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MARKETING E POLITICA 1

Nelle società industriali la sfera

antropologica del consumo

ha sempre rivestito un ruolo

paradigmaticamente subalterno

rispetto alla sfera della produzione.

Mentre il lavoro era l’attività

costante e feriale che scandiva l’esistenza degli esseri

umani, il consumo sembrava essere un’appendice

separata che aveva il carattere dell’eccezionalità e

della festività.

1 Versione riveduta di un articolo apparso per la prima volta nel 2005 sul n.25 della rivista DeriveApprodi con il titolo Il marketing secondo guerriglia. Si tratta dell’ultimo numero di una storica rivista che ha tenuto vivo per oltre un decennio il pensiero operaista prima di dare vita all’omonima casa editrice. In questa revisione ho cercato di alleggerire alcuni passaggi cercando di non tradire lo stile adottato quando il testo è apparso. La scelta di un titolo diverso è dovuta al dif-ferente significato che ha assunto il termine guerriglia marketing – all’epoca fortemente influenzato dal progetto guerrigliamarketing.it soprattutto nelle aree culturali a cui la rivista faceva riferimento – ma anche al desiderio di dare una chiara indicazione di lettura ai più giovani professionisti del settore in merito al lavoro che essi svolgono.

Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra le persone mediato dalle immagini.Guy Debord, La società dello spettacolo

Il marketing è troppo importante per essere lasciato solo ai dipartimenti di marketing.David Packard (Fondatore della HP)

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Il consumo era l’ambito in cui l’operaio poteva

felicemente ritrovare se stesso e, nel ricongiungersi

con le merci che aveva prodotto, chiudere il ciclo

dell’alienazione. Il lavoro parcellizzato alla catena

di montaggio trovava la sua ragione d’essere nel

momento in cui l’operaio, che conosceva solo la

scocca dell’automobile che assemblava, poteva fare

sua una Fiat 500 tutta intera.

Oggi la produzione è diventata

flessibile - just in time - e risponde

ai bisogni dei consumatori nel

tempo più breve possibile. Il

circuito desiderio-produzione

quindi inverte la sua direzione. Il

consumatore vuole la Nuova Fiat 500 e la produzione

si adegua per organizzare il lavoro che produce

quell’auto nel più breve tempo possibile.

Questo ribaltamento ha destabilizzato la continuità tra

lavoro operaio e processi produttivi. Il risultato è che

se prima il lavoro era stabile e il consumo occasionale

oggi è esattamente il contrario: il lavoro è precario e il

consumo è costante.

Tutto questo sarebbe poco più che un gioco di parole

se non fosse cambiato qualcos’altro. Come sintetizza

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Karl Marx, il consumo è un momento della produzione2.

La contrapposizione tra produzione e consumo è

un’invenzione legata alla centralità economica di merci

che nascevano per essere usate e finivano fisicamente

usurate. I prodotti venivano fisicamente consumati.

Che si trattasse di cibo, vestiario o strumenti di

lavoro, il consumo è stato sempre considerato come

funzionale alla riproduzione della forza lavoro. Anche

i prodotti immateriali (libri, film ecc.) servivano

principalmente al recupero delle energie psicofisiche

che dovevano ridiventare lavoro. Il fatto che tutte le

merci contenessero un sovrappiù fantasmagorico

aveva l’obiettivo di aumentarne la desiderabilità per

accelerare la circolazione e incorporare quell’ideologia

secondo cui: tutto ciò che si desidera si può comprare,

tutto ciò che si può comprare è desiderabile.

Nel sistema di produzione postfordista le cose

cambiano. Il bruto lavoro fisico viene subappaltato

nelle fabbriche del Terzo mondo e una parte sempre

crescente di lavoratori occidentali è impiegata nella

sola manipolazione di simboli. Il consumo di merci

immateriali diventa una parte integrante del lavoro

stesso in quanto quei prodotti diventano uno strumento

di valorizzazione professionale. Sono infatti la materia

2 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1993

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prima della manipolazione simbolica ma anche un

mezzo attraverso cui comprendere e gestire le relazioni

produttive. Il consumo è il mezzo attraverso il quale

acquisire le competenze necessarie a interpretare i

testi sociali (mode, notizie, software, marche, etc.)

su cui si è chiamati a intervenire produttivamente.

