Angelozzi EBM psichiatria 2008

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V O L U M E V I I N . 2 G I U G N O 2 0 0 8

PSICHIATRIADI COMUNITÀPSICHIATRIADI COMUNITÀL A R I V I S T A D E I D I P A R T I M E N T I D I S A L U T E M E N T A L E

EDITORIALI

61Ai confi ni dell’evidence-based medicine:

un’analisi criticaAndrea Angelozzi

71Su che cosa basare le decisioni mediche?

La diffi cile esistenza dell’evidenzaMassimo Musicco

ARTICOLO RICHIESTO

73Si possono riorganizzare i servizi per rispondere ai bisogni del nuovo paziente psichiatrico acuto?

Risultati preliminari di un modello di crisiLivia Ligorio, Pilar Ohlendorf, Daphné Maire,

Antonio Andreoli

ARTICOLI

84Il movimento dell’auto-mutuo-aiuto nel campo

della salute mentale in Italia: i risultati della ricerca nazionale G.A.M.A.

Giuseppe Corlito, Paolo Rubinacci, Claudia Valiani, Umberto Zei, Pierluigi Morosini

S O M M A R I O

93Integrazione tra medico di medicina generale e

strutture specialistiche nella gestione dei disturbi della condotta alimentare

Emilia Manzato, Marzia Simoni, Tatiana Zanetti, Michela Leoni

98Il Family Focused Treatment Approach nella cura

dei disturbi bipolari: una panoramicaOsmano Oasi, Sara Sainaghi

DOCUMENTO

105La prevenzione del suicidio nelle carceriWorld Health Organization, International

Association for Suicide Prevention

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A I C O N F I N I D E L L ’ E V I D E N C E - B A S E D M E D I C I N E : U N ’ A N A L I S I C R I T I C A

IntroduzioneLa Evidence-Based Medicine (EBM) rappresenta or-

mai un riferimento culturale di enorme impatto sulle pratiche attinenti la cura della salute, ivi compresa la salute mentale. Nasce negli anni ’70-’80 alla McMaster University in Canada, dove la Clinical Epidemiology, valutando prassi attraverso studi su popolazioni di pazienti (Charlton & Miles, 1998; Haynes, 2002), si incontra con il problema, sollevato da Archibald Cochra-ne, dell’utilizzo talvolta dannoso di interventi di non provata effi cacia e il conseguente uso del randomized controlled trial (RCT) per testare le terapie (Cohen et al., 2004). La defi nizione Evidence-Based Medicine, comparsa in un editoriale di Guyatt nell’ACPJC del 1991, trova descrizione nel Journal of the American Medical Association nel 1992 (Anonymous, 1992) in cui il gruppo della McMaster diventa The Evidence-Based Medicine Working Group. L’EBM viene defi nita un mo-dello per la formazione e la pratica medica, portatore di tale novità rispetto al passato da potersi considerare un nuovo paradigma in senso kuhniano; si sottolinea come i medici utilizzino spesso informazioni derivanti dalla teoria fi siopatologica, da clinici “autorevoli” o dalla tradizione, senza usare – criticamente – una letteratura ormai troppo vasta (Rogers, 2004; Davidoff et al., 1995). Anche in psichiatria molti trattamenti sono legati ad autorità culturali in quella che, ironicamente, viene chiamata FB (Faith-Based) Medicine (De Simone, 2006). Risultati importanti richiedono anni prima di trasferirsi nella pratica e di fatto, anche in psichiatria, il 25% dei pazienti riceve trattamenti dannosi e il 40% cure di non dimostrata effi cacia (Drake et al., 2003; Gray & Pinson, 2003; Doherty, 2005a).

Il rimedio proposto è di utilizzare una tecnologia della decisione che elimini interventi non sistematici e autoreferenziali, sulla base di uno standard rigoroso e “scientifi co”, fi nalizzato a gestire le terapie in modo aggiornato e con solide prove di effi cacia (Norman, 1999; Tonelli, 1998). Diventata una legittimazione (Je-nicek, 2006a), poggiata sull’informatica medica (Cohen et al., 2004), di qualunque ambito di applicazione, non poteva che essere seduttiva per clinici e amministratori, costituendo un punto qualifi cante nei Piani Sanitari Nazionali. Anche in Italia è emersa molta attenzione sia per quanto riguarda la valutazione dell’effi cacia degli interventi (De Girolamo, 1997) sia per quanto riguarda l’organizzazione dei servizi (Liberati, 2005).

Eppure, nonostante tali premesse, l’EBM ha susci-tato molte critiche e poche risposte (Doherty, 2005). Le critiche ne dichiarano il fallimento e affermano che si è trasformata da idea brillante a prassi dominante, senza chiarire o testare gli assunti su cui si basa e che ne legittimerebbero la preminenza (Charlton & Miles, 1998; Tonelli, 1998, 2006). Le critiche vengono citate raramente (Miles & Loughlin, 2006) e vengono liqui-date come “opinioni personali” o reazioni appassionate che testimoniano l’importanza dell’EBM (Jamrozik, 2001). Vengono riconosciuti solo problemi applicativi, legati agli ostacoli all’incorporazione nella pratica e nel governo clinico (Straus, 2004); gli oppositori (quella che Popper chiama “critica all’osservatore”) vengo-no classifi cati in “costituzionalmente conservatori”, “scettici”, “già convertiti”, che giurano di “applicarla da sempre” e “libertari” che non sopportano regole (Doherty, 2005). Taluni hanno aggiunto coloro che la ritengono “troppo diffi cile” (Del Mar, 2005) e coloro

Andrea AngelozziDipartimento Interaziendale di Salute Mentale, Padova

AI CONFINI DELL’EVIDENCE-BASED MEDICINE: UN’ANALISI CRITICA

EBM’s Twilight Zone: A Critical Review

E D I T O R I A L E

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che “non amano la matematica e le probabilità” o che temono richieda troppo tempo (Ghali et al., 1999). Viceversa, i sostenitori dell’EBM, ritenendola ovvia, non risponderebbero alle critiche (Buetow, 2002) e si sorprendono che si discuta sull’aggettivo evidence-based, come se non esistesse altro su cui basare le decisioni mediche (Dickersin et al., 2007).

