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Anno 03 - Numero 08 (Giugno 2010) Musical Indice Presentazione a cura di Giada Da Ros Tutti Pazzi per Amore come Tv di qualità: Intervista a Ivan Cotroneo a cura di Giada Da Ros Once More With Feeling: il musical televisivo secondo Joss Whedon di Barbara Maio Fuori sincrono e fuori dal tempo: la musica anacronistica di The Singing Detective di Dennis Potter di Stan Beeler La frenesia de L’Opera da Tre Soldi: Esplorazione dei concetti dietro alla popolarità di un’operetta sovversiva di Markee Rambo-Hood Mamma Mia! e la ricerca dell’identità di Laëtitia Baltz L’emergenza creativa di Nine: Canta che ti passa di Elisa Rampone “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”. La Commedia in palcoscenico: Un adattamento per il pubblico del XXI secolo di Carmelo A.Galati A Kind of Magic: Alterazioni musicali della coscienza nei musical latino-americani della Disney di Marco Cipolloni Scrubs: il musical sotto i ferri di Anna Viola Sborgi

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Anno 03 - Numero 08 (Giugno 2010)

Musical Indice

Presentazione a cura di Giada Da Ros

Tutti Pazzi per Amore come Tv di qualità: Intervista a Ivan Cotroneo a cura di Giada

Da Ros

Once More With Feeling: il musical televisivo secondo Joss Whedon di Barbara Maio

Fuori sincrono e fuori dal tempo: la musica anacronistica di The Singing Detective di Dennis Potter di Stan Beeler

La frenesia de L’Opera da Tre Soldi: Esplorazione dei concetti dietro alla popolarità di un’operetta sovversiva di Markee Rambo-Hood

Mamma Mia! e la ricerca dell’identità di Laëtitia Baltz L’emergenza creativa di Nine: Canta che ti passa di Elisa Rampone

“Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”. La Commedia in palcoscenico: Un adattamento per il pubblico del XXI secolo di Carmelo A.Galati

A Kind of Magic: Alterazioni musicali della coscienza nei musical latino-americani della Disney di Marco Cipolloni

Scrubs: il musical sotto i ferri di Anna Viola Sborgi

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Presentazione a cura di Giada Da Ros

Il Musical è morto?... Assolutamente no! Sta cambiando? Sempre! Il musical ha

cominciato a cambiare da quando Offenbach ha fatto la sua prima riscrittura negli anni 50

dell'Ottocento. E il cambiamento è il segno più chiaro che il musical è ancora un genere

vivente, in crescita. (John Kenrick)

Il musical, quella forma di rappresentazione che unisce musica, canzoni, dialogo parlato,

danza e talvolta anche acrobazie simil-circensi, ha una lunga e gloriosa tradizione. Anche

senza andare a ripescare nel teatro degli antichi greci e romani (Eschilo, Sofocle, Plauto),

nelle performance spesso itineranti del Medio Evo (spettacoli comici e dramma religiosi), o

negli spettacoli dell’Europa dal Rinascimento all’Illuminismo, che avevano anche

caratteristiche diverse, la data di nascita del genere così come lo intendiamo in epoca

moderna è consuetudine collocarla il 12 settembre del 1866, data in cui è andato in scena

per la prima volta lo spettacolo The Black Crook, 5 ore e mezza di messa in scena (e 474

esibizioni) da parte di una compagnia di prosa e una di ballo e canto che si unirono per far

fronte alle ristrettezze economiche del tempo. Da allora le fortune del genere, prima a

teatro, e ora al cinema, in TV e più di recente sul web, sono state alterne, ma in questo

momento, nuovamente, magari complice di nuovo una crisi economica che vuole farci

rompere gli schemi e sognare qualcosa di più esuberante della realtà, più apparentemente

lieve e allo stesso tempo in qualche modo più profondo della realtà, il musical sembra

vivere una seconda giovinezza, una vitalità e un successo insperati, sorprendentemente

inattesi, tanto che possiamo parlare di un vero e proprio rinascimento. E la cross-

medianità è fortissima, con riadattamenti costanti fra un media e l’altro (specie fra teatro e

cinema e viceversa).

Il principio di fondo rimane lo stesso, ovvero l’idea che i personaggi di una storia quando

l’emozione diventa troppo intensa per il parlato comune (o per il recitativo) si esprimono

cantando, e quando nemmeno la canzone basta più si liberano attraverso la danza. Una

catarsi di sentimenti troppo forti da contenere, perciò, e allo stesso tempo un disvelamento

dell’intimo. È quello del teatro naturalmente il primo palcoscenico, con molte varianti fra cui

spesso è difficile distinguere, dal teatro musicale alla commedia musicale, all’”opera

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leggera”, all’operetta... il genere cambia nel tempo. L’età dell’oro per la cultura occidentale

(e specificatamente americana) è quella fra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta con i

grandi nomi come Cole Porter, Irving Berlin, Rodgers e Hart, Weill, Gershwin, Rodgers e

Hammerstein e gli ormai leggendari musical come Oklahoma! (1943), Carousel (1945),

South Pacific (1949), The King and I (1951), The Sound of Music - Tutti insieme appassionatamente (1959), Annie Get You Gun (1946), Kiss Me, Kate (1948), Bulli e

Pupe (1950), My Fair Lady (1956), West Side Story (1957), Hello, Dolly (1964), Il violinista sul tetto (1964) e molti, molti altri. Degli anni Settanta si ricordano classici come

Jesus Christ Superstar, The Rocky Horror Picture Show, A Chorus Line, mentre negli

anni Ottanta e Novanta si è fatto sentire l’influsso dei mega-musical europei e delle pop-

operas. (Les Misérables, Cats, Il fantasma dell’Opera…). Oggi come allora sono

l’occasione per trattare temi sociali (condizioni delle minoranze, tolleranza razziale,

religiosa, sessuale, culturale), ma se si guarda ai trend attuali, specie per le grandi

produzioni di Broadway e dei grandi teatri si è notata la tendenza al revival, alla ripresa di

opere con cui c’è familiarità, con pochi rischi economici per chi deve investirvi milioni di

dollari (una per tutti la produzione teatrale della Disney, che riprende le storie dei film). Si

tengono i vecchi titoli a prova di fallimento, si fanno adattamenti dal cinema e dalla

letteratura. Ed emergono i Jukebox musical (una trama minimale a fare da filo rosso a

canzoni ben note che già sono state successi) e le piccole produzioni locali. Al cinema

dopo un periodo di semi-silenzio o al massimo di tentativi di portare su pellicola titoli già

famosi a teatri, dagli anni Novanta c’è una nuova ondata di film di successo (Evita, Mamma mia!, Chicago, Nine, Moulin Rouge!, Fame, Il Grinch, South Park: Bigger,

Longer and Uncut, Dreamgirls, Sweeney Todd) accanto a una sempre fiorente

produzione Disney (La Sirenetta, Il Re Leone). E l’entusiasmo coinvolge non solo

l’Occidente ma il Giappone (che ripropone manga e anime in veste di musical), l’India (con

i megaprogetti di Bollywood), il Sud Africa, l’Australia…

Quasi esclusivamente originali i musical in TV, dove il film-per-la-TV High School Musical sembra aver dato una scossa al genere con una attenzione particolare ai ragazzi. Telefilm

“dedicati” non ce ne sono stati molti dopo Saranno Famosi, che ne incorporava elementi,

ma se ne staccava anche. Negli anni Novanta il tentativo di Steven Bochco di unire il

teatro musicale al poliziesco in Cop Rock (ispirandosi all’inglese The Singing Detective)

è stata un fallimento, così come, giudicato atroce (il peggior show nella storia della

televisione secondo il New York Times), non è arrivato al di là del secondo episodio Viva

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Laughlin, rifacimento del britannico Blackpool su un uomo d’affari che aspira ad avere un

casinò. Notabili incursioni nel musical sono però riuscite all’avvocatessa Ally McBeal di

David E. Kelly; e l’apprezzatissima “Once more, with feeling” (“Ancora una volta, con

sentimento”, 6.07), la puntata di Buffy scritta da Joss Whedon in cui i protagonisti

vengono forzati da un demone a esprimersi cantando e a confessare così ciò che

avrebbero voluto tenere per sé, è l’epitome della “puntata dedicata” all’interno di una serie

che non fa di questo genere la sua vocazione. Inaspettate puntate musical si sono avute

perfino in Xena (3.12; 5.10), il telefilm sulla principessa guerriera interpretata da Lucy

Lawless, e in Oz (5.06), fiction di ambientazione carceraria, oltre diventare strumento di

comicità in programmi come Scrubs, 30 Rock, I Griffin o, in Italia, Tutti Pazzi per

Amore. Ancora una volta però è l’ambiente scolastico a mostrarsi il terreno più fertile: lo

spagnolo Paso Adelante sembra quasi una versione ispanica moderna dello storico

Saranno Famosi; Patito Feo - Il mondo di Patty, la telenovela argentina con venature

comiche pensata per i giovani che ha fatto impazzire mezzo mondo, mette in scena

scontri di musical in una scuola che vede rivali “Las Populares” e “Las Divinas”; Glee, uno

dei più recenti travolgenti successi made in USA, si concentra sulle attività vocal-

agonistiche di un coro di una high-school; perfino le soap-operas, tradizionalmente più

schive in proposito, hanno visto liceali lanciarsi in One Life to Live – Prom Night: The

Musical (venerdì, 15 giugno, 2007). E un musical è anche uno dei maggiori successi di

fiction sul web, Dr. Horrible’s Sing-Along Blog realizzato da quello stesso Joss Whedon

che ha scritto Buffy ed è recentemente stato coinvolto in Glee. E un progetto come Prop 8: The Musical, vincitore nel 2009 di un Webby per Best Comedy: Short or Individual

Episode, sulla Proposition 8, il referendum tenutosi in California nel 2008 inteso ad

abolire il diritto al matrimonio per le coppie omosessuali, mostra la forza del genere di

essere rilevante nei dibattiti di attualità. Il musical si contamina (come non mai oggi anche

con i talent show), si ridefinisce, si trasforma, ma il suo impatto è oggi trasversale, cross-

mediale, culturalmente ubiquitario e più energico che mai.

Bios

Giada Da Ros è laureata in giurisprudenza con una tesi in diritto Anglo-Americano sulle

decisioni della Corte Suprema Americana in materia di suicidio assistito dal medico. È

giornalista pubblicista e collabora da oltre 18 anni con “Il Popolo”, settimanale della

Diocesi Concordia-Pordenone, dove ha una rubrica fissa di presentazione-commento-

critica di programmi TV. Ha scritto su Buffy in Slayage (Issue 13-14), su Una mamma per

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amica in Screwball Television: Critical Perspectives on Gilmore Girls (Syracuse University

Press, 2010), su Queer As Folk, Lost, The L Word, The Vampire Diaries. Ha anche

contribuito a The Survival of the Soap Opera: Strategies for a New Media Era (University

Press of Mississippi), di prossima pubblicazione. Nel 1996/97 ha partecipato a

“Laboratorio”, lo stage per autori televisivi organizzato da Antennacinema in

collaborazione con Canale5. É Presidente della “CFS-Associazione Italiana”, la prima

associazione nazionale sulla sindrome da fatica cronica.

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Tutti Pazzi per Amore come Tv di qualità: Intervista a Ivan Cotroneo a cura di Giada

Da Ros

Nel dicembre 2008 su Rai1 ha esordito Tutti pazzi per amore ora alla sua seconda stagione, una commedia scoppiettante, vivace, allegra, romantica, coinvolgente,

commovente. È stato subito un successo di critica e di pubblico. La serie ha il gusto delle

vecchie commedie di Hollywood, con grandi amori, equivoci, malintesi e piccole

schermaglie, ma una scrittura, verbale e visiva, che raccoglie l’eredità classica

conciliandola con modalità espressive attuali, ed è radicata in casa nostra, con Roma che

rappresenta ogni grande città. La colonna sonora riprende note canzoni italiane, e in

misura minore anche straniere, che i protagonisti, con effetti diversi, cantano (di solito in

playback sulla canzone originale) e ballano loro stessi in momenti musical che diventano

un commento di quello che stanno vivendo, di quello che provano, di quello che sognano.

Si tratta di un programma che valorizza la contaminazione, con i momenti musicali che

riprendono brani di Gianna Nannini, Umberto Tozzi, Jovanotti, Ornella Vanoni, Eros

Ramazzotti, Matia Bazar, Tiziano Ferro, Domenico Modugno , Mina, Claudio Baglioni,

Fausto Leali, Raffaella Carrà, Fred Astaire, Maylin Monroe, Giuseppe Verdi e diversi altri.

A momenti la trama è favolistica, con qualche filo d’ordito anche volutamente caricaturale,

ma l’effetto è chiaramente ricercato: alla base c’è una solida scrittura, coinvolgente e

divertente.

Tutto ha inizio quando Paolo (Emilio Solfrizzi) e Laura (Stefania Rocca nella prima

stagione, Antonia Liskova nella seconda) si incontrano fortuitamente e si innamorano;

non sanno però, da principio, che sono vicini di casa – e in quella veste si detestano.

Piccoli, insignificanti incidenti della vita quotidiana (con l’ascensore, con le immondizie,

con la parabola del satellite) innescano una focosa ostilità. Poi l’amore ha il sopravvento.

E ci sono i figli: la sedicenne Cristina (Nicole Murgia), per lui padre vedovo; Nina (Laura Calgani) di 7 anni, ed Emanuele (Brenno Placido), pure di 16, compagno di classe

proprio di Cristina, per lei che è stata lasciata dal marito gay per un altro uomo. E c’è la

famiglia: per lei la sorella Stefania (Marina Rocco) e il suo fidanzato Giulio (Luca Angeletti) e i genitori Clelia (Piera Degli Esposti) e Mario (Luigi Diberti), per lui le

anziane zie, Sofia (Ariella Reggio) e Filomena (Pia Velsi). E ci sono gli amici: le colleghe

della rivista “Tu Donna”, dove lavora lei, Rosa (Irene Ferri), Maya (Francesca Inaudi), Lea (Sonia Bergamasco, miglior attrice non protagonista al Roma Fiction Fest 2009) e in

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particolare Monica (Carlotta Natoli); i ragazzi a cui lui fa da allenatore di pallanuoto e

l’agronomo divenuto ristoratore Michele (Neri Marcorè), suo migliore amico. Monica e

Michele in particolare diventano nel corso della storia la seconda colonna portante delle

vicende.

Nella seconda stagione, in seguito alla scomparsa di Michele, morto proprio sull’altare

prima delle nozze, la posizione narrativa di questi viene assunta dal fratello di lui Adriano

(Alessio Boni), un ornitologo più a suo agio nell’osservare la nidificazione delle

cinciallegre che in mezzo alla gente. E sono “Tutti pazzi per amore”.

La serie, che ha vinto il Premio Regia Televisiva come miglior fiction nel 2009 e il cui

format ha ricevuto la menzione speciale alla XXXIV edizione del premio Golden Chest,

mostra diversi “attributi” della così detta TV di qualità, così come enucleati da Robert J. Thompson.

Ha un ampio cast che lavora in ensemble. Narrativamente la costruzione è impeccabile,

con un’azione sinergica che collega in modo forte tutti i personaggi fra loro. È una TV

“letteraria”, ricca di citazioni, fatte con disinvoltura e divertimento, e in questo conta

sull’intelligenza e anche sulla preparazione culturale dei propri spettatori.

Attraverso il personaggio di Emanuele in particolare, ma non solo, mostra un palato

attento a grammatica, sintassi e gusto letterario, tutti elementi a cui dà valore in vari modi.

Perfino Leopardi fa una comparsa come fosse un vero personaggio, grazie alla feconda

immaginazione del suddetto Emanuele (seconda stagione). Nella passione linguistica, e

nella trascinante giustapposizione di riferimenti “alti” e pop, la si può forse accostare a

Gilmore Girls Una mamma per amica di Amy Sherman-Palladino, di cui in certi aspetti

condivide anche l’uso umoristico della liturgia. È una TV autoconsapevole, con un apice

nella figura del dottor Freiss – anche solo nella prima puntata della seconda stagione

(“Domani è un altro giorno”) è esperto di "seconde serie televisive in cui compare la parola

'amore'”, "cialtroneria esoterica e lieto fine", "piani del racconto", "scomparse improvvise di

un personaggio da una serie televisiva” – e della signorina Carla. Questi personaggi sono

stati usati per spiegare il “recasting” dell’attrice protagonista agli inizi della seconda

stagione, ad esempio, incorporando spoiler extratestuali nel tessuto diegetico:

autoconsapevolezza narrativa all’ennesima potenza. È una TV che ha memoria degli

eventi passati, con il DNA di un programma destinato a venire ricordato nel tempo, come

eredità culturale del piccolo schermo. È una TV che mira al realismo emozionale, anche lì

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dove non usa il registro del realismo. È una TV che mescola i generi diventando qualcosa

di unico, non paragonabile a nulla d’altro sui palinsesti italiani. I valori estetici tengono, con

costanza e senza cadute di stile. Perfino da un punto di vista di marketing, si è rivelata

innovativa, come mostra l’iniziativa di flash mob in un centro commerciale di Roma. È

infine una TV con un pedigree di qualità, nel cast artistico di levatura, nonché nel suo

cast tecnico: ha la regia di Riccardo Milani; il soggetto della serie e delle puntate è di

Ivan Cotroneo, anche co-sceneggiatore insieme a Monica Rametta e Stefano Bises, già

autore presente in libreria con Il piccolo libro della rabbia, Cronaca di un disamore, Il re del

mondo, La Kryptonite nella borsa, e traduttore ufficiale per l’Italia di Michael Cunningham, così come di Hanif Kureishi. Di seguito lo intervistiamo.