Attraverso il consumo il lavoro si estende all’interezza

della vita umana.

Ma non basta.

Nel secolo scorso il sociologo

Thorstein Veblen aveva teorizzato

il concetto di consumo vistoso3,

l’esibizione dei beni acquistati, uno

dei mezzi attraverso cui la classe

agiata poteva acquisire prestigio

nella scala sociale.

Nella società occidentale contemporanea il consumo

vistoso si è esteso a tutte le classi sociali e non si

limita più al ruolo di ostentazione della ricchezza

personale. Oggi attraverso i prodotti con cui le persone

si circondano comunicano non solo il proprio status

sociale ma soprattutto i propri valori, emozioni,

appartenenze. Le merci sono un modo per estroflettere

la propria personalità: i vestiti che si indossano, i

3 Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, Piccola Biblioteca Einaudi, 2007

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cibi che si scelgono, le vacanze che si fanno, l’auto

che si guida. La modalità espressiva inventata dalle

sottoculture degli anni settanta4 si è estesa all’intera

società.

Sui giornali per teenagers, sulle riviste femminili,

sui mensili di moda e sportivi, la pubblicità è

ormai oggettivamente indistinguibile dalla notizia:

per raccontare un personaggio sembra necessario

descriverlo attraverso i prodotti che consuma.

In uno splendido articolo apparso su La

Repubblica5 lo scrittore e insegnante

Marco Lodoli ha raccontato il modo in cui

una quindicenne di una periferia romana

argomentava il suo desiderio di acquisto di

un paio di mutandine Dolce&Gabbana. Alle

obiezioni di stampo francofortese del Lodoli docente,

la ragazza rispondeva: «Professore, ma non ha capito

che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere

una personalità? [ ... ] Noi possiamo solo comprarci

delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non

abbiamo nessuna speranza di distinguerci». Eppure

quel paio di mutande rappresentano l’unica possibilità

di espressione per una quindicenne di periferia come

4 Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa&Nolan, 1983

5 Marco Lodoli, I jeans a vita bassa delle quindicenni, La Repubblica, 18 ottobre 2004

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per un qualsiasi trentenne impiegato nella new-

economy.

Un completo ribaltamento del

rapporto tra la funzione materiale

e quella immateriale della merce.

L’artefice di questa inversione è la

marca, un mondo possibile6 che

ogni consumatore è chiamato a

inverare. La marca è un vero e proprio linguaggio

sintetico attraverso cui comunicare con gli altri

e costruire relazioni sociali. Ma affinché questo

linguaggio possa esistere deve essere continuamente

vivificato dall’uso che ne fanno i parlanti7. Il valore

della marca finisce quindi per essere determinato dal

lavoro linguistico dei consumatori.

Il mondo della marca, infatti, come tutti gli universi

linguistici, è uno spazio pubblico in cui l’innovazione è

prodotta dall’uso e dal lavoro di torsione del materiale

simbolico. I significati che la marca esprime - e quindi

il suo valore di scambio - dipendono in sostanza dalla

contrazione e dai conflitti che si producono intorno a

essa. I consumatori quindi non sono e non dovrebbero

essere considerati semplici ricettori di messaggi a

6 Andrea Semprini, Marche e mondi possibili, Franco Angeli, 1993

7 Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968

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cui aderire o meno ma una delle parti in campo nella

definizione del valore e dei valori della marca.

Il caso delle scarpe Dr. Martens è esemplare.

Nate come scarpe ortopediche sono diventate gli

anfibi della working class inglese fino a quando,

negli anni settanta, le sottoculture punk, skin e

new-wave le hanno adottate ed elette a simboli

di ribellione. Sono stati proprio questi valori a

diventare i valori della marca e a trasformare le Dr.

Martens in un prodotto di massa, indipendentemente

dalle intenzioni del produttore. Quando poi l’azienda

ha deciso di cavalcare esplicitamente quei valori,

i consumatori si sono sottratti perché si sono visti

defraudati del proprio ruolo attivo nella definizione

dei significati. Quello delle Dr. Martens è solo uno

dei casi in cui in modo più chiaro emerge il conflitto

e la contrattazione tra produzione e consumo nella

definizione del valore di marca; storie analoghe sono

quelle che hanno permesso il successo di marchi

come Vespa, Apple, Jack Daniels, Chanel o Star Trek.

