Angelo Longoni - giunti.it · flette, sta ripassando gli accordi della musica che tra poco dovrà...

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Angelo Longoni

L’ amore migliora la vita

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti avvenuti e persone realmente esistite è puramente casuale.

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© 2018 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: maggio 2018

A Eleonora, perché sa insegnare a tutti

che l’amore migliora la vita.

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Figli

«Pronto?»«Ciao… Come va?»«Va…»«Mmm…»«Sei solo?»«Sì, tu?»«Anch’io. Hai saputo? Si sono messi d’accordo per stasera.»«Sì… A casa tua.»«Per fortuna noi non ci siamo.»«Per fortuna?»«Certo! Matteo, cosa vuoi, menartela tutta la sera con loro?

Pensa alla montagna di cazzate che spareranno.»«Però, così, decidono tutto loro.»«E allora? Cosa cambia?»«Edo, siamo maggiorenni. Voglio decidere anch’io.»«Io voglio solo andarmene.»«Appunto, ma dobbiamo finire l’anno.»«È quello che vogliono anche loro. Stai tranquillo.»«No, non sto tranquillo.»«Hai parlato con tua madre?»«Sì. Tu?»«Sì, ma non so se ha capito… ha pianto.»

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«Ancora?»«La tua?»«Ha capito.»«Beato te. Ci vediamo dopo? Hai la macchina?»«Me la porta mia mamma più tardi. Ma io non ho voglia di

giocare.»«Te la fai venire, stare a casa non serve.»«Nemmeno giocare serve.»«Io voglio fare tutto come prima.»«Non è come prima.»«Per me sì.»«Per me no.»

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Massaggio

Il massaggio è una specie di droga che non ha controindica­zioni per la salute, anzi, fa bene al corpo, alla mente, allo stato d’animo e, di conseguenza, fa bene anche a chi ci frequenta.

Se potessimo farci massaggiare tutti, ogni giorno, il mondo sarebbe un posto migliore, abitato da persone perfettamente in sintonia col prossimo.

Farsi massaggiare è una forma di abbandono, una specie di sonno in veglia, una delega totale a mani sconosciute che ci manifestano affetto senza volerne in cambio. Si paga e ci si lascia andare.

Anna è sdraiata sul lettino di un’elegante SPA. Luci calde e de­licate, temperatura perfetta, musica orientale diffusa a basso volume. Una massaggiatrice bionda e corpulenta le sta cospar­gendo le gambe di olio. Un’altra, mora e mingherlina le sta mas­saggiando il collo. Cosa volere di più? Fino a un po’ di tempo fa questa, per Anna, sarebbe stata felicità pura. Abbandono senza pensieri, calma interiore, serenità, piacere.

Fino a un po’ di tempo fa.Suo figlio Edoardo un giorno ha pubblicato una frase sulla

propria pagina Facebook, poche parole significative in grado di colpire Anna con un’immediatezza illuminante.

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La felicità è una stronza perfettina che se la tira. Con la serenità si vive meglio.

Serenità, una parola assolutamente inadatta a un diciottenne. Solitamente i ragazzi, a quell’età, puntano più in alto avendo aspettative più estreme: estasi, velocità, sballo, ritmo, godi­mento.

Tutta questa paccottiglia da adolescenti non fa per Edoardo. Lui ha le idee chiare: bisogna stare in pace con se stessi, in ar­monia con gli altri e con le cose che accadono. Per questo la serenità vale più della felicità, perché ha a che fare con la calma e con la beatitudine.

Per Anna, la beatitudine, fino a pochi giorni fa, era il massag­gio, due o tre volte a settimana, alternando le tecniche. Il suo preferito è il massaggio olistico che tratta il corpo sotto ogni aspetto, in maniera globale, non soltanto da un punto di vista “anatomico”.

La bionda corpulenta le ha spiegato più volte che manipo­lando articolazioni, muscoli, linfa, liquidi interstiziali e agendo sull’energia globale, si riequilibrano i chakra, i meridiani ener­getici, i flussi emozionali e l’aura, eliminando le emozioni trat­tenute.

