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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Andrea Locatelli Il programma di modernizzazione della Difesa in Italia: “Sono possibili approcci alternativi?” (Codice AO-SME-03)

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Andrea Locatelli

Il programma di modernizzazione

della Difesa in Italia:

“Sono possibili approcci alternativi?”

(Codice AO-SME-03)

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Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso Palazzo

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(Codice AO-SME-03)

CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Andrea Locatelli

Il programma di modernizzazione

della Difesa in Italia:

“Sono possibili approcci alternativi?”

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Il programma di modernizzazione

della Difesa in Italia:

“Sono possibili approcci alternativi?”

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non

quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali

l’autore stesso appartiene.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore f.f.

Col. AArnn (Pil.) Marco Francesco D’Asta

Vice Direttore - Capo Dipartimento Ricerche Col. c.(li.) s.SM Andrea Carrino

Progetto grafico

Massimo Bilotta - Roberto Bagnato

Autore

Andrea Locatelli

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Ricerche

Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779 e-mail [email protected]

chiusa a ottobre 2019

ISBN 978-88-31203-32-6

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INDICE

SOMMARIO 6

ABSTRACT 8

INTRODUZIONE 10

CAPITOLO I: LE NECESSITÀ DELLA DIFESA: L’ATTUALE CONTESTO DI

SICUREZZA E LE SFIDE EMERGENTI 13

1.1 Lo spettro del conflitto 15

1.2 Le sfide emergenti 18

1.3 Le direttrici strategiche dell’interesse nazionale italiano 28

1.4 Conclusioni: Un primo bilancio sulle capacità necessarie per far

fronte all’attuale contesto di sicurezza 35

CAPITOLO II: IL PROCESSO DI MODERNIZZAZIONE DELLA DIFESA

ITALIANA (CIRCA 1990-2018) 38

2.1 Le riforme nel settore della difesa: uno sguardo d’insieme 38

2.2 La modernizzazione delle capacità: la dimensione del

procurement 43

2.3 La modernizzazione delle competenze: la componente umana e

dottrinale 45

2.3.1 L’evoluzione della componente umana: il modello

professionale 45

2.3.2 Componente umana, dottrina e apprendimento 47

2.4 La modernizzazione dei processi: la struttura organizzativa 51

2.4.1 Il processo di interforzizzazione 51

2.4.2 La razionalizzazione organizzativa e il dual-use 53

2.5 Conclusioni 55

CAPITOLO III: UN NUOVO MODELLO DI MODERNIZZAZIONE DELLA

DIFESA? 57

3.1 Come promuovere la modernizzazione? Una premessa

metodologica 57

3.2 Come importare best practices? Capacità organizzative

dinamiche, capacità di assorbimento e apprendimento

organizzativo 63

3.3 Approcci alternativi alla valorizzazione della componente umana 68

3.4 Approcci alternativi all’organizzazione della Difesa 72

3.5 Approcci alternativi ai processi di procurement 76

3.6 Conclusioni 81

CONCLUSIONI 83

BIBLIOGRAFIA 84

NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE 105

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SOMMARIO

Lo scopo della presente ricerca è di fornire prescrizioni utili a sostenere lo sforzo di

modernizzazione dello strumento militare italiano. Negli ultimi trent’anni, infatti, le Forze

Armate – analogamente a quelle degli altri Paesi europei – sono state impegnate in un

difficile processo di riforma volto ad adeguare l’apparato della difesa a un mutato contesto

internazionale. Confrontando la postura militare attuale con quella dei primi anni Novanta,

è indubbio che l’Italia abbia ottenuto risultati rimarchevoli: la partecipazione alle missioni

militari multinazionali e il riconoscimento per l’azione dei militari italiani in operazioni di

supporto alla pace lo testimoniano nel modo più evidente. Alla luce di tali considerazioni,

questa ricerca intende fornire al lettore gli strumenti analitici per:

1. Formulare una visione quanto più ampia e dettagliata possibile delle necessità della

difesa.

2. Valutare alla luce di indicatori osservabili lo stato attuale della modernizzazione dello

strumento militare.

3. Sviluppare un approccio alla modernizzazione da cui desumere prescrizioni che non si

limitino a cambiamenti tattici o di breve periodo, ma che possano contribuire nel lungo

termine a garantire l’adeguatezza delle Forze Armate rispetto alle necessità della Difesa.

La struttura della ricerca riflette questo intento ed è conseguentemente divisa in tre

parti. Il primo capitolo fornisce una panoramica delle principali linee di tendenza nel contesto

della sicurezza contemporaneo: da queste dipendono infatti gli obiettivi di breve e lungo

termine a cui le Forze Armate devono far fronte. In altri termini, è necessario cercare di

comprendere quali sono e quali saranno le minacce strategiche all’interesse nazionale

italiano, e che forma queste assumeranno. Appoggiandosi alla letteratura politologica sul

tema della sicurezza, il capitolo suggerisce che lo strumento militare debba dare priorità

all’acquisizione di capacità volte alla cooperazione tecnico-umanitaria con Stati terzi, alla

sorveglianza, dimostrazione ed uso della forza in conflitti a bassa intensità.

Il secondo capitolo discute criticamente le iniziative intraprese dalle Forze Armate

italiane per adeguarsi al contesto della sicurezza post-Guerra fredda. Partendo dal Nuovo

Modello di Difesa del 1991, vengono prese in esame le principali evoluzioni della politica di

difesa italiana alla luce di tre dimensioni: il procurement, l’assetto organizzativo e la

componente umana e dottrinale. Di queste, il primo è certamente l’aspetto più problematico,

poiché inficiato dal costante sottodimensionamento delle risorse, con l’effetto di concentrare

i finanziamenti su un numero limitato di progetti, in parte a scapito delle esigenze operative

più immediate. Anche lo sforzo di riorganizzazione mostra limiti evidenti; tuttavia, il

passaggio dalla leva all’esercito professionale rappresenta già di per sé un notevole

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successo. Dove infine la modernizzazione ha avuto più successo è nell’ambito dottrinale,

come testimoniato dall’adozione dell’approccio “multidimensionale” e dal tentativo di

interforzizzazione.

Alla luce di questi limiti, nel terzo capitolo vengono forniti gli strumenti analitici

necessari per elaborare un approccio alternativo alla modernizzazione. In particolare, si

propone in primo luogo di seguire una strategia di emulazione, per la quale è necessaria

una duplice capacità di apprendimento: dall’interno (ovvero dall’esperienza sul campo) e

dall’esterno (cioè dall’esperienza di altri Stati). A questo fine occorre sviluppare due tipi di

assetti: capacità organizzative dinamiche e capacità di assorbimento. Le prescrizioni che ne

discendono sono quindi finalizzate a maturare queste capacità secondo le tre dimensioni

della componente umana, organizzativa e del procurement. Esse sono le seguenti.

Per la valorizzazione della componente umana:

1. Esplicitare i principi di sperimentazione e creatività nei documenti ufficiali.

2. Valorizzare l’indipendenza di pensiero nei programmi di addestramento.

3. Fornire strumenti di supporto: incentivi e tempo.

Per il miglioramento dell’assetto organizzativo:

1. Delega d’autorità ai livello inferiori per la risoluzione dei problemi.

2. Potenziare le agenzie per la disseminazione delle informazioni.

3. Valorizzare i c.d. incubatori.

Per un procurement più in linea con le esigenze operative:

1. Adottare un approccio incrementale al procurement.

2. Privilegiare i programmi di acquisizione congiunta con altri Paesi.

3. Riformare la governance della funzione acquisizione.

In conclusione, l’assunto che dà forma all’approccio qui proposto (e alle prescrizioni

che ne seguono) è che le Forze Armate italiane dispongano di una preziosa risorsa, che va

quindi valorizzata per ricavarne il massimo beneficio: la componente umana. L’esperienza

nelle tante missioni di peacekeeping e la partecipazione nelle strutture integrate di NATO

ed Unione Europea fanno del personale militare una fonte costante di aggiornamento e

apprendimento per promuovere il processo di modernizzazione. L’approccio che si

suggerisce è quindi volto a valorizzarne le potenzialità a tutti i livelli della gerarchia militare,

rimuovendo gli ostacoli di natura burocratico/organizzativa al dinamismo dello strumento

militare, e promuovendo gli strumenti adeguati affinché la modernizzazione non rimanga un

obiettivo puramente dottrinale, ma sia un processo effettivo e costante.

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ABSTRACT

The aim of this research project is to develop policy prescriptions that might contribute

to the modernization effort of the Italian Armed Forces. Similarly, to other European

countries, in the past thirty years, the Italian army has embarked upon a demanding reform

process intended to adjust the defense apparatus to an altered international context:

compared to the military posture of the early Nineties, the current posture displays

remarkable evidence of change. Italy’s participation in multilateral missions and widespread

recognition for its contribution in peace support operations are just an example. In the light

of these considerations, the essay aims to provide the reader with the analytical tools

required to:

1. Draw a possibly comprehensive and detailed picture of today’s and tomorrow’s defense

requirements.

2. Assess the current state of military modernization by the light of observable indicators.

3. Develop a novel approach to modernization that might lead to prescriptions not just in the

form of tactical or short-term changes, but rather changes that might contribute to make

the Armed Forces fit for today’s and tomorrow’s defence requirements.

The essay is organized accordingly. As such, it is made up of three sections. The first

chapter provides the reader with an overview of the main trends in the current security

context. Italy’s main goals – both in the short and long run – depend on these trends. Put it

differently, it is necessary to understand what are and what will eventually be the strategic

threats to the Italian national interest – and, not least, how will they look like. Borrowing from

the political science literature on international security, the chapter suggests that the main

scenarios that will most likely involve Italian forces entail capabilities for technical-

humanitarian cooperation with third countries, surveillance, display and use of force in low-

intensity conflicts.

Chapter two critically assesses the main initiatives undertaken by the Italian Armed

forces to adjust to the post-Cold War security context. By taking as a departing point the

1991 New Defence Model, it values the main evolutions of the Italian defense policy in three

respects: procurement, organizational structure, and human and doctrinal component.

The procurement dimension is certainly the most problematic, affected as it is by the chronic

lack of resources. The main outcome is that funding is monopolized by a handful of major

projects, to the partial detriment of some pressing operational needs. The reorganization

effort is also affected by remarkable pitfalls. However, the shift from a conscript-based to an

all-professional army is in itself an acknowledged success. Nonetheless, modernization has

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been more successful in terms of doctrine, as witnessed by the adoption of concepts like

the comprehensive (multidimensional) approach and jointness.

Considering these limits, in chapter three the analytical tools are provided to develop

an alternative apporoach to modernization. In particular, it is argued that of the three

possible modernizations strategies, emulation should be Italy’s favorite option. To this

purpose, a two-fold learning capacity is required: one from the inside (i.e. form field

experience) and one from the outside (i.e. from the experience of other states). Two kinds

of assets are deemed by the literature as necessary conditions for learning: dynamic

organizational capabilities and absorptive capacity. As a result, a number of prescriptions

can be inferred with a view to advance these assets in the above-mentioned dimensions:

human factor, organizational structure and procurement process. They are:

To enhance the human component:

1. Explicitly endorse the principles of experimentation and creativity in official documents.

2. Promote independent thinking in training programs.

3. Devise support mechanisms: incentives and time.

To improve the organizational structure:

1. Accept the delegation of authority to lower levels of command for problem solving.

2. Create or enhance offices for knowledge dissemination.

3. Enhance the so-called incubators.

To align the procurement process with current and future operational needs:

1. Embrace an incremental approach to procurement.

2. Give priority to procurement programs jointly developed with other countries (see the

European Defense Agency).

3. Reform the governance of the procurement function.

To conclude, the assumption that informs our approach (and the prescriptions that

follow) is that the Italian Armed Forces have an important asset, which needs to be cherished

to grasp its full potential: the human component. Military personnel – due to the many

peacekeeping missions and the involvement in NATO an EU integrated structures – is a

constant source of learning and revision of the modernization process. Consequently, here

we suggest an approach aimed at enhancing its potential across the whole military

hierarchy. An approach that removes the bureaucratic/organizational barriers to the

dynamism of the Armed Force and turns modernization from a merely doctrinal goal into an

effective and recurring process.

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INTRODUZIONE1

Negli ultimi trent’anni circa, le Forze Armate italiane – analogamente a quelle degli altri

Paesi europei – sono state impegnate in un difficile processo di riforma volto ad adeguare

l’apparato della difesa a un mutato e mutevole contesto internazionale. Il venir meno della

minaccia sovietica ha comportato una ridefinizione dell’agenda di sicurezza per tutti i paesi

occidentali: le sfide più pressanti dei precedenti quarant’anni – proteggere i confini nazionali

da una possibile invasione dell’Armata Rossa e lo spettro dell’olocausto nucleare – nei mesi

che seguirono la caduta del muro di Berlino diventarono rapidamente obsolete. In altre

parole, già agli inizi degli anni Novanta apparve presto chiaro che non solo la Guerra fredda

era finita, ma era stata vinta dalle potenze occidentali (ovviamente, gli Stati Uniti su tutti)2.

Per quanto l’inaspettata sconfitta dell’Unione Sovietica portasse con sé un sostanzioso

“dividendo della pace”3, un cambiamento sistemico tanto profondo non poteva non avere

delle ripercussioni profonde sugli apparati di sicurezza dei Paesi vincitori. È quindi stato

necessario ripensare profondamente le finalità ultime dell’apparato militare – e con queste

le sue capacità e dottrine di utilizzo. Tale revisione strategica, condivisa sostanzialmente da

tutte le potenze occidentali, è stata dettata principalmente da ragioni politiche, ma anche da

fattori di natura economica e tecnologica. Questi tre elementi hanno fornito vincoli e

opportunità diverse nel corso degli anni: se, ad esempio, il nascente momento unipolare4

conferiva agli Stati Uniti una libertà d’azione senza precedenti, d’altra parte la necessità di

contenere le spese per la difesa rispetto ai picchi della Guerra fredda imponeva la

moderazione. Analogamente, se da una parte le potenzialità della tecnologia informatica

promettevano di incrementare la letalità delle Forze Armate come mai prima d’allora, gli

eventi dell’11 settembre 2001 mostravano nel modo più tragico la scarsa efficacia dello

strumento militare contro i terroristi5.

1 La stesura di questa ricerca non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di Fabrizio Coticchia e Francesco Moro. Nel riconoscere la propria gratitudine nei loro confronti, l’autore rimane comunque il solo responsabile per quals iasi errore od omissione.

2 Per una delle prime affermazioni in tal senso si rimanda a Joseph S. Nye, Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, New York, Basic Books, 1990; si veda inoltre l’elaborata lettura della Guerra fredda e del post-Guerra fredda di G. John Ikenberry, After Victory. Insitutions, Strategic Restraint and the Rebuilding of Order after Major Wars, Princeton NJ, Princeton University Press, 2001 (trad. it. Dopo la Vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell’ordine internazionale dopo le grandi guerre, Milano, Vita e Pensiero, 2002).

3 Nils P. Gleditsch, Olav Bjerkholt, Ådne Cappelen, Ron P. Smith e J. Paul Dunne (a cura di), The Peace Dividend, Amsterdam, North Holland, 1996.

4 Charles Krauthammer, The Unipolar Moment, “Foreign Affairs”, Vol. 70, No. 1, 1991, pp. 22-33. 5 Andrea Locatelli, Le risorse militari dell’egemonia americana, ISPI Analysis, No. 92, gennaio 2012. Andrea Locatelli,

Politica estera e politica di difesa di una potenza egemonica. Gli Stati Uniti nel periodo post-bipolare, in Carla Monteleone (a cura di), Politiche di sicurezza e cambiamento globale, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 76-9.

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Non stupisce quindi che l’Italia (come in generale anche gli altri paesi europei) abbia

affrontato la sfida dell’adeguamento al nuovo contesto strategico in modo tutt’altro che

deciso e risoluto. Anzi, si potrebbe più propriamente affermare che si sia approcciata alla

modernizzazione in modo incostante, estemporaneo e incoerente6. Ciononostante,

confrontando la postura militare attuale con quella dei primi anni Novanta, è indubbio che

l’Italia abbia modificato sostanzialmente l’assetto delle Forze Armate, con risultati

sicuramente rimarchevoli: lo testimoniano nel modo più evidente la partecipazione alle

missioni multinazionali e il riconoscimento per l’azione dei militari italiani in operazioni di

supporto alla pace. Rimangono tuttavia ancora diversi aspetti su cui è necessario un

ulteriore sforzo di riforma. La bassa propensione delle istituzioni politiche ad allocare risorse

consistenti alla Difesa, i ritardi nell’implementazione della c.d. riforma Di Paola e, non meno

rilevante, le sfide in termini di sicurezza poste da un contesto strategico segnato da grandi

tensioni – tutto questo impone all’apparato miliare di prestare un’attenzione particolare

all’esigenza di rivedere periodicamente e frequentemente il proprio programma

modernizzazione.

Alla luce di tali considerazioni, nelle pagine che seguono si cercherà di fornire al lettore

gli strumenti analitici per rispondere a tre quesiti principali: qual è l’interesse nazionale

italiano, e quali sfide si pongono – oggi e domani – per il suo conseguimento? Come valutare

alla luce di indicatori osservabili lo stato attuale della modernizzazione dello strumento

militare? Quale approccio alla modernizzazione risulta congeniale per desumere

prescrizioni che non si limitino a cambiamenti tattici o di breve periodo, ma che possano

contribuire nel lungo termine a garantire l’adeguatezza delle Forze Armate rispetto alle

necessità della difesa?

La struttura della ricerca riflette questo intento ed è conseguentemente divisa in tre

capitoli. Il primo fornisce una panoramica delle principali linee di tendenza nel contesto della

sicurezza contemporaneo: da queste dipendono infatti gli obiettivi di breve e lungo termine

a cui le Forze Armate devono far fronte. In altri termini, è necessario cercare di comprendere

quali sono e quali saranno le minacce strategiche all’interesse nazionale italiano, e che

forma queste assumeranno. Appoggiandosi alla letteratura politologica sul tema della

sicurezza, il capitolo suggerisce che lo strumento militare debba dare priorità all’acquisizione

di capacità volte alla cooperazione tecnico-umanitaria con Stati terzi, alla sorveglianza,

dimostrazione ed uso della forza in conflitti a bassa intensità.

6 Fabrizio Coticchia, Andrea Locatelli, Francesco Moro, External Pressures and the Logic of “Muddling Through”: Italian Defence Policy after the Cold War, paper presentato al Convegno Annuale dell’EISA, Praga, 13 settembre 2018.

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Il secondo capitolo discute criticamente le iniziative intraprese dalle Forze Armate

italiane per adeguarsi al contesto della sicurezza post-Guerra fredda. Partendo dal Nuovo

Modello di Difesa del 1991, per concludersi con il più recente Documento Programmatico

pluriennale della Difesa per il triennio 2019-2021, il capitolo analizza le principali evoluzioni

della politica di difesa italiana alla luce di tre dimensioni: il procurement, l’assetto

organizzativo e la componente umana e dottrinale. Di queste, il primo è certamente l’aspetto

più problematico, poiché inficiato dal costante sottodimensionamento delle risorse, con

l’effetto di concentrare i finanziamenti su un numero limitato di progetti, in parte a scapito

delle esigenze operative più immediate. Anche lo sforzo di riorganizzazione mostra limiti

evidenti – soprattutto in termini di ristrutturazione delle forze in senso piramidale. Tuttavia,

il passaggio dalla leva all’esercito professionale rappresenta già di per sé un notevole

successo. Dove infine la modernizzazione ha avuto più successo è nell’ambito dottrinale,

come testimoniato dall’adozione dell’approccio “multidimensionale” e dal tentativo di

interforzizzazione.

Alla luce di questi limiti, nel terzo capitolo vengono forniti gli strumenti analitici

necessari per elaborare un approccio alternativo alla modernizzazione. In particolare, si

propone in primo luogo di seguire una strategia di emulazione, per la quale è necessaria

una duplice capacità di apprendimento: dall’interno (ovvero dall’esperienza sul campo) e

dall’esterno (cioè dall’esperienza di altri Stati). A questo fine occorre sviluppare due tipi di

assetti: capacità organizzative dinamiche e capacità di assorbimento. Le prescrizioni che ne

discendono sono quindi finalizzate a maturare queste capacità secondo le tre dimensioni

della componente umana, organizzativa e del procurement.

In conclusione, l’assunto che dà forma all’approccio qui proposto (e alle prescrizioni

che ne seguono) è che le Forze Armate italiane dispongano di una preziosa risorsa, che va

quindi valorizzata per ricavarne il massimo beneficio: la componente umana. L’esperienza

nelle tante missioni di peacekeeping e la partecipazione nelle strutture integrate di NATO

ed Unione Europea fanno del personale militare una fonte costante di aggiornamento e

apprendimento per promuovere il processo di modernizzazione. L’approccio che si

suggerisce è quindi volto a valorizzarne le potenzialità a tutti i livelli della gerarchia militare,

rimuovendo gli ostacoli di natura burocratico/organizzativa al dinamismo dello strumento

militare e promuovendo gli strumenti adeguati affinché la modernizzazione non rimanga un

obiettivo puramente dottrinale, ma sia un processo effettivo e costante.

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CAPITOLO I: LE NECESSITÀ DELLA DIFESA: L’ATTUALE CONTESTO DI

SICUREZZA E LE SFIDE EMERGENTI

La funzione delle Forze Armate – vitale per la sicurezza e la sopravvivenza di

qualunque Stato – consiste nel dare una risposta efficace alle sfide che hanno origine al di

fuori dei confini nazionali. Nell’immagine resa popolare più di 50 anni fa da Samuel

Huntington7, la politica di difesa rappresenta una sorta di Giano bifronte, il cui sguardo si

fissa simultaneamente sull’arena internazionale (da cui appunto provengono le minacce) e

quella interna, ovvero il contesto istituzionale, economico e sociale in cui vengono elaborate

le risposte ad esse. In estrema sintesi, come sembra concordare la maggior parte degli

esperti di strategia, si può affermare che la politica di difesa si risolva nel difficile compito di

fornire mezzi militari per assecondare fini politici8.

Per quanto apparentemente semplice possa apparire questo primo approccio al

problema, le insidie e le complessità insite in tale operazione sono molteplici: in primo luogo,

la definizione dei fini politici, come si avrà modo di apprezzare nelle pagine che seguono, è

a sua volta un processo tutt’altro che lineare e privo di ostacoli; in secondo luogo, la

gerarchia mezzi-fini nella realtà è resa irrealistica da una varietà di problemi, per cui oltre

allo sforzo di adeguare gli strumenti agli obiettivi si deve aggiungere una definizione di questi

ultimi coerente con le capacità disponibili; in terzo luogo, infine, individuare le minacce e le

sfide provenienti dall’arena internazionale richiede un duplice (e a volte contradditorio)

sforzo, poiché richiede di prepararsi alle contingenze immediate, ma allo stesso tempo

pianificare nel medio-lungo periodo quali saranno le esigenze a cui occorrerà far fronte.

Insomma, per quanto concerne la politica di difesa, si può mutuare la celebre conclusione

di Clausewitz in merito alla guerra, per cui tutto è semplice, ma anche l’azione più semplice

può rivelarsi alquanto difficile9.

Rispetto alle finalità del presente lavoro, quindi, il primo passo da compiere consiste

nella definizione degli obiettivi di breve e lungo termine per cui le Forze Armate devono

essere pronte. Come si vedrà, tali obiettivi dipendono da una varietà di fattori, legati sia alle

7 Samuel Huntington, The Common Defense, New York, Columbia University Press, 1961. 8 La politica di difesa risulta in questo modo parte costitutiva della più ampia grande strategia di uno Stato. Per orientarsi

in una letteratura pressoché sterminata, si vedano, tra gli altri: David J. Lonsdale, Strategy, in David Jordan et al. (a cura di), Understanding Modern Warfare, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, pp. 15-63; Colin Gray, Strategy and History: Essays on Theory and Practice, Londra, Routledge, 2006, p. 1; John Baylis e James Wirtz, Introduction, in John Baylis, James Wirtz, Eliot Cohen e Colin Gray (a cura di), Strategy in the Contemporary World, Oxford, Oxford University Press, 2002, p. 3; Douglas J. Murray e Paul R. Viotti (a cura di), The Defense Policies of Nations. A Comparative Study, Baltimore e Londra, The Johns Hopkins University Press, seconda edizione, 1989. In italiano si rimanda al validissimo Giampiero Giacomello e Gianmarco Badialetti, Manuale di studi strategici. Da Sun Tzu alle ‘guerre ibride’, Milano, Vita e Pensiero, 2016, pp. XIII-XXIII.

9 Carl Von Clausewitz, Vom Kriege (trad. it. Della Guerra, Milano, Mondadori, 1970), p. 86.

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dinamiche geopolitiche contingenti sia a fattori strutturali più profondi10. In altre parole, il

problema a cui si cercherà di dare risposta è duplice, poiché consiste tanto nell’individuare

le linee di evoluzione del dell’attuale contesto della sicurezza, quanto nell’identificare

l’origine delle sfide alla sicurezza e agli interessi nazionali dell’Italia. In altre parole, si tratta

di definire il come si presenteranno le minacce strategiche, e il chi costituirà una minaccia.

Nel tentativo di procedere con ordine, il capitolo è organizzato come segue: nel

prossimo paragrafo, facendo ricorso alla modellistica sviluppata nei circoli della difesa

americani nel corso dei decenni, si presenterà il framework teorico dello spettro del conflitto

– ovvero una classificazione delle circostanze e delle modalità in cui possono essere usate

le Forze Armate. Tale tassonomia, seppure apparentemente semplicistica, ha l’indubbio

merito di mettere in evidenza le differenze tra diversi tipi di utilizzo dello strumento militare,

ergo le diverse capacità richieste da ciascuna fattispecie, nonché l’utilità rispetto agli

interessi strategici dell’Italia.

Nel secondo e nel terzo paragrafo ci si concentrerà invece sugli aspetti di breve e lungo

periodo: in particolare, si prenderanno in considerazione le sfide attuali ed emergenti alla

sicurezza dell’Italia, nonché gli interessi nazionali che da queste derivano. Ovviamente, il

tema è oggetto di un ampio e acceso dibattito, le cui implicazioni in termini di policy-making

sono evidenti: l’agenda di politica estera – come e più di altre issue-areas – è infatti frutto di

un complesso processo politico di selezione delle issue da parte dei decisori politici11.

In altre parole, definire le minacce e i rischi per cui risulta necessario mobilitare le Forze

Armate è operazione solo apparentemente neutra, poiché ampiamente influenzata dalla

discrezionalità politica delle figure istituzionali preposte. Per questo motivo, si ritiene

opportuno sottolineare che nelle pagine che seguono si procederà deduttivamente: nel

secondo paragrafo verranno quindi elencati i problemi di sicurezza su cui la letteratura

accademica e i documenti strategici italiani e di altri Paesi europei (nonché dell’Unione

Europea, UE) concordano. Una volta fatto questo saranno enunciate le direttrici strategiche

dell’interesse nazionale italiano12, onde individuare le aree prioritarie in termini di sicurezza.

10 Kenneth N. Waltz, Theory of International Politics, Reading CA, Addison-Wesley, 1979; Glenn H. Snyder, Process Variables in Neorealist Theory, in Benjamin Frankel (a cura di), Realism. Restatements and Renewal, Londra, Cass, 1996, pp. 167-192.

11 Peter Bachrac e Morton Baratz, Two Faces of Power, “American Political Science Review”, Vol. 56, No. 4, 1962, pp. 947-952.

12 Vale la pena ricordare già da ora come il concetto stesso di interesse nazionale risulti controverso e politicamente sensibile. In ambito accademico, la fortuna del termine ha di fatto segnato lo sviluppo della disciplina delle Relazioni Internazionali negli anni Quaranta del secolo scorso: in particolare, sotto la guida di Hans Morgenthau, la scuola realista ha fatto del concetto la chiave esplicativa delle scelte di politica estera di qualsiasi Stato. Morgenthau, tuttavia, non è stato in grado di indicare parametri oggettivi in base a cui definire in modo oggettivo (o quantomeno non eccessivamente arbitrario) l’interesse di uno Stato. Sul punto, si può fare riferimento, tra gli altri, a: Hans J. Morgenthau, Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace, Knopf, New York, 1985, sesta edizione, (prima edizione 1948); Inis L. Claude, Power and International Relations, New York, Random House, 1962; Glenn Chafetz, Michael Spirtas, Benjamin Frankel (a cura di), Origins of National Interests, Londra, Frank Cass, 1999.

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15

Nel quarto e ultimo paragrafo ci si tireranno le fila del discorso e si fornirà una concisa

– e al momento preliminare – conclusione rispetto all’argomentazione avanzata: alla luce

delle considerazioni espresse nelle prime tre sezioni del capitolo, di quali capacità dovranno

dotarsi le Forze Armate italiane per assecondare le legittime esigenze di sicurezza e i relativi

interessi? Dati i possibili scenari di utilizzo della forza, le linee di tendenza nell’attuale

contesto della sicurezza e le problematiche relative alle aree di maggiore interesse per

l’Italia, quali scelte risultano congeniali in termini capacitativi? Quali soluzioni tecnologiche

meritano maggiore attenzione in un’era di progresso a dir poco impetuoso in campo

cibernetico? Quali dottrine di utilizzo della forza e quali assetti organizzativi potranno

massimizzare l’impatto delle nuove tecnologie?

1.1 Lo spettro del conflitto

L’attuale contesto della sicurezza è caratterizzato da un significativo grado di volatilità.

Come si avrà modo di osservare più in dettaglio nel paragrafo successivo, nell’epoca in cui

viviamo risulta alquanto difficile delineare i tratti che contraddistinguono lo scenario

strategico: alcune tradizionali dinamiche del conflitto sembrano obsolete13; altre (come la

competizione geopolitica) sono riemerse nell’ultimo decennio dopo quasi vent’anni di eclissi;

altre ancora presentano caratteri di relativa novità. Tale situazione di incertezza risulta

particolarmente problematica per le Forze Armate, che si trovano costrette a ricercare un

difficile equilibrio tra esigenze contrapposte: conciliare le necessità correnti con i bisogni

futuri. A questo fine, occorre formulare una visione degli scenari d’azione a cui sarà

chiamato lo strumento militare italiano, onde evitare il rischio di irrilevanza sullo scenario

internazionale, o ancor peggio di inadeguatezza sul campo.

Il modello qui presentato mostra in modo sintetico le possibili azioni militari ordinandole

lungo due dimensioni: il livello di violenza esercitato e la probabilità che questo avvenga

(Figura 1). Come messo in evidenza dalla curva raffigurata nell’immagine, la distribuzione

L’utilizzo del termine al di fuori dell’accademia è stato analogamente contestato. In Italia, in particolare, occorre constatare come l’espressione interesse nazionale sia stata per decenni eclissata dal dibattito politico e culturale. Le motivazioni non sono difficili da comprendere: l’esperienza sotto il fascismo prima e la dipendenza dagli alleati durante la Guerra Fredda hanno portato a una cultura strategica (o a un’assenza di tale cultura) avversa all’utilizzo di termini – peraltro ampiamente utilizzati da Paesi partner, quali Stati Uniti o Francia – come interesse nazionale. Per un’attenta lettura di questi aspetti si vedano gli interessanti di lavori di Fabrizio Coticchia, in particolare Giampiero Giacomello e Fabrizio Coticchia, Esiste una ‘via italiana’ alla cultura di difesa? “Biblioteca delle libertà”, Vol. 43, n. 193 (ottobre-novembre), 2008, pp. 109-122; Piero Ignazi, Giampiero Giacomello, Fabrizio Coticchia, Italian Military Operations Abroad: Just Don't Call it War, Londra, Palgrave Macmillan, 2012. Una significativa e pregevole disinvoltura nell’utilizzo del concetto, nettamente in controtendenza con quanto affermato, è invece presente nel Libro Bianco della Difesa del 2015, su cui si avrà modo di tornare anche in seguito. Sul punto, si vedano: Andrea Gilli, Alessandro R. Ungaro, Alessandro Marrone, The Italian White Paper for International Security and Defence, “The RUSI Journal”, Vol. 160, No. 6, 2015, pp. 34-41; Fabrizio Coticchia, Andrea Locatelli, Francesco Moro, Renew or Reload? Continuity and Change in Italian Defence Policy, EUI Working Paper RSCAS 2016/01, 2016, www.eui.eu/RSCAS/Publications/.