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La produzione di valore è sempre prodotta

nel momento del consumo. Se la marca

non si mette in comune con il pubblico

non può esserci comunicazione. Tanto

più ampio è il numero di persone

che cooperano nella produzione e

riproduzione linguistica dei marchi, tanto più elevato

è il valore che il prodotto può esprimere. Mentre il

prodotto può essere usurato, la marca è sempre

inusurabile, si usura e perde il suo valore solo quando

non viene consumata.

Da questo punto di vista la marca in quanto oggetto

linguistico vive in uno spazio pubblico, ma su questo

spazio comune grava una propriazione unilaterale

sorretta dal diritto d’autore su aspetti esteriori. Se il

significato è pubblico, il significante – naming, logo

etc. - è invece privato.

Si tratta di un paradosso che consente il puro

arbitrio ogni volta che viene tracciato un confine tra

ciò che deve essere venduto e ciò che può essere

acquistato. Prendiamo l’esempio del pubblico degli

spettacoli televisivi. Spesso gli ospiti in studio sono

professionisti della claque genericamente istruiti e

remunerati per la propria disponibilità ad apparire

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e parlare8. È una situazione tecnicamente simile a

quella del pubblico che anima gli spalti delle partite

di calcio. In questo caso però il pubblico non solo

organizza autonomamente cori e coreografie ma arriva

a valorizzare i marchi delle squadre anche al di fuori

dello spazio dello stadio. Grazie ai tifosi il calcio ha

potuto costituire una potente mitografia. Eppure i tifosi

pagano un biglietto di ingresso nonostante il fatto che

il loro contributo copra meno del 10% del bilancio di

una società. Oltre il 60% degli introiti di una grande

società deriva dallo sfruttamento dei diritti televisivi

delle partite, eppure se i tifosi facessero mancare la

propria presenza quei diritti varrebbero il 30% perché

questo è quanto viene perso mediamente in termini

di ascolti televisivi ogni volta che una partita viene

giocata a porte chiuse. Matematicamente parlando

il pubblico del calcio dovrebbe essere pagato poiché

crea valore.

8 Attualmente i pubblici televisivi non vengono quasi mai remunerati per la loro presenza in studio. La loro partecipazione è ormai analoga a quella del pubblico delle partite di calcio (nota del 2012)

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Il problema politico allora non è quello

dell’invasione dello spazio pubblico da parte

delle aziende proprio perché la sfera pubblicitaria

è già una sfera pubblica. La questione è capire

se e come possono nascere nuove forme

di resistenza nella sfera del consumo che

possano disarticolare il rapporto di propriazione della

comunicazione da parte dell’economia.

In una ricerca del 19819 sugli effetti analgesici del

farmaco Aspirina, oltre 800 volontari vennero coinvolti

per verificare l’efficacia di quattro diversi prodotti contro

il mal di testa. A ciascun volontario venne data una

diversa confezione di farmaco con l’invito a prendere

due pasticche ogni volta che si presentavano i sintomi

del mal di testa. Dopo l’assunzione si chiedeva di

compilare un questionario sull’efficacia del farmaco.

I volontari vennero divisi in quattro gruppi a cui

venne data una diversa confezione: il primo gruppo

ricevette delle compresse di placebo senza alcun

principio attivo all’interno di una confezione senza

alcuna marca; al secondo gruppo vennero invece

date delle vere pasticche di Aspirina dentro lo stesso

tipo di confezione; il terzo gruppo ricevette invece del

9 A. Braithwaite & P. Cooper, Analgesic Effects of Branding in Treatment of Headaches, British Medical Journal CCLXXXIII, 1981

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placebo all’interno di una confezione di Aspirina; il

quarto gruppo infine, ebbe la stessa confezione di

marca ma con delle vere pasticche di Aspirina, come

il secondo gruppo. I risultati di questa ricerca sono

particolarmente interessanti.