Che cosa è evidence nell’EBM?Imbattersi in 13 defi nizioni dell’EBM, due dell’Evi-

dence-Based Clinical Practice e cinque dell’Evidence-Ba-sed Health Care (Anonymous, 2007) pone il problema della mancanza, dopo tanti anni, di una defi nizione chiara, che permetta di riconoscere chi siano i “veri” proponenti. Sebbene tale pluralità possa rifl ettere il rapido raffi narsi di concetti (Jenicek, 2006), la man-canza di una defi nizione rischia (Miles & Loughlin, 2006; Loughlin, 2006) di affermare qualcosa di cui non si può esaminare la natura e che non si è in grado di descrivere in maniera condivisa (Tonelli, 1998). La diffi coltà risiede nell’impegnativo concetto di evidence. Indica letteralmente (Shahar, 1997) quel “qualcosa che fornisce prove” (nei lavori italiani spesso: prova di effi cacia), basilare nel procedere scientifi co, ma tutt’altro che univoco, attingendo a una vasta gamma di forme della conoscenza e spaziando, a seconda dei modelli, dal promettere il relativismo o la verità assoluta. La defi nizione classica del 1992 individua l’EBM come

... the conscious, explicit and judicious use of the best current evidence in making decisions about the care of in-dividual patients.

(Anonymous, 1992)

La ricerca dei “best fi ndings from health care research that are both valid and ready for clinical application” che elimina quelli ineffi caci e dannosi (Jenicek, 2006a), dietro l’apparente semplicità (Shahar, 1997) cela que-stioni epistemologiche basilari.

Tali promesse di prove scientifi che sicure e di un procedere sistematico razionale, obiettivo e altruistico de-fi niscono scopi che non possono trovare opposizione in nessuna persona ragionevole (Charlton & Miles, 1998). Rappresentano anche una preventiva squalifi ca dei critici che diventano automaticamente fautori di una non-evidence based medicine, a cui sarebbero legati a causa di un’inspiegabile determinazione all’errore o dal non comprendere che la medicina richiede giustifi cazioni scientifi che (Shahar, 1997).

Il problema è legato al tipo di evidence proposta. L’articolo originario (Anonymous, 1992) propone una defi nizione ristretta (Sehon & Stanley, 2003), sottoli-neando che

... [it] de-emphasizes intuition, unsystematic clinical expe-rience and pathophysiologic rationale as suffi cient grounds for clinical decision making and stresses the examination of evidence from clinical research.

Si dichiara la centralità della evidence derivata da ricerche cliniche sistematiche legate al pensiero epi-demiologico, ove l’uso degli RCT determina l’effi cacia clinica (Tonelli, 2006; Davidoff et al., 1995). Vengono viste con scetticismo indicazioni proposte da panel o da singoli “esperti” sulla base dell’esperienza, uti-lizzabili solo in mancanza di appropriati trial clinici (Tonelli, 1998).

Questo tipo di evidence, indirizzato più alle applica-zioni e a relazioni statistiche che non all’eziopatogenesi e alle sue regole, porta ad accettare decisioni ignorando le basi sottostanti e con l’incertezza del reale impatto sull’individuo (Haynes, 2002). Non legittima poi la pretesa di novità. In psichiatria, il coma insulinico venne invalidato con RCT ancora nel 1962 e all’inizio degli anni ’60 vennero condotti RTC sull’imipramina e su neurolettici (Williams & Garner, 2002). Se il primo RCT viene fatto uffi cialmente risalire al 1940, la sto-ria della medicina antica mostra confronti fra terapie o fra modelli patogenetici e talune rassegne storiche (Claridge & Fabian, 2005; Jamrozik, 2001) svelano come l’EBM sia l’applicazione routinaria di ricerche controllate già utilizzata in passato.

Un mutamento concettuale avviene quando il dif-fi cile passaggio da studi di popolazione agli individui porta a parlare di “integrazione” (Tonelli, 1998; 2006), riconoscendo il valore dell’intuizione, dall’esperienza clinica e dalla fi siopatologia. Già in origine era stata sottolineata l’importanza di aspetti quali l’anamnesi, il rapporto medico-paziente o l’accuratezza dell’esame clinico (a cui la McMaster University destinava metà della formazione) e venivano ammesse altre conoscenze per argomenti privi di RCT o per adattarli a situazioni specifi che (Anonymous, 1992). Haynes e Sackett nel 1996 (Sackett et al., 1996; Haynes, 2002) parlano di integrare

... the individual clinical expertise with the best available external clinical evidence from systematic research...

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aggiungendo nel 1997 il razionale fi siopatologico e nel 2000 (Sackett et al., 2003) i patient values. Ciascun ambito poi chiede una specifi ca fonte di evidence, imponendosi l’alto contenuto informativo e il basso contenuto di errore dei randomized trial solo per la terapia.