13 Vedi infra, p. 31.

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16

dei punti nell’asse cartesiano indica una relazione inversa tra le due proprietà: detto in altri

termini, le situazioni che presentano un maggior grado di conflittualità sono anche meno

probabili – e quindi meno frequenti. Tale considerazione, che incidentalmente porta a un

moderato grado di ottimismo in merito alla possibilità di contenere il conflitto, suggerisce

anche che le fattispecie di intervento a cui le Forze Armate italiane saranno probabilmente

chiamate sono anche quelle in cui il fattore umano risulta centrale. Vale quindi la pena

descriverle sinteticamente una per una.

Partendo da destra verso sinistra, troviamo quattro situazioni grosso modo

classificabili come conflitti interstatali tradizionali – due dei quali combattuti con armi

convenzionali e due con armi nucleari. All’apice della violenza si colloca la guerra nucleare

strategica, ovvero quell’eventualità che durante la Guerra fredda veniva brandita come

spettro per garantire la deterrenza tra le due superpotenze: la Mutua Distruzione Assicurata

(MAD, dall’acronimo inglese) derivante dalla capacità di nuclear overkill di Washington e

Mosca14. Un gradino sotto questo livello di violenza si colloca la guerra nucleare di teatro –

ovvero un conflitto in cui l’utilizzo delle armi nucleari sia circoscritto a un singolo teatro delle

14 Sul punto, si rimanda all’eccellente ricostruzione di Charles H. Jr. Fairbanks, MAD and U.S. Strategy, in Henry D. Sokolski (a cura di), Getting MAD: Nuclear Mutual Assured Destruction, Its Origins and Practice, Carlisle PA, Strategic Studies Institute, US Army War College, 2004, pp. 137-147.

Figura 1. Lo spettro del conflitto

Fonte: The Maritime Strategy, “U.S. Naval Institute Proceedings”, gennaio 1986, supplement,

p. 8.

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17

operazioni, e abbia quindi una valenza esclusivamente tattica15; questo scenario di conflitto,

per quanto altamente improbabile, ha recentemente assunto una nuova rilevanza nel

pensiero strategico americano con la pubblicazione della Nuclear Posture Review del

201816. Le due fattispecie di conflitto convenzionale corrispondono rispettivamente alla

guerra convenzionale globale e alla guerra limitata: entrambe presuppongono il

dispiegamento e l’utilizzo di forze sul campo di battaglia, sebbene con intensità minore nel

secondo caso. Come esempio del primo tipo si potrebbe immaginare un conflitto che

coinvolgesse le principali potenze17, mentre un esempio del secondo è l’operazione Iraqi

Freedom del 2003.

Crisis Management (o Crisis Response nel gergo un po’ antiquato del modello)

rappresenta la seconda macro-categoria e si compone di due fattispecie: l’uso della forza e

la manifestazione della forza. Analogamente alle situazioni di guerra sopra citate, anche la

risposta alle crisi ha origine da una minaccia, ma diversamente da esse non si tratta di una

minaccia diretta al territorio o alla sovranità di uno Stato. Ne consegue una differenza

significativa nelle finalità dell’intervento armato, che risulta discrezionale (si parla infatti di

“war of choice”) e finalizzato non a sconfiggere militarmente un avversario, ma a correggere

una situazione ritenuta ingiusta o intollerabile18. Anche le modalità di impiego della forza

riflettono l’origine dell’intervento: nascendo da una crisi non esistenziale, la missione delle

Forze Armate è maggiormente vincolata – solitamente secondo i dettami dei Capitoli VI e

VII della Carta ONU – e non è diretta contro un altro esercito, ma contro forze irregolari.

Infine, nel quadrante in alto a sinistra del grafico compare la terza e ultima macro-

categoria: la presenza militare al di sotto della soglia di conflitto – a sua volta composta da

due fattispecie: semplice presenza e sorveglianza. Queste circostanze non presuppongono

l’utilizzo diretto della Forza Armata, anche qualora, il dispiegamento avvenga in un teatro di

conflitto. Inoltre, all’interno di questo Scenario rientrano operazioni alquanto diverse, dal

pattugliamento dei mari al supporto tecnico o umanitario, fino al mantenimento dell’ordine

pubblico. Le Forze Armate italiane sono già impegnate in missioni di questo tipo, sia sul

territorio nazionale (si pensi all’operazione Strade Sicure) sia in ambito internazionale (ad

15 È ovviamente evidente che questa definizione è puramente analitica, dato che, come ha fatto notare anche l’ex Segretario alla Difesa americana James Mattis, qualsiasi utilizzo tattico di bombe atomiche potrebbe portare a una rappresaglia nucleare strategica. Aaron Mehta, Mattis: No Such Thing as a ‘Tactical’ Nuclear Weapon, But New Cruise Missile Needed, “Defense News”, 6 febbraio 2018, https://www.defensenews.com/space/2018/02/06/mattis-no-such-thing-as-a-tactical-nuclear-weapon-but-new-cruise-missile-needed/.

16 Department of Defense, Nuclear Posture Review, Washington DC, febbraio 2018, disponibile su https://fas.org/wp-content/uploads/media/2018-Nuclear-Posture-Review-Version-2.pdf.

17 Ad esempio gli Stati Uniti e gli alleati della NATO da una parte, contro Cina e/o Russia dall’altra. Fortunatamente, l’ultima occasione in cui l’Italia si è trovata implicata in questo tipo di questo scenario risale alla Seconda guerra mondiale.

18 Marc Houben, International Crisis Management. The Approach of European States, Londra, Routledge, 2004, p. 10.

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esempio in Libia, dal 2018, con la Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia,

MIASIT).

Il modello discusso rappresenta ovviamente una semplificazione analitica che non

pretende di essere esaustiva, né di fotografare esattamente la realtà. Non si può inoltre

pretendere – come avveniva durante la Guerra fredda – di farne discendere precise

prescrizioni politiche per le Forze Armate italiane19. Tuttavia, una prima considerazione può

essere d’aiuto nel formulare un programma di modernizzazione della difesa coerente con le

necessità strategiche del Paese: per ciascuno degli scenari presentati occorrono

competenze e capacità specifiche e sarebbe inutile – se non impossibile – cercare di

sviluppare capacità funzionali a tutte le fattispecie discusse. Ne discende che qualsiasi

programma di modernizzazione dovrà basarsi sulla scelta delle fattispecie a cui dare priorità.

1.2 Le sfide emergenti

Se per alcuni versi il modello dello spettro del conflitto rimane uno strumento analitico

sorpassato – un lascito senza troppo valore della Guerra fredda – rimane però vero che

l’esperienza degli ultimi venti anni ha messo in evidenza la perdurante attualità di alcune

delle forme di utilizzo della forza sopra discusse. Ad esse, tuttavia, si aggiungono fenomeni

apparentemente nuovi, la cui capacità di plasmare lo scenario strategico contemporaneo è

oggetto di un vivace dibattito. Uno dei problemi più rilevanti per gli analisti della difesa è

quindi comprendere quale forma va assumendo il contesto della sicurezza e quanto a lungo

rimarrà invariato.

La letteratura sul tema, in ambito accademico, ha fornito importanti spunti di riflessione

già nei primi anni Novanta, principalmente sulla scia della polemica sollevata dalla scuola

dei Critical Security Studies20. Lasciando da parte la dimensione epistemologica di una

querelle che ai fini della presente analisi risulterebbe di dubbia utilità, il punto di maggior

interesse sollevato dai Critical Security Studies investe la dimensione ontologica e consiste

nell’ampliamento del concetto di sicurezza. Detto in altri termini, il contributo principale di

questa scuola consiste nell’aver messo in discussione un concetto che per decenni era dato

19 Sam J. Trangredi, Assessing New Missions, in Hans Binnendijk (a cura di), Transforming American Military, National Defense University Press, Washington DC 2002, pp. 10-11.

20 Il manifesto di questa scuola è sicuramente Keith Krause e Michael C. Williams (a cura di), Critical Security Studies: Concepts and Cases, Londra, UCL Press, 1997. Altre opere importanti, in varia misura affini ai Critical Security Studies, sono: Ken Booth (a cura di), Critical Security Studies and World Politics, Boulder CO, Lynne Rienner, 2005; Lene Hansen, Security as Practice: Discourse Analysis and the Bosnian War, Londra, Routledge, 2006; Richard Wyn Jones, Security, Strategy, and Critical Theory, Boulder CO, Lynne Rienner, 1999; Barry Buzan, Ole Waever e Jaap de Wilde, Security: A New Framework for Analysis, Boulder CO, Lynne Rienner, 1998; Elizabeth Dauphinee e Cristina Masters (a cura di) The Logics of Biopower and the War on Terror: Living, Dying, Surviving, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007.

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per scontato. Si può infatti dire che – con poche eccezioni – l’esperienza del sistema

internazionale degli Stati aveva permesso una semplificazione enorme: per almeno tre

secoli, e fino al 1989, la sicurezza poteva essere definita come la capacità di uno Stato di

difendersi dalla capacità militare di un altro Stato21. Negli ultimi trent’anni, invece, diversi

autori hanno sottolineato come si sia registrato un disallineamento crescente tra oggetto

della sicurezza (a chi deve essere garantita), soggetto della sicurezza (chi deve garantirla),

mezzi (in che modo) e natura della minaccia22.

Delle quattro dimensioni sopra citate, quella che più rileva ai nostri fini è certamente la

natura della minaccia. È su questo punto che il problema della convivenza tra fenomeni

vecchi e nuovi trova la massima espressione. Per le Forze Armate di tutti gli Stati –

soprattutto quelle degli Stati più importanti del sistema – la definizione delle sfide a cui far

fronte è il primo requisito per una corretta formulazione della propria strategia di

modernizzazione. L’identificazione delle minacce e dei rischi23, come rilevato in apertura del

capitolo, è logicamente precedente all’individuazione delle capacità necessarie a difendersi;

tuttavia, non può risolversi in un semplice elenco di sfide alla sicurezza, poiché

evidentemente nessuno Stato dispone delle risorse necessarie per difendersi da ogni

evenienza. Consapevoli di questo limite, si procederà ora a elencare le questioni

ampiamente riconosciute dalla letteratura e dai documenti strategici come prioritarie

nell’attuale agenda di sicurezza degli Stati24.

La transizione di potenza. L’ascesa e il declino delle grandi potenze è probabilmente

uno dei temi più studiati dalla letteratura internazionalistica: non dovrebbe quindi essere

annoverato tra le novità di questo secolo. Dai tempi della guerra tra Atene e Sparta25,

infatti, è ampiamente accettato che una variazione nella gerarchia di potenza tra i principali

21 John J. Mearsheimer, La logica di Potenza. L’America, le guerre, il controllo del mondo, Milano, Università Bocconi Editore, 2001, capp. 2-3 (ed. or. The Tragedy of Great Power Politics, New York, Norton, 2000); per una critica antesignana dei tempi, si veda Barry Buzan, People, States and Fear. The National Security Problem in International Relations, Chapel Hill NC, University of North Carolina Press, 1983.

22 Adrian Hyde-Price, Beware the Jabberwock! Security Studies in the Twenty-First Century, in Heinz Gaertner, Adrian Hyde-Price ed Erich Reiter (a cura di), Europe’s New Security Challenges, Boulder CO, Lynne Rienner, 2000, pp. 32-34.

23 Robert O. Keohane e Celeste A. Wallander, Risk, Threat, And Security Institutions, in Helga Haftenderon, Robert O. Keohane e Celeste A. Wallander (a cura di), Imperfect Unions. Security Institutions Over Time And Space, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 21-47.

24 Non si prenderanno quindi in considerazione, perché al di fuori, o non esclusive, dell’ambito di competenza proprio delle Forze Armate la minaccia ambientale, la sicurezza alimentare, i disastri naturali, la criminalità organizzata, la sicurezza cibernetica, il rischio infettivo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Per un’eccellente introduzione a questi (e altri) temi, si rimanda a Paolo Foradori e Giampiero Giacomello (a cura di), Sicurezza globale. Le nuove minacce, Bologna, il Mulino, 2014.

25 È proprio l’ascesa di Atene, secondo la ricostruzione di Tucidide, la causa ultima del conflitto. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, a cura di Luigi Annibaletto, Milano, Mondadori, 1997 (prima edizione 1952). Per un approfondimento sulla rilevanza politologica di Tucidide si veda Marco Cesa, Le Ragioni della Forza: Tucidide e la Teoria delle Relazioni Internazionali, Il Mulino, Bologna, 1994.

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attori del sistema internazionale costituisca un potenziale fattore di destabilizzazione26.

E, invero, la più significativa variazione nella gerarchia di potenza è avvenuta ormai

trent’anni fa, quando la disgregazione dell’Unione Sovietica ha relegato la Russia al rango

di media potenza, consegnando agli Stati Uniti l’invidiabile primato di unica superpotenza di

un sistema unipolare27. Da allora, nemmeno l’ascesa cinese – per quanto eccezionale in

termini variazione del PIL – ha modificato tale assetto. Per quale motivo allora dovremmo

annoverare la transizione di potenza tra le questioni principali nell’agenda di sicurezza?

Per quanto sia essenzialmente un fenomeno radicato nella storia della politica

internazionale, nella sua realizzazione contemporanea la transizione di potenza presenta

due significativi elementi di novità. Il primo consiste nell’eccezionalità della supremazia

americana: mai nella storia, infatti, un solo Stato aveva raggiunto una tale superiorità militare

rispetto agli altri Stati28. Ne consegue che la competizione e la posta in gioco per rimpiazzare

gli Stati Uniti (o quantomeno circoscriverne la capacità d’azione) risultano su un ordine di

grandezza senza paragoni. Il secondo elemento di novità concerne invece

l’indeterminatezza della parabola decrescente degli Stati Uniti: se, infatti, la letteratura sul

tema concorda nel postulare come requisiti della transizione tanto l’ascesa di nuovi sfidanti,

quanto il declino dello Stato leader, nel caso in questione il declino della potenza americana

è ancora lungi dall’essere visibile29.

Da tutto questo discende un effetto immediato ed empiricamente rilevante, che

giustifica l’inserimento della transizione di potenza nell’agenda di sicurezza dell’Italia:

l’ampia flessibilità strategica di cui godono gli Stati Uniti. In virtù delle proprie capacità, la

potenza leader può permettersi di modificare non solo gli allineamenti, ma anche le stesse

fondamenta dell’ordine che han costituito30. Al riguardo, l’amministrazione Trump ha offerto

alcuni esempi lapalissiani (dall’imposizione di tariffe sull’importazione di acciaio e allumino,

26 Robert R. Gilpin, War and Change in International Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1981 (trad. it. Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, Il Mulino, 1989). In prospettiva storica, il lavoro più celebre è sicuramente quello di Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers, New York, Random House, 1987 (trad. it. Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1994).

27 Charles Krauthammer, The Unipolar Moment, cit.; Samuel Huntington, The Lonely Superpower, “Foreign Affairs”, Vol. 78, No. 2, 1999, pp. 35-49.

28 Barry Posen, Command of the Commons. The Military Foundation of U.S. Hegemony, “International Security”, Vol. 28, No. 1, 2003, pp. 5-46.

29 La letteratura sul punto è sterminata. Le voci più pessimiste sulla sostenibilità della supremazia americana sostengono, non a torto, che già oggi viviamo in un periodo eccezionale, per cui prima o poi il declino americano sarà inevitabile. Su tutti, si vedano Charles A. Kupchan, The End of the American Era, New York, Knopf, 2002 (trad. it. La fine dell’era americana, Milano, Vita e Pensiero, 2003); Fareed Zakaria, The Post-American World, New York, Norton (trad. it. L’era post-americana, Milano, Rizzoli, 2008). D’altro canto, voci altrettanto autorevoli fanno notare come gli indicatori solitamente utilizzati per misurare la potenza degli Stati non presentino evidenza alcuna di tale declino. Si vedano ad esempio Michael Beckley, China’s Century? Why America’s Edge Will Endure, “International Security”, Vol. 36, No. 3, 2011/12, pp. 41-78; Hans Binnendijk, Friends, Foes, and Future Directions. U.S. Partnerships in a Turbulent World, Santa Monica CA, RAND, 2016.

30 Andrea Locatelli, Difesi e insicuri? La politica di difesa americana nell’ordine liberale contemporaneo, in Alessandro Quarenghi (a cura di), Trump e l’ordine internazionale, Milano, Egea, 2018, pp. 43-62. Andrea Locatelli, Politica estera e politica di difesa di una potenza egemonica, cit..

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al ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano; dalla rinegoziazione del NAFTA, alla cosiddetta

guerra commerciale con la Cina)31. Ma, a ben guardare, la traiettoria di politica estera

tracciata dall’attuale Presidente non si discosta significativamente da quella della prima

amministrazione Bush, non a caso accusata da più parti di unilateralismo32.

La flessibilità strategica degli Stati Uniti, per quanto compensata finora dalla solidità

delle istituzioni internazionali di matrice liberale (NATO, WTO, ecc.), comporta non una

minaccia, ma sicuramente un rischio diretto per l’Italia e gli altri Stati europei: il dilemma

interno alla partnership transatlantica, catturato mirabilmente dall’espressione di Glenn

Snyder, tra intrappolamento ed abbandono33: in altre parole, la dipendenza dagli Stati Uniti

espone gli Stati europei al rischio di essere privati della protezione americana, laddove

Washington non la ritenesse conveniente (abbandono), o di dover seguire la volontà

americana in azioni indesiderate (intrappolamento), appunto per distogliere il potente alleato

dalla tentazione di abbandonare i partner minori a se stessi. Non a caso, l’eventualità di una

“ritirata” americana dal vecchio continente è stato e rimane uno spettro ricorrente nelle

capitali europee sin dai primi anni Novanta34.

In conclusione, il portato combinato di incertezza sulla leadership americana e

dilemma tra abbandono e intrappolamento comporta per l’Italia una sfida di primaria

importanza – certo, non una minaccia diretta all’integrità nazionale, ma un vincolo

imprescindibile alla propria politica estera e di difesa. Nel definire gli allineamenti (in

particolare con Stati revisionisti quali Cina e Russia), così come nello stabilire il proprio

impegno militare in ambito NATO e UE (si pensi all’impegno sistematicamente disatteso di

spendere almeno il 2% del PIL in difesa), il giudizio di Washington avrà un peso

determinante. Per le Forze Armate, tutto questo non potrà non influenzare la definizione

delle proprie capacità, degli impegni internazionali, delle partnership per il procurement, e

via dicendo35.

31 Alessandro Colombo, L’America di Trump e il declino del mondo liberale, in Alessandro Colombo e Paolo Magri (a cura di), La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale, Rapporto ISPI 2019, Milano, pp. 27-37;

https://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/ispi_rapporto_annuale_2019_fine_di_un_mondo.pdf. 32 Ivo H. Daalder e James M. Lindsay, America Unbound, Washington DC, Brookings Institution Press, 2003 (trad. it.

America senza freni, Milano, Vita e Pensiero, 2005). Per una celebre difesa dell’unilateralismo americano si veda Robert Kagan, Power and Weakness, “Policy Review”, No. 113, June-July 2002, pp. 3-28.

33 Glenn G. Snyder, The Security Dilemma in Alliance Politics, in “World Politics”, Vol. 36, No. 4, 1984, pp. 461-495. 34 John J. Mearsheimer, Back to The Future: Instability in Europe After the Cold War, “International Security”, Vol. 15, No.

1, 1990, pp. 5-56. 35 A riprova dell’importanza del vincolo americano, si può prendere l’esempio (negativo) della Turchia, che con l’acquisto

dei missili terra-aria S400 dalla Russia sta pregiudicato la partecipazione nel progetto F-35 e rischiando l’imposizione di sanzioni da parte degli Stati Uniti in base al Countering American Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA). Can Kasapoglu, Turkey and the Russia's Deadly S-400: The Air Defense System That Changed Everything, The National Interest, The Buzz, 20 luglio 2019, https://nationalinterest.org/blog/buzz/turkey-and-russias-deadly-s-400-air-defense-system-changed-everything-67942.

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Gli Stati falliti. Il concetto di Stato fallito è entrato ormai da anni nei circoli della difesa,

come testimoniato dalla frequente ricorrenza del termine nei documenti strategici di Stati e

istituzioni internazionali36. È opportuno chiarire sin dall’inizio che la definizione delle

proprietà che rendono fallito uno Stato è oggetto di dibattito, e il confine tra Stato “fragile” e

“fallito” risulta sfumato37. Il punto fondamentale su cui avviare le nostre considerazioni,

comunque, non è oggetto di controversia: uno Stato rientra nella categoria di fallito quando

le strutture interne (istituzioni, apparati amministrativi, processi politici) non riescono a

svolgere efficacemente alcune funzioni minime per il funzionamento della società e della

politica: contrasto della povertà e tutela della sicurezza degli individui38. Ne consegue

l’incapacità del governo di garantire la coesione della polity (che può quindi spaccarsi lungo

cleavage linguistici o etnico-religiosi), di difendere i confini statali e marginalizzare gli attori

criminali e insurrezionali: evidentemente, questi cortocircuiti hanno tutti una chiara rilevanza

in chiave di sicurezza.

Anche in questo caso, la presenza nell’arena internazionale di Stati falliti non

costituisce certamente un elemento di novità: la stessa parabola evolutiva dello Stato

moderno39, che molti vedono come un percorso lineare di accentramento territoriale e

amministrativo, ha visto esempi nel corso dei secoli di tendenze contrarie – Stati falliti ante

litteram, si potrebbe dire. Quello che però appare come veramente rivoluzionario nel

contesto contemporaneo è un’inversione dell’agenda di sicurezza: se, infatti,

tradizionalmente la minaccia più stringente proveniva dalle potenze militarmente più forti del

sistema internazionale, oggi è da quegli Stati che invece sono estremamente deboli che

hanno origine le sfide più difficili da trattare40.

Le ragioni di questo cambiamento sono svariate. Usando un gergo forse un po’

semplicistico, si può indicare come fattore principale la globalizzazione – intesa come

fenomeno dalle implicazioni economiche, politiche e sociali41. I processi di integrazione

economica della produzione, i vincoli crescenti all’autorità statale e, non da ultimo, la

36 A Secure Europe in a Better World, European Security Strategy. Bruxelles, 12 dicembre 2003, https://www.consilium.europa.eu/media/30823/qc7809568enc.pdf; Strategic Concept for the Defence and Security of the Members of the North Atlantic Treaty Organization, Bruxelles, NATO, 2010; Libro Bianco. Per la sicurezza internazionale e la difesa, Roma, Ministero della Difesa, 2015; National Security Strategy and Strategic Defence and Security Review 2015. A Secure and Prosperous United Kingdom, novembre 2015, Londra.

37 Lothar Brock, Hans-Herik Holm, Georg Sørensen, Michael Stohl, Fragile States, Cambridge, Polity Press, 2012, cap. 1.

38 Questa definizione è mutuata dal Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE, così come citata in Fabrizio Coticchia, Stati fragili e narco-stati, in Paolo Foradori e Giampiero Giacomello (a cura di), Sicurezza globale, cit., p. 26.

39 Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr, 2 voll. 1922 (trad. it. Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1968); Gianfranco Poggi, Lo stato. Natura, sviluppo, prospettive, Bologna, il Mulino 1992.

40 Edward Newman, Failed States and International Order: Constructing a Post-Westphalian World, “Contemporary Security Policy”, Vol. 30, No.3, 2009, pp. 421-433.

41 Su tutti, si veda David Held e Anthony McGrew, Globalization theory: approaches and controversies. Cambridge, Polity Press, 2007.

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“democratizzazione della violenza”42: questi processi, infatti, non solo limitano la capacità

statale degli Stati falliti, ma contribuiscono a internazionalizzare il problema oltre i confini di

questi Paesi.

Ne discendono quindi alcune conseguenze rilevanti in tema di sicurezza: la prima è

data dall’instabilità interna di questi Stati, che nella forma più estrema – ma non meno

comune – assume la forma di guerra civile. L’instabilità interna, anche senza sfociare nel

conflitto armato, comporta una limitata capacità di controllo del territorio da parte delle

istituzioni statali, con il risultato di rendere gli Stati falliti un porto sicuro per organizzazioni

criminali e terroristiche. La seconda conseguenza, come riconosciuto nel modo più esplicito

già nel 2003 dalla Strategia di Sicurezza Europea43, è la stretta correlazione tra Stati falliti e

instabilità regionale: la debolezza interna è sia un fattore di attrazione (rispetto alle mire

espansionistiche di altri Paesi, ad esempio), sia un fattore di esportazione di crisi (si pensi

all’effetto sui Paesi confinanti di flussi migratori, possibili infiltrazioni di organizzazioni

criminali e terroristiche, ecc.). Esempi ormai cronici di questo tipo di Stati sono la Somalia,

la Liberia, la Colombia e l’Afghanistan, ma più recentemente – e più rilevanti per gli interessi

italiani data la loro collocazione geografica – vanno aggiunti a questo elenco la Libia, il Mali

e la Siria44.

Se quindi la presenza di Stati falliti è un dato rilevante nella politica internazionale e

preoccupante per la politica di difesa nazionale, occorre interrogarsi sulle modalità con cui

si può rispondere a questa sfida alla sicurezza. Quali strategie, insomma, sono state poste

in essere dalla comunità internazionale e, soprattutto, quanto successo hanno avuto fino ad

oggi? Le risposte a questi interrogativi non sono del tutto soddisfacenti: nonostante la

letteratura accademica abbia messo in evidenza già da decenni una cospicua “cassetta

degli attrezzi”45, raramente i Paesi e le organizzazioni internazionali impegnati a sostenere

gli Stati falliti ne hanno fatto buon uso: nonostante il considerevole numero di missioni civili

e militari lanciate da ONU, UE, NATO e singoli Stati, la maggior parte di queste operazioni

si è conclusa senza successo o, forse peggio, si trascina senza portare alcun miglioramento.

Probabilmente le cause di questo record negativo sono da attribuire più a

motivazioni politiche (lo scarso interesse dell’opinione pubblica internazionale, l’ombra del

42 Fareed Zakaria, The Future of Freedom. Illiberal Democracy at Home and Abroad, New York, Norton, 2003 (trad. it. Democrazia senza libertà, Milano, Rizzoli, 2004).

43 A Secure Europe in a Better World, cit. 44 Per un elenco completo degli Stati fragili o falliti, si possono consultare i seguenti dataset: https://fragilestatesindex.org/

e https://carleton.ca/cifp/failed-fragile-states/. 45 Michael S. Lund, Preventing Violent Conflicts, Washington DC, United States Institute of Peace Press, 1996, pp. 203-

205.

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passato coloniale, la presenza di veto players sul campo) che non operative46.

Tuttavia, la componente militare rimane un fattore chiave a partire dalla prevenzione delle

crisi, passando per il crisis management, fino alla fase di stabilizzazione post-conflitto.

La sfida per le Forze Armate italiane, in conclusione, è duplice: da una parte consiste nel

dotarsi – o meglio nel potenziare – le capacità necessarie per intervenire efficacemente in

funzione di diplomazia preventiva e/o come forza di stabilizzazione, particolarmente per

funzioni di Security Sector Reform (SSR); dall’altra, comporta uno sforzo di coordinamento

con le componenti non militari che arricchiscono il portafoglio di strategie disponibili47.

Il terrorismo. La violenza del terrorismo internazionale è notoriamente il tratto che ha

segnato l’inizio del Ventunesimo secolo. Comprensibilmente, sul tema sono stati versati

fiumi di inchiostro da studiosi delle più svariate discipline48 e la continua evoluzione del

fenomeno giustifica il perdurare dell’attenzione (e della preoccupazione) per la portata e la

capacità distruttiva delle organizzazioni terroristiche. Vale infatti la pena ricordare che, a

quasi vent’anni di distanza dall’attentato dell’11 settembre 2001, virtualmente tutti gli Stati

hanno rafforzato le proprie politiche anti-terrorismo (conseguendo in diversi casi alcuni

importanti successi), ma il problema rimane lungi dall’essere risolto.

Analogamente alle altre sfide alla sicurezza qui analizzate, anche nel caso del

terrorismo convivono elementi di novità ad altri radicati nella storia. Anzi, si potrebbe

argomentare che se si prende la definizione più ampia del termine – ovvero, quella

particolare forma di violenza politica basata su un approccio indiretto, che implica una

palese violazione di regole accettate e gode di un vantaggio tattico sulla difesa49 – ci

troviamo di fronte a un fenomeno ricorrente, che nel solo Ventesimo secolo è apparso in

almeno tre forme diverse50. Tuttavia, le caratteristiche che contraddistinguono la fattispecie

contemporanea appaiono effettivamente nuove51. Di queste, almeno due meritano di essere

ricordate in questa sede.

La prima caratteristica originale che segna una cesura tra il terrorismo contemporaneo

e quello otto/novecentesco consiste nella strutturazione delle organizzazioni terroristiche:

se, infatti, in precedenza la quasi totalità dei gruppi era basata su una struttura piramidale e

46 Daniel S. Blocq, The Fog of UN Peacekeeping: Ethical Issues Regarding the Use of Force to Protect Civilians in UN Operations, “Journal of Military Ethics”, Vol. 5, No. 3, 2006, pp. 201-213.

47 Michael S. Lund, Conflict Prevention: Theory in Pursuit of Policy and Practice, in Jacob Bercovitch, Viktor A. Kremenyuk e Ira W. Zartman (a cura di), The SAGE Handbook of Conflict Resolution, Londra, SAGE, 2009, pp. 296-297.

48 Per una monumentale ricostruzione della letteratura recente, si rimanda a Alex J. Schmid (a cura di), The Routledge Handbook of Terrorism Research, Londra, Routledge, 2011.

49 Andrea Locatelli, What is terrorism? Concepts, definitions and classifications, in Raul Caruso e Andrea Locatelli (a cura di.), Understanding Terrorism. A Socio-Economic Perspective, Bingley, Emerald, 2014, p. 10.

50 David Rapoport, Modern Terror: The Four Waves, in Audrey Kurth Cronin e James M. Ludes (a cura di), Attacking Terrorism: Elements of a Grand Strategy, Washington DC, Georgetown University Press, 2004, pp. 46-73.

51 Audrey Kurth Kronin, How al-Qaeda Ends. The Decline and Demise of Terrorist Groups, “International Security”, Vol. 31, No. 1, pp. 7-48.

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territorialmente ben definita, oggi il modello che si è rivelato dominante è improntato attorno

a una struttura reticolare, a network52. Al Qaeda, da questo punto di vista, costituisce

l’esempio più evidente, essendo organizzata in una varietà di cellule e gruppi – sparsi grosso

modo in tutto il mondo – tenuti assieme da legami di varia natura e intensità.

Questo permette all’organizzazione non solo una proiezione virtualmente globale, ma anche

una maggiore resilienza all’azione dell’antiterrorismo53.

La seconda caratteristica rilevante, strettamente correlata alla prima, concerne il

processo di reclutamento. Le organizzazioni terroristiche contemporanee hanno mostrato

una capacità senza precedenti di attirare, formare e selezionare il proprio personale. Questa

funzione – è opportuno ricordarlo – costituisce un requisito fondamentale per qualsiasi

istituzione, ed è ancor più critica per le organizzazioni clandestine (come appunto quelle

terroristiche), costrette come sono ad agire in segreto. Questo limite in passato aveva

portato i terroristi a fare proseliti in ambiti ristretti, seguendo una rigida procedura guidata

dall’alto, con evidenti limiti in termini di capacità d’attrazione e selezione dei nuovi membri

(è questo il caso delle Brigate Rosse, dell’ETA e dell’IRA, giusto per citare alcuni dei casi

meglio studiati). Ora, invece, vuoi per l’appeal ideologico del messaggio jihadista, vuoi per

la capacità di sfruttare i mass media contemporanei, l’affiliazione ai gruppi terroristici

avviene in modo opposto, tramite un processo dal basso54. Ne consegue, come mostrato

nel modo più evidente dal fenomeno dei foreign fighters, una capacità senza precedenti di

mobilitare risorse umane e spostarle da un teatro all’altro.