“Tutti Pazzi per amore”, sin dal suo incipit, ha un’identità eclettica, fatta di momenti di

commedia e dramma, follia e gusto letterario. Una componente significativa è quella del

“musical” e più specificatamente quello che viene chiamato “jukebox musical”. Che cosa

l’ha spinta a esprimersi attraverso questo genere? Che cosa consente questa scelta che

altre modalità espressive non consentirebbero?

Dunque, direi che diversi elementi sono entrati in questa scelta: la mia passione per la

musica, il fatto che questa scelta fosse in linea con il tono e le altre scelte narrative della

serie, e il fatto che io e Monica Rametta siamo stati appoggiati dalla Publispei e Rai fiction

ad andare in una direzione nuova per il prime time di Raiuno. Mi sembra che questa scelta

ci abbia consentito di essere ironici, divertenti e soprattutto diretti e immediati

nell’esprimere lo stato d’animo dei personaggi (stupore, innamoramento, disperazione,

abbandono, eccetera).

I titoli degli episodi, anche, sono titoli di canzoni: da che cosa parte nello sceglierle? Si fa

ispirare dalle canzoni per scrivere la storia o prima scrive la storia e sceglie in seguito le

canzoni?

Le storie vengono sempre prima: poi ci divertiamo a trovare una canzone che racconti lo

stesso sentimento dell’episodio in questione e lo scegliamo come titolo. Preferibilmente,

una canzone che ci piaccia.

Sulla carta tutto è possibile, ma sullo schermo realizzare le coreografie dei brani può

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essere impegnativo. Quanto siete dettagliati nella scrittura in questo caso? E quali sono le

difficoltà logistiche che incontrate nel mettere in scena i pezzi musical per la serie?

Ovviamente quando scriviamo stiamo attenti alle difficoltà produttive: non ci sogneremmo

di pensare a un musical hollywoodiano alla Esther Williams (tanto per fare un esempio),

anche perché crediamo che la forza di questi numeri stia nella loro spontaneità e

semplicità. Tuttavia cerchiamo di esprimerci al massimo, di avere sempre qualche trovata,

e un grande aiuto ce lo dà il nostro insostituibile regista, Riccardo Milani, che cura insieme

al coreografo i numeri di canto e ballo, e spesso ha delle trovate bellissime sulla

messinscena del numero musicale.

“Tutti pazzi per amore” diverrà mai un musical rappresentato a teatro?

L’idea c’è, ed è già in fase di sviluppo. Io e Monica Rametta ne abbiamo parlato con la

Publispei e stiamo lavorando in questo senso, per portare TPPA a teatro, con balconcini

confinanti, musica e tutto.

La serie è stata davvero brillante nell’impiego dei personaggi del dottor Freiss (Giuseppe

Battiston) e di Carla (Carla Signoris), la conduttrice televisiva che lo intervista, su più livelli:

come storia in sé, come parodia di altre forme di televisione, come commento

metatestuale inserito all’interno del tessuto diegetico, come momento di ironica

autoconsapevolezza. Come è nata quest’idea veramente geniale?

Come nascono le idee? Non lo so. A un certo punto io e Monica stavamo chiacchierando

sulla serie, ed è nato il dr Freiss (nella mia testa il suo nome doveva richiamare quello del

mitico dr Seuss, ma non se n’è accorto nessuno). E’ nato forse dalla voglia di divertirsi, e

di sbeffeggiare un po’ gli esperti televisivi in pullover di cachemire. Poi avere due grandi

attori come Battiston e la Signoris ci ha stimolato tantissimo… ormai il dottore e la

signorina sono senza freni…

Lei è un autore che ha esperienza in medium diversi. Quale ritiene siano le peculiarità

della scrittura televisiva?

Sono tante, le peculiarità della scrittura televisiva. Per restare alle più evidenti, scrivere

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sceneggiature per un seriale significa impegnarsi in una narrazione lunga, suscettibile di

cambiamenti di percorso; significa lavorare in un contenitore che ti permette di esprimerti

in tanti modi differenti. E infine, cosa più esaltante, ti permette di dialogare con tante

persone contemporaneamente. Il pensiero che una battuta di TPPA faccia ridere in

contemporanea davanti alla tv così tante persone mi diverte moltissimo.

Pensa che essere anche traduttore le dia una prospettiva particolare?

Sì, ma credo che le influenze del mio lavoro di traduttore si vedano soprattutto nel mio

lavoro di narratore e autore di romanzi. Tradurre mi ha insegnato a essere paziente, a

lavorare con meno superficialità, a cancellare e riscrivere tantissimo.

Le citazioni letterarie e culturali in genere in “Tutti pazzi per amore” abbondano ed è una

serie felicemente testualmente promiscua. Robert Stam notava che “ogni testo che è

andato a letto con un altro testo è necessariamente andato a letto con tutti i testi con cui

l’altro testo è andato a letto”. Concorda? Come decide con chi va a letto “Tutti pazzi per

amore”?

E’ un’immagine che mi fa sorridere e che mi piace. TPPA è andato a letto con molti testi

che piacciono a me e agli altri autori: con la commedia sofisticata degli anni ’40 e ‘50, con

Katherine Hepburn e Spencer Tracy, con Noel Coward, con quello che ci piace di più

della produzione televisiva straniera, con tutto il cast di Friends, con diversi film

francesi….

E’ un copione promiscuo e divertito… non decidiamo tanto con chi debba andare a letto,

ma teniamo aperta la porta della stanza e le lenzuola pronte per chi vuole entrare…

Ha modelli a cui si ispira? Chi sono i suoi punti di riferimento? Quale definirebbe la sua

poetica?

Il pensiero di avere una poetica mi imbarazza, non credo di avercela, francamente. Anche

adesso, la sto cercando…. Niente, non la trovo. Modelli e punti di riferimento ne ho invece

tanti, ma anche qui sono imbarazzato… Diciamo che c’è un tipo di scrittura comica, anzi

ironica che mi piace moltissimo, e che per avere un millesimo del talento dei miei modelli

mi taglierei un dito in pubblico, come Maurizio Arcieri dei Krisma: Billy Wilder, Woody

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Allen, Jerome Kaplan, Nora Ephron, Nancy Myers, Lubitsch… Modelli inarrivabili,

appunto.

Se “Tutti pazzi per amore” venisse ricordata per una sola cosa, quale vorrebbe che fosse?

Vorrei che fosse ricordata per il coraggio e l’allegria. Ma questa cosa di essere ricordati mi

sa un po’ di lutto… Diciamo che preferirei che non venisse ricordata, ma vista ogni

domenica sera.

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Once More With Feeling: il musical televisivo secondo Joss Whedon di Barbara Maio

Il musical è praticamente l’unico genere assente in televisione nella sua forma “pura”. La

difficoltà di accompagnare una narrazione lineare e seriale con la musica e il necessario

talento richiesto al cast hanno scoraggiato qualsiasi esperimento durevole in questo

senso. Non esiste, infatti, neanche la categoria “musical” come premio ai Golden Globe

(gli Oscar televisivi), dove la categoria è un generico ‘musical/comedy award’.

La serie Fame – Saranno Famosi (1982) che nasce dall’omonimo musical di Broadway è

probabilmente il prodotto che più si avvicina al genere musical ma sarebbe più corretto

definirla una “serie musicale” poiché mancano i presupposti del musical dove i protagonisti

scambiano informazioni attraverso le parti musicali, i dialoghi vengono sostituiti dalle

canzoni, c’è una sospensione della realtà al momento dell’apparizione della musica; in

questa serie le parti musicali si pongono come performance degli attori che sono al

contempo veri artisti (ballerini, musicisti o cantanti) ma dal punto di vista diegetico la

musica è totalmente integrata alla realtà poiché ci troviamo in una scuola d’arte.

Più legato al genere è The Singing Detective, produzione BBC del 1986 per la regia di Jon

Amiel, regista sia televisivo che cinematografico, e scritto da Dennis Potter, autore tra i

più apprezzati della tv. La serie ibrida il musical con la detective story e l’hospital drama.

La mini serie è considerata uno dei capolavori della tv ed influisce sugli altri pochi esempi

del musical in tv come Cop Rock, serie del 1990 creata da Steve Bocho e Hull High,

sempre del 1990, creata da Gil Grant. La differenza maggiore tra The Singing Detective e

Cop Rock è nella scelta delle canzoni: nel primo si utilizzano canzoni famose degli anni

Trenta e Quaranta mentre Randy Newman compone canzoni originali per il secondo

show. Questo è uno dei fattori che decretano il successo del primo show ed il fallimento

del secondo, cancellato dopo pochi episodi per gli alti costi e la bassa audience. Facendo

leva su canzoni già note, lo show di Potter ha una forte valenza nostalgica [1] che piace al

pubblico e proietta questa mini serie nella lista dei capolavori del piccolo schermo.

Questi pochi esempi non riescono, comunque, a creare e solidificare il genere sul piccolo

schermo. Quello che invece riesce a radicarsi è la produzione di episodi “specials” in

forma di musical. Il primo esempio è nella sit-com I Love Lucy dove si tenta un episodio

che richiama la storia del musical di Vincent Minnelli Brigadoon, nell’episodio Lucy go to

Scotland del 20 febbraio 1956. La sit-com incorpora il musical piegandolo alla sua

estetica: in questa forma le canzoni risultano quasi degli sketchs comici che non stridono

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con lo stile usuale del prodotto. Nonostante il successo di questo episodio, acclamato da

pubblico e critica, non ci furono per molti anni altri episodi musicali in I Love Lucy o altre

produzioni.

Per trovare una nuova incursione nel musical bisogna arrivare al 1963 quando la DesiLu

produce uno special natalizio del Dick Van Dyke Show. L’escamotage per integrare la

musica nella narrazione è, in questo caso, di origine diegetica in quanto i protagonisti dello

show devono realizzare un musical nella trama dello show stesso. Molte altre serie hanno

poi tentato la via del musical: Gilligan’s Island, Happy Days, Love Boat. Anche in tempi più

recenti abbiamo esempi di episodi musicali in serie come Chicago Hope o Xena, dove

l’escamotage narrativo è quello onirico, Ally McBeal, che presenta musiche di Randy

Newman, Buffy, Settimo Cielo o Scrubs con risultati molto diversi.

La maggior differenza tra questi musical recenti e quelli prodotti negli anni Cinquanta e

Sessanta è l’originalità delle canzoni, che nella maggior parte dei casi vengono scritte e

arrangiate appositamente per l’episodio diventando parte del plot stesso, e il fatto che

spesso le performances sono degli attori stessi, il che non è sempre un pregio.

Il musical resta, comunque, una sfida per i produttori che spesso preferiscono non

rischiare in un campo come questo poiché la produzione di un episodio tale è di norma più

dispendiosa della media ed il risultato – a parte pochi casi – è scadente se non ridicolo.

I generi in Buffy. L’ibridazione del genere non nasce con la televisione postmoderna [2] ma è in questi anni

che assume un significato di scelta stilistica dell’autore che mette il genere al servizio della

narrazione. In Buffy questo utilizzo assume un duplice significato: il primo è relativo

all’interezza della serie che ibrida in sé horror, teen-drama, fantasy e commedia, come

metagenere che definisce la serie; il secondo è relativo ad alcuni episodi specifici che

richiamano un genere primario come l’episodio Once more, with feeling (06.07) che si

rifà, ovviamente, al musical classico. Relativamente al primo punto Buffy si lega

principalmente al filone horror, genere classico che si è andato ridisegnando in questi

ultimi anni con l’avvento di film come Scream (Wes Craven, 1996) dove gruppi di

adolescenti si trovano alle prese con mostri e maniaci.

Andando oltre le adesioni al genere in senso stretto, Buffy si lega al neo gotico e al neo

barocco anche per tutto l’immaginario visivo che propone. A questo proposito è

interessante sottolineare come, nonostante la serie si inserisca nel filone dell’horror

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postmoderno o adolescenziale degli anni Ottanta e Novanta, in realtà essa si lega

all’immaginario classico del vampiro. Infatti, gli eroi della serie affrontano i vampiri con

balestra, paletti e acqua santa: ciò rivela una immagine del vampiro così come ci viene

descritta nei romanzi gotici o nei film che si rifanno a quel genere letterario.

Relativamente all’adesione al genere classico è interessante approfondire l’analisi

dell’episodio musicale della serie, Once more, with feeling.

L’episodio presenta una costruzione che possiamo definire classica del genere musical e

viene girato e trasmesso in formato panoramico proprio per proporre una estetica visuale

immediatamente legata al genere. Dato il presupposto fantasy della serie, il pubblico non

è stupito nel vedere in un episodio i protagonisti che ad un tratto cominciano a ballare e

cantare a causa di un incantesimo poiché la magia è parte integrante (ed accettata dallo

spettatore) della serie stessa. La ‘sospensione della realtà’ richiesta allo spettatore del

genere fantasy che normalmente, in questa serie, viene applicata al momento dell’arrivo di

un mostro, in questo episodio si attiva la momento in cui parte la musica. La costruzione

dell’episodio è in accordo con le norme del musical classico così come descritto da James

M.Collins nel capitolo sul Musical in Handbook of American Film Genre:

¬uso dello spazio primariamente statico e teatralizzato;

¬improvvisa musicalizzazione del mondo. I protagonisti iniziano a cantare e portano le

canzoni nella loro vita quotidiana;

¬ibridazione tra operetta e musical cioè utilizzo di diversi tipi di musica;

¬sguardo in camera del protagonista al momento della canzone;

¬non utilizzo di stage predefiniti ma le location dei numeri musicali sono naturali cioè

esistono nel set e, quindi, nella storia.

A questa lista di norme aggiungo che in Buffy le canzoni servono per scambiare

informazioni tra i protagonisti come accade nei musicals classici. Gli inserti musicali non

sono puri esercizi di stile ma entrano a far parte della narrazione e ne diventano nodo

focale. A parte un caso, chi canta è ascoltato da chi è presente in scena. Nell’unico caso

in cui chi canta non è ascoltato, Giles nel pezzo Standing in the way, il motivo è diegetico:

i due protagonisti presenti in scena non riescono a comunicare i propri sentimenti,

problema che origina una serie di fatti che provocheranno azioni e cambiamenti nella

storyline e viene rappresentato dal punto di vista filmologico da un montaggio sovrapposto

delle azioni dei protagonisti in cui chi canta si muove a ritmo normale, chi dovrebbe

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ascoltare (ma non ne è in grado) si muove in slow motion.

Ultima notazione, le musiche sono originali, composte dal produttore Joss Whedon e da

Christopher Beck, l’autore della colonna sonora. Le canzoni sono eseguite realmente da

tutti gli attori. Da questo episodio è stato tratto un CD musicale ed un libro con spartiti e

curiosità sull’episodio.

Joss Whedon risulta oggi uno degli autori più interessanti del panorama televisivo pur se i

suoi prodotti hanno raccolto, generalmente, meno successo di quelli di Abrams o Carter.

Whedon propone al pubblico testi di una complessità che va oltre il gioco metareferenziale

e citazionistico utilizzato da molti prodotti contemporanei.

La ricerca dell’autore nei testi whedoniani è chiara e lampante, a diversi livelli di lettura. Ad

una prima analisi superficiale, le sue opere si legano tra loro per una certa continuità dello

sviluppo dei generi ma, andando appena ad approfondire l’analisi, si comprende come

Whedon non si limiti a riproporre una formula già nota ma utilizza “l’identico che sfocia nel

differente mentre a sua volta dal differente riaffiora comunque l’identico” [3].

Proprio questo episodio musicale – ormai una moda, un “esercizio di stile” sempre più

presente nelle serie tv contemporanee -, dimostra come anche una pratica ormai comune

possa, nelle mani di un autore ricco di talento come Whedon, assumere dei risvolti

originali e ricchi di spunti.

Note

[1] S.Thorburn, Insights and Outlooks: Getting Serious With Series Television Musicals, in

«Discourses in Music», Volume 5, Issue 1, 2004.

[2] Classical versus postmodern in Film/Genre di R.Altman, British Film Institute, Londra

1999, pag.139.

[3] G.Canova, L’Alieno e il Pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,

Bompiani, Milano 2000, Pag.15.

Bios

Barbara Maio è docente di Storia della Radio e della Televisione presso l’Università

Roma Tre. Ha pubblicato ampiamente, in Italia e all’estero, su cinema e televisione. In

particolare, sulla serie Buffy ha pubblicato un volume monografico, Buffy The Vampire

Slayer (Aracne, 2004) e una curatela, Legittimare la Cacciatrice (Bulzoni, 2007).

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Fuori sincrono e fuori dal tempo: la musica anacronistica di The Singing Detective di Dennis Potter

di Stan Beeler

Nell’episodio finale della innovativa serie di Dennis Potter The Singing Detective, Philip

Marlow lusinga la sua infermiera con il commento: “Sei tu la ragazza in tutte quelle

canzoni… Le canzoni che senti venir su dalle scale. Quando sei una bambina.

Quando si suppone che tu sia addormentata. Quelle canzoni”. La serie del 1986 di Potter

usa la musica popolare di una generazione precedente per arricchire la complessa

narrativa psicologica del suo personaggio semi-autobiografico. Sebbene si possa

presumere che la musica popolare nella televisione contemporanea sia sempre

accuratamente selezionata per adattarsi ad uno specifico target demografico e di

audience, elementi musicali anacronistici non sono, nei fatti, poco comuni. Gli ideatori

delle serie sono molto consapevoli che il gusto musicale è un importante indicatore di

comunità e di legame sub-culturale, eppure la musica associata con un dato gruppo

culturale o gruppo demografico è spesso ri-posizionata nell’obiettivo per un altro gruppo

attraverso cambi di stile, artista, strumentazione o – come nel caso di The Singing

Detective – contesto culturale. L’effetto prodotto dal deliberato uso della musica fuori dal

suo normale contesto culturale può essere definito dissonanza culturale, e The Singing

Detective non è la sola serie a usare questa tecnica nella selezione della musica popolare

per potenziare gli elementi narrativi e visuali della narrazione.