Questa apparente soluzione non chiarisce che cosa signifi chi praticare l’EBM e che cosa differenzi il nuovo approccio perché ammette solo dati “comprovati”, sen-za tuttavia una metodologia che ne garantisca l’effettiva natura o il peso specifi co delle varie fonti, fi nendo per affermare solo che l’EBM identifi ca la più alta qualità di evidence (Cohen et al., 2004) o che è la migliore combinazione possibile di scienza di base, esperienza clinica e trial (Sehon & Stanley, 2003). Taluni trattano le differenti fonti come gerarchie di validità, ove al massimo livello sono posti gli studi N-1, poi le meta-nalisi e gli RCT, fi no agli studi osservazionali, ai case report, e alle osservazioni cliniche, con una progressiva – ma mai completa – eliminazione dell’errore (Doherty, 2005; Akobeng, 2005). Alla gerarchia delle evidenze si lega quella delle strategie di ricerca, sintetizzate dalle 4S di Haynes: Systems, Synopses, Synthesis, Studies (Haynes, 2001).

Vengono eluse le differenze qualitative tra forme del sapere quali l’esperienza clinica (diretta e personale) e la ricerca clinica (indiretta e generale) o il rapporto con la fi siopatologia, legata a quel ragionamento teorico che l’EBM rifi uta. Per questo, Tonelli (2006) propone la distinzione tra fonti evidentiary e non evidentiary, con gerarchie interne allo stesso tipo, ma così accetta le lo-giche proposte dall’EBM e sposta solo il problema dei criteri gerarchici (Gupta, 2003; Tanenbaum, 2006).

Vi è poi il problema del rapporto con il senso co-mune, che suggerisce l’inutilità di taluni RCT, senza tuttavia che sia chiaro il confi ne che garantisce (Smith & Pell, 2003) una conoscenza argomentata e quello, a esso collegato, con la “conoscenza tacita” studiata da Polanyi (Thornton, 2006), cioè la conoscenza basilare non esplicitata, il sapere di sfondo che guida l’intuizione per risolvere i puzzle quotidiani.

Un nuovo paradigma?L’EBM riteneva di rappresentare un nuovo para-

digma nel senso di Kuhn (1978), in quanto modifi ca radicale nelle strutture di fondo del pensiero e della prassi medica. Questa pretesa svela (Doherty, 2005) idee vaghe sul concetto di paradigma, quale “intera costellazione di credenze, valori, tecniche condivise

dai membri di una data comunità” che indica le strut-ture di fondo in cui si organizza la visione del mondo e la connessa conoscenza scientifi ca. Costituisce un contesto condiviso (come la teoria cellulare, quella infettiva o l’omeostasi) all’interno del quale si lavora su problemi e rompicapi. Dopo periodi di scienza normale, i rompicapi evidenziano tali anomalie da portare alla rottura di un paradigma, a nuove condivisioni, a un nuovo paradigma, incommensurabile con il precedente, e a nuovi rompicapi.

Queste condizioni non si applicano all’EBM, che tende a normare metodologie ritenute nuove, ma relative al paradigma attualmente dominante (quello bio-medico) e a proporre un modo più effi cace e accu-rato per utilizzare il sapere disponibile (Gupta, 2003; Benitez-Bribiesca, 1999). Parlare di novità signifi ca (Benitez-Bribiesca, 1999) ignorare la storia della me-dicina, che illustra la costante ricerca per ottenere la migliore effi cacia in rapporto all’epoca e che la indica come un classico fenomeno della scienza normale (Maier, 2006).

Limiti epistemologiciTra le varie critiche, quelle epistemologiche metto-

no in dubbio l’assetto “scientifi co” (Cohen et al., 2004) sulla base del complesso rapporto tra osservazioni e teoria e tra fatti scientifi ci e neutralità obiettiva.

Fatti, teorie e induzioneAnche se non viene mai esplicitato (Shahar, 1997),

l’EBM si richiama a un’epistemologia neopositivisti-ca, ove si pensa di poter eliminare le distorsioni per raggiungere descrizioni fattuali neutrali e oggettive, in grado di fornire verità assolute (Federspil & Scan-dellari, 2006; Goldenberg, 2006; Harari, 2001). Questo approccio, in cui i fatti sono arredi naturali del mondo, dopo le critiche di Popper e dell’epistemologia post-popperiana non appare più sostenibile.

Un fatto scientifi co descrive pezzi di realtà, preve-dendo attributi e relazioni comprensibili e controllabili solo all’interno di una teoria. I fatti non sono innocenti registrazioni di eventi, ma solo “artefatti”, costante-mente modifi cati attraverso costruzioni e demolizioni teoriche; non sono dati per sempre, ma nascono (come l’inconscio o la cellula) e muoiono (il fl ogisto, l’etere) e la loro vita è le teorie che ne parlano (Antiseri & Timio, 2000).

Le teorie rimangono costruzioni convenzionali, che suggeriscono più un’intersoggettività che una verità

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obiettiva, e la stessa percezione delimita un “fatto” dall’infi nita complessità della condizione studiata, sulla base implicita di credenze, aspettative e del sapere di fondo.

Il conoscitore non è lo spettatore neutrale che crede nell’EBM, ma un soggetto che sperimenta il mondo attraverso teorie e valori, tra cui sono stati sottolineati in medicina fattori sociali, differenze di genere e i vissuti dal soggetto. È stato rimarcato come l’ogget-tività EBM sia la soggettività di un gruppo di maschi bianchi che considera il mondo femminile solo come una spiacevole variabile ormonale da limitare nei trial, dove in USA l’85% e in Canada il 95% sono maschi. Specifi che differenze, ad esempio per la depressione, non sono oggetto di lavori e la ricerca farmacologica trascura spesso le necessità della gravidanza o dell’al-lattamento (Goldenberg, 2006; Rogers, 2004).