«Cazzate!» Questo ha pensato Anna la prima volta che ha sen­tito quelle teorie. I dolori al collo e alle spalle erano l’unica ragione per la quale si sottoponeva ai trattamenti, nessun pen­siero in più. Col tempo, però, si è ricreduta, massaggio dopo massaggio, sentendo al proprio interno una calma reale e un miglioramento della propria perenne instabilità emozionale. Con la pratica olistica costante ha finito per credere di avere

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veramente l’aura, l’alone luminoso, invisibile che sopravvive al decadimento biologico.

Marco, suo marito, non vuole sentire parlare di queste idiozie orientaleggianti: «Roba inventata per portar via soldi alle signo­re abbienti», sottolinea sempre.

In effetti Anna non gli ha mai portato alcuna prova attestan­te l’esistenza dell’aura e i professionisti operanti in ambito scien­tifico hanno bollato tutta quella paccottiglia indimostrabile come pseudo religione o truffa commerciale. Nemmeno i pre­ti, che non mettono certo in dubbio l’esistenza dell’anima, si avventurano a metterla in relazione con l’aura.

Anna sì, lo fa, ed è convinta che, massaggiando il corpo, anche l’aura si dia una bella sistemata. Certo, con Marco i pat­ti sono chiari: mai toccare questo argomento in pubblico o di fronte al figlio Edoardo.

Anna si è messa il cuore in pace e ha rinunciato a convince­re Marco dei benefici ultraterreni o metafisici procurati dal massaggio all’anima.

Per lui è tutto molto semplice e razionale: «Mia moglie fa i massaggi perché ha dolori cervicali».

E Anna evita di intavolare argomenti come «l’effetto bene­fico dell’aromaterapia che esalta in modo sinergico il trattamen­to manuale al fine di combattere il senso di colpa e infondere serenità».

In questo momento, lì, sdraiata, nuda, a una temperatura otti­male, con due esseri umani silenziosi che la toccano e le premo­no muscoli e ossa, avvolta dalla musica di un sitar e immersa in un profumo di vaniglia, mango e cannella, Anna non riesce a essere minimamente serena.

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Sul suo viso colano lente alcune lacrime che le due donne, intente a massaggiarla, non notano.

Nei suoi pensieri c’è spazio solo per immagini indistinte e confuse che hanno come protagonista suo figlio Edoardo, l’uni­co in grado di farla contemporaneamente preoccupare, incaz­zare, commuovere e ridere nel giro di cinque minuti. Quello che è successo negli ultimi giorni era assolutamente impreve­dibile e il mondo di Anna si è ribaltato, dall’oggi al domani, senza un cenno di preavviso.

Eppure sembra ieri che la mano di Anna poteva contenere tutta quella di Edo chiusa in un pugno. Oggi quel pugno ha le dimensioni adulte ed è come se si fosse abbattuto con prepo­tenza sul volto di quella madre incapace di reagire e di pensare, in grado solo di lasciarsi massaggiare inerme.

Arriva un momento in cui i figli trovano un modo per al­lontanarsi dalla famiglia perché sono convinti di non riuscire più a farsi capire. I genitori, invece, credono di conoscerli e di essere gli unici a comprenderli. Questo fraintendimento dimo­stra che, a quel punto, in casa non ci si riconosce più. È un fatto transitorio ovviamente, quasi sempre non è nemmeno reale, ma è molto utile alla crescita dei ragazzi.

«Questa cosa della ricerca della pace interiore è del tutto inutile. Devo smettere. Non serve a niente conoscere se stessi se non conosco mio figlio.»

Così ha detto Anna a Edoardo prima di uscire di casa per recarsi alla SPA. In effetti, tutto quello a cui era abituata, da qualche giorno non c’è più e anche il massaggio non è piacevo­le come al solito, è più un’azione subita che goduta.

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Musica

Camminare ed essere urtato da due persone in pochi istanti è insopportabile. Prima una donna starnazzante al cellula­re, poi un uomo incravattato e strizzato in un completo nero troppo aderente che cercava di accendersi una sigaretta senza fermarsi.