Dissonanza culturale è un termine interdisciplinare comunemente usato in sociologia,

antropologia, educazione e studi culturali. È una estensione del termine psicologico

dissonanza cognitiva che fa riferimento al senso di disagio che si prova quando gli

individui cominciano a riconoscere che il loro comportamento non è in accordo con il loro

sistema di convinzioni. [1]

La dissonanza culturale è un senso di disagio che emerge quando l’ambiente culturale di

qualcuno subisce un cambiamento risultando in un comportamento che non coincide con

la propria identità culturale. Un esempio comune è l’esperienza dei figli degli immigrati che

sono stati cresciuti dai genitori con una serie di valori culturali e aspettative che

differiscono in modo significativo dai valori di cui fanno esperienza nel mondo fuori dalla

casa di famiglia. Come dice Torres: “I comportamenti che sono espressi all’interno di

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questa condizione riguardano l’esperienza della dissonanza o conflitto fra il proprio senso

di cultura e quello che gli altri si aspettano” [2]. Argomenterei, tuttavia, che i gruppi culturali

definiti da semplici gruppi demografici stabiliti sulla base dell’età sono qualche volta tanto

distanti nei valori e nelle aspettative quanto quelli separati dall’origine geografica o dalla

affiliazione religiosa. Gruppi sub-culturali – inclusi quelli primariamente definiti dall’età –

spesso fanno del gusto nella musica una componente integrale della loro identità culturale

e conseguentemente diventano piuttosto sensibili alla musica che cade fuori dai parametri

delle loro preferenze. Inoltre, questi gruppi sono spesso ferocemente protettivi di percepite

trasgressioni contro l’integrità della “loro musica”. Come suggerisce Simon Frith: “I generi

inizialmente fioriscono su un senso di esclusività; sono tanto (se non più) preoccupati di

tenere le persone fuori quanto dentro” [3]. Questa percepita esclusività può essere usata

nel cinema e nella televisione per ri-posizionare nell’obiettivo la musica da un gruppo

culturale a un altro per instillare una sensazione di dissonanza culturale o per suggerire

una riconciliazione di due cornici concettuali apparentemente incompatibili.

Ci sono, naturalmente, certe inerenti qualità della musica che possono trascendere il

contesto culturale – la maggior parte delle persone trovano i toni dissonanti inquietanti non

importa quale sia il loro background culturale o quali siano le origini del pezzo – sebbene

le argomentazioni riguardo alle sottostanti ragioni per questa qualità siano senza fine. Non

sono le inerenti qualità di un pezzo musicale quelle che ci danno il suo significato primario

nel contesto di un film o di un programma televisivo, è il suo contesto culturale. L’effetto

della musica in un film è “derivato non semplicemente dalla struttura imperativa di quel o

quell’altro pezzo, ma anche dalla esperienza del suono culturale o sociale, da una

posizione di ascolto culturale o sociale” [4]. Sembrerebbe che la naturale estensione di ciò

sia che la musica può essere usata fuori dal suo atteso contesto in modo da sviluppare

una deliberata dissonanza culturale. [5] Sia il cinema che la televisione dipendono da una

moltitudine di tecniche che sono usate per manipolare emozionalmente il loro pubblico. La

musica può essere uno strumento molto efficace per questo genere di manipolazione dal

momento che è collegato in modo molto stretto con le nostre esperienze personali.

Abbiamo fatto esperienza tutti di un momentaneo flashback sollecitato dal sentire un

brano musicale che ha un significato romantico.

L’uso della musica di Dennis Potter dalla generazione dei suoi genitori dipende dagli

elementi personali della diegesi di The Singing Detective. La serie televisiva opera su tre

distinti livelli narrativi; il primo è il racconto semi-autobiografico di un autore di gialli, Philip

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Marlow, che soffre di una debilitante forma di psoriasi artritica – una malattia condivisa da

Potter stesso – ed è confinato in un letto d’ospedale. Marlow soffre di allucinazioni che lo

fanno rimbalzare fra le due altre linee narrative; il mondo di finzione di una delle sue storie

gialle e i ricordi della sua infanzia. Nel secondo episodio della serie (“Heat – Calore”)

vediamo le scorrevoli transizioni da una serie di allucinazioni in ospedale alla linea

narrativa che ritrae la giovinezza di Marlow. Comincia con il vecchio uomo moribondo nel

letto accanto a Marlow che apparentemente si mette a cantare il classico di Rogers and

Hammerstein del 1945 “It Might as Well Be Spring – Tanto Vale Che Sia Primavera”.

C’è una transizione in dissolvenza alle immagini visive all’ambiente di un pub in tempo di

guerra senza nessuna interruzione della traccia audio. Ci viene mostrato il padre di

Marlow che canta, accompagnato da sua madre al piano – un’icona culturale che

rappresenta un tempo e un luogo sereno nella vita del protagonista. Le due realtà sono

unificate attraverso l’uso inusuale della musica diegetica. Il vecchio uomo nel letto accanto

e il padre di Marlow cantano la stessa canzone in due situazioni molto differenti e la

dissonanza culturale dipende dall’uso della musica che è appropriata solo in uno dei due

scenari. La scelta di Potter di musica diegetica è particolarmente efficace dal momento

che il sorprendente collocamento della musica in bocca al vecchio uomo suggerisce una

sorta di realismo magico.

Mary Anne O'Farrell commenta su un altro aspetto di questa scena, facendo notare che la

linea narrativa della serie serve anche a trasformare il significato della musica attraverso

inaspettate giustapposizioni di immagine e testo della canzone:

Nel suo lavoro con la canzone popolare, la sceneggiatura di Potter è capace qualche volta

di riscrivere una canzone riscrivendone il contesto, come quando il vecchio uomo nel letto

d’ospedale accanto a Marlow sembra cantare “It Might As Well Be Spring – Tanto Vale

Che Sia Primavera” attraverso i denti che stanno marcendo; se tanto vale che sia

primavera per il vecchio uomo, la sua irrequietezza nel testo della canzone suggerisce la

probabilità e l’imparzialità con cui la primavera potrebbe portare la morte o il sesso. [6]

O'Farrell riconosce che Potter ha manipolato i sentimenti espressi da quella che definisce

“canzone popolare” attraverso il cambiamento di contesto nella narrativa. Tuttavia, non

indica che queste canzoni – che sono cantate in playback dagli attori – sono già fuori

contesto perché – strettamente parlando – non sono più popolari. La musica di The

Singing Detective è di un’era passata e serve come significante dei valori e delle

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aspettative di una generazione precedente. Questo brano musicale evoca una visione

psicologica del mondo piena di ottimismo che è stata rimpiazzata dal dolore e dal

tradimento.

Nella linea narrativa del giallo, la scelta di musica di Potter serve a potenziare gli aspetti

da film noir della serie mentre collega la linea narrativa di finzione al passato semi-

autobiografico così come al presente. Nel terzo episodio (“Lovely Days” - “Bei Giorni”) ci

viene presentato un montaggio che combina le immagini dell’ospedale in “tempo reale”, la

storia gialla e la giovinezza di Marlow che scorre sullo sfondo della popolare canzone della

Seconda Guerra Mondiale “Lili Marleen” cantata tanto in inglese quanto in tedesco. C’è

una transizione di scena a Marlow da bambino che ascolta la canzone su un fonografo

mentre sua madre la canta e sua nonna materna commenta sulla cantante. La scena poi

si sposta sulla fantasia del romanzo giallo in cui una donna bionda in un cappotto trench

canta “Lili Marleen” mentre si appoggia contro un lampione. (Una visualizzazione del testo

della canzone). La scelta di Potter di una musica anacronistica collega i tre livelli della

narrativa in modo molto più efficace di una selezione di musica contemporanea dagli anni

’80. È inappropriato per l’ambiente contemporaneo della narrativa dell’ospedale e

immediatamente invoca una dissonanza culturale che privilegia le storie autobiografiche e

di fantasia. La canzone “Lili Marleen” ("Das Mädchen unter der Laterne") [7] è un esempio

significativo di dissonanza culturale in se stessa. Sebbene sia stata originariamente

cantata in tedesco e trasmessa alle truppe naziste, è diventata popolare su entrambi i lati

del conflitto durante la Seconda Guerra Mondiale. La presentazione di Potter della

canzone è rinforzata come musica diegetica su due livelli quando vediamo un giradischi

che suona la musica mentre la madre di Philip la canta. Suo padre, il nonno di Philip, fa

notare che la canzone è in tedesco -- culturalmente dissonante – e parla di una

“sgualdrina”, un termine che è un po’ troppo vicino a casa per la madre di Philip dal

momento che la narrativa rende chiaro che è stata infedele al padre di Marlow. Sebbene a

questo punto non rifletta il qui-e-ora del protagonista in ospedale, è anche chiaramente

imparentato alla sua impressione che sua moglie lo abbia tradito con una altro uomo. La

musica unifica l’autobiografia, l’incorporata storia gialla di finzione e un racconto

contemporaneo producendo un senso di dislocamento.

Due aspetti dell’uso della musica di Potter in The Singing Detective sono centrali al suo

effetto culturalmente dissonante. Il primo è che la musica è molto spesso usata

diegeticamente e la seconda è che questa musica è inappropriata in un senso

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cronologico. Il collocamento di Potter della musica della Seconda Guerra Mondiale nella

Londra contemporanea produce un senso di disagio. Dimostra in modo efficace che la

selezione della musica in televisione o nel cinema può mantenere l’integrità del suo

genere eppure mostrare dissonanza culturale attraverso la sua contestuale

rappresentazione nella diegesi.

In conclusione voglio far notare che ci sono così tante ragioni per l’applicazione della

dissonanza culturale nella musica televisiva quante sono le tecniche per produrla.

Qualche volta la scelta della musica dal passato si intende che evochi la storia personale

di un personaggio, o che enfatizzi un “look e modo di sentire” nostalgico. Così come

appropriatamente la mette Stephen Hayden: “il fatto di essere datati è uno degli attributi

più sottovalutati per una canzone o un film. …Sto parlando di fare esperienza del passato

così come lo si sentiva nel momento in cui quello che stai sentendo o vedendo è stato

ideato” [8]. La semplice applicazione di musica dal passato di un personaggio non invoca

veramente dissonanza culturale; in questo senso è l’applicazione di musica anacronistica

come una sorta di stenografa storica. In altri casi, come nella versione elettronica di

musica classica ne L’Arancia Meccanica di Kubrick, la musica in se stessa è re-

immaginata in un contesto alieno per propositi ironici. Ma quando la musica è usata per far

notare differenze culturali; quando esprime lo scarto fra allora e ora, quella sensazione

scomoda di dissonanza culturale è uno strumento importante nel repertorio dei programmi

televisivi drammatici.

Note

[1] È interessante notare che la dissonanza cognitiva spesso risulta in una modificazione

delle convinzioni per accomodare i comportamenti piuttosto che il contrario.

[2] V.Torres, “Influences on Ethnic Identity Development of Latino College Students in the

First Two Years of College”, «Journal of College Student Development» 44.4 (2003),

p.540

[3] S.Frith, Performing Rites: On the Value of Popular Music, Harvard University

Cambridge, Mass, 1996, p.88

[4] Ibidem, p.107

[5] Una palese espressione di questo si può trovare nella colonna sonora per L’Arancia

Meccanica di Stanley Kubrick. La narrativa si combina con la colonna sonora per

sviluppare un inaspettato collegamento fra la musica classica e la giovinezza violenta. In

alcuni punti, Kubrick potenzia gli effetti dirompenti della giustapposizione attraverso l’uso

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di Bach nelle versioni elettroniche di Walter (Wanda) Carlos. L’insolita strumentazione è in

contrasto con le aspettative per questo tipo di musica e potenzia la dissonanza culturale

della colonna sonora del film. Per il pubblico il “comportamento” della musica – cioè, la sua

strumentazione – è tanto culturalmente dissonante quanto l’idea di un fan della musica

classica che è un delinquente.

[6] M.A.O'Farrell "Self-Consciousness and the Psoriatic Personality: Considering Updike

and Potter", in «Literature and Medicine» 20.2 (2001), 143.

[7] Testo della canzone 1915 di Hans Leip e musica 1938 di Norbert Schultze.

[8] S.Hyden, "Song and Vision No. 2: "The Power of Love" And Back to the Future",

The A.V. Club, 22 March 2008

Bios

Stan Beeler ha ricevuto la laurea dalla Dalhousie University ad Halifax, in Canada, e ha

completato il suo dottorato in letteratura comparata dall’Università di Alberta, Canada. È

interessato alla cultura popolare, agli studi sul cinema e sulla televisione e all’applicazione

della tecnologia alla ricerca e all’insegnamento nelle materie umanistiche. Ha pubblicato

sulla letteratura del 17° secolo, sulla cultura popolare, in materia di studi sulla televisione e

di informatica negli studi umanistici. È membro di diverse associazioni professionali

incluse la Popular Culture Association/American Culture Association, la Science Fiction

Research Association, la Emblem Studies Association e la Canadian Association of

Chairs of English. È stato Presidente della Canadian Comparative Literature Association.

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La frenesia de L’Opera da Tre Soldi: Esplorazione dei concetti dietro alla popolarità

di un’operetta sovversiva di Markee Rambo-Hood

Il fenomeno dei musical di culto rimane un puzzle tanto per gli accademici quanto, allo

stesso modo, per i consumatori. Definire un musical di culto non è un compito semplice

dal momento che ve ne sono di forme diverse e con vari argomenti come soggetto.

L’aspetto principale che definisce un musical di culto è la sua sovversività sociale e il

contenuto non-di-mainstream combinato con l’estremo successo di solito alimentato da un

sotto-gruppo consumista. Questa definizione è vaga perché il termine successo in

relazione ai musical è difficile da quantificare. Io uso il termine successo per fare

riferimento a un musical che è riuscito a entrare nella consapevolezza sociale su larga

scala, nonostante il suo profitto monetario.

L’Opera da Tre Soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill (1028) tuttavia è diventata di

successo sia attraverso la consapevolezza sociale di larga scala che attraverso il

guadagno monetario, con gran sorpresa dei suoi ideatori e della comunità di avanguardia.

Il durevole stato di cult di questo musical è supportato dalla consapevolezza sociale che

ancor oggi riesce a imbrigliare, in particolare alimentata dalla popolarità della canzone di

apertura, “La Ballata di Mack the Knife”. Tuttavia, molti studiosi sono rimasti sconcertati

rispetto a quanto una tale operetta anti-opera e anti-capitalista sia potuta diventare

popolare presso il pubblico pre-nazista. La ricerca su questo successo è conosciuta come

la “tesi del fraintendimento” dagli studiosi ed è stata portata avanti dai teorici T.W. Adorno

e Ernst Bloch. La tesi è fondata sul quesito di come una brano di teatro così progressista

e ribelle non solo sia entrato nella cultura popolare, ma anche abbia raggiunto un

successo così diffuso. Il punto focale della “tesi del fraintendimento” si poggia sull’idea che

il pubblico ha frainteso le intenzioni dietro all’operetta, contribuendo alla sua accettazione.

Il limite fondamentale di questa argomentazione è che la maggior parte della teoria è

radicata in speculazioni sulle intenzioni di Brecht.

Brecht ha formulato una serie di stratagemmi teatrali che ha chiamato Teatro Epico. La

struttura del Teatro Epico è stata sviluppata come reazione contro il Teatro Drammatico

Occidentale di mainstream, che è ancora a tutt’oggi la principale forma di teatro sul

palcoscenico. L’obiettivo principale di ogni brano di Teatro Drammatico è creare una trama

che evochi un’intensa esperienza emozionale per il pubblico. Il Teatro Epico, al contrario,

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richiede che lo spettatore si rilassi e consideri la situazione. L’intenzione principale del

Teatro Epico è che il pubblico esca con una sensazione di irrisolutezza; irrisolutezza

perché gli spettatori non hanno fatto esperienza di una catarsi, o costruito qualcosa

seguito da un rilascio di emozioni, durante la durata dell’opera. Con questa sensazione di

irrisolutezza Brecht sperava che i suoi spettatori facessero delle associazioni con la loro

vita di ogni giorno e alla fine si battessero per il cambiamento nella loro società. Brecht

usava stratagemmi teatrali quali la narrazione, la percepita obiettività, personaggi

alterabili, separazione degli elementi teatrali, proiezioni su schermo, rivelazione dei

meccanismi del dietro le quinte, rottura della quarta dimensione, alienazione e montaggio.

[1] Con questi Brecht puntava a creare un teatro che simulava la mente e permetteva allo

spettatore di rilassarsi e valutare la favola di fronte a sé.

Sebbene la struttura del Teatro Epico di Brecht appaia avere un chiaro obiettivo sia nella

derisione che nella ricezione da parte dello spettatore, vorrei argomentare che non è

chiaro quando queste teorie siano state messe a punto e solidificate da Brecht. Poiché la

“tesi del fraintendimento” si poggia quasi interamente sulle intenzioni di Brecht ne L’Opera

da Tre Soldi, questa posizione è indebolita dal concetto che probabilmente non c’era

nessuna solidificata teoria Epica prima dell’ideazione di quest’opera. Il sostegno più

significativo che ho per validare questa conclusione è il lavoro compilato da John Willett in

Brecht on Theatre: The Development of an Aesthetic – Brecht sul Teatro: Lo Sviluppo di

un’Estetica. Questo libro riporta in dettaglio gli scritti di Brecht sul Teatro Epico ed è

progettato per mostrare come le sue teorie si sono formate lungo il corso della sua vita di

scrittura e pubblicazione di articoli. Da questo libro posso concludere che l’ultimo articolo

che riguarda il teatro Epico, prima dell’ideazione e della premiere de L’Opera da Tre Soldi,

è stato scritto nel 1927. In questo articolo Brecht esplicitamente dichiara che:

Non è possibile esporre i principi del teatro epico in pochi slogan. Per la maggior parte

hanno ancora bisogno di essere elaborati in dettaglio. [2]

Perciò è chiaro che Brecht non aveva ancora pienamente sviluppato le sue teorie prima

dell’ideazione de L’Opera da Tre Soldi nel 1928. Questo indica che L’Opera da Tre Soldi è

stato un modo di mettere in pratica le sue teorie e idee Epiche, ma non è stato in alcun

modo un’indicazione di una solidificazione delle sue teorie Epiche a quel punto. La prima

definitiva e solida descrizione di Teatro Epico è stata “Il Teatro Moderno è il Teatro Epico”

di Brecht, stampata nel 1930. Questa sostiene l’idea che le sue teorie non sono state

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acquisite certamente fin dopo che L’Opera da Tre Soldi è stata scritta e ha debuttato.

