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ANIMAL studies Rivista italiana di antispecismo like me? mente e diritti negli altri animali trimestrale anno 1i numero 2 febbraio 2013

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ANIMAL studiesRivista italiana di antispecismo

like me? mente e diritti negli altri animali

trimestrale anno 1i numero 2 febbraio 2013

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ANIMAL STUDIESRivista italiana di antispecismo

trimestrale2/2013 – Like me? Mente e diritti negli altri animali

numero a cura di Domenica Bruni

Direttore responsabile Leonora Pigliucci

Direttore editoriale Leonardo Caffo (Università degli Studi di Torino)

Comitato scientificoRalph R. Acampora (Hofstra University)Carol Adams (Southern Methodist University)Steve Baker (University of Central Lancashire)Matthew Calarco (California State University Fullerton)Felice Cimatti (Università della Calabria)Roberto Giammanco (University of California, Berkeley)Enrico Giannetto (Università degli studi di Bergamo)Oscar Horta (Universidade de Santiago de Compostela)Andrew Linzey (University of Oxford)Dario Martinelli (Kaunas University of Technology)Peter Singer (Princeton University)Tzachi Zamir (The Hebrew University of Jerusalem)

RedazioneDomenica Bruni, Leonardo Caffo, Rita Ciatti, Serena Contardi, Maria Giovanna Devetag, Arianna Ferrari, Claudia Ghislanzoni, Nausicaa Guerini, Annamaria Manzoni, Marco Maurizi, Leono-ra Pigliucci, Antonio Volpe.

Revisione linguistica e traduzioneSarah De Sanctis, Elisa Giuliana

ISSN 2281-2288ISBN 978-88-97339-15-1

Reg. Trib. Roma n. 232 del 27/7/2012

© 2013 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop.via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia www.novalogos.it • [email protected]

finito di stampare nel mese di febbraio 2013presso la tipografia città nuova di roma

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Sommario

5 Editoriale D. Bruni

Le ragioni dell’antispecismo

11 Specismo, dominionismo e l’ultima frontiera della giustizia sociale T. Regan

20 Cosa c’è nell’antispecismo che milita contro le sue stesse ragioni P. Perconti

Articoli

27 Armonia e contrappunto. Jacob von Uexküll tra etologia e ontologia M. Carapezza

38 L’uomo e le specie minacciate – da un involontario parassitismo a un’auspicabile simbiosi mutualistica A. Minelli, E. Rigato

54 La personalità non umana: tra scienza ed etica S. Pollo

65 Intervista a Giorgio Vallortigara a cura di D. Bruni

Letture

69 L’orologiaio miope - Filosofi e animali in Roma antica modelli di ani- malità e umanità in Lucrezio e Seneca - Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche

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Editorialedi Domenica Bruni

Que si les bêtes sentent, elles sentent comme nous.Étienne Bonnot de Condillac,Traité des animaux

“Man mano che imparavo a riconoscere gli scimpanzé come individui davo loro un nome”. Scrive così l’etologa e antropologa britannica Jane Goodall1 nell’appassionata e coinvolgente autobiografia, Le ragioni della speranza.

Non sapevo che la disciplina etologica all’inizio degli anni Sessanta considerava scorretto questo modo di procedere: avrei dovuto identificarli solo assegnando loro numeri, considerati più obiettivi. Ne descrissi anche le personalità: un altro pec-cato, dato che solo gli esseri umani hanno personalità. Crimine ancora peggiore era attribuire agli scimpanzé emozioni umane. E a quei tempi, molti ritenevano che il possesso di una mente e il pensiero razionale fossero esclusivi dell’uomo. Per fortuna io non ero stata all’università e non sapevo niente di queste cose e, quando ne venni a conoscenza, le ritenni semplicemente stupide e non vi prestai alcuna attenzione. Nella mia vita avevo sempre assegnato nomi agli animali2.

Per buona parte del Novecento gli scienziati hanno considerato gli anima-li non umani dominati e agiti dalla tirannia degli istinti, privi di pensiero, sentimenti e motivazioni. Oggi è finalmente possibile raccontare la storia del tramonto di un’idea o, se preferite, di un modello. Mi riferisco al modello cartesiano di animale-macchina che priva gli animali non umani di un mondo

1 Accanto a Jane Goodall mi piace ricordare Diane Fossey, che dedicò buona parte della sua esistenza allo studio dei gorilla sulle montagne e nelle foreste del Ruanda; Joy Adam-son, autrice del bestseller internazionale Nata libera in cui descrive il suo ritrovamento di un cucciolo di leone di nome Elsa; Cynthia Moss, studiosa del comportamento degli elefanti e autrice di Portraits in the Wild: Animal Behavior in East Africa. Tutte donne che con le loro ricerche e la loro dedizione hanno fortemente contribuito ad affrancare gli animali non umani dal ruolo di automi.2 J. Goodall, Le ragioni della speranza. Lungo viaggio al centro della natura, Baldini&Castoldi, Milano, 1999, pp.90-91.

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interiore, quello stesso mondo che nessun animale umano sarebbe disposto a barattare per nessuna ragione. Così scriveva René Descartes nel suo Discorso sul metodo:

[...]È pure assai notevole che sebbene molti animali in alcune loro azioni dimostri-no più industria di noi, tuttavia non ne mostrano alcuna in molte altre: cosicché, ciò che essi fanno meglio di noi non prova che hanno ingegno – ché in tal caso ne avrebbero più di noi e ci supererebbero in ogni attività – ma piuttosto che essi non ne hanno affatto, e che è la Natura che agisce in loro, secondo la disposizione dei loro organi, così come si osserva che un orologio, pur essendo solo composto di ruote e di molle, conta le ore e misura il tempo più precisamente di noi con tutta la nostra prudenza.[…] dopo l’errore di quelli che negano Dio [...] non ve n’è altro che allontani di più gli uomini deboli dal giusto cammino della virtù che immagi-nare che l’anima delle bestie sia di natura uguale alla nostra e che, di conseguenza, non dobbiamo temere nulla, né nulla sperare dopo questa vita, come le mosche e le formiche3.

Eppure, nonostante già Charles Darwin nell’ormai lontano 1872 ne L’epres-sione delle emozioni nell’uomo e negli animali aveva messo ben in evidenza una continuità tra tutte le specie individuando elementi che militano in favore di una differenza non qualitativa ma solo di grado tra noi e le altre specie, si è fatto fatica fino agli anni Sessanta del Novecento a pensare ai nostri compagni di viaggio sulla terra come a soggetti di una vita, a punti di vista sul mondo. Si è fatto fatica a percepire gli animali non umani come dotati di scopi e ragioni per agire, credenze, desideri, preferenze, consapevolezza, capacità di soffrire o provare piacere. Parlare di mente animale (e figuriamoci di diritti) era un vero e proprio tabù. Come si poteva, infatti, utilizzare la parola “mente” per spiegare i comportamenti degli animali agiti da istinti, quest’ultimi simili ad interruttori che regolano l’accensione e lo spegnimento della luce in una stanza?

Gli anni Sessanta sono anni importanti, non solo per la diffusione del twist o l’affermazione della beat generation, per il primo uomo sulla Luna o l’occu-pazione delle università, ma anche per la nascita dell’etologia cognitiva che consente di infrangere ciò che abbiamo definito “tabù della mente animale”.

“L’essere umano non ha mai avuto rapporti facili con gli altri animali. All’uomo occidentale è rimproverabile un complesso di superiorità filosofica nei riguardi degli animali”4. Così scrive l’etologo Enrico Alleva in La mente 3 René Descartes, Discorso sul metodo, in E. Lojacono (a cura di), Opere filosofiche di René Descartes, UTET, Torino, 1994, vol. I, pp. 538-540.4 E. Alleva, La mente animale, Einaudi, Torino, 2007, p. IV.

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animale. In effetti, se ci riflettiamo bene, all’uomo si può rimproverare di essere stato il creatore di cosmogonie culturali con un centro di gravità permanente, ossia se stesso. L’uomo ha sempre rappresentato e magnificato se stesso crean-do filosofie gerachizzate e piramidali con al vertice l’unico essere perfetto che, senza imbarazzi, diventa simile a un dio. Gli altri animali hanno sempre fatto da sfondo al delirio di onnipotenza dell’uomo che si ciba e si veste con pezzi di animali e li prende come termine di paragone per magnificare le sue abilità e capacità all’interno del mondo naturale. Nel corso dei secoli si assiste alla costruzione di enormi edifici antropocentrici.

Una simile costruzione, indiscriminata e abusiva, ha ricevuto duri colpi dal-lo studio scientifico della natura e dei suoi abitanti. Da Darwin in poi l’uomo diventa il prodotto di una catena di esseri viventi e la mente non è vista solo co-me prerogativa umana; diversamente da quanto accadeva in buona parte della filosofia del passato oggi non possiamo parlare degli animali senza considerare il fatto che lo siamo anche noi. Accettare l’evoluzione biologica e la scoperta della stretta parentela genetica con le altre specie non è stato semplice per l’ego umano e per la sua vanità, non è detto infatti che sia una cosa dalla quale ci sia-mo del tutto ripresi dal momento che per molti non è stata una cosa semplice dover rinunciare alla specialità, all’ unicità e alla superiorità della nostra specie. Dalle parole di Pietro Perconti:

Che gli esseri umani siano creature caratterizzate dal fatto di pensare e di parlare è un luogo comune. Aver coltivato la consapevolezza di questa originalità talvolta è stato il modo di legittimare certe strategie di dominio: verso le altre persone (che sembravano balbettare, che non sapevano articolare la voce, che non ragionavano nel modo più diffuso), verso gli altri animali (che davano l’impressione di non avere nè pensiero nè parola), verso il resto della natura. Alcune delle basi su cui fondare la differenza tra noi e il resto del creato sono venute meno con il successo della teoria della selezione naturale, dell’intelligenza artificiale e di molte altre co-noscenze che hanno messo in dubbio le vecchie certezze5.

In un articolo del 1991 Sonia I. Yoerg e Alan C. Kamil6 affermarmano che lo sviluppo dell’etologia cognitiva ha contribuito a evidenziare che gli animali si impegnano abitualmente in un comportamento più complesso di quanto la

5 P. Perconti, Leggere le menti, Laterza, Roma-Bari, 2003, p.1.6 S.I. Yoerg, A.C. Kamil, 1991, Integrating cognitive ethology with cognitive psychology, in Cognitive Ethology: the Minds of Other Animals: Essays in Honor of Donald R. Griffin, (ed.) Carolyn A. Ristau. Hillsdale, NJ, Lawrence Erlbaum Assoc., pp. 273-289.

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maggior parte degli etologi o degli psicologi avrebbe mai ritenuto plausibile. Spesso il mondo dell’organico sembra avvolto nelle nebbie, viene relegato nel regno dell’indistinzione e della confusione, diventa semplice presenza muta e straniera.

Agli inizi del Novecento il barone prussiano Jakob von Uexküll ci accom-pagna, attraverso le pagine di I mondi invisibili (1934), in lunghe passeggiate tra organismi piuttosto bizzarri: la chioccia che sembra restare indifferente e cieca davanti al suo piccolo in pericolo, la zecca paziente, la medusa ossessio-nata dal movimento circolare e sempre uguale del suo ombrello, il paguro ere-mita. Uexküll comprende qualcosa di molto importante. L’ambiente, lontano dall’essere come scriveva Auguste Comte, il complesso totale delle circostanze esterne necessarie all’esistenza di ciascun organismo oppure un habitat statico (la luce, l’acqua, l’aria) che non esercita alcuna influenza sugli organismi come so-steneva Jean-Baptiste Lamarck, è qualcosa che costruisce e compone il vivente stesso. L’ambiente (Umwelt) è il risultato di una continua e perenne attività degli organismi che selezionano solo ed esclusivamente gli stimoli che conside-rano rilevanti per la loro sopravvivenza. Uexküll è stato brillante nel descrivere la Umwelt di molti organismi ma scrive Giorgio Vallortigara:

Ovviamente lo ha fatto nei termini del suo proprio Umwelt, dalla sua personale prigione.[...] Inevitabilmente, noi tendiamo a utilizzare la nostra esperienza senso-riale come termine di paragone rispetto al quale considerare le esperienze delle altre specie. Tuttavia le abilità sensoriali della nostra specie, così come quelle di qualsiasi specie, sono semplicemente la conseguenza della selezione naturale. Le strutture e le caratteristiche dei nostri apparati immagine del mondo si sono evolute in rispo-sta agli specifici bisogni e problemi imposti alla nostra specie nella sua nicchia di adattamento evolutivo lungo il corso della storia naturale7.

La nostra personale prigione è un luogo dal quale interpretiamo ogni cosa che osserviamo. A ciascuno di noi sarà capitato un incontro di tipo emotivo con una specie diversa dalla nostra e con molta probabilità abbiamo interpreta-to il comportamento di chi ci stava di fronte mettendoci nei suoi panni. Imme-desimarsi è una tendenza inevitabile e ingovernabile. Siamo soliti interpretare il comportamento degli altri animali così come interpretiamo il nostro e siamo anche soliti cimentarci nell’esperienza di comprendere cosa significhi essere

7 G. Vallortigara, Altre menti. Lo studio comparato della cognizione animale, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.14-15.

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qualcun altro. “What is it like to be a bat?” si chiede nel 1974 Thomas Nagel in un suo celebre articolo8. Proveremmo qualcosa a essere un pipistrello che vola nel buio alla ricerca di insetti? La risposta di Nagel è affermativa. Scrive Pietro Perconti:

Secondo Nagel, tuttavia, questo genere di azzardo immaginativo è ineluttabilmen-te destinato al fallimento perché gli sforzi creativi che è possibile mettere in campo saranno sempre insufficienti rispetto al risultato che si intendeva ottenere. Infatti, si voleva sapere cosa prova un pipistrello o una formica a essere ciò che sono, ma perfino l’immaginazione di Ludovico Ariosto non potrebbe che consegnarci una idea di cosa proveremmo noi in quei panni, mentre volevamo sapere cosa si prova a essere proprio quelle cose dalla loro prospettiva. Ecco una accattivante trappola argomentativa: la domanda di Nagel attrae così tanto proprio perché porta con sé la frustrazione necessaria a essere continuamente alimentata. Eppure introduce un tarlo nella comprensione del fenomeno della coscienza: forse l’unica prospettiva adeguata per apprezzare i dati della coscienza è quella della prima persona, di chi ha lo stato mentale di cui sta facendo esperienza9.

Alla consapevolezza e all’effetto che fa esserlo sono legate numerose intui-zioni che appartengono al senso comune e che hanno a che fare ad esempio con la differenza che c’è tra gli animali umani e gli altri animali. Gli esseri umani, infatti, sarebbero speciali perchè sono gli unici ad avere una coscienza. Ma la nuova scienza della mente sta mettendo a nostra disposizione una serie di stru-menti – teorici ed empirici – per comprendere che le cose non stanno proprio in questo modo.

La versatilità nelle operazioni di predazione, il riconoscimento allo specchio da parte di alcune specie animali, la costruzione di artefatti, le innumerevoli ca-pacità concettuali, la raffinatezza con cui si declina la facoltà comunicativa, ad esempio nella danza simbolica delle api o nelle “grida semantiche” dei macachi, il gioco e le tattiche di inganno deliberato, l’espressione di sentimenti ed emo-zioni rappresentano finestre spalancate sulla mente degli altri animali. “Sapevo bene – scrive Jane Goodall – che gli animali hanno personalità, che sono in grado di ragionare e di risovere problemi, che hanno una mente ed emozioni: non ebbi quindi alcuna esitazione ad attribuire queste qualità agli scimpanzé. Aveva avuto ragione Louis ad affidare questa ricerca sul campo a una persona

8 T. Nagel, What is it like to be a bat?, in Philosophical Review, 4, 1974, pp. 435-450; trad. it. in Id., Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano, 1986.9 P. Perconti, Coscienza, Il Mulino, Bologna, 2011, pp.11-12.

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che non avesse la mente ingombra dalla teoria della scienza meccanicistica, col suo riduzionismo e il suo semplicismo”10.

Oggi è sempre meno il numero di etologi, filosofi, biologi e psicologi che negano le facoltà mentali alle specie non umane. Tutto questo ha profonde e importanti conseguenze sulle modalità di sviluppo della ricerca scientifica e sul tipo di rapporto che intratteniamo con gli altri animali. Rimane da fare ancora uno sforzo, vale a dire ridimensionare la nostra cattiva abitudine, spesso arrogante e presuntuosa, che ci spinge ad enfatizzare tutte quelle capacità che caratterizzano gli animali umani. “Vi è qualcosa di grandioso – scrive Charles Darwin ne L’Origine delle specie – in questa concezione secondo cui la vita, con le sue diverse forze, fu da principio insufflata in poche forme, o una sola e, da inizi così semplici, mentre il pianeta continuava a ruotare secondo l’immuta-bile legge della gravità, si sono evolute ed ancora si evolvono infinite forme bellissime e meravigliose”11.

10 J. Goodall, Le ragioni della speranza. Lungo viaggio al centro della natura, Baldini&Castoldi, Milano, 1999, pp.90-91.11 C. Darwin, 1859, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preser-vation of Favoured Races in the Struggle for Life, Murray, London (trad. it. L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 19676, pp. 553-4.

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Specismo, dominionismo e l’ultima frontiera della giustizia socialedi Tom Regan1

Agli estranei, noi sostenitori dei diritti animali sembriamo un gruppo stra-no: non mangiamo carne, evitiamo i cosmetici testati sugli animali e boicottia-mo gli spettacoli che li coinvolgono. Avvolgerci in pellicce? Scordatevelo. Noi ARA (Animal Rights Advocates) non indossiamo neanche abiti di pelle o di lana. Molte persone vedono gli ARA come i peggiori, i più gravi, gli irrecuperabili matti da legare. Essenzialmente, però, quello che crediamo è semplicemente dettato dal buon senso.

Cosa credono gli ARA

Noi crediamo che gli animali – uccisi per farne cibo, intrappolati per farne pellicce, usati nei laboratori o addestrati a saltare dentro a un cerchio – siano specifici “qualcuno”, non generici “qualcosa”. Crediamo che quello che succede agli animali sia importante per loro. Perché? Perché quello che succede fa la differenza nella qualità e nella durata della loro vita.

In questo senso gli ARA credono che umani e animali siano la stessa cosa, siano uguali. Perciò, tutti gli ARA condividono un comune punto di vista morale, ovvero, non dovremmo fare a loro quello che non faremmo a noi stessi: non mangiarli, non indossarli, non fare esperimenti su di loro, non farli saltare nei cerchi. “Non gabbie più grandi,” diciamo, “ma gabbie vuote.”

1 Tom Regan è professore emerito di filosofia presso la North Carolina State University. Riconosciuto come “il leader filosofico del movimento per i diritti animali”, gli editori di Utne Reader lo hanno poi nominato, insieme al Dalai Lama, uno dei “cinquanta visionari che stanno cambiando il mondo”. Le sue numerose pubblicazioni includono: Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, La mia lotta per i diritti animali, I diritti animali.

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Lo spettro dello specismo

L’argomento per i diritti animali che ho appena delineato implica che gli umani e gli altri animali siano uguali in termini moralmente rilevanti. Alcu-ni filosofi invece, tra cui principalmente Carl Cohen, ripudiano ogni forma di egualitarismo tra specie: infatti secondo Cohen, mentre gli umani sono tra loro moralmente uguali a prescindere da razza, genere o etnia, gli umani e gli altri animali non sono affatto uguali sotto il profilo morale, nemmeno quando si tratta di sofferenza. Ecco alcuni esempi che chiariranno la sua posizione.

Innanzitutto, immaginate che un bambino e una bambina soffrano allo stesso modo. Se qualcuno assegnasse un maggior peso morale alla sofferenza del bambino perché è un maschio bianco irlandese, e un minor peso morale alla sofferenza della bambina perché è una femmina nera del Kenya, Cohen protesterebbe, giustamente: le differenze umane di razza, genere ed etnia non sono differenze moralmente rilevanti.

Secondo Cohen, tuttavia, la situazione cambia quando si tratta di diffe-renze tra specie. Immaginate ora che un gatto e un cane soffrano entrambi quanto il bambino e la bambina. Per Cohen, non c’è niente di moralmen-te pregiudizievole né arbitrario nell’assegnare un’importanza maggiore alla sofferenza dei bambini, in quanto umani, rispetto all’eguale sofferenza degli animali, che non lo sono.

I sostenitori dei diritti animali negano tutto questo: noi crediamo che prospettive come quella di Cohen riflettano un pregiudizio morale contro gli animali che è del tutto analogo a pregiudizi più conosciuti, come il ses-sismo e il razzismo, e chiamiamo questo pregiudizio specismo (un termine importante coniato da Richard Ryder nel suo libro Victims of Science.)

Da parte sua, Cohen è orgoglioso di essere specista e nega che sia un pregiudizio. La sofferenza umana, scrive, “in qualche modo” conta di più dell’uguale sofferenza animale. Perché? Perché (lui pensa) mentre non ci so-no differenze moralmente rilevanti tra uomini e donne umani, o tra bianchi e neri, “le differenze moralmente rilevanti [tra gli umani e gli altri animali] sono enormi.” In particolare, gli esseri umani, e non gli altri animali, sono “moralmente autonomi”; ovvero noi possiamo, e loro no, fare scelte morali per le quali siamo responsabili.

