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Andrea Inglese [Quaderni] E la tortura esiste. E i fiori di rosmarino esistono. [Andrea Inglese]

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Andrea Inglese

[Quaderni]

E la tortura esiste. E i fiori di rosmarino esistono.

[Andrea Inglese]

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Titolo: Andrea Inglese – [Quaderni]

Poesie di: Andrea Inglese

Fonti: Inventari (Zona, 2001); Bilico (d’if, 2004), L’indomestico, (Biagio Cepollaro E-dizioni, 2005); Quello che si vede (Arcipelago, 2006); La distrazione (Sossella, 2008); Prati (La camera verde, 2007; Le Lettere, 2009).

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

Poesia2.0

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da Inventari

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Inventario dell’occhio È insonne, sbarrato l’occhio artificiale, il raggio azzurro che perenne posa su mille avide pupille. È fermo l’oblò del planetario moto che magnete possente orbite sull’asse suo cattura d’albe, mari, amori ed armi, una panna montando di casi e gesta, una schiuma di torri e crolli d’affari umani. E dilata – nel suo lampo – l’orto di casa, la piastrella, lo stallo stretto delle vite, come stazzo abbattuto, e lo spazio esploso invade il chiuso. Ora è selva di rettili, pestilenze, idilli, di matta bestialitade, bagliore di denaro assemblato in alte piramidi, in cemento, in bocche di cannone, e amazzonia, sahara, quinte equivalenti, spogli trapezi per acrobati del pianto o del sorriso, e pennellate rosa di tramonto, abbagliante avorio degli ossari ai piedi delle forche, buio d’ardesia in gironi urbani tra sterri e scantinati. Cronaca, poi svago. È d’uopo, per prudenza, i nodi stomacali rilasciare, zucchero

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su fiele di palato rovesciando: s’agita ninfetta ombelico in vista per celebrare balsamo, tampone vaginale, cono gelato. Liane fatte docili, giardino adesso di contorno, verzura lieve, sciabordìo d’animatori giocondi, e smemorare tutti, tra bocconi e cuscini, acciambellati, fetali, deglutendo nel conforto dell’ovvio, cullati da cluni, seni, sorrisi, smemorare tutto, sbiaditi. Noi vedenti e nolenti, dagli occhi captati, noi convocati di Circe al circo del mondo, su spalti impari distribuiti a smentire la miniera del tempo, gli strati sovrapposti e mobili, i pozzi del corpo che celano mappe antichissime di gesti felici che non trovano luce. Lete a sorsi. Crocefisse le retine all’istante che la moviola ipnotica ripete, un’unghia di sonnambulo cerca ancora, nel buio di tanta visione, la via di fuga nel fondale, lo strappo nella benda della banda magnetica.

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Naturale Cerca bene tra il luccichio, nel fondo, oltre gli scomparti di carne ibernata, le rampe di pomate e vitamine, sotto le coltri di stoffe brevettate per i grandi ghiacciai, cerca bene nel cruscotto ergonomico la spia remota, impercepibile presagio d’avi, Cro-Magnon nelle grotte: fame tale e quale, retriva, idiota, bussa alle tempie, morde le viscere senza appuntamento: mettila nel conto quando ti guardi leggero pulsare sullo schermo, pura traccia cerebrale, alfabeto in perpetuo moto. *** Inventario delle carni perdute Carni da squalo al palo della Cuccagna, al patibolo di salcicce e cinghiari su trampoli inerpicando, gozzi tubi famelici, fauci e proboscidi in cozzi e rapine, al celeste lardo salendo, al morso, al sugo saligno delle entragne, schiuse carni d’azzanno, tuttòfaghe cavità anelanti al convesso frutto del mondo, carni audaci, mandibolari dove siete? Carni vere, indubitabili di predatore ominide, in corsa