Entrambi disattenti, incuranti e volgari. Questa città illude tutti, si ha l’impressione di essere una comunità, in realtà si è soli, tutti insieme. La gente per strada è un unico enorme ani­male che si muove goffamente. Anche se qualcuno, preso sin­golarmente potrebbe perfino essere interessante, in mezzo alla folla è uno stronzo uguale a tutti gli altri. L’ immensa globaliz­zazione del sé ci rende tutti identici e tutti pessimi allo stesso modo.

«Inutile prendere precauzioni contro i cretini, sono troppi e incontrollabili.»

Questo è ciò che sta pensando Franco mentre cammina in direzione del teatro comunale, e non è minimamente sfiorato dal dubbio che in quella globalità sia compreso anche lui.

Solo chi sfugge ai comportamenti collettivi può essere un in­dividuo unico e distinto. Lui è convinto di esserlo perché ogni azione, ogni parola che emette è fuori dallo schiamazzo prove­

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niente dalla stalla in cui risiede il resto della mandria. Essere contro corrente è l’unica cosa che conta per lui e, per esserlo veramente e sempre, è costretto a guardare l’umanità dall’alto in basso in modo costante. Una pratica, questa, estremamente faticosa ma gratificante. Essere un rabdomante dell’idiozia e dell’inconsistenza umana lo fa sentire diverso da tutti per il semplice fatto di essere in grado di identificarle.

La mano sinistra è libera e le dita si muovono con impercettibili scatti. La destra impugna la maniglia della custodia del violino. Cammina lentamente perché sa di essere in anticipo. A vederlo sembrerebbe passeggiare senza una meta. In realtà, mentre ri­flette, sta ripassando gli accordi della musica che tra poco dovrà suonare e la sua mano sinistra ne è la prova.

La musica è meravigliosa perché dimostra l’inutilità delle parole. Il suo linguaggio non si può dire e non si può tacere, esprime con facilità quello che le parole complicano.

«Ovviamente c’è musica e musica.» Uno come Franco non può certo mettere tutto sullo stesso piano, deve distinguere e puntualizzare. Per lui, negli ultimi decenni, i gusti musicali del­le persone si sono deteriorati diventando banali, esattamente come i loro pensieri. Proprio per questo, però, rivelano molto più degli individui di qualsiasi ricerca antropologica. È un pen­siero snob il suo, elitario, sprezzante, Franco lo sa bene. Ma è anche difficile da negare o contraddire.

Sua moglie Silvia gli fa sempre notare quanto riesca ad attirare su di sé le antipatie di chiunque lo ascolti parlare del suo smo­dato amore per le Variazioni Goldberg di Bach. La maggior parte della gente “normale” ignora la particolarità di quell’architettura modulare formata da trentadue brani disposti secondo miste­

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riosi schemi matematici simmetrici che rendono il brano unico nella storia della musica.

«Due palle» è l’espressione tipica con la quale viene liquida­ta da Silvia l’opera del grande Johann Sebastian nell’esecuzione dell’ingobbito, e ormai defunto, maestro Glenn Gould.

«Mi fa venire sonno…» asserisce sbrigativamente ogni vol­ta che vede il marito assorto in ascolto. «E non fa venire sonno solo a me. Dopo un po’ rompe le palle a chiunque.»

Franco, rassegnato, ha smesso da tempo ogni indignazione; del resto i commenti sono inutili visto che Silvia adora i Depeche Mode, ritenendoli una delle vette musicali più alte del globo terracqueo.

Ed è così che lui vede sua moglie, come una canzone dei Depeche Mode, anzi come un loro video musicale: rapido, al­legro, molto ritmato, glamorous, pieno di belle immagini alla moda, di baci, passioni in bianco e nero, occhiali da sole, giub­botti di pelle luccicante, improvvisi flash colorati, un misto di leggerezza, spiritualità e profondità… solo apparente.