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Perché lo specismo è un pregiudizio

La difesa che Cohen fa dello specismo non è affatto una difesa. Non solo trascura opportunamente il fatto che un’alta percentuale della popolazione umana (bambini piccoli e in età preverbale, ad esempio) non è moralmente autonoma, ma l’argomento di tale autonomia non è nemmeno pertinente al problema in questione. Un esempio ci aiuterà a capire perché.

Immaginate che qualcuno dica che Jack è più intelligente di Jill perché Jack vive a Syracuse e Jill a San Francisco. I due abitano in posti diversi, certo, e spesso è utile prendere in considerazione il luogo di residenza delle persone (ad esempio, quando si fa un censimento o si impone una tassa), ma chiunque capirà che dove Jack e Jill vivono non ha alcuna importanza logica nel giudicare Jack più intelligente.

Questo non è meno vero qualora uno specista dica (usando due impor-tanti personaggi de Il mago di Oz) che le sofferenze di Toto contano meno di quelle di Dorothy perché Dorothy è moralmente autonoma e Toto in-vece no. Infatti, se la domanda è: “Il dolore di Toto conta quanto quello di Dorothy?”, dicendoci che Dorothy è moralmente autonoma e Toto no, non ci viene data alcuna ragione rilevante per pensarla in un modo o nell’altro. Questo non perché la capacità di autonomia morale non sia mai pertinen-te al nostro pensiero morale su umani e altri animali, anzi, a volte lo è: ad esempio, se Jack e Jill avessero questa capacità, allora sarebbero interessati (a differenza di Toto) ad essere liberi di agire nel modo dettato loro dalla co-scienza. In questo caso la differenza tra Jack e Jill da una parte e Toto dall’al-tra è pertinente da un punto di vista morale. Ma solo perché l’autonomia è, in questo senso, rilevante nella valutazione di alcuni casi, non ne segue che lo sia sempre, e una circostanza in cui non può essere considerata tale è pro-prio l’estimazione del dolore. Secondo logica, sottostimare il dolore di Toto perché non è moralmente autonomo somiglia a sottostimare l’intelligenza di Jill perché non vive a Syracuse.

La domanda è, dunque, se è possibile offrire una qualche ragione perti-nente e difendibile a supporto di questo giudizio specista, secondo cui l’im-portanza morale del dolore umano e animale, esseri uguali sotto altri aspetti, debba sempre essere misurata in favore del primo e a sfavore del secondo. A questa domanda né Cohen né nessun altro filosofo che io conosca offrono una risposta logicamente accettabile.

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Persistere nel giudicare le sofferenze umane (la stessa cosa vale per i pia-ceri, i benefici, i danni, e via dicendo) come più importanti delle uguali sof-ferenze di altri animali solo perché umane non è razionalmente difendibile: lo specismo è un pregiudizio morale. A dispetto delle rassicurazioni di Co-hen, non è giusto, ma sbagliato.

Dominionismo

Spesso si tenta di difendere lo specismo appellandosi alla sovranità che Dio diede agli uomini. Il passo della Genesi 1.26, citato più volte, legge:

E poi Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra.

Nulla potrebbe essere più chiaro del fatto che la Bibbia insegni la su-premazia umana sulle altre specie, da cui segue (come direbbero gli specisti quali Cohen) che non facciamo niente di male quando trasformiamo gli animali in cibo, vestiti, o intrattenimento. Dopo tutto, non sono stati gli animali a ricevere la sovranità sugli uomini.

Sì, ma… sarebbe utile ricordarci che la Bibbia insegna anche che Dio è sovrano su di noi, e nonostante Dio possa benissimo usare il suo potere divino per sfruttarci per fini divini, ciò non corrisponde a quanto ci dice la Bibbia, specialmente nei libri del Nuovo Testamento. Invece di sfruttare gli uomini, Dio sacrifica il suo stesso figlio per il loro bene.

Possiamo notare, inoltre, che nella Genesi Dio concede il dominio agli umani dopo la caduta – cioè dopo che Adamo ed Eva hanno commesso il peccato originale. Prima di ciò – prima che deludessero le speranze di Dio nel costituire i gioielli della corona della creazione – le circostanze erano piuttosto diverse. Richiamiamo il passo in questione (Genesi, 1:29):

E Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, ed ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento.

In altre parole, prima della caduta, mentre vivevano in paradiso, Adamo ed Eva erano vegani: non mangiavano carne animale o prodotti animali, e nemmeno indossavano pelli o pellicce. Adamo ed Eva: i primi ARA.

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Coloro che possiedono una certa disposizione religiosa, quindi, possono notare che la speranza di Dio nel creare il mondo includeva l’esistenza di relazioni pacifiche tra gli umani e gli altri animali, come esemplificato nel Giardino dell’Eden. Gli ARA con una simile attitudine religiosa si vedono – nelle loro scelte di ogni giorno, che riguardano ad esempio ciò che man-giano e indossano – procedere a passi piccoli ma significativi sulla strada che torna all’Eden, verso il pacifico mondo inter-specie che Dio creò in principio.

Il “trattamento umano” è legge

I Sostenitori del Diritti Animali sono relativamente pochi. Come mai? Parte della risposta ha a che fare con le nostre credenze inadeguate su quan-te volte gli animali vengano trattati male: gli ARA credono che sia una tragedia di proporzioni incalcolabili, i non-ARA tendono invece a pensare che tali maltrattamenti non avvengano quasi mai.

Che i non-ARA la pensino così sembra perfettamente ragionevole: dopo tutto, abbiamo delle leggi che stabiliscono come gli animali debbano essere considerati e un organico di ispettori governativi che si assicurano che que-ste leggi vengano rispettate. Giusto?

E cosa postulano le nostre leggi? Nel termini dell’americano Animal Wel-fare Act, gli animali devono ricevere “cure e trattamenti umani”. In altre pa-role, gli animali devono essere trattati con empatia e gentilezza, con pietà e compassione – il vero significato della parola “umano”, specificato in ogni dizionario.

Se le cose fossero gravi come sostengono gli ARA, un numero enorme di trattamenti disumani verrebbe certo portato alla luce dagli ispettori del governo; tuttavia, una situazione del genere non può essere rivelata dagli ispettori.

Nell’anno fiscale 2009, l’Animal Plant Health Inspection Service (APHIS) ha condotto 11.179 esami di conformità. Di questi, solo quarantatrè siti han-no ricevuto reclami ufficiali, che sono poi stati mandati al tribunale ammini-strativo: si ottiene pertanto un apparente tasso di conformità del 99%.

Non c’è quindi da stupirsi se il grande pubblico crede che, con alcune rare eccezioni, gli animali siano trattati con compassione e gentilezza, pietà e simpatia.

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Il mito delle “cure e trattamenti umani”

Tragicamente, la fiducia del grande pubblico nell’adeguatezza delle ispe-zioni governative è malriposta: ciò che gli ispettori dell’APHIS valutano come “umano” mina la base stessa delle ispezioni prima ancora che queste vengano condotte. Consideriamo alcuni esempi di cosa accade agli animali nei labora-tori di ricerca:

• Cani, gatti, primati non umani e altri animali vengono annegati, soffo-cati, e lasciati morire di fame.

• Vengono bruciati, sottoposti a radiazioni e usati come cavie nella ri-cerca militare.

• I loro occhi vengono rimossi chirurgicamente e il loro udito viene distrutto.

• Le loro membra vengono tagliate e gli organi interni schiacciati.• Si usano mezzi invasivi per provocare attacchi di cuore, ulcere e crisi.• Vengono privati del sonno, sottoposti a shock elettrici, ed esposti a

livelli estremi di caldo e freddo.

Tutte queste procedure sono conformi all’Animal Welfare Act. Ognuna soddisfa i termini di ciò che gli ispettori valutano come “cure e trattamenti umani”.

Può solo peggiorare

Il numero annuale di animali usati nei laboratori di ricerca soggetti alle ispezioni dell’APHIS è stimato a venti milioni, cifra che, sebbene alta, viene ben ridimensionata dal confronto con i dieci miliardi di animali annual-mente macellati per farne cibo, e questo solo negli Stati Uniti.

A tal proposito è senz’altro degno di nota che gli animali da allevamento siano esplicitamente esclusi dalla protezione legale fornita dall’Animal Wel-fare Act. Riportiamo ciò che lo stesso AWA dice al riguardo:

“Il termine ‘animale’... esclude i cavalli non usati a scopi di ricerca e gli altri animali da allevamento, quali, a titolo di esempio non esclusivo, il be-stiame o il pollame, usato come alimento o destinato alla produzione ali-mentare o tessile...”

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specismo, dominionismo e l’ultima frontiera della giustizia sociale

Inoltre, dopo i doverosi dibattiti e le udienze, nel 2002 il Congresso degli stati Uniti votò per procedere con l’esclusione dalla protezione dell’Animal Welfare Act anche di uccelli, ratti e topi.

Ma se non il nostro governo, chi, allora, decide cosa significhino una cura ed un trattamento umano, ad esempio, per gli animali da allevamento? Nella real-politik dell’agricoltura animale americana, quelli che scrivono le regole sono le industrie dell’allevamento.

E quale trattamento sarebbe permesso secondo queste regole? Ecco al-cuni esempi.

• I vitellini da carne passano la vita intera confinati ciascuno in piccole gabbie troppo strette persino per voltarsi.

• Le galline ovipare vivono un anno o più in gabbie della grandezza di un cassetto d’ufficio, almeno sette in ogni gabbia, dopodiché vengono regolarmente tenute a digiuno per due settimane per favorire un altro ciclo di covate.

• Le scrofe sono tenute per quattro o cinque anni in recinzioni indi-viduali (“stalli da gestazione”) appena più grandi dei loro corpi, dove sono costrette a partorire una cucciolata dopo l’altra.

• Fino all’allarme della “mucca pazza” i bovini e il bestiame da latte troppo deboli per stare in piedi (conosciuti come “downers”, “depri-menti”) venivano trascinati o spinti al macello.

• Le oche e le anatre vengono nutrite forzatamente con l’equivalente umano di 13,6 kg di cibo al giorno con lo scopo di ingrassare il loro fegato, così da soddisfare meglio la domanda di foie gras.

Tutte queste condizioni e procedure dimostrano quale sia la dedizione dell’industria alla compassione e alla gentilezza, all’empatia e alla pietà.

Non dimenticate le fibre tessili

Nella propaganda dell’Animal Welfare Act non sono solo gli animali da ali-mentazione a non essere qualificati come “animali”: lo stesso vale per quei come-li-chiami (aka animali) usati per produrre fibre tessili. Per la pelle, ad esempio, o la lana, o le pellicce. E questa non è fantascienza, è la realtà. Gli animali da pelliccia, siano essi catturati nella foresta o allevati in apposite

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fattorie, sono esenti dalla protezione legale che, benché scarsa, viene fornita dall’AWA. Perciò, così come nel caso dell’agricoltura animale, l’industria della pelliccia stabilisce leggi e regolamenti propri riguardo al “trattamento umano”.

E cosa permetterebbero l’allevamento o la cattura “umani”? Ecco alcuni esempi.

• Nelle fattorie da pelliccia visoni, cincillà, procioni, linci, volpi e altri animali sono confinati in gabbie di rete metallica per tutta la vita.

• Passano le ore di veglia camminando avanti e indietro, o guardando di qua e di là, o saltando sul bordo delle gabbie, automutilandosi, o cannibalizzando i loro compagni di gabbia.

• La loro morte è causata tramite rottura del collo, o asfissia (usando diossido o monossido di carbonio), o spingendo delle aste elettriche su per il retto anale, per “friggerli” dall’interno (elettrocuzione anale).

• Gli animali catturati in natura con delle trappole impiegano, in me-dia, quindici ore per morire.

• Gli animali da pelliccia che vengono intrappolati spesso si strappano le membra a morsi in un vano tentativo di salvarsi la vita.

Tutto ciò è perfettamente legale; ogni dettaglio è in linea con gli standard industriali di compassione e gentilezza, empatia e pietà.

È ora di arrabbiarsi

Alcuni di voi ricorderanno le parole immortali del presentatore televi-sivo Howard Beale nel film Quinto Potere. È tutto una follia, dice Beale. Il mondo è un casino, la gente ha bisogno di arrabbiarsi, arrabbiarsi veramente. “Voglio che tutti voi vi alziate dalle vostre sedie”, dice Beale ai telespettatori, “che andiate alla finestra, che l’apriate, che vi affacciate tutti ed urliate: sono incazzato nero, e tutto questo non lo accetterò più!”

Le persone che credono a quello che i portavoce dell’industria e del go-verno dicono sulle “cure e trattamenti umani” degli animali dovrebbero se-guire l’ammonizione di Howard Beale. Avrebbero bisogno di incazzarsi, e precisamente per due ragioni.

Prima di tutto, per come loro stessi sono stati maltrattati. La questione è semplice: non gli è stata detta la verità. Al contrario, sono stati ingannati e manipolati dai portavoce dell’industria e del governo: “Fidatevi di noi, tutto

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specismo, dominionismo e l’ultima frontiera della giustizia sociale

va alla grande nei laboratori, in fattoria, nelle foreste, gli animali vengono trattati umanamente”.

In secondo luogo, le persone hanno bisogno di incazzarsi per come ven-gono maltrattati gli animali. Quando gli organi degli animali vengono spap-polati e le loro membra tagliate; quando stanno male a causa del cibo che devono mangiare a forza, e passano la vita intera da soli, in isolamento; quando vengono gassati a morte o gli si spezza il collo: nessuna macchina propagandistica potrà mai trasformare la realtà di questi fatti agghiaccianti.

Quando finalmente arriverà il giorno in cui il grande pubblico davvero si incazzerà, le fila dei sostenitori dei diritti animali raggiungeranno proporzioni senza precedenti. Quando arriverà quel giorno – ma sicuramente non prima – la speranza condivisa verso un mondo nel quale gli animali siano davvero trattati umanamente avrà finalmente delle fondamenta solide su cui reggersi.

L’ultima frontiera della giustizia sociale

Nello spirito di Howard Beale, gli ARA invitano gli esseri umani di tut-to il mondo a capire da dove veniamo. Siamo abolizionisti, non riformisti: vogliamo mettere fine allo sfruttamento animale da parte degli uomini, non renderlo “più bello”. Perché? Perché crediamo che il riconoscimento dei di-ritti animali rappresenti l’ultima frontiera della giustizia sociale.

Neanche coloro che si sono opposti alla schiavitù umana erano riformisti, bensì abolizionisti, e hanno combattuto per mettere fine alla schiavitù inte-ramente. Coloro che hanno lavorato (e continuano a farlo) per i diritti delle donne e per quelli di gay e lesbiche non sono riformatori. Anche loro sono abolizionisti. Hanno lottato (e continuano a farlo) per mettere fine a tutte le forme di discriminazione basate sul genere o sull’orientamento sessuale – interamente.

Noi ARA invitiamo gli altri a unirsi a noi nell’ultima frontiera della giusti-zia sociale. Lo sfruttamento umano degli animali affonda le sue radici in un profondo pregiudizio specista – e questo è un fatto che non si può eludere: co-me è indifendibile lo specismo, così è anche lo sfruttamento animale. Quando il polverone della polemica si sarà placato, ci sarà una sola risposta adeguata: abolire interamente la tirannia che noi umani esercitiamo sugli altri animali.

Traduzione di Elisa Giuliana

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Cosa c’è nell’antispecismo che milita contro le sue stesse ragionidi Pietro Perconti

Sembra che il termine “specismo” sia stato coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder. In un pamphlet che all’inizio ebbe una diffusione soltanto privata, egli sosteneva che c’è qualcosa che è senz’altro sbagliato nella comune considerazione morale delle “specie”. Quaranta anni dopo Ryder è tornato sulle motivazioni che a quell’epoca lo avevano spinto a contrastare l’atteggiamento battezzato proprio con il termine “specismo”. Secondo il suo racconto l’antispecismo sarebbe nato nel modo seguente.

Le rivoluzioni degli anni Sessanta contro il razzismo, il sessismo e il classismo han-no per lo più mancato il bersaglio degli animali. Questo mi ha preoccupato. A quel tempo l’etica e la politica semplicemente hanno trascurato del tutto i non-umani. Tutti sembravano preoccupati di ridurre i pregiudizi contro gli umani. Ma non avevano sentito parlare di Darwin? Odiavo il razzismo, il sessismo e il classismo, davvero, ma perché fermarsi lì? Come psicologo clinico ero convinto che migliaia di altre specie animali avevano paura, provavano dolore o un forte stress più di quanto capitasse a me. Andava fatto qualcosa. Avevamo bisogno di stabilire un pa-rallelo tra la condizione delle altre specie e la nostra. Un giorno, nel 1970, mentre stavo facendo un bagno nella vecchia Sunningwell, vicino Oxford, improvvisa-mente mi venne in mente: SPECISMO!1.

Il dattiloscritto, dapprima ignorato nell’ambiente dei collegi oxoniensi, rice-vette più avanti alcune reazioni, tra cui quella di un giovanissimo Peter Singer, in seguito anch’egli uno dei campioni dell’antispecismo. Da allora il successo di questa idea è stato impressionante. Eppure, come cercherò di mostrare in quanto segue, oltre che qualcosa di sbagliato nella comune considerazione mo-rale delle “specie”, sembra esserci qualcosa che non va anche nell’idea stessa di “anti-specismo”, qualcosa che milita addirittura contro le sue stesse ragioni.1 R.D. Ryder, Speciesism Again: the original leaflet, in Critical Society, Spring, 2010, Issue 2.

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cosa c’è nell’antispecismo che milita contro le sue stesse ragioni

Le ragioni dell’antispecismo, infatti, portano a negare che la considerazio-ne morale debba fermarsi sulla soglia delle specie, ma nelle sue premesse c’è qualcosa che conduce verso un genere di “considerazione morale” che si rivela indesiderato. Procediamo con ordine.

Lo specismo sarebbe analogo al razzismo, sessismo e classismo. Così come il movimento di emancipazione dei diritti individuali ha ritenuto inaccettabili le discriminazioni motivate da ragioni razziali, sessuali o economico-sociali, allo stesso modo non si dovrebbe discriminare un altro animale per la sola apparte-nenza a una specie diversa dalla nostra. I movimenti progressisti del Novecento sono stati importanti, e per molti versi lo sono ancora, ma si sarebbero inaspet-tatamente fermati davanti alla soglia delle specie. L’antispecismo è proprio la continuazione oltre la soglia della specie dei movimenti di liberazione. Animal liberation, non a caso, è il titolo del libro manifesto di Peter Singer2.

Richard Ryder e Peter Singer sono due importanti esponenti del movimen-to antispecista. Un altro, ugualmente significativo, è Tom Regan. Secondo il suo punto di vista lo specismo è senz’altro un pregiudizio morale, proprio co-me il sessismo o il razzismo. “La domanda è, dunque, se è possibile offrire una qualche ragione pertinente e difendibile a supporto di questo giudizio specista, secondo cui l’importanza morale del dolore umano e animale, esseri uguali sotto altri aspetti, debba sempre essere misurata in favore del primo e a sfavore del secondo”3. Il giudizio specista consisterebbe quindi nell’assegnare una im-portanza maggiore al dolore umano rispetto a quello animale. Ryder, che deve sentire una certa compulsione a fondare nuove correnti filosofiche, ha molto insistito su questo punto, chiamando “painismo” (o, come suonerebbe un po’ meglio in italiano: “dolorismo”) la teoria morale che prescrive di diminuire o eliminare il dolore fisico negli altri animali4. Nelle affermazioni di Tom Regan risalta l’espressione “importanza morale”. Cosa vuol dire, qui, tale espressione?

Forse il suo significato diventa più chiaro nel seguito dello stesso saggio, laddove l’autore parla del trattamento “umano” che dovrebbe essere riservato agli altri animali secondo l’Animal Welfare Act negli Stati Uniti5. La parola

2 P. Singer, Animal Liberation, New York Review/Random House, 1975.3 T. Regan, Specismo, dominionismo e l’ultima frontiera della giustizia sociale, in questo fascicolo.4 R. D. Ryder, Painism: A Modern Morality, Open Gate Press, 2001.5 L’Animal Welfare Act è una legge federale degli Stati Uniti, firmata dal presidente Lyn-don Johnson nel 1966 e più volte emendata. Riguarda il trattamento degli altri animali nella sperimentazione scientifica, nel trasporto, nelle esibizioni e in altri ambiti di relazi-

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“umano” in questo contesto alluderebbe al fatto che gli animali dovrebbero essere trattati con compassione e gentilezza, pietà e simpatia. Trattare gli altri animali in un modo non specista vuol dire quindi riconoscere al loro dolore la stessa importanza che assegniamo al nostro. Solo così li tratteremmo in modo “umano”, adotteremmo cioè un comportamento improntato alla compassione e alla gentilezza, alla pietà e alla simpatia. Ecco quindi i valori che l’antispeci-sta vorrebbe difendere. Si tratta di considerare gli altri animali “come noi”, di riservare loro la stessa considerazione morale che riconosciamo agli altri esseri umani, o almeno che dovremmo riconoscere loro.

