Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 … · 2020-03-04 · sino...

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Lodovico Antonio Muratori Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 Volume ottavo www.liberliber.it Lodovico Antonio Muratori Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 Volume ottavo www.liberliber.it

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  • Lodovico Antonio MuratoriAnnali d'Italia

    dal principio dell'era volgaresino all'anno 1750

    Volume ottavo

    www.liberliber.it

    Lodovico Antonio MuratoriAnnali d'Italia

    dal principio dell'era volgaresino all'anno 1750

    Volume ottavo

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    QUESTO E-BOOK:

    TITOLO: Annali d'Italia dal principio dell'eravolgare sino all'anno 1750 - volume ottavoAUTORE: Muratori, Ludovico [vedi note]TRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo, pubblicato sotto il nome di LudovicoAntonio Muratori, è in realtà di competenza diAntonio Coppi.Il testo è presente in formato immagine sul sito“The Internet archive” (https://www.archive.org/).Realizzato in collaborazione con il ProjectGutenberg (https://www.gutenberg.net/) tramiteDistributed proofreaders (https://www.pgdp.net/).

    CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

    DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

    COPERTINA:

    TRATTO DA: Annali d'Italia dal principio dell'eravolgare sino all'anno 1750 / compilati da L. AntonioMuratori e continuati sino a' giorni nostri - volume

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    TITOLO: Annali d'Italia dal principio dell'eravolgare sino all'anno 1750 - volume ottavoAUTORE: Muratori, Ludovico [vedi note]TRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo, pubblicato sotto il nome di LudovicoAntonio Muratori, è in realtà di competenza diAntonio Coppi.Il testo è presente in formato immagine sul sito“The Internet archive” (https://www.archive.org/).Realizzato in collaborazione con il ProjectGutenberg (https://www.gutenberg.net/) tramiteDistributed proofreaders (https://www.pgdp.net/).

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    COPERTINA:

    TRATTO DA: Annali d'Italia dal principio dell'eravolgare sino all'anno 1750 / compilati da L. AntonioMuratori e continuati sino a' giorni nostri - volume

  • ottavo - Venezia : G. Antonelli, 1847 - 1230 col. ;26 cm.

    CODICE ISBN: n. d.

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 gennaio 2019

    INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

    SOGGETTO:HIS020000 STORIA / Europa / Italia

    DIGITALIZZAZIONE:Distributed proofreaders, http://www.pgdp.net/

    REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

    IMPAGINAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

    PUBBLICAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

    ottavo - Venezia : G. Antonelli, 1847 - 1230 col. ;26 cm.

    CODICE ISBN: n. d.

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    INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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  • ANNALID'ITALIA

    DALPRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE

    SINO ALL'ANNO 1750COMPILATI

    DA L. ANTONIO MURATORIE

    CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

    Quinta Edizione Veneta

    VOLUME OTTAVO

    VENEZIA

    DAL PRIVILEGIATO STABILIMENTONAZIONALE DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.

    1847

    ANNALID'ITALIA

    DALPRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE

    SINO ALL'ANNO 1750COMPILATI

    DA L. ANTONIO MURATORIE

    CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

    Quinta Edizione Veneta

    VOLUME OTTAVO

    VENEZIA

    DAL PRIVILEGIATO STABILIMENTONAZIONALE DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.

    1847

  • CONTINUAZIONEAGLI

    ANNALI D'ITALIADI

    LOD. ANT. MURATORI

    Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati daLodovico Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela siavenuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria diquesti dieciotto secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni annoda un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavorointerrompimento o disordine; ed avrà insieme ammirato in chegiudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i verimotivi che preparato hanno i più notabili cambiamenti e leconseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempiprecisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoliavvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza,dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichiscrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole laverità; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioniaveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non eraraggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ciò che più allaprobabilità ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine ilettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni dellavirtù contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato,ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno aldispregio ed all'odio universale.

    Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo dellaerudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichitàdell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa

    CONTINUAZIONEAGLI

    ANNALI D'ITALIADI

    LOD. ANT. MURATORI

    Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati daLodovico Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela siavenuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria diquesti dieciotto secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni annoda un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavorointerrompimento o disordine; ed avrà insieme ammirato in chegiudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i verimotivi che preparato hanno i più notabili cambiamenti e leconseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempiprecisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoliavvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza,dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichiscrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole laverità; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioniaveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non eraraggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ciò che più allaprobabilità ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine ilettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni dellavirtù contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato,ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno aldispregio ed all'odio universale.

    Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo dellaerudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichitàdell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa

  • possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poconoti, si aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suodiscernimento giovò ad appianare e ad imprimere di quellaprofonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti.

    Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed allecose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sinoal principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana criticaper determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente ilmaraviglioso d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii dellamalignità o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sinceradelle più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi dellecalamità dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, ilpartito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveanoconsigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delleestesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoistudii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, manè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degliOdoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poicon ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni deiGuelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestinediscordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delleprovincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure diquesta, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.

    Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il propriogiudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava lalontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendereomaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia siaccendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà ed ilvizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estintiinteramente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lospirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto oparzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgraziee da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di nonincorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore,d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male interpretato,come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il

    possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poconoti, si aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suodiscernimento giovò ad appianare e ad imprimere di quellaprofonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti.

    Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed allecose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sinoal principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana criticaper determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente ilmaraviglioso d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii dellamalignità o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sinceradelle più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi dellecalamità dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, ilpartito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveanoconsigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delleestesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoistudii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, manè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degliOdoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poicon ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni deiGuelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestinediscordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delleprovincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure diquesta, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.

    Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il propriogiudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava lalontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendereomaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia siaccendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà ed ilvizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estintiinteramente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lospirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto oparzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgraziee da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di nonincorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore,d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male interpretato,come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il

  • dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato sifosse con danno di qualche altra passione.

    Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlaredi cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debbapur essere la verità l'anima dello storico, debba pur tuttosubordinarsi alla sua legge, ognuno però conviene che granderiservatezza è mestieri nel maneggiare questa verità della storia cheignuda non può sempre comparire mentre ancor durano e sono infermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, lecui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora,mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono inmano la forza ed il potere.

    Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoiAnnali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italiaavvenute dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggioscrittore conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso;riferendo esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo iltestimonio e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizioassoluto e positivo, se pur non faceasi interprete ed araldo delsentimento universale. E così dovrà adoperare chi prende adannodare le ultime fila del suo lavoro, protraendole fino a' giorninostri, tempi quant'altri mai, spezialmente per un periodointermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose vicissitudini, purtroppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia il nostroproponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse nonsarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che graviparole.

    Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore esenz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sanguefreddo che non ci farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni,l'imparzialità ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e deimalevoli. Niuno però voglia istituir un confronto tra il classicoautore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senzal'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissimesono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava ilMuratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto

    dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato sifosse con danno di qualche altra passione.

    Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlaredi cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debbapur essere la verità l'anima dello storico, debba pur tuttosubordinarsi alla sua legge, ognuno però conviene che granderiservatezza è mestieri nel maneggiare questa verità della storia cheignuda non può sempre comparire mentre ancor durano e sono infermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, lecui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora,mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono inmano la forza ed il potere.

    Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoiAnnali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italiaavvenute dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggioscrittore conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso;riferendo esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo iltestimonio e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizioassoluto e positivo, se pur non faceasi interprete ed araldo delsentimento universale. E così dovrà adoperare chi prende adannodare le ultime fila del suo lavoro, protraendole fino a' giorninostri, tempi quant'altri mai, spezialmente per un periodointermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose vicissitudini, purtroppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia il nostroproponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse nonsarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che graviparole.

    Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore esenz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sanguefreddo che non ci farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni,l'imparzialità ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e deimalevoli. Niuno però voglia istituir un confronto tra il classicoautore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senzal'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissimesono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava ilMuratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto

  • per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii;abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede leforze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, perdiscernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel varioatteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitaledi quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare,ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma;strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lascianoquella libertà di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chii fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciaschedunopresta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi similigeneralmente concede, non quell'altra intimamente sentita,profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente,necessariamente, avvien che riponga.

    Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone chedicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che pernoi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.

    per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii;abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede leforze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, perdiscernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel varioatteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitaledi quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare,ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma;strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lascianoquella libertà di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chii fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciaschedunopresta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi similigeneralmente concede, non quell'altra intimamente sentita,profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente,necessariamente, avvien che riponga.

    Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone chedicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che pernoi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.

  • ANNALI D'ITALIA

    DAL

    PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE

    DALL'ANNO 1750 FINO AI NOSTRI GIORNI

    Anno di { CRISTO MDCCL. Indiz. XIII.BENEDETTO XIV papa 11.FRANCESCO I imperadore 6.Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera

    sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattatod'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguentein una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nellostesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione incui, al cadere del 1749, veniva per ciò a trovarsi l'Italia; si può daquesto punto incominciare la nuova carriera per vedere le varieperturbazioni, benchè minime e quasi innocenti, che neavvennero in appresso, finchè poi verso la fine del secolo scorsoed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata.

    Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo daRoma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'annosanto.

    Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di SanPietro quella porta che per venticinque anni era stata chiusa,esultavano i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo

    ANNALI D'ITALIA

    DAL

    PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE

    DALL'ANNO 1750 FINO AI NOSTRI GIORNI

    Anno di { CRISTO MDCCL. Indiz. XIII.BENEDETTO XIV papa 11.FRANCESCO I imperadore 6.Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera

    sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattatod'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguentein una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nellostesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione incui, al cadere del 1749, veniva per ciò a trovarsi l'Italia; si può daquesto punto incominciare la nuova carriera per vedere le varieperturbazioni, benchè minime e quasi innocenti, che neavvennero in appresso, finchè poi verso la fine del secolo scorsoed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata.

    Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo daRoma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'annosanto.

    Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di SanPietro quella porta che per venticinque anni era stata chiusa,esultavano i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo

  • spalancata quella del cielo. In ogni ora di qualunque giornovedevasi lo spettacolo d'un popolo infinito che, od unito incompagnie, o separatamente, procedeva alla visita delle apertebasiliche; ma lo spettacolo che più d'ogni altro edificava eraappunto Benedetto XIV. Quei pellegrini e quei forastieri quasiinnumerabili che a Roma concorsero in tale occasione, verificatecogli occhi proprii le mirabili cose che nei loro paesi aveanoudito a raccontare della sua pietà, della virtù sua e dell'immensasua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che inlontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice,in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e curedello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioniordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risaltoal suo giubileo.

    Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parteamareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma neltermine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuateingrossato il Tevere, uscì dal letto con furore eguale a quello ondeavea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribileinnondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcunipunti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principalicontrade della città, nelle quali non si potea praticare se non conbarchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamità nonmancò il governo di apprestare le più opportune provvidenze, e difar eseguire tutto ciò che potea ridondare in vantaggio delpubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendoper quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi ilvitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamentesomministrato il bisognevole.

    Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altredisgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione deiprivilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomodegli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagnacon quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozionede' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua

    spalancata quella del cielo. In ogni ora di qualunque giornovedevasi lo spettacolo d'un popolo infinito che, od unito incompagnie, o separatamente, procedeva alla visita delle apertebasiliche; ma lo spettacolo che più d'ogni altro edificava eraappunto Benedetto XIV. Quei pellegrini e quei forastieri quasiinnumerabili che a Roma concorsero in tale occasione, verificatecogli occhi proprii le mirabili cose che nei loro paesi aveanoudito a raccontare della sua pietà, della virtù sua e dell'immensasua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che inlontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice,in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e curedello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioniordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risaltoal suo giubileo.

    Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parteamareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma neltermine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuateingrossato il Tevere, uscì dal letto con furore eguale a quello ondeavea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribileinnondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcunipunti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principalicontrade della città, nelle quali non si potea praticare se non conbarchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamità nonmancò il governo di apprestare le più opportune provvidenze, e difar eseguire tutto ciò che potea ridondare in vantaggio delpubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendoper quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi ilvitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamentesomministrato il bisognevole.

    Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altredisgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione deiprivilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomodegli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagnacon quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozionede' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua

  • corte, e che colla vendita delle più ricche badie del Piemontefosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudinedell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumorenell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, ilristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelleincumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohetrovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle cortidi Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per lareligione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa.Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro imedesimi i più rigorosi editti di sangue, e della quale rimastierano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo diMauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade sirisvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secoloprima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioniche toccavano l'animo del pontefice, quella che diedemaggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra larepubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcatod'Aquileia.

    Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altriimperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la primacittà d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tantealtre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovinel'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto divedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andòdebitrice al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa ivescovi di quella provincia ogni comunicazione colle quattroantiche sedi patriarcali, conferirono essi diritto e nome dipatriarca al loro metropolitano, ch'era appunto il vescovo diAquileia, ed il quale, estinto lo scisma, pur ritenne il conferitoglititolo, e fu da Leone VIII, Giovanni XX ed Alessandro IIconsiderato primo metropolitano di tutta l'Italia, come tenutoneuniversalmente per il prelato più ricco.

    Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principitemporali per donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo

    corte, e che colla vendita delle più ricche badie del Piemontefosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudinedell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumorenell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, ilristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelleincumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohetrovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle cortidi Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per lareligione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa.Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro imedesimi i più rigorosi editti di sangue, e della quale rimastierano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo diMauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade sirisvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secoloprima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioniche toccavano l'animo del pontefice, quella che diedemaggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra larepubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcatod'Aquileia.

    Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altriimperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la primacittà d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tantealtre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovinel'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto divedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andòdebitrice al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa ivescovi di quella provincia ogni comunicazione colle quattroantiche sedi patriarcali, conferirono essi diritto e nome dipatriarca al loro metropolitano, ch'era appunto il vescovo diAquileia, ed il quale, estinto lo scisma, pur ritenne il conferitoglititolo, e fu da Leone VIII, Giovanni XX ed Alessandro IIconsiderato primo metropolitano di tutta l'Italia, come tenutoneuniversalmente per il prelato più ricco.

    Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principitemporali per donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo

  • Magno, dagl'imperadori franzesi e tedeschi, pensarono aristabilire l'antico splendore dell'abbattuta città. Ma tutte le cureloro non andarono piene di effetto; imperocchè Aquileia, giàdistrutta dalla forza dell'armi d'Attila, soggiacere dovette ad unaforza ancor più assoluta ed una forza ancor più assoluta edimperiosa, al mare. Abbandonando le acque a poco a poco gliantichi termini all'estremità occidentale del golfo Adriatico, doveprima approdavano le triremi di Roma, lento lento formossi unpaludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti secoli avea,come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i marosi,si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla puritàd'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali.Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sedeloro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal delFriuli, ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò disurrogare quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suodominio e metropoli della provincia friulana, si fu il patriarcaBertoldo, nel 1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forzadelle armi, il Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarcadel dominio temporale, per una transazione conchiusa tra ilprelato medesimo e la repubblica, confermata dal papa Nicolò Ve dall'imperadore Federigo III, assegnaronsi al patriarca diAquileia le terre di San Vito e San Daniele, colla costituzioned'una dote ecclesiastica corrispondente.

    Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; econtinuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega diCambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia,ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte delladiocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizioneche mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convennepertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le duepotenze godessero alternativamente del diritto di nominare aquesto patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole;poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, perl'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a

    Magno, dagl'imperadori franzesi e tedeschi, pensarono aristabilire l'antico splendore dell'abbattuta città. Ma tutte le cureloro non andarono piene di effetto; imperocchè Aquileia, giàdistrutta dalla forza dell'armi d'Attila, soggiacere dovette ad unaforza ancor più assoluta ed una forza ancor più assoluta edimperiosa, al mare. Abbandonando le acque a poco a poco gliantichi termini all'estremità occidentale del golfo Adriatico, doveprima approdavano le triremi di Roma, lento lento formossi unpaludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti secoli avea,come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i marosi,si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla puritàd'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali.Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sedeloro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal delFriuli, ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò disurrogare quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suodominio e metropoli della provincia friulana, si fu il patriarcaBertoldo, nel 1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forzadelle armi, il Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarcadel dominio temporale, per una transazione conchiusa tra ilprelato medesimo e la repubblica, confermata dal papa Nicolò Ve dall'imperadore Federigo III, assegnaronsi al patriarca diAquileia le terre di San Vito e San Daniele, colla costituzioned'una dote ecclesiastica corrispondente.

    Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; econtinuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega diCambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia,ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte delladiocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizioneche mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convennepertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le duepotenze godessero alternativamente del diritto di nominare aquesto patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole;poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, perl'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a

  • scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e munitidi bolle pontificie per la futura successione. Richiamossil'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de'Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessorinon avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano allaelezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loropretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casad'Austria uso del combattuto diritto.

    Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Veneziaagitavasi la controversia; e alle proposizioni e proferte da unaparte surgendo dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano inlungo senza speranza di componimento. Finalmenteconcordarono le due potenze in questo, di prendere il papa adarbitro di una vertenza che in gran parte era ecclesiastica ereligiosa, facendo, più della dottrina e della sapienza di BenedettoXIV, sperare giusta la pontificia decisione il suo carattere equo emoderato. I Veneziani poi tanto più erano concorsi di buon gradoa sottomettersi al giudizio di lui, perchè, oltre ad un breve diGiulio III, che ad essi confermava il diritto di nominare ilpatriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo tenutoin alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando, unlungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabilediritto.

    Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto dieleggere soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditidell'imperatore dalla suggezione ad un vescovo straniero, nellaparte austriaca di quella diocesi stabilì un vicario apostolico.Spiacque oltremodo al senato cotale decisione, e richiamò eglitosto i suoi ambasciatori tanto da Roma quanto da Vienna. Altempo stesso la repubblica accrebbe di molto le sue armate diterra e di mare e si dispose alla guerra. Il papa dichiarò che,qualunque potessero essere le conseguenze di quella lotta, noncredevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti; che stabilitoaveva un vicario apostolico, le regole seguendo della giustizia, eche alcun interesse non pigliando alle operazioni del veneto

    scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e munitidi bolle pontificie per la futura successione. Richiamossil'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de'Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessorinon avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano allaelezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loropretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casad'Austria uso del combattuto diritto.

    Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Veneziaagitavasi la controversia; e alle proposizioni e proferte da unaparte surgendo dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano inlungo senza speranza di componimento. Finalmenteconcordarono le due potenze in questo, di prendere il papa adarbitro di una vertenza che in gran parte era ecclesiastica ereligiosa, facendo, più della dottrina e della sapienza di BenedettoXIV, sperare giusta la pontificia decisione il suo carattere equo emoderato. I Veneziani poi tanto più erano concorsi di buon gradoa sottomettersi al giudizio di lui, perchè, oltre ad un breve diGiulio III, che ad essi confermava il diritto di nominare ilpatriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo tenutoin alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando, unlungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabilediritto.

    Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto dieleggere soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditidell'imperatore dalla suggezione ad un vescovo straniero, nellaparte austriaca di quella diocesi stabilì un vicario apostolico.Spiacque oltremodo al senato cotale decisione, e richiamò eglitosto i suoi ambasciatori tanto da Roma quanto da Vienna. Altempo stesso la repubblica accrebbe di molto le sue armate diterra e di mare e si dispose alla guerra. Il papa dichiarò che,qualunque potessero essere le conseguenze di quella lotta, noncredevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti; che stabilitoaveva un vicario apostolico, le regole seguendo della giustizia, eche alcun interesse non pigliando alle operazioni del veneto

  • senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina. Il senato,all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa stabilito quelvicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a quella dignitàinalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave pregiudizioquindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica esercitatocostantemente; essere perciò la repubblica stata costretta arichiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contraquel breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservareun diritto col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede intutt'altro rispetto sentimenti di venerazione e di filialeobbedienza.

    Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dalsenato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fuproposto di smembrare il patriarcato, e di formarne duevescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anchesiffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicarioapostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigliò di quelladignità, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questiancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse peropporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente allaproposta divisione: fu però stabilito che abolito sarebbe il titolo dipatriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, deiquali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro aisovrani dell'Austria.

    Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il terminedell'anno 1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino lenozze tra il duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re CarloEmmanuele III, e l'infante Maria Antonia, sorella di FerdinandoVI re di Spagna.

    Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quelnovello sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito leprincipali cariche del ducato, e particolarmente quelle dellapubblica economia, agli Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti,co' quali avvertivasi quel principe di ricordarsi delle istruzioniavute dal re suo padre Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i

    senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina. Il senato,all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa stabilito quelvicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a quella dignitàinalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave pregiudizioquindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica esercitatocostantemente; essere perciò la repubblica stata costretta arichiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contraquel breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservareun diritto col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede intutt'altro rispetto sentimenti di venerazione e di filialeobbedienza.

    Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dalsenato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fuproposto di smembrare il patriarcato, e di formarne duevescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anchesiffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicarioapostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigliò di quelladignità, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questiancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse peropporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente allaproposta divisione: fu però stabilito che abolito sarebbe il titolo dipatriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, deiquali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro aisovrani dell'Austria.

    Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il terminedell'anno 1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino lenozze tra il duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re CarloEmmanuele III, e l'infante Maria Antonia, sorella di FerdinandoVI re di Spagna.

    Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quelnovello sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito leprincipali cariche del ducato, e particolarmente quelle dellapubblica economia, agli Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti,co' quali avvertivasi quel principe di ricordarsi delle istruzioniavute dal re suo padre Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i

  • suoi popoli. Tentando d'infrenare l'umor sedizioso col rigore,l'espediente non giovò; sicchè bisognò cambiare i ministri escemare le tasse. Delle quali benefiche disposizioni contento ilpopolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza verso il principequando giunse di Francia in quello Stato la reale sua sposa, figliadi Luigi XV.

    Anno di { CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV.BENEDETTO XIV papa 12.FRANCESCO I imperadore 7.A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi

    incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse ledue corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadoreFrancesco I possedeva i dominii della casa de Medici, dueprincipi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle DueSicilie, e l'eredità della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque,ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avutecol signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada,principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, perallontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pacesulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di nonprendere parte, nè direttamente nè indirettamente, in qualunqueguerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogniaspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da unacausa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica e della suafamiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare almedesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli Stati de'quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelliposseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato diAquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadorenella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forzadi tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole

    suoi popoli. Tentando d'infrenare l'umor sedizioso col rigore,l'espediente non giovò; sicchè bisognò cambiare i ministri escemare le tasse. Delle quali benefiche disposizioni contento ilpopolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza verso il principequando giunse di Francia in quello Stato la reale sua sposa, figliadi Luigi XV.

    Anno di { CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV.BENEDETTO XIV papa 12.FRANCESCO I imperadore 7.A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi

    incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse ledue corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadoreFrancesco I possedeva i dominii della casa de Medici, dueprincipi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle DueSicilie, e l'eredità della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque,ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avutecol signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada,principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, perallontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pacesulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di nonprendere parte, nè direttamente nè indirettamente, in qualunqueguerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogniaspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da unacausa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica e della suafamiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare almedesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli Stati de'quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelliposseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato diAquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadorenella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forzadi tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole

  • pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due cortinon si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.

    Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla cortedi Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conteBeltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suosoggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti dicommercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardiaaustriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nellaconvenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina MariaTeresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loromaneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne frale corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cuiquesta era la sostanza. Nel caso che le truppe nemicheinvadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadriceregina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ellalo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie,dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli Statidi questi principi si trovassero nello stesso caso; ad ugualesussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fosseroattaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, ead egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re diSpagna; facesse Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al redi Sardegna, e questi verso la Maestà Sua; in ognuno di questicasi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini ditruppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca diParma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delleparti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamenteposseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora sitrovavano.

    In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia,non erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioèil papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nèpoteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente BenedettoXIV, sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà emunificenza de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva

    pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due cortinon si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.

    Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla cortedi Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conteBeltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suosoggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti dicommercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardiaaustriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nellaconvenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina MariaTeresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loromaneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne frale corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cuiquesta era la sostanza. Nel caso che le truppe nemicheinvadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadriceregina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ellalo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie,dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli Statidi questi principi si trovassero nello stesso caso; ad ugualesussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fosseroattaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, ead egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re diSpagna; facesse Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al redi Sardegna, e questi verso la Maestà Sua; in ognuno di questicasi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini ditruppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca diParma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delleparti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamenteposseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora sitrovavano.

