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ANDREA NATELLA
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MARKETING E POLITICA 1
Nelle società industriali la sfera
antropologica del consumo
ha sempre rivestito un ruolo
paradigmaticamente subalterno
rispetto alla sfera della produzione.
Mentre il lavoro era l’attività
costante e feriale che scandiva l’esistenza degli esseri
umani, il consumo sembrava essere un’appendice
separata che aveva il carattere dell’eccezionalità e
della festività.
1 Versione riveduta di un articolo apparso per la prima volta nel 2005 sul n.25 della rivista DeriveApprodi con il titolo Il marketing secondo guerriglia. Si tratta dell’ultimo numero di una storica rivista che ha tenuto vivo per oltre un decennio il pensiero operaista prima di dare vita all’omonima casa editrice. In questa revisione ho cercato di alleggerire alcuni passaggi cercando di non tradire lo stile adottato quando il testo è apparso. La scelta di un titolo diverso è dovuta al dif-ferente significato che ha assunto il termine guerriglia marketing – all’epoca fortemente influenzato dal progetto guerrigliamarketing.it soprattutto nelle aree culturali a cui la rivista faceva riferimento – ma anche al desiderio di dare una chiara indicazione di lettura ai più giovani professionisti del settore in merito al lavoro che essi svolgono.
Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra le persone mediato dalle immagini.Guy Debord, La società dello spettacolo
Il marketing è troppo importante per essere lasciato solo ai dipartimenti di marketing.David Packard (Fondatore della HP)
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Il consumo era l’ambito in cui l’operaio poteva
felicemente ritrovare se stesso e, nel ricongiungersi
con le merci che aveva prodotto, chiudere il ciclo
dell’alienazione. Il lavoro parcellizzato alla catena
di montaggio trovava la sua ragione d’essere nel
momento in cui l’operaio, che conosceva solo la
scocca dell’automobile che assemblava, poteva fare
sua una Fiat 500 tutta intera.
Oggi la produzione è diventata
flessibile - just in time - e risponde
ai bisogni dei consumatori nel
tempo più breve possibile. Il
circuito desiderio-produzione
quindi inverte la sua direzione. Il
consumatore vuole la Nuova Fiat 500 e la produzione
si adegua per organizzare il lavoro che produce
quell’auto nel più breve tempo possibile.
Questo ribaltamento ha destabilizzato la continuità tra
lavoro operaio e processi produttivi. Il risultato è che
se prima il lavoro era stabile e il consumo occasionale
oggi è esattamente il contrario: il lavoro è precario e il
consumo è costante.
Tutto questo sarebbe poco più che un gioco di parole
se non fosse cambiato qualcos’altro. Come sintetizza
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Karl Marx, il consumo è un momento della produzione2.
La contrapposizione tra produzione e consumo è
un’invenzione legata alla centralità economica di merci
che nascevano per essere usate e finivano fisicamente
usurate. I prodotti venivano fisicamente consumati.
Che si trattasse di cibo, vestiario o strumenti di
lavoro, il consumo è stato sempre considerato come
funzionale alla riproduzione della forza lavoro. Anche
i prodotti immateriali (libri, film ecc.) servivano
principalmente al recupero delle energie psicofisiche
che dovevano ridiventare lavoro. Il fatto che tutte le
merci contenessero un sovrappiù fantasmagorico
aveva l’obiettivo di aumentarne la desiderabilità per
accelerare la circolazione e incorporare quell’ideologia
secondo cui: tutto ciò che si desidera si può comprare,
tutto ciò che si può comprare è desiderabile.
Nel sistema di produzione postfordista le cose
cambiano. Il bruto lavoro fisico viene subappaltato
nelle fabbriche del Terzo mondo e una parte sempre
crescente di lavoratori occidentali è impiegata nella
sola manipolazione di simboli. Il consumo di merci
immateriali diventa una parte integrante del lavoro
stesso in quanto quei prodotti diventano uno strumento
di valorizzazione professionale. Sono infatti la materia
2 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1993
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prima della manipolazione simbolica ma anche un
mezzo attraverso cui comprendere e gestire le relazioni
produttive. Il consumo è il mezzo attraverso il quale
acquisire le competenze necessarie a interpretare i
testi sociali (mode, notizie, software, marche, etc.)
su cui si è chiamati a intervenire produttivamente.
