giuridica con i temi ed i problemi oggi in discussione nelle corti di giustizia

nazionali ed internazionali.

Certamente, per gli autori del volume, considerata la velocità con la quale muta il panorama

tecnologico,vi è il rischio che le nozioni illustrate diventino obsolete subito dopo la pubblicazione

del volume. Ma il compito dell’informatica giuridica è sempre stato quello di garantire, accanto a

sofisticate elaborazioni teoriche, un approccio pratico che consenta al giurista di trarre un’utilità

immediata dall’impiego dei nuovi strumenti tecnologici.

L’analfabetismo digitale è ancora molto diffuso, nonostante nelle varie facoltà di giurisprudenza (e

non solo) sono ormai “fisse” le cattedre di informatica giuridica; per il consolidamento di una

cultura informatica/giuridica è però, sempre più necessario spiegare, ribadire, schematizzare e

sintetizzare i numerosi benefici che la tecnologia porta all’uso personale e professionale quotidiano,

tenendo, però, presente che nozioni troppo dettagliate, o strettamente legate “al presente”, si

rivelino rapidamente inattuali.

Il lavoro che gli autori (e sono tanti e tutti “esperti” della materia) del volume recensito hanno

cercato di fare, come si legge nella prefazione del volume, è duplice:

da un lato di creare dei fondamenti solidi, per il giurista che non conosce la tecnologia, o che crede

di conoscerla ma, in realtà, non la domina. Dall’altro, il disegnare, tra le righe, dei percorsi di

approfondimento che permettano al lettore interessato di aumentare le sue competenze seguendo i

suggerimenti bibliografici e i numerosi spunti di ricerca.

Gli argomenti trattati nel volume sono tutti prettamente “informatici”, ma gli autori si sono spinti

anche ai diritti dell’informatica, individuando le basi di alcuni fenomeni e istituti che iniziano a

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essere molto comuni nella vita professionale. Sono stati infatti trattati i temi della sicurezza

personale e professionale – visti i numerosi incidenti informatici che hanno coinvolto tanti studi

legali - e delle deontologia ed il comportamento responsabile da tenere in rete.

Ogni argomento trattato è accompagnato da una bibliografia essenziale.

E’ un volume che tutti gli operatori del diritto – avvocati, magistrati, operatori della giustizia in

generale, studenti e cultori della materia – non possono ignorare.

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CASI E QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE.

Roberto Cosio - Piero Martello (a cura di), editore Guerini Next, 2017

Il volume recensito, con la prefazione di Francesco Paolo Luiso, contiene le relazioni del corso “Il

processo del lavoro, tra stabilità e flessibilità” svoltosi a Catania e coordinato da Roberto Cosio e

Piero Martello.

Il libro è “scomponibile” in quattro parti.

Nella prima parte, curata da Guido Vidiri, è affrontata la questione della indispensabilità delle prove

nel rito del lavoro, ed in particolare dei “nuovi mezzi di prova” e produzione di “nuovi documenti”

in sede di gravame, dopo il revirement della giurisprudenza di legittimità. Attenzione particolare è

dedicata alla difficile individuazione del significato di “indispensabilità” dei nova in appello e del

potere del giudice nell’ammissione in appello del prove “indispensabili”.

Sempre nella prima parte del volume, ed a cura di Francesco Paolo Luiso, sono state affrontati gli

argomenti concernenti la “de-giurisdizionalizzazione” e la moltiplicazione dei riti. Quanto alla “de-

giurisdizionalizzazione”, per l’autore non costituisce una diminutio di quanto prevede l’art.24 Cost.,

ma solo l’esatto inquadramento di ciò che è giurisdizionale per necessità oppure per opportunità.

Quanto alla moltiplicazione dei riti, per l’autore la diversità del rito può trovare la sua giustificazione

in una diversità del diritto sostanziale oppure costituisce un dannoso ed inutile tentativo di porre

rimedio all’inefficienza della struttura giurisdizionale.

La parte seconda è “occupata” dal procedimento di primo grado secondo il rito del lavoro (curata

da Paolo Sordi) e dalle controversie in materia di lavoro e previdenziali (a cura di Carla Musella).