Ma davvero le specie sono cose come le razze o il sesso? Quella di “razza” è una nozione scientificamente dubbia. Luigi Luca Cavalli Sforza ha mostrato come la distribuzione geografica dei tratti morfologici nella specie umana e la soggiaciente diversità genetica segue strade che non sono affatto compiacenti con il razzismo. Per esempio, risulta che gli europei sono molto più “africani” di quanto eravamo abituati a pensare6. Ma, soprattutto, non c’è alcuna ragione scientifica per riservare al portatore di un certo corredo genetico umano una considerazione moralmente o giuridicamente diversa da quella degli altri. C’è da dire che, anche se una tale ragione fosse infine trovata dalla scienza, il raz-zismo continuerebbe a ripugnare alla coscienza umana per tanti altri motivi. La nozione di “sesso” sembra biologicamente più chiara di quella di “razza”. Il proprio “genere” è qualcosa che dipende dall’iniziativa personale, qualcosa che si fa, che dipende dal nostro orientamento e dai comportamenti. Per questo ci sono più generi che sessi, perché l’iniziativa umana è più fantasiosa della na-tura. Il “sesso”, invece, è qualcosa che ciascun individuo si trova ad avere, più che qualcosa che si fa. Anche alla luce di questa distinzione non sembra esserci nulla nel sesso di un individuo, come del resto nel suo genere, che autorizza a discriminarlo da un punto di vista morale o giuridico. Analogamente, sostiene l’antispecista, non c’è niente nelle altre specie animali che autorizza una loro discriminazione morale o giudirica. Così come appartenere a un sesso invece che a un altro, o essere causasici invece che australiani, non autorizza a dare maggiore o minore importanza al dolore di quello o quell’altro individuo, lo stesso dovrebbe avvenire per le altre specie animali.

one interspecifica. È disponibile al seguente indirizzo internet: http://awic.nal.usda.gov/government-and-professional-resources/federal-laws/animal-welfare-act. 6 L. L. Cavalli Sforza (con Paolo Menozzi e Alberto Piazza), Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997; G. Barbujani, L’invenzione delle razze. Capire la biodiver-sità umana, Bompiani, Milano, 2006.

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cosa c’è nell’antispecismo che milita contro le sue stesse ragioni

I valori che l’antispecista difende sono generalmente apprezzabili. Si tratta di cose come la pietà, l’empatia e la compassione. Si assume che si tratta di valori buoni, che promuoverli sia segno di civiltà, e ci si chiede che argomenti abbiamo per fermarci nel loro esercizio sulla soglia delle specie. Sono valori sentimentali, ossia valori motivati da sentimenti. Occorre notare come non ci sia nulla di diminutivo nell’aderire ad un’etica sentimentale. È una opzione che almeno dai tempi di David Hume sembra del tutto ragionevole, se non l’unica capace di rendere conto dalla condotta morale. L’antispecista, però, non ragiona in questo modo. Non tenta semplicemente di promuovere un’etica in accordo con i propri sentimenti. Si basa su un argomento quasi logico. Sostie-ne che se riconosciamo che le motivazioni che stanno alla base dei movimenti di liberazione sono valide, allora devono importare anche per le altre specie.

Ma qui, ed ecco il punto, si nasconde una insidia. Il ragionamento di co-lui che contrasta il sessismo, il razzismo e il classismo segue all’incirca questo andamento. Tra me (assegniamo a “me” il nome di “individuo A”) e una certa donna, un portoricano o un nero povero di Harlem (chiamiamo queste perso-ne “individuo B”) non esistono motivi di discriminazione. Infatti c’è qualcosa che è comune a entrambi che dovrebbe vietare la discriminazione. È l’umanità che accomuna l’individuo A e l’individuo B che rende ingiustificabile la discri-minazione di B a favore di A. Per ritenere ingiustificata la discriminazione di B a favore di A si deve pensare che ad impedirlo ci sia qualcosa che è loro comu-ne. Se nella comune umanità di A e B fossero, per esempio, iscritti valori come quelli tutelati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, allora la di-scriminazione non avrebbe alcuna giustificazione. I movimenti di liberazione hanno ragioni molto solide dalla loro parte. Ma siamo legittimati ad adottare questo modo di ragionare anche riguardo le altre specie? E, soprattutto, cosa comporta farlo?

Così come il contrasto alla discriminazione di B è basata su valori che si suppongono comuni anche ad A, analogamente contrastare la discriminazione morale di un animale di una specie diversa dalla nostra dovrebbe far appello a valori che ci accumunano a quell’animale. Del resto, lo stesso Regan nel brano citato prima fa appello proprio al fatto che gli esseri umani sono “esseri uguali sotto altri aspetti” agli altri animali, considerando tale circostanza la ragione per cui l’importanza morale del dolore umano dovrebbe essere equiparata a quello animale. Se consideriamo gli individui umani come appartenenti alla classe degli α e gli individui delle altre specie come appartenenti alla classe dei β, si tratta di far appello a qualcosa che accomuna gli individui α a quelli β.

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animal studies 2/2013

Se stiamo al modo di ragionare dell’antispecista, così come prima è stato caretterizzato, non possiamo far appello a valori che appartengono alla sfera di α per contrastare la discriminazione di β. Sarebbe come contrastare il sessismo sulla base di valori maschili e non semplicemente umani, come contrastare il razzismo sulla base di valori dei bianchi o, infine, come contrastare il classismo sulla base di valori della classe dominante (qualunque cosa siano i valori maschi-li, i valori dei bianchi o i valori della classe dominante). Questo, come ognuno vede, è estraneo al modo di ragionare del sostenitore dei movimenti di libera-zione sociale. Così l’antispecista si trova logicamente costretto a basare il suo contrasto nei riguardi della considerazione morale delle altre specie su qualcosa che noi umani abbiamo in comune con esse.

Ma l’antispecista non fa così. Come abbiamo notato in precedenza egli fa esplicitamente appello a valori umani per difendere la sua posizione. Inoltre, sostiene anche che le nostre azioni verso le altre specie dovrebbero essere im-prontate a valori umani. Questi ultimi compaiono sia come motivazione del-la propria inclinazione antispecista sia come orizzonte della propria condotta morale. Se l’antispecista vuole essere coerente con il modo di ragionare che lo ispira, ossia l’estensione dei movimenti di liberazione oltre la soglia della spe-cie, dovrebbe trovare invece le proprie ragioni in qualcosa di simile a valori che accomunano gli umani alle altre specie.

Tuttavia, trovare il miglior candidato per questo ruolo non è una impresa semplice. Il problema principale risiede nella nozione di “specie”, oltre la cui soglia si vorrebbe estendere la considerazione morale. Il fatto è che la nozione di “specie” si rivela ambigua per gli scopi dell’antispecista. In primo luogo, se non c’è alcuna ragione per considerare gli interessi umani prevalenti rispetto a quelli delle altre specie, questo dovrebbe valere sia nell’atteggiamento che noi umani adottiamo nei riguardi degli altri animali, sia viceversa. Gli interessi umani non dovrebbero essere considerati prevalenti rispetto a quelli delle altre specie, incluse quelle a cui forse non avevamo pensato, come le specie paras-sitarie e quelle aggressive nei nostri confronti. Il conflitto di interessi tra le specie solleva un problema per l’antispecismo. Se non dobbiamo considerare prevalenti gli interessi umani nei riguardi di quelli delle altre specie animali, dovremmo considerare ugualmente degni gli interessi delle specie parassitarie e di quelle aggressive nei nostri confronti, laddove volevamo considerare ugual-mente degni gli interessi di tutte le specie, inclusa la nostra che ovviamente non ha alcun interesse a essere parassitata o danneggiata.

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cosa c’è nell’antispecismo che milita contro le sue stesse ragioni

In secondo luogo, la nozione di specie biologica, su sui l’antispecismo è chiaramente fondato, non è poi così univoca. Il criterio a cui spesso si pensa per chiarire cosa sia una specie biologica è quello della riproducibilità illimitata e feconda. Due individui appartengono a specie differenti se la loro unione non è fertile o almeno se non lo è la loro prole. L’unione di un castoro e di uno scoiattolo è infertile e, d’altra parte, l’unione dell’asino con una cavalla genera il mulo, che però è sterile. Ci sono comunque diverse eccezioni a questa regola, come l’unione degli orsi polari e dei grizzly che non è infertile e non produce neppure prole sterile. Le barriere tra le specie non sono così fisse. Soprattut-to non lo sono nella prospettiva temporale, come ha notoriamente mostrato Charles Darwin. Che fare, inoltre, con le specie vegetali?

Forse l’antispecista non vorrebbe estendere la sua considerazione mora-le verso le circa 350 mila specie di piante che si suppone popolino il regno vegetale. In quest’ultimo, inoltre, le specie sono spesso altamente ibridabili, facendo preferire un criterio popolazionale a quello riproduttivo per definire l’appartenenza a una data specie. Ma non è chiaro cosa comporti l’adozione di una definizione popolazionale di specie, se vogliamo superare questa soglia nell’estensione della nostra considerazione morale.

La questione sembra ingarbugliarsi. Ma per sciogliere il problema che sta for-mandosi forse basta riconoscere che quando l’antispecista dice di voler riservare alle altre specie la stessa considerazione morale che riconosce alla propria, quello che probabilmente ha in mente sono le altre specie animali, con una certa prefe-renza per i grandi vertebrati. Cosa, dunque, accumuna nella sfera etica gli esseri umani a queste altre specie animali? Qualunque forma assuma la risposta a que-sta domanda, sembra comunque che essa debba includere un qualche appello ad una etica animale. Per gli scopi di questo testo non importa accordarsi su cosa esattamente sia e quali siano le possibilità di una etica animale. È in ogni caso a una nozione di questo tipo che l’antispecista dovrebbe far appello, se non vuole constrastare la discriminazione morale delle altre specie come farebbe un antises-sista che contrastasse la discriminazione femminile usando argomenti maschilisti o un antirazzista usando i valori “della razza bianca”.

Il problema è che, qualunque cosa sia una etica animale, lo studio del com-portamento animale degli ultimi decenni ha mostrato che essa non è popo-lata dai valori dei movimenti di liberazione degli anni Sessanta, né da alcuna regola di condotta umana. In uno spirito chiaramente kantiano Carl Cohen

ha obiettato agli antispecisti che l’etica umana è caratterizzata dall’autonomia,

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mentre quella animale non si sa7. Questo renderebbe i due domini etici incom-mensurabili. Altri studiosi, come il primatologo Frans De Waal e lo psicologo statunitense Marc Hauser, sottolineano invece una certa continuità tra l’etica umana e il comportamento degli altri animali8. Nei loro libri di successo hanno sottoposto la sfera etica alla stessa cura evoluzionistica che viene oggi sommi-nistrata a quasi ogni ambito dell’azione umana. Ne emerge comunque un qua-dro composito, molto lontano dall’arcadia da cui attingere per giustificare un comune appello a valori animali come si richiederebbe fossero la compassione o il rispetto delle differenze.

D’altra parte, questo non vuol dire affatto che il comportamento degli altri animali sia cattivo. È semplicemente improntato a regole che obbediscono a una logica diversa. Molte di queste governano i comportamenti senza fare ap-pello ad alcuna considerazione esplicita della situazione in cui il comportamen-to ha luogo. È importante notare che qualunque sia il contenuto di un’etica animale, per essere conforme all’evoluzionismo a cui esplicitamente si ispira, deve comprendere regole che non richiedono di essere contemplate esplicita-mente dai singoli animali. Per esempio, anche quando rinveniamo nelle altre specie animali comportamenti che ci sembrano ispirati alla compasssione, non è richiesto che questo sentimento motivi il comportamento compassionevole né che venga contemplato come tale. Inoltre, neanche i più ferventi sostenitori di una moralità universale basata sull’evoluzione delle specie sostengono che sentimenti come la compassione siano ubiquitari nel regno animale.

Ma se il mondo animale, a cui noi stessi apparteniamo come membri della specie umana, non sembra includere nel suo complesso valori come quelli appe-na menzionati, su cosa può far leva l’antispecista per motivare il suo atteggia-mento? Può darsi che questa domanda possa ottenere in futuro una risposta soddisfacente per il modo di ragionare antispecista, ma si tratta di una strada che deve ancora essere percorsa. Se l’antispecismo vuole essere il proseguimen-to del contrasto al sessismo, al classismo e al razzismo oltre la soglia della specie, deve trovare un terreno solido in un’etica animale che contenga gli stessi valori a cui desidera ispirare il suo comportamento. Ma sfortunatamente un rinveni-mento di questo genere non si vede ancora all’orizzonte.

7 C. Cohen, Do Animals Have Rights?, in Ethics and Behavior,1997, 7(2), pp. 91-102.8 F. De Waal, Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e negli altri animali, Milano, Garzanti, 2001. Dello stesso De Waal, Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Milano, Garzanti, 2008. M. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Milano, Il Saggiatore, 2007.

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Armonia e contrappunto. Jacob von Uexküll tra etologia e ontologiadi Marco Carapezza

Con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto. Solo i nostri occhi sono

come volti all’indietro e attorno ad essa, trappole, poste tutto intorno

al suo libero uscire. Ciò che fuori è noi lo sappiamo solamente dal volto

dell’animale.

R.M. Rilke, Elegie duinesi

L’ecologia kantiana di Uexküll

La riflessione teorica di Jacob von Uexküll (1864-1940) continua ad eserci-tare un notevole fascino sulla cultura europea, dalla zoologia alla filosofia, dalla semiotica al recente interesse delle neuroscienze (cfr. Berthoz A. e Christien Y., 2009).

Sebbene la valutazione di molti aspetti del suo pensiero sia certamente con-troversa, tanto sul versante zoologico, quanto sul versante strettamente filo-sofico, la Umwelt Forschung come egli chiamò la disciplina e l’istituto da lui fondato nel 1926 ad Amburgo, continua ad essere una fonte di suggestione per molte ricerche in differenti campi del sapere.

Più che gli studi di fisiologia animale, dedicati soprattutto a parameci, ricci di mare e stelle marine, che pure costituiscono una delle principali fonti del pensiero di Uexküll, l’influenza del filosofo estone è legata ad una straordina-ria intuizione, che seppure variamente riformulata e modificata (cfr. Brentari, 2012) è identificata fin dalle prime opere teoriche.

L’intuizione di Uexküll si identifica con una nozione: quella di Umwelt, ter-mine che potremmo tradurre con “ambiente”, se non rischiassimo di intendere proprio ciò che Uexküll voleva evitare1.

1 Un rischio che non corre la recente traduzione di Marco Mazzeo (2010), grazie alla ricca prefazione in cui è chiarita la portata teorica dell’opera di Uexküll. Le precedenti edizioni italiane del volume 1936 e 1967, traducevano Umwelt con «mondo soggettivo».

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animal studies 2/2013

Ambiente infatti è il luogo in cui si trovano un oggetto o un animale, ambien-te è un termine polisemico perché vi sono ambienti sociali ed ambienti biologici e naturalistici, in genere da difendere, e vi è addirittura un ministro dell’ambiente.

Bene, con l’ambiente di Uexküll dimentichiamo tutto ciò, dimentichiamo l’ambiente come uno spazio al cui interno stiano degli animali o delle persone e pensiamo invece all’ambiente come al risultato della relazione tra un certo organismo ed il pezzo di mondo nel quale la vita dell’organismo si svolge. Si tratta di un’accezione di “ambiente” per noi del XXI secolo abbastanza fami-liare, che sta alla base dell’ecologia e dell’etologia, discipline che annoverano von Uexküll tra i loro fondatori. Ma la nozione di Umwelt è, come cercheremo di mostrare, una nozione solo in parte sovrapponibile con quella di ambiente ecologico ed è per questo che preferiamo conservare il termine tedesco.

Per Uexküll (1934, p. 54) le indagini sul mondo animale poggiano su un presupposto, un’illusione, che andrebbe messa in discussione:

Troppo spesso ci culliamo nell’illusione che le relazioni intrattenute da un soggetto con le cose che costituiscono il suo ambiente [Umwelt] si collochino nello stesso spazio e nello stesso tempo di quelle che intratteniamo noi con le cose che fanno parte del mondo umano. È un illusione che si nutre della fede nell’esistenza di un unico mondo, in cui sarebbero inseriti tutti gli esseri viventi.

Si noti l’individuazione delle categorie spazio/temporali come caratteristi-che del mondo, che riflettono la formazione kantiana al cuore della teoria di Uexküll. Un kantismo spesso dichiarato negli scritti dello scienziato; del resto egli si forma nel pieno del neokantismo tedesco della seconda metà dell’Ot-tocento e la sua opera fornisce uno dei contributi più originali a questo movi-mento: l’estensione dell’analisi trascendentale della mente umana a quella di tutte le specie animali. Ed è forse il suo kantismo, per quanto problematico (cfr. Tedesco, 2008, pp.15-80), a rendere la sua opera, per così dire, familiare a molti filosofi anche di differente impostazione (cfr. Buchanan, 2008), e allo stesso tempo lontana per molti zoologi, che, come per il suo principale allievo Konrad Lorenz, non accettarono le conseguenze antidarwiniste implicite nel suo kantismo: la rigida separatezza degli ambienti portava Uexküll (cfr. Brenta-ri, 2012, p. 85), infatti, a negare la nozione di adattamento evolutivo:

non esiste alcun adattamento degli animali ad un mondo comune, così come non esiste alcuna lotta per un’esistenza in generale. Ogni animale ha un proprio am-biente e una propria esistenza. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui, a cominciare da Lorenz, si tende a lasciare in ombra il ruolo di Uexküll nella nascita dell’etologia cognitiva (Mildenberger, 2005, pp. 419-33).

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Umwelt, una mente che agisce e percepisce

La Umwelt non è quindi un ambiente nel senso di uno spazio, ma Umwelt è invece un mondo fenomenico (nel senso kantiano), un mondo che dipende dalle modalità cognitive del soggetto che lo vive. O meglio, il mondo come lo percepisce e lo esperisce un determinato organismo. Dobbiamo sgombrare il campo da un equivoco spesso ripetuto, la Umwelt non è semplicemente il risultato di organi di senso, per cui ad organi di senso differenti corrispondono esperienze differenti: come per esempio potrebbe darsi nel caso di un uomo privato della vista, che farebbe esperienza di una grande difficoltà ad agire in uno spazio ben noto. La Umwelt non è l’ambiente percepito, più di quanto sia l’ambiente nel quale posso compiere alcune azioni.

Già a partire dallo spazio e dal tempo ogni specie vive in una differente or-ganizzazione basata non solo su differenti unità minime, gli istanti (Moment), il più piccolo intervallo di tempo nel quale un movimento può essere perce-pito, ma dal modo in cui queste unità sono organizzate. La celebre domanda wittgensteiniana (1953, p. 148): «Il cane crede che il padrone sia alla porta. Ma può anche credere che il padrone arriverà dopodomani?»2 ne è una per-fetta illustrazione filosofica; a prescindere dagli istanti in cui è segmentabile la temporalità canina, non vi è dubbio che nulla corrisponda al “dopodomani”, anche per la sua natura avverbiale, nella cognizione canina3.

Analogamente se consideriamo lo spazio, ci accorgiamo di come l’intui-zione di questo concetto sia connesso alle caratteristiche cognitive della spe-cie. Al di là dei limiti sensoriali (vista, udito, etc.), la rappresentazione dello spazio di ogni specie non può essere la stessa per un’aquila, per una formica e per un riccio di mare. La rappresentazione di uno spazio newtoniano secon-do un sistema di assi cartesiani nel quale rispetto ad un punto zero esistono un “avanti”, “dietro”, “alto” e “basso”, è implementata nel nostro patrimonio genetico. Le intuizioni concettuali4 di “avanti”,”dietro”, “alto” e “basso”, sono infatti connessi alla posizione della nostra testa nello spazio circostante e non

2 La consonanza tra Uexküll ed il filosofo viennese con particolare riguardo al Tractatus è al centro del saggio di Franco Lo Piparo, 1999, pp.183-201. 3 Per un’analisi filosofica della temporalità in relazione al linguaggio cfr. Vecchio Quel che parlare del tempo insegna sul linguaggio, in corso di stampa.4 La questione dell’attribuzione concettuale a diverse specie animali è da sempre assai controverso, per un’ascrizione di concetti spaziali alle api, cfr. Chittka e Jensen, Animal cognition: concepts from apes to bees, Current Biology, 21, 2011, pp. 116-119.

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dovrebbero trovare alcun riscontro nella percezione di organismi privi di un sistema nervoso centrale.

La Umwelt è dunque una realtà percettiva ed allo stesso tempo una realtà operativa. Ogni animale non si limita a percepire qualcosa ma ascrive un signi-ficato [Bedeutung] alle “cose” che incontra e così adatta a sé il mondo, costruen-do così la propria Umwelt:

Ogni cosa che cade all’interno di una Umwelt è modificata e riformata fino a che essa divenga significativa. Altrimenti è completamente ignorata (Uexküll, 1940, p. 31).