Attraverso il consumo il lavoro si estende all’interezza
della vita umana.
Ma non basta.
Nel secolo scorso il sociologo
Thorstein Veblen aveva teorizzato
il concetto di consumo vistoso3,
l’esibizione dei beni acquistati, uno
dei mezzi attraverso cui la classe
agiata poteva acquisire prestigio
nella scala sociale.
Nella società occidentale contemporanea il consumo
vistoso si è esteso a tutte le classi sociali e non si
limita più al ruolo di ostentazione della ricchezza
personale. Oggi attraverso i prodotti con cui le persone
si circondano comunicano non solo il proprio status
sociale ma soprattutto i propri valori, emozioni,
appartenenze. Le merci sono un modo per estroflettere
la propria personalità: i vestiti che si indossano, i
3 Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, Piccola Biblioteca Einaudi, 2007
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cibi che si scelgono, le vacanze che si fanno, l’auto
che si guida. La modalità espressiva inventata dalle
sottoculture degli anni settanta4 si è estesa all’intera
società.
Sui giornali per teenagers, sulle riviste femminili,
sui mensili di moda e sportivi, la pubblicità è
ormai oggettivamente indistinguibile dalla notizia:
per raccontare un personaggio sembra necessario
descriverlo attraverso i prodotti che consuma.
In uno splendido articolo apparso su La
Repubblica5 lo scrittore e insegnante
Marco Lodoli ha raccontato il modo in cui
una quindicenne di una periferia romana
argomentava il suo desiderio di acquisto di
un paio di mutandine Dolce&Gabbana. Alle
obiezioni di stampo francofortese del Lodoli docente,
la ragazza rispondeva: «Professore, ma non ha capito
che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere
una personalità? [ ... ] Noi possiamo solo comprarci
delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non
abbiamo nessuna speranza di distinguerci». Eppure
quel paio di mutande rappresentano l’unica possibilità
di espressione per una quindicenne di periferia come
4 Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa&Nolan, 1983
5 Marco Lodoli, I jeans a vita bassa delle quindicenni, La Repubblica, 18 ottobre 2004
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per un qualsiasi trentenne impiegato nella new-
economy.
Un completo ribaltamento del
rapporto tra la funzione materiale
e quella immateriale della merce.
L’artefice di questa inversione è la
marca, un mondo possibile6 che
ogni consumatore è chiamato a
inverare. La marca è un vero e proprio linguaggio
sintetico attraverso cui comunicare con gli altri
e costruire relazioni sociali. Ma affinché questo
linguaggio possa esistere deve essere continuamente
vivificato dall’uso che ne fanno i parlanti7. Il valore
della marca finisce quindi per essere determinato dal
lavoro linguistico dei consumatori.
Il mondo della marca, infatti, come tutti gli universi
linguistici, è uno spazio pubblico in cui l’innovazione è
prodotta dall’uso e dal lavoro di torsione del materiale
simbolico. I significati che la marca esprime - e quindi
il suo valore di scambio - dipendono in sostanza dalla
contrazione e dai conflitti che si producono intorno a
essa. I consumatori quindi non sono e non dovrebbero
essere considerati semplici ricettori di messaggi a
6 Andrea Semprini, Marche e mondi possibili, Franco Angeli, 1993
7 Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968
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cui aderire o meno ma una delle parti in campo nella
definizione del valore e dei valori della marca.
Il caso delle scarpe Dr. Martens è esemplare.
Nate come scarpe ortopediche sono diventate gli
anfibi della working class inglese fino a quando,
negli anni settanta, le sottoculture punk, skin e
new-wave le hanno adottate ed elette a simboli
di ribellione. Sono stati proprio questi valori a
diventare i valori della marca e a trasformare le Dr.
Martens in un prodotto di massa, indipendentemente
dalle intenzioni del produttore. Quando poi l’azienda
ha deciso di cavalcare esplicitamente quei valori,
i consumatori si sono sottratti perché si sono visti
defraudati del proprio ruolo attivo nella definizione
dei significati. Quello delle Dr. Martens è solo uno
dei casi in cui in modo più chiaro emerge il conflitto
e la contrattazione tra produzione e consumo nella
definizione del valore di marca; storie analoghe sono
quelle che hanno permesso il successo di marchi
come Vespa, Apple, Jack Daniels, Chanel o Star Trek.