La fenomenologia sottolinea l’aspetto cruciale dell’esperienza soggettiva (Goldenberg, 2006), non ritenendo possibile il tentativo dell’EBM di ragionare sulla malattia senza individuare che cosa signifi ca per il paziente: le evidence vanno cercate in modo diverso, in un mondo diverso, in cui la malattia è un’alterazione del modo di porsi e funzionare nel mondo.

La storia della psichiatria, poi, ci mostra come con-dizionamenti culturali e sociali mettano in luce fatti diversi e diverse teorie, impedendo di poter conside-rare neutri oggetti naturali (Charlton, 1997) anche gli aspetti nosologici. L’EBM presuppone (Maier, 2006) la validità delle diagnosi, che tuttavia in psichiatria non sono generi naturali come vorrebbe l’empirismo inesplorato del DSM (Harari, 2001), ma costruzioni teoriche condivise.

Ma vi è un altro aspetto che merita un chiarimen-to teorico ed è la questione dell’induzione. L’EBM (Shahar, 1997) sostiene procedure induttive, che do-vrebbero permettere di passate dai “molti” ai “tutti” e da qui al singolo caso, ma che evidenziano numerose fragilità. Il teorema di Duhem-Quine mostra che le teo-rie generali non sono mai determinate esclusivamente dai “fatti”, che possono supportare teorie diverse e perfi no contraddittorie, pregiudicando la scienza come impresa oggettiva e indicando altri criteri, spesso cul-turali e sociali, per decidere tra generalità.

Tuttavia, il problema maggiore è il ruolo che Popper assegna al rapporto fra deduzione e induzione come cri-terio di demarcazione tra scienza e metafi sica. Emerge un’asimmetria logica tra la verifi cazione, ove l’induzione accumula conferme, e la falsifi cazione, ove la deduzio-

ne individua la possibile condizione che smentisce la teoria. Le teorie scientifi che, e la medicina non fa eccezione (Upshur, 2000), cercano l’evento che possa falsifi carle e nell’attesa rimangono costruzioni poggiate su palafi tte, senza mai poter trovare un solido strato di roccia. Molti trial positivi non costruiscono una genera-lità, mentre uno solo ci può solo aiutare, ad esempio, a smentire che quel trattamento non è mai superiore al placebo. I trial hanno bisogno di un’ipotesi da testare per non perdersi nell’infi nito e nell’assurdo (Sa Couto, 2006) e la loro ricchezza è la capacità di mettere alla prova una teoria (Rees, 2000). L’EBM (Sehon & Stan-ley, 2003) diventerebbe paradossalmente il controllo della teoria fi siologica e di quella biochimica, ove esiti imprevisti costringono a rivedere concezioni che diamo per assodate.

Le tesi popperiane sono state duramente criticate con il tempo, anche in medicina, dove (Karhausen, 1995) si sottolinea come – a differenza della fi sica – siano scarse le affermazioni universali da cui dedurre argomenti validi e si attuino inferenze induttive che muovono da asserzioni vere in specifi che situazioni verso conclusioni altamente probabili. Non è quindi la ricerca induttiva di teorie o generalità valide anche nel singolo caso, ma l’uso di logiche fuzzy, dove si ricerca la ragionevolezza di una credenza in una scommessa probabilistica. Senza pretese di verità, si autorizza ragionevolmente il passaggio da casi osservati a casi non osservati, da campioni a popolazioni e da queste a individui. Sono orizzonti interessanti, anche in rap-porto alla natura del procedimento diagnostico e alla possibilità di predire comportamenti.

Questa probabilità “soggettivista”, legata al teorema di Bayes, diventa il grado razionale di una credenza e formula ragionevoli scommesse sul singolo caso. Si tratta di regole logiche (Karhausen, 1995) connesse con il nostro ragionamento usuale, ben più complesso dell’applicazione delle logiche razionali deduttive che non possono inglobare dettagli successivi e portano a conclusioni valide nella logica, ma errate nella realtà. Ci permettono di affermare ciò che è ragionevole pensare, rinunciando alla logica classica e alla verità e acconten-tandoci della conferma probabilistica di credenze che ci mostrano che vi è una differenza tra buone e cattive ragioni per avanzare un’ipotesi.

La questione dei trialI gold standard nella valutazione dell’EBM sono

stati oggetto di numerose critiche (Cohen et al., 2004;

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Doherty, 2005). Molte riguardano l’“oggettività” e non si limitano a taluni episodi di frode nei dati pubblicati su riviste scientifi che anche di rilievo (Horton, 2001), ma riguardano distorsioni strutturali dei risultati.

Sulla correlazione tra effetto terapeutico rilevato e qualità metodologica vi sono (Norman, 1999) risultati diversi: mentre alcuni evidenziano un 34% di maggiore benefi cio in studi metodologicamente poveri, altri non hanno trovato legami né con la qualità dello studio né con la presenza di randomizzazione.

Il fi nanziamento da parte di case farmaceutiche, da non sottovalutare considerando il costo dei trial (Miles & Loughlin, 2006), non infl uenza la qualità dello studio (Norman, 1999), ma porta un risultato più favorevole al farmaco (98% vs. 79%) e una più frequente pub-blicazione (Doherty, 2005). Trial importanti mostrano interventi da parte degli sponsor che alterano i dati e legittimano interpretazioni diverse (Lane, 1999; Doher-ty, 2005). Le fonti di fi nanziamento, poi (Gupta, 2003), restringono i dati da studiare a quelli che possono avere ricadute commerciali.