Ciò che che per noi sono oggetti, sono in realtà dei “portatori di significato” o “portatori di marca”. “Il significato” è il risultato di un processo cognitivo, l’ascrizione di marche operative e percettive, e non semplicemente ciò che ri-sulta dalla stimolazione di organi sensoriali.

All’interno di ogni Umwelt vi sono dunque solo oggetti significativi per l’organismo che determina la Umwelt, oggetti identificati per le loro “marche percettive” che fanno da contrappunto alle “marche operative” del soggetto. Il tutto secondo una dimensione armonica o contrappuntistica per cui ad ogni animale (uomo compreso) corrisponde perfettamente una certa Umwelt. In un campo di fiori ci saranno differenti elementi significativi a seconda che sia visto da una pecora o da un’ape o da un insetto carnivoro. Ogni oggetto ha un numero infinito di caratteristiche, ogni organismo ne considera significative alcune, gli ascrive così alcune “marche percettive” tralasciando le altre caratte-ristiche. Nella Umwelt di un’ape, il fiore è il contenitore del nettare, sostanza a cui è del tutto indifferente il fioraio che quel fiore vuole vendere, ancora nettare e colore sono esterni alla Umwelt della pecora che bruca in quel prato che è ap-punto il soggetto5. Non si dà il caso che ci sia qualcosa di esterno alla Umwelt:

L’oggetto fa parte dell’azione nella misura in cui deve possedere le proprietà neces-sarie per fare da supporto alle marche operative e percettive, proprietà che devono essere messe in correlazione tra loro per mezzo di una controstruttura (Uexküll, 1934, p. 48). In tutti gli oggetti di cui abbiamo imparato l’impiego vediamo le modalità d’uso con la stessa sicurezza con la quale identifichiamo il colore o la forma (Uexküll, 1934, p. 108).

5 È stato più volte notato la vicinanza tra quest’idea è la teoria delle affordance di Gibson, cfr. Tarja Susi e Tom Ziemke, 2005.

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Il circolo funzionale proposto da Uexküll (1934, p. 48-49) sintetizza bene questa idea: Ogni animale attraverso i suoi organi percettivi selezione alcuni stimoli dal mondo esterno a cui risponde in modo determinato, tramite i suoi organi operativi dando vita così ad un’azione. Un’azione inizia con l’ascrizione di una marca percettiva e finisce con il risultato di marca operativa ad uno stesso portatore di signficato. Questo processo è un circolo funzionale, come scrive Ernst Cassirer (2003, p. 54), marcandone la rigidità: «Un ferreo circolo, che connette nell’animale la rete del percepire con la rete dell’agire e che in ogni momento con la massima precisione congiunge entrambe e le adatta». A seconda dell’animale in questione vi sono differenti circoli funzionali: quello del cibo, del sesso, e così via.

Consideriamo il caso più semplice ed il più celebre tra quelli descritti da Uexküll: la Umwelt della zecca. La zecca sta immobile su un ramo fino a che un mammifero non passi da sotto. L’odore dell’acido butirrico risveglia l’acaro che si lascia cadere atterrando sul pelo della sua preda, attraverso il quale si fa strada per arrivare alla pelle che afferra con il suo rostro. A questo punto comincia a succhiare il sangue.

L’organo olfattivo adattato a riconoscere l’acido butirrico è il principale or-gano sensoriale dell’acaro, che è per altro quasi cieco, sordo e privo di gusto. La sua vita si svolge essenzialmente attraverso lo schema che abbiamo qui riferito.

Nei termini di Uexküll (1940, p. 57) la zecca è organizzata per trasformare in un portatore di significato ogni mammifero che appaia nella sua Umwelt (v. Tab.1).

Zecca Mammifero

Ricettore di significato Portatore di significato

Organo olfattivo adattato per recepire l’acido butirrico

Acido butirrico si trova nel sudore dei mammiferi

Organo tattile che permette alla zecca di passare attraverso il pelo I mammiferi sono dotati di pelo

Organo sensibile al calore I mammiferi sono animali a sangue caldo

Rostro in grado di perforare la pelle di ogni animale e di funzionare come pompe

I mammiferi hanno pelle irrorata di sangue

Tab.1 Regola di significato generale. Riconoscimento e attacco della preda, e poi estrazione del sangue da parte della zecca (1940, p. 57).

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Il caso della zecca, efficace nella sua semplicità, non rende conto della mol-teplicità dei cicli funzionali che possono darsi in animali più complessi. La zecca infatti non sembra avere molte scelte, alla immagine di percezione del mammifero non si collega altra qualità oltre al cibo.

Il caso della zecca non prevede differenti possibilità di utilizzo di ciò che viene percepito; man mano invece che consideriamo animali più complessi, troviamo differenti possibilità di uso di uno stesso “portatore di significato”. Utilizzando gli esempi di Uexküll, si può citare il caso del Pagurus bernhardus, che è stato oggetto di acute riflessioni di Maurice Merlau Ponty (1995, p. 258).

Normalmente il guscio del paguro ha con sé alcune attinie (Calliactis pa-rasitica), che lo tengono pulito e lo proteggono dagli attacchi delle seppie, trovandovi nutrimento. Se ad un paguro privato delle sue attinie si fa incon-trare un’attinia, egli farà di tutto per far si che il celenterato si attacchi alla conchiglia; se però il paguro è privo del suo guscio, cercherà di trovarvi riparo e alla figura di percezione dell’attinia sarà associata la qualità di “abitazione”, o ancora, se il paguro è affamato, la qualità di “cibo”:

Per comprendere questi diversi comportamenti del crostaceo non basta considerare le diverse immagini percepite attraverso i suoi organi di senso; ma occorre ammet-tere l’intervento di una qualità o tonalità operativa (Wirkungton), che interviene già nella percezione. A seconda della tonalità operativa il medesimo oggetto può dar luogo a diverse immagini operative (Wirkbild).

Dunque un oggetto, sia pure sotto certi limiti, viene visto diversamente anche da uno stesso soggetto a seconda delle condizioni in cui si trovano, tanto il soggetto quanto l’oggetto stesso. La percezione dipende da questa tonalità operativa: le azioni non sono semplici movimenti, ma consistono di percezio-ne ed azione, che non sono meccanicamente regolate, ma significativamente organizzate (Uexküll, 1940, p. 26).

Si noti che non viene qui riproposto il modello classico dell’azione per cui uno stimolo sensoriale viene elaborato dal cervello che tramite i neuroni della corteccia attiva il sistema motorio che compie il movimento. Nella teoria di Uexküll invece le informazioni sensoriali rinvenibili negli oggetti (le marche percettive) s’intrecciano con le possibilità e le capacità di azione dell’animale. Un intreccio guidato dallo scopo che l’animale vuole raggiungere. Aver messo al centro, come fa Uexküll, l’immagine metaforica dell’armonia naturale o il circolo funzionale sorregge una teoria della cognizione corporea che ha molti

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punti di contatto, come è stato notato, con il pragmatismo americano6 per la centralità dell’azione che pongono sull’azione nell’individuazione dei processi cognitivi: «vediamo perché agiamo e agiamo perché vediamo» come scrive Ge-orge Mead7 e con quanto viene oggi sostenuto in diverse teorie dell’embodied cognition ed in particolare con teorie come quelle di James Gibson (1979) per la quale non vi è percezione che non serva a guidare l’azione. La percezione è strettamente collegata alla disposizione all’azione che un oggetto offre ad un soggetto. Disposizione che può essere a sua volta scaricata nel mondo che ci circonda. Scrive Uexküll (1940, p. 66): «Il manico di una tazzina da caffè di-mostra senza dubbio la relazione di contrappunto della tazzina da caffè e della mano umana».

Il numero delle azioni possibili «aumenta nel corso della vita individuale di tutti gli animali capaci di fare esperienza. Ogni esperienza […] genera, così nuove tonalità e immagini operative» (Uexküll, 1943, p. 111).

Immagini operative che avrebbero così la funzione di organizzare possibili azioni o atti. Una buona spiegazione di cosa siano queste immagini operative, la possiamo trovare nella caratterizzazione degli atti che propongono Rizzolatti e Sinigaglia, (2006, p. 3):

È in questi atti, in quanto atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell’ambiente che ci circonda e che le cose assumono per noi immedia-tamente un significato. Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione […] ma il cervello che agisce è anche e innanzi-tutto il cervello che comprende.

Uexküll (1934, p. 109) racconta un curioso aneddoto, cui dice di aver as-sistito personalmente: Un uomo di colore non uso agli utensili europei che, richiesto di salire una scala, non vi vede che bastoni e buchi di forma regolare. Solo dopo aver visto un’altra persona utilizzare l’oggetto per salirvi, ne com-prende il significato. «L’immagine percettiva di “bastoni e buchi” è stata com-pletata da un’immagine operativa: è stato acquisito un nuovo significato che si manifesta come nuova proprietà». S’impara a considerare una configurazione come un certo oggetto quando se ne impara un uso possibile.

6 Oltre alla ben nota relazione con la semiotica di Peirce, che sta alla base delle interpreta-zione zoosemiotiche di Uexküll come quella di Thomas Sebeok, cfr. Sharov, 2001.7 G.H. Mead (1907), cit. in Rizzolatti e Sinigaglia, 2006, p. 48.

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Nella teoria della Umwelt, dunque, l’ontologia è legata alla possibilità etolo-gica di compiere delle azioni. Anche nel caso umano non esistono rappresenta-zioni che non siano in qualche modo collegate ad azioni possibili. Uno stesso oggetto può assolvere significati differenti a seconda della «tonalità emotiva» (Stimmung) del soggetto.

Un bicchiere posso riempirlo d’acqua, di sabbia, ma posso anche scagliarlo contro una parete per mandarlo in frantumi, ciò dipende dalle affordance, dalla possibilità di un certo oggetto di fornirmi informazioni (marche percettive), che possano essere significative e capaci di interagire con la mia tonalità emo-tiva che rende quelle affordance di un qualche interesse.

Evidentemente «ad un animale semplice corrisponde una Umwelt semplice, ad una animale complesso corrisponde un’ambiente articolato» (Uexküll 1934, p 49).

Descrivere le altre Umwelten

Un problema che sorge immediatamente è un’apparente contraddizione: come potrei conoscere la Umwelt di una zecca o di un altro animale stando all’interno della nostra Umwelt?

Se gli oggetti sono tali solo nel mio mondo operativo-percettivo come po-trei conoscere la modalità percettivo-operativa di altre specie animali?

Se un osservatore si trova di fronte ad un animale di cui vuole indagare il mondo, deve anzitutto aver chiaro che le marche percettive di cui si compone il mondo estraneo sono le proprie marche percettive e non sono quelle sorte dai segni di percezione del soggetto estraneo, che egli non può conoscere. (Uexküll, 1928 p. 104, trad. it. S. Tedesco).

La mia conoscenza delle altre Umwelt è strettamente legata alla mia possibi-lità di percezione ed azione, e ciò si mostra nella nostra modalità di rappresen-tazione. Infatti noi descriviamo, per esempio, linguisticamente, il mondo della zecca e non possiamo fare a meno di introdurre quella caratteristiche che sono proprie della nostra lingua e che ci inducono ad una sorta di antropomorfizza-zione le altre Umwelten, abbastanza frequente nella letteratura etologica (Cfr. Carapezza, 2007) e di cui è ben consapevole lo stesso Uexküll (1934, p. 96):

Quando abbiamo descritto la vita della zecca, abbiamo detto che «aspetta» la sua preda. Seppur in modo involontario con questa espressione abbiamo immesso di contrabbando nella vita dell’animale le nostre preoccupazioni quotidiane.

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Analogamente, ma questo sembra sfuggire ad Uexküll, se noi rappresentia-mo attraverso immagini figurative, come quelle disegnate da Krizat per Am-bienti umani, una porzione di mondo umano visto dal punto di vista del cane o della mosca, notiamo una certa banalizzazione della teoria della Umwelt, come nota Susanne Langer (1972, p. 132) a proposito di queste immagini:

la semplificazione selettiva ed un diverso grado di dettaglio nelle cose identificate in maniera umana sono le uniche differenze tra il cosiddetto ambiente oggettivo e le varie Umwelten animali che ha cercato di rendere graficamente.

Non possiamo infatti descrivere dall’interno le altre Umwelten, ma una ca-ratteristica della nostra Umwelt è quella di fornirci rappresentazioni della altre Umwelten. Probabilmente è questa una delle caratteristiche che intende Hei-degger quando scrive, in serrato dialogo con Uexküll, che l’uomo è «formatore di mondi» (Welthbildend).

Nel corso del 1929-30, Heidegger (1983, p. 251 e sgg.) propone la sua tri-partizione: «la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo». La pietra è senza mondo in quanto non vivente e perciò privo di ogni accesso al mondo. Più interessante, invece, è cosa intende con “povertà di mondo”. Giorgio Agamben (2002, pp. 54-55) ha mostrato come questa tesi di Heidegger sulla povertà di mondo sia posta nei termini di Uexüll, ma con la immaginifica terminologia del filosofo tedesco. L’animale è chiuso nel circolo funzionale della sua Umwelt, nel quale non vi sono che gli elementi (pochi o molti che siano) che definiscono il suo mondo percettivo. Per questo, scrive Heidegger (1983 p. 369):

L’animale se entra in contatto con altro, può incontrare solo ciò che colpisce l’es-sere-capace [gli organi operativi, direbbe Uexküll] e che lo mette in moto. Tutto il resto non è a priori in grado di penetrare nel cerchio dell’animale.

L’animale sarebbe privo della stessa possibilità di percepire qualcosa in quanto qualcosa. Sarebbe questa possibilità di senso che gli sarebbe preclusa. Nei termini di Uexküll potremmo dire che «La zecca è governata da un preciso piano naturale» (1934, p. 96 )» o alcuni anni più tardi «piano del significato» (1940, p. 160). L’uso della teoria della Umwelt da parte di Heidegger sembra però non tenere conto del fatto che esistono differenti Umwelten e non una generica Umwelt dell’animalità e ancora che anche le possibilità umane di con-

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siderare oggetti nella loro variegata possibilità di interazione è strettamente legato alla dimensione linguistica della Umwelt umana. Al contrario, come scrive Lo Piparo (1999, p. 198) in una prospettiva wittgensteiniana: «La Um-welt umana ha i limiti della corrispondente mente linguistica e anch’essa come tutte le Umwelten animali è inseparabile da congenite cecità cognitive».

Per quanto siano separate, le Umwelten delle differenti specie animali hanno molteplici livelli di intersezione: una mucca, lo abbiamo visto, è un portatore di significato per la zecca, un coniglio lo è per una volpe, una mosca lo è per un ragno che addirittura modella, come farebbe un sarto, la propria tela sulle caratteristiche anatomiche e comportamentali della mosca (Uexküll, 1940, p. 43). Ancora esiste la possibilità che una specie animale venga inserita nella Umwelt di un’altra, come nel caso degli animali domestici; a proposito dei cani addestrati per i ciechi, nota Uexküll (1934, p. 118)8:

La difficoltà nell’addestrare il cane consiste nel fatto che occorre far entrare nella sua Umwelt alcune marche percettive importanti per il cieco, ma non per l’ani-male.[…] Come marca percettiva è difficile introdurre nel suo ambiente anche il marciapiede, contro il quale il cieco può inciampare, poiché il cane, quando corre libero, non vi fa caso.

Non possiamo addentrarci qui nel complesso problema della comprensione reciproca tra le specie e dei suoi limiti e non sappiamo cosa si prova ad essere un pipistrello, ma, forse, questo lo possiamo dire:

La relazione delle cose viventi può essere tradotta in un idioma musicale. E pos-siamo parlare dei toni operativi e percettivi che legano tra loro varie specie animali come in un contrappunto (Uexküll, 1940, p. 63).

RingraziamentiVorrei ringraziare Valentina Cuccio e Piera Filippi per i preziosi suggerimenti.

NotaI riferimenti delle citazioni usate nel testo si riferisicono alle edizioni tradotte. Le tradu-zioni sono spesso usate con una certa libertà.

8 Sulla interazione tra la Umwelt umana e della Umwelt canina cfr. Kaminsky 2009, pp. 103-107.

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L’uomo e le specie minacciate – da un involontario parassitismo a un’auspicabile simbiosi mutualisticadi Alessandro Minelli e Emanuele Rigato

Il primo capitolo de L’origine delle specie di Charles Darwin (1859) è dedi-cato agli animali domestici e alle piante coltivate: più precisamente, alla cosid-detta selezione artificiale operata dall’uomo a partire da popolazioni selvatiche. All’interno di queste era già naturalmente presente un certo grado di variabili-tà, un complesso di differenze individuali con base ereditabile nell’ambito delle quali l’uomo ha operato nel corso dei secoli, favorendo il mantenimento delle forme più confacenti ai suoi bisogni o ai suoi capricci, tendendo invece all’eli-minazione di altre varianti, meno appetibili per diverse ragioni. Alla comparsa di ulteriori varietà, oltre a quelle offerte dalla natura, l’uomo ha naturalmente contribuito anche con incroci mirati e poi, ai nostri giorni, con tecniche più raffinate, in particolare quelle, che certo Darwin non avrebbe potuto immagi-nare, della moderna ingegneria genetica.

Da un’attenta ricostruzione e analisi del secolare operato dell’uomo, che ha portato alla formazione delle razze domestiche di un certo numero di specie animali e vegetali, un tema che peraltro avrebbe approfondito qualche anno più tardi in una specifica opera monografica (Darwin 1868), Darwin ricavò un modello di riferimento, sulla falsariga del quale poté presentare ai suoi lettori una lettura evoluzionistica della realtà biologica, da interpretarsi secondo una visione nella quale ci si attende (1) che tutte le popolazioni naturali presentino un qualche grado di variabilità individuale, (2) che queste differenze fra gli individui siano, almeno in parte, ereditabili, e (3) che la probabilità di soprav-vivere e di riprodursi sia, in qualche misura, dipendente dalle precise caratteri-stiche del singolo individuo e diversa fra individui portatori di caratteristiche diverse.

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l’uomo e le specie minacciate

Livelli di selezione

Proprio sugli individui come unità di selezione, in effetti, si concentra l’at-tenzione della teoria, almeno nella sua interpretazione più tradizionale (Minelli 2013). È proprio per questa ragione che Darwin dovette a lungo confrontarsi con l’apparente paradosso degli insetti sociali come le api o le formiche, presso le quali si riconosce una casta di individui sterili (operaie, a volte anche soldati) dotati di ben precise caratteristiche morfologiche (oltre che comportamentali) che – per quanto vantaggiose possano essere – non è facile capire come possa-no trasmettersi da una generazione all’altra, dal momento che questi individui non si riproducono (Cronin 1991). È, questo, uno dei contesti in cui sembra troppo riduttivo pensare che le unità sulle quali opera la selezione naturale sia-no sempre ed esclusivamente rappresentate dagli individui e non, per esempio, da colonie o altri gruppi di individui.

Nel secolo e mezzo ormai trascorso dalla prima formulazione della teoria di Darwin, in realtà, numerose e non di rado tra loro contrastanti sono state le letture dell’evoluzione biologica nell’ambito delle quali ha trovato posto l’idea che la selezione possa avvenire anche a livelli differenti (Michod 1997, 2005; Okasha 2006), realizzandosi da un lato in forma di competizione fra famiglie (intese come insiemi di consanguinei stretti), o addirittura fra specie (Gould e Lloyd 1999; Gould 2002), da un altro lato manifestandosi anche a livelli più bassi, rispetto all’organismo individuale, ad esempio a livello di cellule (Edel-man 1987) o addirittura di singoli geni (Dawkins 1976; Williams 1992).

Un’attenta considerazione delle unità che possono essere oggetto di selezio-ne non può prescindere, però, da un’analisi dei contesti ambientali rispetto ai quali la selezione avviene, soprattutto perché questi sono rappresentati molto spesso da popolazioni di altre specie, con le quali l’organismo sul quale inizial-mente si è fermata la nostra attenzione ha rapporti funzionali di qualche tipo: come preda nei confronti del predatore, per esempio, o viceversa; oppure come ospite di un parassita, o viceversa; o come partner in una simbiosi più o meno specifica e stretta, ad esempio nel caso del pronubo obbligato di una certa pian-ta a fiore. Tutte queste situazioni, in cui il principale agente selettivo che agisce su una determinata popolazione è rappresentato da un’altra specie vivente, e viceversa, sono possibili scenari di coevoluzione (Ehrlich & Raven 1964).