Queste due caratteristiche dei gruppi contemporanei, nonché la capacità di resilienza

che ne discende55, hanno imposto un ripensamento complessivo delle politiche anti-

terrorismo. Le strategie disponibili spaziano dall’approccio giuridico alle politiche sociali,

dalla lotta alla criminalità al controllo del web56. Tuttavia, la dimensione militare rimane non

52 Rohan Gunaratna, Inside Al Qaeda: Global Network of Terror, New York, Berkley Trade, 2003; Marc Sageman, Understanding Terror Networks, Philadelphia PA, The University of Pennsylvania Press, 2004; Angel Rabasa, Peter Chalk, Kin Gragin, Sara A. Daly e Heather S. Gregg (a cura di), Beyond al Qaeda: The Global Jihadist Movement, Santa Monica CA, RAND, 2006.

53 Andrea Locatelli, Guerra, terrorismo e ordine internazionale nel momento unipolare, in John G. Ikenberry e Vittorio E. Parsi (a cura di), Manuale di Relazioni Internazionali, Roma-Bari, Laterza, seconda edizione, 2009, p. 282.

54 In letteratura sono state proposte diverse interpretazioni di questo fenomeno. C’è chi parla di lupi solitari, chi di self-starters, chi di radicalizzazione. Tra i tanti tentativi analitici di rilievo, si segnala, oltre al già citato Marc Sageman, Understanding Terror Networks, Aidan Kirby, The London Bombers as ‘Self-Starters’: A Case Study in Indigenous Radicalization and the Emergence of Autonomous Cliques, “Studies in Conflict and Terrorism”, Vol. 30, No. 5, pp. 415-428; Ramón Spaaij, Understanding Lone Wolf Terrorism: Global Patterns, Motivations and Prevention, New York, Springer, 2012; High-Level Commission Expert Group on Radicalisation (HLCEG-R), Final Report, European Commission, Migration and Home Affairs, 18 maggio 2008, https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-security/20180613_final-report-radicalisation.pdf. Da ultimo, sia concesso rimandare a Raul Caruso e Andrea Locatelli, Una gara al massacro: incentivi, premi e prestazioni dei gruppi terroristici legati ad al Qaeda, “Il Politico”, Vol. 221, No. 2, 2009, pp. 63-91.

55 Basti pensare alle ramificazioni del network jihadista in tutto il mondo, alla perdurante vitalità di al Qaeda nonostante l’uccisione di Osama bin Laden, e all’eredità di ISIS in termini di rimpatrio dei foreign fighters.

56 Per una carrellata sul tema, si veda il recente Stefano Dambruoso, Jihad. La risposta italiana al terrorismo: le sanzioni e le inchieste giudiziarie, Roma, Dike Giuridica Editrice, 2018.

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secondaria per almeno due motivi: nella misura in cui le organizzazioni terroristiche hanno

un radicamento all’estero (come visto, soprattutto negli Stati fragili e falliti), l’intervento

armato rimane una capacità irrinunciabile per la sicurezza nazionale; non meno importante,

sul fronte interno, le Forze Armate sono chiamate a dare un contributo essenziale in funzioni

legate al presidio del territorio, nonché per operazioni complesse e di alto rilievo in capo alle

Forze Speciali, come il contrasto alle attività di matrice insurrezionale e la liberazione di

ostaggi.

Le nuove forme del warfare. Le guerre non sono certo terminate con la fine del

bipolarismo, come alcuni speravano57. Tuttavia, è evidente che la distribuzione geografica,

la frequenza e la modalità di svolgimento dei conflitti armati siano mutate significativamente

negli ultimi trent’anni. In un’ottica puramente spaziale, il punto è stato forse colto al meglio

già nei primi anni Settanta da Joseph Nye58, il quale aveva utilizzato l’espressione “peace

in parts” per sottolineare la differenziazione tra regioni pacificate e regioni nel mondo dove

la guerra era ancora presente59. Osservando la frequenza e le forme dell’attuale esercizio

della violenza60, si può notare inoltre che un fenomeno tradizionale e ricorrente della politica

internazionale come le grandi guerre – ovvero le guerre tra grandi potenze – pare oggi

marginalizzato, se non addirittura obsoleto. Le ragioni di questo fatto sono molteplici61;

quello che preme rilevare è come la visione mutuata dagli scritti ottocenteschi di Clausewitz

– ovvero della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi – sia stata da più parti

criticata, perché ormai poco realistica62.

L’aspetto che però ha segnato il punto di maggiore discontinuità è probabilmente

relativo alle modalità di conflitto. In primo luogo, le guerre del post-Guerra fredda63 hanno

visto estendersi la stessa partecipazione al conflitto ben oltre le Forze Armate statali. In altri

termini, quell’elemento di discriminazione iscritto nello ius publicum europaeum su cui si

57 Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 1992 (trad. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996).

58 Joseph S. Nye, Peace in Parts: Integration and Conflict in Regional Organization, Boston MA, Little, Brown, 1971. 59 Una successiva riproposizione di questa tesi è Robert Cooper, The Breaking of Nations. Order and Chaos in the

Twenty-First Century, Londra, Atlantic Books, 2003. 60 Meredith Reid Sarkees e Frank Wayman, Resort to War: 1816 – 2007, Washington DC, CQ Press, 2010. 61 Michael Mandelbaum, Is Major War Obsolete?, “Survival”, Vol. 40, No. 4, 1998/99, pp. 20-38; Charles A. Kupchan,

Empires and Geopolitical Competition: Gone for Good?, in Chester A. Crocker, Fen O. Hampson e Pamela Aall (a cura di), Turbulent Peace: The Challenges of Managing International Conflict, Washington DC, United States Institute of Peace, pp. 39-52; Rodolfo Ragionieri, Pace e guerre nelle relazioni internazionali, Roma, Carocci, 2008, p. 258.

62 Su tutti, si vedano Martin Van Creveld, The Transformation of War, New York, The Free Press, 1991; Mary Kaldor, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Cambridge, Polity Press (trad. it. Le nuove guerre: la violenza organizzata nell’età globale, Roma, Carocci, 1999).

63 Vale la pena ricordare le esperienze più significative non solo per l’impatto che hanno avuto, ma anche e soprattutto per la rilevanza in termini di lezioni apprese: in ordine cronologico, Iraq (1990/91), ex Iugoslavia (1991-1995), Kosovo (1999), Afghanistan (2003), Iraq (2003-2011), Georgia (2008), Libia (2011), Ucraina (2014), oltre alle guerre civili in Ruanda (1991-1994), Somalia (1991-2000) e Siria (2011-oggi).

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fondava la società internazionale (gli Stati e solo gli Stati possono fare la guerra)64, appare

sempre più sfidato. Quello a cui si assiste ormai sulla maggior parte dei campi di battaglia

è la coesistenza di truppe regolari (spesso coalizioni di Stati, frequentemente guidate da

organizzazioni internazionali come ONU o NATO), compagnie militari private65 in

sostituzione o affiancate alle forze tradizionali, signori della guerra su base locale66, oltre

alla partecipazione (volontaria o coatta) della popolazione civile67.

Le cause di questa trasformazione sono molteplici, e non avrebbe senso dilungarsi qui

in una disanima che risulterebbe probabilmente incompleta: tuttavia, un fattore sicuramente

centrale è ancora una volta l’evoluzione tecnologica, con particolare riferimento alla

tecnologia informatica68. Le armi cosiddette intelligenti, la digitalizzazione del campo di

battaglia, l’invenzione dei droni e, da ultimo, le prospettive di militarizzazione dell’intelligenza

artificiale hanno avuto come conseguenza il rafforzamento di una tendenza di lungo periodo:

i costi e l’infrastruttura necessaria per il mantenimento di queste capacità hanno determinato

il primato americano in termini di potenza militare di cui si è parlato nel punto precedente.

Questo spiega, insomma, l’aspetto di maggiore continuità nelle nuove guerre (ovvero la

presenza di truppe regolari, dotate di armi convenzionali, tendenzialmente rispettose del

diritto internazionale di guerra).

D’altro canto, però, a questo scenario di guerra si oppone nell’esperienza degli ultimi

trent’anni una situazione opposta, dominata da eserciti “irregolari”69, armati con strumenti

decisamente meno sofisticati (da semplici fucili automatici a IED, Improvised Explosive

Devices) e meno propensi a sottomettersi ai limiti imposti dalle convenzioni internazionali

come le Convenzioni di Ginevra. Come in una sorta di reazione strategica, quindi, la

crescente complessità (e il relativo aumento dei costi) della tecnologia militare sembra aver

portato quegli attori esclusi dalla competizione (Stati fragili, insorgenti, terroristi, signori della

64 Alessandro Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 125-129.

65 Stefano Ruzza, Guerre conto terzi: aziende di sicurezza e privatizzazione della funzione militare, Bologna, il Mulino, 2011.

66 Troy S. Thomas, Stephen D. Kiser e William D. Casebeer, Warlords Rising: Confronting Violent Non-State Actors, Lanham MD, Lexington Books, 2005.

67 Rupert Smith, The Utility of Force, Random House, New York 2005 (trad. it. L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2009).

68 Sul punto, sia concesso rimandare ad Andrea Locatelli, Tecnologia e rivoluzione negli affari militari, in Paolo Foradori e Giampiero Giacomello (a cura di), Sicurezza globale, cit., pp. 221-235; Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra. Gli Stati Uniti dopo la rivoluzione negli affari militari, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

69 Nel caso più estremo, si pensi all’esperienza non infrequente di arruolare bambini soldato, ma anche all’utilizzo di mercenari e foreign fighters. Si vedano, Peter W. Singer, Children at War, Berkeley e Los Angeles CA, University of California Press, 2006; Kimberly Marten, Warlords. Strong-Arm Brokers in Weak States, Ithaca NY, Cornell University Press, 2012; Efraim Benmelech ed Esteban F. Klor, What Explains the Flow of Foreign Fighters to ISIS?, “Terrorism and Political Violence”, 31 ottobre 2018, pubblicato on line: https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/09546553.2018.1482214.

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guerra) a compensare la propria debolezza con strategie asimmetriche, low-tech, ma non

meno efficaci70.

Nella maggior parte dei conflitti contemporanei possiamo quindi scorgere una diversa

combinazione di questi elementi: ad un estremo si collocano le guerre chirurgiche –

“indolore”, nella provocatoria definizione di Corrado Stefanachi71 – che gli Stati Uniti hanno

combattuto conseguendo successi strabilianti (ad esempio l’operazione Forza Alleata in

Kosovo, nel 1999). All’estremo opposto troviamo le guerre in cui le Forze Armate regolari

sono virtualmente assenti, o troppo deboli e destrutturate per essere definite tali (è questo

il caso delle tante guerre civili in Africa); infine, in posizione intermedia troviamo quei contesti

in cui le forze regolari si scontrano con attori irregolari (la maggior parte dei casi).

In conclusione, la varietà, complessità e indeterminatezza che sottende le modalità

contemporanee del conflitto pone un problema di primaria importanza per qualsiasi

programma di modernizzazione delle Forze Armate. Un problema che, come scrive

Giampiero Giacomello, si concretizza in un vero e proprio dilemma su quale tipo di capacità

si vuole ottenere:

Per fare fronte ad una gamma variegata di minacce è necessaria una deterrenza

moderna, che contempli da un lato il recupero di capacità in grado di soddisfare il

principio della massa […]e dall’altro il mantenimento della flessibilità necessaria per

ingaggiare un nemico che può materializzarsi su vari fronti, anche a grande distanza, ed

è in grado di modificare la propria gravitazione sui quadranti internazionali in modo

rapido ed imprevedibile, e anche di sfruttare la rete per lanciare attacchi cyber72.

1.3 Le direttrici strategiche dell’interesse nazionale italiano

Accanto a questi fenomeni – vecchi o nuovi che siano – si pone una serie di questioni

legata alle tensioni geopolitiche di più breve periodo: si tratta delle tante aree di crisi nel

mondo che, se non per motivi di sicurezza, per ragioni di interesse economico e/o politico il

decisore non può permettersi di ignorare. Essi sono, in ordine di prossimità geografica73:

70 Non a caso, tra i termini utilizzati in letteratura come alternativi al concetto di nuove guerre appaiono l’espressione “guerra asimmetrica”, “guerra irregolare” e, più recentemente, “guerra ibrida”; Herfried Munkler, The New Wars, Cambridge, Polity Press, 2005; James N. Mattis e Frank G. Hoffman, Future Warfare: the Rise of Hybrid Wars, “Naval Institute Proceedings”, Vol. 132, No. 11, 2005, pp. 30-32.

71 Corrado Stefanachi, Guerra indolore: dottrine, illusioni e retoriche della guerra limitata, Milano, Vita e Pensiero, 2011. 72 Giampiero Giacomello, Gianmarco Badialetti, Manuale di studi strategici, cit., pp. 206-207. 73 Analogamente alle minacce discusse in precedenza, dovrebbe risultare chiaro da quanto scritto che l’elenco qui

presentato non ha ambizioni di esaustività. E, vale la pena ricordarlo, è filtrato da un criterio di impianto razionalista/utilitarista molto stringente: non saranno quindi prese in considerazione le aree di crisi i cui effetti sugli interessi italiani sono limitati, e nemmeno i contesti in cui le capacità italiane necessarie a intervenire sono inverosimili. Per questo, verranno esclusi tutti i punti di crisi nel quadrante Asia-Pacifico (Corea del Nord, Cina-Taiwan, Cina-Giappone, Cina-Filippine, ecc.).

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L’Africa e il Mediterraneo. Come espressamente riconosciuto anche nel Libro Bianco

del 201574, la regione di maggior rilievo per l’interesse nazionale italiano è costituita dai

Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo e, in misura solo relativamente minore, dai

Paesi compresi nell’area del Sahel e del Corno d’Africa. L’inclusione di questa regione al

vertice dell’agenda di sicurezza nazionale è sicuramente giustificata dalla prossimità

geografica rispetto al territorio nazionale e ad importanti interessi economici, e ancor più

dalla presenza di molteplici fonti di rischio, che includono la presenza di organizzazioni

terroristiche, la fragilità delle istituzioni statali (ancor più se democratiche), la guerra civile

che dal 2011 sta imperversando in Libia e, non da ultimo, la minaccia agli

approvvigionamenti energetici.

Su tutti, lo Stato su cui dovrà concentrarsi l’attenzione italiana è ovviamente la Libia:

la lotta per il potere tra il Primo Ministro del Governo di Accordo Nazionale Faiez Serraj e le

milizie dell’Esercito Nazionale Libico del Generale Khalifa Haftar sintetizza una complessità

di forze sul campo che vanifica qualsiasi sforzo di mediazione75. Nonostante i ripetuti

tentativi di conciliazione, il massimo risultato a cui si può realisticamente sperare di

pervenire nel breve periodo è un cessate il fuoco duraturo. Le ostilità tra le due fazioni,

riaccese per l’ultima volta ad aprile del 2019, hanno già portato a oltre 1000 morti in battaglia

e 100.000 sfollati76. La guerra civile, oltre a configurarsi come una catastrofe umanitaria (che

come tale sarebbe sufficiente a giustificare il coinvolgimento della Comunità internazionale

in base al principio della Responsabilità di Proteggere), ha creato le condizioni per il

radicamento di gruppi jihadisti – Al Qaeda in Maghreb e lo Stato Islamico in Libia77; l’ultima

rilevazione disponibile dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stimava la

presenza di oltre 641.000 migranti nel Paese78, su cui fiorisce un’economia clandestina di

proporzioni considerevoli79; da ultimo, la violenza diffusa aumenta il rischio di attacchi alle

installazioni petrolifere, che vengono percepite dalle fazioni in lotta come una ghiotta fonte

di rendita.

74 Diversamente dalla classificazione usata in questa sede, il Libro Bianco tende a fondere nella macro-area euro-mediterranea sia i Paesi del Nord Africa, sia quelli del Golfo Persico e del Corno d’Africa. Libro Bianco, cit., 2015, pp. 12-14.

75 Arnaud Delalande, Forces on the Libyan ground: Who is who, ISPI Commentary, 28 maggio 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/forces-libyan-ground-who-who-20640.

76 Crisis Group, Watch List 2019 – Second Update, 17 luglio 2019, https://www.crisisgroup.org/global/watch-list-2019-second-update.

77 Djallil Lounnas, The Libyan Security Continuum: The Impact of the Libyan Crisis on the North African/Sahelian Regional System, MENARA Working Paper No. 15, ottobre 2018, https://www.iai.it/sites/default/files/menara_wp_15.pdf, pp. 2-3.

78 IOM-Displacement Tracking Matrix, Libya’s Migrant Report – Round 25 March-May, 10 luglio 2019, https://migration.iom.int/reports/libya-%E2%80%94-migrant-report-25-march%E2%80%94may-2019, p. 3.

79 Alessandro D’Errico, Black Sands: Security and Humanitarian Aid in Contemporary Libya, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2017/2018, pp. 86-101.

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Se la Libia risulta paradigmatica della natura multidimensionale delle minacce a cui la

Difesa deve far fronte, altri contesti critici sono rappresentati dagli Stati che confinano con

essa: Tunisia ed Algeria. A Tunisi, la morte del Presidente Essebsi ha aperto un periodo di

transizione che potrebbe indebolire le fragili istituzioni democratiche. Da più parti si è fatto

notare come la Tunisia sia uno dei pochissimi casi in cui le Primavere Arabe hanno

effettivamente portato a imboccare un percorso di democratizzazione e consolidamento

democratico80, e un indebolimento della capacità statale costituirebbe un problema non solo

per la credibilità delle politiche europee di promozione della democrazia81, ma anche per gli

stessi interessi italiani: anche dalle coste tunisine, infatti, salpano alla volta dell’Italia

imbarcazioni cariche di migranti, per cui è fondamentale per l’Italia sapere di poter contare

sulla cooperazione con le istituzioni tunisine. Da ultimo, la diffusione dei gruppi terroristici

nel Maghreb non ha risparmiato il territorio tunisino, in cui si è registrato un cospicuo

aumento di foreign fighters in seguito alla caduta di ISIS in Siria e Iraq82.

Da ultimo, anche l’Algeria costituisce un teatro strategico per l’Italia, principalmente in

ragione degli stretti legami commerciali: l’Italia è infatti il primo partner commerciale di Algeri,

assorbendo circa il 20% dell’export algerino; inoltre, l’Algeria è (insieme alla Russia) una

delle principali fonti di approvvigionamento di idrocarburi. Il calo dei prezzi petroliferi tra il

2014 e il 2015 ha duramente colpito il Paese, con ricadute politiche rilevanti: le proteste in

piazza si susseguono grosso modo ininterrottamente dall’inizio dell’anno, ovvero da quando

il Presidente Abdelaziz Bouteflika ha dichiarato la volontà di candidarsi per la quinta volta

alle elezioni di aprile. Le rivolte hanno portato ad annullare le elezioni, che potrebbero forse

tenersi entro la fine dell’anno, e alle dimissioni del più volte presidente, con un vuoto di

potere momentaneamente colmato dalle Forze Armate. Qualora la situazione non si

calmasse e si giungesse a un atteggiamento più incline alla repressione da parte delle

autorità, ne potrebbero discendere un riacutizzarsi della tensione etnica tra i Berberi Ibaditi

e le popolazioni arabe che vivono nella regione dello Mzab83 e un inasprimento dei rapporti

con i Paesi vicini.

Sebbene geograficamente più distante dai confini nazionali, infine, anche il Corno

d’Africa rappresenta un’area di notevole interesse per l’Italia: nelle parole del Libro Bianco

del 2015, la regione “costituisce un’area di tradizionale presenza nazionale, facilitata e

stimolata da una vicinanza culturale delle popolazioni locali al nostro Paese e dalla

80 Stefano Torelli, La Tunisia contemporanea. Una Repubblica sospesa tra sfide globali e mutamenti interni, Bologna, il Mulino, 2015.

81 Enrico Fassi, L’Unione Europea e la promozione della democrazia, Milano, Vita e Pensiero, 2017. 82 Djallil Lounnas, The Libyan security continuum, cit., pp. 11-15. 83 Bertelsmann Stiftung, BTI 2018 Country Report – Algeria, Gütersloh, Bertelsmann Stiftung, 2018,

http://www.bti-project.org/fileadmin/files/BTI/Downloads/Reports/2018/pdf/BTI_2018_Algeria.pdf, p. 34.

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posizione strategica di crocevia dei flussi commerciali marittimi da e verso l’area

mediterranea”84. La minaccia principale agli interessi italiani consiste nella pirateria,

principalmente ai danni dei mercantili in transito da e per lo stretto di Suez. Non a caso,

l’Italia, come altri Paesi europei, è stata impegnata per diversi anni nelle missioni Ocean

Shield in ambito NATO e Atalanta in ambito UE. Oltre al fenomeno della pirateria, la regione

costituisce una fonte di insicurezza per la presenza di organizzazioni terroristiche affiliate

ad al Qaeda come al Shabab. Analogamente al Maghreb, insomma, il Corno d’Africa, non

rappresenta una minaccia tradizionale alla sicurezza dell’Italia; tuttavia, lo strumento militare

potrebbe rivelarsi utile per la stabilizzazione e l’aiuto umanitario ai Paesi della regione.

Il Medio Oriente. La regione mediorientale rappresenta un secondo fronte critico per

la sicurezza italiana. Da un punto di vista prettamente geografico, anche in questo caso la

distanza dal territorio nazionale è sufficientemente ridotta da coinvolgere l’Italia nelle

dinamiche competitive interne85. E, a ben guardare, anche le tensioni geopolitiche che

contraddistinguono l’area (da almeno trent’anni) sono altrettanto preoccupanti. L’unica

rilevante differenza rispetto allo scenario nord-africano consiste nel coinvolgimento diretto

dei principali attori internazionali, Stati Uniti e Russia in primis.

La principale linea di conflittualità interna all’area è segnata dalla rivalità tra Iran e

Arabia Saudita (a cui si aggiungono, come alleati non secondari, gli Emirati Arabi Uniti e

Israele). Poi, ovviamente, una fonte di tensione latente rimane il conflitto israelo-palestinese,

che coinvolge anche i Paesi vicini come il Libano. Infine – problema tutto sommato recente

ma difficilmente destinato a risolversi in tempi brevi – è la fragilità delle istituzioni statali, che

trova nei casi della Siria, dello Yemen e dell’Iraq esempi paradigmatici. L’intersecarsi di

queste problematiche, a cui si aggiunge l’influenza di potenze esterne quali Egitto e Turchia,

rende “intrattabili”86 i conflitti nella regione, vanificando ad oggi tutti i tentativi di

pacificazione. La cospicua presenza di forze di pace sotto l’egida dell’ONU e della NATO (a

cui anche l’Italia partecipa con le missioni in Libano e Iraq) è quindi destinata a protrarsi in

futuro, con il fine minimo di cristallizzare una situazione che altrimenti potrebbe degenerare

in un conflitto di ampia portata.

Per meglio comprendere il tipo di impegno a cui l’Italia potrebbe essere chiamata a far

fronte nei prossimi anni – e che quindi dovrebbe guidare lo sforzo di modernizzazione delle

Forze Armate – è opportuno soffermarsi con un minimo di attenzione sulle problematiche

84 Libro Bianco, cit., 2015. 85 Vittorio E. Parsi, L'entropia dell'ordine mediorientale e l'ascesa dell'Iran come aspirante egemone regionale, in

Elisabetta Brighi e Fabio Petito (a cura di), Il Mediterraneo nelle relazioni internazionali, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pp. 79-91.

86 Peter T. Coleman, Intractable conflict, in Morton Deutsch e Peter T. Coleman (a cura di), The Handbook of Conflict Resolution: Theory and Practice, San Francisco, Jossey Bass, 2000, pp. 428-450.

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sopra enunciate, a partire dalla tensione tra Iran-Arabia Saudita. Sul punto, vale la pena

sottolineare come entrambi gli attori giustifichino le proprie azioni – anche quelle

apparentemente più aggressive – come risposte volte a difendersi da minacce esistenziali87.

Nel caso iraniano le sfide alla sicurezza provengono da almeno due fronti: da una parte, la

presenza di movimenti terroristici e/o insurrezionali lungo gran parte dei propri confini (Iraq,

Pakistan e Afghanistan); dall’altra, l’asse Israele-Stati Uniti, le cui azioni sono interpretate

come intrinsecamente ostili. Questa duplice preoccupazione spiega tanto il tentativo

iraniano di influenzare la politica interna degli altri Stati tramite l’affinità con attori locali (si

pensi a Hezbollah in Libano e alle elite sciite in Iraq), quanto la corsa agli armamenti

missilistici e nucleari. L’influenza così guadagnata da Teheran nella regione ha acuito la

spirale d’insicurezza, rinfocolando gli attriti con Israele e Arabia Saudita. La tensione con

Riad è esplosa apertamente nel 2017, quando il principe saudita Mohammad Bin Salman

Al Sa’ud ha espressamente indicato nella Repubblica islamica una minaccia esistenziale;

Israele, dal canto suo, ha denunciato apertamente la presenza iraniana in Siria e il legame

con Hezbollah, arrivando in più occasioni ad attaccare le basi filo-iraniane in Siria e Libano.

Questo punto si collega con la seconda grande fonte di tensione nell’area: il conflitto

israelo-palestinese88. Gli ultimi sviluppi non sono confortanti: nell’estate del 2019 si sono

registrati episodi di violenza con vittime su entrambi i fronti e il pericolo di una terza intifada

non è affatto remoto. Come è noto, il processo di pace, basato sugli accordi di Oslo del

1993, è quotidianamente scalfito dal riacutizzarsi delle dispute su una miriade di questioni

(dal controverso muro in Cisgiordania alla sede dell’ambasciata americana). Da ultimo,

l’episodio più acuto si è registrato nell’estate del 2014, quando gli scontri hanno portato,

secondo le stime, a oltre 2.300 vittime89. Nel caso le tensioni sfociassero in un nuovo

conflitto di proporzioni analoghe, i delicati equilibri mediorientali – soprattutto nei termini del

coinvolgimento americano nell’area e del recente allineamento Israele-Arabia Saudita –

sarebbero seriamente minacciati.

Da ultimo, la fragilità statale continua a manifestarsi nel modo più tragico nei conflitti

in corso in Siria e Yemen. Come anticipato, entrambi hanno travalicato la definizione di

guerra civile per diventare abbastanza esplicitamente guerre per procura, dove gli attori in

campo sono diventati pedine di attori esterni: è questo in particolare il caso siriano, dove la

87 Ellie Geranmayeh, Regional Geopolitical Rivalries in the Middle East: Implications for Europe, IAI Papers, No. 18, ottobre 2018, pp. 3-4.

88 La bibliografia sul tema è sterminata. Per ragioni di spazio, in questa sede ci si limita a segnalare i seguenti volumi: Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Roma-Bari, Laterza, 2010; Neil Caplan, The Israel-Palestine Conflict: Contested Histories, Hoboken NJ, John Wiley & Sons, 2019; Massimo Campanini, Storia del Medio Oriente contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2017.

89 United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – Occupied Palestinian Terroritory, Key figures on the 2014 hostilities, 23 giugno 2015, https://www.ochaopt.org/content/key-figures-2014-hostilities.

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presenza di forze curde, filo-iraniane, russe, americane (oltre allo Stato Islamico, dal 2013

al 2015) contribuisce allo stallo negli equilibri di forza tra gli attori pro e contro il regime di

Asad. Il conflitto si è così incancrenito al punto da non mostrare alcuna prospettiva di

miglioramento negli anni a venire: nonostante la situazione sul campo rimanga fluida – con

l’uno e l’altro campo periodicamente in grado di conseguire successi tattici – lo stallo politico

impedisce di convertire la momentanea superiorità tattica in un vantaggio strategico.

Per la complessità dei problemi di sicurezza della regione, un eventuale impegno

italiano potrebbe risultare non solo costoso, ma anche estremamente rischioso. Sarà quindi

necessaria una guida politica molto oculata, che permetta un dispiegamento di forze

contenuto, con obiettivi limitati, all’interno di un contingente multinazionale.

L’Europa Orientale. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, l’Europa Centro-Orientale

è stata oggetto dell’attenzione di tutti gli Stati occidentali. Oltre alla guerra nell’ex

IUGOSLAVIA, infatti, le possibilità di conflitto per motivazioni etniche o religiose non

risparmiavano dal rischio di contagio nessuno dei Paesi precedentemente sotto l’orbita

sovietica: il mix etnico e i conflitti di interesse cristallizzati dal dominio di Mosca, infatti,

spaziavano dalle minoranze russe nelle Repubbliche Baltiche al conflitto tra Armenia e

Azerbaigian per il Nagorno Karabakh90. Tuttavia – probabilmente come risultato congiunto

del declino russo e delle politiche di allargamento della NATO e della UE – per più di venti

anni non si sono registrati altri conflitti di rilievo oltre a quello appena citato e al successivo

intervento in Kosovo nel 199991.

Se all’inizio del nuovo secolo le probabilità di conflitto apparivano drasticamente ridotte

– in fondo, dal 2004 un discreto numero di Stati ex comunisti era entrato non solo nella

NATO, manche nella UE – un primo campanello d’allarme risuonò nel 200892, con la breve

guerra tra Russia e Georgia: il conflitto, oltre a mostrare in tutta la loro evidenza i limiti della

politica di engagement degli Stati occidentali, segnalava le rinnovate ambizioni della Russia

e del suo Presidente, Vladimir Putin. In pochi anni, la consapevolezza nelle capitali

occidentali di quanto fosse importante per Mosca il proprio “estero vicino”93 è andata

90 Marek Waldenberg, Le questioni nazionali nell'Europa centro-orientale, Milano, Il Saggiatore, 1994. 91 A conferma dei timori di diffusione dei conflitti intra-statali agli inizi degli anni Novanta, si suggerisce Barry R. Posen,

The Security Dilemma and Ethnic Conflict, “Survival”, Vol. 35, No. 1, 1993, pp. 27-47. Sulla politica di impegno della NATO nell’area, principalmente tramite la Partnership for Peace, si veda James Goldgeier, Not Whether but When: The U.S. Decision to Enlarge NATO, Washington DC, Brookings Institution, 1999.

92 Ancora prima, nel 2007, ebbe luogo quella che alcuni hanno definito la prima guerra del web ai danni dell ’Estonia. Sebbene il coinvolgimento russo fosse più che probabile, gli effetti non violenti delle azioni cibernetiche perpetrate in quell’occasione giustificano l’esclusione dall’analisi qui presentata. Sul punto, si veda: Stephen Blank, Web War I: Is Europe’s First Information War a New Kind of War? “Comparative Strategy”, Vol. 27, No. 3, 2008, pp. 227-247.

93 Sull’importanza dell’estero vicino nella politica estera russa si veda Serena Giusti, La proiezione esterna della Federazione Russa, Pisa, Edizioni ETS, 2012.

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aumentando, e con essa anche l’assertività del Cremlino. Gli Stati Uniti sotto la presidenza

di Barack Obama, con la celebre “reset policy”, ne sono stati l’esempio più evidente94.

Il punto di svolta nelle relazioni con la Russia è stata la crisi con l’Ucraina in seguito

alle proteste di Piazza Maidan, culminate con l’annessione della Crimea nel marzo del 2014.

L’azione russa nei primi mesi dell’anno è stata attentamente pianificata e ha colto di

sorpresa non solo le forze ucraine, ma anche i circoli della difesa dei Paesi UE e NATO.

Per assecondare il proprio intento politico, infatti, la Russia ha fatto ricorso a risorse militari

e non militari, che spaziano dalla minaccia di tagliare le forniture di gas all’Ucraina alla

propaganda di disinformazione sulle TV locali, all’invio di soldati senza insigne (i cosiddetti

“little green men”)95. In questo modo, è stato possibile per Mosca raggiungere il proprio

obiettivo piegando la resistenza di Kiev ed evitando la reazione degli avversari occidentali.