La pubblicazione è il fattore di maggiore distorsio-ne, mostrando una media di effetti rilevati di 0,53 per gli studi pubblicati e 0,39 per quelli non pubblicati. Trial risultati positivi e incentrati su nuovi farmaci sono più facilmente pubblicati, in parte anche per rendere la letteratura più interessante. Le carriere accademiche utilizzano le pubblicazioni, spingendo verso gli argomenti più trendy, escludendo patologie rare o poco trattabili con farmaci (ad es., l’alcolismo) (Berk & Janet, 1999).

Bias importante in psichiatria è la maggiore ade-guatezza degli RCT per aspetti quantitativi rispetto ai qualitativi (Sehon & Stanley, 2003), come pure per la farmacologia rispetto alle psicoterapie (Lake, 2006), a cui sono sfavorevoli anche l’usuale breve durata dei trial, le fonti farmaceutiche di fi nanziamento e il bias da pubblicazione (Gupta, 2003). Si può giungere all’erronea conclusione che la scarsità di evidence sulla psicoterapia signifi chi minore effi cacia rispetto ai far-maci (Dixon et al., 2005) quando è solo una grey zone (Naylor, 1995) in cui manca una solida evidenza o questa non è applicabile a un dato paziente (Feinstein & Horwitz, 1997). L’assenza di evidence non è evidence della sua mancanza (Williams & Garner, 2002).

È stata sottolineata la natura arbitraria dei criteri di signifi catività (Shahar, 1997) con critiche rimaste senza risposta (Cohen et al., 2004). Un RCT non fornisce verità, ma solo un dato empirico, che richiede un giu-

dizio interpretativo in cui hanno un ruolo vari fattori, anche sociali (Gupta, 2003). La pratica medica va oltre le applicazioni algoritmiche delle evidence fornite dagli RCT, ponendo più problemi di interpretazione che di statistica (Lane, 1999): si pensi alla decisione di estendere i risultati di trial sui maschi alle femmine o a come la presentazione dei dati infl uenzi le interpre-tazioni (Shahar, 1997) e differenti analisi conducano a conclusioni diverse nello stesso gruppo di ricerca (Horton, 1995).

I trial omettono spesso dettagli cruciali per deci-sioni cliniche quali la risposta a precedenti terapie, la compliance o il supporto ambientale su cui può con-tare. Molti RCT arruolano una popolazione ristretta, che si ipotizza sia altamente responsiva (Feinstein & Horwitz, 1997), rendendo diffi cile applicare i risultati alla generalità della popolazione o ai pazienti individuali del mondo reale.

Nel trial ECASS-I sullo stroke, per reclutare 624 pazienti ne furono esaminati 17.000 (Lane, 1999). In psichiatria, i trial escludono pazienti con concomitan-ti patologie o trattamenti internistici, con abuso di sostanze o disturbi di personalità, con storia di non risposta ai trattamenti, non includendo spesso donne o pazienti oltre i 64 anni (Berk & Janet, 1999; Williams & Garner, 2002). Condizioni sperimentali ideali rendono diffi cile l’applicazione al mondo reale. Nei grandi trial multicentrici e randomizzati, i cui costi sono sostenibili solo dalle case farmaceutiche (Berk & Janet, 1999), si ritiene che i grandi numeri garantiscano una maggiore base statistica, trascurando che per la qualità dei risul-tati un campione molto grande pone sospetti sul rigore metodologico. Peraltro, l’applicazione all’individuo non è facilitata da una maggiore esattezza statistica, ma dal tenere conto delle variazioni individuali, ancor più annullate in un megatrial (Charlton, 1996).

Sono fallite le dimostrazioni che RCT e metanalisi siano migliori di altri metodi di ricerca di buona qualità (Jenicek, 2006), che hanno invece il vantaggio di esa-minare scenari clinici reali con immediate potenzialità cliniche (Miles & Loughlin, 2006). Studi osservazionali (Cohen et al., 2004) danno spesso risultati convincenti, oltre che simili a quelli degli RCT (Haynes, 2002).

Rimane un limite (Blau, 1997) relativo all’accuratez-za delle diagnosi su cui si basano i trial, la cui qualità non è garantita di per sé dai criteri internazionali. L’EBM mantiene il silenzio (Miles et al., 1997) in merito ed è curioso che Cochrane ammetta errori diagnostici gravi nel suo primo lavoro.

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Vengono favoriti ambiti con collaudati strumenti di indagine (Gupta, 2003), privilegiando in genere mec-canismi biologici a scapito di altri (Charlton, 1997) o forzando inappropriatamente la metodologia. Aspetti importanti nella pratica clinica, legati all’intuizione clinica o alla soggettività (Haynes, 2002), sono trascu-rati. L’EBM non aumenta l’obiettività, ma oscura la soggettività che entra nella ricerca umana (Goldenberg, 2006).

La questione delle metanalisiNel 1976, nel tentativo di valutare l’effi cacia della

psicoterapia, Glass completò una rassegna qualitativa sistematica (Dixon et al., 2005) con un’analisi stati-stica dei vari risultati. Questo nuovo strumento, che chiamò metanalisi, diventò l’ulteriore gold standard per raccogliere e confrontare le evidence (Feinstein & Horwitz, 1997) emerse dai trial, rispondendo, secondo alcuni, a problemi di tempo e analisi critica, secondo altri (Norman, 2003) all’implicita scarsa affi dabilità di singoli RCT.

Fin dall’inizio sono emerse critiche metodologiche (Sharpe, 1997), indirizzate peraltro anche alle rassegne qualitative (Dixon et al., 2005), con strategie correttive che non hanno protetto tuttavia da contraddizioni e “paradossi inesplicati” (Jamrozik, 2001).