Perciò deve essere sottolineato che quest’opera è stata sviluppata prima delle sue teorie e

deve essere contestualizzata come tale. Questo non è per dire che L’Opera da Tre Soldi

non aderisce in una certa misura alle teorie successivamente realizzate di Brecht sul

Teatro Epico, ma quello che devo evidenziare è che queste vi aderiscono con un senso di

progressione e perciò producono discrepanze. Perciò non si può presumere che la

premiere de L’Opera da Tre Soldi abbia seguito le teorie del Teatro Epico di Brecht così

come si è trovato in traslazioni moderne, come quella di Willett.

A parte discutere l’intento dietro all’operetta, c’è principalmente il concetto di un

fraintendimento da parte del pubblico nella “tesi del fraintendimento”. Il musicologo e

esperto di Kurt Weill, Kim Kowalke, porta una forte argomentazione quando evidenzia il

fatto che la sola versione sopravvissuta de L’Opera da Tre Soldi è una versione rivista che

è stata stampata sul giornale Versuche. Questa versione è stata fortemente revisionata da

Brecht in una misura tale per cui è impossibile mettere i metri della sua poesia insieme alla

musica originale di Weill. Dal momento che gli studiosi attuali non hanno accesso al testo

originario de L’Opera da Tre Soldi, è difficile fare supposizioni sui possibili fraintendimenti

da parte del pubblico. Per supportare quest’idea lo scrittore Elias Canetti, un

contemporaneo di Brecht e a Berlino al tempo della premiere de L’Opera da Tre Soldi,

sostiene che:

Il pubblico l’ha capita fin troppo bene. Può essere che siano stati costretti a confrontarsi

sul palco con i loro stessi tratti cattivi, da non-cristiani. Non ne sono stati ripugnati, tuttavia.

A loro è piaciuto. [3]

Canetti attacca le dichiarazioni portate avanti da Adorno e Ernst nella “tesi del

fraintendimento” che il pubblico non era in grado di comprendere l’operetta ma la vedeva

solo come intrattenimento leggero. Addizionalmente, sembra che Brecht sia il solo che ha

sentito la necessità di scusarsi per il successo L’Opera da Tre Soldi dal momento che il

compositore dell’operetta, Kurt Weill, era più che felice del guadagno monetario ed è stato

citato per aver detto “Temo che nel sottosfruttare questi numeri popolari potrei perdere

una buona opportunità di assicurarmi il benessere finanziario per i miei anni a venire.” [4]

Perciò può essere arguito che il successo finanziario sia arrivato come una piacevole

sorpresa, almeno per Weill, e che sia stata la sua intenzione dall’ideazione iniziale

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dell’opera. La dichiarazione di Canetti, combinata con l’assenza del testo originale e la mia

ricerca che sostiene l’idea che c’era solo una vaga cornice teoretica ai tempi della

premiere de L’opera da Tre Soldi indebolisce il concetto della “tesi del fraintendimento”.

Non sto argomentando che la “tesi del fraintendimento” non abbia alcun peso, ma

sottolineerei che non si può semplicemente sostenere che il pubblico non capiva. Sembra

che a questo punto Brecht stesso avesse solo una vaga comprensione dei sui scopi con il

Teatro Epico e che parte del successo possa essere attribuito a teorie non finite o non

messe in atto da parte di Brecht.

Un’altra teoria che giustifica l’inaspettato successo de L’Opera da Tre Soldi viene alla luce

nel libro di Joy Calico Brecht at the Opera – Brecht all’Opera. Calico sostiene che il Teatro

Epico di Brecht non è interamente dissimile al genere operistico già esistente. Uno degli

esempi di Calico include l’accordo del pubblico di Brecht di “fumare e guardare” che è

simile al comportamento adottato dal pubblico dell’opera seria. [5] Brecht incoraggiava il

suo pubblico ad adottare una relazione distaccata dall’opera, ma il pubblico dell’opera

seria aveva già abbracciato questo comportamento nell’Italia del 1700. Perciò ogni opera

scritta durante quest’era era già strutturata per una relazione distaccata con lo spettatore.

Calico ha anche sostenuto che la cornice anti-aristotelica di Brecht avrebbe perso efficacia

sul palco dell’opera dal momento che questo genere operistico aveva poche radici nelle

teorie di Aristotele. Come ha notato Calico, il pubblico dell’opera ha incontrato

comunemente trame non lineari che raramente si attengono alle stabilite convenzioni del

tempo. [6] Vorrei argomentare che le similarità fra il genere operistico e la struttura del

Teatro Epico potrebbe anche dar conto di gran parte dell’accettazione e del successo

della creazione di Brecht e di Weill, dal momento che il pubblico dell’opera era abituato a

incontrare molti aspetti del Teatro Epico nell’Opera. Michael Gilbert afferma quest’idea in

Bertolt Brecht’s striving for reason, even in music – Bertolt Brecht è proteso per la ragione,

anche nella musica, dichiarando che queste caratteristiche classiche sono enormemente

collegate all’opera pre-romantica con il suo formato di numeri, separazione degli elementi

e combinazione di musica seria e popolare, enfatizzando così l’antichità del modello auto-

proclamatosi innovativo di Brecht. [7] Sebbene Brecht si sia sforzato di re-inventare il

palcoscenico operistico, in realtà stava dissotterrando convenzioni storiche del genere per

usarle nel suo Teatro Epico, cosa che potrebbe spiegare perché questa operetta

apparentemente sovversiva sia stata accettata dal pubblico di teatro del suo tempo.

La mia ricerca così mi porta a concludere che la “tesi del fraintendimento” possa non

essere così concreta come i suoi sostenitori fanno credere che sia . Per prima cosa, è

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quasi impossibile determinare la progressione che era stata fatta nel 1028 delle teorie del

Teatro Epico di Brecht; certamente, dai suoi scritti sembra che non fossero state

finalizzate fino a dopo la premiere de L’Opera da Tre Soldi. Inoltre, il copione originale è

andato perduto e tutto quello che rimane è la versione fortemente revisionata di Versuche

che non si adatta ritmicamente alle composizioni di Weill. Oltre a ciò, Weill non ha

protestato contro il successo dell’operetta, che potrebbe indicare che aveva intenzione di

scrivere una partitura di successo commerciale. E inoltre la dichiarazione di Canetti

indebolisce ogni affermazione di un fraintendimento da parte del pubblico. Queste

scoperte evidenziano il fatto che la “tesi del fraintendimento” è indebolita e non la si può

guardare così semplicisticamente come gli studiosi hanno sostenuto fin’ora. Oltre a

questo la “tesi del fraintendimento” trascura l’idea che il Teatro Epico di Brecht non fosse

interamente innovativo, ma si aggrappasse a molte antiquate tecniche teatrali che

avrebbero potuto dar conto per molto del successo e dell’accettazione de L’Opera da Tre

Soldi.

Perciò i musical di culto contemporanei devono essere analizzati in una maniera similare

in modo da capire le ragioni della loro popolarità, invece di svalutarli meramente come un

fenomeno o di ridurli a un enigma e un mistero. Ma forse, allo stesso tempo, questo senso

di enigma e mistero è quello che attira lo spettatore all’interno del teatro e permette ai

consumatori di etichettarsi come estimatori di musical di culto. Tuttavia, in seguito alla mia

ricerca su L’Opera da Tre Soldi, vorrei concludere che forse questi musical di culto

sovversivi non sono così anti-mainstream come vorrebbero far credere ai propri estimatori.

Note

[1] Per un’indagine più ampia di questi concetti raccomanderei la lettura dell’articolo di

Brecht intitolato “Il Teatro Moderno è il Teatro Epico” che è stato pubblicato nel 1930 con

la sua operetta The Rise and Fall of the City of Mahagonny - Ascesa e caduta della Città

di Mahogonny. Questa si può trovare nella raccolta di John Willet di articoli di Brecht

intitolata Brecht on Theatre: The Development of an Aesthetic, Hill & Wang, New York,

1992, pp 33-42.

[2] J.Willet (a cura di) Brecht on Theatre: The Development of an Aesthetic, Hill and Wang,

New York 1992, p.23.

[3] S.Hinton (a cura di), Kurt Weill: The Threepenny Opera, University Press,

Cambridge,1990, p.190.

[4] K.Kowalke, “Accounting for Success: Misunderstanding Die Dreigroschenoper”, «Opera

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Quarterly», 6:3 (1989) p.31.

[5] C’erano due stili di opera dominanti nell’Italia nel 1700, quello dell’opera seria (opera

seria o drammatica) e quello dell’opera buffa (opera comica). Il pubblico dell’opera seria

andava all’opera per mangiare, bere e parlare e spostava l’attenzione verso il palco

quando si esibiva un cantante ben conosciuto o veniva eseguita un’aria preferita.

[6] J.Calico, Brecht at the Opera, University of California Press, Berkeley & Los Angeles,

2008, pp.39-40.

[7] M.Gilbert, Bertolt Brecht’s Striving for Reason, even in music, Peter Lang New York,

1988, p.257

Bios

Markee Rambo-Hood è una studentessa al primo anno di dottorato all’Università di

Glasgow. Al momento sta facendo ricerca sulla logica musicale e sui collegamenti

drammaturgici nel teatro postdrammatico con un’enfasi su Robert Wilson. Per il Master ha

fatto ricerca sulla funzionalità della musica nel Teatro Epico di Bertolt Brecht e ha usato

L’Opera da Tre Soldi, Ascesa e caduta della città di Magahonny e La Madre come casi di

studio. Ha partecipato a eventi musicali e teatrali sia da un punto di vista pratico che

accademico e ha sempre avuto uno specifico interesse per il teatro musicale sovversivo e

d’avanguardia.

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Mamma Mia! e la ricerca dell’identità di Laëtitia Baltz

Vi sono piaciuti Molto Rumore per Nulla (K. Branagh, 1993), A Knight’s Tale – Il Destino di un Cavaliere (B. Helgeland, 2001), ma anche più recentemente Bandits (B.

Levinson, 2001), Broken Flowers (J. Jarmusch, 2005) e Juno (J. Reitman, 2007) o i film

realizzati secondo lo stile di Sofia Coppola e alla maniera degli stati d’animo di Wes Anderson? Allora vi piacerà anche di più Mamma Mia! (P. Lloyd, 2008). Questa piccola

gemma è un vero capolavoro, una meraviglia che nessuno deve perdere, non ci sono

pretesti!

Non solo questo film porta una ventata d’aria fresca, ma incorona anche una nuova aria

all’interno del cinema americano. Film seminale, film corale, questo è un lavoro intero e

per così dire completo in se stesso che abbonda di generi multipli e diversi, e che fa

appello e si riferisce ad altrettanti differenti processi che si trovano nel cinema e che offre,

qua e là, divertenti strizzatine d’occhio ad altri autorevoli film che sono diventati

imprescindibili nella storia del cinema americano.

Quello che in primo luogo qualifica questo film soprattutto è il suo ottimismo, l’intenso

humor e lo stato d’animo tremendamente allegro con il feroce effetto di farti ridere fino alle

lacrime, anche, in qualche modo, a causa della sua causticità. In questo film, ogni

momento è più delizioso dell’altro con la sua quota di sorprese, situazioni comiche perfino

claunesche e pazze, toccante tenerezza, nostalgia e perfino note tragiche. Lo spettatore è

sempre lanciato da un sentimento all’altro e passa dal riso alle lacrime attraverso ogni

possibile emozione che il cinema può provocare. Paradossalmente, niente va preso sul

serio mentre vengono sollevate questioni forti e profonde.

Vale la pena menzionare l’importanza dell’ironia e dei significati presenti su più livelli.

Dietro all’apparente semplicità, freddezza, stereotipi di climax e “cliché”, aiutati da

splendide immagini ben costruite e ambientazioni da sogno, la signora Lloyd mantiene uno

spirito critico, offrendo pensieri e descrizioni forti. Lo spettatore presto sente ed è

testimone del fatto che se gratti la superficie, la vita non è un letto di rose. Dietro

all’intrattenimento e alla superficialità emergono problemi centrali e profondità. L’audience

non deve prendere e cogliere le immagini per quello che sono, non deve farsi ingannare

dalle apparenze, ricevendo così incidentalmente una lezione di cinema su come guardare

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i film e interpretare le rappresentazioni.

Secondariamente, Phyllida Lloyd con questa primissima pellicola anglo-americana –

dove uno dei co-produttori esecutivi è niente meno che Tom Hanks e che è prodotta dalla

Universal Pictures con la sceneggiatura di Catherine Johnson – prova che è un genio

nel controllare il suo lavoro fino alla perfezione, senza una nota stonata e non cadendo

mai nella volgarità e nella ordinaria banalità. Mantiene le redini di questo lavoro e vale la

pena notare che ne conosce gli ingranaggi nei dettagli più minuti. Questo capolavoro

solleva l’entusiasmo tutte le volte che viene programmato, per e grazie alla sua colonna

sonora, un adattamento originale del famoso musical degli Abba Mamma Mia! e per il suo

controllo sull’inquadratura. E se questa donna inglese riesce così bene a svolgere la sua

missione, è molto probabilmente perché nel 1999 le è stata offerta la possibilità di fare la

regia del musical che è rapidamente già diventato un grande successo del West End, a

Broadway e in tutto il mondo. Possiamo dire che segna brillantemente il suo debutto

nell’industria cinematografica, dopo una lunga carriera culturale.

In effetti uno non può fare a meno di osservare l’enorme e fenomenale background

culturale e tecnico fornito in questo film: tutto, ogni piccolo dettaglio viene pensato,

studiato attentamente e meticolosamente, niente è fatto in modo casuale. La quantità di

conoscenza è semplicemente enorme. Vi troviamo il teatro greco con tutto quello che

appartiene alla tragedia – l’introduzione dei personaggi, la crisi, l’azione, gli a-parte del

coro mentre sono testimoni della vita dei personaggi e la giudicano, gli dei che tirano i fili

mentre ridono degli esseri umani e li prendono in giro, la soluzione della crisi. Appare la

grandezza di Shakespeare, vicina alle peculiari atmosfere di Kenneth Branagh messe in

scena con ombre e crepuscoli attraverso l’uso di luci a torcia, fra il dramma e la commedia

che si mischiano nella "rire en larme" [1] di Bergson. Il marchio di “Bollywood” è stato

americanizzato con brio. Ci sono riferimenti all’era delle discoteche con i suoi grandi e ben

conosciuti film musicali come Grease (R. Kleiser, 1978) e La Febbre del Sabato Sera (J.

Badham, 1977), ma anche strizzatine d’occhio a grandi successi contemporanei come

Titanic di Cameron, a serie come Baywatch, a tessuti e tecniche della pubblicità con

inquadrature da mini video clip, eccetera. La cerimonia nuziale in sé risulta essere molto

romantica, cosa che pone il film all’interno della tradizionale cornice delle “storie d’amore”.

Senza dimenticare che tutto segue l’incredibile e selvaggio ritmo delle canzoni e dei balli

che sono successi di lunga durata degli Abba che, giusto per menzionarlo, beneficiano di

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una nuova giovinezza grazie a un adattamento che offre al musical una nuova ampiezza e

un significato più profondo consentendo un impatto più ampio. Così, questo film è un

autentico tornado con le sue canzoni, danze e ritmo frenetico.

Terzo, l’incredibile vitalità e l’essere cool è per la maggior parte, ma non solo, sostenuta e

dovuta alla giovane attrice Amanda Seyfried (alias Sophie Sheridan) come nel caso di

Ellen Page in Juno. Oltre a questo, uno spirito di libertà regna all’intero di questo film,

come già visto recentemente nella nuova vena del cinema americano, specificatamente

nella Coppola e in Anderson. Se la freschezza è supportata dalla giovane fidanzata, il

dinamismo è portato da Meryl Streep (alias Donna Sheridan) che inoltre prova – con le

sue due comprimarie - che a una donna di mezza età può ancora venir offerto un ruolo

meraviglioso e che lei può interpretarlo magnificamente. Il fenomeno è raro a sufficienza

da venir sottolineato, in modo che un cambiamento cominci ad esserci negli spiriti, con la

conseguenza di un’evoluzione all’interno della società.

Quarto, molto al di là del dramma, della tragedia e della commedia, appare una sottile e

accurata analisi sociologica e satira sociale. Il realismo si agita dietro la finzione e dà

l’opportunità di pensare molto bene all’aspetto della nostra società contemporanea e di

guardarla nelle sue conseguenze post-maggio 1968. L’approccio sociologico e psicologico

può essere, in alcuni rispetti, comparato a Broken Flowers di Jarmusch dal momento che

entrambi i film sono radicati nelle loro epoche contemporanee fornendo fra le righe una

buona analisi sociologica e filosofica. Quello che entrambi i film condividono è il pensiero

sulla famiglia, il matrimonio e il posto degli uomini in seguito al femminismo come una

conseguenza dell’era del 1968. Che cosa dire se non che ogni personaggio ha il suo

proprio posto con le sue particolarità, il suo tocco e un sacco di felicità in un film che mette

in mostra l’intera gamma degli esseri umani. Ogni ruolo contribuisce un pezzo del puzzle.