La componente militare delle operazioni, che per i fini della nostra analisi risulta più

interessante, ben riflette l’evoluzione del warfare di cui si è parlato in precedenza96: la

condotta delle Forze Armate russe è stata ben lungi dal dispiegamento convenzionale sul

campo di battaglia. Al contrario, le capacità utilizzate sono state molto contenute rispetto a

quelle mobilitate: ad esempio, pochi giorni prima della fuga di Yanukovich da Kiev, lo Stato

Maggiore russo ordinò un’esercitazione nelle regioni centro-occidentali russe che coinvolse

circa 150.000 uomini e portò di fatto alla mobilitazione di truppe lungo il confine.

Diversamente da un conflitto tradizionale, tuttavia, questa mobilitazione non servì per

proiettare una forza soverchiante contro il nemico, ma si limitò ad una funzione logistica e

psicologica per intimorire l’avversario97. Le forze russe, insomma, lasciarono il grosso delle

operazioni in territorio ucraino agli indipendentisti. Per quanto non sia possibile che una

stima molto approssimativa degli uomini e dei mezzi effettivamente dispiegati in Ucraina, il

loro numero è stato relativamente contenuto98 e la loro efficacia circoscritta alla Crimea99.

Il conflitto in Ucraina ha avuto profonde conseguenze per la politica estera e di difesa

dei Paesi NATO: oltre a suggerire un ripensamento strategico dell’alleanza100 – a cui hanno

fatto seguito una serie di iniziative volte a garantire una capacità di difesa e deterrenza sul

94 Steven Blank, Beyond the Reset Policy: Current Dilemmas of U.S.–Russia Relations, “Comparative Strategy”, Vol. 29, No. 4, 2010, pp. 333-367.

95 Oscar Jonsson, Robert Seely, Russian Full-Spectrum Conflict: An Appraisal After Ukraine, “The Journal of Slavic Military Studies”, Vol 28, no. 1, 2015, p. 7.

96 András Rácz, Russia’s Hybrid War in Ukraine. Breaking the Enemy’s Ability to Resist, FIIA Report 43, Helsinki, The Finnish Institute of International Affairs, 2015.

97 Russia’s Actions in Ukraine, Background Paper, Tallin, International Centre for Defence Studies, 10 giugno 2014, p. 2. 98 Oscar Jonsson, Robert Seely, Russian Full-Spectrum Conflict, cit., pp. 10-11. 99 Mark Galeotti, ‘Hybrid War’ and ‘Little Green Men’: How It Works, and How It Doesn’t, in Agnieszka Pikulicka-

Wilczewska e Richard Sakwa (a cura di), Ukraine and Russia. People, Politics, Propaganda and Perspectives, Bristol, E-International Relations Publishing, 2015, pp. 151-154.

100 Wales Summit Declaration, NATO, 5 settembre 2014, https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_112964.htm.

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fianco orientale – la “strategia del salame”101 di Putin ha portato a un brusco raffreddamento

dei rapporti con i singoli membri dell’alleanza. In questo contesto, la sfida per l’Italia è

duplice: da una parte, l’interdipendenza economica e i buoni rapporti coltivati negli anni con

Mosca impongono di evitare un approccio conflittuale; dall’altra, gli obblighi nei confronti

degli alleati e la necessità di esercitare deterrenza verso il Cremlino premono affinché lo

strumento militare italiano sia preparato ad operare in contesti analoghi a quello ucraino.

1.4 Conclusioni: Un primo bilancio sulle capacità necessarie per far fronte all’attuale

contesto di sicurezza

Nelle pagine precedenti si è cercato di fornire una panoramica dei fattori di breve e

lungo periodo che incidono maggiormente sulla definizione dell’interesse nazionale italiano.

In ultima analisi, le sfide emergenti e le direttrici strategiche discusse fino a ora si combinano

in una serie di contesti in cui è probabile che le Forze Armate italiane si troveranno prima o

poi a intervenire. Per ciascuno di essi – un po’ per le diverse problematiche di sicurezza, un

po’ per il diverso ambiente geografico in cui si trovano – sarà necessario prevedere capacità

specifiche. La tabella 1 fornisce una sintesi analitica di questi contesti in relazione ai fattori

di lungo e breve periodo.

Tabella 1. Sfide emergenti e direttrici strategiche dell’interesse italiano: una sintesi

Africa e Mediterraneo Medio Oriente Europa Orient.

Transizione di

potenza Russia

Stati falliti Libia,

Somalia Siria, Yemen

Terrorismo ISIS, Al Qaeda nel

Maghreb, Al Shabab ISIS, al Qaeda

Nuove forme

del warfare Guerra civile in Libia Siraq, Libano

Guerra ibrida in

Ucraina

Per chiudere l’argomentazione è necessario interrogarsi su quali tra gli scenari di

utilizzo della forza risulteranno più probabili alla luce di queste pressioni strutturali.

E, conseguentemente, quali scelte occorrerà fare in termini capacitativi.

101 Stephen J. Cimbala, Sun Tzu and Salami Tactics? Vladimir Putin and Military Persuasion in Ukraine. 21 February–18 March 2014, “The Journal of Slavic Military Studies”, Vol. 27, No. 3, 2014, pp. 359-379.

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A tale quesito si cercherà di rispondere in modo più dettagliato nel secondo e nel terzo

capitolo, ma già da ora vale la pena anticipare alcune conclusioni generali. Se, come si era

proposto alla fine del primo paragrafo, occorre stabilire su quali fattispecie di intervento si

vuole puntare per la pianificazione della difesa, il primo criterio di scelta è data dalla

probabilità di utilizzo.

Già il modello dello spettro del conflitto suggerisce che gli scenari a minor intensità di

violenza sono quelli più probabili e frequenti. Tale assunto non si basa su una regolarità

empirica corroborata da una teoria, ma risulta induttivamente confermato dalla frequenza

dei conflitti. Per quanto concerne il caso italiano, infine, i contesti elencati nella Tabella 1

confermano che gli scenari di intervento prioritari per le Forze Armate prevedono un utilizzo

contenuto della forza (vedi Tabella 2). Seguendo questa logica, quindi, il programma di

modernizzazione delle Forze Armate italiane dovrebbe consentire l’acquisizione di capacità

adeguate in funzioni di cooperazione tecnico-umanitaria con Stati terzi, sorveglianza,

dimostrazione ed uso della forza in conflitti a bassa intensità.

Degli otto possibili teatri di conflitto, infatti, solo quelli legati al fronte orientale della

NATO prevedono la possibilità di superare la soglia della guerra. Nel caso di un intervento

in Ucraina (o in un contesto analogo), il coinvolgimento italiano avverrebbe inevitabilmente

all’interno di operazioni NATO; per quanto impegnativo e rischioso possa essere un

intervento di questo tipo, il ruolo italiano dovrebbe essere circoscritto: l’implicazione che ne

segue in termini di politica di difesa è quindi di puntare solo su alcune capacità,

specializzandosi in funzioni utili per la condotta congiunta delle operazioni. Rispetto alla

Russia, invece, l’ipotesi di un conflitto aperto è – almeno al momento – irrealistica. È però

necessaria – e in buona parte già in essere – una capacità di deterrenza affinché Mosca

non avanzi ambizioni rispetto ai membri orientali della NATO o della UE (e possibilmente

anche agli Stati nel Caucaso meridionale). Per questo, quindi, l’Italia dovrà essere preparata

a contribuire in misura anche superiore all’attuale, alle iniziative di dissuasione già in corso,

come la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF). Per tutti gli altri teatri, invece, le

modalità di intervento saranno decisamente più vicine al modello di “missione di pace” che

contraddistingue le missioni in corso.

Lasciando al terzo capitolo la discussione di quali capacità e competenze la difesa

dovrà sviluppare per far fronte a questi scenari d’intervento, si procederà nel prossimo

capitolo ad osservare quali passi sono stati intrapresi finora per adeguare le Forze Armate

al contesto contemporaneo della sicurezza.

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CAPITOLO II: IL PROCESSO DI MODERNIZZAZIONE DELLA DIFESA

ITALIANA (CIRCA 1990-2018)

2.1 Le riforme nel settore della difesa: uno sguardo d’insieme

Dal termine della Guerra fredda l’Italia ha trasformato radicalmente la propria politica

di Difesa. Lo sforzo prodotto dalle Forze Armate per adeguarsi al nuovo contesto strategico

è incontestabile: in confronto ai decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale,

i cambiamenti realizzati a partire dagli anni Novanta sono tanto profondi quanto duraturi: ne

è prova tangibile il livello di impegno militare italiano al di fuori dei confini nazionali, che è

andato crescendo sia in termini di impegni assunti, sia di capacità dispiegate. Siamo di

fronte, in altre parole, ad un “cambiamento paradigmatico”102: l’immobilismo militare della

Guerra fredda, causato dai vincoli del contesto bipolare e dalla pesante eredità del passato,

si è tramutato – dopo il crollo del Muro di Berlino – in un costante attivismo della Difesa,

attraverso decine di operazioni in aree di crisi, dal Medio Oriente ai Balcani, dall’Afghanistan

alla Libia103. Al fine di sostenere tale livello di impegno militare, che ha portato l’Italia a

schierare migliaia di soldati contemporaneamente in molteplici operazioni di peacekeeping

e aiuto umanitario, ma anche di contro insorgenza, peace-enforcement e anti pirateria, la

Difesa ha dovuto modificare dottrine, approcci, strutture e strumenti, approvando importanti

riforme nel corso degli ultimi trenta anni.

L’analisi dell’evoluzione della dottrina nazionale mette in luce gli obiettivi, le linee guida

e i concetti fondamentali che hanno segnato il lungo processo di trasformazione della Difesa

italiana nel post-Guerra Fredda. Se il dinamismo militare oltre confine ha caratterizzato da

subito (si pensi alle operazioni Desert Shield e Desert Storm, 1990-1991) la rinnovata

attitudine nazionale a presentarsi come security provider, invece che come security

consumer104, il percorso di riforma della Difesa è stato molto più lento e complicato, segnato

da una logica sostanzialmente incrementale105. Le innovazioni rilevanti non sono mancate

dal punto di vista legislativo (sospensione della leva) ed organizzativo (ristrutturazione dei

102 Peter A. Hall, Policy Paradigms, Social Learning, and the State: The Case of Economic Policymaking in Britain, “Comparative Politics”, Vol. 25, No. 3, 1993, pp. 275-296.

103 Piero Ignazi, Giampiero Giacomello, Fabrizio Coticchia, Italian military operations abroad, cit.; Fabrizio Coticchia e Francesco Moro, The Transformation of Italian Armed Forces, Abingdon, Ashgate, 2015; Andrea Carati e Andrea Locatelli, Cui Prodest? Italy’s Questionable Involvement in Multilateral Military Operations amid Ethical Concerns and National Interest, “International Peacekeeping”, Vol. 24, No. 1, 2017, pp. 86-107; Fabrizio Coticchia, Italy, in Hugo Mayer e Marco Weiss (a cura di), The Handbook of European Armed Forces, Oxford: Oxford University Press, 2018, pp. 109-124.

104 Vittorio E. Parsi (a cura di), Che differenza può fare un giorno. Guerra, pace e sicurezza dopo l'11 settembre, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Giampiero Giacomello e Bertjan Verbeek (a cura di), Italy’s Foreign Policy in the 21st Century: The New Assertiveness of an Aspiring Middle Power? Lanham MD, Lexington, 2011; James Walston, The Shift in Italy's Euro-Atlantic Policy. Partisan or Bipartisan?, “The International Spectator”, Vol. 39, No. 4, 2004, pp. 115-125.

105 Charles E. Lindblom, Still Muddling, Not Yet Through, “Public Administration Review”, Vol. 39, No. 6, 1979, pp. 517-526; Fabrizio Coticchia, Andrea Locatelli, Francesco Moro, External Pressures and the Logic of “Muddling Through”, cit..

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vertici militari), in un contesto caratterizzato da un sostanziale approccio bipartisan alla

Difesa106. Al contempo, però, a fronte di una radicale cambio di regime107 nell’utilizzo delle

forze armate, la concreta realizzazione del Nuovo Modello di Difesa si è rivelata

particolarmente tortuosa, con ritardi e – alcune – considerevoli difficoltà di implementazione.

Per comprendere più in dettaglio l’evoluzione di tale percorso occorre partire proprio

dall’elaborazione del “Nuovo Modello di Difesa”, disegnato dall’omonimo documento

strategico del 1991108, successivo proprio al coinvolgimento militare italiano in Iraq nello

stesso anno. Il primo obiettivo stabilito dal Nuovo Modello di Difesa era il passaggio al

modello professionale, volto al superamento della leva e al supporto dei nuovi impegni delle

Forze Armate in missioni all’estero. In linea con quanto avvenuto in buona parte dei Paesi

europei109, anche l’Italia (con la legge n. 226 del 2004, concretizzatesi poi nel 2005)

sospendeva un modello basato sulla coscrizione, avviando la professionalizzazione già

negli anni Novanta (leggi 549 e 226) con un sistema misto leva-volontari.

Vanno riconosciuti diversi aspetti innovativi riguardanti il personale del Nuovo Modello.

Di questi, almeno due costituiscono un indiscusso successo: il primo attiene all’ingresso

delle donne nelle Forze Armate (1999) e al nuovo rango dei Carabinieri come quarta Forza

Armata (2000). Il secondo aspetto-chiave evidenziato dal documento come base operativa

del Nuovo Modello concerne la rapida capacità di proiezione esterna, fondata sulla mobilità

degli assetti, terrestri, navali e marittimi. La costante presenza delle Forze Armate italiane

in molteplici scenari strategici, anche a lunga distanza dal territorio nazionale, illustra

(evidente soprattutto in missioni quali quelle in Libia, Afghanistan e Libano), il

raggiungimento di tali obiettivi.

Se questi due elementi trovano effettiva e concreta attuazione sul piano pratico, lo

stesso non si può affermare per un terzo aspetto-chiave messo in luce dal documento del

1991: l’interoperabilità delle Forze Armate. Tale obiettivo era già presente nel Libro Bianco

del 1985110, al fine di integrare Marina, Esercito ed Aeronautica, migliorando efficacia ed

efficienza dello strumento militare italiano. Un momento importante nel processo di

“interforzizzazione”, ed in generale nella “riorganizzazione” della Difesa italiana, è senza

dubbio la cosiddetta riforma Andreatta (L. 25/1997). La riforma, in ottica di razionalizzazione

del Ministero e delle Forze Armate, era volta a favorire una più chiara identificazione delle

106 Piero Ignazi, Giampiero Giacomello, Fabrizio Coticchia, Italian military operations abroad, cit.; Fabrizio Coticchia, Valerio Vignoli, Italian Political Parties and Military Operations. An empirical Analysis on Voting Patterns, “Government and Opposition”, 2019, in corso di stampa.

107 Carter A. Wilson, Policy Regimes and Policy Change, “Journal of Public Policy”, Vol. 20, No. 3, 2000, pp. 247-274. 108 Ministero della Difesa, Modello di Difesa. Lineamenti di Sviluppo delle FF.AA negli anni ’90. Roma, Stato Maggiore

della Difesa, 1991. 109 Franz Kernic, Karl Haltiner e Paul Klein (a cura di), The European Armed Forces in Transition, Frankfurt, Lang, 2005. 110 Ministero della Difesa, Libro Bianco della Difesa, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 1985.

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competenze fra il Ministro e i due organi fondamentali di supporto, il Capo di Stato Maggiore

(CSMD) e la Direzione Nazionale Armamenti (DNA). Il rafforzamento del ruolo del Capo di

Stato Maggiore e delle sue attribuzioni – che rappresentava il fulcro della legge 25/1997 –

avviava finalmente il citato processo di interforzizzazione. Con questo obiettivo fu inoltre

creato il Comando Operativo di Vertice Interforze (COI), che è andato a costituire il quadro

in cui sono state gestite le operazioni militari, sempre più caratterizzate da una dimensione

“joint”. Il periodo segue le prime esperienze nei Balcani e quasi coincide con l’intervento in

Albania. Le attività del COI sono centrali per incrementare l’interoperabilità delle forze,

poiché non si limitano alla conduzione delle operazioni, ma includono l'emissione di direttive

sulle lezioni apprese.

Nonostante tali passi avanti, il processo di interforzizzazione risulta ancora

effettivamente da compiersi, in parte anche per via delle resistenze interne che permangono

ancora molti forti. Il fatto che dopo trent’anni il più recente Libro Bianco111 si ponga, in

sostanza, obiettivi analoghi a quelli dei documenti strategici precedenti ben illustra la

difficoltà ad aumentare il livello di reale sinergia tra le Forze Armate (a livello di

organizzazione, logistica integrata, avanzamento delle carriere). Sebbene le missioni

internazionali (ed in particolare l’operazione pluriennale in Afghanistan) abbiano senza

dubbio favorito un processo di considerevole interoperabilità con gli alleati – sul campo e

all’interno delle strutture multilaterali come la NATO112 – sul piano interno, l’approccio

interforze fin qui realizzato (a livello di addestramento e di lezioni apprese) appare lontano

dagli obiettivi auspicati con l’elaborazione del Nuovo Modello di Difesa, come testimoniato

dalla persistenza di significative duplicazioni e ridondanze113.

Anche in relazione al quarto aspetto-chiave del Nuovo Modello di Difesa, occorre

osservare un certo grado di (comprensibile) difficoltà nella successiva fase di

implementazione. Il documento strategico del 1991 evidenziava l’impellente necessità di

un’ampia “ristrutturazione organizzativa” delle Forze Armate, segnata da una riduzione

quantitativa ed un maggiore equilibrio nelle componenti (sia a livello di personale che a

livello del tipo di spese tra le varie voci del bilancio della difesa). Come si avrà modo di

vedere in maggior dettaglio nelle sezioni successive, le Forze Armate italiane si sono ridotte

111 Libro Bianco, cit., 2015. 112 Fabrizio Coticchia e Francesco Moro, The Transformation of Italian Armed Forces, cit.; Fabrizio Coticchia e

Francesco Moro, Learning From Others? Emulation and Change in the Italian Armed Forces Since 2001, “Armed Forces & Society”, Vol. 42, No. 4, 2016, pp. 696-718.

113 Andrea Gilli, Alessandro Ungaro e Alessandro Marrone, The Italian White Paper for International Security and Defence, “RUSI Journal”, Vol. 160, No. 6, 2015, pp.34-41.

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dall’inizio degli anni Novanta, fino a stabilire obiettivi numerici complessivi quali 230.000,

190.000 e, infine, 150.000 unità (quest’ultimo livello ancora da raggiungere)114.

Certamente, la trasformazione di forze (perlopiù) stanziali e di leva, non poteva essere

rapida ed agevole, poiché avrebbe incontrato come minimo alti ostacoli politici e finanziari.

Ad ogni modo, dopo oltre vent’anni dall’avvio di questo processo di riforma, il risultato è solo

parzialmente soddisfacente: infatti, se da una parte la riduzione degli effettivi e la capacità

delle forze di operare in contesti operativi altamente complessi dimostra una positiva

evoluzione nel processo di cambiamento organizzativo, l’auspicata ristrutturazione delle

forze in senso piramidale (ampia truppa e numero più limitato di comandanti) non è avvenuto

nei tempi e nei modi previsti. Il legislatore è dovuto intervenire più volte per riformare e

sollecitare la suddetta trasformazione, al fine di migliorare efficacia, efficienza ma soprattutto

sostenibilità dello strumento militare115.

In relazione a tali sforzi, un punto di snodo centrale all’interno di tale processo è

costituito dalla L. 244/2012 (c.d. riforma Di Paola), che fu introdotta in una fase di

contrazione generale della spesa pubblica a seguito della crisi finanziaria ed economica

iniziata nel 2008 all’interno del processo di “spending review”. La legge – seppur

chiaramente improntata anche in un’ottica di gestione dell’emergenza dei conti pubblici –

aveva come macro-obiettivi la ristrutturazione dell’allocazione delle risorse finanziarie, degli

assetti organizzativi e del personale (vedi infra, pp. 53ss). Questa previsione normativa

ambiva a risolvere un problema che si era acuito nei precedenti esercizi finanziari: l’aumento

delle spese per il personale era salito da circa il 50% a due terzi della spesa complessiva

per il settore difesa, riducendo le risorse destinate alle altre due voci116.

Per concludere lo sguardo di insieme sui processi di modernizzazione della Difesa,

l’analisi del più recente Documento Programmatico pluriennale della Difesa che il Ministero

ha prodotto per il triennio 2019-2021117 fornisce alcune indicazioni sulle misure che

dovrebbero riguardare la Difesa nel futuro prossimo, con riferimento alle intenzioni del

governo di coalizione formatosi dopo le elezioni legislative del 2018118. Si possono

identificare alcune direttrici fondamentali nel documento, in una linea di sostanziale

114 Fabrizio Coticchia, Italy, cit. 115 Alessandro Marrone e Vincenzo Camporini, La politica di sicurezza e difesa, in Ettore Greco e Natalino Ronzitti (a

cura di), Rapporto sulla politica estera italiana: il governo Renzi. Edizione 2016, Roma, Nuova Cultura, 2016, Quaderni IAI n. 17, p. 50.

116 Alessandro Marrone, Olivier De France e Daniele Fattibene, Defence Budgets and Cooperation in Europe: Developments, Trends and Drivers, Roma, IAI, 2016.

117 Ministero della Difesa, Documento Programmatico pluriennale (D.P.P.) della Difesa, Roma, 2019. 118 Alessandro Chiaramonte, Vincenzo Emanuele, Nicola Maggini e Aldo Paparo, Populist Success in a Hung

Parliament: The 2018 General Election in Italy, “South European Society and Politics, Vol. 23, No. 4, 2018, pp. 479-501; Diego Garzia, The Italian Election of 2018 and the First Populist Government of Western Europe, “West European Politics”, Vol 42, No. 3, 2019, pp. 670-680.

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continuità con la pianificazione precedente. Un ruolo crescente, negli ultimi anni, è stato

assegnato alla dimensione cyber, con l’idea che la Difesa possa contribuire in maniera

decisiva non solo come capacità di protezione dagli attacchi dei propri assetti, ma anche di

alcune infrastrutture critiche. Un ulteriore elemento di novità consiste nell’insistenza sul dual-

use a diversi livelli. Questo si applicherebbe sia alle strutture e alle capacità di Comando,

Controllo e Comunicazione (C3), che potrebbero essere usate sia nella gestione di

operazioni joint, in funzioni che prevedono il ricorso a attività inter-agenzia (ad esempio

interministeriali) con il fine di “assicurare resilienza”, sia – in ambito operativo – a quegli

assetti che possono effettivamente compiere funzioni multiple di difesa e controllo del

territorio (come gli Unmanned Aerial Systems, UAS). Le linee di fondo che si possono

rintracciare descrivendo il quadro generale sono sostanzialmente le seguenti:

a livello generale, nonostante le numerose indicazioni verso il riequilibrio, la ripartizione

della spesa rimane largamente orientata verso il personale, a scapito di operatività e

investimenti. Alcuni correttivi (come interventi di altri dicasteri per specifiche voci di

spesa), per quanto di rilievo, non compensano questo squilibrio strutturale. I fondi ad hoc

per le missioni, che in anni di crisi finanziaria hanno svolto un ruolo cruciale nel sostenere

le attività addestrative e le esigenze d’armamento delle forze impiegate all’estero, non

possono certo colmare tale permanente squilibrio119.

In ambito di procurement, le Forze Armate sono riuscite a procedere

all’ammodernamento di alcuni assetti fondamentali, tuttavia le risorse relativamente

scarse e la necessità di allocare la spesa su alcuni grandi programmi di acquisizione

hanno limitato lo spazio di manovra e di investimento in alcuni settori “nuovi” (come il

cyber)120.

Dal punto di vista della componente umana, il processo di professionalizzazione è

avanzato speditamente, con una ristrutturazione in larga parte coerente con il disegno

delle policy intraprese negli anni. La trasformazione dottrinale, anche in virtù delle estese

esperienze innovative, è allineata con quella di altri Paesi alleati, con specificità in alcuni

ambiti. Rimangono alcuni nodi, come la bassa percentuale effettivamente capace di

operare in teatri esteri rispetto al totale delle truppe: anche qui, le risorse scarse

sembrano essere un fattore determinante121.

Con riferimento alla trasformazione organizzativa, infine, permangono i citati ostacoli

“interni” alla realizzazione effettiva del processo di interforzizzazione. Anche alla luce di

119 Fabrizio Coticchia e Francesco N. Moro, Transforming the Italian Armed Forces, “The International Spectator”, Vol.49, No. 1, 2014, pp. 133-148.

120 Ibidem. 121 Carlo Bellinzona, Le nozze coi fichi secchi, “Limes”, 3, 2007, pp. 107-114.

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ciò, occorre un’analisi approfondita per valutare l’effettivo processo di modernizzazione della

difesa e le reali esigenze future.

Le sezioni che seguono descrivono più in dettaglio i processi di trasformazione, con

riferimento all’acquisizione degli assetti (procurement), alla componente umana e dottrinale

e alle strutture organizzative, muovendo dal disegno delle policy alla loro implementazione

e identificando brevemente elementi di successo e di criticità.

2.2 La modernizzazione delle capacità: la dimensione del procurement

Secondo molti osservatori, il cambiamento tecnologico è stato il principale fattore di

trasformazione militare occorsa negli ultimi decenni. Il dibattito iniziato negli anni ’90 sulla

Rivoluzione degli Affari Militari (RMA) è continuato negli ultimi anni con una crescente

attenzione a come la capacità di sfruttare pienamente i mutamenti tecnologici sia

strettamente connessa con l’efficacia nell’impiego delle Forze Armate122. Tali trasformazioni

hanno avuto anche in Italia un impatto importante sul processo di investimento e

acquisizione degli assetti. Come notato sopra, la spesa per investimenti all’interno del

bilancio della Difesa è stata spesso compressa dalle spese per il personale, un trend di

lungo periodo continuato (e in alcune fasi acuitosi) negli anni 2000. In parte, tuttavia, la

riduzione in termini percentuali e assoluti della spesa per investimenti è stata compensata

dall’intervento, in alcuni grandi progetti, del Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) e,

per le missioni internazionali, del Ministero dell’Economia e Finanze (MEF). Il MiSE, ad

esempio, ha contribuito in maniera rilevante al finanziamento della costruzione della

portaerei Cavour e nel 2017 ha contribuito per 1,7 miliardi alle spese per la difesa. Il MEF

nello stesso anno ha contribuito per circa 1 miliardo, attraverso un fondo ad hoc regolato

con la L. 145/2016123.

In linea generale, è opportuno notare come la spesa relativa per investimenti tesi

all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti sia caratterizzata in genere da una lunga

durata, accompagnata a un elevata rigidità. Questa è legata a diversi fattori e ha importanti

122 Si vedano per un approfondimento Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit.; Michael C. Horowitz, The Diffusion of Military Power: Causes and Consequences for International Politics. Princeton NJ, Princeton University Press, 2010.

123 Per quanto riguarda i dati e i riferimenti legislativi si rimanda al documento elaborato dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato della Repubblica, Professione: difesa. Le Forze armate italiane alla prova del modello professionale, Documento di analisi n. 19, sul sito: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01069543.pdf. Per un’analisi delle voci di spesa e della loro evoluzione, si veda Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, The Transformation of Italian Armed Forces, cit., pp. 43-44 in particolare.

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conseguenze, specificamente (ma non esclusivamente) nel caso italiano124.

Ad esempio – e la lista non è esaustiva – la necessità di programmare nel lungo periodo, la

lunga vita operativa di molti assetti (e in particolare di quelli più costosi), gli elevati costi di

ricerca e sviluppo, la presenza di partnership internazionali per molti progetti e la necessità

di garantire un elevato livello di interoperabilità con gli alleati rendono i grandi programmi di

acquisizione difficilmente modificabili nel tempo, se non a costi molto elevati. Certamente,

negli ultimi 30 anni, i decisori politici e militari nazionali hanno tentato di trovare un equilibrio

fra la necessità di costruire progetti su scala europea e transatlantica, mantenere una solida

base industriale nazionale nel settore difesa, e un pool di risorse relativamente scarse.

Le spese per i programmi più importanti assorbono una percentuale rilevante del

budget della Difesa. Secondo un’analisi recente, in diversi anni un numero esiguo di

programmi tende a monopolizzare l’intera spesa per investimenti125. Questo è vero in

particolare per la Marina Militare e l’Aeronautica Militare, le due Forze Armate a più alta

intensità di investimento. Negli ultimi anni, l’investimento per l’acquisizione di nuovi

equipaggiamenti ha visto un aumento delle risorse destinate a progetti “interforze”:

Specificamente, i programmi principali sono stati i seguenti:

- Elicottero NH-90 (Esercito e Marina)

- Eurofighter Typhoon (Aeronautica)

- Joint Strike Fighter – F35 (Interforze, in uso ad Aeronautica e Marina)

- Sottomarino U-212 (Marina)

- Portaerei Cavour (Marina)

- Fregate Classe Orizzonte (Marina)

- Satelliti Sicral e Cosmo-Skymed (Interforze)

Questa lista, puramente esemplificativa, mostra come le esigenze di

ammodernamento delle Forze Armate siano solo parzialmente in linea con le esigenze

operative più immediate. Gli elicotteri NH-90, o i veicoli VTLM Lince (un altro programma

dell’esercito) sono stati impiegati in Afghanistan con successo, e gli Eurofighter (invero con

modifiche importanti rispetto al disegno originale) sono stati impiegati in Libia nel 2011, ma

inevitabilmente la necessità di predisporre una struttura delle forze capace di affrontare una

pluralità di sfide – anche di natura convenzionale – richiede un ampio investimento oggi per

esigenze operative future.

124 Andrea Locatelli, Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), Rapporto di Ricerca STEPI-AE-SA-08, 2011, pp. 47-54.

125 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, The Transformation of Italian Armed Forces, cit., p. 45.

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Gli esempi dei problemi insorti sono di diversi tipi. In molti casi, un problema è stato

legato al continuo riadeguamento della previsione di spesa destinata a determinati

programmi, come nel caso del Joint Strike Fighter F-35126. In altri casi, la rilevanza data nei

documenti strategici ad alcuni temi non è stata accompagnata da un’allocazione di fondi

sufficiente a finanziare i programmi collegati. L’esempio più lampante è quello della spesa

nell’ambito cyber: riconosciuto come un settore centrale per la sicurezza nazionale a molti

livelli, il finanziamento rimane tuttora molto limitato, sia in termini assoluti che in prospettiva

comparata. Per quanto sia difficile stabilire con precisione l’ammontare delle risorse

destinate al comparto cyber (proprio per la sua natura),127 è difficile pensare che il milione

di euro l’anno previsto per il periodo 2019-2021 possa costituire il volano in questo settore

(la Francia ha previsto un investimento per lo stesso settore di 1,6 miliardi di euro in 6

anni)128. Limiti di bilancio si sono riscontrati anche in settori più tradizionali: da molte parti si

è manifestata l’esigenza di investimenti in capacità di trasporto aereo, in particolare con

riferimento al trasporto pesante, che tuttavia non hanno dato origine a programmi

significativi, creando talvolta la necessità di ricorrere a soluzioni in outsourcing per una

funzione essenziale. In altri casi, si sono registrati successi legati alla capacità di sviluppare

sinergie internazionali nella fase di realizzazione dei programmi (come nel caso

dell’elicottero NH-90) o per la performance operativa di alcuni assetti che ne hanno favorito

l’esportazione in altri Paesi (il caso del VTLM Lince)129.

2.3 La modernizzazione delle competenze: la componente umana e dottrinale

2.3.1 L’evoluzione della componente umana: il modello professionale

La dimensione umana della modernizzazione della Difesa italiana è legata a doppio

filo alle più ampie trasformazioni occorse nella struttura delle forze per rispondere alle nuove

esigenze sorte con la fine della Guerra Fredda. Il quadro complessivo, in linea a quanto

affermato nella precedente sezione, può essere descritto da due fondamentali parametri,

legati alla quantità e alla qualità delle forze.