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con mani dal pollice opponibile a sciabolare lame di selce nella scia dell’orso ferito, carni di Tarzan, di villoso yeti delle nevi, di mister Hyde, schiumante nell’orbita pazza del bisturi, carni senza verbo, ululanti e ridenti nel cerchio di pugilati e copule senz’altro cielo che il pargolo digesto, il pasto del vicino, carni che i conati scuotono febbrili dal pozzo di viscere al faro di fantasie, di flebili pensieri carnivori, fami fonde di Minotauro: rami di zanne che non separano l’osso dalla polpa, il nocciolo dal frutto, che non sanno il crudo e il cotto… Carni elementari che hanno innocuo, in sé, il germe umano nudo e crudo, prima del pomo cognitivo, del crollo nei ritorti ritardi del cervello, prima dei digiuni e delle diete, del cibo simulacro delle cifre e delle righe, carni acefale, cannoni d’escrementi che serpi di fango restituite al fango da cui sorgete: vermi grassi d’ogni veleno terrestre, d’ossidi e acidi, piombo e pece, carni che interne vi scorticate di scarti, e scisse vi sparpagliate in tumuli di feci, carni di buon selvaggio, rimpiante e desiderate…

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Carni d’incommensurabile felicità non tornate, state pure dove siete: nel mito, nell’assioma di fumetto, nel sogno usurato, a noi le teste di paglia – che a fuoco lento e tanto fumo vanno – restano, per il corto rogo che ci è dato: il residuo istinto è nel refuso, nel punto mancante della i che un correttore zelante supplisce. (Per dose somma di lumi, galatei, pedagogie spossata è la felicità dei sensi, ma s’illude e sferza con artificio infebbrata nella giostra di protesi: con indosso la muta elettronica il mite cittadino caccia il giaguaro ruotando casalingo su se stesso.) *** Il mondo forse si dispiace della nostra limitata noncuranza, oblivione di fosse comuni, carcasse di case, pestilenze, bocche rapinate di voce: i viventi segreti fossili dell’assoluta ingiustizia. Non di loro possiamo spogliarci, ma degli altri, laboriosi, chini sulle pareti della tana: i doppi vetri, le galosce, il freezer, la porta blindata, il cinema domestico via cavo, dove tutto è ancora più solido e lindo, più onesto e resiste ai sismi, agli spifferi, ai sibili strani. La nostra stanza

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è battuta da tanti venti che ancora non abbiamo censito. Agli angoli a bufera sfogata troviamo ingranchiti, strapazzati i nostri corpi stupiti. *** Inventario delle prove se proviamo attraverso la gran nube barocca e il chiasso di scena, trattieni il respiro poi soffia, come un corpo al buio usa l’olfatto e disimpara il punto e la riga, sogna la bibbia sul banco di un analfabeta, se qualcosa ci salva è l’accidia, il passo falso del cieco, se così mi assilli, risalgo, non c’è altro modo, se vuoi toccare con mano sai che i segni sono i sogni più forti, anche i colori mentono, e la lingua non è mai un dono, ma tutto un lavoro, frase per frase viene fatta e rifatta, negli anni, con sudore pensata, collaudata, venduta a paragrafi, accumulata in blocchi d’elastica dottrina (giusto clima di serra in cui orbitare sempre, calore ed erba, luce ed ombra per farci sussistere nel gioco dei tempi, per pomparci l’essere se manca, la luna, il cuore, la sabbia, per darci un amore di cacao e canditi, la rabbia stilizzata in grida adorne, battiti di denti, morsi di serpi alla coda) e tu insisti, dici che esisto, le prove ti rispondo non bastano i nomi, le cose le cose, capisci? anche tu confondi preda e ombra, senti dolore?

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certo se pizzichi e mi pungi, ma credi che basti la certificazione nervosa, alberi ne abbiamo ma il bosco il bosco, ho prodotto e consumato poco, appena, e questo non si perdona, si salverà chi corre, chi occupa un vano, chi ha la mano dentro il tritacarne, fuori da questa febbre non siamo che fame, allora parla parla parla, vivi in giochi di parole, nei lisi fili di frasi, reti di rame, schermi che il tempo calcificano e muri di presente accesi sempre, un nemico calmerebbe l’ansia, una lotta, una breccia, ma tolte le tracce, i pittogrammi, le foto, il fato cosa resta? tolte le scarpe, le chiavi di casa, i vasi d’erica, cosa resta? tolti i segni che appiccico su carta da parati, i romanzi in bottiglia, i segnali morse col cucchiaio, e se tolgo pure te di mezzo, cosa resta? in quale tempo e luogo, in quale pelle sono nato e vissuto, in quale stagione umana ho seminato corti gesti, ho perso le prime proprietà (corpo e fiato) mai messe a registro, le attese spastiche, la tua e la nostra fioritura, e assieme a noi il bosco? (e potrò dire, un giorno, saprò dire, ma dopo, non ancora, dopo: trovandomi per strada: “è quasi buio” ecco, e se non basterà, dirò così: “sono stanco” oppure “accendiamo anche quella luce”, non ora, no) ***