Tendi le mani e tocca la fede…il tuo Gesù personalequalcuno che ascolti le tue preghierequalcuno che si prenda cura di teil tuo Gesù personalequalcuno che ascolti le tue preghierequalcuno che sia lì per te

[…]dalle cose nel tuo cuoreche hai bisogno di confessare

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ti libereròsai che sono uno che sa perdonaretendi le mani e tocca la fede…

«Dimmi che musica ascolti e ti dirò cos’hai in testa, il tuo gra­do di profondità o superficialità e perfino cosa stai vivendo in uno specifico momento.» Così è solito dire Franco. Silvia, ad esempio, non vuole soffrire, allontana da sé, ormai da tempo, ogni possibilità di dolore e ogni emozione eccessiva. Ovvia­mente nega questa evidenza e tende a sminuire le teorie di suo marito.

Franco sa che la negazione, per lei, è solo una difesa, come per la maggior parte della gente.

Quando la musica è solo intrattenimento ed evasione, testi­monia in modo inequivocabile il tentativo sistematico di fuga dal pensiero.

«Per questo all’umanità piace la musica facile. Quella che fa battere il piedino per tenere il tempo. A voi piace quella roba.» Lo dice sempre a Silvia e a Matteo, suo figlio.

Franco odia tutte le “musichette” che ci accompagnano men­tre guidiamo, mentre camminiamo o facciamo sport, quando entriamo in un bar, durante l’attesa dal dentista.

«Siamo perennemente pedinati da musica di merda.»

In effetti nessuno sospende le proprie attività per un ascolto profondo ed esclusivo. Franco sì. La musica è la sua professione ed è ovvio che sia così, per gli altri è solo sottofondo. Anche per Matteo, che ha compiuto 18 anni da poco e, come tutti i giovani, è in ritardo formativo.

«La vostra età anagrafica è puramente indicativa e il vostro pensiero scarseggia di originalità.»

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Matteo di solito sbuffa e alza le spalle. «Quando tutti i giovani la pensano allo stesso modo, signi­

fica che non ce n’è nemmeno uno che sta pensando veramente.»Questo ripete a suo figlio un giorno sì e uno no.

Ai ragazzi, si sa, piacciono i campionatori che riproducono fi­le audio copiati e riprodotti digitalmente con qualche leggero cambiamento. Roba che non necessita di alcun tipo di cono­scenza del pentagramma.

«Non sono musicisti quelli. Nessuno suona, è il computer che lo fa.»

Matteo non la pensa così. I conflitti generazionali sono nor­mali tra genitori e figli ma Franco, spesso, interpreta il disac­cordo con suo figlio come un ribaltamento dei ruoli. I figli do­vrebbero essere più avanti dei padri, più originali, imprudenti e inquieti. Per Matteo la musica è solo evasione, movimento, ballo, assenza di pensiero, esattamente come per tutti i suoi coetanei. Silvia cerca di far ragionare Franco: «I figli si ribella­no disprezzando quello che i loro padri amano. Lo fanno tutti».

«Appunto, lo fanno tutti, è una forma di omologazione.»Gli accadimenti delle ultime settimane però hanno decisa­

mente spiazzato Franco. Matteo l’ha stupito, è riuscito a sor­prenderlo in un modo non del tutto originale ma decisamente imprevedibile. Purtroppo non è illudendosi di essere trasgres­sivi che si evita il conformismo, anzi, spesso la normalità usa qualche blando eccesso per mimetizzarsi meglio.

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BMW

Tutti hanno bisogno di lui, perché è “elastico”. Ecco il suo pre­gio principale: sul lavoro dimostra elasticità. Anche in questo periodo di recessione economica e con le incerte contingenze politiche, a Marco basta poco per adattarsi a ogni superficie. Il suo segreto è sembrare un uomo di successo, serio, pratico e sicuro di sé.

Gran parte del merito è della sua BMW X6 M, un’auto che associa la potenza tipica delle auto sportive con l’imponenza di un SUV. Motore a benzina, 8 cilindri TwinPower Turbo, cambio Steptronic a 8 rapporti, sistema xDrive specifico per le vetture fuori strada. Massimo piacere di guida. Figura grintosa e look imponente. Nell’abitacolo di questa Sports Activity Coupé si è conquistati dai materiali pregiati, dai sedili sportivi, dalla cura dei dettagli e dai comfort senza pari.