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La coevoluzione

È utile ricordare l’alterna valutazione che di questi scenari si è fatta, nell’ul-timo quarto di secolo, nell’ambito della biologia evoluzionistica. Si può infatti ricordare un momento di iniziale entusiasmo, leggibile ad esempio in Thom-pson (1982) o Futuyma e Slatkin (1983), dove la coevoluzione sembrava emer-gere come fenomeno ad un tempo molto diffuso e di prioritaria importanza nel divenire delle popolazioni naturali, seguito però da un ripensamento, alla luce del fatto che le interazioni fra due specie sono raramente esclusive (ad esempio, l’insetto Y frequenta solo la pianta X e questa è impollinata esclusi-vamente da esso). Si cominciò così a parlare di coevoluzione diffusa (Janzen 1980), nel senso che, all’interno delle complesse reti di interazioni fra specie che si osservano in qualunque ecosistema, ogni specie subirebbe, nel tempo, gli effetti delle pressioni selettive esercitate, simultaneamente o in sequenza, da un numero più o meno grande di altre specie. Non si tardò peraltro a osservare che, in una simile prospettiva, la nozione stessa di coevoluzione viene a diluirsi fino a diventare superflua.

Ma la partita non era affatto chiusa. Ogni singola popolazione, in realtà, occupa uno spazio ben preciso in un determinato segmento temporale e i suoi membri, di fatto, entrano in rapporto solo con un numero ristretto di specie partner, a volte con una soltanto, anche se, potenzialmente, potrebbero avere relazioni con un numero più elevato di partner alternativi (Thompson 1994, 2005). Ad esempio, una certa specie di ape o di farfalla potrebbe trovare nu-trimento su un grande numero di specie di fiori, ma è possibile che, per una certa popolazione locale di quella specie di ape o di farfalla, sia effettivamente disponibile, almeno per un certo numero di generazioni, solo una scelta limi-tatissima di fiori da visitare, al limite una specie soltanto. Ed è con questa e solo con questa (e non con tutte le specie che rientrano nella lista dei partner potenziali) che quella popolazione viene di fatto a confrontarsi, diventandone magari – per restare alla situazione fiore/insetto – l’unico impollinatore utile per la popolazione locale di quella pianta, per qualche generazione almeno. Scenari di questo tipo non sono soltanto molto più plausibili di quanto non sia un quadro di relazioni multiple indeterminate (e, quindi, di eventuale coevolu-zione diffusa), ma suggeriscono anche di recuperare la nozione di coevoluzione come scenario importante nel divenire delle popolazioni naturali.

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Noi e gli altri. L’uomo, gli animali domestici e le piante coltivate

Nelle pagine che seguono proporremo una lettura in termini ecologici e, almeno in parte, di coevoluzione del rapporto che l’uomo ha sviluppato nei confronti delle specie rare, minacciate o in via di estinzione. Vedremo quindi quali modelli si prestino meglio a descrivere la situazione attuale, e quale mo-dello possa essere invece suggerito come la forma di interazione e quindi di possibile coevoluzione, fra l’uomo e queste specie animali o vegetali, verso la quale sarebbe più opportuno muovere.

Partiremo anche noi, come Darwin, dagli animali domestici e dalle piante coltivate. È ben vero che le razze attuali di queste specie sono il prodotto di una selezione artificiale operata dall’uomo, intesa a procacciarsi risorse alimentari, fonti di piacere estetico o altri vantaggi. Ma è anche vero che la sopravvivenza e la riproduzione di queste specie dipendono oggi largamente, a volte in maniera esclusiva, dall’intervento dell’uomo. Quali sarebbero le conseguenze per l’uomo se improvvisamente venisse cancellato il suo rap-porto con il frumento o con il bovino domestico, è impossibile valutarlo a livello globale, tuttavia è ragionevole pensare che le conseguenze, sebbene trascurabili o addirittura inesistenti per molte popolazioni umane, sarebbero invece sensibili e perfino drammatiche per altre, e non facilmente rimediabili nel breve termine.

Ma le cose non andrebbero meglio, probabilmente, per l’animale domestico o per la pianta coltivata. Si potrebbe dire che tra queste specie e l’uomo si è aperta una partita di giro, perché le risorse che l’uomo investe nel loro man-tenimento e nella loro riproduzione finiscono per ritornargli, sotto forma di risorse alimentari.

Lasciando però il linguaggio dell’economia per ritornare a quello dell’ecolo-gia, o della biologia evoluzionistica, è facile capire come questa partita di giro nasconda uno scenario di coevoluzione.

Noi e gli altri. L’uomo e le specie in via di estinzione

Uno scenario scontato, in fondo, che però ci offre una chiave di lettura, assai meno scontata, per analizzare il rapporto che l’uomo stabilisce con le specie minacciate, rare o in via di estinzione. Specie dalle quali l’uomo, in linea di massima, non ricava – o non dovrebbe ricavare – un vantaggio materiale,

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ma per le quali, invece, investe risorse di spazio, di tempo e di denaro, in una misura che sfida ogni possibilità di pareggio di bilancio.

È ben vero che le eventuali risorse monetizzabili ricavate da una specie rara tenderanno ad assumere prezzi di mercato sempre più alti, proprio a misura della loro decrescente disponibilità, ma riteniamo di poter lasciare fuori dal nostro discorso il comportamento irresponsabile di chi continua ad abbattere rinoceronti per procurarsene il corno. Ci occuperemo invece del rapporto che con le specie rare viene ad assumere l’uomo, proprio nella misura in cui pratica nei loro confronti misure di protezione e di recupero.

Indubbiamente, le specie animali o vegetali la cui sopravvivenza è in forse, se non già definitivamente segnata, sono così numerose che il loro rapporto complessivo con la specie umana è di necessità un rapporto molti-uno, che può forse suggerire scenari di coevoluzione diffusa. Va detto però che la maggior parte degli sforzi che l’uomo compie per la salvaguardia delle specie minacciate si concentra su una frazione limitata di queste, privilegiando i rappresentanti dei Mammiferi e degli Uccelli e, fra questi, alcune specie più vistose, o per altre e diverse ragioni carismatiche, come la tigre o il panda maggiore.

Rarità ed estinzione

La posizione di privilegio di cui godono questi animali è già evidenziata dal fatto che solo per esse sono disponibili informazioni dettagliate, e in molti casi regolarmente aggiornate, per quanto riguarda la consistenza numerica delle popolazioni sopravvissute fino ad oggi. Informazioni di questo tipo, che rap-presentano il punto di partenza minimale per una qualsiasi misura di politica conservazionistica, sono assolutamente assenti per la stragrande maggioranza delle specie animali. Si può anzi affermare che una frazione importante delle circa 1.500.000 specie animali descritte fino ad oggi (IISE 2011) è conosciuta solo sulla base di un singolo esemplare o dei pochi esemplari sulla base dei quali la specie è stata descritta. Ciò non significa tuttavia necessariamente che queste specie siano effettivamente rare o minacciate, soprattutto nel caso di molti gruppi di invertebrati.

Occorre inoltre ricordare che proprio dalla valutazione di una specie come comune e numerosa possono derivare comportamenti umani capaci di portare una specie all’estinzione. Uno dei casi più conosciuti è quello del piccione mi-gratore (Ectopistes migratorius), una specie assai abbondante in America setten-

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trionale nella prima metà del secolo scorso, che fu perciò oggetto di una caccia sconsiderata che portò alla sua definitiva scomparsa attorno all’anno 1914.

All’opposto, una conoscenza dettagliata delle popolazioni naturali, soprat-tutto nei casi in cui queste siano ridotte ad un piccolo numero di esempla-ri, può tradursi in un’anagrafe individuale dei pochi individui sopravvissuti, con ciascuno dei quali l’uomo entra in un rapporto del tutto speciale, quasi che l’attenzione ad essi dedicata possa alleggerire in qualche misura il senso di cattiva coscienza di un’umanità irrimediabilmente responsabile della prossima estinzione di queste specie. Il caso più noto è quello di Lonely George, come veniva chiamato l’ultimo individuo di Chelonoidis nigra abingdonii, la razza di testuggini terrestri esclusiva dell’Isola Pinta, nell’arcipelago delle Galápagos. Con la morte di Lonely George, che si stima abbia superato i cento anni di età, la testuggine gigante dell’Isola Pinta si è alla fine estinta, il 24 giugno 2012.

L’estinzione, è bene ricordarlo, ha accompagnato la storia dei viventi fin dai tempi più remoti. Le rocce conservano traccia di almeno cinque episodi in cui la vita sulla Terra è stata vittima di estinzioni di massa, come è avvenuto 65,5 milioni di anni fa, in quel breve lasso di tempo che ha visto la scomparsa degli ultimi dinosauri ed al quale si fa riferimento per tracciare il confine fra l’Era Mesozoica e l’Era Cenozoica. Più remota nel tempo, ma ancor più dramma-tica nei suoi effetti, è stata l’estinzione di massa che ha segnato la fine dell’Era Paleozoica, un evento dal quale sembra si sia salvato solo il 30 per cento delle specie terrestri e appena il 4 per cento delle specie marine allora viventi (Ben-ton 2005).

L’uomo e le grandi estinzioni

In quei tempi lontani, naturalmente, l’uomo non c’era ancora, ma da quan-do la nostra specie ha cominciato a muoversi sulla superficie della Terra è diffi-cile prendere in esame l’estinzione di una specie animale o vegetale senza che ci baleni il sospetto di un coinvolgimento di Homo sapiens in questo evento. Poco importa se l’impatto negativo dell’uomo si è realizzato attraverso la distruzione selettiva di una specie, attraverso la caccia soprattutto, oppure in maniera in-diretta, attraverso un’alterazione, intenzionale o meno, degli equilibri naturali fra le specie o con una profonda modificazione dell’habitat, ad esempio con il diboscamento di un’area poi messa a coltura. Da quasi mezzo secolo, ad esem-pio, si continua a dibattere dei rispettivi meriti dell’interpretazione di Guilday

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(1967), secondo il quale le imponenti estinzioni di grandi mammiferi avvenute nel corso del Quaternario sarebbero da imputare alle vicende climatiche e alle loro ripercussioni sugli ecosistemi, e di quella di Martin (1967), che vedrebbe invece l’uomo preistorico quale causa principale, se non unica, di tali estinzioni.

È improbabile, però, che l’uomo preistorico si sia accorto delle conseguen-ze della sua pressione venatoria sulla sopravvivenza delle popolazioni animali oggetto di caccia, se non per lo svanire di una risorsa sulla quale, ad un certo momento, non poteva più contare. È improbabile che le popolazioni umane che si sono trovate in contatto con le ricche biocenosi della foresta secondaria si siano mai rammaricate della scomparsa di qualche specie che era invece tipica della foresta primaria.

Estinzione. La dimensione culturale di un fatto naturale

Non dobbiamo dare per scontato che fosse facile, anche soltanto un paio di secoli fa, rendersi conto del fatto che una specie può sparire dalla faccia della Terra. Nelle vecchie carte geografiche c’erano sufficienti spazi inesplorati che forse, senza bisogno di ricorrere a Noè e alla sua arca, potevano offrire rifugio a qualche rappresentante di ciascuna specie. Specie alle quali non si riconosceva altro possibile inizio, se non un atto di creazione che andava indietro nel tem-po forse fino all’inizio stesso dei tempi, si trovasse poi questo inizio solo poche migliaia d’anni alle spalle delle moderne generazioni, o sprofondasse invece in abissi la cui durata tende verso l’infinito. E simmetricamente, così come era difficilmente accettabile l’idea di un’origine di una specie nel tempo, così era difficilmente accettabile l’idea di un’estinzione. Almeno, di un’estinzione secondo le leggi della natura, che avrebbero così manifestato una inaccettabile imperfezione.

Accettare la possibilità che una specie si estingua non richiede solo la docu-mentazione di un’assenza, cosa sempre difficile da dimostrare in via definitiva, prova ne sia l’incertezza che solo in anni molto vicini si è spenta, forse del tutto, circa la possibile sopravvivenza di qualche tilacino, il lupo marsupiale della Tasmania, anche se le ultime prove concrete dell’esistenza di esemplari vi-venti datano dall’ormai lontano 1930. Riconoscere la possibilità che una specie animale (o vegetale) sparisca dalla faccia della Terra è possibile solo a partire dal momento in cui ci si rende conto che la Terra è un pianeta di dimensioni finite, che la sua superficie è un mosaico di ambienti e di luoghi ciascuno dei

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quali ospita solo una minuscola frazione dell’intera biodiversità terrestre, e che ciascuna specie ha le sue precise esigenze ecologiche e occupa solo un circoscrit-to, e non di rado minuscolo, areale geografico. La vita, inoltre, ha una storia documentata dai fossili, la maggior parte dei quali testimonia l’estinzione di innumerevoli specie, e di intere linee evolutive.

L’estinzione, da un certo punto di vista, è un fatto naturale, a prescindere dal fatto che l’uomo possa accelerarla, o anche esserne a volte la causa principale.

Specie minacciate, specie da proteggere

Un poco alla volta, però, ci siamo resi conto della fragilità degli ecosistemi e della facilità con cui una specie può essere cancellata dalla faccia della Terra. Ce ne accorgiamo più facilmente quando viene a scarseggiare, o addirittura a mancare, una risorsa importante per la nostra economia. Il crollo delle po-polazioni di baccalà oggetto di pesca da parte delle popolazioni costiere dal New England fino a Terranova ha causato enormi problemi economici e so-ciali (Kurlansky 1997) e la drammatica riduzione delle residue popolazioni di rinoceronti sparse in sempre più minuscoli areali africani ed asiatici ha fatto scatenare la caccia al corno di rinoceronte dalle miracolose proprietà curative fin dentro i musei che conservano esemplari impagliati, o semplici trofei, di questi grandi pachidermi.

La preoccupazione per il rarefarsi e il potenziale estinguersi delle specie, però, ha perduto presto la sua stretta connotazione di natura economica, per assumere soprattutto una dimensione culturale. Se ci preoccupiamo del dram-matico declino delle popolazioni naturali di koala o di panda gigante non è certo perché rischiamo di perdere, con essi, delle preziose fonti di cibo, di pellicce o di altre risorse monetizzabili. Panda e koala hanno da tempo un loro posto importante nell’immaginario collettivo, con il loro aspetto di animale apparentemente buono, tranquillo e indifeso, tanto da suggerire che ai nostri figli piccoli potremmo mettere fra le braccia un esemplare (giovane, s’intende, soprattutto nel caso del panda) con la stessa tranquillità con cui possiamo dare loro un peluche con le fattezze di uno di questi animali.

Se in questo caso è l’ipotetica “dolcezza” dell’animale a richiamare su di esso le nostre speciali attenzioni, e il nostro istinto di protezione, in altri casi ci sono di mezzo altre cause, non meno irrazionali, di attrazione. Può trattarsi dell’emozione suscitata da un grosso predatore, che incute sì timore, ma allo

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stesso tempo anche una sorta di rispetto. Quel rispetto che si deve al leone, im-probabile “re” di una foresta dove semmai è più di casa la tigre, altro prestigioso felino le cui incerte sorti sono venute di recente sotto gli occhi della pubblica opinione. Non v’è dubbio, comunque, che la sopravvivenza dei grandi felini stia a cuore di molti assai più della sopravvivenza di altri mammiferi di grandi dimensioni, compresi forse i nostri parenti più prossimi, cioè le grandi scim-mie antropomorfe, e soprattutto l’enorme e inquietante gorilla. E ciò che vale per i felini, nell’ambito dei Mammiferi, vale anche per i rapaci, sia diurni che notturni, nell’ambito degli Uccelli.

Dal “prestigio” del grande predatore alla “bellezza” delle forme sinuose del felino o dallo splendido piumaggio di un quetzal o di un uccello del paradiso, il passo è breve. Quel passo che per secoli ha accomunato questi animali quanto ai tributi che hanno pagato alla vanità umana, fornendo alla nostra specie pre-giate pellicce maculate gli uni, prestigiosi ornamenti da sovrani o da capotribù i secondi. Strade pericolose, queste, potenzialmente declinanti verso l’estinzione di specie oggetto di troppe attenzioni da parte dell’uomo, ma allo stesso tempo segni di un’attenzione che finisce per motivare un impegno per la salvezza di questi animali dall’estinzione.

In questa scala, che dall’animale capace di sfamare milioni di persone porta progressivamente verso le innumerevoli specie che non parrebbero degne di alcuna attenzione, arriviamo ad un eterogeneo e mal definito insieme di ani-mali la cui sopravvivenza è comunque motivo di preoccupazione, per ragioni meno precise o meno dirette. Può trattarsi ad esempio delle farfalle diurne, il cui declino sembra privare i prati e i pascoli di una componente di bellezza che nessuna rigogliosa fioritura può rimpiazzare; oppure delle libellule, la cui presenza in volo, silenziose e scattanti, non è solo piacevole allo sguardo, ma è anche un segno della presenza, nelle vicinanze, di ambienti d’acqua dolce ricchi di vita e quindi, forse, poco o punto toccati dall’inquinamento.

Parassitismo a base culturale

Cresce, dunque, il numero delle specie la cui sopravvivenza ci sta a cuore. Siamo disposti a spendere perché non si estinguano. Procuriamo loro da man-giare, li difendiamo dai loro nemici, li trasportiamo in ambienti protetti co-struiti apposta per loro. Per un numero crescente di specie, l’estinzione è evitata solo perché l’uomo provvede a mantenerle. In genere, senza avere in cambio

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alcun vantaggio materiale. A questo punto, se vogliamo usare (e perché non dovremmo farlo?) il linguaggio dell’ecologia, noi abbiamo trasformato queste specie minacciate in parassiti della specie umana: c’è un flusso a senso unico di risorse, che va da noi a loro.

Parassiti per una nostra scelta culturale, dando vita ad un insolito fenome-no di altruismo trans-specifico del quale, nel crudo linguaggio della biologia evoluzionistica, ci si deve chiedere quanto possa durare. Anche se forse, come vedremo tra poco, sarebbe più sensato chiederci verso quale forma di rapporto esso possa eventualmente evolvere.

I punti caldi di questo “parassitismo culturale” sono in realtà di almeno duplice natura. Da un lato vi sono le specie carismatiche delle quali abbiamo parlato poco sopra, dall’altro vi sono luoghi e habitat dove si addensano i rischi di estinzione e dove, quindi, si concentrano spesso gli sforzi per evitarla. Si tratta sempre, in un certo senso, di isole.

Isole in senso proprio, geografico, come le Galápagos che hanno già visto tramontare alcune delle razze locali di testuggini giganti, ma soprattutto come le Hawaii, dove l’arrivo dell’uomo ha portato all’estinzione di molte specie di uc-celli e di altri animali. O come l’isola di Mauritius, dove viveva il favoloso dodo, grosso uccello incapace di volare il cui ultimo esemplare vivente fu visto nel 1662.

Isole, altre volte, in senso ecologico, come molti bacini lacustri senza con-tatto, o quasi, con il resto del mondo. Come l’immenso lago Victoria in Africa, con le sue centinaia di specie di pesci della famiglia dei Ciclidi, differenziatesi nelle sue acque in qualche decina di migliaia d’anni appena, ma largamente decimate, nella seconda metà dello scorso secolo, da un grosso predatore (il persico del Nilo, Lates niloticus) sconsideratamente introdotto in quel bacino nell’intento di migliorarne la redditività di pesca.

In un bilancio costi/benefici è giusto aggiungere, però, che specie o luoghi sui quali si addensano gli sforzi di conservazione di specie prive di interesse economico primario (come fonti di cibo o di altri materiali commerciabili) possono innescare l’avvio di attività dalle quali risulta un profitto, ad esempio con il sorgere di flussi turistici centrati proprio sui luoghi in cui sopravvivono le ultime popolazioni, o gli ultimi individui, di qualche prestigiosa specie mi-nacciata, e questo riguarda sia i luoghi naturali dei quali la specie è originaria, sia i luoghi in cui se ne tenta il recupero, magari dalla parte opposta del pianeta.

In molti casi, però, a beneficiare dei profitti derivanti da queste attività non sono le stesse organizzazioni a spese delle quali vengono messe in atto le misure di recupero o di protezione delle specie minacciate, per cui viene comunque a

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mancare – o almeno rimane molto remota – quella misura di reciprocità che renderebbe più solido il rapporto fra la specie umana e una particolare specie in via di estinzione. Il parassitismo, in fondo, esiste anche fra sottopopolazioni della specie umana!

Livelli di selezione

Se affrontiamo i rapporti fra uomo e specie animali minacciate in un’ottica evoluzionistica, finiamo inevitabilmente per proporne una lettura in termini di selezione. Di selezione a livello di individuo ma, soprattutto, di selezione a livello di specie.

A livello di individuo, c’è da attendersi che l’intervento umano riduca la pressione selettiva che i pochi sopravvissuti di una specie minacciata conosce-rebbero in condizioni naturali. Nulla di strano per un parassita: scarichi i costi della sopravvivenza sull’ospite e la selezione su di te si rilassa.

Più interessanti sono però le considerazioni che possiamo fare in termini di selezione a livello di specie. Il costo che l’uomo (il ‘parassitato’) è disposto a pagare per scongiurare l’estinzione di una specie cresce progressivamente per gradi crescenti di minaccia della specie. Lo scenario ricorda quella che nella ge-netica delle popolazioni (dove si prende in considerazione la selezione a livello di individuo) è conosciuta come selezione dipendente dalla densità. Natural-mente, il confronto fra specie ha senso quando queste sono soggette a un di-verso rischio di estinzione, ma sono largamente confrontabili sotto altri punti di vista. Potremo così valutare come questa selezione a livello di specie favorisca il ghepardo e la tigre a scapito del puma o del leopardo, oppure il condor della California piuttosto che quello andino. C’è da osservare, infine, che quando una specie è ridotta a una sola popolazione di pochi individui, la selezione a livello di specie tende a coincidere con la selezione a livello di individuo.