1. La prima critica è stata chiamata apples and oranges e fa riferimento ai limiti nel combinare statisticamente risultati da studi che misurano cose diverse e con differenti variabili.

2. La seconda (fi le drawer) si riferisce al fatto di non avere dati rappresentativi sul problema per le differenze nella pubblicazione di lavori a parità di qualità e la distorsione da pubblicazione.

3. Il garbage problem si riferisce, all’opposto, all’inclusio-ne di qualunque studio, compresi quelli di qualità scadente, per evitare bias dovuti a selezioni.

Ulteriori critiche riguardano (Sharpe, 1997) la prete-sa di assolutezza delle metanalisi e la maniera con cui sembrano chiudere aspetti di ricerca, dando comunque scarsa attenzione ai trial negativi e alla loro ricchezza problematica.

Eysenk ha sottolineato come le metanalisi siano una somma matematica senza mente di studi non connessi senza considerazioni teoriche; altri difendono che questo non è insito negli aspetti concettuali del metodo, ma deriva da come viene applicato.

Vi è evidence per l’EBM?Si pone il problema se l’EBM sia evidence-based. È

stato affermato che, non essendo un trial o una terapia specifi ca, non è soggetta agli stessi meccanismi di ve-rifi ca; tuttavia, se vuole essere considerata una teoria scientifi ca non può appoggiarsi sull’autoevidenza e deve poter essere oggetto di controllo e critica, coerentemen-te con la richiesta dell’EBM stessa secondo la quale “i risultati devono essere costantemente valutati” (Cohen et al., 2004). Questo riguarda in particolare l’asserzione centrale: che la pratica che nasce dalle evidence è su-periore a quella che si basa sull’eziopatogenesi e sul-l’esperienza clinica. Non vi è alcuna evidenza (Haynes, 2002; Sehon & Stanley, 2003) che questa assunzione sia corretta; i pochi studi si limitano a équipe il cui forte interesse per l’EBM è un fattore di bias oppure che utilizzano situazioni cliniche (Miles et al., 1997) o valutazioni di esito discutibili (Norman, 2003).

Lo stesso Sackett (Gupta, 2003) ammette che non vi è evidence che l’EBM sia più effi cace rispetto alla “solita” medicina e il “manifesto” del 1992 invoca il “razionale” che terapeuti aggiornati e in grado di va-lutare criticamente i lavori prescrivono probabilmente terapie più giudiziose, soprattutto di fronte a un’alter-nativa ridotta a libri di testo o a pareri di esperti (Ghali et al., 1999). È paradossale che un movimento che basa il processo decisionale sul primato della prova empirica e sull’emarginazione della teoria debba ammettere che non vi sono prove a suo favore, fi nendo per legittimarsi con un postulato teorico. Dopo aver portato un meri-tevole sospetto per le affermazioni non sostanziate da prove, senza riguardo per il loro successo, fi nisce nella stessa categoria (Norman, 1999); scegliere l’EBM non si basa dunque su evidence (Norman, 1999), ma rischia di essere solo un’ipotesi che, anche se ha molti seguaci, non per questo diventa verità (Upshur, 2006).

I limiti nella pratica clinicaIl limite centrale, che ha portato a parlare di “in-

tegrazione”, emerge nell’abisso tra la ricerca e la quo-tidiana pratica clinica (Norman, 1999; Tonelli, 1998). Non è solo un limite relativo alle fonti, dove la ricerca delle stesse informazioni (Cohen et al., 2004) da parte di due ricercatori o con due diverse strategie di ricerca porta a bassa sovrapposizione di risultati (Norman, 1999). Vi è il problema di passare da statistiche di popolazioni a decisioni sul singolo caso, nonostante le metodiche bayesiane (Ashby & Smith, 2000) e approcci di ragionevole probabilità.

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Emerge inoltre il rischio di una medicina “semplifi -cata”, dove non occorre capire le variazioni individuali da cui dipende il gap tra pazienti e popolazioni e gli aspetti non quantifi cabili e non esplicitabili (ma non per questo irrilevanti) che segnano il solco epistemo-logico tra ricerca e pratica. Paradossalmente, questo divario ha esaltato fonti diverse del sapere (Norman, 2003) e ha mostrato come le variazioni individuali non quantifi cabili siano importanti per i pazienti e una loro svalutazione svaluti gli individui cui è destinata la cura.

Eppure, nonostante la consapevolezza nel carattere arbitrario dell’EBM e dei suoi limiti (Tonelli, 1998; Maier, 2006), deviare dalle sue evidence rimane sospetto e richiede giustifi cazioni. La sua regola deterministica del trattamento simile per casi simili viene costante-mente negata da una complessità che apre a ragiona-menti probabilistici e a risposte differenti in situazioni apparentemente simili (Maier, 2006). Ma anche sul terreno della salute di popolazione le effettive ricadute dei trial sono discutibili: nessuna patologia ha avuto probabilmente tanti trial come l’arteriopatia coronarica, ma un confronto della situazione di rischio tra il 1995 e il 2000 ha mostrato solo un fallimento collettivo, con incremento di tutti i fattori di rischio nella popolazione (Horton, 2001).

I limiti eticiL’EBM prometteva che la migliore evidence per la

cura e la prognosi promuovesse anche “una più informa-ta e giustifi cata formulazione di decisioni etiche” (Gol-denberg, 2005), affi dando così a procedimenti tecnici la determinazione delle azioni “giuste” e mostrando una confusione tra gli obiettivi della scienza e quelli della pratica medica (Haynes, 2002), soprattutto sul singolo paziente (Gupta, 2003; Tonelli, 2006). Nessuna quan-tità di dati sull’effi cacia degli outcome ci può mai dire che cosa dovremmo fare in una particolare situazione poiché la scelta dell’outcome non è empirica, ma etica e specifi ca per quell’individuo.