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La produzione di valore è sempre prodotta
nel momento del consumo. Se la marca
non si mette in comune con il pubblico
non può esserci comunicazione. Tanto
più ampio è il numero di persone
che cooperano nella produzione e
riproduzione linguistica dei marchi, tanto più elevato
è il valore che il prodotto può esprimere. Mentre il
prodotto può essere usurato, la marca è sempre
inusurabile, si usura e perde il suo valore solo quando
non viene consumata.
Da questo punto di vista la marca in quanto oggetto
linguistico vive in uno spazio pubblico, ma su questo
spazio comune grava una propriazione unilaterale
sorretta dal diritto d’autore su aspetti esteriori. Se il
significato è pubblico, il significante – naming, logo
etc. - è invece privato.
Si tratta di un paradosso che consente il puro
arbitrio ogni volta che viene tracciato un confine tra
ciò che deve essere venduto e ciò che può essere
acquistato. Prendiamo l’esempio del pubblico degli
spettacoli televisivi. Spesso gli ospiti in studio sono
professionisti della claque genericamente istruiti e
remunerati per la propria disponibilità ad apparire
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e parlare8. È una situazione tecnicamente simile a
quella del pubblico che anima gli spalti delle partite
di calcio. In questo caso però il pubblico non solo
organizza autonomamente cori e coreografie ma arriva
a valorizzare i marchi delle squadre anche al di fuori
dello spazio dello stadio. Grazie ai tifosi il calcio ha
potuto costituire una potente mitografia. Eppure i tifosi
pagano un biglietto di ingresso nonostante il fatto che
il loro contributo copra meno del 10% del bilancio di
una società. Oltre il 60% degli introiti di una grande
società deriva dallo sfruttamento dei diritti televisivi
delle partite, eppure se i tifosi facessero mancare la
propria presenza quei diritti varrebbero il 30% perché
questo è quanto viene perso mediamente in termini
di ascolti televisivi ogni volta che una partita viene
giocata a porte chiuse. Matematicamente parlando
il pubblico del calcio dovrebbe essere pagato poiché
crea valore.
8 Attualmente i pubblici televisivi non vengono quasi mai remunerati per la loro presenza in studio. La loro partecipazione è ormai analoga a quella del pubblico delle partite di calcio (nota del 2012)
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Il problema politico allora non è quello
dell’invasione dello spazio pubblico da parte
delle aziende proprio perché la sfera pubblicitaria
è già una sfera pubblica. La questione è capire
se e come possono nascere nuove forme
di resistenza nella sfera del consumo che
possano disarticolare il rapporto di propriazione della
comunicazione da parte dell’economia.
In una ricerca del 19819 sugli effetti analgesici del
farmaco Aspirina, oltre 800 volontari vennero coinvolti
per verificare l’efficacia di quattro diversi prodotti contro
il mal di testa. A ciascun volontario venne data una
diversa confezione di farmaco con l’invito a prendere
due pasticche ogni volta che si presentavano i sintomi
del mal di testa. Dopo l’assunzione si chiedeva di
compilare un questionario sull’efficacia del farmaco.
I volontari vennero divisi in quattro gruppi a cui
venne data una diversa confezione: il primo gruppo
ricevette delle compresse di placebo senza alcun
principio attivo all’interno di una confezione senza
alcuna marca; al secondo gruppo vennero invece
date delle vere pasticche di Aspirina dentro lo stesso
tipo di confezione; il terzo gruppo ricevette invece del
9 A. Braithwaite & P. Cooper, Analgesic Effects of Branding in Treatment of Headaches, British Medical Journal CCLXXXIII, 1981
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placebo all’interno di una confezione di Aspirina; il
quarto gruppo infine, ebbe la stessa confezione di
marca ma con delle vere pasticche di Aspirina, come
il secondo gruppo. I risultati di questa ricerca sono
particolarmente interessanti.