Per un cambiamento di paradigma

Paragonare ad un parassita una specie minacciata, per la salvaguardia della quale l’uomo impegna risorse, diciamo così, a fondo perduto, non comporta affatto un giudizio di valore. Questa categoria è estranea alla biologia evolu-zionistica, e alla scienza in generale. L’uso di questa categoria ecologica, invece,

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da un lato aiuta a descrivere il rapporto fra l’uomo e un’altra specie animale reinserendolo nella logica e nelle dinamiche della storia naturale, anche se la nostra scelta di aiutare una specie minacciata a sfuggire all’estinzione è innan-zitutto una scelta culturale, dall’altro ci può aiutare a capire i limiti di sosteni-bilità della situazione presente e a cercare alternative più valide. Alternative che forse possono avere, ad un tempo, maggior solidità economica ed ecologica, e dunque funzionale, e magari anche un valore etico positivo che non dispiace recuperare, dopo una riflessione in termini scientifici.

Ritornando però per un momento al linguaggio della biologia, ci si può chiedere se o, meglio, a quali condizioni si possa ipotizzare che il rapporto fra uomo e specie minacciate evolva verso una strategia evolutivamente stabile: una ESS, come si usa dire nel linguaggio della biologia evoluzionistica, seguen-do un’applicazione alle scienze della vita di modelli della teoria dei giochi, un esercizio di modellistica del quale sono stati pionieri John Maynard Smith e George R. Price (Maynard Smith e Price 1973).

Il problema non è di facile soluzione, per due ragioni soprattutto. In primo luogo perché – come abbiamo già osservato – il costo delle misure a difesa di una specie minacciata varia (e in forma non ovviamente prevedibile) in funzio-ne della rarità di questa e si azzera sia nel caso della sua estinzione, sia quando la sua densità sia risalita al di sopra di un’arbitraria soglia di attenzione. In secondo luogo perché la lista delle specie che si possono considerare degne di misure protettive è una lista aperta.

Questo secondo aspetto ci obbliga quindi a chiederci: per quante specie al massimo potrà l’uomo garantire adeguate misure di protezione e di recupero? Per riprendere il linguaggio ecologico che abbiamo usato nelle pagine prece-denti: quante specie parassite potrà portarsi addosso Homo sapiens?

Rispondere in maniera motivata a questa domanda è anche più difficile (molto più difficile) di quanto non sia il valutare quanti esseri umani possano vivere in maniera sostenibile sulla faccia della Terra. Tuttavia, la stessa formula-zione di questi interrogativi ci fa capire la drammatica necessità di operare delle scelte. Siamo su un pianeta finito le cui risorse – e non solo quelle che, l’uomo è disposto a mobilitare per questa o quella causa – sono limitate.

Di fronte a questa realtà di fatto, è necessario chiedersi se non sia possibile sviluppare delle strategie alternative alla prassi corrente. In materia di rapporti fra l’uomo e le altre specie viventi, in particolare nei confronti di quelle che og-gi appaiono sulla via di una probabile estinzione, è possibile pensare a rapporti più maturi, basati su una coevoluzione che, se da un lato aumenta il grado di

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interdipendenza fra le due specie, dall’altro rende più lungo l’orizzonte di so-pravvivenza di entrambe? Anzi, vista la presenza dell’uomo su tutti i continenti e a contatto con i più diversi ecosistemi e le più diverse faune, ci si può chiedere se l’uomo non possa, o non debba, farsi chiave di volta di un sistema di rela-zioni multiple con le caratteristiche della coevoluzione diffusa, come abbiamo imparato a leggerla in anni più vicini: come un mosaico di situazioni in cui sono coinvolte molte specie, ma non in forma globale e indiscriminata, bensì come somma di una molteplicità di situazioni locali, in ciascuna delle quali il rapporto, spesso semplicemente binario, tra le specie può portare nel tempo ad un affinamento delle loro capacità di coesistenza e quindi ad un miglioramento delle loro prospettive di sopravvivenza.

Tre storie di piante e di insetti

Modelli ai quali guardare, in natura, ce ne sono molti. Ne ricorderemo solo tre, sufficienti comunque a suggerire, nel loro insieme, come ogni strategia, per quanto valida nel breve termine, non possa mai essere presa come definitiva. Un’osservazione, del resto, perfettamente in linea con uno dei pochi principi generali delle dinamiche evolutive, quello che Leigh Van Valen (1973) ha chia-mato il principio della Regina Rossa. Quella del mondo di Alice, s’intende. Regina di un mondo dove devi muoverti senza sosta, se vuoi rimanere dove sei. Come nel mondo reale dei viventi, presso i quali un’ipotetica invarianza nel tempo sarebbe la miglior garanzia di estinzione, dal momento che tutto, intorno, continua a cambiare e così ogni adattamento, per quanto raffinato, non tarda a perdere la sua efficacia.

Un primo esempio lo prenderemo dal mimetismo mülleriano, quella situa-zione in cui due specie differenti, magari appartenenti a famiglie tra loro lonta-ne, si assomigliano tra loro moltissimo, tanto da essere abitualmente scambiate l’una per l’altra, e così beneficiano del comune accesso a risorse condivise. È questo, probabilmente, il significato adattativo della grande somiglianza che esiste fra i fiori bianchi, con un grosso bottone centrale di stami gialli, del ranuncolo glaciale (Ranunculus glacialis) e del camedrio alpino (Dryas octopeta-la), che fioriscono insieme, anche frammisti tra loro, nella breve stagione estiva di cui godono i pascoli alpini. Fiori che possono offrire la stessa “ricompensa” in polline ai rari insetti pronubi che ne visitano i fiori. Pronubi, questi, la cui sopravvivenza – precaria nelle annate in cui il clima è meno favorevole – è così

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sostenuta congiuntamente dall’una e dall’altra pianta, entrambe interessate a questi pronubi anche se essi, volando indiscriminatamente da un fiore di dria-de ad un fiore di ranuncolo, non sono così affidabili, nel consegnare il polline, come sarebbe un pronubo fidelizzato nella visita ai fiori di una sola specie ve-getale. Ma tant’è, meglio così che niente.

In altre situazioni, una coevoluzione basata sul vantaggio reciproco dei due contraenti (mutualismo) si intreccia indissolubilmente con forme evidenti di parassitismo. È il caso della yucca, i cui fiori sono impollinati esclusivamente da una minuscola farfallina (Tegeticula) che ne frequenta i fiori. Ma nelle aree semidersetiche dove la pianta è di casa non si sono molte opzioni a disposizione dei bruchi della Tegeticula, i quali non solo si nutrono a spese della yucca, ma ne disdegnano le foglie preferendo invece vivere a spese dei suoi semi, cioè pro-prio di quei semi che gli adulti della specie aiutano a produrre! Naturalmente, il sistema binario yucca/Tegeticula funziona perché gli adulti della farfallina consumano solo una parte del polline presente nei fiori visitati, trasportandone invece il resto su altri fiori, che potranno produrre semi; e le larve consuma-no solo una parte di quest’ultimi, consentendo quindi la disseminazione della pianta.

Il terzo esempio è simile al precedente, ma con una coda forse inattesa. I protagonisti sono, ancora una volta una pianta e un insetto, sono in questo caso il fico e una minuscola vespina, la Blastophaga psenes. Anche in questo caso l’insetto adulto è l’impollinatore obbligato dei fiori della pianta, mentre le sue larve vivono a spese di una parte dei fiori prodotti da questa, trasformati in una sorta di minuscole galle. La coda della storia è rappresentata dall’esistenza di un’altra vespina, Philotrypesis caricae, le cui larve vivono anch’esse a spese di fiorellini di fico trasformati in galle, ma l’adulto non dà alcun contributo all’impollinazione, perché introduce le sue uova nel fico bucandone la parete, anziché percorrere gli angusti spazi in cui la Blastophaga trova sul suo cammino sia i fiori maschili che le lasciano addosso un po’ di polline, sia i fiori femminili sui quali potrà lasciarne.

Ogni scelta ha comunque un costo e che più si va avanti per una strada, più difficile può essere un brusco cambiamento di direzione. D’altro canto, un rapporto molto esclusivo può essere un’ottima cosa nel breve termine, ma anche fonte di gravi rischi nel medio o nel lungo termine. In fondo, una parte del successo dell’uomo sta proprio nella sua capacità di vivere a spese di risorse molto diverse, a cominciare da quelle alimentari. La presenza della nostra spe-cie su scala planetaria dovrebbe suggerire quindi di sviluppare, con le altre spe-

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cie, forme di convivenza diverse e quanto più possibile flessibili, in una sorta di rete entro la quale le lente ma inesorabili dinamiche dell’evoluzione possano lavorare non solo nell’interesse dell’uomo, ma anche di un numero quanto più alto possibile di specie.

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La personalità non umana: tra scienza ed etica1

di Simone Pollo

Premessa

In questo contributo mi occupo di una nozione che solo in tempi relati-vamente recenti è emersa nel panorama degli studi sul comportamento degli animali non umani (d’ora in poi “animali”): il concetto di “personalità”. Se, per quanto riguarda gli umani, si tratta di un concetto ampiamente incorporato nel senso comune, nella filosofia e nella ricerca scientifica, così non è per gli ani-mali. Vorrei mostrare come questo avanzamento della comprensione empirica degli animali possa contribuire tanto alla riflessione filosofica sulle questioni etiche delle relazioni fra umani e animali quanto al processo di trasformazione di tali relazioni, in direzione di un crescente rispetto del benessere animale. Come premessa di questa analisi è necessaria una breve considerazione sullo status della riflessione etico-filosofica sulle relazioni fra umani e animali. Que-ste considerazioni preciseranno lo sfondo sul quale si colloca la mia analisi e consentiranno di definire meglio gli scopi del presente lavoro.

Comparsa in modo solo episodico nei secoli passati, la questione della mo-ralità delle interazioni con gli animali trova una tematizzazione sistematica so-lo nel corso della seconda metà del XX secolo con la nascita della cosiddetta “etica animale”2. Al suo esordio questa branca dell’etica applicata nasce come un’impresa teorica normativa. Essa, cioè, ambisce ad elaborare argomentazioni per mostrare l’appropriatezza morale o meno di determinate condotte. Teorie normative come quelle di Peter Singer (1989, 1991) e Tom Regan (1990) – considerati a buon diritto i fondatori dell’etica animale – si propongono di mostrare, per mezzo di argomentazioni razionali, perché gli animali meritino

1 Le idee contenute in questo testo sono anche il frutto della lunga collaborazione con Augusto Vitale sul tema delle relazioni fra umani e animali. La responsabilità per quanto scritto è, comunque, solo mia.2 Fra le molte disponibili un’utile lettura introduttiva è Hursthouse, 2000.

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rispetto morale e, quindi, siano sbagliati il loro uso ed eventuale uccisione (principalmente nei contesti della produzione alimentare e della sperimenta-zione di laboratorio). Buona parte dell’etica animale ha fatto propria l’impo-stazione di Singer e Regan, intendendo la riflessione come produzione di teorie intese a mostrare l’inadeguatezza dello status quo delle relazioni con gli animali e prescrivere un cambiamento di tale situazione3. Pure riconoscendo la straor-dinaria importanza, storica e teorica, di questo approccio (senza il quale non ci sarebbe la stessa etica animale), la prospettiva da cui intendo elaborare la mia analisi muove da un suo esame critico. In estrema sintesi, obietto ad esso alcuni limiti nella comprensione della situazione morale che intende affrontare.

I limiti della teoria e la densità degli scenari

È caratteristico dell’approccio normativo la focalizzazione su pochi elemen-ti essenziali per la valutazione morale e l’elaborazione dell’argomentazione a partire da essi. Si pensi, ad esempio, a come questa posizione definisca e usi nell’elaborazione teorica la nozione di “specismo”. Con tale termine, infatti, si designa un errore morale, simile al razzismo e al sessismo, che attribuisce all’appartenenza di specie un ruolo, moralmente ingiustificato, nell’operare di-stinzioni morali. Il metodo dell’argomentazione antispecista (come elaborata da Singer, ad esempio) è quello di isolare dalle situazioni – in questo caso le relazioni con gli animali – alcuni tratti, come le capacità non umane di prova-re piacere e dolore, “metterli al lavoro” nell’argomentazione e mostrare come questi siano considerati in modo discriminatorio in determinate pratiche. Se questo metodo ha l’indubbio merito di evidenziare la problematicità e l’incoe-renza di certe condotte alla luce di principi generali, come quello di eguaglian-za, esso, tuttavia, implica anche il rischio di una sottodeterminazione di aspetti rilevanti nelle situazioni prese in esame dalla riflessione morale. Sotto la lente della teoria normativa, infatti, certe relazioni con gli animali possono essere categorizzate come “speciste”, nella misura in cui discriminano gli interessi non umani, dando ad essi un “peso” diverso da quelli umani. Al tempo stesso, però, quelle relazioni hanno una storia e un contesto che la teoria morale ignora e che, tuttavia, potrebbe presentare elementi significativi e di interesse per la ri-

3 Su questo approccio, inoltre, sembra essersi modellata buona parte dell’attivismo “ani-malista”.

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flessione etico-filosofica. Ciò che sembra mancante nell’approccio teorico nor-mativo è la capacità di cogliere la densità delle situazioni morali (Baier 1996).

Nell’etica filosofica, gli approcci che si propongono come alternativi alla semplificazione della prospettiva teorica normativa generalmente ricostruisco-no tale densità per mezzo di un’analisi che guarda, ad esempio, alle genealogie dei concetti, al senso comune, alla storia, alla letteratura e così via4. Da parte mia, vorrei adottare una prospettiva che guarda alla scienza come fonte per la ricostruzione della ricchezza degli scenari morali. Per tornare al caso che ho chiamato in causa come esemplare, ovvero la nozione di “specismo”, rivolgersi alla scienza per la comprensione dell’atteggiamento specista può mostrare qual-cosa di ulteriore rispetto all’equiparazione fra “specismo” e “discriminazione” operata dalla teoria morale. L’atteggiamento di preferenza per la propria specie potrebbe essere contestualizzato, ad esempio, come l’esito di una storia natura-le biologica di cui la riflessione morale dovrebbe tenere conto (Midgley 1985).

Va precisato che questa prospettiva di arricchimento degli scenari, usando la scienza come fonte, non va confusa con la pretesa di convalidare lo status quo né, tantomeno, di giustificare determinate condotte umane sulla base di una loro presunta “naturalità”. È un tentativo, al contrario, di giungere a una comprensione più ricca degli scenari nei quali si colloca la condotta, all’interno di una concezione che auspica che la riflessione morale (filosofica, ma anche di senso comune) sia orientata permanentemente a una critica dell’esistente.

La personalità non umana e la ricerca etologica

La nascita dell’etologia, nel corso del XX secolo, ha rappresentato uno stra-ordinario avanzamento per la comprensione degli animali. Questa disciplina, infatti, ha inquadrato nella cornice di una metodologia scientifica lo studio del comportamento animale, sino ad allora relegato perlopiù all’aneddotica (anche nella stessa letteratura naturalistica). Determinante per la nascita dell’etologia è stato l’affermarsi della teoria darwiniana come sfondo imprescindibile delle scienze della vita nel loro complesso5 (e, inoltre, proprio la piena collocazione delle scienze del vivente nella cornice darwiniana ha prodotto avanzamenti straordinari anche in ambiti scientifici diversi dall’etologia per la comprensio-

4 Ricordiamo Diamond, 1978.5 Si veda Lorenz, 2011.

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ne della vita non umana: tassonomia, genetica, biologia molecolare, ecc.). La ricerca etologica ha prodotto – e continua a produrre – un enorme bagaglio di conoscenza sul mondo animale. Nell’evolversi di questa disciplina, inoltre, si assiste a una costante riformulazione dei suoi scopi. In questo processo gli ampliamenti senza dubbio più significativi sono stati quelli che hanno esteso lo studio del comportamento, da un lato, alla mente animale (istituendo una vera e propria sottodisciplina: l’“etologia cognitiva”6) e, dall’altro, agli aspetti “qualitativi” del comportamento. Le ragioni di una tardiva introduzione di questi aspetti nello studio del comportamento sono in parte dovuti alla ne-cessità dell’etologia, ai suoi esordi, di accreditarsi pienamente come disciplina scientifica, escludendo dall’ambito dei suoi studi fatti sfuggenti e la cui osser-vazione pone seri problemi metodologici (come appunto gli stati mentali e la qualità dei comportamenti)7.

In questo allargamento degli scopi rientrano appunto gli studi sulla cosid-detta “personalità animale”, ovvero quelle ricerche condotte, prevalentemente in condizioni sperimentali e che mostrano in diverse specie variazioni indivi-duali definibili come tratti di personalità. Non esiste una definizione univoca di “personalità” e il modo più ampio per definire questa nozione, includendo i diversi studi che su di essa vengono condotti è quello di utilizzarla per indi-care l’insieme di quelle caratteristiche individuali che descrivono e spiegano modalità coerenti di sentimento, pensiero e comportamento (Gosling 2008). Le ricerche sulla personalità non umana si pongono in continuità con quelle di più lunga data sulla personalità umana e spesso vengono condotte con una me-todica comparativa. Anche se per gli scopi di questo lavoro faremo riferimento a queste ricerche esclusivamente come fonte di conoscenza sugli animali, va ricordato che esse sono utili per la comprensione, in chiave evoluzionistica, dei meccanismi alla base della personalità umana. Questi studi ambiscono a categorizzare, per le diverse specie, i principali tratti di personalità, a scoprirne le cause genetiche, le influenze ambientali, i meccanismi che presiedono ad esse nel corso dello sviluppo e, ovviamente, la storia e le cause evolutive.

In termini molto generali, ciò che mostrano questi studi è come in molte specie animali esistano fra i membri di una stessa specie differenze individuali,

6 Per una panoramica si veda Bekoff & Jamieson, 1996.7 Gli “scopi” dell’etologia, esposti da Niko Tinbergen in un notissimo saggio del 1963, sono la ricerca in merito a causazione, funzione, ontogenesi e filogenesi del comporta-mento (cfr. Tinbergen, 1963).

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stabili nel tempo e definibili, appunto, come profili di personalità, che deter-minano variazioni nel comportamento rispetto agli stimoli ambientali, sociali, ecc. In condizioni sperimentali si possono, ad esempio, distinguere e classi-ficare gli individui componenti il campione per mezzo di punteggi riferiti a tratti come l’aggressività, l’eccitabilità, l’ansiosità, la curiosità, l’amichevolezza rispetto agli umani, l’impulsività, la persistenza e l’attività fisica8. I primati non umani (le grandi scimmie, in particolare) anche per la loro prossimità filoge-netica all’Homo sapiens, sono un ottimo caso di studio, ma ricerche analoghe sono state condotte anche su gatti, cani, topi, delfini, pecore, mucche, capre, maiali e via dicendo9.

Questi risultati estendono la comprensione del comportamento animale ol-tre i confini dell’etologia classica. Quest’ultima, seguendo l’agenda dei “quattro scopi” di Tinbergen, ambiva a ricostruire il comportamento animale all’inter-no di un etogramma che mostrasse i tratti specie-specifici degli appartenenti a quella specie animale. Studi come quelli sulla personalità animale si focalizza-no sulla variabilità individuale all’interno di quegli etogrammi specie-specifici. Nel fare ciò, questi approcci si confrontano con una delle questioni metodolo-giche più serie e intricate dello studio del comportamento: il problema dell’an-tropomorfismo. Benché gli studi sulla personalità non umana non implichino necessariamente l’appello a facoltà cognitive animali (Gosling 2008), lo stesso concetto di “personalità” e i descrittori utilizzati implicano l’uso di un linguag-gio antropomorfizzante. Non essendo questa la sede per affrontare la questione dell’antropomorfismo nella ricerca etologica10, ci si può limitare a sottolineare come studi del genere rappresentino, implicitamente o esplicitamente, l’ac-cettazione della possibilità di applicare agli esseri umani e agli animali concet-ti simili, se non identici, e di utilizzare la comprensione antropomorfizzante del comportamento animale come strumento euristico (Burghardt 1991), se affiancato a metodologie proprie dell’etologia “classica” e inquadrate in una cornice scientifica (Weiss et al. 2012).

8 Si vedano come esempi significativi Capitanio, 1999, 2005; Uher, 2008.9 Un ampio elenco (con relativa bibliografia) si trova in Gosling, 2001.10 Per orientarsi sul tema dell’antropomorfismo: Anthropomorphism, Anecdotes and Ani-mals, a cura di R.W. Mitchell, N.S. Thompson e H. Lyn Miles, SUNY Press, New York, 1997.