Riguardo al femminismo a seguito del Maggio 1968 e ai riferimenti all’”estate dell’amore”,

ci sono stati resi noti i pensieri della regista su quello che questo ha portato. Inoltre, tutto

questo è benvenuto in un anno per così dire storico in cui, a causa delle celebrazioni dei

quaranta anni del Maggio del ’68, gli hippie e il movimento del “potere dei fiori” riemergono

con uno spirito bilanciato: che cosa abbiamo fatto di questa eredità, quali sono le cose

rimaste in sospeso, chi siamo diventati, quali sono le conseguenze per il 21° secolo,

eccetera?

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La relazione inter-generazionale pure appare nelle sue conseguenze post-68: lo

spettatore è testimone di quello che accade a una persona che ha cercato di liberasi solo

nelle apparenze, nel discorso o in una maniera sbagliata, ma ha così, nei fatti, solo

imprigionato se stessa e il suo spirito, con conseguenze per i suoi figli. Questo accade

nello stesso momento in cui Sophie è in totale contraddizione con sua madre perché

vuole separare il suo destino da lei e non vuole seguire il suo sentiero, non riesce a

vedere chiaramente e scoprire che cosa è buono per se stessa. Un pochino, tutto questo

affronta le questioni del destino e delle scelte, con gli sbagli e anche qualche volta i

danni.

Quinto, non possiamo fare a meno di osservare i simboli forti e potenti del film, come la

fonte benedetta segreta di Afrodite che inaspettatamente e miracolosamente spruzza

fuori in una fontana di vita. Il piccolo percorso verso la chiesa sulla sommità della

montagna dell’isola rappresenta una ricerca, sia di identità che di vera spiritualità, invece

di una religione che confina, e simbolizza il percorso della vita. Il cattolicesimo – irriso

come gli dei che ridono degli esseri umani in modo da metaforicamente incorporare ogni

tipo di religione – è ferito e gettato sopra i carboni, anche se ancora legittima i matrimoni

attraverso sacre unioni. La fidanzata portata verso la chiesa in alto su un asino

chiaramente fa pensare a Maria e al suo asino: i riferimenti al cattolicesimo sono

abbondanti ma giusto per dichiarare l’abbandono del tradizionale e vecchio cristianesimo

a favore di uno più aperto adattato ai suoi tempi.

L’isola – paradossalmente un ambiente chiuso da dove nessuno può scappare – ricorda

Robinson Crusoe e può inferire al fatto che c’è un tesoro da trovare mentre, nel

frattempo, la nozione del tempo sembra sospesa, con ciascun personaggio che incontra

l’opportunità di essere di fronte al proprio io e a fare esperienza di ciò che solo e

veramente importa nella vita. Inoltre, la predominanza dell’acqua suggerisce soprattutto

rinascita alla vita, rinnovamento, perfino il battesimo e contiene una funzione catartica: il

perdono e la redenzione sono possibili. Paradossalmente, Donna si è imprigionata su

quest’isola paradisiaca – quello che è stato, anni fa, il sogno di Sam – come se per

espiare le sue colpe.

L’ambientazione greca, il riferimento ad Afrodite (la dea dell’amore) enfatizza tempi

antichi e suggerisce un simbolico ritorno alle cose fondamentali, al passato che non è

dimenticato, alla fonte della nostra civiltà per tornare di nuovo alla vita. E non si può

vedere questo film senza pensare alla filosofia e a Platone con il suo concetto dell’”anima

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gemella” ma anche alla comune omosessualità a quell’epoca. Questo film offre una vera

concezione dell’Amore proprio attraverso i suoi simboli e riferimenti.

Così, i simboli e i temi principali sono strettamente collegati uno all’altro e ruotano intorno

al sogno, alla speranza, alla fede, agli angeli segreti che gentilmente si prendono cura di

noi, all’amore e a un’ottimistica visione della Vita. L’importanza dei colori è altamente

significativa: prevalentemente bianco e blu mettono l’accento su purezza, pace, amore e la

ricerca della Vita. La canzone che si ripete a ciclo “I have a dream” dà una struttura

circolare al film e lo inquadra e lo inserisce come parte del clima corrente e risuona di

accenti storici. Nel frattempo, tutto è cambiato, il tempo ha “ricostruito” il passato, riparato

le sofferenze e ha rimarginato le crepe fisiche e psicologiche.

Alla fine, in profondità, l’identità appare essere la questione veramente chiave. Chi siamo

dietro le apparenze e i nostri pregiudizi, quali sono i nostri reali desideri e voleri? Come

essere se stessi, differenti, peculiari, nelle complesse relazioni con gli altri? Il filo

conduttore del film riguarda lo scoprire se stessi, qualunque possa essere l’età o

l’esperienza. Piuttosto sistematicamente, ciascuna persona è l’opposto, il contrario di

quello che credeva di se stessa e di quello che mostra agli altri. Nell’essere chiusi su

un’isola, simboleggiato dall’essere “in macchina da presa”, ciascuna persona si rivela

attraverso una vera realizzazione: Harry (alias Colin Firth) scopre la sua omosessualità e

poi il perché sentiva qualcosa che prima non riusciva a spiegarsi; Rosie (alias Julie Walters) e Bill (alias Stellan Skarsgård) non sono persone indipendenti e solitarie ma

risultano essere “conservatrici”, persone che desiderano formare una coppia tradizionale;

Tanya (alias Christine Baranski), una donna mangiauomini, è nei fatti una “suora” che

sorride al prete; Sophie non vuole sposarsi subito, vuole solo conoscere se stessa e stare

con l’uomo che ama e, nonostante tutto, Donna e Sam si amano, e desiderano solo

sposarsi e trascorrere il resto della loro vita insieme. Alla fine, questa scoperta non può

essere formalmente trovata, come ha pensato Sophie quando ha pensato di trovare se

stessa nel trovare suo padre o sposandosi o come ha pensato il suo fidanzato Sky (alias

Dominic Cooper) che viveva solo per viaggiare prima di incontrarla. La liberazione è un

viaggio interiore, una realizzazione che può accadere solo grazie e per mezzo dell’amore:

solo l’amore, aiutato dalla speranza, dai sogni e dalla fede nella Vita, libera e dà pace.

Il film, nello stesso tempo fa una affermazione e dà una risposta: Donna è intrappolata e

rinchiusa nel suo risentimento e rancore nei confronti di Sam (alias Pierce Brosnan),

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l’uomo della sua vita, poiché non è stata in grado di accettare il modo in cui le cose sono

accadute in passato, e nasconde le sue sofferenze dietro alla sua così detta indipendenza

da un “uomo post-menopausa”. Sam era l’uomo della sua vita ma le cose sono capitate in

modo diverso da come se le aspettava. Questa è l’affermazione. E la risposta è la

seguente (come liberarsi dal passato): quando perdona Sam, non è più “cieca” e può

accettare la realtà che prima non riusciva a vedere: Sam è stato ed è ancora l’uomo della

sa vita e può ascoltarlo mentre lui le dice questa verità. Risentimento e rancore però le

impediscono di vedere i propri sbagli nella vita, dal momento che anche Sam è uno di

questi e la ragione per cui rinchiude dentro le mura la sua stessa figlia. Innegabilmente,

questa risposta è data dalla focalizzazione di apertura e di chiusura sul sogno. Quando

una persona è realmente se stessa, sa che cosa vuole, ciò di cui ha bisogno, ciò che è

buono per sé e deve seguire e inseguire il suo sogno: l’Amore! Sull’isola tutti trovano il

proprio io e si riuniscono tutti insieme in quello che ricorda Come Vi Piace di Shakespeare

che dichiara “Tutto il mondo è un palcoscenico / E tutti gli uomini e tutte le donne

semplicemente attori / hanno le loro uscite di scena e le loro entrate…”. L’identità

coinvolge l’io di fronte a se stesso – l’aspetto interiore – e l’altro con cui si interagisce (che

può essere l’amante, l’amico, i genitori). Inoltre alcuni elementi – come il viaggiare o i

valori – possono aiutare a costruire l’identità dal momento che l’identità è un processo di

infiniti cambiamenti.

Alla fine il passato è perdonato, la recuperata uguaglianza porta dignità e rispetto, e riporta

all’uomo, non più visto come “il vincitore (che) prende tutto”, ma più come un legittimo

marito. Questo va a mostrare che vale la pena aspettare e sperare, il tempo aiuta a

trovarlo di nuovo, a recuperare il tempo passato, e che nulla è impossibile quando c’è il

vero amore. Questo lieto fine sta per la riconciliazione dopo in periodo di biasimo. Quello

che importa è solo la speranza, l’amore e “avere un sogno”, cosa che è più che benvenuta

quarantacinque anni dopo il famoso discorso di Martin Luther King a cui si è ampiamente

fatto riferimento quest’anno per differenti ragioni. Conflitti interiori ed esteriori sono stati

superati e risolti.

Così, questo film vale la pena che sia inserito il più presto possibile fra i grandi film della

sua generazione e che veda il suo posto giustamente riconosciuto nella storia del cinema

per il suo contributo ad esso grazie a l’ottimismo che lo circonda che così caldamente

scalda il nostro cuore in questi travagliati e confusi tempi. “Mamma Mia!” trasmette ed è lo

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stato d’animo per il Ballo, la Felicità e la Speranza!

Note

[1] Traduzione dell’idea: sia un misto fra il riso e le lacrime tristi che il fatto di piangere a

forza di ridere.

Bios

Laëtitia Baltz è dottoranda in Scienze Politiche presso l’IEP di Bordeaux e presso il Centro

Studi sull’Africa Nera (CEAN). La tesi in corso è su I neri americani e il loro cinema:

rappresentazione e costruzione dei processi di identità negli Stati Uniti contemporanei.

Ha scritto articoli e saggi su Sens Public et Dissidences, Politique Africaine,

l’Encyclopedia of Blacks in European History and Culture (a cura di Eric Martone) e per il

Dictionary of American History (diretto da Gary Cross, Robert Maddox e William Pencak).

Recentemente ha pubblicato un articolo su Aminata Dramane Traoré nella rivista

camerunense Enjeux. Ha partecipato alla 56° et 59° edizione del Festival di Cannes. Ha

già scritto su «Ol3Media» (Marzo 2009) un saggio su I bambini delle minoranze nel

cinema americano contemporaneo: la rappresentazione di una presenza duplice e ricca.

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L’emergenza creativa di Nine: Canta che ti passa di Elisa Rampone

In principio sono state le storie d'amore alla Un americano a Parigi o West Side Story, poi le turbolenze dei grandi musical politici come Hair o Jesus Christ Superstar, negli

anni '80 le ambizioni di Fame e A Chorus Line e infine circa vent'anni di silenzio o di

scarsa attenzione tributata a un genere che è di recente tornato prepotentemente alla

ribalta. La chiave di tanto rinnovato successo va forse cercata nella contaminazione non

tanto fra generi – il musical si genera per sua natura da sempre alla confluenza di teatro e

cinema - quanto di soggetti. Archiviato almeno in parte il ricorso ai filoni schiettamente

identificati - quello sentimentale, politico, di ambientazione musicale – il musical si

reinventa sconfinando in territori finora esplorati solo marginalmente e dedicandosi a

soggetti con cui il genere non si è ancora misurato. La ricerca delle radici biologiche di una

promessa sposa (Mamma Mia! - 2008), il grido di riscatto di chi è grasso, nero e poco

cotonato in Hairspray. Grasso è bello (2007), la spirale spietata in cui è trascinata

l'operaia di Dancer in the Dark (2000), il desiderio di vendetta del barbiere gotico di Fleet

Street (Sweeney Tood, il barbiere di Fleet Street – 2007) sono le nuove piste che il

musical batte. Un accenno più esteso in questa rapidissima rassegna di titoli merita

Chicago, altro anello insieme a Nine, della collana musicale che Rob Marshall confeziona

per la macchina da presa. Piccolo gioiello di cinismo e surrealismo in un genere che tende

spesso ad essere piuttosto sdolcinato, il musical riprende la storia delle due assassine

lanciate nel mondo dello spettacolo dal loro stesso crimine e dalla spregiudicatezza di un

avvocato lungimirante. Costruita sullo scollamento fra realtà e sogno, la regia di Chicago è

sdoppiata e oppone allo squallore della vita noiosa e meschina le divagazioni oniriche dei

protagonisti. Fratello di Chicago nell'intento di far affiorare un altro mondo, un'altra vita

dietro quella manifesta e riconosciuta, Nine svelerà il dietro le quinte non di un’azione

criminosa, ma della crisi creativa di un regista alle prese con una memoria troppo

ingombra di ricordi – il primo oggetto del desiderio affatto oscuro, Saraghina, la

cattolicissima madre – e con un presente altrettanto affollato di donne.

Una breve escursione nella storia del musical può aiutare a spiegare perché Nine occupa

una posizione di rilievo nel musical moderno [1]. Negli anni '30 e ancor di più negli anni

'50, il musical collauda il copione della storia d'amore movimentata da imprevisti, equivoci

ed ostacoli e condita con spettacolari numeri canori e di danza. Si consolida rapidamente

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un genere vero e proprio dotato di una certa autonomia rispetto agli altri generi

cinematografici ed emancipato dalla tradizione del vaudeville da cui ha preso le mosse.

Tutto sembra filare liscio: il musical conosce un successo senza precedenti, attori-ballerini

come Fred Astaire e Gene Kelly diventano popolarissimi e si allestiscono a ciclo continuo

spettacoli in and off Broadway. Il fenomenale successo del film o dello spettacolo musicali

non rimangono però privi di conseguenze e il rovescio della medaglia che presto si

manifesta è un certo irrigidimento nello schema sempre uguale della commedia degli

equivoci dalla trama, certo aggiornata e sfrondata di alcune leziosità, ma pur sempre esile

e tendenzialmente stereotipata. D'altronde la Grande Depressione con i salari in caduta

libera e la disoccupazione a livelli vertiginosi, ha appena finito di funestare il popolo

americano che non può permettersi di andare al cinema per vedere la realtà. E allora, se

realtà non si vuole che sia, sia almeno finzione divertente e consolatoria, persino un po'

patinata se può servire allo scopo che, come già nella stagione buia della recessione,

anche negli anni difficili del dopoguerra è quello di distrarre ed intrattenere. Al cinema

perciò non si va per vedere riprodotta la triste matematica dei conti che non tornano alla

fine del mese, ma per la leggerezza dei passi di Fred Astaire e Ginger Rogers (Cappello a cilindro - 1935, Shall we dance – 1937) prima e per la consolazione dell'immancabile

lieto fine delle molte storie d'amore trasferite sul grande schermo (Sette spose per sette

fratelli - 1954) o per la dondolante camminata di Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde (1953) poi. Sono gli anni d'oro del musical confezionato secondo

un modello collaudato – la storia d'amore pasticciata, l'equivoco, il lieto fine -, gli anni della

quiete prima della tempesta. La tempesta arriverà nel decennio successivo e si chiamerà

rock'n'roll. L'avvento del rock con la sua carica violenta e polemica, che fruga negli istinti

senza edulcorarli, anzi elevandoli a materia per le rappresentazioni sul palco, segna l'inizio

di una nuova, prolifica stagione per il musical: irrimediabilmente distante dallo stile e dagli

intenti dei titoli del decennio precedente, il musical si prefigge ora di dare voce

all'inquietudine di una generazione in rivolta contro un mondo che si fonda su Dio, patria e

famiglia e tradisce tutti e tre mandando a morire soldati poco più che adolescenti. Nel

1968 con la rappresentazione di Hair, con i suoi figli dell'era dell'Acquario, i gioiosi pacifisti

che fanno coriandoli della chiamata alle armi, la diga delle convenzioni si rompe

definitivamente e sulla scena si riversano musical basati su soggetti da maneggiare con

cura: da Jesus Christ Superstar (1969) raccontato dal punto di vista di Giuda, The Rocky Horror Show del 1973, irriverente sfida en travesti alla pruderie americana, e Tommy (1969), privato della vista, dell'udito e della parola dalla crudeltà degli adulti. Deviano dalle

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produzioni artistiche impegnate e ispirate dalla e alla ribellione, musical come Grease

(1971), storia di un amore collegiale, e A Chorus Line (1975) e Fame (1980) che sbirciano

dietro le quinte degli allestimenti teatrali e inaugurano il filone dedicato all'educazione

sentimentale ed artistica di giovani talenti. Dopo la lezione di sudore e sacrificio impartita

agli allievi della School of Performing Arts di New York, il musical sembra tacere per

vent'anni, salvo esplodere poi negli anni 2000 con una serie di successi che fanno

pensare che il silenzio ventennale fosse in realtà una dovuta e feconda pausa di

riflessione. Che il musical abbia davvero e proficuamente riflettuto su se stesso, lo

dimostrano gli spunti offerti dai titoli già citati che si discostano da una visione tradizionale

del genere.

In questo panorama di generale rinnovamento delle tematiche, Nine sceglie un soggetto

inedito, raramente messo al centro della narrazione cinematografica e del musical in

particolare: l'impasse creativa, la deriva dell'estro di un regista che non trova più un

linguaggio capace di riordinare la sua intensissima vita emotiva ed artistica. Intendiamoci:

Rob Marshall non è Hugo von Hoffmannstahl che sente le parole disfarglisi in bocca

come funghi ammuffiti e si affligge per aver perso quello stato di grazia per il quale sogno

e realtà erano un'unità in modo indissolubile riflessa nel linguaggio. E non è neanche

Rilke che individua dietro alla crisi del linguaggio il dissolvimento della relazione fra l'uomo

e la realtà. Tuttavia, anche Marshall prova a declinare il concetto di crisi creativa e umana

secondo la sua interpretazione e ritrae la figura del regista di successo che, al culmine

della carriera, con un film in lavorazione e un paio di storie d'amore in piedi, assiste al

collasso della sua vita.