Serietà tedesca, affidabilità, sicurezza e una perfetta insono­rizzazione. Il suono del motore è un soffio, nessuna vibrazione, nemmeno il minimo scricchiolio passando sopra una buca, una ripresa impressionante che schiaccia il guidatore contro gli schienali avvolgenti. Un cruscotto tutto computerizzato, satel­litare e comandi che Marco non ha ancora imparato a usare e che forse non imparerà mai.

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Quando arriva sui cantieri o agli appuntamenti con i clienti, la sua BMW, i suoi completi di Boggi e le sue cravatte perfette e intonate a giacche e camicie, comunicano a tutti che di lui ci si può fidare. L’ immagine che riesce a dare di sé è quella di uno che risolve i problemi, in un modo o in un altro.

«Io ho sempre una soluzione per tutti. Per questo nessuno mi nega un favore o rifiuta di collaborare con me.»

A un uomo così elegante, che scende da un’auto di quel tipo, sempre pulita e lucidata, senza un graffio, non si può negare un compromesso.

I compromessi non corrodono l’integrità delle persone, so­no semplicemente strade alternative che conducono allo stesso luogo senza rinunciare ai medesimi benefici della strada prin­cipale. Lungo il percorso si può anche perdere qualcosa, ma è solo per ottenere di più alla distanza. Ciò che conta è superare le difficoltà con un sorriso.

«Chi dice di rifiutare i compromessi, dice cazzate, sta solo aspettando che gli capiti sottomano quello giusto.»

Questo è il pensiero di Marco, pragmatico e libero da con­dizionamenti morali, etici o politici.

Cemento, gesso, legno, ceramica, vernice, lui tratta cose con­crete e rifornisce chiunque, senza problemi, con dedizione.

«Dovete capire che quando si costruisce o si ristruttura una casa, o un appartamento, si fa l’interesse di molte persone… non solo del cliente.»

E ha ragione Marco, l’edilizia è un sistema complesso e la scelta di un fornitore o di un materiale non è mai un’azione innocente. È la produzione di un reddito a favore di una filiera che coinvolge parecchie persone, dall’industriale al trasporta­tore, dall’architetto all’operaio, senza escludere vigili, assessori,

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funzionari e geometri del Comune. Sono in tanti a mangiarci sopra in un insieme di convenienze molteplici. Se si lavora nel settore pubblico le convenienze poi sono esponenziali.

Marco è un esperto nel saper riconoscere in fretta chi ci deve guadagnare. Basta che un solo anello della catena non venga sufficientemente gratificato e il flusso delle convenienze può interrompersi.

Marco ha un vero talento per inserirsi nelle gare d’appalto. Scherzando dice: «Appena mi parlano d’appalti, io parto per la tangente». E poi ride, anche se quella battuta l’ha già propinata cento volte. Se qualcuno si scandalizza aggiunge: «Che c’è di male? Non sono l’unico… è normale. In fondo faccio del bene a tutti quelli con cui lavoro».

Soprattutto fa bene alla sua famiglia.«Le uniche persone a cui tengo veramente sono mia moglie

e mio figlio Edoardo.»Marco disprezza tutto il sistema sociale. Città, Stato, comu­

nità, sono parole senza senso per lui. «Non me ne frega niente della politica, non voto da anni,

sono amico di tutti se serve…»I luoghi comuni sono la passione di Marco, lui ama ciò su

cui tutti sono più o meno d’accordo. «La politica è una cosa sporca…»

Il torpore mentale e le ovvietà fanno in modo che la gente si senta parte di un tutto. Tutti si adeguano, anche agli errori, purché siano condivisi. Lui pure. Perché contraddire l’opinione corrente? Il sistema è questo, non c’è niente da fare se non ade­guarsi.

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Conta solo la famiglia, l’unico nucleo umano che lui riconosce e al quale attribuisce un senso. Poche persone legate da affetto, che vivono e prosperano grazie al lavoro. Il resto non conta.