Sulla prima tematica l’autore esamina la problematica del trasferimento alla sede arbitrale di

procedimenti pendenti dinanzi l’autorità giudiziaria, della negoziazione assistita, della nuova

disciplina della compensazione delle spese processuali e degli interessi legali successivi alla

proposizione della domanda. Sulla seconda tematica l’autore affronta le controversie previdenziali

con la novità costituita dall’accertamento tecnico preventivo.

La parte terza “contiene” tematiche di attualità: il filtro nell’appello del lavoro (a cura di Giovanni

Raiti), il divieto di discriminazione e tutele giudiziali (a cura di Elisabetta Tarquini), il ricorso per

cassazione dopo la riforma del 2016 (a cura di Pietro Curzio).

Quanto al filtro nell’appello viene esaminata in particolare l’impugnabilità dell’ordinanza-filtro e gli

interventi della cassazione. In ordine al tema del procedimento discriminatorio si evidenzia come sia

uno strumento che è poco utilizzato, e la prova è costituita dalla pochissima giurisprudenza

esistente. In ordine al ricorso per cassazione l’autore fa un “viaggio” all’interno della Cassazione,

passando dal filtro della sesta sezione, alla scelta fra trattazione in sesta o dinanzi alle sezioni

semplici ordinarie, alla procedura camerale….alla udienza pubblica, senza dimenticare i riti camerali

speciali.

Nella parte quarta del libro vengono affrontati il tema dell’autosufficienza del ricorso per

cassazione,curato da Fabrizio Amendola (in particolare l’autore tratta della portata dell’art.366,

comma 1, cpc, delle applicazioni del principio di autosufficienza e del protocolla del 17.12.2015), e

della rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (a cura di Roberto Cosio), che rappresenta uno

strumento di straordinario dialogo tra le Corti nazionali e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea,

tant’è che nella prefazione F.P.Luiso, afferma che “L’importanza del diritto sovranazionale è

sempre maggiore, e chiudersi nei confini dello Stato è miope e perdente”.

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Quando cervelli pensanti ed intelligenti fanno lega, è inevitabile che il prodotto sia di qualità, virtù

che non difetta nel volume recensito. E’ un volume che tutti gli operatori del diritto – avvocati,

magistrati, operatori della giustizia in generale, studenti e cultori della materia – non possono

ignorare: costituisce uno strumento importante per gli operatori del diritto che affrontano le

tematiche del mondo del lavoro, in quanto gli argomenti trattati riguardano alcune delle questioni

più attuali e dibattute in materia di processo civile in genere e di processo del lavoro in particolare.

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INTERPRETAZIONE CONFORME, BILANCIAMENTO DEI DIRITTI E

CLAUSOLE GENERALI.

Giuseppe Bronzini-Roberto Cosio (a cura di), Giuffrè editore, 2017

Il libro recensito – a più ed autorevoli voci - è testualmente dedicato all’ordinamento complesso ed

ad alcune delle ragioni che alimentano tale complessità, ed in memoria di Fabrizio Miani Canevari,

che purtroppo ci ha lasciati prima di vedere stampato il volume ed il suo pregevole contributo.

Tutti i contributi, nessuno escluso, vanno segnalati per la limpidezza di argomentazione, nonché per

la scelta sapiente dei vari aspetti di complessità dell’intero sistema, di norme interne ed esterne

coordinate fino ai limiti dell’integrazione.

Come si legge nella prefazione, curata da Giuseppe Tesauro, “l’interpretazione conforme, il

bilanciamento e le clausole generali, è di indubbio stimolo, quale ne fosse l’intenzione, ad una

riflessione sul metodo e le implicazioni del ruolo della giurisprudenza o piuttosto del modo di

essere e di giudicare del giudice”. E gli argomenti trattati danno conto di quanto appena detto.

Le tematiche affrontate nel volume sono suddivise in quattro parti:

- nella prima e seconda parte le problematiche della certezza del diritto e dell’interpretazione

conforme;

- nella terza parte la tematica del bilanciamento dei diritti.

- nella parte quarta le clausole generali.