Nonostante Marshall si sia prontamente premurato di mettere le mani avanti negando di

aver mai voluto girare un remake del felliniano Otto e mezzo (1963), a molti il copione del

musical è sembrato scritto con la matita copiativa rispetto all’originale: i nomi e i ruoli delle

donne e del protagonista, la Roma degli anni ‘60, l’incaglio artistico da cui il protagonista si

deve liberare, l'interferenza del passato nel presente in forma di flashback... Ora, non è

questa la sede per indagare i debiti contratti ed eventualmente non pagati da Marshall nei

confronti del film di Fellini né per misurare la bontà o l'adeguatezza dell'eventuale

omaggio, ma di un debito Marshall non deve sicuramente farsi carico ed è quello relativo

alla motivazione della crisi. Se per il regista felliniano l’emergenza creativa si radica in un

esaurimento degli stimoli e delle idee, per il Contini di Marshall il problema è di segno

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esattamente contrario. Soffre di un eccessiva sensibilità agli stimoli sentimentali che lo

saturano, gli ingombrano gli occhi e la mente e che il regista non riesce a disciplinare.

Ecco, questo Contini non riesce a fare: trovare un centro aggregante alla sua narrazione

cinematografica e alla sua vita, contenere ed indirizzare lo straripamento di emozioni

perché queste appaghino e non affliggano. Contini commette la colpa grave di essere

miope e di vivere conseguentemente alla sua miopia: incapace di guardare lontano,

incapace di rinunciare, di selezionare, di sacrificare un sentimento contigente in nome di

uno trasversale agli anni che passano, turbina da un desiderio all'altro, da una passione

ad un'altra apparentemente più grande. È contemporaneamente il bambino che assiste

emozionato alla rumba sgangherata di Saraghina sulla spiaggia e il regista corteggiato

durante le molte interviste, è l'uomo che canta di non riuscire a svegliarsi, ma anche di non

poter andare a dormire e di saper a stento aspettare il mattino e che canta sul palco da

solo immaginando però un coro di voci che lo osannano (I would like to have another me

to travel along with myself. I would even like to be able to sing a duet with myself in

Guido's Song).

Ora che il re si vede finalmente nudo, anzi si dichiara apertamente, senza remore nudo,

scopre che altri prima di lui lo hanno visto nudo. E anche fragile, perso nella confusione, in

precario equilibrio fra legittime ambizioni e una frustrante insoddisfazione che è ricaduta a

cascata su chi ha intorno: la moglie evanescente, stanca della vita condotta all'ombra di

un uomo che raramente va a dormire con lei (Some retire early when they've seen the

evening news, my husband only rarely comes to bed, my husband makes movies instead

in My husband makes movies), Carla l'amante polposa che stuzzica il suo senso paterno

mostrandosi vulnerabile (A Call from the Vatican), e soprattutto l'attrice feticcio che più di

tutte gratifica la sua vanità (You can´t tell what it´s like to be me looking at you in Unusual way).

Nel finale, che Marshall vuole consolatorio e ben lontano dallo spirito comunitario del

girotondo conclusivo immaginato da Fellini, Contini prende finalmente atto della necessità

di governare il caos che lo comprime, sfrondando la sua vita dall'inquietudine della

perenne ricerca, dall'ambizione di ottenere tutto e tornando a fare quello che meglio sa

fare, perlustrare i cuori e raccontarne i segreti attraverso le immagini.

Sullo sfondo del conflitto di Contini, Marshall affresca l'Italia degli anni '60 come la

immaginano gli americani [2] e come l’avrebbero voluta gli italiani: passionale, canterina,

alla scoperta di un erotismo da reggicalze, spensierata, forse un po' bigotta e provinciale,

ma mossa da un ardore che fa cantare alla Saraghina di Marshall: Be Italian.

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Note

[1] Per una storia del musical più esaustiva e che tenga conto dei variegati contributi da

cui il genere è stato alimentato, si può consultare: G.Lucci, Musical, Mondadori Electa,

Milano 2006.

[2] Fabio Ferzetti de «Il Messaggero» osserva giustamente che Marshall inserisce due

canzoni di Murolo che, per quanto struggenti ed adeguate al momento scenico, non

evocano né Fellini né la tipica atmosfera degli anni '60. Ecco la recensione completa: "Per

essere un film su Fellini, Nine non è molto felliniano, il che potrebbe essere un

complimento se solo fosse qualcos'altro. Per essere un musical sui nostri ruggenti anni

‘60, spider, occhiali da sole, eleganza, confusione, cardinali, e naturalmente Cinema, è

avaro di grandi canzoni d'epoca (solo Ventiquattromila baci, Quando quando quando e

due gemme di Murolo che nessun italiano accosterebbe mai al genio riminese!). Per

essere un film sulle donne e l'immaginario di Fellini, infine, è insieme un po' troppo

esplicito - l'erotismo anni ‘60 era decisamente più sottile - e intriso di peccato. Il peccato

dei protestanti però, che è diverso dal nostro. Il Contini/Fellini di Daniel Day-Lewis si

danna perché non trova l'ispirazione e per la goffaggine con cui tradisce Marion Cotillard

con Penélope Cruz. Ma a parte qualche numero, come quello iniziale di Day-Lewis, il

colloquio 'acquatico' col cardinale (un irriconoscibile, bravissimo Remo Remotti) e il

confronto finale con la moglie, Nine cerca invano un centro, artistico e musicale. Con veri

tonfi, come quella Saraghina taglia 48. Bello il numero di Kate Hudson, che traduce il mito

di Fellini in puro consumo. Era quella la chiave giusta. Ma ci voleva ben altro coraggio"

(Fabio Ferzetti, 22 gennaio 2010).

Bios Elisa Rampone, dopo la laurea in Letteratura Tedesca, ha conseguito un Ph.D. in

Letterature Comparate con una tesi dedicata alla ricezione degli spunti fantastici della

librettistica tedesca nella letteratura operistica italiana di fine ottocento (Il fantastico nel

teatro musicale italiano di fine Ottocento. Influenze e contaminazioni europee).

Ha collaborato con la rivista mensile Thesis con un saggio su Jean-Luc Godard

(Intermedialità nel cinema di Godard) e con la rivista Satura con un saggio sull’uso di

elementi soprannaturali nella librettistica ottocentesca in Italia (Il fantastico nel teatro

musicale italiano di fine Ottocento).

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“Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”. La Commedia in palcoscenico: Un adattamento per il pubblico del XXI secolo di Carmelo A.Galati

Introduzione Nell’Inferno V, Francesca da Rimini dice con enfasi al pellegrino Dante che sia il libro che

l’autore sono entrambi colpevoli del ‘mal perverso’ suo e di Paolo che ha portato alla loro

morte e dannazione eterna. Tuttavia, ulteriori ricerche rivelano come l’incriminazione

dell’autore e del testo stesso di Lancillotto e Ginevra sia una lettura sbagliata da parte di

Francesca. Secondo Franco Masciandaro il tentativo di ricreare il bacio adultero “ha

portato a… sterilità e morte” e “la imitatio, con la sua potenziale creatività, è stata

adulterata” [1]. La critica di Masciandaro, oltre all’antipatia di Francesca per l’autore, fa eco

alle prime critiche della teoria dell’adattamento.

L’adattamento, pur considerato di detrimento alla letteratura, non può funzionare senza di

essa. Perciò, il processo di adattamento è parassitico per sua natura. Eppure,

l’adattamento è anche in grado di produrre testi nuovi modificando ed estendendo il lavoro

originale. In questo modo, il recettore o lettore dell’ipertesto sarà impegnato in un gioco di

similarità e differenze con l’adattatore. Sono queste specifiche differenze che aiuteranno il

lettore a considerare l’ipertesto come un nuovo testo.

Il termine ipertesto deriva dalle cinque classificazioni di transtestualità di Gérard Genette. Secondo Genette, la transtestualità deve essere utilizzata quando ci si riferisce a “tutto

quello che pone un testo in relazione… ad altri testi” [2]. Secondo Robert Stam, il termine

ipertestualità è il modo più suggestivo di transtestualità di quella indicata da Genette dal

momento che “si riferisce alla relazione fra un testo, … ‘l’ipertesto’, e un testo interiore o

‘ipotesto’” [3].

Nel novembre del 2007 Monsignor Marco Frisina ha debuttato con la sua interpretazione

del sacro poema di Dante con quello che la compagnia di produzione NOVA ARS e i critici

hanno lodato come “Il primo colossal teatrale”, La Divina Commedia: L’uomo che

cerca l’Amore. Suddivisa in due parti, l’opera adatta l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso di

Dante accompagnando il pubblico in un viaggio musicale nell’oltre mondo dantesco.

Contrariamente alle dichiarazioni dei produttori secondo cui quello di Frisina è il primo

kolossal teatrale della Commedia, precedenti ricerche sulla ricezione di Dante nelle arti

teatrali e cinematografiche dimostrano che la rappresentazione di Frisina non è la prima

produzione del suo genere, né sarà l’ultima. Tuttavia, diversamente da quelle che l’hanno

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preceduta, è stato l’adattamento più costoso, secondo soltanto alla produzione

cinematografica del 1911 da parte della Milano Films, Inferno.

Il musical di Frisina, o ipertesto, è un adattamento transtestuale della Commedia di

Dante. Oltre alla transtestualità del testo però, la produzione incorpora adattamenti sia

cinematografici che teatrali, il che dimostra la lucrativa carriera di Dante nelle arti culturali.

Ciò è evidente nel prologo dell’opera, che mette insieme una moltitudine di testi

cinematografici e teatrali per raccontare la caduta di Lucifero. Il prologo include infatti il

balletto di Ashton tratto da Dante Sonata, l’Inferno del 1911 e delle illustrazioni del XIX

secolo di Gustave Dorè come sfondi scenici. Roland Barthes ha dichiarato che ogni testo

è in se stesso un testo interiore. Se applicata allo spettacolo di Frisina, questa

affermazione significa che il destinatario del musical vede Dante attraverso lenti multiple:

Frisina, Ashton, Padovan, Dorè, Dante.

L’obiettivo di questo articolo è di analizzare il rapporto fra la Commedia di Dante e la

rappresentazione trastestuale di Marco Frisina. Oltre ad essere un esempio del processo

di metamorfosi dell’adattamento, così come a dimostrare la tendenza della producerly

quality del testo dantesco, il nuovo adattamento teatrale del poema medievale si è liberato

delle visioni anticlericali del poeta. Dedicato a Papa Benedetto XVI e sponsorizzato dal

Vaticano, il musical di Frisina non rappresenta più Dante come “lo scrittore italiano contro

il papa” (come era considerato nell’Inghilterra del XVI secolo, come dimostrato da Nicholas

Haveley), ma presenta il poeta e il suo lavoro come un exemplum dell’Amore eterno di Dio

e della Salvezza.

Lo spettacolo Lo spettacolo ha debuttato a Tor Vergata a Roma nel 2007 con un budget di cinque milioni

di euro. La troupe teatrale consisteva di ventiquattro attori e cantanti, ventiquattro ballerini,

dieci acrobati e venti comparse.

Duecento tecnici e un’orchestra di cento elementi sono stati inoltre impiegati. Sono stati

confezionati anche cinquecento costumi da mille euro ciascuno. Inoltre, un nuovo teatro è

stato costruito per ospitare il colossal di Frisina, il Teatro Divina Commedia. Gli attori

recitano su un palco che misura ventiquattro metri quadri al cui centro è posta una sezione

circolare rotante che misura da sola diciotto metri di diametro. Dietro il palco è posto un

enorme schermo per proiettare immagini video tridimensionali durante i cinquecento

cambi di scena. La sponsorizzazione per lo spettacolo è stata fornita dalla Società Dante

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Alighieri, dalla Camera dei Deputati, dal Senato della Repubblica, dai Ministeri degli Esteri

e dell’Istruzione, dalle Regioni Lazio e Toscana, dal Comune e dalla Provincia di Roma,

dal Comune e dalla Provincia di Firenze, dal Pontificio Consiglio della Cultura, dalla

Conferenza Episcopale Italiana e dal Vicariato di Roma.

Il nuovo pubblico italiano

Quando Walter Veltroni è venuto a conoscenza per la prima volta dell’intenzione di

Frisina di portare la Commedia di Dante sul palco, l’allora sindaco di Roma ha dichiarato:

“La sua idea mi è sembrata un grande sogno”, [4] facendo eco ai sentimenti di Frisina

stesso nei confronti del proprio ambizioso progetto: “Una follia. Lo pensavo già nel

momento in cui l’idea ha cominciato a nascere nella mia mente. Lo dicevo tra me e me, è

una cosa troppo grande” [5]. Secondo Veltroni, l’idea che sembrava essere solo un sogno

una volta realizzata avrebbe evocato qualcosa di nuovo per il pubblico italiano. Veltroni

continua la sua lode al musical di Frisina, affermando che La Divina Commedia: L’uomo

che cerca l’Amore “è una cosa nuova” e anche solo per questa ragione augura alla

produzione un “in bocca al lupo”, e specificatamente perché:

Siamo un Paese che ha paura dei sogni che si realizzano e delle cose nuove. Il pubblico

italiano è molto migliore di come viene rappresentato. C’è una grande domanda di

cultura. Dobbiamo avere fiducia in questo, soprattutto nei ragazzi. Dobbiamo rispettare,

incoraggiare e onorare questa domanda [6].

Rispetto a quanto affermato da Cesare Levi negli anni Venti, il pubblico italiano di Veltroni

è cambiato, affrontando l’argomento che la Commedia di Dante è appropriata a un

pubblico italiano che non è più “imbecille” ma che esige una produzione di cultura

popolare di massa per le persone colte.

Teatralità della Commedia Nel XIX secolo, le performance basate sulla Commedia o sulla schiera dei famigerati

personaggi dell’opera, incluso Dante, sia pellegrino che poeta, sono state considerate alla

moda per il palcoscenico [7]. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che la Commedia,

come ha affermato Antonella Braida, “è una riserva di ruoli per gli attori” [8]. L’articolo,

“Dante on the 19th Century Stage” (Dante sul palcoscenico del XIX secolo) di Richard

Cooper dimostra il potere allettante che il poema ha esercitato sugli attori di teatro durante

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il periodo post-rinascimentale.

Nel maggio del 1865, Enrico Pazzi ha svelato il suo monumento del poeta medievale a

Firenze di fronte a Santa Croce, sia per mostrare l’appropriazione di Dante come eroe

nazionale dello Stato italiano unito da poco sia per celebrare il seicentenario dalla nascita

[9]. Cooper narra come tre dei più grandi attori teatrali italiani abbiano recitato

gratuitamente scene specifiche dalla Commedia all’inaugurazione del monumento [10].

Fra loro, l’attore Gustavo Modena ha interpretato l’Inferno, XIX, XXI, XXII, e il Purgatorio,

IV [11]. Modena ha usato Dante come strumento politico per mettere in mostra il ruolo del

poeta come eroe italiano nazionale. Altri adattamenti del poema, tuttavia, non sono stati

considerati rilevanti dai critici. Per alcuni, come Cesare Levi, Dante era stato “adulterato”

dagli attori o dai drammaturghi. Che cosa ha portato a questa adulterazione, o

“stupefacente mediocrità” [12] di quella che è considerata essere una delle più grandi

opere di letteratura al mondo?

“Stupefacente mediocrità” è una citazione attribuita al critico Cesare Levi che nel 1920 ha

criticato le rappresentazioni di Dante e del suo lavoro in numerosi numeri del Marzocco.

Secondo Levi, le rappresentazioni di Dante per un pubblico che considerava “imbecille”

sarebbero state più dannose al poeta di “tutte le sventure che sono accadute a Dante nel

corso della sua vita” [13]. Levi continua la sua dura critica parlando della ricezione di

Dante sul palcoscenico. L’attore che interpreta il ruolo del poeta non lo ritrae come l’eroe

romantico rappresentato da Pazzi, ma piuttosto come una rappresentazione comica di un

uomo vestito con indumenti in stile trecentesco e un “finto naso dantesco” [14].

Il musical di Frisina condivide un elemento comune alle rappresentazioni della Commedia

messe in scena nel XIX secolo, e cioè rende omaggio a Dante come eroe italiano

nazionale. Il giornalista Virgilio Celletti del giornale Vaticano «Avvenire» ha alluso alla

presenza di Dante Alighieri alla prima del musical di Frisina dichiarando: “C’era anche

Dante all’affollata presentazione dell’opera sulla Divina Commedia di monsignor Marco

Frisina. Era lì con una certa freddezza: ma solo perché il suo, … era un impassibile

mezzobusto di marmo” [15]. La presenza di Dante in forma monumentale è reminiscente

delle prime rappresentazioni delle Dantate [letture dei Canti della Divina Commedia da

parte di attori vestiti come Dante, ndt] che avevano avuto luogo di fronte a Santa Croce

nel 1865 per celebrare il seicentenario della nascita del poeta. Sebbene il teatro sia pieno

di proprie superstizioni culturali, la statua di Dante presente al musical di Frisina è più di

una tradizione ritualistica delle rappresentazioni di Dante: è anche un riconoscimento di

Dante come eroe nazionale per il nuovo pubblico italiano di Veltroni. Un esempio a

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supporto di questa argomentazione è esemplificato dai requisiti richiesti dai produttori per

l’attore che avrebbe vestito il ruolo del poeta medievale.

Secondo i produttori, l’attore sarebbe dovuto essere italiano con specifici prerequisiti.

Diversamente dalla descrizione di Levi di un attore vestito in modo Trecentesco e con un

naso dantesco, il Dante di Frisina doveva avere una forte presenza scenica, una forte

abilità vocale e possedere un fisico atletico. Il Dante di Frisina non doveva più essere il

mite pellegrino che vagava nella selva oscura, ma piuttosto una figura dalle idealistiche

qualità nazionali. Il fiorentino Vittorio Matteucci è stato scelto in fine per interpretare il ruolo

di Dante poiché aveva ricevuto grande acclamazione per il suo ruolo del Giudice Frollo

nell’adattamento teatrale di Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante, così come per il

suo ruolo da protagonista nella versione musicale del Dracula di Bram Stoker in Dracula

2000. Anche il costume indossato da Matteucci è rappresentativo di Dante come un uomo

comune. Il Dante di Frisina non indossa più una corona d’alloro, ma ha la barba, capelli

lunghi fino alle spalle, e indossa un abbigliamento moderno. Solo all’entrata nell’inferno

Dante indossa la romanticizzata tunica rossa che gli viene data da Virgilio. Dal momento

che richiede specifiche caratteristiche per il teatro, l’adattamento della Commedia di Dante

ha già subito una metamorfosi, andando contro le dichiarazioni fatte da Frisina e dal

regista del musical Daniele Falleri.