Unica virtù necessaria: la pazienza di sopportare i piccoli conflitti inevitabili causati dalla quotidianità. La famiglia può essere anche interpretata, criticata, modificata, ma è la rete di salvataggio dalla quale lui non prescinde. Dietro le rotture di palle, la condivisione di dentifrici, frigoriferi, malattie, succes­si, denaro, sorrisi e litigi c’è la strenua battaglia per farsi strada nella vita e per raggiungere, il più tardi possibile, una fine che lasci buoni ricordi e pochi rimpianti.

Marco è un tradizionalista, i suoi genitori hanno lavorato e gua­dagnato perché avevano il sogno di creare una famiglia.

«Il mio sogno, con ’ sta crisi, si è trasformato nell’incubo di non riuscire a mantenerla, la mia famiglia.»

Per questo lavora tanto e vuole guadagnare il più possibile. È come se convivesse perennemente con lo spettro del fallimen­to. Lo vede, lo immagina, lo prefigura. Ogni giorno è colpito dallo stesso identico incubo: cadere in miseria a causa di un errore, di una calamità o della persecuzione del fisco. Solo per la famiglia ha senso sporcarsi le mani e la famiglia deve proteg­gere chiunque le abbia sporche.

E poi? «Poi la mia azienda continuerà dopo di me. Edoardo è figlio

unico, farà la gavetta per un po’ di tempo, si farà le ossa, e pren­derà in mano quello che ho costruito.»

La cosa fantastica della sua BMW è senz’altro l’impianto stereo. Un numero indefinito di casse d’uscita disseminate ovunque, un ascolto simile a quello di uno studio di registrazione. Equa­

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lizzazione perfetta. Non che Marco s’intenda di musica, anzi, tutt’altro. I suoi gusti musicali sono fermi alla fine degli anni Ottanta, inizio Novanta. Infatti, in questo momento, mentre guida, sta ascoltando una compilation di vecchie canzoni. In-nuendo dei Queen invade l’abitacolo. Marco non è mai stato un amante dei Queen, ma questa è la loro canzone migliore, piena di cambiamenti musicali, prima sembra rock melodico, poi c’è un assolo di chitarra classica, quasi un flamenco, poi Freddie Mercury che canta come se fosse un soprano, poi si aggiunge il coro. Marco non se l’è mai cavata un gran che con l’inglese. Di questo pezzo però conosce la traduzione. Per fare un po’ d’esercizio, da ragazzo a scuola, provava a tradurre le canzoni. Lo studio della lingua straniera gli sembrava in questo modo meno noioso.

Potete essere tutto ciò che voleteTrasformatevi in qualsiasi cosapensiate potreste mai essereSiate liberiAbbandonatevi al vostro ego

Abbandonarsi al proprio ego, raccomandazione inutile, più ar­resi di così è difficile. Povero Freddie, se avesse aspettato una ventina d’anni a beccarsi l’AIDS, avrebbe conosciuto un sacco di gente come Marco, sarebbe stato testimone dell’immensa cumulativa resa di massa e ci avrebbe scritto qualche altra can­zone, seduto anche lui nella sua bella BMW.

Siate liberi, abbandonatevi al vostro ego

Caro Freddie, tu hai avuto la sfortuna di crepare, altrimenti

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saresti qui anche tu con la pancetta, l’artrosi, i baffetti grigi a guardare l’ego di tutti montare come un panettone fino a di­ventare IL GRANDE EGO UNICO.

Potete essere tutto ciò che voleteTrasformatevi in qualsiasi cosa pensiate potreste mai essere

Tutte cazzate Freddie. Tu in cosa ti sei trasformato? In un ca­davere, coi denti incisivi troppo grossi e troppo sporgenti dal teschio. Mentre riflette, nell’ascolto di Innuendo, Marco ha un sussulto, una specie di conato di vomito gli strozza il respiro, un giramento di testa lo costringe a rallentare. Mette la freccia senza sapere cosa stia facendo. Deve accostare e fermarsi asso­lutamente. Il cuore batte all’impazzata e sulla fronte iniziano a formarsi piccole gocce di sudore.