    In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia,non erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioèil papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nèpoteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente BenedettoXIV, sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà emunificenza de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva

  • pensare mai a dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nètemere poteva di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustiziaspogliato. Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nelcontinente e fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'ideadi meschiarsi nelle dissensioni dei principi in Italia, e facevaprofessione d'una rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata allaristrettezza del suo pacifico dominio, compreso e quasi incastratonella Toscana, attendeva al commercio ed alle arti della pace, estimavasi felice di non entrare per nulla in bilancia a fissarel'equilibrio della penisola. Quanto alla repubblica di Genova, chetanta parte aveva avuta nell'ultima guerra, non era stata nominata,perchè le direzioni da essa tenute a suo riguardo aveanodisgustato la corte di Vienna; perchè le altre potenze, allorabelligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano trovatovantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente tutte lerepubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono nellaloro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o diaffinità che devono o almeno possono talora stringere i principifra loro.

    Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sèconversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione dellaCorsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo diFilippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o perl'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o perl'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felicicontingenze.

    Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia,capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare dibombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatoregenovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che contre mila Corsi sollevati se le faceva sotto.

    Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storicoriferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insignenaturalista franzese, che un ministro della corte di Francia,vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle

    pensare mai a dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nètemere poteva di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustiziaspogliato. Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nelcontinente e fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'ideadi meschiarsi nelle dissensioni dei principi in Italia, e facevaprofessione d'una rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata allaristrettezza del suo pacifico dominio, compreso e quasi incastratonella Toscana, attendeva al commercio ed alle arti della pace, estimavasi felice di non entrare per nulla in bilancia a fissarel'equilibrio della penisola. Quanto alla repubblica di Genova, chetanta parte aveva avuta nell'ultima guerra, non era stata nominata,perchè le direzioni da essa tenute a suo riguardo aveanodisgustato la corte di Vienna; perchè le altre potenze, allorabelligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano trovatovantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente tutte lerepubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono nellaloro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o diaffinità che devono o almeno possono talora stringere i principifra loro.

    Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sèconversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione dellaCorsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo diFilippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o perl'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o perl'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felicicontingenze.

    Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia,capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare dibombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatoregenovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che contre mila Corsi sollevati se le faceva sotto.

    Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storicoriferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insignenaturalista franzese, che un ministro della corte di Francia,vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle

  • popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni diquell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agliabitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle lor montagne igrani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersiche in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate lebiade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dallanatura, ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile.

    Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fattonessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventitermini esponevano le cagioni della loro insurrezione, edimploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanerepiù oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolanicontinuarono a coraggiosamente combattere per la loroindipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelliall'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte diBoisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il qualedisse ai Corsi come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loroisola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazionedi sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay.Ora, comandando questi da vicerè, contribuì molto a renderesempre più odioso il governo antico ed attuale della repubblica diGenova; e la grande autorità che arrogavasi fece insiemementenascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali,che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genoveserepubblica.

    Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi diquest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglianiegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla,ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento.Da ciò insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi,unite a' Corsi fedeli, sì che vennero più volte alle mani, quelcomandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi diapprossimarsi ai presidii genovesi. D'uopo è notare che mentre iCorsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diversecorti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a

    popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni diquell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agliabitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle lor montagne igrani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersiche in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate lebiade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dallanatura, ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile.

    Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fattonessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventitermini esponevano le cagioni della loro insurrezione, edimploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanerepiù oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolanicontinuarono a coraggiosamente combattere per la loroindipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelliall'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte diBoisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il qualedisse ai Corsi come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loroisola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazionedi sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay.Ora, comandando questi da vicerè, contribuì molto a renderesempre più odioso il governo antico ed attuale della repubblica diGenova; e la grande autorità che arrogavasi fece insiemementenascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali,che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genoveserepubblica.

    Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi diquest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglianiegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla,ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento.Da ciò insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi,unite a' Corsi fedeli, sì che vennero più volte alle mani, quelcomandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi diapprossimarsi ai presidii genovesi. D'uopo è notare che mentre iCorsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diversecorti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a

  • vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominiodell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentavatalvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre lapace, non si lasciava di fomentare in qualche modo lasollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.

    Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi,riaccese quella delle comunità del regno, senza che il generalefranzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con ladolcezza e con l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spessointerrotta da vie di fatto funeste e sanguinose.

    Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto edaccadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suocomandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunitàdel regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo digran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovocommissario in Corsica a trattare col comandante franzese unaggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro aParigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte ilmodo di operare suo e de' suoi.

    Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempoportate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'avevaragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciarl'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin,plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese digiugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione dicinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziariosuddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevanotrasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie dicongresso tutte le bisogna della Corsica.

    L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustatagrandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de'Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le suegenti, lasciando in balia di sè stessi non meno quegli abitanti chela repubblica di Genova; e già tutto era apparecchiato per lapartenza.

    vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominiodell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentavatalvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre lapace, non si lasciava di fomentare in qualche modo lasollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.

    Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi,riaccese quella delle comunità del regno, senza che il generalefranzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con ladolcezza e con l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spessointerrotta da vie di fatto funeste e sanguinose.

    Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto edaccadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suocomandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunitàdel regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo digran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovocommissario in Corsica a trattare col comandante franzese unaggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro aParigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte ilmodo di operare suo e de' suoi.

    Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempoportate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'avevaragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciarl'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin,plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese digiugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione dicinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziariosuddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevanotrasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie dicongresso tutte le bisogna della Corsica.

    L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustatagrandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de'Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le suegenti, lasciando in balia di sè stessi non meno quegli abitanti chela repubblica di Genova; e già tutto era apparecchiato per lapartenza.

  • Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsil'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò chelasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasisperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambele parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato diGenova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi aqualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, epromettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione queiregolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.

    Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse datada' Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in checonsistesse. Si seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, aveadato ordine al suo ministro Chauvelin di proporre ai Corsi ilchiesto regolamento, facendo loro intendere che Sua Maestà,mossa dalla idea delle calamità che per la partenza delle suetruppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa a sospenderel'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad essifavorevole, come era quella di restituir loro la pace e far chegodessero d'un dolce reggimento e permanente.

    In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso deChauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo unagenerale adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi,dopo comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurateper assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anchechiamati a conoscere che felicità e tranquillità, mediante unmoderato e giusto governo, non poteano ottenere se non se daquella potenza che avesse sopra di essi una legittima e sovranaautorità, come appunto era la repubblica di Genova; nello stessotempo dichiarando che Sua Maestà Cristianissima, per un effettodella sua naturale bontà, addossavasi la malleveria di tutto ciò chefosse loro concesso, e di cooperare all'esecuzione. Tutti i deputatiad una voce fecero sapere che si sottomettevano rispettosamente aquanto Luigi XV richiedeva, ed anzi sottoscrissero un atto, colquale giurarono sopra l'Evangelio di volere da allora in poiriconoscere la repubblica di Genova per sola legittima loro

    Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsil'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò chelasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasisperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambele parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato diGenova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi aqualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, epromettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione queiregolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.

    Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse datada' Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in checonsistesse. Si seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, aveadato ordine al suo ministro Chauvelin di proporre ai Corsi ilchiesto regolamento, facendo loro intendere che Sua Maestà,mossa dalla idea delle calamità che per la partenza delle suetruppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa a sospenderel'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad essifavorevole, come era quella di restituir loro la pace e far chegodessero d'un dolce reggimento e permanente.

    In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso deChauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo unagenerale adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi,dopo comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurateper assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anchechiamati a conoscere che felicità e tranquillità, mediante unmoderato e giusto governo, non poteano ottenere se non se daquella potenza che avesse sopra di essi una legittima e sovranaautorità, come appunto era la repubblica di Genova; nello stessotempo dichiarando che Sua Maestà Cristianissima, per un effettodella sua naturale bontà, addossavasi la malleveria di tutto ciò chefosse loro concesso, e di cooperare all'esecuzione. Tutti i deputatiad una voce fecero sapere che si sottomettevano rispettosamente aquanto Luigi XV richiedeva, ed anzi sottoscrissero un atto, colquale giurarono sopra l'Evangelio di volere da allora in poiriconoscere la repubblica di Genova per sola legittima loro

  • sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ognipasso od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro asottoscrivere il regolamento, contenente le condizioni che il re diFrancia aveva per essi conseguite dalla repubblica, e comprese inotto articoli, tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senzaparola da cui argomentare che seguire ne dovesse essenzialemutazione di reggimento.

    A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattrofra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazionerinnovarono al già detto commissario Grimaldi le sicurezze dellaloro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominiodell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, edalla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale,riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana,protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capidelle comunità sarebbe stata quella di avvezzare i popoli aldovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravanodal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi,affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsicarestassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico perassodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere.A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico:sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiornodelle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse larepubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la suaobbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea.Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro,che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espedientedella lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.

    Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità diquelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione dellaCorsica furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti,che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così prestonè con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette

    sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ognipasso od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro asottoscrivere il regolamento, contenente le condizioni che il re diFrancia aveva per essi conseguite dalla repubblica, e comprese inotto articoli, tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senzaparola da cui argomentare che seguire ne dovesse essenzialemutazione di reggimento.

    A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattrofra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazionerinnovarono al già detto commissario Grimaldi le sicurezze dellaloro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominiodell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, edalla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale,riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana,protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capidelle comunità sarebbe stata quella di avvezzare i popoli aldovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravanodal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi,affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsicarestassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico perassodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere.A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico:sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiornodelle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse larepubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la suaobbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea.Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro,che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espedientedella lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.

    Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità diquelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione dellaCorsica furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti,che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così prestonè con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette

  • che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendiodall'altra parte.

    Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabilidell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento,perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, nonparlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur eranol'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modorimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispoticadella Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi egli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, chene avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbateOlivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed ilmedesimo che per esse avea scritto alla corte di Franciapromettendo a loro nome tutta la sommessione, perchè silasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: presedi bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forsepotea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi suiluoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse acalmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anchestatici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso checalma e che sommissione fossero quelle.