Da un lato, a livello quantitativo, si è assistito ad una riduzione drastica del personale

al quale si è accompagnato, in seguito alla L. 331/2000, l’introduzione del modello c.d.

126 Alessandro Marrone, Italy and F-35. Rationales and Costs, “International Journal”, Vol. 68, No.1, 2013, pp. 31-48. 127 Si veda a tal proposito la breve ma convincente analisi di Pietro Batacchi, Difesa, investimenti e cyber-resilienza,

ISPI Commentary, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/difesa-investimenti-e-cyber-resilienza-21592, in Fabio Rugge e Samuele Dominioni (a cura di), Investire in Cybersecurity: una priorità di sicurezza nazionale, Dossier ISPI, 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/investire-cybersecurity-una-priorita-di-sicurezza-nazionale-21591.

128 Fonte dei dati: Giovanni Martinelli, Il Bilancio Difesa 2019, “Analisi Difesa”, 25 febbraio 2019, https://www.analisidifesa.it/2019/02/il-bilancio-difesa-2019/.

129 Claudio Bigatti, Il Lince trionfa in Brasile, “Armi e Tiro”, 21 Aprile 2016.

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professionale con la sospensione della leva. Il passaggio, seppur per gradi, è stato radicale:

verso la metà degli anni ’80 il personale delle Forze Armate consisteva in 350.000 unità130;

nel momento dell’approvazione della legge summenzionata a oltre 250.000 (con oltre il 40

percento composto da militari di leva); l’obiettivo della L. 331 fissava per il 2021 una

riduzione a 190.000 unità, un valore raggiunto già nel biennio 2005-2006; la già citata L.

244/2012, infine, introduceva un’ulteriore contrazione del personale delle Forze Armate da

190.000 a 150.000, con una parallela riduzione delle dotazioni organiche del personale

dirigente (Colonnelli e Generali) e un taglio del personale civile da 30.000 a 20.000 unità,

da raggiungersi entro il 2024131.

Dall’altro, a livello qualitativo, il personale così ridotto negli organici ha dovuto

confrontarsi con un numero crescente di sfide, anche dal punto di vista dell’eterogeneità.

La logica sottostante al nuovo modello di forze professionali delineato dal Nuovo Modello di

Difesa del 1991 era già legata – anche alla luce delle importanti esperienze di impiego degli

anni ’90 (dal Medio Oriente ai Balcani) – alla ristrutturazione del personale sulla via di una

maggiore propensione al deployment, con un investimento sulla capacità operativa e

sull’effettiva possibilità di un uso estensivo delle Forze Armate in teatri diversi per area

geografica, intensità del conflitto, e tipo di operazione. La sospensione della leva, oltre che

rispondere a esigenze di mutamento sociale nel Paese, si configurava anche come misura

tesa ad un ri-orientamento sul lato della capacità operativa: ridotte le risorse complessive,

sarebbe stato possibile dedicare maggiori attenzioni e finanziamenti alla formazione e

all’addestramento di una forza professionale132.

Con riferimento al successo delle misure di riduzione quantitativa e ristrutturazione

qualitativa, si può notare come, nonostante le difficoltà e la complessità del processo, le

misure implementative siano riuscite a raggiungere gli obiettivi previsti di volta in volta nel

tempo. A livello complessivo, tuttavia, la riduzione degli effettivi non si è accompagnata ad

una riduzione della spesa del personale in percentuale rispetto al budget complessivo

allocato alla funzione difesa, disattendendo così le previsioni della riforma Di Paola del 2012.

Anzi, negli ultimi anni la percentuale del bilancio della difesa dedicata al personale ha

raggiunto nuovi picchi, fino al 70%133. Il tentativo di compressione dei costi complessivi del

personale – in una situazione di decrescita o di aumento marginale della spesa alla funzione

130 Per i dati, si veda Ufficio Valutazione Impatto del Senato della Repubblica, Professione: difesa, cit. 131 La riforma Di Paola stabiliva inoltre altri due obiettivi rilevanti per i nostri fini: una contrazione in sei anni di almeno il

30% delle strutture (operative, logistiche, territoriali, ecc.) della Difesa; dal punto di vista del riequilibrio del Bilancio della Funzione Difesa, la legge ancorava la previsione di spesa futura ad una ripartizione equilibrata fra i tre settori, con il 50% del budget allocato al personale, il 25% all’esercizio e il 25% agli investimenti.

132 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, The Transformation of Italian Armed Forces, cit. 133 Pietro Batacchi, Bilancio Difesa 2019. La spesa per il Personale continua a schiacciare Esercizio ed Investimento,

“Rivista Italiana Difesa”, 25 gennaio 2019.

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difesa – si è incrinato a fronte di rinnovi contrattuali e programma di riordino delle carriere

avvenuti nel 2018134.

Anche il percorso della trasformazione qualitativa si è rivelato di difficile attuazione.

La maggiore operatività delle forze – seppure reale – è comunque limitata: un’analisi del

2007 identificava in 30.000 (su 190.000) le unità di personale effettivamente impiegabili in

missioni all’estero135. Questo, come è stato notato anche in diverse Note integrative al

Bilancio della difesa nel corso degli anni, ha avuto un effetto ulteriore: le risorse si sono

notevolmente concentrate sulle forze effettivamente impiegate a detrimento del resto delle

strutture. La nota del 2008 paventava il rischio di “insolvenza organizzativa”, con output

operativi “attestati su livelli appena sufficienti”136. La ristrutturazione dell’organico delle

Forze Armate pare qui incontrare un ostacolo legato alla necessità di bilanciare l’allocazione

di risorse scarse fra spese per il personale e spese per garantire al personale un percorso

di formazione, addestramento e altre esperienze tali da garantire una più diffusa

propensione all’impiego in teatro così come il rafforzamento delle competenze negli uffici

centrali e periferici sul territorio nazionale137.

2.3.2 Componente umana, dottrina e apprendimento

A fronte di un mutato contesto internazionale, del conseguente cambiamento dei

contesti operativi in cui l’Italia si è trovata e si troverà ad operare e di riforme che hanno

consistentemente ridisegnato l’assetto complessivo delle Forze Armate, un elemento

centrale della componente qualitativa della trasformazione consiste nei cambiamenti occorsi

in ambito dottrinale. Una forza moderna è certamente il frutto di cambiamenti in materia di

personale, ma le dottrine d’impiego delle forze sono un elemento moltiplicatore e di

efficientamento dell’azione del personale. Due dimensioni sono di particolare rilevanza: il

cambiamento dottrinale e il cambiamento organizzativo legato al sistema delle lezioni

apprese, che garantisce un efficace processo di feedback fra dottrina ed esperienze sul

campo.

Con riferimento alla dottrina, come in parte anticipato dalla sezione precedente, il

processo di trasformazione ormai trentennale ha riguardato la creazione di un corpus che

134 Si veda in proposito Giovanni Martinelli, Il Bilancio Difesa 2019, cit. 135 Si veda in proposito Carlo Bellinzona, Le nozze coi fichi secchi, cit. 136 Ministero della Difesa, Nota preliminare relativa allo stato di previsione della spesa per l’e.f. 2008, Roma, 7 gennaio

2008, p. 8, https://www.difesa.it/Amministrazionetrasparente/SMD/Documents/Note%20Integrative/Nota_preliminare_SPS_2008.pdf.

137 Fabrizio Coticchia, La Politica di Difesa, in Gilberto Capano e Alessandro Natalini (a cura di), Le politiche pubbliche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2019, in corso di stampa.

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fosse in linea con le esigenze “expeditionary”, di impiego delle forze in teatri operativi diversi

da quelli pensati come centrali durante la Guerra fredda. Si tratta di un processo

trasformativo ampio e sempre in fieri. Da un lato, infatti, l’emergere di nuove sfide e esigenze

operative non cancella di colpo la necessità di pianificare per un insieme più vasto di scenari

in cui la difesa del territorio e gli strumenti tipici della guerra convenzionale rappresentano

rispettivamente obiettivi e mezzi importanti138.

Questo è tanto più vero nel contesto attuale in cui l’Italia si trova ad operare (vedi

supra, par. 1.2), in cui l’Alleanza Atlantica si trova a fronteggiare un insieme eterogeneo di

sfide e in cui il “risorgere” di potenze tradizionali (in primo luogo la Russia) ha riportato alla

ribalta la necessità di uno strumento militare che vada oltre la capacità di intervento in

contesti caratterizzati da asimmetrie di risorse a molti livelli. Dall’altro lato, proprio la

partecipazione dell’Italia alla NATO ha importanti effetti dottrinali. Come è stato notato139,

sia problemi di limitazione di risorse sia necessità di coordinamento fra alleati fanno sì che

le dottrine nazionali siano molto legate – quando non direttamente derivate – da quelle

dell’Alleanza (il cosiddetto processo di “download”). Questo fa sì che i cambiamenti siano

frequenti e si articolino sui diversi ambiti (ad esempio navale, aereo, terrestre, ovviamente

joint e sempre più cyber) nonché su specifiche modalità di intervento (si pensi allo sviluppo

del “comprehensive approach”) 140.

In relazione al processo di modernizzazione dottrinale, altri due aspetti meritano di

essere approfonditi. In primo luogo, il “nuovo ruolo”141 acquisito dalla Difesa attraverso la

sua proiezione esterna ha favorito sia l’emergere di un approccio condiviso dalle Forze

Armate nella fase di impiego, che una parallela riflessione strategica (evidente

nell’elaborazione dottrinale) su tale “modalità” nazionale di intervento. In sintesi, ed in linea

con l’evoluzione della dottrina militare occidentale142, un approccio “multidimensionale” alla

sicurezza ha caratterizzato l’intero percorso di analisi strategica nel contesto post-bipolare.

Una visione che ha interpretato, da un lato, crisi e minacce e, dall’altro, le modalità di

risposta, cercando di superare la mera logica militare del confronto con attori statuali e Forze

138 Alessandro Marrone, Quale strategia Nato per il fianco sud? in Valerio Briani (a cura di), Focus euro-atlantico n. 2, Roma, Senato della Repubblica, Osservatorio di politica internazionale, dicembre 2016, pp. 30-34.

139 Si veda in proposito David P. Auerswald e Stephen M. Saideman, NATO in Afghanistan: Fighting Together, Fighting Alone, Princeton NJ, Princeton University Press, 2014.

140 NATO, Allied Joint Publication (AJP)-01 Edition E, Version 1, ALLIED JOINT DOCTRINE, 28 febbraio 2017: https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/602225/doctrine_nato_allied_joint_doctrine_ajp_01.pdf.

141 Secondo la definizione del documento strategico: Ministero della Difesa, Nuove Forze per un Nuovo Secolo, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2001.

142 Si veda, a titolo esemplificativo: Barry Buzan, Lene Hansen, The Evolution of International Security Studies. New York, Cambridge University Press, 2009.

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Armate regolari. Tale approccio, analizzato criticamente dalla letteratura143 consente di

comprendere il processo di sviluppo delle componenti-chiave che hanno segnato il

deployment (e soprattutto l’employment) italiano nel contesto internazionale degli ultimi tre

decenni, quali la cooperazione civile-militare (CIMIC) e il focus su ricostruzione e institution

building, addestramento di forze di polizia e di sicurezza, e “diplomazia militare”144.

Il secondo aspetto rilevante dell’evoluzione dottrinale nazionale è la costante ed

assoluta rilevanza della dimensione multilaterale. Il Libro Bianco del 2002, per esempio,

ribadisce la centralità di UE e NATO per la Difesa italiana, sottolineando come una delle

missioni stesse delle Forze Armate sia proprio la “salvaguardia degli spazi euro-atlantici, nel

quadro degli interessi strategici e/o vitali del Paese, attraverso il contributo alla difesa

collettiva della NATO”145. Anche il documento strategico Investire in Sicurezza del 2005146

ribadisce la centralità dei framework multilaterali, anche per la stessa riflessione strategica.

Una centralità che il coinvolgimento in operazioni complesse in teatri come l’Afghanistan

amplieranno notevolmente.

Per quanto riguarda l’evoluzione del sistema di apprendimento da parte delle Forze

Armate, è opportuno notare come la costruzione stessa di questo sistema sia – almeno nella

forma attuale – una sostanziale novità. Più ancora di altri elementi legati alla dottrina, è stata

l’esperienza operativa a fornire l’impulso per delle importanti modifiche di carattere

organizzativo, con l’istituzione di strutture dedicate a gestire il percorso integrato delle lezioni

apprese. Il Centro Innovazione Difesa (CID) è in questo senso il fulcro del processo, in

quanto mette il sistema di lezioni apprese al centro dell’elaborazione dottrinale a livello

interforze. Il CID – fondato nel 2009 e inquadrato nel III Reparto dello Stato Maggiore Difesa

– provvede infatti alla definizione dei concetti centrali nella pianificazione della difesa, alla

loro sperimentazione, alla definizione della dottrina a livello joint e interservice e provvede,

infine, a definire i lineamenti di policy per l’addestramento interforze e per il ciclo delle c.d.

lezioni apprese e lezioni identificate (LL/LId)147.

In quest’ultimo ambito, l’Esercito ha poi attivato iniziative ad hoc. La creazione del

Comando per la Formazione, Specializzazione e la Dottrina dell’Esercito (COMFORDOT),

del Dipartimento per la Trasformazione Terrestre (DTT) e la riorganizzazione del Centro

Simulazione e Validazione dell’Esercito (CE.SI.VA.) mostrano una particolare attenzione

143 Fabio Mini, Soldati, Roma, Einaudi, 2008; Piero Ignazi, Giampiero Giacomello, Fabrizio Coticchia, Italian military operations abroad, cit.; Fabrizio Coticchia, Qualcosa è cambiato? L'evoluzione della politica di difesa italiana dall'Iraq alla Libia (1991-2011), Pisa, Pisa University Press, 2013.

144 Ministero della Difesa, Nuove Forze per un Nuovo Secolo, cit. 145 Ministero della Difesa, Il Libro Bianco della Difesa, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2001, p. 16. 146 Ministero della Difesa, Investire in Sicurezza, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2001. 147 https://www.difesa.it/SMD_/Staff/Reparti/III/CID/Pagine/Cosafacciamo.aspx.

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alla costruzione di un legame fra esperienza operativa, elaborazione dottrinale e

addestramento148.

A questo si affianca il riconoscimento della centralità del cambiamento tecnologico

nell’influenzare la trasformazione delle forze. Il DTT ha il compito di “coordinare ed

indirizzare il processo di ammodernamento dello Strumento Militare Terrestre con un

approccio olistico”149. Come notato in uno studio di Nones e Marrone, questo è strettamente

connesso con l’emergere della c.d. Forza NEC (Network Enabled Capability), resa possibile

dalle trasformazioni nell’ambito delle ICT (Information and Communication Technologies).

Per quanto funzionalmente inquadrato nello Stato Maggiore dell’Esercito, le attività del DTT

con riferimento al programma NEC sono partecipate anche da rappresentanti degli altri Stati

Maggiori150. Anche le altre forze, ovviamente, hanno rivolto particolare attenzione alla

creazione di Enti che rappresentassero un luogo di elaborazione dottrinale e/o

addestramento in ambiti in cui la trasformazione tecnologica sta avendo un particolare peso.

È il caso ad esempio del Centro di Eccellenza Aeromobili a Pilotaggio Remoto (APR), nato

in seno all’Aeronautica Militare nel 2009, con l’obiettivo di “promuovere la standardizzazione

e la crescita capacitiva ed operativa del settore APR, ponendosi quale supporto di

riferimento per l'interoperabilità e lo sviluppo dello specifico segmento”151, in rapporto sia

con le altre forze armate sia con le agenzie della NATO operanti nel settore.

In sintesi, esistono ormai alcuni punti fermi nel processo di trasformazione.

Le esperienze operative hanno certamente contribuito in maniera decisiva alla creazione di

strutture che combinano l’identificazione dell’essenzialità della dimensione interforze con il

riconoscimento che debba esistere un sempre più stretto legame fra operatività e

addestramento. In questo percorso sostanzialmente virtuoso di trasformazione, esistono

due principali criticità. In primo luogo, è largamente riconosciuto (da diversi programmi –

come la Forza NEC – e dalle trasformazioni organizzative descritte) come la trasformazione

in ambito tecnologico rappresenti un elemento essenziale da integrare in questo processo.

Questa integrazione non è però priva di difficoltà, legate ad esempio alla competizione

interforze su alcuni programmi (in primo luogo, l’F35B).152 L’altro elemento problematico è

rappresentato dalla persistenza del dualismo fra componente operativa e strutture centrali

148 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, The transformation of Italian Armed Forces, cit., pp. 98ss. 149 Definizione dello Stato Maggiore dell’Esercito citata in Michele Nones e Alessandro Marrone, La trasformazione delle

Forze Armate: il programma Forza NEC, Quaderni IAI, 2011, p. 80, http://www.iai.it/sites/default/files/iaiq_02.pdf. 150 Ibi. pp. 78-79. 151 http://www.aeronautica.difesa.it/vetrine/Pagine/CEA.aspx. 152 Silvio Lora Lamia, F-35, ecco come Aeronautica e Marina si contendono gli F-35 Stovl, StartMag,

https://www.startmag.it/innovazione/f35-aeronautica-marina-stovl/.

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e periferiche delle Forze Armate: il cambiamento, in altre parole, riguarda un numero limitato

di strutture e personale e non il complesso del comparto della difesa.

2.4 La modernizzazione dei processi: la struttura organizzativa

Per quanto concerne il processo di modernizzazione della struttura organizzativa delle

Forze Armate italiane, essa è il frutto di un complesso articolato di misure adottate nel corso

di oltre un ventennio punteggiato da diverse importanti riforme. Per comodità analitica, la

traiettoria seguita può essere delineata attraverso due principali direttrici: il processo di

interforzizzazione, e la razionalizzazione organizzativa.

2.4.1 Il processo di interforzizzazione

Come evidenziato nella premessa del capitolo, il processo di interforzizzazione

rappresenta, da un lato, un obiettivo-chiave che la Difesa italiana si prefigge dagli anni

Ottanta e, dall’altro, il processo maggiormente problematico all’interno di un ampio e

variegato percorso di modernizzazione avvenuto negli ultimi decenni. Il Libro Bianco del

2015, si pone ancora l’obiettivo dell’integrazione interforze (a trenta anni di distanza dal

documento strategico del 1985), delineando il futuro passaggio da una “visione interforze a

una realtà interforze”153, che però rimane lungi dall’essersi realizzata. Il rafforzamento dello

Stato Maggiore va in questa direzione: contribuiscono infatti a un’organizzazione più joint

l’istituzione del COI in seno al CSMD e la creazione della nuova Commissione di valutazione

Interforze (presieduta dal CSMD) responsabile per le procedure di selezione e avanzamento

dei Dirigenti militari.

La sostanziale mancanza di implementazione delle riforme previste dal Libro Bianco

2015 in materia154 conferma però il livello di difficoltà nel raggiungere tale agognato

obiettivo. Interessante, in tal senso, come anche all’inizio del secolo la riflessione strategica

nazionale ritenesse l’approccio interforze cruciale anche dal punto di vista tecnologico. Il

documento del 2005 La Trasformazione Net-Centrica – il Futuro dell’Interoperabilità

Multinazionale e Interdisciplinare155 evidenziava l’importanza di prevalere sulle logiche di

ciascuna singola Forza Armata, aumentando il livello generale di interoperabilità tra Marina,

Esercito e Aeronautica (e Carabinieri). Ma tale auspicato approccio integrato, dalla logistica

all’approvvigionamento, dall’addestramento fino allo sviluppo delle carriere dei soldati e alla

153 Libro Bianco, cit., 2015, p. 7. 154 Fabrizio Coticchia, Italy, cit. 155 La Trasformazione Net-Centrica – il Futuro dell’Interoperabilità Multinazionale e Interdisciplinare, Roma, Stato

Maggiore della Difesa, 2005.

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formazione stessa, non ha trovato ancora effettiva realizzazione a causa – da un lato – di

una limitata capacità dei decisori politici di implementare le riforme delineate sulla carta e –

dall’altro – di alcune resistenze interne, anche dal punto di vista burocratico-

amministrativo156.

Il documento Difesa. L'attuazione del ‘Libro bianco’ e la riorganizzazione delle Forze

Armate157 illustra con estrema efficacia sia le diverse visioni relative alle riforme volte a

incrementare le dinamiche interforze (quella che viene definita “un'effettiva integrazione

interforze ed una marcata standardizzazione organizzativa”158) sia i maggiori problemi

esistenti a riguardo. Da una parte, il documento rileva come i soggetti coinvolti durante le

consultazioni indette dalla Commissione Difesa del Senato si siano “espressi in modo

sostanzialmente positivo sul nuovo modello operativo interforze e sulla standardizzazione

organizzativa, dando conto delle misure recentemente intraprese dalle rispettive FFAA nel

senso prospettato dal Libro Bianco della Difesa, nel rispetto dei principi di direzione unitaria,

di riduzione dei livelli gerarchici e di unificazione delle competenze”159, apprezzando anche

l’istituzione di organi collegiali consultivi per assicurare ai vertici decisionali ogni elemento

di conoscenza utile. Dall’altra però, non sono mancate le critiche “all'accentramento del

comando delle operazioni in capo al CSMD” per supposti effetti contrari a livello di efficienza,

efficacia e tempestività delle decisioni”160. In poche parole, le divisioni ed i dubbi

permangono, in un contesto però segnato da un forte sostegno (almeno dal punto di vista

teorico) a una maggiore integrazione interforze, al di là dell’effettiva capacità politica di

implementarla.

I risultati limitati del processo di interforzizzazione riguardano molto di più la

dimensione della struttura organizzativa interna piuttosto che l’affermazione di una visione

interforze nella fase di pianificazione e gestione effettiva dello strumento militare (in qualche

156 Si veda, a titolo esemplificativo di tali “resistenze”, la recente intervista all’ex Capo di Stato Maggiore della Marina, Amm. De Giorgi, il quale auspica addirittura un ritorno alla fase pre-riforma Andreatta. Per il dettaglio si veda: Stefano Pioppi, La Difesa italiana fra passato, presente e futuro. I consigli dell’Amm. De Giorgi, Formiche, 31 agosto 2019, https://formiche.net/2019/08/difesa-conte-trenta-de-giorgi-governo. Una panoramica del livello di consenso per le riforme previste nel Libro Bianco 2015 tra vertici istituzionali ed esperti si può trovare nei documenti di sintesi delle consultazioni della Commissione Difesa del Senato: Ufficio di Segreteria della Commissione Difesa, Difesa. L'attuazione del ‘Libro bianco’ e la riorganizzazione delle Forze Armate, Roma, Senato della Repubblica, ottobre 2017, http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/repository/UVI/Consultazioni_pubbliche_Difesa.pdf.

157 Ibi. Come si legge nel documento (p. 7): “Il 10 febbraio 2017 il Consiglio dei ministri ha approvato, su proposta del Ministro Pinotti, in attuazione del Libro Bianco, il disegno di legge di riorganizzazione dei vertici del Ministero della Difesa e delle relative strutture, di delega al Governo per la revisione del modello operativo e del modello professionale delle Forze armate e la riorganizzazione del sistema della formazione, presentato al Senato il 10 marzo 2017 (A.S. 2728), assegnato alla Commissione difesa il successivo 24 marzo e incardinato il 28 marzo 2017”.

158 Ibi, p. 8. 159 Ibi, p. 20. 160 “Ibi., 21. La frase è attribuita all’Amm. De Giorgi. Al contrario, l’ex Capo di Stato Maggiore Camporini “avrebbe ritenuto

necessario insistere sul "drastico ridimensionamento" degli Stati Maggiori di Forza armata a favore di un più marcato accentramento presso lo Stato Maggiore della Difesa, foriero di risparmi di risorse umane e di snellimento dei processi decisionali” (2017, 21).

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modo costante e crescente a partire almeno dall’operazione “Alba”, in Albania del 1997)161.

In aggiunta, appare quasi paradossale che mentre il livello di interoperabilità tra gli alleati

(come detto, soprattutto all’interno del framework multilaterale dell’Alleanza Atlantica) si è

sviluppato notevolmente negli ultimi anni, venendo percepito dai soldati italiani come uno

dei fattori-chiave del processo di apprendimento delle Forze Armate italiane162,

l’interforzizzazione appaia ancora carente sul piano domestico.

2.4.2 La razionalizzazione organizzativa e il dual-use

Il processo di razionalizzazione delle funzioni è di particolare importanza perché

costituisce il necessario passaggio organizzativo che permette di declinare i più ampi

processi di trasformazione delle forze in un contesto in cui il quadro delle risorse è

inevitabilmente limitato. Oltre all’efficacia dell’azione, questo processo mira

all’efficientamento e all’economia dell’azione stessa. La riforma Di Paola, dalla L. 244/2012

ai decreti attuativi successivi (in particolare D.L. 7/2014 e D.L. 8/2014), ha impresso un forte

impulso al riordino delle carriere e alla distribuzione del personale nei diversi ruoli. In

particolare, la riforma mirava, in continuità con il D.L. 215/2001 che segue la legge che

introduce modello professionale nel 2000, a un riequilibrio fra il numero di sottufficiali e la

truppa con un abbassamento del numero dei primi163.

Al di là del continuo e complesso processo di riforma volta al miglioramento del livello

complessivo di efficienza e sostenibilità del modello di Difesa, appare interessante

osservare come anche la riflessione dottrinale recente, nel suo tentativo di sviluppare (o

adattare) concetti relativamente nuovi per il dibattito strategico nazionale, si colleghi in modo

evidente con le perduranti esigenze di razionalizzazione. L’analisi degli ultimi documenti

strategici permette confermare tale connessione.

Il Documento di integrazione concettuale delle linee programmatiche del dicastero -

Duplice uso e Resilienza164, che si basa anche sulla riflessione concettuale in materia

sviluppata all’interno della NATO165 e dell’UE166, pone al centro della riflessione strategica

161 Sull’operazione Alba si veda, tra gli altri: Pino Agnetti, Operazione Alba, la missione della forza multinazionale di protezione in Albania, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1997.

162 Lorenzo Cicchi, Fabrizio Coticchia, Francesco N. Moro, Through Military Lenses. Perception of Security Threats and Jointness in the Italian Air Force, “Defence Studies”, Vol. 18, No. 2, 2018, pp. 207-228.

163 Il problema rimane attuale, come documentato in Stefano Pioppi, Così la Difesa si riorganizza. Il punto del sottosegretario Calvisi, Formiche, 28 settembre 2019, https://formiche.net/2019/09/difesa-sottosegretario-calvisi/.

164 Ministero della Difesa, Duplice uso e Resilienza - Documento di integrazione concettuale delle linee programmatiche del dicastero, Roma: Stato Maggiore della Difesa, 2018

165 Si veda ad esempio: NATO, NATO PO (2016) 0489 INV - Warsaw Summit Commitment to enhance resilience, 2016. 166 European Commission, The Defence-Security Nexus. Towards an EU Collective Security, EPSC Strategic Notes,

Issue 28, 18 ottobre 2017. Il tema della resilienza ha particolare importanza anche all’interno dell’ultimo documento strategico dell’UE (EUGS). Si veda: European Commission, European Union Global Strategy, Bruxelles, 2016.

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della Difesa il cosiddetto “duplice uso sistemico a supporto della resilienza167. È interessante

notare come il concetto di resilienza, oltre ad essere concepito come “la risposta più

appropriata alla minaccia ibrida”, faccia riferimento in particolare ad un “efficace e pianificato

utilizzo di tutte le risorse, sia civili che militari, al fine di poter far fronte in maniera efficace e

coordinata a possibili situazioni pericolose, attraverso un’azione integrata multi-

dimensionale/disciplinare, inter-agenzia, pubblico-privato”.168 In tal senso il concetto si

collega chiaramente all’ottimizzazione delle componenti istituzionali. Lo scopo, quindi, è

anche quello di “favorire lo sviluppo di policy volte a promuovere la collaborazione tra i vari

attori in un processo di efficacia e sostenibilità della resilienza nazionale e per una più

efficace integrazione dello Strumento militare in esso”.169

Nel “Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021”, infine, il concetto di Duplice

Uso Sistemico emerge come centrale, addirittura come premessa e presupposto per

favorire il passaggio a Forze Armate 4.0.170 Come evidenziavano Bertolotti e Trenta in un

documento CeMiSS171 precedente alla nomina dell’autrice come Ministro della Difesa

(2018-2019): “Resilienza significa essere in grado di sopravvivere, adattarsi e migliorare di

fronte allo stress e al cambiamento, resistere agli shock, riorganizzare e ricostruire quando

è necessario. Per costruire questo tipo di resilienza occorre mettere insieme le capacità, le

abilità, le possibilità e le risorse dei settori pubblico e privato e della società civile per attivare

un cambiamento sociale che vada oltre la semplice innovazione tecnologica”.172 Anche in

questo documento viene messo in luce come i concetti di duplice uso e resilienza possano

promuovere un superamento di “duplicazioni, rallentamenti burocratici, dispersione delle

risorse”. 173

Al di là delle critiche174 ai concetti di duplice uso e resilienza ed alla loro elaborazione

dottrinale, la recente riflessione strategica appare intimamente collegata alle necessità di

razionalizzazione nell’ambito della difesa. A tale esigenza è in parte connesso anche il

“paradigma del multipurpose-by-design”, nell’ottica dell’ottimizzazione e della condivisione

delle risorse, proprio per un “efficientamento”175 delle capacità della Difesa.

167 Sulle controversie relative al concetto si veda, tra gli altri, David Chandler e Joan Coaffee (a cura di), The Roudledge Handbook of International Resilience, Londra: Routledge, 2016.

168 Ministero della Difesa, Duplice uso e Resilienza, cit. p. 15. 169 Ibi., p. 16. 170 Ministero della Difesa, Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021, Roma, 2019. Per un’analisi dei recenti

documenti governativi, nel loro significato strategico e politico, si veda: Alessandro Marrone, Politica di difesa italiana: duplice uso e resilienza, 12 ottobre 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/politica-di-difesa-italiana-duplice-uso-e-resilienza-21405.

171 Claudio Bertolotti ed Elisabetta Trenta, Resilienza collaborativa e prontezza civile, Roma, CeMiSS, 2017. 172 Ibi., p. 3. 173 Ibi., p. 12. 174 Si veda, tra gli altri, Giovanni Martinelli, Difesa: “Il Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021”, “Analisi

Difesa”, 19 luglio 2019. 175 Ministero della Difesa, Duplice uso e Resilienza, cit. p. 17.

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2.5 Conclusioni

Il processo di modernizzazione delle Forze Armate italiane, in conclusione, non si

presta a un giudizio univoco. Se, infatti, da una parte presenta evidenti successi (testimoniati

in primo luogo dall’esperienza sul campo), per altro verso alcune iniziative sono lungi

dall’aver portato i benefici sperati. Se quindi il ritratto che emerge dalle pagine precedenti

appare in chiaroscuro, va anche detto che le Forze Armate italiane si trovano in buona

compagnia, poiché un giudizio analogo vale grosso modo anche per gli altri Stati europei e

della NATO176: il processo di modernizzazione, insomma, sembra risolversi in una fatica di

Sisifo, un compito destinato perennemente a rivelarsi vano. Tuttavia, alcune considerazioni

possono essere utili a contestualizzare in maggior dettaglio dove intervenire per rendere più

efficaci i tentativi di riforma.

In particolare, l’analisi del Libro Bianco 2015 consente di valutare al meglio l’esito ed il

percorso di trasformazione ed aiuta a capire – a 30 anni di distanza dal crollo del Muro di

Berlino – quali siano le “finalità generali” della Difesa. Il documento individua le seguenti

“missioni delle Forze armate”: 1) La difesa dello Stato contro ogni possibile aggressione; 2)

La difesa degli spazi euro-atlantici ed euro-mediterranei; 3) Il contributo alla realizzazione

della pace e della sicurezza internazionali; 4) Il concorso alla salvaguardia delle libere

istituzioni e lo svolgimento di compiti specifici in circostanze di pubblica calamità ed in altri

casi di necessità. Il Libro Bianco evidenzia – in modo analogo a quanto fatto dal “Nuovo

Modello di Difesa” del 1991 – la centralità della dimensione “expeditionary”, al fine di

proiettare rapidamente le forze oltre confine. A fianco di questo elemento di continuità, il

documento afferma con forza la rinnovata centralità del “Mediterraneo allargato” (dal Corno

d’Africa ai Balcani, dal vicino Medio Oriente al Nord Africa) come regione strategica vitale

per l’Italia.