Infatti, nella prima e seconda parte, si “discute delle problematiche della certezza del diritto e

dell’interpretazione conforme. Il contributo di Guido Vidiri affronta la problematica della certezza

del diritto tra “positivismo giuridico” e “giusnaturalismo”, della crisi del processo e “terzietà” ed

“imparzialità” del giudice. Roberto Cosio tratta le tematiche dell’interpretazione conforme al diritto

dell’Unione Europea, in particolare del vincolo del precedente nell’ordinamento nazionale e con

riferimento alla CEDU, e nell’ordinamento dell’Unione Europea, e, per finire, alla creatività della

giurisprudenza della Corte di Giustizia. Viene affrontato (Piccone) la tematica della parità di

trattamento e principio di non discriminazione, e soprattutto del ruolo dell’interpretazione

conforme, esaminando anche fattispecie attuali, quale il tema del lavoro intermittente e a contratto

di lavoro a tutele crescenti secondo il jobs act e la “compatibilità europea”. Il successivo contributo

di Ruggeri illustra dettagliatamente la tematica dell’interpretazione conforme a CEDU, i lineamenti

del modello costituzionale, i suoi più rilevanti scostamenti registratisi nell’esperienza, gli auspicabili

rimedi.

Nella parte terza si affronta la tematica del bilanciamento dei diritti. Si “parte” (Bronzini) dai dubbi

su come bilanciare la sovranità popolare, delle radici dell’espansione del potere dei giudici ed i

giudizi di ponderazione e dei rischi di un bilanciamento “sbilanciato”. Si prosegue (Ferrajoli) con

l’argomentazione interpretativa e argomentazione equitativa contro il creazionismo

giurisprudenziale,con la crisi della legalità e l’espansione odierna degli spazi di discrezionalità, di

argomentazione e di potere della giurisdizione; in particolare l’autore evidenzia la distinzione tra

argomentazione in senso proprio e creazione del diritto. E come si legge nella prefazione “il vero

tema centrale della ricerca complessiva che è alla base ed a fondamento dell’intero volume, quasi a

far emergere ciò che spesso anche il cittadino comune riesce ad individuare nell’attuale contingenza

del sistema giustizia come variabile danno, fuorviante ed in parte, ma solo in parte, anche ingiusta”.

Prosegue la parte terza con Lucia Tria, che affronta il bilanciamento nella giurisprudenza della Corte

costituzionale,evidenziando il ruolo “pervasivo” del criterio della ragionevolezza/proporzionalità

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nel giudizio di costituzionalità delle leggi della nostra Corte costituzionale e delle differenze rispetto

alle Corti europee centrali. Si sofferma anche sullo stretto collegamento tra tecnica argomentativa

del bilanciamento e motivazione della decisione, evidenziando la differenza fra la motivazione

sintetica e la motivazione breve. Il contributo di Roberto Conti, invece, tratta del bilanciamento

come nuova frontiera dell’attività giudiziaria: bilanciamento spetta al giudice comune?

Bilanciamento e margine nazionale di apprezzamento. Il margine di apprezzamento degli Stati

aderenti alla CEDU è curata da Francesco Buffa, mentre il margine di apprezzamento nella CEDU

(inquadramento ed analisi comparativa) è curata da Pierpaolo Gori, che tratta in particolare il nesso

tra margine di apprezzamento e diritto comparato nella dottrina del “margine di apprezzamento”.

Chiude la parte terza il contributo di Giuseppe Allegri, concernente il bilanciamento tra autonomia

e solidarietà per un nuovo modello socie europeo.

La parte quarta tratta delle clausole generali. Inizia la trattazione il contributo di Fabrizio Miani

Canevari sulla interpretazione delle clausole generali. Come si legge nella prefazione “E’ una ricerca

puntigliosa e rigorosa per trovare una sistemazione alle clausole generali o alle norme vaghe

comunque denominate. Sono ora norme di chiusura dell’ordinamento, ora norme semplicemente

costruite da dottrina e/o giurisprudenza per rimediare a qualche vera o presunta lacuna o

semplicemente per estendere o comunque condizionare l’interpretazione. Prosegue sull’argomento

Giovanni Mammone con le tematiche delle clausole generali e il controllo giudiziale dei poteri

datoriali, evidenziando i limiti al controllo giudiziale sui poteri datoriali. Chiude la parte quarta il

contributo di Filippo Curcuruto sulla tematica delle clausole generali davanti al giudice di legittimità.

Nonostante la complessità della materia trattata ed i numerosi contributi, coordinati dal duo

Bronzini-Cosio, nel complesso il libro recensito, che è un “bel volume”, si lascia leggere

agevolmente e provoca senz’altro stimoli intellettuali di sicuro interesse per “chi ama osservare il

modo di essere e di produrre giustizia dell’attuale sistema”.