    I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosisulle acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono diqualche novella preda, e minacciavano di sbarco le costedell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero unasquadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furonocagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna.

    Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a duegaleotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsisotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Statide' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità digranduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessandol'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando isegnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi lagaleotta in paese sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi

    che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendiodall'altra parte.

    Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabilidell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento,perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, nonparlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur eranol'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modorimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispoticadella Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi egli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, chene avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbateOlivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed ilmedesimo che per esse avea scritto alla corte di Franciapromettendo a loro nome tutta la sommessione, perchè silasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: presedi bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forsepotea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi suiluoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse acalmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anchestatici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso checalma e che sommissione fossero quelle.

    I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosisulle acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono diqualche novella preda, e minacciavano di sbarco le costedell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero unasquadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furonocagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna.

    Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a duegaleotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsisotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Statide' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità digranduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessandol'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando isegnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi lagaleotta in paese sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi

  • a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte,finchè li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco illegno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata,in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente conqualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare eda far fuoco per far rispettare i suoi diritti.

    Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo,dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana,considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quelcorsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli prontae solenne soddisfazione colla restituzione immediata delbastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, averlui fatto più volte rappresentare alla reggenza di Firenze nonpotersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralità della corte diToscana, però che di questa i Barbareschi prevalevansi perimpunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletanecon incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; nèdovere quindi parere strano se il duca di San Martino,comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà diassalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui stateerano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale rispostafosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ciòconsigliassero, l'affare rimase allora sopito.

    Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio chegeneralmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne'porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace daFrancesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africaneconchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa,dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca;l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza leragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunquetrattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria,s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze diservirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraiotornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i

    a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte,finchè li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco illegno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata,in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente conqualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare eda far fuoco per far rispettare i suoi diritti.

    Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo,dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana,considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quelcorsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli prontae solenne soddisfazione colla restituzione immediata delbastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, averlui fatto più volte rappresentare alla reggenza di Firenze nonpotersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralità della corte diToscana, però che di questa i Barbareschi prevalevansi perimpunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletanecon incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; nèdovere quindi parere strano se il duca di San Martino,comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà diassalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui stateerano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale rispostafosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ciòconsigliassero, l'affare rimase allora sopito.

    Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio chegeneralmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne'porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace daFrancesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africaneconchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa,dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca;l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza leragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunquetrattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria,s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze diservirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraiotornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i

  • corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi didisgrazia, che furono specificati. Alla quale permissioneimperiale fu allora creduto che maggiormente avesserocontribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizieed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de'trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere milleestorsioni ed iniquità.

    A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurarepossibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafededegli Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e comecapo della religione e come principe temporale, molto più dilicatadi sua natura, ed assai più importante nelle sue conseguenze,riguardo ai così detti Liberi Muratori. Già da circa venti annidiffusa e clandestinamente dilatata ne' paesi cattolici, e più ancorain quelli che fuor del cattolicismo viveano, teneva questa societàin continuo sospetto i principi ed i governi. Chi le ha dato perprogenitori coloro che edificarono la torre di Babele, chi quellidel tempio di Salomone; altri, più sistematici, volleroriconoscerne padri i cavalieri Templari. Amava le tenebre, ed inseno dell'oscurità andava ampliando il numero de' suoiconfratelli. Sulla porta di quelle stanze che le serviano di notturnoricetto non vedevi impressi caratteri materiali; eppure era scritto:Lungi, o profani; è questo il regno della luce ed il tempio dellaverità. Riti misteriosi ne accompagnavano le iniziazioni. Nondiversità di patria, non differenza di governo, non disparità diculto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea d'entrare.Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansiegualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, idiscendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, diMaometto e di Confucio. La differenza stessa della nascita, delgrado, delle fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, ildignitario e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indottitrovavansi indistintamente registrati sulla lista dei LiberiMuratori, e non rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangueper trenta o quaranta generazioni purificato, siedeva fra due

    corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi didisgrazia, che furono specificati. Alla quale permissioneimperiale fu allora creduto che maggiormente avesserocontribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizieed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de'trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere milleestorsioni ed iniquità.

    A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurarepossibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafededegli Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e comecapo della religione e come principe temporale, molto più dilicatadi sua natura, ed assai più importante nelle sue conseguenze,riguardo ai così detti Liberi Muratori. Già da circa venti annidiffusa e clandestinamente dilatata ne' paesi cattolici, e più ancorain quelli che fuor del cattolicismo viveano, teneva questa societàin continuo sospetto i principi ed i governi. Chi le ha dato perprogenitori coloro che edificarono la torre di Babele, chi quellidel tempio di Salomone; altri, più sistematici, volleroriconoscerne padri i cavalieri Templari. Amava le tenebre, ed inseno dell'oscurità andava ampliando il numero de' suoiconfratelli. Sulla porta di quelle stanze che le serviano di notturnoricetto non vedevi impressi cara