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Bildungsroman di un punk a Maria Vittoria

Non sapevo quale fosse la gentilezza di cui parlavi, lingua per me araba, né conoscevo il rispetto, la tolleranza, la ginnastica delle buone maniere. Tu, ostinata, curavi la mia isteria con assensi ironici e mutismi di rappresaglia. Alle isole Cies dimostravo, seduto su uno scoglio, che l'amore - per circolo logico, somma di sillogismi molati come lenti spinoziane - è impossibile, un assurdo. Ti difendevi bene, per irrisioni e incantamenti, citando pagine d'Ovidio, battezzando un cespuglio - “questo è il pitosforo fa fiori bianchi e profumati, e questa è l'erica che punge e non profuma” - il dito puntato sul mio buco nella scarpa “e questo - aggiungevi - è lo stile del profugo, sbrendolante e cocciuto”, mi sillabavi anche i nomi degli dèi greci come a un bimbo s'insinua nel pianto una nenia, un bavaglio di sonno, e stordito dai morsi lirici, ti mimavo - celebrando il fango del mondo - Céline l'africano, moribondo e diarroico, portato su lettighe, le risa calmavi, disegnando su taccuini fiori di taràssaco. I soffioni spargevo controluce, nell'aria incendiata, e coll'unghia crudele tranciavo i ponti di ragnatela sospesi tra ginestre e muri a secco.

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“La calma è una menzogna:

i parassiti, le raffiche di sale, gli acidi dell'uomo corrodono la costa in ogni fibra, sopravvive convulsa la bottiglia di plastica nella polvere e la pietra forte di una morte cumulata che il tenace logorìo dei vivi non intacca.” Rispolveravo una fredda rabbia: la foto di un minatore andino sedicenne con la ghiaia tra le gengive, custodivo una memoria non mia, sacra, orribile, l'icona dei corpi striscianti nel buio torrido dove si pesca il rame. Non sapevo l'uso e il contesto di parole che per te erano cose ostensibili: “cortesia” e “rispetto”, per me favole di fiato. Non ero mai sereno, disarmato, nell'assedio di presagi e fantasie correnti: i boia al lavoro, meticolosi nell'ustionare, nel bastonare sulle piante dei piedi, nello strizzare i capezzoli fino alla pazzia. Ho conosciuto la gioia violenta dei crestati urlanti nel microfono che a torso nudo tuffavano dal palco sulla mandria assiepata e scalpitante. Ho amato la lebbra dei muri scalcinati, le cicatrici sulla fronte, gli sterri dove nei bidoni cotti dalla ruggine un'acqua chimica culla una testa di pazzo, stravolta dai baleni dell'anfetamina.

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Ho ascoltato, in rapimento, le aspre sinfonie del rumore, battendo una catena sul selciato fino all’ipnosi, nella fabbrica occupata di via Bernina. Rammento tutte le gradazioni dell'angoscia assaporata come elemento fatale, ineliminabile del mondo. Ripercorro le fratture logiche della paura, le sue vette violente, il suo bagliore che sorge da ogni angolo, come un precipitarsi di lame. E lo sforzo per manovrare discorsi che hanno perso da ore tema e direzione. Non ho creduto nella gentilezza, nel sapore del vino, nel profumo delle erbe. Ma nelle geometrie frantumate di solitarie preghiere e meditazioni, negli esorcismi che chiamano i pensieri dei condannati, dei sepolti vivi. E' stata una buona strada sbagliata. La tregua non è meno vera della guerra. Questo ho capito. Mi sono educato di nuovo a pesare tutto e con bilance sempre più precise. E avverto anche un ago di rosmarino, ora, sul palmo della mano. Ed è un dettaglio che diventa centrale nel quadro. E sarò gentile anche con il rosmarino lo innaffio e lo osservo sotto luci diverse, gli ho dato concime liquido, ho legato il vaso crepato con un filo di stendibiancheria. E la tortura esiste. E i fiori di rosmarino esistono.