Ovviamente i gruppi che hanno
effettivamente preso Aspirina
hanno avuto dei benefici effettivi
nel miglioramento del mal di testa
ma il risultato più significativo è
un altro. Non solo il gruppo che ha
assunto il placebo di marca ha ottenuto effetti migliori
del gruppo che ha preso il placebo da una confezione
generica, ma anche tra i due gruppi che hanno
effettivamente preso aspirina, il gruppo che ha preso
quella di marca ha ottenuto effetti migliori. Il risultato
più interessante è che il placebo di marca Aspirina ha quasi
lo stesso effetto di una Aspirina senza marca. La marca
Aspirina è analgesica quasi quanto l’acido acetilsalicilico.
È come se la marca avesse un principio attivo con effetti
sull’organismo.
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Una più recente ricerca conferma
questo effetto in modo ancora
più interessante. Si tratta di uno
degli esperimenti più classici sugli
effetti della marca: un blind test
tra Coca-Cola e Pepsi. Sebbene
i consumatori siano convinti di poter distinguere la
propria bevanda preferita a occhi chiusi, i blind test
dimostrano che questa convinzione è tendenzialmente
falsa. Nei test ciechi effettuati negli Stati Uniti sul
gusto delle due bevande le preferenze dei consumatori
si bilanciano. Quando però il consumatore ha modo
di vedere la marca della bibita che sta bevendo, nella
maggior parte dei casi preferisce la Coca-Cola.
Recentemente alcuni scienziati americani hanno voluto
verificare se al di là di quello che i consumatori dicono,
le diverse preferenze espresse abbiano un qualche
riscontro a livello di sistema nervoso centrale10. Per
fare questo hanno sottoposto alcuni volontari a un
complesso esperimento in cui le preferenze espresse
venivano verificate in tempo reale con un particolare
apparecchio per la risonanza magnetica. I risultati hanno
dimostrato che la diffusa preferenza per la bevanda di
10 Samuel M. McClure et al., Neural Correlates of Behavioral Preference for Culturally Fami-liar Drinks, Neuron, 2004
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Atlanta trova un riscontro oggettivo a livello di attività
funzionale nelle aree cerebrali dell’ippocampo e della
corteccia prefrontale dorsolaterale. In sostanza il
giudizio palese espresso dai consumatori nei confronti
di Coca-Cola non è una suggestione soggettiva
estemporanea ma è solidamente radicato all’interno
del corpo umano. Questi esperimenti chiariscono
come si vada configurando una nuova antropologia in
cui il linguaggio della marca si inscrive direttamente
nel corpo del consumatore. È come se una porzione
del cervello umano o una sua funzionalità cognitiva
diventasse una proprietà privata dell’azienda. Da
questo punto di vista il marketing è il dispositivo
attraverso cui avviene questo esproprio che trasforma
l’economia politica in comportamento sociale.
Non è allora un caso che la definizione
più nota del termine “marketing”
possa essere letta come una
definizione contemporanea del
termine “politica”. Secondo Philip
Kotler infatti “il marketing è il
processo sociale e manageriale mediante il quale
una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce
oggetto dei propri bisogni e desideri, creando, offrendo
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e scambiando prodotti e valore con altri”11.
La definizione di Kotler sostituisce di fatto la dimensione
territoriale della polis propria della politica con il
flusso deterritorializzato delle merci ma soprattutto
sottolinea come anche le relazioni, che non sono
immediatamente riconducibili alla sfera produttiva
così come è tradizionalmente intesa, diventino centrali
nella creazione di valore.
Nell’epoca in cui il consumo è
immediatamente lavoro, agire
sul piano del marketing vuol dire
intervenire all’interno di quel
campo di forze che lega economia
e comunicazione, assumere la
trasformazione antropologica sopra descritta per
tornare a immaginare un nuovo modo di essere in
comune della specie umana. In questa direzione il
processo sociale e manageriale citato da Kotler può
portare a una più equa distribuzione di prodotti e di
valore.
11 Philip Kotler e Walter G. Scott, Marketing Management. Analisi, pianificazione, attuazio-ne e controllo, Isedi, 1993
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Testi: Andrea Natella
Grafica e impaginazione: Matteo Carlino
www.kook.it
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