Questo passaggio, come sottolineato dalla letteratura recente177, rappresenta uno

sviluppo estremamente importante per la Difesa italiana che, dopo anni di impiego costante

in una vastissima area di intervento, da Haiti fino a Timor Est, vede delinearsi un vero e

proprio “ri-orientamento strategico”, volto – formalmente – a proteggere al meglio gli

interessi nazionali in regioni cruciali, rese instabili dalla rilevanza delle minacce che da esse

derivano. Il contrasto a tali minacce (dal terrorismo transnazionale al traffico di uomini, armi

e sostanze stupefacenti) viene ritenuto dal Libro Bianco come prioritario.

Appare interessante notare come questa enfasi nell’attribuire priorità strategica ad una

176 Hugo Mayer, Marco Weiss (a cura di), The Handbook of European Defence Policies and Armed Forces, cit.; Daniel R. Lake, The Pursuit of Technological Superiority and the Shrinking American Military, New York, Palgrave, 2019.

177 Fabrizio Coticchia e Michela Ceccorulli, I’ll take two. Migration, terrorism, and the Italian military engagement in Niger and Libya, “Journal of Modern Italian Studies”, in corso di stampa.

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specifica area geografica, in parziale discontinuità con un impegno militare che per anni è

stato quasi “globale”, ricalchi la tradizione della politica estera e di difesa italiana che, già

nel Libro Bianco del 1985178 evidenziava le conseguenze (per la sicurezza europea) relativa

alla fascia di instabilità che segnava Mediterraneo e Medio Oriente.

In piena coerenza con il documento strategico del 2015 i decisori politici (di tutti i

governi italiani che si sono succeduti dopo il 2015) hanno attuato un “ricollocamento” delle

forze, dedicando nuova attenzione e risorse al Mediterraneo allargato. Le operazioni in

Libia, Tunisia, e, soprattutto Niger testimoniano tale processo179. Il “ri-orientamento

strategico” verso il “Mediterraneo allargato”, insomma, non è rimasto un mero obiettivo

astratto, ma ha trovato realizzazione concreta con i decreti legge sulle missioni militari

all’estero (2017, 2018 e 2019). Il dispiegamento e la concentrazione delle forze in tale area

di intervento rappresenta una delle variabili che consentono di capire la recente evoluzione

della politica di difesa in materia di operazioni all’estero.

Indirettamente, il Libro Bianco del 2015 illustra, infine, un altro elemento chiave per

analizzare il vasto e complesso processo di modernizzazione della Difesa italiana: la limitata

frequenza (ed ampiezza a livello di discussione politica e pubblica) della riflessione

strategica nazionale. L'Italia ha infatti atteso tredici anni per sviluppare un nuovo Libro

Bianco, in un periodo (2002-2015) segnato dalle principali operazioni militari degli ultimi 70

anni (Iraq e Afghanistan in primis) e – come abbiamo visto – dalla trasformazione delle forze

armate (nonché dalla straordinaria evoluzione dello scenario strategico regionale e globale).

La letteratura180 ha indagato le molteplici ragioni (storiche, culturali, politiche) dietro a questo

scarno dibattito sui temi della Difesa. Appare opportuno chiedersi se l’assenza di una

condivisa ed approfondita cultura di difesa (la cui diffusione, vale la pena notare, era

apertamente auspicata dal Libro Bianco 2015) renda più complesso il percorso di evoluzione

della Difesa italiana in tutti gli aspetti che sono stati finora esaminati181. Oppure se la scarsa

salienza del tema nel dibattito politico non abbia al contrario favorito cambiamenti e

trasformazioni che altrimenti avrebbero trovato maggiori ostacoli. Appare comunque

assodato che l’interesse intermittente e limitato da parte dei decisori politici non abbia

giovato alla riflessione dottrinale, che rispetto ad altri Paesi è rimasta meno approfondita.

178 Libro Bianco della Difesa, cit., 1985. 179 Fabrizio Coticchia, Michela Ceccorulli, I’ll take two. cit. 180 Angelo Panebianco, Guerrieri democratici: le democrazie e la politica di potenza. Bologna: Il Mulino, 1997; Pietro

Pirani, ‘The Way we Were’: The Social Construction of Italian Security Policy, “Journal of Modern Italian Studies”, Vol. 15, No. 2, 2011, pp.217-230; Piero Ignazi, Giampiero Giacomello, Fabrizio Coticchia, Italian Military Operations Abroad, cit.; Paolo Rosa, The Accommodationist State: Strategic Culture and Italy’s Military Behavior, “International Relations”, Vol. 28, No. 1, 2014, pp. 88-115.

181 Si potrebbe infatti argomentare che la mancanza di interesse da parte dell’opinione pubblica renda più difficile per il decisore politico mantenere l’attenzione sul problema e mantenere una politica coerente nel tempo.

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CAPITOLO III: UN NUOVO MODELLO DI MODERNIZZAZIONE DELLA

DIFESA?182

3.1 Come promuovere la modernizzazione? Una premessa metodologica

Le pagine precedenti hanno cercato di mettere in evidenza gli imperativi della

modernizzazione della difesa e i passi compiuti in questa direzione dalle Forze Armate

italiane negli ultimi trent’anni. In quest’ultimo capitolo si cercherà di sviluppare alcune

prescrizioni politiche volte a superare i limiti delle iniziative intraprese fino ad ora. Prima di

procedere con la trattazione, è opportuno chiarire con maggior precisione quale processo

appare più realistico per conseguire l’obiettivo di modernizzare la difesa. I termini

solitamente utilizzati – a volte in modo un poco approssimativo – sono i seguenti:

adattamento, innovazione ed emulazione. Innegabilmente, essi hanno elementi di

sovrapposizione che possono confondere l’analisi; tuttavia, occorre tenerli chiaramente

distinti, poiché implicano modalità di realizzazione molto diverse. Fortunatamente, la

letteratura sul tema permette di attingere a contributi ormai ampiamente accettati.

Partendo dall’innovazione, diversamente dall’ambito economico (dove è opinione

condivisa che questa abbia un reale impatto solo se accompagnata da maturazione e

diffusione)183, in ambito militare il termine è stato definito principalmente in chiave

tecnologica184. Come osservato da Adam Grissom185, c’è un generale accordo attorno a tre

caratteristiche principali; per essere tale un’innovazione deve: 1) modificare il modo in cui lo

strumento militare opera sul campo; 2) avere una portata e un impatto significativo;

3) comportare un incremento dell’efficacia sul campo. Inquadrare il tentativo di

modernizzazione in termini di innovazione implica quindi almeno due evidenti problemi: il

primo consiste nel distinguere tra impatto dell’innovazione a livello strategico o tattico

(poiché solo il primo tipo risulta rilevante per il processo di modernizzazione) – ergo, quali

innovazioni meritano di essere prima sviluppate poi acquisite, e quali no; il secondo consiste

nello spazio assai ridotto concesso alla dimensione organizzativa e dottrinaria (che, come

abbiamo visto nei capitoli precedenti, ai fini della presente analisi risulta di primaria

importanza). Per questo motivo, in ultima analisi, conviene ricorrere alla formulazione di

182 Desidero ringraziare Tom Dyson per i generosi e utilissimi consigli bibliografici relativi all’apprendimento organizzativo, in particolare con riferimento alla descrizione del caso britannico.

183 Lawrence E. Blume, On the Economic Impact of the Information Revolution, in Henry Ryan, Edward C. Peartree (a cura di), The Information Revolution and International Security, Washington DC, The CSIS Press, 1998, p. 10-30.

184 Si vedano, su tutti, Matthew Evangelista, Innovation and the Arms Race. How the United States and the Soviet Union Develop New Military Technologies, Ithaca NY, Cornell University Press, 1988, p. 51; Stephen P. Rosen, Winning the Next War: Innovation and the Modern Military, Ithaca NY, Cornell University Press, 1991; Kimberly Zisk, Engaging the Enemy: Organization Theory and Soviet Military Innovation 1955-1991, Princeton NJ, Princeton University Press, 1993.

185 Adam Grissom, The Future of Military Innovation Studies, “The Journal of Strategic Studies”, Vol. 29, No. 5, 2006, p. 907.

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Theo Farrell, il quale definisce l’innovazione come “un cambiamento rilevante che viene

istituzionalizzato in una nuova dottrina, una nuova struttura organizzativa e/o una nuova

tecnologia”186: in una parola, una riforma che viene imposta dall’alto, modificando le prassi

e/o le capacità correnti.

Nei circoli della Difesa, l’idea secondo cui la modernizzazione delle Forze Armate

debba passare attraverso l’innovazione è tutt’altro che nuova187. Già nella prima metà degli

anni Novanta, avviando un acceso dibattito sul concetto di Rivoluzione negli Affari Militari

(RMA), Andrew Krepinevich concludeva che i progressi della tecnologia informatica

avevano rivoluzionato il warfare e che quindi qualsiasi sforzo di modernizzazione dovesse

includere l’adozione delle innovazioni tecnologiche più recenti188. Sebbene le promesse

della RMA non siano state mantenute, l’ambizione di conseguire e mantenere la superiorità

tecnologica hanno continuato a plasmare la politica di difesa americana anche negli ultimi

venti anni, prima al motto della “Trasformazione della difesa”, poi con la “Third Offset

Strategy”189. Alla luce di queste considerazioni, ci sarebbe quindi qualche ragione

nell’argomentare che anche l’Italia dovrebbe cercare di orientare il proprio impegno a

modernizzare le Forze Armate puntando a innovare le proprie capacità, dottrine, e/o la

struttura organizzativa.

La seconda strategia disponibile è invece quella dell’adattamento. Anche in questo

caso il termine non è privo di ambiguità e controversie: ad esempio, seguendo ancora una

volta lo spunto di Farrell, si può intendere un cambiamento di tattiche e/o tecnologie volto a

migliorare la performance operativa di un esercito190. Con tono chiaramente polemico,

invece, Catignani riduce l’adattamento a un processo di “apprendimento di basso livello”,

ovvero l’adeguamento del comportamento per far fronte alle sfide tattiche, senza che

questo abbia un effetto rilevante oltre (nella migliore delle ipotesi) il livello operativo191.

186 Theo Farrell, Improving in War: Military Adaptation and the British in Helmand Province, Afghanistan, 2006-2009, “Journal of strategic studies”, Vol. 33, No. 4, 2010, p. 569.

187 Giusto per tornare indietro di qualche secolo, si potrà ricordare come lo stesso Machiavelli ponesse tra i quesiti centrali ne L’arte della guerra se un’innovazione tecnologica e potente come la polvere da sparo avesse rivoluzionato la condotta strategica degli eserciti (vale la pena ricordare che la sua risposta era convintamente negativa). Per una panoramica storica sul rapporto tra tecnologia e condotta militare, si veda Martin Van Creveld, Technology and War. From 2000 b.C. to the Present, seconda edizione, New York, The Free Press, 1991.

188 Andrew Krepinevich, Cavalry to Computer. The Pattern of Military Revolution, “The National Interest”, Vol. 45, Fall 1994, pp. 30-42. Per una critica all’idea di RMA sia concesso rimandare ancora ad Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., pp. 23-42.

189 Per una sintetica ricostruzione di queste due fasi, si rimanda ad Andrea Locatelli, Too Far Ahead? The US Bid for Military Superiority and Its Implications for European Allies, in Marco Clementi, Matteo Dian, Barbara Pisciotta (a cura di), US Foreign Policy in a Challenging World. Building Order on Shifting Foundations, Berlino, Springer International, 2017, pp. 147-151; Andrea Locatelli, Politica estera e politica di difesa di una potenza egemonica. Gli Stati Uniti nel periodo post-bipolare, in Carla Monteleone (a cura di), Politiche di sicurezza e cambiamento globale, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 76-94.

190 Theo Farrell, Improving in War, cit., p. 569. 191 Sergio Catignani, Coping with Knowledge: Learning in the British Army. “Journal of Strategic Studies”, Vol. 37, No.

1, 2014, p. 38.

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Sia Farrell sia Catignani concordano nel postulare due qualità come necessarie per definire

l’adattamento: la prima risiede nella natura incrementale del cambiamento (detto in altri

termini, se l’innovazione è storicamente un processo discontinuo192, l’adattamento si articola

in un processo di cambiamenti marginali e non sempre lineari); la seconda in un’origine “dal

basso” dell’adattamento (ovvero, mentre l’innovazione viene realizzata tramite un processo

di implementazione top-down, l’adattamento deriva dalla spinta bottom-up di unità che si

trovano impegnate sul campo)193.

L’origine dell’adattamento, in ultima analisi, è il fallimento. O meglio, l’esperienza di un

rendimento insoddisfacente. L’adattamento, insomma, è la risposta a livello tattico

dell’organizzazione militare a un deperimento della performance, vuoi per ragioni interne

(ad esempio un decadimento dei processi e delle capacità proprie delle unità sul campo),

vuoi per ragioni esterne (un cambiamento ambientale, come ad esempio comportamenti

imprevisti da parte dell’avversario)194. Sotto questo punto di vista, quindi, l’adattamento

configura una risposta razionale a un problema; tuttavia, le modalità in cui tale risposta viene

elaborata incontrano ostacoli di natura burocratica, poiché devono adeguarsi a prassi e

routine stabilite. In altre parole, se prendere consapevolezza del calo del rendimento è

facile, poiché misurabile con indicatori obiettivi (perdite, danno collaterale, ecc.), non

altrettanto si può dire delle misure necessarie per porvi rimedio: queste, infatti, pongono una

sfida per lo strumento militare in quanto organizzazione burocratica195.

Per questo motivo, quando viene posto di fronte a un’opportunità di cambiamento,

qualsiasi ente – e questo vale ancor di più per un’organizzazione necessariamente

conservatrice come le Forze Armate – tenderà a sviluppare strategie sostanzialmente in

continuità con le procedure operative standard (POS) correnti: anziché esplorare nuove

soluzioni e pensare fuori dagli schemi, il personale impegnato preferirà cercare di sfruttare

al meglio le competenze e le capacità di cui dispone, modificando in misura solo marginale

le tattiche utilizzate. Questa scelta non dipenderà semplicemente da interessi di corpo, o

192 Williamson Murray e Allan R. Millet (a cura di), Military Innovation in the Interwar Period, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

193 Queste due dimensioni permettono di mantenere analiticamente distinte l’innovazione e l’adattamento, anche se nella realtà è forse più utile considerarli come estremi di un continuum. Sul punto si veda Theo Farrell, Introduction: Military Adaptation in War, in Theo Farrell, Frans Osinga e James A. Russell (a cura di), Military adaptation in Afghanistan, Stanford CA, Stanford University Press, 2013, p. 7.

194 Emily Goldman, Mission Possible: Organizational Learning in Peacetime, in Peter Trubowitz, Emily O. Goldman ed Edward Rhodes (a cura di), The Politics of Strategic Adjustment: Ideas, Institutions and Interests, New York, Columbia University Press, 1999, pp. 233-266.

195 La caratteristica tipica delle organizzazioni burocratiche, infatti, è la scomposizione delle funzioni svolte in compiti di ridotta portata e l’adozione di procedure standardizzate. Ne discende una potenziale tensione tra la logica di conseguimento degli obiettivi esterni dell’organizzazione e la logica di conformità procedurale. I riferimenti classici sul punto sono Richard M. Cyert e James G. March, A Behavioral Theory of the Firm, Englewood Cliffs NJ, Prentice-Hall, 1963; James G. March e Herbert A. Simon, Organizations, New York, Wiley, 1958; John Steinbruner, The Cybernetic Theory of Decision, Princeton NJ, Princeton University Press, 1974; Graham T. Allison, The Essence of Decision: Explaining the Cuban Missile Crisis, Boston MA, Little Brown, 1971.

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dall’inerzia tipica delle organizzazioni burocratiche, ma dalle esigenze stesse della

professione militare: da una parte, le competenze acquisite necessitano di addestramento

ed esercitazione continui; dall’altra, in contesti di guerra, i rischi associati alla

sperimentazione di nuove soluzioni possono risultare fatali196.

Infine, coerentemente con quanto osservato finora, la maggior parte degli studiosi

tende a circoscrivere l’adattamento alle scelte tattiche messe in atto sul campo per risolvere

problemi circoscritti, senza che queste vadano “a correggere gli errori nel sistema esistente

di norme, convinzioni, mentalità e assunti”197. In sostanza, osservare un calo del

rendimento, anche quando l’esito delle operazioni è fallimentare, non porta a una revisione

della dottrina militare, né degli assetti organizzativi e capacitativi, poiché le soluzioni

elaborate per farvi fronte riguardano esclusivamente il personale coinvolto.

Anzi, paradossalmente, è quando l’adattamento ha successo (ovvero la performance

migliora) che la portata delle modifiche proposte rimane più contenuta, poiché non si impone

una revisione dottrinaria più profonda e l’apprendimento delle lezioni sul campo rimane

circoscritto a chi sul campo ha operato198.

La terza strategia oggetto d’analisi è l’emulazione. Con il termine si intende

“l’imitazione deliberata da parte di uno Stato di qualsiasi aspetto del sistema militare di un

altro Stato che abbia un’influenza sul proprio sistema militare”199. L’emulazione implica

quindi l’imitazione “volontaria, deliberata e sistematica di uno Stato delle tecniche e delle

prassi di un altro”200. L’emulazione presenta quindi diverse analogie con l’innovazione: pone

infatti l’ambizione di incrementare l’efficacia dello strumento militare in modo discontinuo e

richiede un cambiamento profondo – a livello strategico – nelle tre dimensioni tecnologica,

organizzativa e dottrinaria. Nella definizione sopra riportata e nella letteratura sul tema,

tuttavia, l’emulazione presenta elementi di comunanza anche con l’adattamento: la scelta di

quali componenti copiare da altri attori, infatti, è il frutto di un processo di osservazione e

apprendimento. La letteratura sulla diffusione delle innovazioni sul punto è chiara: emulare

non significa replicare esattamente, quanto piuttosto creare nuove soluzioni ibride201, che

concilino le risorse consolidate nel tempo con quelle importate.

196 Per un’esposizione più articolata di queste considerazioni si rimanda ad Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., pp. 116-122; Theo Farrell, Improving in War, cit., pp. 570-571.

197 Sergio Catignani, Coping with Knowledge, cit., p. 38. 198 Questo concetto è definito come “trappola” dell’adattamento. Sul punto si vedano, Ibidem; Theo Farrell, Improving in

War, cit., p. 571; Daniel A. Levinthal e James G. March, The Myopia of Learning, “Strategic Management Journal”, Vol. 14, Special Issue, Winter 1993, pp. 95-112.

199 Joâo Resende Santos, Neorealism, States, and the Modern Mass Army, Cambridge MA, Cambridge University Press, 2007, p. 9.

200 Ibidem. 201 Suzanne Berger e Ronald Dore (a cura di), National Diversity and Global Capitalism, Ithaca NY, Cornell University

Press, 1996.

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L’emulazione può quindi essere vista come uno dei canali attraverso cui si diffondono

le innovazioni e le best practices. Perché questo avvenga, però, gli attori intenzionati ad

adottare queste prassi devono avere la consapevolezza che costituiscono un miglioramento

rispetto allo stato attuale. E come maturare tale consapevolezza? Da dove attingere le

informazioni necessarie per imparare le lezioni giuste? La risposta su cui gli autori

(soprattutto di matrice realista) tendono a convergere sta nell’esperienza sul campo – nella

forma più diretta, l’esperienza di una sconfitta,202 ma questo non esclude la capacità di

apprendere in tempo di pace203. Le cause che inducono uno Stato a emulare altri sono

quindi riconducibili non tanto a questioni di sicurezza, quanto alla competizione – latente ma

ineliminabile anche in tempo di pace – tra gli Stati in un ambiente anarchico204: qualsiasi

attore, che sia una piccola, media o grande potenza, deve garantirsi una certa capacità di

self-help205 e tanto più limitata sarà la sua capacità di innovare, tanto più conveniente sarà

l’opzione di emulare l’esperienza di chi viene percepito come di successo.

Questa visione orientata al risultato è stata sfidata da una crescente letteratura di

matrice neo-istituzionalista sociologica206: applicando il principio della logica

dell’appropriatezza, gli autori appartenenti a questa corrente di pensiero hanno affermato

che la scelta relativa all’emulazione (se e cosa copiare) dipende dalla definizione

socialmente definita di legittimità. In altre parole, vengono adottati modelli organizzativi,

dottrinari e tecnologici che vengono percepiti come legittimi e coerenti con la cultura

dominante, non necessariamente perché sono funzionali a un obiettivo207. Questo

comportamento apparentemente poco razionale è giustificato da due ordini di

motivazioni208: da una parte, l’incertezza ambientale che contraddistingue le questioni

militari incentiva l’adozione di soluzioni “off-the-shelf” generalmente considerate come

preferibili; dall’altra, la presenza di comunità epistemiche e di prassi – un esempio delle quali

è sicuramente rintracciabile in ambito NATO – facilita la circolazione delle conoscenze e la

diffusione di convinzioni condivise.

Quale delle tre strategie risulta più congeniale per il caso italiano? L’innovazione, per

quanto giustifichi ambizioni molto elevate, solleva problemi e perplessità che potrebbero

202 Emily O. Goldman, International Competition and Military Effectiveness: Naval Air Power, 1919–1945, in Risa Brooks ed Elizabeth A. Stanley (a cura di), Creating Military Power: The Sources of Military Effectiveness, Stanford CA, Stanford University Press, 2007, pp. 158-85.

203 Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., p. 123. 204 Joâo Resende‐Santos, Anarchy and the Emulation of Military Systems: Military Organization and Technology in South

America, 1870–1930, “Security Studies”, Vol. 5, No. 3, 1996, pp. 193-260. 205 Kenneth Waltz, Theory of International Politics, cit., pp. 118-119. 206 Peter A. Hall e Rosemary C.R. Taylor, Political Science and the Three New Institutionalisms, “Political Studies”, Vol.

44, No. 5, 1996, pp. 936-957. 207 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, Learning From Others?, cit., p. 700; Emily O. Goldman, Cultural foundations of

military diffusion, “Review of International Studies”, Vol. 32, No. 1, 2006, pp. 69-91. 208 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, Learning From Others? cit., p. 699.

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vanificarne i risultati: in primo luogo, infatti, l’idea di rivoluzionare capacità, organizzazione

e dottrina, implica sicuramente dei costi (finanziari, politici e burocratici) molto elevati209; in

secondo luogo, la stessa esperienza degli Stati Uniti, che come visto sono da ormai

trent’anni i principali sostenitori di questo approccio, è stata ampiamente criticata rispetto ai

risultati conseguiti210; da ultimo, come visto nel primo capitolo, la modernizzazione della

difesa dovrebbe essere funzionale agli interessi strategici dell’Italia – interessi che possono

essere assecondati senza necessariamente dotarsi di capacità utili per l’intero spettro del

conflitto.

Anche l’adattamento, nei termini posti dalla letteratura, pare una guida poco appetibile.

Se infatti l’innovazione risulta troppo ambiziosa per gli obiettivi delle Forze Armate,

l’adattamento ha il vizio opposto, dato che postula una profondità di cambiamento limitata

alla dimensione meramente tattica211. Inoltre, la condizione da cui ha origine il processo di

adattamento è l’esperienza di un fallimento sul campo: per quanto i contingenti italiani

impegnati in missioni all’estero abbiano dovuto affrontare sfide operative anche rilevanti

(si pensi all’operazione Antica Babilonia in Iraq, o all’operazione Nibbio in Afghanistan),

difficilmente lo sforzo di modernizzazione compiuto finora può essere interpretato come

semplice reazione a una performance insoddisfacente sul campo. Analogamente

all’esperienza di altri Paesi, insomma, il problema di fondo per i soldati italiani sta solo in

parte nel riformulare i principi d’azione e le procedure sul campo, risiedendo piuttosto

nell’implementarle alla luce di una strategia più ampia e con risorse che difficilmente

possono dirsi adeguate212.

Collocandosi in posizione intermedia tra questi due estremi, l’emulazione si pone in

ultima analisi come alternativa preferibile per orientare il processo di modernizzazione della

difesa per almeno quattro motivi. In primo luogo, ha il merito di essere più economica rispetto

all’innovazione: riduce infatti i costi legati alla ricerca e sviluppo, sperimentazione,

simulazione ed esercitazione, permettendo di accedere a soluzioni tecnologiche, dottrinali

od organizzative i cui costi iniziali sono già stati sostenuti da altri213. In secondo luogo,

diversamente dall’adattamento, ha una prospettiva di medio-lungo periodo, necessaria per

garantire uno sforzo di riforma della funzione difesa coerente e articolato. In terzo luogo,

l’appartenenza e il coinvolgimento attivo dell’Italia nelle strutture NATO, UE e ONU pone le

209 Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., pp. 57-63. 210 Daniel R. Lake, The Pursuit of Technological Superiority and the Shrinking American Military, cit. 211 Sergio Catignani, Coping with Knowledge, cit. 212 Sul caso inglese, ad esempio, si veda il giudizio di Robert Egnell, Lessons from Helmand, Afghanistan: What Now

for British Counterinsurgency? “International Affairs”, Vol. 87, No. 2, 2011, p. 313. 213 Il senso di questa affermazione è ispirato al concetto di “vantaggio dell’arretratezza” coniato da Alexander

Gerschenkron in Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge MA, Belknap Press of Harvard University Press, 1962, pp. 5-30.

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condizioni ideali per l’emulazione214. Infine, come visto nel secondo capitolo, i passi

intrapresi finora dalle Forze Armate italiane sono stati coerenti con questa impostazione: si

è così creata una situazione di “dipendenza dal sentiero”215, in virtù della quale per

modificare l’impostazione corrente si incorrerebbe in ulteriori costi.

3.2 Come importare best practices? Capacità organizzative dinamiche, capacità di

assorbimento e apprendimento organizzativo

Se si accetta l’emulazione come strategia di modernizzazione preferibile, occorre ora

rispondere ad alcune domande stringenti. Quali scelte deve fare un’organizzazione per

migliorare la propria capacità di emulare? Come stabilire quali prassi emulare?

Come adattare i cambiamenti ritenuti necessari con le procedure correnti, e viceversa?

Per rispondere a questi quesiti occorre introdurre concetti cruciali come quelli di capacità

organizzative dinamiche, apprendimento organizzativo e capacità di assorbimento. Questo

ci permette di far riferimento a una letteratura assai abbondante che si colloca tra la scienza

dell’amministrazione e il management. Si tratta di studi concentrati quasi esclusivamente

sul settore imprenditoriale e civile, ma che – in linea con la letteratura dominante – ha trovato

una traduzione pressoché immediata anche nel settore militare216. Le ragioni di questo spill-

over da un ambito disciplinare all’altro risiedono sostanzialmente nelle tante analogie tra

l’impresa e lo strumento militare – analogie che ne eclissano, ai fini della presente analisi,

le pur tante differenze.

Due elementi in comune supportano questa affermazione: in primo luogo, così come

gli eserciti, le imprese che operano sul mercato si trovano tra loro in competizione. Come

ricordava già Kenneth Waltz, l’analogia mercato-sistema internazionale si fonda proprio

sulla competizione tra gli attori217: così come le imprese competono tra loro per incrementare

i propri profitti e in ultima istanza pagano per gli errori che fanno con la bancarotta,

analogamente gli Stati competono per avere la superiorità relativa218 e, in caso di errore,

rischiano di essere smembrati o fagocitati da altri Stati. In secondo luogo, a livello di struttura

interna, in entrambi gli attori si presenta un problema agente-principale219, rappresentato

214 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, Learning From Others? cit., p. 700-701. 215 Sul punto si veda il fondamentale contributo Paul Pierson, Increasing Returns, Path Dependence, and the Study of

Politics, “American Political Science Review”, Vol. 94, No. 2, 2000, pp. 251-267. 216 Per una panoramic molto dettagliata e recente, si veda Tom Dyson, Organisational Learning and the Modern Army.

A New Model for Lessons-Learned Processes, Londra, Routledge, 2019. 217 Kenneth Waltz, Theory of International Politics, cit., pp. 89-90, 129-136. 218 Joseph M. Grieco, Anarchy and the Limits of Cooperation: A Realist Critique of the Newest Liberal Institutionalism,

“International Organization”; Vol. 42, No. 3, 1989, p. 500. 219 Kathleen M. Eisenhardt, Agency Theory: An Assessment and Review, “The Academy of Management Review”, Vol.

14, No. 1, 1989, pp. 57-74.

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nel caso delle imprese dal rapporto tra azionisti e management e, nel caso degli eserciti, da

leadership civile e militare.

Ne consegue insomma che – con le dovute precauzioni – è possibile adattare le teorie

e i modelli sviluppati nel settore business all’ambito militare. Il primo filone di studi utile ai

nostri fini è quello che si concentra sulle capacità organizzative dinamiche. Sebbene

esistano diverse definizioni del termine, una formulazione condivisa postula che esse

consistano in quelle prassi, strategiche e organizzative, che permettono a un’impresa di

integrare, sviluppare e riconfigurare le competenze interne ed esterne per far fronte ai

cambiamenti dell’ambiente esterno220. Il focus analitico della letteratura è dunque

concentrato sullo sforzo delle imprese – o delle Forze Armate, come nel nostro caso – di

mantenere costantemente attivi processi in grado di adeguare le risorse materiali, dottrinarie

e organizzative221. Si noti dunque che per capacità dinamiche non si intendono

genericamente delle risorse di varia natura, ma espressamente le caratteristiche

organizzative di un ente.

Occorre quindi approfondire quali siano i processi che rientrano nella definizione

postulata – in una parola, quali capacità organizzative siano dinamiche. Anche su questo

punto sono state proposte diverse alternative. Ad esempio, Bowman e Ambrosini222

scompongono le capacità organizzative in quattro processi: la riconfigurazione (ovvero la

trasformazione e ricomposizione di alcune risorse), il leveraging (cioè replicare un processo

in un ambito diverso da quello originario), l’apprendimento (ovvero la rielaborazione che

segue la riflessione sui fallimenti e successi in seguito a sperimentazione e, infine,

220 David J. Teece, Gary Pisano e Amy Shuen, Dynamic Capabilities and Strategic Management, “Strategic Management Journal”, Vol. 18, No. 7, 1997, p. 516; Kathleen M. Eisenhardt e Jeffrey A. Martin, Dynamic Capabilities: What Are They?, “Strategic Management Journal”, Vol. 21, No. 10-11, 2000, p. 1107; Maurizio Zollo e Sidney G. Winter, Deliberate Learning and the Evolution of Dynamic Capabilities, “Organization Science”, Vol. 13, No. 3, 2002, p. 340; Véronique Ambrosini e Cliff Bowman, What are Dynamic Capabilities and Are They a Useful Construct in Strategic Management?, “International Journal of Management Reviews” Vol. 11, No. 1, 2009, pp. 32-33; Lance Newey e Shaker A. Zahra, The Evolving Firm: How Dynamic and Operating Capabilities Interact to Enable Entrepreneurship, “British Journal of Management”, Vol. 20, No. 1, 2009, pp. 81-100; Yuan Lu, Lianxi Zhou, Garry Bruton e Li Weiwen, Capabilities as a Mediator Linking Resources and the International Performance of Entrepreneurial Firms in an Emerging Economy, “Journal of International Business Studies”, Vol. 41, No. 3, 2010, pp. 419-436. Per un primo tentativo di adattare questo strumento analitico alle Forze Armate si vedano Andrzej Lis, How to Strengthen Positive Organizational Behaviors Fostering Experiential Learning? The Case of Military Organizations, “Journal of Entrepreneurship, Management and Innovation”, Vol. 8, No. 4, 2012, pp. 21-34; e Tom Dyson, Learning from War: Organisational Learning in the Bundeswehr during ISAF. Paper presentato al Convegno Annuale dell’UACES, Cracovia, 4-6 settembre 2017, p. 6.