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da Bilico

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Che la vita cominci da quel cane sdraiato, o da quell’edera morente che ha una zolla dura, di marmo. Dia un nuovo segnale, una vampa, il ventre nudo di quello che parla guardandosi le scarpe senza stringhe, si stacchi dal muro anche il corvo lustro come uno stivale di soldato. E si veda, da come cambia l’ombra dentro al lavabo, che sta avvenendo qualcosa, e si faccia massima attenzione agli intervalli tra le due faccende burocratiche da svolgere, proprio quando l’estratto di nascita ti cambia per sbaglio nome e famiglia, o l’estratto conto disegna l’asciutto del sacco. Proprio allora. (Intanto, ferma tra due persone in ritardo, che guardavano il polso sollevato all’altezza del viso, una signora ha fotografato un foglio poggiato a terra. Vi campeggiava un grande numero telefonico stampato nero su bianco). *** Le cinomachie sono proibite dalla legge, non sono automi quei cani, non hanno tubi e pompe idrauliche dentro ma vere vene e se le recidi quando gli stilla il sangue soffrono, e davvero, come cani,

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poiché oggi l’animale, in Europa, è soggetto giuridico, pur dai vaghi contorni. Se invece fai lottare le blatte, indirizzandole tra bordi di veleni, o le ipnotizzi con lo spray, o se bastoni un piccione, nessuno ti sanzionerà, perché un dolore muto, senza il suo trasparente teatro, è un’ipotesi troppo poco attendibile. Così anche quelli oltre molti mari e montagne, nella loro nube di sabbia, con le mosche sull’addome, il cemento rovente. A richiamo volgono all’obiettivo occhi-fessura: tentano per la bella occasione un volenteroso urlo afono.

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da L’indomestico

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Mamma, fammi una cosa chiusa!

Chiedo forma, con furia, una prima fine, un gelo delle acque che passano, per via del piede che anche calpestando è quasi incolore, non sarà solo adesso che si vive, qui, a ridosso di ogni metro, tra una porta di vetro, una striscia in terra che fa contorno ad un’auto che luccica, perché qualcosa tra la pelle e lo spazio manca di vita, perde il tempo, sbaglia, la stringa o l’unghia diventano segno avulso, senza tessuto, anche il viso che mi passa di fianco sfalsa, senza un plausibile ritmo, oppure il riso irradiato da un gruppo di persone che stride mentre t’arriva di spalle, fa forse freno la merce agitata nei palchi, ma una brutta fantasia mette nei solchi nuova polvere: incavigliato il prigioniero a terra non morde, “chi lo vede lo calpesti” dice un ritornello, facesse il corpo vite in questo asfalto di transito, o cerchio intorno, vera presa ma scivola di dosso troppo dolcemente l’ombra, le spalle a cascata, il piede è discesa, si veglia in frana perpetua, mai si scorgono, si tagliano margini, zone adibite e ben chiuse, e duole questo scontro mancato, l’inanità degli argini, le falle,

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ancor più che i cenni d’assenso profusi ai camminanti, ai muri, come se fosse un arrivo previsto.

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da Quello che si vede

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4. «che cosa nasconde la vita?» diceva il cartello a fumetti, annunciando un’ombra sui lati, un misterioso guscio di cose, ma la mente esposta era tutta attraversata da vento, rumori, numeri di futuri decessi, di angolazioni che vanno misurate, per poi sciogliere le cifre sul foglio, verificando i punti di uscita ed entrata, sostanze, se ci saranno, non solo il sangue apparente, ma dentro, le analisi lo diranno, quali germi, quali esplosioni infinitamente lievi e letali da un fondo quasi intangibile, globulare, di puri intervalli, o dai cassetti calcificati nei tavoli di cucina, mai più aperti, o sotto un foglio accartocciato, grafico di qualche ricetta, con pochi atomi di lenticchie e impronte di farina, o nel vecchio sogno, quando nudo, strisciando tra le felci, scendi a ritroso nel tempo, parli senza microfoni, non avendo lenti, lumi elettrici, ma fiamme, selci, sagome di grandi alberi, sotto cui scavare una prima tana, perché la nuca poggi su terra smossa e la bocca ingoi l’aria della notte, e le pupille si brucino a riassorbire le centinaia di stelle migratorie * * *

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7. Non bastava essere veloci, muovendosi su pattini lungo i marciapiedi, o guardare dentro schermi, nelle mobili immagini, le fasce di colore, le cifre che ingrandiscono nel nucleo rosa, il prezzo dell’andata-e-ritorno, o sapere a memoria il codice segreto, per entrare in casa, prelevare denaro, accedere alla posta, o trovare sul dorso dell’involto il codice a barre, e gli altri numeri del giorno, non bastava, esigeva l’alba, con il gattino piccolo inarcato, attraversato da tremiti, gli occhi scoppiati fuori, il filo di sangue dalla bocca, esigeva su quell’asfalto la sua morte un punto di vista (anche la patata, sepolta, che nel minimo calore pronta a figliare si rompe, spinge nel buio i getti, ostinata) * * *