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Individui e agenti non umani

Alla luce di questa sintetica ricostruzione dello scenario degli studi sulla personalità non umana, ci si può chiedere in che misura questa notevole (e sempre crescente) mole di conoscenze scientifiche sul tema possa essere incor-porata in una riflessione filosofica sull’etica delle relazioni fra umani e animali. Come si è detto, il contributo che queste acquisizioni (come altre che qui non menzioniamo) possono dare riguarda prevalentemente l’arricchimento dello scenario rispetto al quale opera la riflessione morale. Nello specifico, grazie agli studi sulla personalità, si può articolare una concezione più densa e sfaccettata della soggettività morale animale, vale a dire dell’identità morale degli animali nelle relazioni con gli umani e, di conseguenza, di come debba tenerne conto la riflessione etico-filosofica (Pollo 2013).

L’approccio teorico normativo che rappresenta il termine di paragone per questo lavoro, infatti, si concentra sull’elaborazione di argomentazioni che am-biscono a mostrare come gli animali non umani possiedano quelle caratteri-stiche che li rendono meritevoli appunto di status morale e, di conseguenza li includano nella cerchia dello protezione e del rispetto11. Nel fare ciò, l’approc-cio teorico normativo è principalmente interessato a rendere conto di quelle caratteristiche che sono proprie dell’animale in quanto membro di una data specie (ad esempio, una determinata capacità di provare dolore o di “consape-volezza di se stessi” nel presente e nel futuro). In questa impresa si sottolineano quelli che rendono meritevole un animale di appartenere a una classe, quella dei pazienti morali, ma si sottovalutano due aspetti che vanno a costituire la soggettività morale del singolo animale. Questi due aspetti sono l’individualità e l’essere agente12. Entrambe queste caratteristiche sono, invece, messe chiara-mente in luce da studi come quelli sulla personalità animale.

Al di là delle caratteristiche che per l’approccio teorico normativo rendono degni di status, nell’esperienza morale reale i singoli animali non umani in mo-di diversi a seconda delle specie (e, in questa sede, il discorso è inevitabilmente generico) sono caratterizzabili come soggetti unici in virtù di un insieme di tratti (di personalità) del tutto peculiari e, appunto, individuali. D’altra parte, attraverso la ricostruzione di questi tratti e del profilo di personalità, ciò che emerge è la natura di agente dell’animale stesso13. Rendere conto dell’identità 11 Sulla nozione di status morale Warren, 1997.12 Con “essere agente” si traduce qui il termine inglese “agency”.13 Muovendo da una metodologia diversa da quella degli studi di personalità più tradi-

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dell’animale nella sua specificità e nella sua interezza significa riconoscere in ogni animale uno specifico individuo con un proprio peculiare stile attivo di interazione con l’ambiente. Mettere l’accento su questi due caratteri della sog-gettività morale animale non significa, ovviamente, negare in toto la validità delle argomentazioni che si focalizzano sullo status morale e che riconoscono gli animali come pazienti morali. Tuttavia, come in qualche modo la stessa locuzione “paziente morale”14 evoca, concentrarsi esclusivamente sugli aspetti dell’animale che ne determinano l’inclusione in tale classe comporta la foca-lizzazione esclusivamente su quegli aspetti delle relazioni fra umani e animali in cui gli animali sono destinatari passivi di azioni (o omissioni) umane che la teoria etica normativa considera come appropriate o inappropriate15. La sog-gettività morale animale è, per così dire, rinchiusa e ritagliata esclusivamente in una condizione di vulnerabilità e, al tempo stesso, priva di individualità16. Il punto di vista teorico-normativo ha l’indubbio merito di mostrare l’asimme-tria e le criticità morali della grande maggioranza dei rapporti fra umani e non come, ad esempio, l’uso degli animali a scopo alimentare. A questo punto di vista, tuttavia, sfuggono, anzitutto, elementi salienti di quelle stesse relazioni di sfruttamento e uso che l’analisi morale potrebbe fare emergere in modo proficuo, non solo da un punto di vista teorico ma sullo stesso versante appli-cativo. In secondo luogo, quella prospettiva non sembra in grado di esaminare le questioni morali di altre tipologie di relazione (si pensi, ad esempio, a certi contesti “lavorativi”, come l’uso di cani per il salvataggio e alla complessità delle relazioni fra umani e animali che caratterizza queste relazioni).

La personalità animale in pratica: benessere e individualità

È proprio sulla dimensione applicativa che mi soffermo in conclusione per sottolineare la fertilità della personalità animale, esaminando nello specifico il ruolo che questa può avere nell’elaborazione teorica e nella applicazione pra-

zionali (ma contigua ad essi), questo punto è molto ben esposto da Wemelsfelder et al., 2001.14 T. Regan, I diritti animali, cit., pp. 214-220.15 Ho articolato questa idea in Pollo, 2008.16 Non affronto qui la questione della possibilità di considerare alcuni animali, oltre che “agenti”, veri e propri “agenti morali”, in base a un concetto pienamente naturalizzato di “agente morale”. Rimando a Pollo, 2011.

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tica del “benessere animale”17. Pur godendo spesso di poca fortuna presso i teorici e i movimenti di “liberazione animale”, questa nozione (e la sua pratica) rappresentano di fatto un punto di consenso e mediazione delle società (come quelle occidentali) in cui si confrontano concezioni e istanze di natura diversa sul trattamento da riservare agli animali. La trasformazione delle relazioni fra umani e animali è, in qualche modo, un fatto che caratterizza le società occi-dentali degli ultimi due secoli e tale processo procede, più o meno speditamen-te, nella direzione di una sempre maggiore inclusione degli animali nella sfera della protezione legale, in virtù della loro natura di esseri “senzienti”18. Come strumento per la messa in pratica di tale trasformazione ha un ruolo centrale il concetto, appunto, di “benessere animale”, incorporato in normative, linee guida, protocolli in diverse aree di interazione fra umani e animali (anzitutto le produzioni animali e la sperimentazione, ma non solo: ad esempio anche nella pratica veterinaria e negli interventi di conservazione faunistica). La discussio-ne su tale concetto e sulle possibilità di perfezionarlo, tanto dal punto di vista teorico quanto applicativo, sembra imprescindibile per chi ritenga necessario intervenire nel processo di riforma morale delle interazioni con gli animali.

L’incontro con la nozione di personalità può rappresentare un consistente avanzamento e perfezionamento per la nozione di benessere animale, tanto nel-la sua definizione concettuale quanto nella sua applicazione empirica. Questo incontro, infatti, consente di ampliare l’orizzonte della definizione di benessere animale che, in grande parte della letteratura corrente (e nella normativa), ten-de a focalizzarsi sugli aspetti specie-specifici di ciò che costituisce il benessere di un’animale appartenente a una data specie e sottodetermina la dimensione individuale. A costituire il benessere di un essere umano non sembra sufficien-te, infatti, la soddisfazione di una lista di “bisogni” specie-specifici. Questa lista basilare dev’essere integrata con una considerazione dei bisogni che risultano dalla specifica individualità di ogni soggetto (la sua personalità, appunto). Allo stesso modo, laddove si riconosca (corroborata da dati scientifici) l’esistenza di variazioni di personalità negli animali, sarà possibile riconoscere anche nel be-nessere animale la centralità degli aspetti individuali e “personali” (Pollo 2007).

17 Per un quadro introduttivo: Duncan & Fraser, 1997. 18 Si esprime così, ad esempio, la recente Direttiva Europea 2010/63 protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:276:0033:0079:IT:PDF).

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Questa integrazione di concezioni del benessere e valutazione della perso-nalità individuale è già messa in opera e validata sperimentalmente19 e rap-presenta un significativo avanzamento nelle pratiche a tutela del benessere. Non si può qui rendere conto delle diverse modalità in cui, nelle varie aree di interazione, un’attenzione alle variazioni individuali di personalità contri-buisce a una migliore pratica. A titolo di esempio, si può sottolineare come una nozione di benessere che sia in grado di integrare la dimensione personale della soggettività animale possa contribuire al perfezionamento di quel meto-do che rappresenta lo stato dell’arte per il miglioramento delle condizioni di sperimentazione di laboratorio su animali, il cosiddetto “Metodo delle 3R”

(Russell & Burch 1992). Nello specifico, la pratica del cosiddetto Refinement (la messa in opera di procedure finalizzate alla tutela e promozione del benesse-re nel contesto sperimentale nel suo complesso20) sembra potere beneficiare di una comprensione dell’animale come di un soggetto dotato di bisogni indivi-duali e di uno stile personale di interazione con l’ambiente. Una componente importante della pratica del Refinement è costituita dall’ambiente sociale21: la valutazione dei tratti di personalità degli animali, ad esempio, può essere di estremo aiuto nella costituzione di colonie e contesti sociali che favoriscano il benessere (evitando, ad esempio, la convivenza di più individui predisposti a comportamenti dominanti)22.

Questo è un esempio di come la nozione di personalità possa contribuire al perfezionamento delle pratiche di trasformazione dei contesti di interazione fra umani e animali. Se ne potrebbero dare molti altri: si pensi all’utilità della valutazione della personalità animale per le procedure di adozione di animali da compagnia o per la costituzione di coppie umano/animale per scopi come il salvataggio in caso di catastrofi naturali o la ricerca di sostanze stupefacenti. Questi esempi mostrano come la comprensione empirica e scientifica della vita animale, oltre ad arricchire la riflessione morale, possa comportare ricadute concrete nei contesti reali di interazione nell’ottica di una loro progressiva tra-sformazione e in vista di una sempre maggiore protezione degli individui non umani.

19 Si veda, ad esempio A. Weiss et al., 2006. 20 Buchanan-Smith et al., 2005.21 Una ricca e utile rassegna dei diversi aspetti del Refinement, declinata al caso dei primati non umani è presente in: Rennie & Buchanan-Smith, 2006, Part. I, II, III. 22 Weiss, 2006.

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la personalità non umana: tra scienza ed etica

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Intervista a Giorgio Vallortigaraa cura di Domenica Bruni

Osservare gli animali e il loro comportamento è un’occupazione davvero affascinante. Lo è per molti motivi. Non è solo un espediente per esercitare la nostra meticolosa pazienza e soddisfare la proverbiale curiosità di Homo sapiens ma è anche uno dei modi per ricavare importanti informazioni sul funziona-mento della mente. Osservare il comportamento degli altri animali è ciò che Giorgio Vallortigara fa da molti anni. Scrive Vallortigara in Cervello di gallina (2005, p. 15):

Una percentuale significativa degli scienziati che oggigiorno si trovano impegnati nello studio della mente e del cervello conduce le proprie osservazioni su animali di svariate specie, nella convinzione che i princìpi più generali del funzionamento delle menti, inclusa quella umana, possano venire ricavati dallo studio di organi-smi anche molto diversi da noi. Capita che codesti studiosi incrocino sul piane-rottolo, al ristorante o accompagando i bambini a scuola, persone che svolgono altri mestieri – geometri, elettricisti, direttori del personale e indossatrici – le quali manifestano sempre una certa perplessità attorno al senso dell’intera impresa: che c’entra la nostra mente con la loro? Ammesso che loro, gli altri animali, una mente ce l’abbiano.

Ma che cos’è una mente? Siamo proprio certi di sapere così tanto sul suo funzionamento da essere in grado di tracciare nette linee di confine tra le specie e di formulare giudizi ultimativi? Siamo sicuri che le singole manifestazioni della vita mentale che caratterizzano il mondo biologico (percezione, rappre-sentazione, memoria, processi di ragionamento) differiscano profondamente nelle varie specie? Siamo soliti chiamare “mente” tutto ciò che si interpone tra le informazioni che provengono dagli organi di senso che confluiscono nel cervello e l’azione che ne consegue.

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La mente è uno dei prodotti dell’evoluzione per selezione naturale ed è possibile conoscere qualcosa di essa attraverso la raccolta dei dati derivanti dall’osservazione del mondo esterno oppure da un particolare tipo di indagine, l’introspezione – una delle nostre occupazioni principali – che ci consente di analizzare e indagare i nostri pensieri, le nostre ragioni, i nostri sentimenti e le nostre credenze sul mondo. Quest’ultima è una cosa molto complicata da met-tere in pratica ed è foriera di numerosi errori categoriali. Le creature umane, infatti, hanno molta dimestichezza con questa attività tanto da credere forte-mente che l’esperienza con ciò che si agita dentro di noi sia trasparente e uni-voca. Questo ci porta a comparare e spesso a sovrapporre il nostro concetto di mente all’osservazione del comportamento degli altri animali costruendo così scale evolutive che non hanno però riscontro in come effettivamente stanno le cose stanno nel mondo naturale.

L’animale a cui Giorgio Vallortigara dedica il suo tempo e le sue osservazio-ni è il pulcino di pollo domestico. I volatili ci somigliano molto perché sono degli “animali visivi”, tra i più visivi all’interno del mondo dei vertebrati. Per loro è molto importante riconoscre rapidamente quelli che saranno i partner sociali con cui si relazioneranno. Sono molto abili nell’orientarsi, riescono a non perdersi e a trovare rapidamente i genitori grazie all’imprinting filiale, un meccanismo reso noto dall’etologo Konrad Lorenz. L’attenzione di Vallortigara si rivolge “alle abilità, differenti e complementari, della metà destra e sinistra del cervello, nonchè alle origini evoluzionistiche del modo in cui si spartiscono i compiti i due emisferi cerebrali. Il pulcino di pollo domestico costituisce un eccellente modello per lo studio di questi fenomeni”.

Si hanno ormai sufficienti indizi per credere che alcune proprietà come la rappresentazione del tempo, dello spazio, del numero e il riconoscimento de-gli oggetti animati e inanimati siano diffuse almeno tra tutti i vertebrati, “essi sono processi mentali così generali da essere condivisi da specie tanto diverse ma sono ancora poco compresi”. Esistono, dunque, degli strumenti cognitivi basilari, una sorta di cassetta degli attrezzi che la natura offre in dotazione. Lo speciale “kit” interagisce con le esperienze che si vivono e con alcuni meccani-smi che, con molta probabilità, sono specie-specifici. Questo è testimoniato da numerose evidenze sperimentali che mettono in luce come specie non uguali risultano essere cognitivamente diverse in domini specifici. Questa diversità cognitiva non è sempre a vantaggio della specie umana.

Esistono molti casi, infatti, in cui alcune specie presentano un grado di elaborazione cognitiva con un grado di sofisticazione maggiore della nostra.

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intervista a giorgio vallortigara

Prendiamo come esempio il caso della memoria spaziale. Non c’è dubbio che gli esseri umani se la cavano abbastanza bene con il riconoscimento dei luoghi, ne conservano mappe mentali e memoria ma è altrettanto vero che non sia-mo neanche lontanamente in grado di fare ciò che riescono e mettere in atto alcuni mammiferi o uccelli. Siamo sicuri che se ci portassero in un bosco e ci chiedessero di nascondere dieci oggetti saremmo in grado di ritrovarli tutti a distanza di due mesi? La risposta è no. Ne sapremmo, infatti, ritrovare massimo tre o quattro. “Corvi e cornacchie – come spiega Vallortigara – riescono invece a farlo perché sono dotati di un extra neurologico: si sa che durante la stagione di formazione della memoria c’è un incremento selettivo nell’ippocampo, che serve specificatamente a questa funzione”. L’interesse di Vallortigara e del suo gruppo di ricerca è studiare la mente e il genere di “sapienza” con cui vengono al mondo gli organismi biologici.

Giorgio Vallortigara è un neuroscienziato ed etologo cognitivo che dirige

il CIMeC, il Center for Mind-Brain Sciences, all’Università di Trento. I suoi libri divulgativi hanno ottenuto vari riconoscimenti. Cervello di gallina. Visi-te (guidate) tra etologia e neuroscienze (Bollati-Boringhieri, 2005) ha vinto il Premio Pace per la divulgazione scientifica e il recente La mente che scodinzola (Mondadori, 2011) è stato selezionato dalla Giuria Scientifica del Premio Ga-lileo per il 2013.

C’è chi sostiene che uno dei migliori sevizi che può essere reso all’antispecismo venga dalla confidenza sperimentale con gli altri animali? Lei cosa ne pensa?

Penso che favorisca una migliore comprensione della varietà e della com-plessità delle manifestazioni dell’intelligenza nel regno animale. Ma in effetti non favorisce né gli atteggiamenti favorevoli né quelli contrari allo specismo, perché la scienza per sua natura è descrittiva e non prescrittiva. Si può rimanere specisti anche riconoscendo elevate capacità cognitive ad un’altra specie…

Vorrei toccare ora un punto critico, ma rilevante. Si è posto qualche scrupolo sulla sperimentazione animale? Può spiegare qual è il genere di sperimentazione animale che conduce?

Studio i processi cognitivi da un punto di vista comparativo, sia nell’uomo che negli altri animali, usando metodi comportamentali e neurobiologici. In

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particolare mi interessa l’origine delle capacità numeriche e spaziali, e il modo in cui riconosciamo certi esseri come “animati”. Ritengo che la sperimenta-zione animale sia indispensabile per il progresso delle conoscenze biologiche e mediche. Questa viene condotta in tutti i laboratori di ricerca con la massima attenzione, annullando o minimizzando ogni disagio per gli animali.

Che direzione sta prendendo la sperimentazione animale nel mondo?

L’uso di modelli animali costituisce il fondamento delle scienze bio-medi-che. I modelli animali sono impiegati moltissimo e saranno impiegati inevita-bilmente moltissimo negli anni a venire. Una legislazione corretta assicura che ciò avvenga minimizzando ogni forma di sofferenza e garantendo le opportune forme di rispetto agli animali delle diverse specie.

L’espressione “cervello di gallina” si usa di solito per offendere il nostro interlocutore. Forse sarebbe il caso di ricrederci. Vuole spiegarci il motivo?

Vale per le galline, ma il discorso potrebbe essere fatto, sospetto, per qual-siasi altro vertebrato. In breve, quel che abbiamo imparato è che i fondamenti dell’attività cognitiva, i rudimenti dei concetti di numero, spazio, tempo e oggetto sono largamente condivisi nelle diverse specie, e non hanno bisogno del linguaggio per manifestarsi (sebbene il linguaggio possa poi condurre a sviluppare nuove e più sofisticate concettualizzazioni).

Ci aiuta a sfatare un mito? Ha senso parlare dell’uomo come l’animale più evoluto della Terra?

Certamente no, il fatto è che il termine “evoluzione” viene confuso con quello di “progresso”. L’evoluzione implica cambiamento, non progresso. Gli esseri umani sono diversi da altre specie animali. Sono diversi dai topi, dalle pulci, dagli scimpanzé… E, ovviamente, le pulci a loro volta sono diverse dai topi, dagli scimpanzé, dagli esseri umani... Ma con tutti gli altri animali gli es-seri umani condividono vari aspetti della fisiologia e del comportamento. Non sono né superiori né inferiori, solo diversi.

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Letture

L’orologiaio miope Lisa SignorileCodice Edizioni, 2012

Siamo talmente abituati a osservare e giudicare le altre specie animali con il solo metro di paragone che conosciamo, vale a dire noi stessi, da ritenere quasi impossibile o ignorare l’esistenza di ani-mali che, sotto la spinta della selezione naturale, hanno sviluppato caratteri e particolarità evolutive talmente bizzarri da sembrare più affini ad una razza aliena che terrestre.

Riproponendo, per confutarla ancora una volta, la celebre metafora del “crea-to” come ingranaggio complesso che ne-cessariamente presupporrebbe la mente di un “creatore”, Lisa Signorile ci guida nella meraviglia della biodiversità anima-le per dimostrarci come l’evoluzione non segua alcun progetto o fine, ma sia il frut-to di precise leggi fisiche e chimiche, ossia di quel complesso e affascinante mecca-nismo che seleziona le mutazioni casuali di volta in volta più adatte a sopravvivere in un determinato ambiente. Se un oro-logiaio esiste, dunque, per restare nel-la metafora, si tratterebbe non tanto di un “creatore” che progetta e realizza un preciso disegno, quanto di un insieme di forze del tutto casuali, seppure seleziona-te dalla necessità della sopravvivenza. Un

orologiaio miope, dunque, che avanza a tentoni fino a che non estrae il bigliet-to vincente della lotteria, ossia la forma più adatta che consente alle varie specie di adattarsi o di spuntarla nell’eterna gara tra prede e predatori. Paradossalmente gli animali che vivono negli ambienti più inospitali della terra, le cosiddette nicchie ecologiche – sebbene abbiano dovuto ac-quisire caratteri evolutivi spesso sorpren-denti – sono anche quelli più fortunati poiché la competizione è minore.

L’orologiaio miope ha un linguaggio ironico e scanzonato, ricco di riferimen-ti letterari e cinematografici. L’autrice ci conduce in un viaggio alla scoperta delle specie più strane, strane rispetto ai soliti parametri antropocentrici di cui dovrem-mo imparare a disfarci una volte per tut-te; un viaggio, suddiviso in capitoli, in cui faremo la conoscenza delle specie che si sono adattate in ambienti estremi (ma estremi sempre secondo i nostri parame-tri), incontreremo alcuni parassiti – dai più comuni, come gli acari e i pidocchi, ad altri decisamente più inquietanti, come la sacculina, un parassita dei gran-chi che prende il controllo fisico e psichi-co del proprio ospite – e poi mammiferi in via d’estinzione e infine gli avvelenato-ri: rettili, ragni, ma persino alcune specie di uccelli e mammiferi, tutti dotati di un ingegnoso cocktail di sostanze chimiche

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messo a punto per neutralizzare la preda o scoraggiare i predatori, ma che necessita di continui aggiustamenti poiché la gara evolutiva tra prede e predatori è sempre in corso.