221 Questa visione pare del tutto coerente con il duplice intento che ci si è posti nell’introduzione di questo capitolo – ovvero andare oltre l’adattamento come mero adeguamento sporadico in seguito all’esperienza di fallimenti, e considerare la modernizzazione non solo come risultato di processi bottom-up, ma anche e soprattutto grazie ad azioni top-down. Tuttavia, diversamente da parte della letteratura corrente – ad esempio Richard Makadok, Toward a Synthesis of the Resource-Based and Dynamic-Capability Views of Rent Creation, “Strategic Management Journal”, Vol. 22, No. 5, 2001, pp. 387-401 – si accetterà in questa sede la possibilità che le capacità organizzative dinamiche possano essere almeno parzialmente importate dall’esterno.

222 Cliff Bowman e Véronique Ambrosini, How the Resource-Based and the Dynamic Capability Views of the Firm Inform Competitive and Corporate Level Strategy, “British Journal of Management”, Vol. 14, No. 4, 2003, pp. 289-303.

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l’integrazione creativa (ovvero la capacità di dar vita a una nuova configurazione di assetti

e risorse).

Di questi processi, il più importante è certamente l’apprendimento. Anzi, secondo Inan

e Bititci223, ne costituisce il fondamento, poiché tutte queste capacità partono dal

presupposto che l’azienda possa apprendere da successi e fallimenti. O ancora, nelle parole

di Dyson, fornisce un quadro di riferimento per esplorare le principali attività e i processi

necessari per stimolare l’apprendimento a livello individuale, di gruppo e organizzativo224.

Infine, di particolare rilevanza per i nostri fini, il concetto di capacità organizzative dinamiche

pone al centro della propria analisi il fattore umano: postula infatti che la chiave per il

successo dell’organizzazione stessa stia nel mettere gli individui che vi partecipano in

condizione di superare individualmente e collettivamente i limiti al cambiamento propri della

struttura225.

Questo discorso ci porta direttamente al secondo filone di studi a cui è possibile

attingere per sviluppare prescrizioni ispirate a un approccio alternativo alla modernizzazione

della difesa: l’apprendimento organizzativo. L’idea che ne sta alla base è che, nonostante i

vincoli posti dalla burocrazia discussi in precedenza, le Forze Armate possano abbracciare

il cambiamento (non ci interessa in questo momento discutere se questo avvenga in modo

discontinuo o incrementale). Il punto è che questo dipenderà dalla capacità che

l’organizzazione sviluppa di generare conoscenza226. Quello che rileva ai nostri fini, quindi,

è che se si accettano le premesse di questa ipotesi, lo sforzo di modernizzazione della

funzione difesa dovrebbe concentrarsi sul tentativo di fornire alle Forze Armate strumenti

adeguati per sviluppare apprendimento.

Occorre dunque stabilire in primo luogo a cosa ci si riferisce quando si parla di

apprendimento. Analogamente ad altri concetti discussi in questa sede, esistono svariate

definizioni227, ma quella che più sembra coglierne i tratti distintivi e meglio adattarsi

all’ambito militare è quella di Richard Downie: “un processo in virtù del quale

un’organizzazione utilizza nuova conoscenza o comprensione ottenuta dall’esperienza o

dallo studio per adeguare le norme istituzionali, la dottrina e le procedure in modi studiati

per minimizzare i limiti precedenti nelle prestazioni e massimizzare i successi futuri”228.

223 G. Gurkan Inan e Umit S. Bititci, Understanding Organizational Capabilities and Dynamic Capabilities in the Context of Micro Enterprises: A Research Agenda, “Procedia. Social and Behavioral Sciences”, Vol. 210, 2015, p. 314.

224 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation: Establishing the Fundamentals of Best-Practice in Lessons-Learned, “Defence Studies”, Vol. 19, No, 2, 2019, p. 113.

225 Ibidem. 226 Ross Dawson, Knowledge Capabilities as the Focus of Organisational Development and Strategy, “Journal of

Knowledge Management”, Vol. 4, No. 4, 2000, pp. 320-327. 227 Tom Dyson, Organisational Learning and the Modern Army, cit., cap. 1. 228 Richard D. Downie, Learning from Conflict: The U.S. Military in Vietnam, El Salvador, and the Drug War, Westport

CT, Praeger, 1998, p. 22.

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O ancora, si può definire l’apprendimento come “un processo dinamico dell’organizzazione

che interessa tutti i livelli (individuale, di gruppo, organizzativo e interorganizzativo) e si

forma mediante continui processi di valorizzazione delle conoscenze esistenti (exploiting) e

di esplorazione del nuovo (exploring), potendo portare a modificazioni della knowledge base

dell’impresa più o meno profonde”229.

Queste ultime specificazioni appaiono particolarmente coerenti con lo sforzo qui

proposto di legare la modernizzazione della difesa alla componente umana: infatti, la

letteratura sull’apprendimento organizzativo è sostanzialmente unanime nell’affermare che

il soggetto analiticamente centrale per sviluppare e implementare conoscenza sia

l’individuo. Sono dunque le persone dotate di esperienza e di conoscenza, nelle varie

agenzie in cui si articolano le Forze Armate, gli agenti in grado di promuovere il

cambiamento. Per questo, le prescrizioni che verranno presentate in questa sede saranno

finalizzate in ultima analisi a valorizzare, incentivare e rendere quanto più effettivo possibile

l’adeguamento dello strumento militare all’attuale contesto della sicurezza.

Un adeguamento che avrà effetto principalmente sui seguenti ambiti: la dottrina militare, i

programmi di addestramento, i sentieri di promozione e la struttura organizzativa

dell’ente230.

A conferma dell’attuale consapevolezza maturata dagli eserciti in merito alla necessità

di saper trarre lezioni dall’esperienza, è facile constatare come la prassi di valutare

l’esperienza sul campo e sviluppare apprendimento organizzativo si sia ormai consolidata

all’interno dei circoli della difesa dei Paesi NATO231. Principalmente come effetto della quasi

ventennale esperienza in Afghanistan, la ricerca di metodi volti a costruire conoscenza in

base alle lezioni apprese è diventata uno dei principali sforzi delle organizzazioni militari per

adeguarsi alle esigenze dell’attuale ambiente operativo. Come visto nel primo capitolo,

infatti, l’evoluzione del contesto della sicurezza ha imposto un generale ripensamento delle

finalità delle Forze Armate – e conseguentemente anche delle modalità d’impiego.

Rimangono tuttavia significative differenze tra i vari Stati membri dell’alleanza in merito

alle strutture organizzative messe in atto per valutare le lezioni apprese e, non meno

importante, in termini di efficacia nel trarre le lezioni corrette dall’esperienza. In buona parte,

questo è dovuto alle diverse risorse e capacità che le Forze Armate dei vari Stati sono

229 Rosa Guzzo, Gestione della conoscenza e capacità di assorbimento nelle imprese biotech, Tesi di Dottorato in Economia e organizzazione delle imprese, XXII Ciclo, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 2010, p. 36.

230 John A. Nagl, Learning to Eat Soup with a Knife: Counterinsurgency Lessons from Malaya and Vietnam, Westport CT, Praeger, 2005, p. 7.

231 Si deve inoltre aggiungere l’istituzione del Joint Analysis and Lessons Learned Centre (JALLC) in seno all’Alleanza Atlantica e il relativo manuale, giunto ormai alla terza edizione. JALLC, NATO Lesson Learned Handbook, 3a ed., 2016, Lisbona, Joint Analysis and Lessons Learned Centre.

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riuscite a mobilitare232: ne consegue che, ad eccezione di alcuni Paesi (principalmente gli

Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia), la maggior parte degli eserciti interessati ha

faticato a sviluppare soluzioni autonome per adeguarsi, e l’Italia rientra di diritto in questo

gruppo di Stati233. Per questo motivo, si ritiene opportuno promuovere iniziative volte a

compensare questa lacuna: da una parte, migliorare i processi finalizzati all’apprendimento

dall’interno e, dall’altra, potenziare i canali di apprendimento dall’esterno.

In questo senso, risulta rilevante – perché strettamente connesso – un concetto

esplorato altrettanto analiticamente dalla letteratura: la capacità di assorbimento234. Nella

formulazione di Cohen e Levinthal, la capacità di assorbimento è definibile come la “capacità

di un’organizzazione di riconoscere il valore dell’informazione esterna, di assimilarla e di

applicarla [per fini commerciali]”235. Tale capacità dipende dalla natura e disponibilità delle

strutture cognitive disponibili – come il tipo di conoscenza pregressa e i canali di

comunicazione tra l’organizzazione e l’ambiente esterno, ma anche la forma

organizzativa236.

A questo fine, è possibile distinguere quattro componenti di tale capacità di

assorbimento237. Questi sono: 1. La capacità di acquisizione della conoscenza generata

esternamente (quindi l’esperienza maturata sul campo dagli altri Stati). 2. La capacità di

assimilazione della conoscenza (ovvero i processi e le routine che permettono di

interiorizzare la conoscenza acquisita a livello individuale e organizzativo). 3. La capacità di

trasformazione, con cui si intende la capacità dell’organizzazione di sfruttare efficacemente

le lezioni apprese, combinando e conciliando la conoscenza pregressa con quella più

recente. 4. La capacità di sfruttamento, con cui si intende l’implementazione di nuovi sistemi,

processi e organizzazioni che riflettano il connubio tra nuova e vecchia base di conoscenza.

L’idea che si vuole sviluppare in questa sede, insomma, è che la capacità di

assorbimento si combini con le capacità organizzative dinamiche nel generare

232 David P. Auerswald, D. P. e Stephen M. Saideman, NATO in Afghanistan, cit. 233 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, Learning From Others? cit., p. 697. Vedi anche supra, pp. 63ss. 234 Wesley M. Cohen e Daniel A. Levinthal, Innovation and Learning: The Two Faces of R&D, “The Economic Journal”,

Vol. 99, No. 397, 1989, pp. 569-596; Wesley M. Cohen e Daniel A. Levinthal, Absorptive capacity: A New Perspective on Learning and Innovation, “Administrative Science Quarterly”, Vol. 35, No. 1, 1990, pp. 128-52. Shaker A. Zahra e Gerard George, Absorptive Capacity: A Review, Reconceptualization and Extension, “Academy of Management Review”, Vol. 27, No. 2, 2002, pp. 185-203; Sergio Catignani, Getting COIN’ at the Tactical Level in Afghanistan: Reassessing Counterinsurgency Adaptation in the British Army, “Journal of Strategic Studies”, Vol. 35, No. 4, 2012, pp. 513-539.

235 Wesley M. Cohen e Daniel A. Levinthal, Innovation and Learning, cit., p. 569. Si veda anche Wesley M. Cohen e Daniel A. Levinthal, Absorptive capacity: A new perspective on learning and innovation, cit.

236 Shaker A. Zahra e Gerard George, Absorptive Capacity, cit.; Frans Van den Bosch, Henk W. Volberdae e Michiel de Boer, Coevolution of Firm Absorptive Capacity and Knowledge Environment: Organizational forms and Combinative Capabilities, “Organization Science”, Vol. 10, No. 5, 1999, pp. 551-568; Justin P. Jansen, Frans Van den Bosch e Henk W. Volberda, Managing Potential and Realized Absorptive Capacity: How do Organizational Antecedents Matter?, “Academy of Management Journal”, Vol. 48, No. 6, 2005, pp. 999-1015.

237 Shaker A. Zahra e Gerard George, Absorptive Capacity, cit., pp. 189-190.

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apprendimento e permettere dunque di riconoscere, formalizzare e diffondere best practices

all’interno dell’organizzazione militare. Una sintesi è disponibile nella figura 2.

3.3 Approcci alternativi alla valorizzazione della componente umana

Poiché, come anticipato, sia la capacità di assorbimento sia le capacità organizzative

dinamiche si concentrano sul fattore umano quale chiave per l’apprendimento, un elemento

centrale per sviluppare entrambe consiste nel promuovere all’interno delle Forze Armate le

condizioni propizie affinché il personale sia motivato a ricercare, condividere, sviluppare e

accettare lezioni e best practices. Si è già osservato in più occasioni come la natura

burocratica della difesa la renda, così come ogni altra organizzazione complessa,

tendenzialmente vischiosa e incline al conservatorismo. Lo sforzo che si propone in questo

paragrafo non è volto tanto a eliminare gli ostacoli al cambiamento (su cui ci si concentrerà

invece nel prossimo), quanto a incrementare gli incentivi individuali e i potenziali benefici di

un approccio dinamico e incline al cambiamento.

A tal fine, la prima condizione che si ritiene necessaria per promuovere

l’apprendimento è di matrice culturale: occorre cioè coltivare all’interno delle Forze Armate

Figura 2. capacità di assorbimento, capacità organizzative dinamiche,

apprendimento e best practices: una sintesi

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una determinata cultura238, volta alla sperimentazione e alla creatività239. La diffusione di

una cultura siffatta risulta importante sia in prospettiva meramente utilitaristica, sia in chiave

sociale: sotto il primo aspetto, infatti, la convinzione diffusa dell’appropriatezza di un tale

atteggiamento modifica il costo/opportunità del conservatorismo240, rendendolo meno

conveniente tanto a livello micro (ovvero dai singoli individui) quanto a livello messo (ovvero

dai gruppi/agenzie in cui si articola l’organizzazione); in termini sociali, plasmando la

nozione di “normalità”, una cultura di questo tipo contribuisce a generare una logica

dell’appropriatezza (e, in ultima analisi, un marker sociale di status) favorevole al pensiero

fuori dagli schemi. Per questi motivi, una cultura organizzativa di sperimentazione e

creatività deve essere promossa a tutti i livelli delle Forze Armate, dalle unità sul campo ai

vertici della struttura241.

La letteratura suggerisce diversi accorgimenti utili per svilupparla242. Tre proposte

sembrano particolarmente promettenti e meritano quindi di essere discusse in questa sede.

In primo luogo, dato che per diffondere un particolare tipo di cultura occorre uno sforzo

continuativo e di lungo periodo, è fondamentale che i valori a cui si ispira siano

esplicitamente affermati nella dottrina delle Forze Armate243. La diffusione della cultura non

può essere il risultato di un’imposizione dall’alto, poiché richiede sostanzialmente

l’accettazione da parte del personale, ma è altrettanto irrealistico lasciare che derivi da un

processo dal basso. Per questo, un primo passo consiste in una chiara definizione nei

documenti ufficiali della Difesa dei principi di sperimentazione e creatività (nonché,

238 Il termine cultura è per sua natura scivoloso. Sebbene a un primo livello di approssimazione sia facilmente intuibile a cosa fa riferimento, tradurne il senso in termini empirici risulta alquanto difficile. La letteratura sul tema è sterminata, e spazia tra ambiti disciplinari molto diversi. Per i fini della nostra analisi si farà riferimento alla declinazione che è stata data in termini di “cultura organizzativa”, definibile in prima battuta come “l'insieme coerente di assunti fondamentali che un certo gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato mentre imparava ad affrontare i problemi legati al suo adattamento esterno o alla sua integrazione interna, e che hanno funzionato in modo tale da essere considerati validi e quindi degni di essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali problemi”. Edgar Schein, Organizational Culture and Leadership: A Dynamic View, San Francisco CA, Jossey-Bass, 1985, p. 9. Per una sintetica ma incisive introduzione alle culture e sotto-culture nelle Forze Armate si veda Joseph Soeters, Organizational Cultures in the Military, in Giuseppe Caforio e Marina Nuciari (a cura di), Handbook of the Sociology of the Military, Cham, Springer International, seconda edizione, pp. 251-272.

239 Sulla centralità della sperimentazione e dell’originalità nella cultura organizzativa si vedano su tutti: David W. De Long e Liam Fahey, Diagnosing Cultural Barriers to Knowledge Management, “Academy of Management Executive”, Vol. 14, No. 4, 2000, p. 125; Victoria J. Marsick e Karen E. Watkins, Demonstrating the Value of an Organization's Learning Culture: The Dimensions of the Learning Organization Questionnaire, “Advances in developing human resources”, Vo. 5, No. 2, 2003, pp. 132-151; Frank G. Hoffman, The American Wolf Packs: A Case Study of Wartime Adaptation, “Joint Force Quarterly”, Vol. 80, No. 1, 2016, p. 138, John Kiszely, Learning about counterinsurgency, “RUSI Journal”, Vol. 151, No. 6, 2006, p. 19; Nika Murovec e Igor Prodan, Absorptive Capacity, its Determinants, and Influence on Innovation Output, “Technovation”, Vol. 29, No. 12, 2009, p. 862, Mike Peler, Tom Boydell e John Burgoyne, Towards the Learning Company, “Management Education and Development”, Vol. 20, No. 1, 1989, p. 7, Rosina Weber, Knowledge Management in Call Centres, “The Electronic Journal of Management”, Vol. 5, No. 3, 2007, p. 336.

240 Donald A. Schon, Beyond the Stable State, New York, Norton, 1973, pp. 33-36. 241 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., p. 115. 242 Ibidem; Ellen C. Martins e Fransie Terblanche, Building Organisational Culture that Stimulates Creativity and

Innovation, “European Journal of Innovation Management”, Vol. 6, No. 1, 2003, pp. 64-74. 243 Un primo tentativo in questo senso è espresso nel Libro Bianco, cit., 2015, p. 22.

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ovviamente, delle loro implicazioni in termini di procedure). Alla luce delle osservazioni

presentate nei primi due capitoli, risulta evidente come le necessità di un ambiente della

sicurezza in continua evoluzione renda auspicabile che lo sforzo di revisione dottrinale –

rappresentato nel modo più evidente dalla pubblicazione del Libro Bianco della difesa –

venga realizzato periodicamente, a intervalli regolari, e attraverso procedure che

coinvolgano quanti più attori possibile, certamente interni, ma anche esterni alle Forze

Armate244.

Un esempio di best practice da cui si potrebbe facilmente trarre ispirazione è il caso

britannico: dal 1991 a oggi sono stati pubblicate sei Strategic Defence and Security Review

(nel 1990, 1994, 1998, 2002, 2010, 2015) e un Defence White Paper (nel dicembre 2003),

oltre a una serie di report sullo stato di avanzamento delle strategie di sicurezza. Per quanto

il processo di revisione non sia stato esente da critiche245, la frequenza costante con cui i

documenti sono stati pubblicati ha avuto il duplice beneficio di promuovere un approccio

sistematico e rigoroso alla politica di sicurezza britannica e fornire una guida costante alle

Forze Armate nel loro tentativo di emulare l’esperienza americana246.

Legata a questa prima proposta, ve ne è una seconda, che riflette la necessità di

garantire che un simile approccio culturale venga accettato e interiorizzato dal personale:

occorre che la revisione dottrinale esposta nei documenti ufficiali sia completata da un

adeguamento dei programmi di addestramento e aggiornamento del personale. In

particolare, un aspetto delle competenze del personale che dovrebbe essere valorizzato

consiste nell’autonomia247. Ovviamente (e coerentemente con quanto affermato nel

paragrafo precedente in merito all’esigenza di adattare le nuove conoscenze alla vecchie)

questo approccio deve essere bilanciato con i tradizionali valori di disciplina, obbedienza e

lealtà248. Tuttavia, anche ai livelli più operativi della gerarchia militare, le attuali esigenze

della sicurezza impongono un approccio che non sia meramente procedurale, ma che sia

orientato alla conformità rispetto agli obiettivi ultimi della missione249. Questo aspetto risulta

tanto più importante se si considerano i contesti in cui le forze italiane sono o saranno

probabilmente coinvolte: missioni di peacekeeping, contro-insorgenza e guerra ibrida. In

quest’ottica, quindi, i programmi di addestramento e i percorsi di avanzamento in carriera

244 Vedi infra, p. 87. 245 Paul Cornish e Andrew M. Dorman, Complex Security and Strategic Latency: The UK Strategic Defence and Security

Review 2015, “International Affairs”, Vol. 91, No. 2, 2015, pp. 351-370. 246 Theo Farrell, Sten Rynning e Terry Terriff, Transforming Military Power since the Cold War. Britain, France, and the

United States, 1991–2012, Cambridge, Cambridge University Press, 2013. 247 Paolo Tripodi, Peacekeepers, Moral Autonomy and the Use of Force, “Journal of Military Ethics”, Vol. 5, No. 3, 2006,

pp. 214-232; Daniel S. Blocq, The Fog of UN Peacekeeping, cit. 248 Claudia Harvey e Mark Wilkinson, The value of doctrine, cit. 249 Paolo Tripodi, Peacekeepers, Moral Autonomy and the Use of Force, cit, pp. 218-220; Daniel S. Blocq, The Fog of

UN Peacekeeping, cit., pp. 209-210.

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devono essere attentamente congeniati per inculcare nel personale la consapevolezza della

necessità di entrambi i principi: obbedienza e indipendenza di pensiero. Come sintetizzato

efficacemente da Tom Dyson, i programmi di addestramento devono permettere ai militari

di dimostrare un pensiero critico e un’iniziativa autonoma e, altrettanto importante, la

capacità di discernere quando questo è appropriato oppure no250.

La terza prescrizione formulata per promuovere la cultura della sperimentazione

consiste nel prevedere quelli che Dyson definisce “meccanismi di supporto”251 – in

particolare, incentivi positivi e risorse di tempo. Per quanto concerne i primi, è possibile

concepire svariate forme di ricompensa e gratificazione252: da premi simbolici a

remunerazioni economiche. Come osservato già negli anni Sessanta da Amitai Etzioni253,

ciascun tipo di incentivo presenta dei limiti e delle controindicazioni: la remunerazione

economica, ad esempio, sarà probabilmente più efficace del premio simbolico, ma

comporterà un atteggiamento opportunista del personale. Seppur consapevoli di questi

limiti, l’incentivo che appare più promettente per promuovere una cultura propensa al

pensiero fuori dagli schemi è legare i sentieri di avanzamento professionale ai risultati

mostrati in termini di capacità di sfidare l’ortodossia. In questo modo, si potrebbe ottenere

un triplice vantaggio: 1. Nel breve termine, creando un incentivo individuale positivo; 2)

riducendo una possibile barriera al dinamismo individuale data dal rischio di essere percepiti

come una minaccia al pensiero condiviso254; 3) nel lungo periodo, promuovendo la selezione

in posizioni apicali di personale più propenso ad accettare il cambiamento.

In merito alle risorse di tempo, per sviluppare una propensione al pensiero originale

occorre che vengano previste apposite sedi e momenti volti alla riflessione e alla

formulazione di conoscenza. Il tempo necessario per la sviluppare capacità di assorbimento

nelle sue quattro fasi richiede che il personale impegnato in tale sforzo sia collocato nelle

apposite agenzie dell’amministrazione della Difesa per periodi sufficientemente lunghi da

conseguire la necessaria socializzazione con le strutture esterne da cui si intende emulare.

In termini di capacità organizzative dinamiche, invece, occorre stabilire un’adeguata

turnazione delle forze con esperienza operativa, in modo che queste abbiano tempo

250 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., p. 116. 251 Ibi., p. 117. 252 Barry Byrne e Frank Bannister, Knowledge Management in Defence, in Defence Forces Ireland, Defence Forces

Review. Dublino, Defence Forces Printing Press, 2013, p. 91; JALLC, NATO Lesson Learned Handbook, cit., p. E-1. 253 Si possono considerare ovviamente anche incentivi negativi – ovvero sanzioni per chi non mantiene una certa linea

di condotta, ma per i fini della nostra analisi non c’è motivo per proporrei tali soluzioni. Per una prima discussione sul tema degli incentivi nella pubblica amministrazione, si veda Amitai Eztioni, Modern Organizations, Prentice-Hall, Englewood Cliffs NJ, 1964 (trad. it. Sociologia dell'organizzazione, Il Mulino, Bologna, 1967).

254 Amy Edmondson, Psychological Safety and Learning Behaviour in Work Teams, “Administrative Science Quarterly”, Vol. 44, No. 2, 1999, p. 356. Considerazioni analoghe possono essere tratte anche dagli studio sulla psicologia del piccolo gruppo. Si veda, tra i tanti, Mark Amidon, Groupthink, Politics, and the Decision to Attempt the Son Tay Rescue, “Parameters”, Autumn 2005, pp. 119-131.

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sufficiente per elaborare e condividere le lezioni apprese sul campo255; non meno

importante, la durata stessa del dispiegamento deve essere considerata con cura: infatti,

una durata troppo lunga (oltre ovviamente a logorare il personale stanziato) rende meno

frequente l’immissione di nuove menti e quindi la possibilità di valutare i problemi da

prospettive diverse; per converso, una turnazione troppo frequente rischia di minare la

capacità di conquistare “i cuori e le menti” necessaria nelle operazioni di stabilizzazione256.

3.4 Approcci alternativi all’organizzazione della Difesa

Il secondo ordine di prescrizioni volto a incrementare le capacità organizzative e di

assorbimento si pone come obiettivo di creare un ambiente congeniale per la piena

realizzazione del fattore umano: in poche parole, più che potenziare e incentivare la

propensione del personale all’apprendimento, esse mirano a ridurre gli ostacoli e le barriere

al dinamismo individuale257. O a evitare, come mostrato nel modo più evidente dalla ricerca

sull’esperienza inglese258, che l’apprendimento al livello tattico non riesca a essere

metabolizzato a quello strategico. Per questo, anziché concentrarsi sul livello micro, si

focalizzano sull’ambito meso – ovvero, l’organizzazione delle Forze Armate, intesa come la

relazione di controllo e interazione tra unità funzionali259. L’aspetto organizzativo – giova

rilevarlo – può essere studiato in modo più o meno dettagliato, poiché rientrano in questa

definizione tanto le relazioni posizionali tra individui in un singolo ufficio quanto

l’organigramma complessivo dell’ente260. Ai fini della nostra analisi, per le ragioni sopra

espresse, l’interesse è chiaramente orientato sulla natura, funzione e collocazione degli

uffici all’interno della gerarchia militare.

Per riassumere in un’affermazione il senso di questo paragrafo, l’intento delle

prescrizioni qui fornite è di promuovere un assetto organizzativo tale da promuovere regole

e procedure atte a incanalare le lezioni apprese attraverso le varie diramazioni

dell’organizzazione. Onde evitare che l’esperienza e l’apprendimento vengano dimenticati,

o che occasioni di emulazione siano sprecate, è opportuno istituire degli appositi

uffici preposti all’elaborazione e diffusione di tali lezioni. Tali enti costituiscono il punto

focale per lo sviluppo di capacità di assorbimento e capacità organizzative dinamiche.

255 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., p. 117. 256 Daniel Marston, Adaptation in the field: the British Army’s difficult campaign in Iraq, “Security Challenges”, Vol. 6, No.

1, 2010, pp. 77-78; Andrzej Lis, How to Strengthen Positive Organizational Behaviors Fostering Experiential Learning?, cit., p. 25.

257 Kim Yong-Mi, Donna Newby-Barrett e Hee-Joon Song, Knowledge-Sharing and Institutionalism in the Healthcare Industry, “Journal of Knowledge Management”, Vol. 16, No. 3, 2012, pp. 480-494.

258 Sergio Catignani, Coping with knowledge, cit; Theo Farrell, Improving in War, cit. 259 Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., p. 105. 260 Donald A. Schon, Beyond the Stable State, cit., pp. 33-36.

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Alcune di queste prescrizione avranno rilevanza solo in uno di questi due ambiti, altre

saranno invece utili per entrambi i canali di apprendimento.

In tema di capacità organizzative dinamiche, una soluzione che appare funzionale a

incentivare l’apprendimento potrebbe consistere nella delega di autorità ai livelli inferiori per

la risoluzione dei problemi261. Il principio che meglio rispecchia questo approccio è quello

della tattica della missione – o del compito, nella dizione tedesca (Auftragstaktik). Non si

tratta certo ci un’innovazione dottrinaria, dato che il primo a formalizzare tale concetto è

stato von Moltke262. È però opportuno sottolineare come ancora oggi tale concetto sia al

centro delle dottrine militari anglosassoni. L’idea che ne sta alla base è molto semplice e

consiste nell’assegnare ai responsabili di compagnia e di plotone un obiettivo chiaramente

formulato, lasciando loro ampia flessibilità operativa su come realizzare l’obiettivo263.

Si è soliti apprezzare come merito principale della tattica della missione quello di

alleggerire lo sforzo di pianificazione tattica da parte dei comandi a livello operativo. Ci sono

però altre ragioni altrettanto valide per abbracciare questa visione: essa, infatti, permette di

portare il centro decisionale al livello in cui verosimilmente la conoscenza del problema è

più approfondita. Inoltre, in termini di capacità di apprendimento, si rendono gli ufficiali ai

livelli inferiori visibilmente responsabili della soluzione o meno del problema. In sostanza,

questo favorisce la motivazione al cambiamento, dato che la visibilità delle proprie azioni

può essere utilizzata come strumento di auto-promozione264.

Ancora a livello di capacità organizzative dinamiche, una seconda prescrizione

suggerisce di realizzare misure volte a promuovere la condivisione e disseminazione delle

informazioni. Questo dovrebbe avvenire simultaneamente a diversi livelli e tra livelli: a livello

tattico, tra soldati e ufficiali sul campo, sia in forma di comunicazioni individuali, sia in piccoli

gruppi265; tra il livello tattico e quelli operativo e finanche strategico, in modo da coinvolgere

la leadership militare; da ultimo, tra componente militare e componente civile

dell’amministrazione della difesa266. Il coinvolgimento attivo della leadership nelle attività di

apprendimento è particolarmente importante, perché fornisce ai livelli inferiori la garanzia

261 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., p. 116. Vanno in questo senso anche le direttive stabilite nel Libro Bianco del 2015 per il futuro modello operativo delle Forze Armate: vedi Libro Bianco, cit., 2015, p. 35.

262 Giampiero Giacomello, Gianmarco Badialetti, Manuale di studi strategici, cit., p. 106. 263 Eitan Shamir, Transforming Command: The Pursuit of Mission Command in the U.S., British, and Israeli Armies,

Stanford CA, Stanford University Press, 2011. 264 Chad C. Serena, A Revolution in Military Adaptation: The US Army in the Iraq War, Washington DC, Georgetown

University Press, 2011, p. 172; James A. Russell, Innovation, transformation and war: counterinsurgency operations in Anbar and Ninewa Provinces, Iraq, 2005–07, Stanford CA, Stanford University Press, 2010, p. 200-201.

265 Jeanne M. Wilson, Paul S. Goodman e Matthew A. Cronin, Group Learning, “Academy of Management Review”, Vol. 32, No., 4, 2007, p. 1047.

266 Andrzej Lis, How to Strengthen Positive Organizational Behaviors Fostering Experiential Learning?, cit., pp. 24–25; Claudia Harvey e Mark Wilkinson, The Value of Doctrine: Assessing British Officers’ Perspectives, “RUSI journal”, Vol. 154, No. 6, 2009, p. 30.

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che il dinamismo non sarà punito e perché contribuisce a scalfire la tendenza al

conservatorismo delle alte sfere267.

L’architettura istituzionale che si ritiene possa facilitare il processo di apprendimento e

la circolazione di best practices richiede un doppio livello di intervento: a livello di corpo e a

livello interforze: occorre quindi operare tanto a livello sistemico268, quanto a livello di

specifiche unità269. Quello che si propone di fare in questa sede, in linea la proposta di

Dyson270, è di istituire uffici la cui funzione sia di facilitare e implementare il processo di

apprendimento in tutte le fasi in cui esso si articola. Ovviamente, strutture come CID,

COMFORDOT, DTT e Ce.SI.VA.271 sono un fondamentale primo passo nella direzione

giusta, ma occorre un ulteriore approfondimento di questo aspetto.