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14. Tutti i giorni la facile impossibilità della vita. Ogni mattina, sceso dal letto, misuro l’infima, straziante portata dell’esitazione. Sono nell’aggiramento costante, ma è come se ci fossi già dentro, insidiato perfettamente al centro, e permane invece quest’assurda idea di dovervi attingere.

In effetti si è sempre al centro di questa impossibilità, sempre nel fuoco fisso dell’immagine mai attinta.

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da La distrazione

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Vita Non posso non raccontare la mia storia. Chiamo questo: calamità autobiografica. Doversi fare una storia, andarla ad estrarre come una scheggia, tra i tessuti fragili della pelle, a rischio di sbriciolamento, farla nascere, imprimere un’esasperante lentezza a questa cosa mai accaduta, mai appianata, a questa x pulviscolare, interrotta, istantanea, di cui si hanno dintorni a perdita d’occhio, coltri che circondano, di cui si ha un infinito accerchiamento senza possibilità di approssimarsi, di dire: bambino, io, mia pelle, caduta sulla ghiaia. Ci sono in compenso radiografie, molte, a partire dai quattro anni, rimangono quaderni di scuola, copertine di quaderni, rimangono dintorni, passaggi documentati, scontrini. Di quale storia si parli non è chiaro, renderla mia è rallentare, dare il controdocumento, dall’interno, dal buio della x, dare qualcosa dal centro, inventare che ci sia centro, mettendo in prospettiva e simmetria e successione

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e comparando tutte le ferite, i punti di sutura. Quel ferimento è il lato interno di quello che fuori è pura traccia, puro ritardo, perdita, documento. Anagrafe. * * * Progettiamo, anche per questo giorno, anche stupidamente, con grande sforzo di distrazione, mangiando il pezzo di pane che è rimasto, utilizzando il cucchiaio sporco, guardando la fungaia gigante sotto la betulla, progettiamo, anche se gli edifici rimarranno luridi, verso nord, nella cinta che fu una volta operaia, e che oggi non è più nulla, campo di concentramento del non lavoro, delle giornate uguali, lunghissime, a inventarsi come stare ancora in piedi, come se niente fosse, progettiamolo qui, noi, nel quartiere cinese, tra una piazzetta e l’altra, e dentro casa, e sul balconcino, magari, che anche oggi, anche oggi noi non moriremo, né tu né io, e nessuno dei vicini, né i gatti né gli invisibili insetti che cercano sentieri tra le crepe, nelle fessure, il progetto oggi, anche oggi, come nuovo, è non morire.

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Quello che si vede, poco, è sempre di nuovo sotto gli occhi, come ripetendosi, ma non è lo stesso, non tornerà mai così, radente, evasivo, come ora, non sarà quindi mai visto, anche se ci metterai anni a leggerlo, anni per capirlo qualunque cosa fosse, anche solo da vicino, in prossimità, un labbro, i solchi della pelle, un’iride, quando quel che si vede scivola sotto la visione e morde silenzioso o sfiora, tutta la mente è invasa, lo sguardo fitto, gremito di traiettorie colorate, i caratteri cubitali, i simboli nitidi: animali, montagne a cono, alberi di ginepro, remi, scafo, o solo un sacco di plastica lacerato da cui filtra un suolo impossibile senza luce o spazio, una fossa forse, se poi uno a forza di lanciare sguardi avanti, finisse fossile a camminare fermo nel niente * * *

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Dentro questa luce avverrà il collasso per via dei venti che in alto non si governano e le chiodature delle menti dopo lunga, sonnolenta quiete. Tutto vorrà far male, anche sulle parti più tenere. Si drizzano i fili d’erba di taglio e feriscono. Feriranno. Ma nella lunga distrazione, scendendo, pensavamo al colore sbiadito della giacca, ad una cosa da comprare il cui nome smarriva. E il luogo sembrava come prima. I passanti svelti nel teatro di vetrine. * * * E poi mi sono messo a guardare le scarpe. Le mie, estive, di pelle, marroni chiare. Non la suola accidentata, segata sul tacco nel lato esterno di entrambe, no, dentro, perché le calzo a piede nudo, e si devastano progressivamente con straordinaria armonia, aprendo brecce dove poggia il calcagno, per sfregamento, entropia minima, ad ogni passo, con tutta la memoria lì, del passaggio mio sulle superfici, quel camminare sempre insano, fitto, che si ignora, fuggendo avanti, a scavalcare il proprio camminare,