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Bellezza

È un set fotografico ambientato all’esterno di un centro com­merciale. La struttura architettonica avveniristica è in cemento, vetro e acciaio. Tutto risplende e luccica sotto il sole del mattino. Truccatori, fotografi, assistenti, parrucchieri e scenografi cor­rono come pazzi apparentemente senza ragione.

Tutti si riferiscono a lei, Silvia, la giornalista ideatrice del servizio di moda. Stanno realizzando un redazionale che ha due obiettivi: presentare una linea di abiti da sera di un affermato stilista e intervistare l’attrice che li indossa.

Lei, l’attrice, ha appena vinto un premio telecomandato dal­la stampa, uno di quei riconoscimenti che mettono tutti d’ac­cordo perché fanno l’interesse di un gruppo televisivo, di una distribuzione cinematografica o di una produzione legata a sua volta a gruppi economici o politici. Un piccolo giro di oppor­tunità che fa gioco a tutte le parti in causa. Tutti ci guadagnano qualcosa, un po’ di pubblicità per il film in uscita, un servizio gratuito sulla collezione estiva, un ritorno d’immagine. Un gi­ro piccolo e tutto nostrano di vantaggi ingigantiti dal glamour, dalla bellezza della fotografia e dall’avvenenza della femmina protagonista messa in risalto da spacchi, scollature e nudità mostrate con finta inconsapevolezza.

«Che stress essere convinti di fare qualcosa di fondamenta­

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le. Sembrano tutti impegnati a salvare il mondo o a scoprire la cura per il cancro.»

Silvia è molto stanca di dover assistere da anni a questa pan­tomima ridicola. Certo, deve recitare la parte di quella che ci crede e che s’impegna, deve dimostrare affezione alla causa, competenza e professionalità.

«Ma tutto questo sbattimento per fotografare dei pezzi di stoffa addosso a una stronza che se la tira è diventato veramen­te umiliante.»

Silvia è laureata, ha studiato giornalismo, ha cercato di arric­chirsi culturalmente, è fornita della giusta dose di consapevo­lezza e ironia.

«Non ci credo più alla balla che si possa ottenere tutto quel­lo che si vuole dalla vita se si indossa il vestito adatto.»

Un po’ hanno influito su di lei le opinioni ciniche e snob di suo marito Franco.

«La moda obbliga la gente stupida e senza personalità a in­dossare le medesime cose idiote. Lo sapete cosa ha detto la figlia di Calvin Klein? “Ogni volta che vado a letto con un ragazzo, mi tocca vedere il nome di mio padre scritto sui suoi boxer.”» Per non parlare dei servizi fotografici. Franco non li sopporta. Le modelle hanno sempre facce assorte, passionali, o assurda­mente meditative.

«Possibile che non si possa pubblicizzare un tanga senza ca­ricare lo sguardo di significati nascosti? Costringete tutte queste povere ragazze a trasmettere pensieri profondi per vendere reg­giseni. Chi prende troppo sul serio la moda è un coglione.»

Prima Silvia si offendeva, poi ha iniziato a condividere alcuni pensieri di Franco e ora è spesso d’accordo con lui. A lungo an­

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dare, passato l’entusiasmo iniziale, Silvia si è stancata di vestiti, fotografi e passerelle. Così ha chiesto al direttore del giornale di poter trattare argomenti riguardanti le mutazioni della società e del costume. Ma in un giornale femminile lo stile da usare è sempre quello della leggerezza e della curiosità. Quando Franco legge gli articoli di Silvia non commenta e sorride leggermente con un solo angolo della bocca. Pur riconoscendo a sua moglie una certa dose di umorismo e ironia, trattiene a stento una certa sufficienza per ciò che scrive.