Sono invece emersi limiti etici negli RCT (Sehon & Stanley, 2003), relativi alle modalità discutibili con cui taluni trial sono condotti su popolazioni emarginate o senza fornire adeguate informazioni e garanzie cliniche o ancora portando a esiti nulli se non dannosi. I limiti metodologici, poi, non consentono di escludere che ostacoli interventi effi caci a favore di interventi poco effi caci. Individuare nei database la migliore guida per la clinica rischia di condurre (Charlton & Miles, 1998)

al primato dell’informazione e della statistica, conno-tando l’esperto solo per le doti di sistematic reviewer di ricerche fatte da altri, che lo elevano ad arbitro fi nale, senza rapporto con l’esperienza clinica. Si rischia (To-nelli, 1998) di produrre una generazione di terapeuti che pratica la medicina come se maneggiasse un libro di ricette di cucina, senza la capacità di interpretare le situazioni e di rispondere a quella variabilità che porta a conclusioni diverse in casi apparentemente simili.

L’EBM crea un’alleanza dei manager e dei tecnocra-ti statistici per defi nire la “migliore pratica” con l’esito di gestire pareri clinici e di dichiarare la fondatezza e la possibilità degli interventi (Charlton & Miles, 1998). E anche se questo problema non è intrinseco, ma riguar-da il suo uso, è certo aggravato (Gupta, 2003) dal suo autoprescriversi e dal blindarsi contro le critiche.

Si privilegiano fi nanziamenti dalle case farmaceu-tiche, misconoscendo la distorsione introdotta nella metodologia e nei risultati e senza considerare che l’interesse del privato non coincide necessariamente con quello del paziente o della collettività. Viene creata la falsa illusione che i processi sociali che conducono all’EBM e ne conseguono siano irrilevanti, quando poi l’EBM (Goldenberg, 2005) è stata utilizzata in USA per rafforzare la privatizzazione della salute e l’autorità scientifi ca è ormai in gran parte passata alle grandi case farmaceutiche (Norman, 2003).

In ambito psichiatrico (Williams & Garner, 2002), poi, il rapporto terapeutico è stato impoverito e gli aspetti sociali e psicologici trascurati, con il rischio di creare una nuova ortodossia utilitarista.

EBM e managerialitàLa promessa di cure ottimali non ha coinvolto solo

terapeuti e pazienti, ma anche manager della sanità (Haynes, 2002), trasformandosi in un “marchio” che ha ottenuto massicci fi nanziamenti e una posizione di autorità nel Servizio pubblico (Charlton & Miles, 1998). La promessa di una base per allocare risorse senza sprechi ha offerto la legittimazione oggettiva che cercavano politici e manager della salute e lascia il dubbio se la promessa di liberarci dall’autorità (Jenicek, 2006) abbia in realtà aperto le porte a forme diverse e più inquietanti di potere.

Lo stretto legame (Charlton & Miles, 1998) con talune riviste, in primo luogo il British Medical Journal (Miles & Loughlin, 2006), ha favorito la credibilità accademica necessaria per una garanzia di qualità nel regolare l’intero servizio della salute, sposandosi

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con il monitoraggio e l’interpretazione standardizzata dell’informazione.

L’uso dell’epidemiologia per guidare la buona prassi, propria della Clinical Evidence, si è trasformato nell’impiego manageriale di dati statistici per defi nire processi clinici (Cohen et al., 2004), con vantaggi che non sovrastano le critiche (Rogers, 2004).

Le decisioni manageriali (Sackett et al., 1996) di tagliare i costi negando prestazioni ritenute non sup-portate e spingendo verso le altre non considera, infatti (Norman, 1999; Haynes, 2002), che il ragionamento a breve termine proposto in genere dai trial e la loro mancata neutralità non dicono molto delle conseguenze cliniche a lungo termine. Inoltre, l’applicazione degli interventi “più effi caci” può portare, come lo stesso Sackett notava (Cohen et al., 2004), a una lievitazione dei costi, senza peraltro garantire alcuna equa distri-buzione.

Le previsioni economiche originate dall’EBM si discostano poi dalla realtà effettiva, anche perché negli RCT l’effi cacia è misurata in ambienti clinici ideali, a strategie fi sse, mentre nel mondo reale vi è un recluta-mento più ampio, la presenza della comorbilità e sono comuni le associazioni tra farmaci e gli adattamenti delle dosi (Farahani et al., 2006).

Esistono alternative?Viene da domandarsi se davvero le uniche alterna-

tive siano quelle ironicamente proposte da Isaacs & Fitzgerald (1999): la eminence-based, la vehemence-based, la eloquence-based, la providence-based, la diffi dence-based, la nervousness-based e la confi dence-based medicine. L’EBM rimane una storia non conclusa, ove critica non signifi ca un rifi uto a favore dell’improvvisazione e dell’appros-simazione clinica e gestionale, ma un pensare a che cosa si può fare di meglio. Sarebbe errato negare la sua importanza nell’indicarci i limiti nella ricerca fi siopato-logica, nel costituire uno strumento sperimentale che mette alla prova teorie e fornisce nuove strade e nuove ipotesi operative per la pratica medica. E, soprattutto, l’EBM costringe a ragionare sui motivi che supportano le scelte operative, dando alle pratiche della medicina una loro capacità di argomentarsi e di essere rigorose e limitando prassi prive di basi suffragate solo da au-toreferenza, ideologia o improvvisazione.