Infedelmente divino Nell’adattare la Commedia di Dante per il palcoscenico, Frisina è stato molto categorico

nelle sue dichiarazioni di fedeltà al testo di Dante. In un’intervista con Il Giornale, Frisina

dichiara alla giornalista Francesca Scapinelli: “Ho cercato di rispettare il più possibile il

capolavoro di Dante […] I testi sono infatti originali, solo per alcuni brani è stato necessario

un adattamento. […] Grazie alla musica ho potuto seguire lo stesso impianto del poema”

[16].

Secondo Frisina, la musica, è stata ciò che gli ha consentito di restare fedele alla

Commedia di Dante, perché è un mezzo per esprimere l’inimmaginabile della visione del

poeta a un pubblico contemporaneo. Frisina sostiene che la musica “è un potere astratto,

molto forte, evocativo. La musica suggerisce delle immagini, le immagini che noi

vediamo, ne suggeriscono altre” [17]. La spiegazione che Frisina dà del potere suggestivo

della musica sui suoi ascoltatori è strettamente imparentata con l’uso della musica che fa

Dante stesso all’interno della Commedia. Impossibilitato a esprimere la sua visione del

viaggio paradisiaco, Dante utilizza la musica, la canzone e il ballo per dare al lettore-

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ascoltatore la capacità di immaginare l’inimmaginabile.

La Divina Commedia: L’uomo che cerca l’Amore di Frisina non è stato lanciato sul

mercato solo come il primo kolossal teatrale, ma anche come “lo spettacolare viaggio in

musica dall’inferno al paradiso”. Frisina ha riscritto la Commedia di Dante attraverso la

musica. Sebbene il compositore dichiari di essere rimasto fedele al testo medievale, un

adattamento musicale rende la fedeltà praticamente impossibile. L’adattamento di Frisina

ha alterato l’ipotesto a causa del cambiamento di medium dal testo letterario alla

rappresentazione teatrale.

Autorità teologica

L’adattamento teatrale di Marco Frisina della Commedia di Dante si ispira a due testi

modello: l’enciclica Deus Caritas Est di Benedetto XVI, e il Canto XVII del Purgatorio, in

cui viene data la spiegazione dell’amore di Virgilio nella cornice degli accidiosi. In tal modo

la lettura Dantesca di Frisina non è singolare, poiché la sua fonte d’ispirazione non è più

soltanto la Commedia, e in special modo il Purgatorio XVII che pervade tutto il primo atto

ma anche il testo del Papa.

Frisina continua a descrivere come ha letto la Commedia di Dante per adattarla al

palcoscenico:

Cercavo, delle tante letture possibili della Commedia, di trovare quella più sintetica, più

semplice, più lineare. Il Papa, Benedetto XVI, proprio presentando la “Deus Caritas Est”

allude proprio a Dante, e a questo uomo che cercando l’Amore compie questo grande

viaggio. E l’Amore è la chiave universale, lo dice Dante, lo dice S. Tommaso, e l’ha detto

anche Papa Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, e mi pareva questo veramente una

possibilità concreta, e una specie d’incoraggiamento [18].

A causa delle concezioni contemporanee della religione e in particolare della nozione di

Dio, secondo cui il Suo nome è “qualche volta associato alla vendetta e anche un dovere

all’odio e alla violenza” [19], papa Benedetto XVI detta la sua prima enciclica come leader

della Chiesa Romano Cattolica per parlare a tutta la società dell’amore di Dio. Papa

Benedetto XVI suggerisce, “Oggi, il termine ‘amore’ è diventato una delle parole usate con

più frequenza e nel modo sbagliato, una parola a cui attribuiamo significati piuttosto

diversi” [20]. L’enciclica discute due differenti modalità d’amore, eros e agape; la prima

spesso associata all’amore fisico, mentre la seconda all’amore che si sacrifica.

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Come suggerito da papa Benedetto, l’amore è un viaggio di auto-scoperta che culmina

nella scoperta del Divino. È questo il tipo di viaggio in cui si imbarca il Dante di Frisina per

poter rinascere. Nell’Atto Primo, prima di passare attraverso i cancelli dell’Inferno, il Dante

dell’ipertesto esita e si rivolge a Virgilio a proposito dell’iscrizione sul Cancello di “Lasciate

ogni speranza voi ch’entrate.” [21] Il Virgilio di Frisina ricorda a Dante che quelle parole

non lo riguardano in quel momento, perché lui, diversamente dagli altri, è vivo. Dante

replica, “No, sono morto dentro”. La scena continua con la risposta di Virgilio che sarà

l’Amore a essere la sua speranza.

In Deus Caritas Est le allusioni alla Commedia di Dante derivano dal Canto XVII del

Purgatorio, il momento topico del poema in cui Dante discute il tema dell’amore. Come

spiega Virgilio, le anime degli accidiosi sono poste nella quarta cornice a causa delle loro

scelte d’amore. Sebbene il loro amore fosse destinato a un bene maggiore, come dichiara

il verso 85, non era tuttavia diretto alla sua propria destinazione, poiché l’Amore deve

essere “nel primo ben diretto.”

L’argomentazione di Virgilio comincia identificando due distinte forme d’amore: l’amore

naturale e l’amore elettivo: l’amore della mente. L’amore naturale è considerato infallibile,

mentre l’amore elettivo può condurre ad una errata direzione dell’uomo se non si è attenti.

Secondo Virgilio, l’amore elettivo va bene fintanto che è diretto verso Dio, “ma quando al

mal si torce, o con più cura / o co men che non dee corre nel bene, / contra ‘l Fattore

adovra sua fattura” [22].

La divisione dell’amore da parte di Virgilio in due separate entità, rispecchia la distinzione

fatta da papa Benedetto XVI sull’amore in Deus Caritas Est, dove l’amore naturale è visto

come agape e l’amore elettivo, per il suo potere di errare e portare l’uomo a smarrirsi, è

relazionabile all’eros.

Sebbene il nome di Dante non sia mai menzionato nella prima enciclica, durante il

Concilio Pontificio “Cor Unum”, Benedetto XVI si rivolge all’assemblea dichiarando che la

Commedia di Dante è stata significativa per la sua definizione dell’amore.

L’Atto Primo dell’opera di Frisina comincia con l’ouverture che descrive la creazione

dell’Inferno, la caduta di Lucifero e la sua sconfitta da parte dell’arcangelo Michele. La

descrizione teatrale di Frisina della grande caduta è in se stessa una schiera di riferimenti

transtestuali che derivano dal Nuovo Testamento, dalla descrizione di Dante stesso nel

Canto XII del Purgatorio, e del Canto XIX del Paradiso, da Il Paradiso Perduto di Milton, e

dallo spettacolo di danza Dante Sonata di Frederick Ashton.

Nel Canto XII del Purgatorio, mentre prosegue il viaggio dalla prima cornice della

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Montagna, Dante parla delle immagini intagliate nelle rocce che vede davanti a sé e che

esemplificano i peccati dell’orgoglio. Fra queste immagini Dante dichiara di aver visto,

“colui che fu nobil creato / più ch’altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender da

un lato” [23]. Nel Canto XIX del Paradiso, il poeta allude ancora una volta alla caduta di

Satana, “E ciò fa certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogni creatura, / per non

aspettar lume, cadde acerbo” [24]. I riferimenti di Dante alla caduta di Lucifero nel

Purgatorio e nel Paradiso derivano dalla Bibbia. In Luca 10:18, Cristo dichiara di aver visto

“Satana cadere come fulmine dal cielo”. Come è evidente qui, le parole di Cristo sono

richiamate da Dante nel verso 26 del Purgatorio, Canto XIX. Il secondo riferimento biblico

è dall’Apocalisse, 12:7-12:9:

Allora avvenne una guerra nel cielo. Michele e i suoi Angeli combattevano contro il

dragone. Il dragone e i suoi angeli ingaggiarono battaglia, ma non poterono prevalere e

nel cielo non vi fu più posto per loro. E il gran dragone fu precipitato, l’antico serpente, che

si chiamava diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero; fu precipitato sulla terra, e i

suoi angeli furono precipitati con lui.

L’ouverture di Frisina, specificatamente la danza degli angeli di Dio contro Satana e i suoi

demoni, è in se stessa un adattamento intertestuale non solo della Commedia di Dante

ma ricorda anche il balletto Dante Sonata di Frederick Ashton, che è a sua volta un

adattamento della sonata per pianoforte di Franz Liszt, Après une lecture de Dante. Secondo Antonella Braida, “la musica e il balletto sono un’importante dimensione del

trattamento teatrale di Dante” [25].

Come il balletto di Ashton, l’apertura di Frisina “Lotta in cielo” non racconta nessuna storia

che richiami alla Commedia di Dante. Invece, si presenta come un balletto, e non viene

pronunciata parola. La storia della caduta di Satana è raccontata attraverso la danza che

comincia in Cielo, con gli angeli che danzano al tema strumentale principale della partitura

di Frisina, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”. Il tema principale di Frisina richiama

alla memoria le ampie colonne sonore dei film epici di Hollywood. Tuttavia, passati tre

minuti e sei secondi, la musica all’improvviso cambia, acquisendo toni più cupi ed

emergono strumenti più fragorosi che introducono gli angeli oscuri e ricreano la battaglia

fra il bene e il male.

Dopo che Satana è sconfitto, l’Inferno è visto attraverso la creazione della selva oscura. È

la battaglia degli angeli buoni e cattivi di Frisina, raccontata attraverso il balletto, a

richiamare la Dante Sonata di Ashton. Anche qui, si trova la rappresentazione del bene

contro il male nei figli della luce e dei figli delle tenebre di Ashton. Janet Everson, nel suo

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studio del balletto di Ashton ne fa una dettagliata analisi. Secondo la Everson, Dante

Sonata non va considerato “un balletto convenzionale in senso classico” [26] perché i

movimenti dei ballerini consistono nell’uso della sola parte superiore del corpo, e nel fatto

che le ballerine “portano i capelli lunghi e sciolti e Ashton usa i capelli come parte del

vocabolario del movimento – si rivoltano e girano mentre le teste e i corpi si muovono”

[27]. Nella produzione di Frisina gli angeli differiscono leggermente nei costumi da quelli

dei figli della luce e delle tenebre di Ashton. Nel musical di Frisina i volti e le teste dei

ballerini sono coperti. Ma gli angeli nella Divina Commedia: L’uomo che cerca l’Amore,

hanno lunghi fili di nappa che fungono da ali sulle braccia. Grazie alla stoffa delle ali,

quando le braccia dei ballerini si muovono, anche loro creano un effetto del vocabolario

del movimento. Naturalmente il movimento è centrale nell’opera di Dante, poiché

specialmente nell’Inferno, esso trasmette “il senso dell’angoscia senza speranza,

movimenti turbinanti ma senza senso, paura, auto-tormento e disperazione” [28].

Sebbene la caduta di Lucifero sia solo menzionata di passaggio nell’intera Commedia,

Frisina la rende il punto di partenza del suo spettacolo. In modo simile a Dante stesso,

Frisina comincia dal vero e proprio Inizio. Come ha detto Robert Hollander: “Non sarebbe

da Dante non cominciare dall’Inizio” [29]. Eppure, se il tema centrale sottostante al musical

di Frisina è l’Amore allora perché cominciare con la caduta di Lucifero? Cosa più

importante, come può il prologo riflettersi sulle parole di Virgilio a Dante nel Purgatorio,

Canto XVII?

Nel Purgatorio, XVII, 94, Virgilio spiega la differenza fra i due tipi di amore, quello di tipo

naturale e quello di tipo elettivo. Secondo la tradizione teologica, che deriva da Agostino,

mentre tutte le creazioni di Dio sono naturalmente fatte per amare, solo agli esseri umani

e agli angeli sono stati dati entrambi i tipi d’amore [30]. Robert Martinez spiega che

secondo Agostino “il momento della scelta degli angeli è stato nell’istante della loro

creazione” [31], all’inizio. Con la perdita della grazia di Lucifero, e la sua scelta di dirottare

l’amore dal Bene verso l’orgoglio, presenta al pubblico di Frisina il primo esempio di amore

mal indirizzato.

Mentre istruisce Dante sui due tipi d’amore, Virgilio continua la sua argomentazione

creando una suddivisione dei vari tipi di amore elettivo andati a mal fine: l’amore distorto,

difettoso ed eccessivo. Poi spiega al pellegrino come ciascuno di questi tipi d’amore,

“confusamente un bene apprende/nel qual si queti l’animo, e disira;/per che di giunger lui

ciascun contende” [32]. Il primo atto di Frisina segue una simile foggia culminando nella

scena finale dove le anime infernali che Dante ha incontrato nel viaggio ri-raccontano la

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loro fatidica debolezza di amore mal indirizzato. Come evidenziato nella scena finale di

Frisina, i personaggi che Dante incontra nell’Inferno dimostrano le conseguenze

dell’amore elettivo mal indirizzato. È solo attraverso l’agape, come arguito da papa

Benedetto XVI, che Dante al pari dell’uomo può raggiungere i cieli ed essere in grado di

vedere di nuovo le stelle.

La scena finale del primo atto è interpretata da tutti i personaggi principali. La regia è

rappresentata in maniera gerarchica: Beatrice è posta in alto sopra il palco in Paradiso.

Dante e Virgilio, che hanno raggiunto la riva del Purgatorio, sono posti nel mezzo e sotto

di loro, nell’Inferno, ci sono Paolo e Francesca, Pier delle Vigne, Ulisse, e Ugolino.

La performance di gruppo che conclude il primo atto richiede che tutti i personaggi cantino

la propria parte simultaneamente. Il verso finale, Canto XXXIII del Paradiso, introduce la

performance ed è introdotta da Beatrice. Il tema centrale è presentato dai contrastanti

amori (elettivo e naturale); il primo è rappresentato da Francesca, Pier, Ulisse e Ugolino, e

il secondo da Beatrice, Dante e Virgilio. L’amore di cui canta Dante è ora collegato alla

luce di cui era in cerca all’inizio del musical. L’amore sarà le ali liberatorie che lo

condurranno verso i cieli del Paradiso. È interessante notare che mentre Virgilio è incluso

nel trio di coloro che rappresentano l’amore naturale, c’è ancora una chiara distinzione

che separa la sua anima dannata da quella del pellegrino. Questa distinzione è marcata

dall’uso dell’articolo determinativo e indeterminativo che introduce il sostantivo cielo. Per

Virgilio, l’amore guida lui e il pellegrino verso il cielo, mentre per Dante lo guiderà verso il

Paradiso Cristiano. La canzone che funge da sinossi per il primo atto, porta ancora una

volta sul palco i famigerati personaggi dell’Inferno, Canti V, XIII, XXVI e XXXII.

Originariamente rappresentata da Dante stesso, la Commedia, nei suoi adattamenti

cinematografici e teatrali, oltre alla scena finale del primo atto di Frisina, continua a portare

il pubblico del nuovo millennio alle stelle.

Note [1] F.Masciandaro, Dante as Dramatist: The Myth of the Earthly Paradise and the Tragic

Vision in the Divine Comedy, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1991, p.102

[2] R.Stam, “Beyond Fidelity: The Dialogics of Adaptation”, in J.Naremore (a cura di), Film

Adaptation, Rutgers, Brunswick NJ 2000

[3] Ibidem, p.66

[4] “Da poema a opera rock” Intervista a Walter Veltroni in «L’Epolis» del 23 Settembre

2007

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[5] Intervista a Marco Frisina in «AGI News» del 20 Settembre 2007

[6] Intervista a Walter Veltroni in «Omniromacultura» del 20 settembre 2007

[7] A.Braida e L.Calè (a cura di), Dante on View: The Reception of Dante in the Visual and

Performing Arts, Ashgate, Hampshire, 2007, p.7

[8] Ibidem, p.8

[9] R.Cooper, “Dante on the Nineteenth Century Stage” in A.Braida e L.Calè (a cura di),

cit., p.

[10] Ibidem, p.23

[11] Ibidem, p.24

[12] Ivi

[13] Ibidem, p.25

[14] Ivi

[15] V.Celletti, “Con la musica porto Dante a noi e in Paradiso”in «Avvenire» del 21

Settembre 2007

[16] M.Frisina, “Il viaggio di Dante tra musica e danza” in «Il Giornale» del 21 settembre

2007

[17] M.Frisina, Retroscena 2000 Dicembre 2007

[18] Ibidem

[19] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2005, p.11

[20] Ibidem, p.22

[21] D.Alighieri, The Divine Comedy of Dante Alighieri: Inferno (traduzione di Robert

Durling), Oxford University Press, New York 1997, p.9

[22] D.Alighieri, The Divine Comedy of Dante Alighieri: Purgatorio (traduzione di Robert

Durling), Oxford University Press, New York 2003, p.100-102

[23] Ibidem, p.25-27

[24] D.Alighieri, The Divine Comedy of Dante Alighieri: Paradiso (traduzione Allen

Mandelbaum), Bantam Books, New York 1984, p.46-48

[25] A.Braida e L.Calè (a cura di), p.8

[26] J.Everson, “From Dante to Dante Sonata” in A.Braida e L.Calè (a cura di), cit., p.55

[27] Ibidem, p.55.

[28] Ibidem, p.63.