Quando Matteo vede quel sorriso, s’incazza e interviene a favore di Silvia schierandosi decisamente. Il ragazzo è molto più at­tratto dal lavoro di sua madre che da quello del padre. È sempre il primo a leggere gli articoli di Silvia, è curioso, la riempie di domande e non le fa mai mancare la sua approvazione, spe­cie dopo una situazione di tensione con Franco. L’ amore nei confronti di sua madre non è solo una necessità dettata dal conflitto col padre, è un bisogno fondamentale per Matteo, una condizione simbiotica indispensabile. Tra di loro c’è una dina­mica di accudimento reciproco che però in Matteo si trasforma in iperprotezione. Solitamente è il contrario, sono le madri ad essere eccessive nella vicinanza e nella cura dei figli. Nel loro caso, forse a causa del comportamento polemico di Franco, è Matteo che si pone a baluardo difensivo di Silvia. Lei, che è una donna corretta e intelligente, cerca di non alimentare i conflitti tra Matteo e Franco, evitando schieramenti che screditerebbero la figura paterna.

Silvia è una bella donna; quando frequentava l’università ha fat­to la modella, ha girato alcune pubblicità e ha posato per servizi di moda. È così che ha iniziato a collaborare con le redazioni,

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scrivendo i primi articoli e trasformando la sua laurea in una professione. Quando Franco l’ha conosciuta gli sembrava così bella, così seducente, così diversa dalla gente comune, che non capiva perché nessuno rimanesse fulminato e innamorato come lui. La bellezza di quella donna, come quella della musica, lo eccitava nel cuore. Al di là del desiderio sessuale, era l’insieme di movimento, di onde, di vivacità, di crescendo, di suoni ad attrarlo. In Silvia tutto si muoveva in modo armonico. Anche i lineamenti, la voce, i capelli sembravano avere un suono in lei. Non è rara la bellezza, ci sono migliaia di belle donne nel mondo ma lei era speciale. Franco non sapeva definire cosa fosse, né cos’avesse di eccezionale. Era bella in tutto. Franco non ci cre­deva, aspettava il momento in cui le avrebbe scoperto un difetto. Si aspettava di rimanere deluso. La osservava freddamente, la studiava con lucidità. Niente da fare, rimaneva sempre bella, simpatica, spiritosa, per certi versi acuta.

All’inizio il fatto che Silvia non impazzisse per la musica clas­sica e che preferisse il pop o la dance, non gli sembrava grave. Confondere Brahms con Bach non era poi così tragico. Definire il violino uno strumento “così triste” gli sembrava un punto di vista un po’ naïve ma, tutto sommato, comprensibile. Purtrop­po gli anni agiscono sull’amore come il buco dell’ozono agisce sul ghiaccio dell’Antartide. Lo consumano lentamente. Matteo ha diciotto anni, è nato dopo due anni dall’inizio della loro relazione; sono vent’anni che Franco e Silvia convivono. In un ventennio si trasformano città e nazioni, iniziano e finiscono guerre e rivoluzioni. Molto raramente le relazioni si consolida­no, più facilmente si affievoliscono.

Silvia è rimasta una donna molto bella, si comporta e si muo­ve come se fosse ancora una ragazza. Franco, pur essendo un

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uomo affascinante e con un fisico sportivo, non ha la freschez­za e la flessibilità fisica e di pensiero di sua moglie. A vederli insieme nessuno direbbe che li dividano solo pochi anni e nes­suno sospetterebbe che vivano con un sottofondo di polemica continuo. Non litigano mai veramente, in realtà adottano sot­tilissimi comportamenti ostili. Franco, come tutti gli snob, de­testa le scenate e preferisce il sarcasmo. Silvia si è adeguata, non lascia mai correre le provocazioni del marito alle quali rispon­de con altrettanta acidità e ironia.

Ora che in famiglia è sorto un nuovo problema, Silvia si aspetta che venga affrontato con intelligenza e complicità. «In diciotto anni Matteo non ci ha mai dato preoccupazioni. Cerchiamo di alleggerire la situazione senza colpevolizzarlo.» Franco ha grugnito qualcosa di incomprensibile e si è chiuso in se stesso. Quando fa così, Silvia sa che suo marito si sta sforzando di inquadrare la situazione da un punto di vista impensabile per lei, attivando riflessioni imprevedibili e non sempre positive.

«Mi puoi dire quello che pensi?» «Non lo so ancora quello che penso. Io, al contrario della

maggioranza della gente, esprimo un pensiero solo dopo aver­lo pensato e non prima.»

Così si è chiuso il loro ultimo dialogo.