D’altro canto, non può rappresentare l’unico ri-ferimento e la collocazione nel suo ruolo adeguato richiede la consapevolezza dei tanti limiti che abbia-mo visto e prendere atto che formazione, diagnosi e

terapia (Shahar, 1997) sono più complesse di quanto vorrebbe l’EBM. In ambito formativo, i terapeuti non sono semplicemente individui (De Simone, 2006), ma formano reti di pari dalla cui interazione prende forma l’informazione. Il sapere ha una natura sociale e storica, è sostenuto da aspetti razionali, ma anche dalle istituzioni che prescrivono a che cosa attenersi, molto spesso attraverso regole non scritte che normano il ragionamento clinico (Jenicek, 2006a).

L’ambito diagnostico e terapeutico individua poi la mediazione fra le regole e le conoscenze implicite di una certa epoca storica e sociale; le evidence e la ricer-ca della razionalità; le tante cose che non sappiamo; la consapevolezza di avere a che fare con credenze e asserzioni convenzionalistiche, la cui applicazione non passa attraverso la deduzione, ma attraverso incerte interpretazioni e ragionevoli scommesse (Shahar, 1997; Cole, 1996) su cui si hanno buone ragioni per punta-re. Anche l’organizzazione dei servizi, oltre che sulla razionale deduzione basata sulle evidence, per tenere conto del mondo reale deve appoggiarsi su complesse mediazioni in cui entrano le esigenze sociali, il senso comune e buone ragioni per scegliere verso una certa direzione. In tutto questo, l’EBM è solo uno degli aspetti coinvolti.

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I N D I R I Z Z O P E R L A C O R R I S P O N D E N Z AAndrea AngelozziVia Altichiero, 49/b35135 PadovaTel.: 333 8486980E-mail: [email protected]

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Evidence-based medicine (EBM) is the integration of best research evidence with clinical expertise and patient values.

(Sackett, 2000)

Nessun termine della medicina moderna ha avuto e ha sorti più travagliate della cosiddetta medicina basata sull’evidenza o medicina basata sulle prove di evidenza. Già questa duplice traduzione del termine Evidence-Based Medicine (EBM) rispecchia possibili diverse interpre-tazioni e posizioni. Non è infatti diffi cile intuire un atteggiamento più duro da parte di chi vorrebbe basare la medicina su ciò che rappresenta evidenza provata e chi si accontenta della sola evidenza senza aggettivi e che in qualche modo tollera anche un agire “fi no a prova contraria”.

Su pochi altri argomenti, poi, capita di vedere un altrettanto vasto schierarsi a favore o contro da parte di medici, ricercatori, amministratori. Le ragioni di tanto interesse risiedono forse nel fatto che l’EBM da un lato sembra mettere in discussione modi tradizionali di fare medicina e dall’altro viene chiamata in causa per giustifi care decisioni regolatorie delle autorità sa-nitarie. Da ultimo, non si può negare che l’EBM sia anche un terreno su cui è facile giustifi care l’esistenza, e far crescere l’autoreferenzialità, di fi gure professionali come quelle di epidemiologi, statistici, esperti di sanità pubblica e, più in generale, di coloro che si occupano di metodo.

Quali che siano le passioni o le vere e proprie corde di interesse che l’EBM è in grado di far vibrare, è bene oggi fare chiarezza su che cosa realmente sia questa odiosamata entità.

E D I T O R I A L E

Massimo MusiccoIstituto di Tecnologie Biomediche, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Segrate (MI).

Fondazione IRCCS Santa Lucia, Roma

SU CHE COSA BASARE LE DECISIONI MEDICHE? LA DIFFICILE ESISTENZA DELL’EVIDENZA

Medical Decisions Based on What? The Hard Living of Evidence

L’EBM nasce alla fi ne degli anni ’70 dello scorso secolo come naturale estensione ed evoluzione della cosiddetta epidemiologia clinica. Questo settore del-l’epidemiologia si occupa degli aspetti centrali dell’ope-rare clinico, cioè diagnosi, prognosi e trattamento delle malattie. L’epidemiologia clinica ha sistematizzato i metodi con cui si possono dedurre conoscenze valide su questi argomenti. In quanto scienza, ha fatto emergere la contraddizione tra conoscenza scientifi ca, per sua natura universale, e l’agire clinico, che è per sua natura particolaristico. L’agire clinico ha due attori, il medico e il paziente, che realizzano un rapporto irripetibile e che solo per limitati aspetti può essere ricondotto a categorie generali. A questa contraddizione ha dato una risposta con l’EBM David Sackett, un clinico della McMaster University di Toronto: “La medicina basata sull’evidenza è l’integrazione della migliore evidenza derivata dalla ricerca con l’esperienza clinica e con i valori del paziente”. La defi nizione stessa delimita il campo di realizzazione dell’EBM, che è quello del rapporto individuale, unico e irripetibile dicevamo, tra un medico e il suo paziente. Tale natura particola-ristica emerge evidente dal riferimento all’esperienza clinica, che è individuale di quel medico, e ai valori del paziente, che ancor di più sono unici e diffi cilmente categorizzabili. Questo aspetto è importante perché sgombra il campo dall’erronea interpretazione di coloro che si rifanno all’EBM per giustifi care l’adozione, o forse l’imposizione, di comportamenti ritenuti univer-salmente validi. Ancora più contraddittoria, rispetto alla defi nizione di EBM, è poi la tendenza che concede al clinico unicamente comportamenti di provata effi ca-cia. Infatti, in base all’originaria defi nizione, l’EBM