Ovviamente i gruppi che hanno

effettivamente preso Aspirina

hanno avuto dei benefici effettivi

nel miglioramento del mal di testa

ma il risultato più significativo è

un altro. Non solo il gruppo che ha

assunto il placebo di marca ha ottenuto effetti migliori

del gruppo che ha preso il placebo da una confezione

generica, ma anche tra i due gruppi che hanno

effettivamente preso aspirina, il gruppo che ha preso

quella di marca ha ottenuto effetti migliori. Il risultato

più interessante è che il placebo di marca Aspirina ha quasi

lo stesso effetto di una Aspirina senza marca. La marca

Aspirina è analgesica quasi quanto l’acido acetilsalicilico.

È come se la marca avesse un principio attivo con effetti

sull’organismo.

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Una più recente ricerca conferma

questo effetto in modo ancora

più interessante. Si tratta di uno

degli esperimenti più classici sugli

effetti della marca: un blind test

tra Coca-Cola e Pepsi. Sebbene

i consumatori siano convinti di poter distinguere la

propria bevanda preferita a occhi chiusi, i blind test

dimostrano che questa convinzione è tendenzialmente

falsa. Nei test ciechi effettuati negli Stati Uniti sul

gusto delle due bevande le preferenze dei consumatori

si bilanciano. Quando però il consumatore ha modo

di vedere la marca della bibita che sta bevendo, nella

maggior parte dei casi preferisce la Coca-Cola.

Recentemente alcuni scienziati americani hanno voluto

verificare se al di là di quello che i consumatori dicono,

le diverse preferenze espresse abbiano un qualche

riscontro a livello di sistema nervoso centrale10. Per

fare questo hanno sottoposto alcuni volontari a un

complesso esperimento in cui le preferenze espresse

venivano verificate in tempo reale con un particolare

apparecchio per la risonanza magnetica. I risultati hanno

dimostrato che la diffusa preferenza per la bevanda di

10 Samuel M. McClure et al., Neural Correlates of Behavioral Preference for Culturally Fami-liar Drinks, Neuron, 2004

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Atlanta trova un riscontro oggettivo a livello di attività

funzionale nelle aree cerebrali dell’ippocampo e della

corteccia prefrontale dorsolaterale. In sostanza il

giudizio palese espresso dai consumatori nei confronti

di Coca-Cola non è una suggestione soggettiva

estemporanea ma è solidamente radicato all’interno

del corpo umano. Questi esperimenti chiariscono

come si vada configurando una nuova antropologia in

cui il linguaggio della marca si inscrive direttamente

nel corpo del consumatore. È come se una porzione

del cervello umano o una sua funzionalità cognitiva

diventasse una proprietà privata dell’azienda. Da

questo punto di vista il marketing è il dispositivo

attraverso cui avviene questo esproprio che trasforma

l’economia politica in comportamento sociale.

Non è allora un caso che la definizione

più nota del termine “marketing”

possa essere letta come una

definizione contemporanea del

termine “politica”. Secondo Philip

Kotler infatti “il marketing è il

processo sociale e manageriale mediante il quale

una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce

oggetto dei propri bisogni e desideri, creando, offrendo

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e scambiando prodotti e valore con altri”11.

La definizione di Kotler sostituisce di fatto la dimensione

territoriale della polis propria della politica con il

flusso deterritorializzato delle merci ma soprattutto

sottolinea come anche le relazioni, che non sono

immediatamente riconducibili alla sfera produttiva

così come è tradizionalmente intesa, diventino centrali

nella creazione di valore.

Nell’epoca in cui il consumo è

immediatamente lavoro, agire

sul piano del marketing vuol dire

intervenire all’interno di quel

campo di forze che lega economia

e comunicazione, assumere la

trasformazione antropologica sopra descritta per

tornare a immaginare un nuovo modo di essere in

comune della specie umana. In questa direzione il

processo sociale e manageriale citato da Kotler può

portare a una più equa distribuzione di prodotti e di

valore.

11 Philip Kotler e Walter G. Scott, Marketing Management. Analisi, pianificazione, attuazio-ne e controllo, Isedi, 1993

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Testi: Andrea Natella

Grafica e impaginazione: Matteo Carlino

www.kook.it

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