[29] R.Hollander in F.Masciandaro, cit., p.5

[30] Vedi note a D.Alighieri, The Divine Comedy of Dante Alighieri: Purgatorio, cit., p.287

[31] Ivi

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[32] D.Alighieri, The Divine Comedy of Dante Alighieri: Purgatorio, cit., p.127-129

Bios Carmelo A. Galati sta al momento lavorando alla sua tesi di dottorato che si focalizza

sull’adattamento e l’appropriazione della Divina Commedia nelle arti cinematografiche,

teatrali e tecnologiche. Galati si è laureato dall’Università di Pittsburgh nel 2003 dove ha

completato i suoi studi in Letteratura Italiana e Inglese. Nel 2006, ha completato il Master

in Letteratura Italiana a Rutgers, The State University of New Jersey, dove sta

concludendo un dottorato in Letteratura Italiana. Sebbene il suo campo di specializzazione

siano gli studi Medievali e Rinascimentali, Galati è anche interessato alla letteratura

siciliana, agli studi su Pirandello, e agli studi Italo-Americani. Dal 2007 insegna anche

Lingua e Letteratura Italiana a Temple University a Philadelphia, Pennsylvania (USA).

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Scrubs: il musical sotto i ferri di Anna Viola Sborgi

Genere relativamente trascurato negli anni Novanta, il musical è stato riscoperto, nel corso

dell’ultimo decennio, dal pubblico e dalla critica: da Dancer in the Dark (2000) – che

capovolge il tradizionale happy ending utilizzando la musica per amplificare gli aspetti

tragici - a Moulin Rouge (2001), passando per High School Musical (2006), per arrivare

a Chicago (2002) e Nine (2009), questa forma di spettacolo si è radicalmente rinnovata,

sfruttando appieno le numerose possibilità offerte dalle più recenti tecnologie

cinematografiche, riscrivendo spesso le proprie regole, diventando sempre più

spettacolare e creando numerose contaminazioni con altri media, tra cui la televisione.

Una delle regole principali di questo genere nelle sue forme più classiche prevede che le

sequenze musicali, spesso interpretate da una coppia (un uomo e una donna) siano

funzionali allo sviluppo dell’azione (Altman 1987). Tuttavia, nel cinema, ma soprattutto

nella televisione, la loro funzione è spesso quella di creare un momento di sospensione,

uno spazio dell’immaginazione in cui i personaggi sognano un mondo alternativo rispetto

alla realtà narrata. Questo avviene nelle forme più diverse, soprattutto se si fa riferimento

agli esempi cinematografici: come in Dancer in the Dark (2000), in cui il canto e la danza

di Selma rappresentano l’unico rifugio dall’oppressione di una vita difficile. Analogamente,

in Tutta la vita davanti (2008) [1], la protagonista, Marta, vede le persone iniziare la

propria giornata di lavoro al call center con una “lieta coreografia collettiva”, un “sogno ad

occhi aperti in cui le sembrava che la felicità fosse a portata di mano”.

La musica ha un ruolo importante anche nelle narrative seriali. Influenzato dall’estetica del

video musicale, ma anche dal revival dei reality basati su competizioni canore, il telefilm

può diventare un vero e proprio musical (“series musical”), come nel caso di Glee,

oppure includere un proprio episodio musicale (Sandy Thoburn lo definisce “special

musical”) da Happy Days a Buffy The Vampire Slayer, ad Ally McBeal [2], o infine

contenere una colonna sonora ideata per attirare una determinata fascia di pubblico

(Grey’s Anatomy, Gilmore Girls- Una mamma per amica, lo stesso Scrubs) che crea

una sorta di percorso musicale autonomo interno alla storia.

Dall'inconfondibile sigla di apertura che segue le prime scene di ogni episodio, Superman

[3] ad una colonna sonora ricca e ricercata [4], i cui brani - da classici anni Settanta e

Ottanta a piccole chicche indie-pop - sono spesso selezionati dagli stessi membri del cast

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della serie, in Scrubs la musica è protagonista: sottolinea i momenti più comici e quelli più

drammatici, gioca con ironia con gli stereotipi culturali, e infine, accompagna il commento

in prima persona del protagonista J.D., che chiude ogni episodio.

L’utilizzo espressivo della musica viene ulteriormente amplificato quando il musical prende

il posto della normale recitazione e le sequenze cantate e danzate servono ad esplorare i

sentimenti dei singoli personaggi, oppure a mostrarli in una nuova luce. Mentre J.D.

esprime cantando le proprie incomprensioni con il Dottor Cox e il migliore amico Turk, il

grigio legale dell'ospedale Ted si trasforma e improvvisa strabilianti esibizioni con il

quartetto vocale che ha messo in piedi con altri colleghi del reparto amministrativo

dell’ospedale. Un episodio intero, poi, intitolato My Musical (6.06 – 2007) e costruito in due

veri e propri atti, viene recitato e cantato interamente da tutti i personaggi. La storia è

narrata attraverso gli occhi di una paziente che, a causa di un aneurisma, immagina di

parlare cantando e di sentire cantare tutti coloro che la circondano.

La musica è spesso via d’uscita dalla noia del quotidiano e, talvolta, dalla brutalità del

mondo del lavoro, e permette di superare lo scarto tra immaginazione e realtà. In Dancer

in the Dark, Bijork-Selma sopporta la vita di fabbrica solo immaginando che i macchinari e

gli operai siano parte di un numero musicale simil-futurista. Anche in Scrubs, quindi, i

protagonisti sfuggono lo stress della vita di corsia attraverso il sogno ad occhi aperti del

musical, che inoltre fornisce inaspettate vie di evasione a personaggi contraddistinti da un

alone di grigiore, come, ad esempio, Ted.

Tuttavia, il mondo evocato dalle sequenze musicali in Scrubs non esiste semplicemente in

alternativa a quello reale, ma su di esso si fonda. La critica ha identificato diverse tipologie

di film musicali, in particolare, la categoria del “fairy tale musical” in cui viene presentato

un mondo di fantasia, alternativo a quello reale e quella dello “show musical”, in cui la

trama riguarda la creazione dello spettacolo stesso, è, in pratica un musical sul fare il

musical (Altman 1987). In Scrubs, ci troviamo in una sorta di terra di confine tra questi due

generi: da un lato gli eventi presentati sono altamente surreali, dall’altro l’alternanza

continua tra i momenti della “fantasy” e del “back to reality” è una sorta di motore narrativo

e per certi aspetti, metanarrativo della serie, che mette in evidenza le dinamiche di

costruzione dello spettacolo stesso. Le sequenze musicali, quindi, non rappresentano

un’alterazione radicale della realtà dello schermo, ma una sorta di naturale estensione del

mondo già ironico e surreale di questa serie, una dissacrante parodia: è il luogo dove i

suoi i trasognati e comici protagonisti meglio esprimono se stessi.

Del resto, è stato sottolineato come per la televisione, un genere basato essenzialmente

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sul realismo, la mancanza di verosimiglianza del musical sia di per sé problematica

(Thoburn: 2004). Ma il quotidiano narrato dell’ospedale è già in qualche modo surreale. Lo

stesso J.D. sostiene che un ospedale “può a volte sembrare un luogo magico, dove le

speranze e i sogni delle persone sono spesso fuori dal comune” (“can sometimes feel like

a magical place, where peoples' hopes and dreams are often far from ordinary”, 5.07, My

Way Home). O, addirittura, in My Hero (1.23), quando J.D. incontra Ted con il suo

quartetto nell’ascensore, quasi a chiamarsi fuori da questo mondo stralunato, esclama:

“Ted, probabilmente non te ne rendi conto, ma quest’ospedale è un freak show” (Ted, you

probably don't notice it yourself, but this hospital is a freak show!). A questo commento

Ted e gli altri membri del quartetto – che sono un vero e proprio gruppo a cappella nella

realtà, The Blanks, ma nella serie hanno il comico nome The Worthless Peons –

rispondono impassibili presentandosi cantando il nome dell’ufficio da cui provengono.

Anche in My Musical l’ospedale sembra un mondo incantato quando, all’arrivo della

paziente tutto il personale, il dottor Kelso in prima linea, le dà il benvenuto danzando nel

parcheggio dell’ospedale intonando Welcome to Sacred Heart, scandendo l’inizio vero e

proprio dell’episodio come fosse l’ingresso in una sorta di dimensione parallela.

L’esaltazione degli aspetti concreti, diventa talmente grottesca da finire per creare una

dimensione iperreale, come ad esempio accade con la canzone Everything comes down

to poo, intonata dall’intero cast in My Musical (6.06), in cui il prosaico diventa protagonista

in modo paradossale [5].

Scrubs non solo interpreta il genere musicale con originalità, ma lo utilizza a sua volta per

mettere in discussione i generi seriali classici. Questo telefilm è infatti noto per la sua

ironia dissacrante che smitizza a colpi di battute irriverenti e trash, anche su argomenti

politically correct, l'aura idealizzata ed eroica di altre serie tv dedicate al mondo medico.

Il musical contribuisce a definire il rapporto con la malattia nella serie. Da un lato, la

musica percepita dalla paziente viene giudicata un sintomo di follia, dall’altro l’aiuta a

vivere con maggiore serenità l’esperienza del dolore. Ad esempio, J.D. rasserena

cantando la paziente che deve entrare nella macchina per la risonanza magnetica, e la

incoraggia ad affrontare la verità, qualsiasi essa sia, nella canzone “When the Truth

comes out”:

“So che lei è spaventata /non sapendo quale sarà l’esito dell’esame / Potrebbe provare

che lei è matta / Sente ancora le persone cantare? / È sempre meglio conoscere la verità /

Su questo non ho nessun dubbio / Ma dovrà affrontare il futuro…/Quando la verità verrà

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fuori!” (I'm sure you must be scared /Not knowing what this test will bring /It could prove

that you are crazy/ Do you still hear people sing? / It's best to know the truth/ Of that I have

no doubt/ But you'll have to face the future..../When the truth comes out!)

E quando finalmente i medici ipotizzano dal risultato della risonanza che la donna senta

cantare se stessa e gli altri per effetto di un aneurisma, tutti cantano insieme con

malinconia:

“A volte è meglio non sapere /Ma non è una di quelle volte / Il suo mondo è diventato un

musical / E i suoi dottori parlano in rima! / È meglio sapere la verità / Su quello non

abbiamo nessun dubbio…/ Ma dovrà affrontare il futuro…”

“Sometimes you're better off not knowing/But this isn't one of those times/Your world's

become a musical/And your doctors speak in rhymes! /It's best to know the truth/Of that

we have no doubt/But you'll have to face the future....”.

Ma è soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi che il rapporto tra musical e

genere televisivo viene elaborato in modo originale. Il medical drama ci ha abituato a

storie di chirurghi belli e invincibili con appassionanti storie d'amore. In un certo senso,

Scrubs, Dr House (2004) e Grey’s Anatomy (2005) appartengono tutti a una nuova

generazione di medical drama in cui l'ironia ribalta le categorie precedenti. Questi telefilm,

di cui Scrubs è il primo esempio, mettono a nudo gli elementi negativi delle relazioni

all’interno degli ospedali, come ad esempio la competizione tra gli specializzandi,

evidenziando, però, i lati comici di ogni personaggio. Nonostante in Scrubs non manchino i

momenti drammatici, prevale un tono scanzonato e irriverente.

I protagonisti di Scrubs non sono invincibili, ci vengono presentati in tutta la loro umanità-

Questo accade in parte anche in Dr House, modello del medico antieroe, e in Grey’s

Anatomy, che ricorda Scrubs per molti aspetti (e i protagonisti di Scrubs colgono queste

somiglianze con ironia, citando a loro volta Grey’s Anatomy). Già dalla sigla infatti

sappiamo che i protagonisti non sono dei supermen ("I'm no superman"). Inoltre, sulla

parodia dell’eroe è giocato l’episodio My Hero (1.23), in cui gli specializzandi e l’infermiera

Carla, messi di fronte a situazioni di sfida nei confronti dei propri superiori, e, ad

accompagnare i nostri eroi alla riscossa, è il quartetto vocale di Ted che intona la sigla del

cartone animato sul supereroe canino Underdog. Non a caso, il nome non è solo un

riferimento al fatto che il protagonista sia un cagnolino, ma al fatto che underdog in

Page 56: Anno 03 - Numero 08 (Giugno 2010) Musicalhost.uniroma3.it/riviste/Ol3Media/Archivio_files/Ol3Media 08... · Giada Da Ros è laureata in giurisprudenza con una tesi in diritto Anglo-Americano

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inglese significa perdente in partenza, destinato alla sconfitta.

La protagonista del musical non è più la dinamica di coppia, come sosteneva Altman ("the

couple is the plot.", Altman 1987: 35), ma l’interazione tra l’insieme dei singoli protagonisti.

Essi utilizzano le forme del canto e della danza per rappresentare i temi che la serie

affronta in modo ricorrente con ironia e irriverenza: gli stereotipi etnici, le dinamiche di

genere, vengono messi a nudo in tutte le loro contraddizioni dalle interazioni tra i

personaggi, in particolare tra Turk, Carla e J.D. ed Elliott. Così le differenti identità culturali

si confrontano, come ad esempio in My Musical (6.6), quando Turk appare talmente

concentrato sulla sua idea di blackness da pensare al proprio figlio come “blaxican” (black

+ Mexican) e confondere l’etnia di appartenenza della moglie Carla, lei intona la canzone

"For The Last Time, I'm Dominican" per ribadire la propria identità. O sempre Turk, in un

altro episodio, a causa di un gioco di parole “fratello irlandese”(“Irish brother or an

Irish...bruthah?”) in un sogno ad occhi aperti si vede protagonista di un numero musicale

vestito da gnomo irlandese [6].

Allo stesso tempo, gli stereotipi etnici sono intrisencamente connessi a quelli riguardanti

l’identità sessuale. In My Musical, i brani sottolineano il rapporto tra donne, maternità e

lavoro (We’re gonna miss you Carla), ma anche l’amicizia tra uomini (Guy Love) [7].

Questi elementi mostrano un’identità culturale fluida, una costruzione sociale che viene di

volta in volta modificata a seconda della prospettiva di ogni individuo e viene costruita

attraverso il confronto scontro con gli stereotipi, da cui nessuno è esente.

In conclusione, l’utilizzo del musical da un lato evidenzia, dall’altro espande la struttura

narrativa tipica di Scrubs, basata sul racconto in prima persona con il voice over di JD che

inizia e conclude l’episodio (come accade anche con la voce di Meredith Grey in Grey’s

Anatomy) e tira le fila delle avventure dei singoli personaggi cercando di dare loro un

senso. Questo punto di vista viene espresso anche dai titoli dei singoli episodi “My

Musical”, “My Lucky Charm”.

E sono proprio le sequenze musicali a sottolineare il passaggio dal punto di vista di un

personaggio all’altro. Spesso, infatti, ai diversi pensieri del protagonista dell’episodio fa da

sottofondo il contrappunto musicale del quartetto vocale di Ted. La puntata My Musical è

invece corale; J.D. cede la parola agli altri personaggi per narrare e commentare gli eventi

che riguardano l’ospedale.

Ed è con un riferimento intertestuale a un altro musical che, in My Way Back Home, un

omaggio a "Wizard of Oz" (1939) [8], vediamo ogni singolo personaggio affrontare una

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serie di difficoltà, e superare le proprie indecisioni e sensi di inadeguatezza, mentre i

diversi stacchi musicali segnano il passo dell’azione e nel finale, accompagnato da

Somewhere Over the Rainbow, i singoli protagonisti ritrovano ognuno la propria serenità.

Note [1] Le scene iniziali del film di Paolo Virzì sono un’interessante per quanto fugace

incursione del musical, genere squisitamente anglosassone, nel cinema italiano.

[2] Per una panoramica su alcuni dei principali episodi musicali, Cfr. Sandy Thorburn,

Insights and Outlooks: Getting Serious With Series Television Musicals, in

Discourses in Music: Volume 5 Number 1 (Spring 2004).

[3] L’attore protagonista Zach Braff ha inoltre diretto il video musicale di questa canzone

composta dal musicista Lazlo Bane.

[4] Un elenco dei brani della colonna sonora è reperibile nel sito ufficiale della serie. [6] L’alternanza tra aspetti grotteschi e la dimensione del sogno ad occhi aperti che

ritroviamo nel musical è riflessa in modo emblematico nel personaggio, allo stesso tempo

cinico e sognatore, comico e romantico.

[6] In un altro episodio (4.05, Her Story) Elliot e Molly danno lezioni a Turk sul rap,

cantandone un brano e lasciandolo esterefatto.

[7] Per certi versi, il trattare temi di importanza sociale può avvicinare le sequenze musicali

nella serie al genere del “folk musical”. Tuttavia, il nucleo in cui queste tensioni si

esprimono non è quello strettamente domestico, familiare, ma è più esteso: si tratta di un

ambiente lavorativo che riproduce le caratteristiche della società americana.

[8] Tra i vari riferimenti intertestuali, possiamo osservare come J.D. venga apostrofato dal

Dottor Cox con il soprannome femminile “Dorothy”.

Bios

Anna Viola Sborgi è cultore di Letteratura/cultura inglese e collabora con la Facoltà di

Lingue dell’Università degli Studi di Genova, presso la quale ha tenuto corsi di Lingua e

Letteratura/Cultura inglese. Ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca nel 2007 presso lo

stesso ateneo con una tesi dal titolo Il ritratto modernista tra letteratura e arti visive:

l’impatto delle avanguardie storiche sullo sperimentalismo anglo-americano e portoghese.

I suoi interessi di ricerca comprendono lo studio dei rapporti tra arti visive e letteratura,

l’analisi della produzione cinematografica e televisiva e dei suoi rimandi intertestuali. In

questo ambito, ha recentemente pubblicato “The Thing that Reads a Lot”: Bibliophilia,

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College Life, and Literary Culture in Gilmore Girls, in Screwball Television: Critical

Perspectives on Gilmore Girls, ed. by David Scott Diffrient and David Lavery, Syracuse

Press, Syracuse, NY, 2010.