Gli animali che andremo ad incontrare sono tutti, a diverso titolo, capaci di su-scitare la nostra curiosità, ma anche, in alcuni casi, una vera e propria reazione di avversione: atteggiamento, questo, che racchiude in sé fattori culturali o specifi-camente di difesa. In teoria, spiega l’au-trice, non dovremmo temere i parassiti in quanto, essendo la loro sopravvivenza legata a quella dell’ospite, il loro scopo non è quello di ucciderlo, purtuttavia alcuni di essi sono veicolo di microrga-nismi causa di malattie letali e può essere quindi che il ribrezzo sia un meccanismo di difesa evolutosi per selezione naturale: chi si lavava evitando infestazioni di pulci e pidocchi, aveva maggiori possibilità di sopravvivere alle malattie da essi veicola-te. In altri casi la reazione di immediata simpatia o disgusto dipende dall’aspetto stesso degli animali, quanto più sono di-versi da noi o vivono in ambienti per noi inospitali (caverne e cunicoli sotterranei umidi e bui, zone d’ombra degli oceani in cui la quantità d’ossigeno è di appena il 3% rispetto al 21% dell’atmosfera: vere e proprie tombe da farci venire un imme-diato attacco di panico al solo pensiero), tanto più ci provocano reazioni che van-no dallo stupore all’ ammirazione.

Tuttavia, ciò che maggiormente ci al-lontana da una piena comprensione ed accoglimento della diversità animale è sempre quel vizio tutto specificamente umano che si chiama “antropocentri-

smo”, ossia l’errata convinzione che tutto debba essere a misura d’uomo; concezio-ne dalla quale si è andato strutturando nei secoli, per ragioni storico-socio-culturali, quell’altro vizio altrettanto duro a morire che è lo specismo, ossia tutto quel com-plesso di autonarrazione culturale che ci fa ritenere legittimo sfruttare ed uccidere le altre specie in virtù di una presunta su-periorità evolutiva.

In realtà non esiste un’unica evoluzio-ne, bensì tante diversità evolutive, ognu-na a suo modo competitiva nella selezio-ne naturale. È errato quindi parlare di specie poco evolute, in quanto ognuna di quelle attualmente esistenti sul pianeta, per il solo fatto di essere giunta fino ai giorni nostri, si è evoluta in un continu-um competitivo.

L’entusiasmo con cui si procede nel-la lettura è purtroppo talvolta smorzato dalla constatazione del dominio indiscus-so della nostra specie ai danni di tutte le altre, un dominio che, è bene ribadire, in questo caso non è frutto della dura sele-zione naturale in cui vige la legge del più forte, bensì un mero costrutto culturale.

A tal proposito scopro che gli eterocefali glabri (ratto talpa nudi) sono tra le specie più studiate in laboratorio a causa delle loro tante particolarità tra cui: cute priva della sostanza P (un neurotrasmettitore che consente ai recettori del dolori sparsi su tutta la superficie del corpo di manda-re l’informazione del dolore al cervello), assenza di danni cerebrali in situazioni di anossia (assenza di ossigeno), assenza di oncogenesi (capacità di sviluppare tumo-ri) e, dulcis in fundo, scarsissima ossida-zione dei tessuti tale da renderli immuni

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allo stress da invecchiamento; vittime di test anche molto dolorosi (qui basta dire che è stato escogitato il modo per ripro-durre sulla loro cute la sostanza P di cui sopra, così da renderli infine sensibili al dolore, percezione di cui, come si è detto, in natura sono privi), ciò che consente la loro sopravvivenza in natura, è in realtà anche la loro maggiore condanna quando finiscono nelle mani dell’uomo.

E che dire del polpo? Pochi sanno che si tratta di un animale marino intelligen-tissimo, dotato dei neuroni specchio, ca-pace di apprendere e forse probabilmen-te persino di sognare, purtroppo ucciso dall’uomo a causa della prelibatezza (ma ricordiamo che il gusto è un mero indot-to culturale) delle sue carni. Si potrebbe-ro citare altri esempi di stranezze evoluti-ve, ad esempio la capacità dei tardigradi di rimanere in uno stato di animazione sospesa detta criptobiosi, in cui il me-tabolismo è completamente sospeso, o quella del proteo, il Peter Pan della caver-ne, che ha perso la capacità di compiere la metamorfosi e rimane così nella for-ma acquatica giovanile per tutta la vita, ad eccezione dell’apparato riproduttivo che si sviluppa normalmente; o ancora si potrebbe parlare di alcuni rari vertebrati che hanno il sangue verde poiché nella sua composizione, oltre all’emoglobina, si trova la biliverdina, ma anche di una particolare lumaca in grado di restare senza mangiare fino a dieci mesi poiché, avendo precedentemente ingerito i cloro-plasti delle alghe, è in grado di condurre la fotosintesi per conto proprio.

Lisa Signorile termina questo straordi-nario racconto – quasi ai limiti del fan-

tastico – augurandosi che possa servire a farci riflettere quando ci relazioniamo con gli altri animali, prescindendo da quello che lei definisce “l’effetto bambi”, ossia quell’attitudine culturale che ci por-ta ad apprezzare quegli animali con evi-denti caratteri infantili o che ci sono stati resi familiari grazie alle favole e ai cartoni animati, con la speranza che il mito della nostra superiorità venga sfatato una vol-ta per tutte; ciò che mi auguro senz’al-tro anche io, per arrivare alla conquista di un’ottica non più antropocentrica, ma finalmente biocentrica. (Rita Ciatti)

Filosofi e animali in Roma antica mo-delli di animalità e umanità in Lucre-zio e SenecaFabio TutroneETS, 2012

Gli animali resi storicamente schiavi all’interno delle società umane hanno avuto un ruolo di maggiore dignità sul piano dell’elaborazione teorica di tutte le culture.

Sono sempre stati diversità fungente tuttavia da specchio, superficie riflettente simbolica, da cui i processi di antropoie-si hanno tratto spunto, giocandosi entro rimandi di alterità e assimilazioni, subli-mazioni e prese di distanza, culminanti nella nascita delle idealità concettuali po-ste a capisaldo dell’autoriconoscimento sociale.

Muovendo entro questa prospetti-va, Fabio Tutrone in Filosofi e animali in Roma antica si inoltra nelle opere di Lucrezio e di Seneca, scelti ad emblema

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di tradizioni filosofiche antiche, quella epicurea e quella stoica, che è possibile identificare come collettori simbolici di orizzonti speculativi opposti.

Per entrambi gli autori, l’animale è in-nanzitutto il testimone di quella legge di natura verso la quale gli umani sono re-calcitranti, ma alla quale è bene non di-sobbedire.

Tale posizione vede in Lucrezio un’esal-tazione della natura animale e in Seneca una sua esteriore discriminazione, che contiene però, al suo interno, falle che minano alla radice l’antropocentrismo stoico, di cui è infine sminuita la portata entro una più ampia e approfondita ri-flessione zooantropologica.

Se tra i due è possibile individuare un pensatore radicalmente antispecista, co-munque, quello è certamente Lucrezio. Il filosofo del Giardino, vissuto nel I secolo a.C., delinea nel poeticissimo De rerum natura, una visione materialistica sospesa tra fisica e biologia, che indica l’esisten-za degli esseri umani come frutto della generazione spontanea della Natura, che nessuna preferenza accorda ad essi, e che anzi nelle altre specie viventi tripudia con più gioia e splendore di quanto non faccia nell’umanità, creata per ultima, da una partoriente ormai fiaccata dallo sfor-zo generativo.

Gli animali sono narrati in dimensioni bucoliche, con uno stile quasi pittorico, avvolti dal languido e capriccioso amore della dea Venere, allegoria del principio cosmico di edificazione naturale. Capaci di sognare, di amare, di vivere nell’im-mediato con gioiosità primitiva, all’in-terno dei loro accoglienti nidi frondosi o

sui prati rigogliosi della primavera, sono esempio carico di nostalgia di ciò che l’uomo, schiavo della propria complessità razionale, può provare solo con mino-re intensità. Egli la pace deve invocarla, una pace intesa come atarassia, che è il culmine dell’esercizio dell’etica raziona-le, ma che solo in parte colma il vuoto dell’eudaimonia di cui non si può godere a pieno. Lucrezio indica perciò il luogo della più profonda dignità individuale nel recupero della dimensione sensoriale comune a tutta l’animalità.

In un percorso che è radicalmente ma-terialistico e immanentista, la dimensio-ne spirituale e tutto il dogmatismo del-la religio, che più segnano il confine tra l’uomo e gli altri animali, restano infine schiacciati sotto il peso della fisica epicu-rea che si risolve nel riconoscimento di un processo vivo e perdurante, basato sulla continua trasformazione dei mat-toni biologici che costituiscono tutto il visibile, animato e non.

Il ridimensionamento della sfera uma-na cui conduce questa visione coinvol-ge tutta la cultura: Lucrezio racconta di come l’indifeso cucciolo umano, scaglia-to come un nocchiero nel corso di una tempesta sulle rive luminose della vita, debba intraprendere un doloroso cammi-no di cui il pianto neonatale è il simboli-co annuncio, ma dove la consapevolezza di essere preda di leggi fisse ed immutabili non porta al pessimismo, ma rappresen-ta un disvelamento epistemologico, una presa di coscienza che sola può tracciare la strada della conoscenza.

L’intelligenza superiore agli animali non va considerata provvidenziale (come

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fa Cicerone, che usa lo stesso topos), ma invece l’allietamento povero e artificiale di sonaglini infantili, le cure pseudoma-terne della nutrice, cioè della cultura, vanno riconosciuti come palliativi, in-capaci di colmare la mancanza dell’ab-braccio vivificante che sostiene e consola tutto il resto della natura e che offre alle altre specie un’irenica armonia preclusa ad un’umanità continuamente preda di conflitti che l’autore, anche politicamen-te pacifista, condanna e disdegna.

I modelli teorici animali che indicano la via cui l’uomo saggio dovrebbe ambire, sono il luogo in cui la filosofia lucreziana si intreccia più proficuamente col pen-siero dello stoico del I secolo d.C. Sene-ca, che invece, però, connota il centrale rapporto con l’animalità di un’ambiguità irrisolvibile e persistente.

Anche per Seneca la parsimonia mite e generosa degli animali al pascolo, emble-ma di quell’idea di moderazione cara alla cultura stoica, dell’accettazione del pro-prio ruolo all’interno della cosmologia, si contrappongono all’immagine famelica e distruttiva degli esseri umani, che non hanno rispetto per l’ambiente naturale e vogliono piegare tutto il vivente alla pro-pria volontà.

L’esaltazione dell’animalità è però ben più scarna rispetto a quella di Lucrezio, meno valorizzante in senso ontologico: come in una galleria straniante ricoperta di specchi, l’animale si carica di tratti de-cisivi, positivi e negativi insieme.

Mentre la propensione alle cure pa-rentali è esempio fulgente della virtù da perseguire, essi sono altrimenti descritti come bruti, privi dell’intelletto che rende

l’uomo unico e superiore, ridotti a meri esecutori di quella physis che ne determi-na l’esistenza e ne condiziona tutto l’agi-re senza alternativa alcuna. Al contempo quel vivere secondo natura, l’imperativo rivolto all’uomo della aemulatio dei, ad assecondare quella provvidenza razionale che innerva il cosmo, induce a compor-tarsi come gli animali fanno già, sempli-cemente, solo seguendo l’ethos.

Ma in Seneca le virtù primitive non appaiono mai come dimensioni reali, effettivamente desiderabili. Restano sul piano della metafora, e continua nei suoi scritti a prevalere l’ortodossia stoica, che intravede nella natura solo l’espressio-ne automica, incosciente e prerazionale di facoltà che solo nell’uomo, opportu-namente educate, conducono a scrutare e a comprendere l’assoluto. Tuttavia gli animali non sono esclusi dal finalismo stoico, per cui i favi e le tele degli inset-ti, apparentemente artistici, partecipano davvero dell’espressione razionale della natura, ma lo fanno ad un livello basso, istintuale e fisiologico, carente rispetto alla compiuta opera umana.

Siamo all’opposizione più netta all’epi-cureismo lucreziano, che non solo nell’animale, ma anche nell’infante, nel gioco, nella spontaneità istintiva e pre-culturale, vede lo specchio più veriterio della natura intima della realtà. In Sene-ca, all’autentica realizzazione della vita umana si accede per una strada verticale, un percorso lungo e faticoso di allonta-namento dall’animalità verso una dimen-sione completamente intellettuale.

Ma intanto la dottrina senechiana pre-vede anche l’astensione dal consumo di

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carne, che realizza l’ideale di mitezza e moderazione, identificata con la sapien-za, che di nuovo rimanda a immagini di animali erbivori, più saggi e sapienti ri-spetto alle fiere carnivore che danno libe-ro sfogo all’aggressività primitiva.

Due piani interpretativi sono destinati a contrapporsi lungo tutta la produzione dell’autore e a non risolversi mai in sin-tesi: da un lato c’è l’antropocentrismo e la visione teleologica e verticale dei rap-porti uomo-animale, dall’altro il sotterra-neo, ma non secondario, riconoscimento della spontanea prossimità degli animali agli ideali inseguiti con fatica dagli uo-mini. Nell’intrecciarsi di ordine cultura-le e ordine naturale, è la conclusione di Tutrone, è impossibile allora trascurare la proficua saldatura che riallaccia Lucrezio e Seneca, poiché l’antropocentrismo si sfalda in entrambe le visioni e la dimen-sione primitiva animale rappresenta agli occhi di due tradizioni opposte lo scrigno entro il quale è contenuto lo scopo ulti-mo della vita umana. Il dilemma si ridu-ce alla scelta della via per la quale ricom-prendere la verità naturale da cui l’uomo è stato, dolorosamente, strappato. Ed è la ragione per cui esiste la filosofia. (Leono-ra Pigliucci)

Perché amiamo i cani, mangiamo i maia-li e indossiamo le muccheMelanie JoySonda, 2012

Ci professiamo tutti democratici, alme-no a parole, anche se, più o meno con-sciamente, continuiamo a tollerare il do-

minio di un sistema economico-culturale che nulla ha da invidiare al nazismo. C’è un nazismo quotidiano che imperversa e ci condiziona, dal linguaggio alle abitudi-ni alimentari, e che si ripresenta puntual-mente ogniqualvolta apostrofiamo qual-cuno con epiteti desunti dal mondo ani-male o consentiamo, come se fosse scon-tato, che a tavola ci portino una bistecca, una braciola, un cosciotto, un filetto di tonno, un guazzetto di cozze, una fettina di formaggio o mozzarella, una frittata o, ancora, sorseggiamo un bicchiere di latte “salutare” o indossiamo un capo di abbigliamento in pelle. C’è una presunta “normalità” che gronda sangue e risulta inaccettabile.

Parafrasando un noto aforisma di Adorno, Auschwitz inizia ogni volta che passando da un bancone di un super-mercato, dalla vetrina di una pellicceria o ci sediamo per mangiare facciamo le spallucce e diciamo che si tratta “solo di animali”, dimenticando, tra l’altro, che anche noi lo siamo nonostante indegna-mente ci riteniamo superiori alle altre specie. Se si dà per scontata l’esistenza di un mattatoio, non ci si può stupire o indignare degli stermini di massa che hanno infangato il secolo trascorso. È ec-cessivo? Nient’affatto.

Siamo circondati da migliaia di Bu-chenwald, Birkenau, Dachau. Accettia-mo, quasi per tacito patto, per viltà o convenienza, di convivere con l’orrore e, come per i tedeschi sotto il nazismo, fingiamo di non rendercene conto, di ignorarlo, lasciando che le urla di milioni e milioni di altri esseri rinchiusi in alleva-menti intensivi, deportati in viaggi a dir

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letture

poco infernali, seviziati, sventrati, sgoz-zati, massacrati non giungano alle nostre orecchie. Non vogliamo che i brandelli di carne che penzolano dai ganci o, confe-zionati nel cellofan, stanno in bella (orri-bile) mostra turbino i nostri sogni, la no-stra (pessima) coscienza. Operiamo una sorta di rimozione, finendo per conside-rarli anonimi pezzi di una catena di (s)montaggio. Viviamo in trance, come se il nazismo non esistesse, non fosse mai esi-stito. Teniamo il più lontano possibile da noi, dalle nostre case, dalle nostre città, gli allevamenti, i mattatoi, i laboratori di pellicceria, gli tabulari dove si consuma la “sperimentazione” animale.

Facciamo sì che questi luoghi di reclu-sione e assassinio, siano privi di traspa-renza, negati alla visibilità. Se, infatti, così non fosse, si incrinerebbe, a poco a poco, quel sistema di produzione, sfrut-tamento, mercificazione su cui si regge il capitalismo. Un sistema che si estende, trasferisce e sovrappone pedissequamente a livello sociale. Non a caso, Horkheimer è arrivato a descrivere la nostra società come un grattacielo la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto una cattedrale. In cima stanno i «grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici» e alla base i poveri, i vecchi, i malati. «Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i co-olie della terra andrebbe rappresentata – ha scritto Horkheimer – l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali». Era forse Horkheimer un “pe-ricoloso estremista animalista” o non, in-vece, un lucido analista dei meccanismi

totalitari che contribuiscono a rendere sempre più esclusivamente nominalistica e svilita la nostra democrazia?

La sociologa e psicologa Melanie Joy non ha dubbi in merito: Horkheimer ha efficacemente immortalato il contesto so-ciale in cui, volenti o nolenti, siamo im-mersi. Un contesto, si badi bene, che, è vero, si protrae da secoli, ma che può (e deve) essere radicalmente cambiato. Di-pende da noi, soltanto da noi.

In Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche, la Joy defi-nisce “carnismo” l’ideologia che sostiene la violenza nei confronti degli altri esseri senzienti e che spaccia come incontro-vertibile l’assunto secondo cui la carne sarebbe essenziale e ineliminabile dalla nostra alimentazione. Così ovviamen-te non è e, con intelligenza e dovizia di documentazione, l’autrice mostra come il “carnismo” altro non sia che una delle tanti varianti dello “specismo”, della con-cezione cioè che legittima l’(auto)confe-rimento da parte dell’uomo del proprio dominio sugli altri esseri e sull’intero mondo naturale.

Gli esiti devastanti e criminogeni di una simile visione sotto gli occhi di tutti si ri-assumono in quello che Jeremy Rifkin ha efficacemente chiamato “ecocidio”, vale a dire la metodica distruzione dell’eco-sistema planetario. Sulla scia di autori come Charles Patterson, Jim Mason, Jonathan Safrar Foer, Michael Pollan, la Joy si addentra in una severa requisitoria sugli allevamenti intensivi, sull’inaudita barbarie che ogni giorno, nell’omertoso, connivente, silenzio-assenso imposto dai mezzi di comunicazione, si abbatte su

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un numero sterminato di mucche, vitel-li, agnelli, maiali, tacchini, galline, oche, pesci in luoghi “di dominio” in cui il na-zismo celebra il proprio apogeo.

Per non parlare di cosa si cela dietro la produzione di latte, di uova o della cosid-detta “carne felice”, cioè dei posti in cui l’animale sarebbe nutrito “all’aperto”, “in modo naturale”, con mangimi privi di antibiotici, estrogeni e altri additivi, per andare “felicemente” incontro alla stessa fine, allo stesso macello, degli altri suoi simili allevati negli stabilimenti dei gran-di gruppi industriali alimentari. Questo massacro, questo olocausto, paradossal-mente visibile nonostante la propria invi-sibilità, può (e deve) però cessare. Spetta a noi la consapevolezza di una svolta. Me-lanie Joy mette l’accento sul valore della testimonianza, sulla presa di coscienza che ognuno è chiamato a compiere per spezzare la catena di dolore e sangue che sta alla base del nostro sistema produtti-vo mercificante. Oggi sono sempre di più coloro che, in opposizione a questo siste-ma, adottano scelte di vita nonviolente, dall’alimentazione all’abbigliamento. E parallelamente aumentano coloro che, nel nome di una ricerca scientifica meri-tevole di tale nome, e quindi non dogma-tica e non assoggettata agli interessi delle multinazionali e di potentati universitari, si oppongono al mito della inderogabili-tà della sperimentazione animale. Piaccia o no a pseudoscienziati, devoti più allo scientismo che alla vera scienza, a sac-centi epistemologi o a nutrizionisti corti-giani e macellai, un nuovo movimento è nato, sta andando avanti e niente e nessu-no potrà arrestarlo. Il caso Green Hill lo

ha ampiamente dimostrato. Una “nuova sensibilità”, per citare Herbert Marcuse, “è diventata forza politica”. È e sarà sem-pre di più contagiosa, estremamente con-tagiosa, perché reca il virus della libera-zione dalla “carnocrazia” e da ogni forma di sfruttamento (Francesco Pullia).

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