A livello di corpo, si propone di prevedere un ente di alto livello per la supervisione

delle fasi relative all’analisi delle lezioni apprese. A questo ente spetterebbe il compito più

prettamente analitico, poiché si dovrebbero prevedere tra le sue funzioni l’analisi e la

valutazione delle informazioni maturate sul campo, così come la valutazione del rapporto

costi/benefici delle modifiche proposte. Data la rilevanza dei temi trattati e le notevoli

competenze richieste, il personale impiegato dovrebbe comprendere – oltre ovviamente a

personale di rango elevato con esperienza operativa – personale civile della difesa e, con

funzione di consulenza, esperti al di fuori delle Forze Armate. Come visto nel primo capitolo,

infatti, la natura ibrida dei conflitti contemporanei e la funzione pacificatrice dei contingenti

italiani in missione all’estero richiedono competenze sempre più specifiche e articolate,

nonché una notevole capacità di cooperazione civile-militare. Infine, come anticipato, la

necessità di garantire periodicamente un rinnovamento della revisione dottrinale suggerisce

di limitare il mandato del personale assegnato a questo ufficio a non oltre tre anni272.

Il secondo ufficio, gerarchicamente subordinato al primo, dovrebbe essere preposto

all’implementazione delle decisioni stabilite dall’ente di alto livello, realizzando così un

processo “a cascata” su tutte le parti dell’amministrazione interessate dal cambiamento. Si

tratterebbe insomma di un ente interfunzionale, composto dai vertici delle varie specialità di

267 Come ricordato da svariati autori, il processo di selezione dei vertici militari avviene tendenzialmente per cooptazione, in base alla conformità a dottrine che col tempo rischiano di diventare obsolete. Si veda al riguardo: Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., p. 117.

268 Frans Van den Bosch, Henk W. Volberda, Michiel de Boer, Coevolution of Firm Absorptive Capacity and Knowledge Environment, cit.; Justin J.P. Jansen, Frans Van den Bosch, Henk W. Volberda, Managing Potential and Realized Absorptive Capacity, cit.

269 Dana B. Minbaeva, Torben Pedersen, Ingmar Björkman, Carl F. Fey e H.J. Park, MNC Knowledge Transfer, Subsidiary Absorptive Capacity and HRM, “Journal of International Business Studies”, Vol., 34, No. 6, 2003, pp. 586-599; Anil K. Gupta e Vijay Govindarajan, Knowledge Flow within Multinational Corporations, “Strategic Management Journal”, Vol. 21, No. 4, pp. 473-496.

270 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., pp. 120-122; si veda anche Andrzej Lis, How to Strengthen Positive Organizational Behaviors Fostering Experiential Learning?, cit., p. 26; .

271 Vedi supra, p. 57. 272 Tom Dyson, The Military as a Learning Organisation, cit., p. 120.

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corpo. Oltre ad attribuire la responsabilità dell’implementazione delle azioni correttive a

singole (e ben identificabili) agenzie di ogni singola forza, questo ufficio dovrebbe inoltre

farsi carico della revisione periodica dei risultati conseguiti, fornendo quindi un meccanismo

di retroazione (feedback) all’ente di alto livello273.

Occorre infine che una struttura analoga a questi due uffici venga replicata a livello

interforze274. L’agenzia interforze dovrebbe fungere da principale catalizzatore di capacità

di assorbimento, ponendosi inoltre come punto di contatto con JALLC ed eventualmente

istituzioni analoghe. Sebbene questo possa apparire in prima battuta una duplicazione e

un’inutile spreco di risorse, si ritiene che entrambi i livelli siano necessari per un’adeguata

elaborazione e realizzazione del cambiamento: da una parte, infatti, la dimensione interforze

risulta quanto mai rilevante nell’attuale contesto della sicurezza, caratterizzato da minacce

multidimensionali275 e una forte pressione proveniente dalla NATO e dagli Stati Uniti verso

la jointness276; dall’altra, risulta più funzionale alle esigenze sul campo dei singoli corpi

definire autonomamente un ambito di revisione dottrinale specifico – a livello tattico-

operativo – in cui ogni forza sia responsabile di definirne i contenuti, senza contare che un

cambiamento imposto a livello interforze sarebbe probabilmente percepito come un’indebita

intromissione.

Perché questi uffici possano funzionare efficacemente, è necessario assicurarsi che,

una volta istituiti, essi dispongano effettivamente degli strumenti necessari. A tal riguardo,

questi devono disporre di un numero limitato di requisiti – pochi ma fondamentali – in

assenza dei quali il loro ruolo sarebbe del tutto irrilevante nella prassi: come accennato in

merito all’ufficio di alto livello, dovrebbero disporre di un’autorità formale riconosciuta,

occupando quindi un posto di rilievo nella struttura delle Forze Armate in seno all’Ufficio del

Capo di Stato Maggiore di ogni singolo corpo, ad esempio, o addirittura all’ufficio del Capo

di Stato Maggiore della difesa. Dovrebbero poi controllare risorse concrete, in modo da poter

allocare fondi e personale a sufficienza per implementare le azioni correttive che

propongono. Infine, dovrebbero essere in continuo contatto con gli altri uffici rilevanti per la

circolazione e condivisione delle informazioni, così da poter valutare quale corso d’azione

seguire muovendo dalla maggior consapevolezza possibile277.

273 Ibi., p. 121. 274 Tom Dyson, Learning from War, cit., p. 8. 275 Vedi supra, par. 1.2. 276 Per quanto concerne l’enfasi sulla jointness in ambito NATO, si veda NATO, Allied Joint Publication (AJP)-01 Edition

E, Version 1, cit.; in merito agli Stati Uniti, si rimanda ad Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., pp. 171-177.

277 Tom Dyson, The Military as a Learning Organization, cit., p. 121.

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Come dimostrato da Coticchia e Moro278, lo sforzo di implementare i processi legati

alla jointness/interoperabilità, alla digitalizzazione e all’approccio multidimensionale è

avvenuta in buona parte grazie al contatto con strutture NATO a vari livelli. Questo ha

sicuramente facilitato l’emulazione, ma è avvenuto in modo tutt’altro che sistematico.

L’insediamento di agenzie come quelle sopra discusse nell’organizzazione delle Forze

Armate italiane potrebbe contribuire a incrementare la capacità di apprendimento e

l’adozione di best practice. In questo senso, un modello da emulare potrebbe essere il

Lessons Exploitation Centre (LXC) insediato presso il Land Warfare Centre (LWC): il CID

ne ricalca la vocazione, ma andrebbe decisamente potenziato per renderlo comparabile con

l’omologo britannico.

Infine, una terza prescrizione organizzativa concerne il ruolo dei cosiddetti incubatori,

ovvero “sotto-unità informali al di fuori della gerarchia organizzativa”279. Si tratta di strutture

squisitamente informali, che assumono la forma di gruppi di studio o working group a livello

di corpo o di agenzie interforze. Rientrano in questa fattispecie anche i centri di ricerca, il

cui obiettivo è quello di contribuire allo sviluppo di concetti e principi operativi. L’output degli

incubatori, diversamente dagli enti dedicati al lesson learning, consiste in eventi pubblici e

a porte chiuse (come convegni, seminari, workshop) e in pubblicazioni scientifiche e

divulgative (come riviste, collane di libri, instant paper). L’efficacia degli incubatori è quindi

direttamente proporzionale alla circolazione dei risultati della loro attività di ricerca.

Perché questo avvenga sono necessari due elementi: in primo luogo, è fondamentale che

godano del supporto della leadership militare, non solo in termini di finanziamento, ma

anche e soprattutto di legittimazione; in secondo luogo, occorre che la partecipazione agli

incubatori sia quanto più ampia possibile, includendo funzionari di altri ministeri (ad esempio

diplomatici), accademici, esponenti di Organizzazioni non governative (ONG) e delle

industrie della difesa280.

3.5 Approcci alternativi ai processi di procurement

Nel proprio sforzo di modernizzazione, le Forze Armate possono adottare un approccio

incrementale o imprenditoriale281: nel primo caso, cercheranno di massimizzare il proprio

278 Fabrizio Coticchia, Francesco Moro, Learning From Others?, cit. 279 Benjamin Jensen, Escaping the Iron Cage: The Institutional Foundations of FM 3.24. Counterinsurgency Doctrine,

“Journal of strategic studies”, Vol. 39, No. 2, 2016, p. 214. 280 Tom Dyson, The Military as a Learning Organization, cit., p. 119. 281 Jonathan Shimshoni, Technology, Military Advantage, and World War I, “International Security”, Vol. 15, No. 3,

1990/91, pp. 187-215. Il gergo è evidentemente improntato al lessico di Schumpeter. Sul punto si rimanda a Joseph Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etaslibri, 1994, cap. VII; e Joseph Schmpeter, L’imprenditore e la storia dell’impresa: scritti 1927-1949, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.

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rendimento rispetto all’ambiente attuale; nel secondo, cercheranno di anticipare le

evoluzioni future nel tentativo di dare una nuova forma al warfare. A questo fine, la

tecnologia è tradizionalmente vista come la via maestra per perseguire tale obiettivo282.

Non stupisce quindi che la promessa di ottenere un vantaggio competitivo rispetto gli

avversari tramite nuovi assetti tecnologici abbia storicamente avuto un appeal considerevole

nei circoli della difesa. Tuttavia, come argomentato nel paragrafo introduttivo di questo

capitolo, diverse ragioni inducono alla cautela in merito alla possibilità di innovare – non da

ultimo, il fatto che le ambizioni degli innovatori in tempo di pace si siano rivelate storicamente

fallaci283.

Per questo motivo, la prima prescrizione relativa alle prassi di procurement proposta

in questa sede non sarà volta a favorire una politica delle acquisizioni imprenditoriale nel

senso schumpeteriano del termine, quanto a migliorare marginalmente l’efficacia di tale

processo. Si suggerisce quindi un approccio incrementale, che – seppur consapevole della

comprensibile necessità di sviluppare nuovi sistemi d’arma nel lungo periodo – massimizzi

l’efficacia attuale tramite l’aggiornamento dei sistemi esistenti. L’idea alla base di questa

prescrizione è insomma che sviluppare nuovi sistemi d’arma sia solo un second best e che

l’efficacia dello strumento militare possa essere garantita anche ricorrendo ad altre forme di

procurement284.

Per meglio comprendere il senso di questa prescrizione si può fare riferimento a una

semplice classificazione, che distingue quattro tipi diversi di acquisizione, a ognuno dei quali

corrisponde un diverso impegno in termini di progettazione: il primo tipo comporta la

modifica di un sistema esistenze; il secondo tipo implica l’acquisizione di un prodotto

disponibile sul mercato civile; il terzo tipo prevede l’acquisizione di un prodotto che non

richieda ulteriore sviluppo; il quarto tipo comporta lo sviluppo di un prodotto apposito285.

Un approccio incrementale suggerisce quindi di predisporre un adeguato livello di

finanziamento a programmi del primo tipo.

Questa prescrizione risulta giustificata dalle considerazioni esposte nel paragrafo 2.2:

l’attuale allocazione delle spese predilige lo sviluppo di un numero limitato di progetti molto

onerosi, sia in termini finanziari, sia in termini di tempo. Questo produce diverse distorsioni,

282 Andrea Locatelli, Tecnologia militare e guerra, cit., p. 100. 283 Martin Van Creveld, Technology and War, cit. In tempo di guerra alcune innovazioni sono effettivamente riuscite a

segnare le sorti del conflitto – si pensi su tutti all’arma atomica – ma per i fini della presente ricerca questo discorso non è pertinente.

284 Andrea Locatelli, Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, cit., p. 81.

285 Department of Defence Handbook, Acquisition Logistics, MIL-HDBK-502, 1997, p. 4-4. Si tratta ovviamente di una classificazione molto semplice e approssimativa, ma utile per mettere ordine nella complessità e varietà di azioni possibili nel processo di procurement.

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la più grave delle quali è certamente la penalizzazione delle esigenze operative immediate:

come fa notare Paul Taylor, infatti, è singolare che rispetto agli impegni presi in ambito

NATO, l’Italia rispetti l’obiettivo di dedicare il 20% della spesa agli equipaggiamenti, ma

rimanga ampiamente al di sotto dell’obiettivo di spesa per i costi operativi (10% anziché

20%)286. Inoltre, assorbendo al maggior parte dei fondi, la spesa per le acquisizioni delle

piattaforme future distrae risorse altrimenti necessarie per una piena implementazione dei

concetti espressi nella dottrina militare (come visto, lo iato tra allocazione di risorse per la

difesa cibernetica e l’enfasi sul cyber nei documenti strategici è indicativo). Da ultimo, la

realizzazione di sistemi d’arma che adottano nuove tecnologie rende difficile una previsione

esatta dei costi e dei tempi nel lungo periodo, con il probabile risultato di ritardi nelle

consegne e incremento dei costi287.

Un approccio incrementale, invece, promette di riequilibrare il trade-off tra benefici

attuali e futuri288: l’upgrade di sistemi già in uso, o l’acquisizione di sistemi off-the-shelf,

garantisce una riduzione dei tempi legati al ciclo di procurement (poiché di fatto minimizza

o elimina del tutto le fasi di mission area analysis, program definition e risk reduction);

consente inoltre una maggior flessibilità nella pianificazione, poiché un’eventuale variazione

nel numero di unità richieste non va a inficiare significativamente né il costo unitario né i

tempi di consegna; garantirà infine un maggior controllo sui costi, evitando così il fenomeno

piuttosto diffuso dell’incremento del costo finale dei sistemi d’arma rispetto alle previsioni

iniziali.

Si obietterà probabilmente che nessun esercito al mondo può omettere di pianificare

la propria postura militare nel lungo periodo. E d’altronde, i progetti in cui l’Italia è già

impegnata hanno segnato un sentiero da cui sarebbe irrealistico deviare. Occorre quindi

cercare quantomeno dei correttivi per incrementare l’efficienza di questo tipo di programmi.

A questo fine, la seconda prescrizione che si propone in questa sede è di promuovere

286 Paul Taylor, Avanti Tutta: Rebooting Italian Defence, IAI Commentaries 19/42, 27 giugno 2019, p. 2. Ad aggravare il dato, nell’ultimo bilancio della Difesa le voci relative a “Formazione e addestramento” e “Manutenzione e supporto” sono ulteriormente calate. Giovanni Martinelli, Il Bilancio Difesa 2019, cit. Vale la pena notare che questo problema viene sollevato anche nel caso degli Stati Uniti, dove il bilancio per la difesa, come noto, è di gran lunga superiore a quello italiano sia in termini relativi sia in termini assoluti. Si vedano sul punto, Daniel R. Lake, The Pursuit of Technological Superiority and the Shrinking American Military, cit.; Kathleen H. Hicks, Defense Strategy and the Iron Triangle of Painful Trade-offs, Center for Strategic and International Studies. 2017, http: https://www.csis.org/analysis/defense-strategy-and-iron-triangle-painful-trade-offs.

287 Per una discussione di questi aspetti sia concesso rimandare ancora ad Andrea Locatelli, Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, cit., pp. 47-55.

288 Michael J. Pennock, William B. Rouse e Diane.L Kollar, Development vs. Deployment: How Mature Should a Technology Be Before it Is Considered for Inclusion in an Acquisition Program? Proceedings of the Fourth Annual acquisition research symposium, 2007, pp. 5-8.

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l’acquisizione di sistemi attraverso programmi di procurement congiunto, in particolare

all’interno del framework istituzionale europeo (ovvero l’Agenzia Europea di Difesa)289.

Anche questa prescrizione, come la precedente, necessita di essere approfondita e

qualificata: un’applicazione acritica, infatti, risulterebbe oltremodo ingenua e inconsapevole

degli ostacoli che il contesto multilaterale implica. Una prima considerazione che occorre

sviluppare riguarda le fasi iniziali del ciclo di procurement: anche quando avviene che più

Stati decidano di dar vita a un progetto collaborativo, possono emergere delle differenze tra

loro in merito alle preferenze sui requisiti operativi e gestionali del sistema da acquisire290.

Queste divergenze si traducono a loro volta in un più lungo e più complesso processo di

definizione e sviluppo del progetto. La seconda considerazione riguarda invece il rapporto

tra il procurement congiunto e la politica industriale nazionale: considerato il legame

privilegiato del governo con Leonardo-Finmeccanica (di cui lo Stato detiene la maggioranza

del capitale azionario), non stupisce che la politica di difesa italiana abbia storicamente

preferito fare riferimento al proprio campione nazionale (e alle sue tante controllate)291;

partecipare a un programma europeo potrebbe favorire altre industrie militari risultando così

una scelta politicamente sconveniente292.

Nonostante queste obiezioni – utili a spiegare l’impatto finora limitato dell’Agenzia

Europea di Difesa – la via del procurement congiunto con altri Paesi risulta allettante per

almeno cinque motivi: in primo luogo, in prospettiva continentale, considerate le duplicazioni

e gli sprechi di 28 (forse 27)293 eserciti indipendenti, un maggior coordinamento nei

programmi di acquisizione dovrebbe portare a una maggiore efficienza nella spesa per il

procurement, abbassando in ultima istanza il costo unitario delle singole piattaforme294; in

secondo luogo, l’acquisizione congiunta dovrebbe garantire la standardizzazione degli

armamenti, che a sua volta dovrebbe indurre gli Stati europei a incrementare

289 Sull’Agenzia Europea di Difesa l’opera più completa rimane probabilmente Nikolaos Karampekios e Iraklis Oikonomou (a cura di), The European Defence Agency. Arming Europe, Londra e New York, Routledge, 2015.

290 Andrea Locatelli, Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, cit., pp. 77-78.

291 Raul Caruso e Andrea Locatelli, Company Survey Series II: Finmeccanica amid International Market and State Control. A Survey of Italian Military Industry, in “Defence and Peace Economics”, Vol. 24, No. 1, 2013, pp. 89-104.

292 Un esempio recente che sembra confermare la propensione italiana a partecipare a progetti internazionali in cui Leonardo può giocare un ruolo di rilievo – anche a scapito della cooperazione con i partner europei – è sicuramente il caso del velivolo multiruolo di sesta generazione Tempest: dopo oltre un anno di silenzio, l’Italia sembra intenzionata a formalizzare il suo ingresso nel progetto a guida britannica, abbandonando definitivamente la possibilità di entrare nel Future Combat Air System (FCAS) a guida franco-tedesca.

293 Il riferimento è ovviamente a Brexit. Per una prima ricognizione dell’impatto che la probabile uscita del Regno Unito dalla UE ha avuto sulla politica di difesa italiana, sia concesso rimandare a Lorenzo Cladi e Andrea Locatelli, So far, so good? Italian Foreign Policy After Brexit, paper presentato al Convegno Annuale dell’ISA, Toronto, 27 marzo 2019, pp. 15-20.

294 Guido Tatone, La recente evoluzione del settore del Defence Procurement: i vantaggi della costituzione di un Mercato unico europeo nel settore degli armamenti, Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), Rapporto di Ricerca MILSOC AG-S-06, 2018, pp. 107-111. Andrea Locatelli, Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, cit., p. 78.

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l’interoperabilità295; in terzo luogo, il procurement congiunto potrebbe fungere da

catalizzatore per realizzare una maggiore sinergia tra i Paesi europei nella forma della

condivisione degli assetti e, in ultima istanza, della specializzazione296; come quarto motivo,

occorre ricordare come l’Agenzia Europea di Difesa abbia acquisito un ruolo centrale

rispetto alle iniziative lanciate negli ultimi due anni, come la Cooperazione Strutturata

Permanente (PESCO, dall’acronimo inglese), la Coordinated Annual Review on Defence

(CARD) e, soprattutto, il Fondo Europeo per la Difesa297; da ultimo, ma non meno

importante, alla luce delle considerazioni espresse in questo capitolo sull’importanza

dell’emulazione, l’Agenzia Europea di Difesa può fungere da catalizzatore per promuovere

la diffusione di best practices298.

La terza e ultima prescrizione concerne la governance del processo di acquisizione.

A un primo, grossolano, livello di osservazione, una nota dolente sollevata nel secondo

capitolo (vedi supra, p. 51) riguarda la frammentazione del bilancio della Difesa tra MiSE,

MEF e Ministero della Difesa. Come notato da molti299, accorpare tutte le voci di spesa

(incluse le missioni all’estero e gli investimenti per il procurement) permetterebbe una

maggiore trasparenza e razionalizzazione delle risorse. Fatta questa premessa – che

evidentemente trascende l’ambito delle Forze Armate – uno sforzo di riforma che si ritiene

possa avere ricadute positive dovrebbe prevedere almeno tre iniziative.

In primo luogo, una maggiore integrazione delle agenzie volte all’apprendimento nei

processi di acquisizione. Ad esempio, il CID rientra nell’organigramma dello Stato Maggiore

della Difesa (SMD), III Reparto, ma non ha alcun rapporto con il Segretariato Generale della

Difesa / Direzione Nazionale Armamenti (SGD/DNA): pur mantenendo la propria

collocazione all’interno dello SMD, si potrebbero prevedere dei contatti, almeno in funzione

consultiva, con il V Reparto (Innovazione tecnologica) del SGD/DNA. In secondo luogo, una

programmazione di più lungo periodo rispetto ai tre anni del Documento Programmatico

Pluriennali per gli investimenti – almeno per l’acquisizione degli assetti economicamente più

impegnativi – garantirebbe una maggior coerenza ai processi di modernizzazione

capacitiva, permetterebbe un miglior monitoraggio dei costi e fornirebbe stabilità rispetto alla

295 Michèle A. Flournoy e Julianne Smith, European Defense Integration: Bridging the Gap between Strategy and Capabilities, Washington DC, Center for Strategic and International Studies, 2005.

296 Laura Chappell e Petar Petrov, The EDA and Military Capability Development. Making Pooling and Sharing Work, in Nikolaos Karampekios e Iraklis Oikonomou (a cura di), The European Defence Agency, cit., pp. 191-206.

297 Alessandro Marrone e Paola Sartori, Recenti sviluppi verso la difesa europea: opportunità e sfide per l’Italia, Osservatorio di Politica Internazionale N. 148, 2019, https://www.iai.it/sites/default/files/pi_a_0148.pdf.

298 Jean-Pierre Darnis, Giovanni Gasparini, Christoph Grams, Daniel Keohane, Fabio Liberti, Jean-Pierre Maulny e May-Britt Stumbaum, Lessons Learned from European Defence Equipment Programmes, Occassional Paper 69, Parigi, EU Institute for Security Studies, 2007.

299 Per citare uno tra tanti, si veda Paul Taylor, Avanti Tutta, cit., p. 2.

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debolezza dei governi italiani300. Infine, sarebbe utile prevedere, così come avviene in paesi

come Gran Bretagna e Stati Uniti, l’istituzione di apposite agenzie per il monitoraggio delle

politiche di procurment301: questo permetterebbe di avere non solo una maggior capacità di

supervisione da parte del Parlamento, ma anche una più chiara visione dei limiti del

processo di acquisizione nel proprio output.

Un’ultima osservazione prima di concludere questa carrellata di prescrizioni: si è

appena citato l’esempio americano oltre a quello inglese. Sicuramente gli Stati Uniti non

possono essere presi come modello di best practice, poiché il sistema politico-istituzionale

(ma anche economico) a Washington e dintorni è decisamente diverso da quello italiano per

fattispecie organizzativa302 e per scala di finanziamenti; ma neppure il caso britannico può

essere di grande aiuto. Se è vero che Londra ha adottato almeno due delle prescrizioni qui

fornite, va anche riconosciuto come negli ultimi venti anni le Forze Armate inglesi si sono

impegnate in un lungo e faticoso sforzo di riforma dei processi di procurement303.

Ciononostante, i risultati non sono stati – almeno fino a ora – quelli sperati, con programmi

che tardano a raggiungere la piena operatività e costi finali sempre superiori rispetto alla

pianificazione originale304.

3.6 Conclusioni

Realizzare il cambiamento nelle organizzazioni – soprattutto se complesse come

quelle della Difesa – è sempre operazione alquanto ardua, che si scontra con una varietà di

ostacoli, barriere e limitazioni. La letteratura di stampo manageriale ha prodotto una quantità

di studi in materia troppo abbondante per essere discussa in questa sede. Tuttavia, alcuni

contributi sono stati importati con qualche successo anche nell’ambito delle Forze Armate;

300 In Gran Bretagna, ad esempio, nel 2016 è stata lanciata la Defence Innovation Initiative, che prevedeva uno stanziamento di 800 milioni di sterline nell’arco di dieci anni e, altrettanto importante, un Advisory Panel indipendente che ne valutasse l’implementazione su base annuale. Nel 2018 questo rapporto ha messo in dubbio l’efficacia dell’iniziativa, rilevando la lentezza impressa al cambiamento dall’approccio ancora troppo burocratizzato del Ministero della Difesa e dalla sostenibilità della spesa. Si vedano sul punto: Ministry of Defence, SDSR 2015 Defence Fact Sheet, 2016, p. 27; https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/492800/20150118-SDSR_Factsheets_1_to_17_ver_13.pdf; Defence Innovation Advisory Panel, Defence Innovation External Advisory Panel Report, aprile 2018, https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/760821/20180418-Defence_Innovation_External_Advisory_Panel_Report.pdf.

301 Negli Stati Uniti il General Accountability Office (GAO), alle dipendenze del Congresso, ha ampi poteri di monitoraggio e analisi dell’operato delle agenzie governative, tra cui ovviamente anche il Pentagono. Discorso analogo vale in Inghilterra per il National Audit Office (NAO).

302 Martin Auger, Defence Procurement Organizations: A Global Comparison, Library of Parliament, Ottawa, Backgorund Paper No. 2014-82-E, 14 ottobre 2014, p. 4- https://lop.parl.ca/staticfiles/ PublicWebsite/Home/ResearchPublications/BackgroundPapers/PDF/2014-82-e.pdf.

303 Per una ricostruzione molto dettagliata si rimanda a Bill Kincaid, Changing the Dinosaur’s Spots. The Battle to Reform UK Defence Acquisition, Londra, RUSI Books, 2008.

304 Louisa Brooke-Holland, An Introduction to Defence Procurement, House of Commons Library, Briefing Paper CBP 08486, 28 gennaio 2019, pp. 12, 29.

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altri, invece, sebbene ampiamente celebrati come efficacissimi nell’adattare le aziende a

mutamenti di contesto, risultano di dubbia applicazione305. Per questo motivo, nelle pagine

che seguono si è cercato in prima battuta di selezionare la letteratura sul cambiamento

organizzativo più utile ai nostri fini. Così facendo, in questa sede si è proposto un modello

di modernizzazione della difesa che – almeno nelle intenzioni – concilia le legittime

ambizioni di trasformazione con i limiti della realtà empirica.

A questo fine, il fulcro del cambiamento è stato rintracciato nella facoltà di sviluppare

conoscenza. Come ormai assodato dalla letterature corrente, infatti, la capacità di

apprendimento è un elemento centrale nel garantire un costante aggiornamento dello

strumento militare. Il modello di riferimento per formulare le prescrizioni proposte assume

che lo sforzo di modernizzazione debba essere fondato sulla capacità di emulare, ovvero di

importare in modo strumentale processi e dottrine già in uso da altri Paesi. L’apprendimento

è quindi fondamentale per valutare sia le necessità interne (in poche parole, dove

migliorare), sia le opportunità esterne (cosa importare e, altrettanto importante, come

innestarlo sulle prassi correnti). Da questa premessa si è arrivati a formulare prescrizioni

nei tre macro-ambiti della Difesa utilizzati come parametro della performance delle Forze

Armate.

305 Ne è un esempio il famoso ciclo in otto stadi di John P. Kotter. Sia nell’articolo del 1995, sia nel libro del 1996, l’autore americano postula la necessità di sviluppare otto fasi nel processo di trasformazione di un’organizzazione, che vanno dallo stabilire la convinzione che il cambiamento proposto sia necessario all’incorporazione dei nuovi approcci nella cultura aziendale dell’impresa. John P. Kotter, Leading Change: Why Transformation Efforts Fail, “Harvard Business Review”, March-April, 1995, pp. 59-67; John P. Kotter, Leading Change, Boston MA, Harvard Business School Press, 1996. Le critiche a questo modello sono svariate e penetranti. Lasciando da parte le questioni metodologiche, almeno due problemi meritano di essere sottolineati. In primo luogo, si tratta di un modello eccessivamente rigido, poiché postula che ogni fase sia sequenziale alla precedente: il fallimento in una qualsiasi delle otto fasi ne minerebbe l’efficacia concreta. In secondo luogo, il motore del cambiamento in questo modello sta tutto nella leadership, non curandosi troppo delle possibili (probabili) contro-strategie di conservatorismo che l’organizzazione può opporre alla trasformazione. Per una circostanziata critica del modello di Kotter, si veda Steven H. Appelbaum, Sally Habashy, Jean-Luc Malo e Hisham Shafiq, Back to the Future: Revisiting Kotter’s 1996 Change Model, “Journal of Management Development”, Vol. 31, No. 8, 2012, pp. 764-782.

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CONCLUSIONI

La crisi finanziaria, con le sue conseguenze in materia di sostenibilità dell'impegno

militare, la conclusione della più importante missione della storia nazionale post Seconda

Guerra Mondiale (ISAF in Afghanistan), le difficoltà sul terreno che hanno segnato le fasi

successive agli interventi nazionali ed internazionali (dalla Libia all’Iraq), sono fattori chiave

da considerare nel “ri-orientamento strategico” dell’Italia discusso in questa ricerca. L’Italia,

come ben evidenziato dall’intervento in Iraq del 2014 per contrastare l’ascesa di ISIL nel

Paese, continua ad essere un fornitore di sicurezza, affrontando anche missioni altamente

complesse con un numero elevato di effettivi; tuttavia, il cuore del futuro impegno militare

nazionale (ad di là degli obblighi multilaterali) risiede in un’area strategica chiaramente

delineata. Questo triplice ordine di vincoli – ottemperare agli obblighi assunti a livello

internazionale, mantenere un’elevata prontezza operativa e adeguarsi a vincoli di bilancio

stringenti – è un tratto costante del processo di modernizzazione delle Forze Armate italiane.

In questo lavoro si è cercato di sviluppare una batteria di prescrizioni politiche (vedi Tabella

3) volte a valorizzare l’assetto che fino ad ora si è rivelato più importante per la funzione

Difesa: il capitale umano. La premessa che ha guidato l’analisi è che i vincoli strutturali

(esterni e interni all’esercito) inducano il Paese a impostare il tentativo di modernizzazione

secondo un principio di emulazione, dove con il termine non si intende la mera accettazione

di modelli procedurali e/o dottrinali importati da altri Paesi, ma il più difficile sforzo di

adeguare la conoscenza pregressa e quella maturata dal contatto con i partner. A questo

fine, in linea con la letteratura corrente sul tema, si è cercato di indagare quali condizioni

permettono alle istituzioni militari di trarre lezioni – ovvero sviluppare conoscenza. Le nove

prescrizioni sono un primo e modesto passo in questa direzione.

Tabella 3. Un approccio alternativo alla modernizzazione: sintesi delle prescrizioni

Componente umana Organizzazione Procurement

Esplicitare i principi di

sperimentazione e creatività

nei documenti ufficiali

Delega d’autorità ai livello

inferiori per la risoluzione dei

problemi

Adottare un approccio

incrementale al procurement

Valorizzare l’indipendenza di

pensiero nei programmi di

addestramento

Potenziare le agenzie per la

disseminazione delle

informazioni

Privilegiare i programmi di

acquisizione congiunta con

altri Paesi

Fornire strumenti di supporto:

incentivi e tempo Valorizzare i c.d. incubatori

Riformare la governance della

funzione acquisizione

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE

Ce.Mi.S.S.306

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e

per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria

opera valendosi si esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di

pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del

Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.

Andrea Locatelli

Andrea Locatelli è Professore Associato presso l’Università

Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Dopo aver conseguito il dottorato in Scienza Politica presso

l’Università di Firenze è stato scholar-in-residence presso il

Center for European Studies della Carleton University (Canada)

e borsista post-dottorato presso l’Università di Bologna.

È stato docente a contratto e visiting professor presso svariati

atenei in Italia e all’estero, tra cui l’Università Cattolica di Milano, l’Università di Pavia, la

University of Ghana, Novosibirsk State University (Russia), Pázmány Péter Catholic

University (Ungheria) e Carleton University.

Pagina web: http://docenti.unicatt.it/ita/andrea_locatelli/

306 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx

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Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa

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