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sorvolandolo a mente, come perdendo i propri pezzi altrove, sfilati fuori, immateriali, a mulinare d’ansia nell’aria, anzi in atmosfera zero, implacata, dei miraggi. E solo le scarpe registrano tutto lo sforzo dei passi, la concretezza dello slancio, ogni metro, per gradini, prati, ghiaie, lastre irregolari, asfalti monotoni. Non io, che le sfilo entrato in casa, dimenticando la terra che sempre mi tiene a posto, sul punto d’appoggio, appiedato nel mondo, certo almeno di questo. * * * Limoni Ci sono zone dell’appartamento inabitabili, altre fin troppo abitate. Sedie su cui è vano sedersi, o impossibile pensare, o trovare una postura di adulto vertebrato. I metri quadri giurati dall’agenzia di giorno in giorno raccorciano, ma senza un ordine, a sproposito. Di fronte, è senza cielo: specchi d’esistenza nel quadro fisso della finestra. Di notte o mattina, è lo stesso: l’immota cucina che l’anziana ogni tanto anima ingoiando minestra da un cucchiaio, le dita a mietere atomi di pane. O la donna che strofina per ore

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i sanitari, finché si allunga spossata sotto la nube azzurra dello schermo. O la più giovane che allo specchio, prima di dormire, indossa intero il proprio guardaroba, solitaria. Di qua stanno i limoni. Un mucchio, nel piatto afgano, pronti a cader fuori. Deformi, grandi come patate, con l’adesivo Duck e il marchio registrato sulla scorza rugosa. Li ha venduti il magrebino più a buon mercato. Li beve lei, per ogni evenienza, con acqua fredda o calda, per niente, per sicurezza, salute. Io colgo le loro bucce deformi, strizzate, guardo nei vani dov’era il succo, guardo il loro piccolo vuoto negli occhi. * * *

A Giancarlo Majorino Non hai confinato la tua mente al frammento, al pezzo separato, al detrito d’immagine posto come campo assoluto, sommario di mondo. Vedi che la pietra apparente del reale, la città nostra filmata, contiene una segreta lotta di viventi, fatiche per stringere l’entrata della luce, ferimenti per aprire…

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E il monumento del visibile: il morente chiamato al microfono, tirato in piedi sulla sabbia, sotto un’ombra organizzata, è tagliato via dai suoi torturatori, apparsi altrove, in altre ore, dentro camicie fresche di lavaggio e stiratura, usando penne su fogli e non uncini su carni disarmate. * * * Da sempre dentro un’antica meccanica che non dà tregua e colma il tempo, cresciuta con i dolori e la spina dorsale, dipanando dal nulla verso anni a venire subito raschiati per nude pareti di nuovo, togliendo ogni arredo, ogni orma dal passo, un salto che comincia ad ogni istante. * * *

Nel mezzo della stanza, nel luogo adibito alla raccolta,

agli esseri che siedono e parlano e sollevano e scrivono e bevono,

lì nel mezzo si fa un vuoto nero, a centrifuga,

partono via, schizzati i punti di contorno e di sostegno,

sedie, tovaglie, libri, pagine, stoviglie, spazzate via mentre

le braccia aperte fanno risibile ostacolo, rete sfrangiata, anche

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spalancando la bocca per ingerire i frammenti, le ciglia, le polveri,

o tra le dita divaricate lembi di stoffa, schegge, cavi, cornici,

lo spazio liquido, sfondato, gli occhi pieni di chissà quale manna, la mente

sguantata all’esterno * * * Tutti questi cani stanno male, la città, gli appartamenti chiusi e bui, il trito industriale giornaliero, l’accento cupo dei padroni, li hanno modificati nelle ossa, nelle terminazioni ultime. Con lo sguardo latteo, ad un albero si trascinano sempre più irreali: feci calcificate in deposito ed il muso che ciondola come da un involto cucito in fretta, somiglia tutto al Sapiens che lo tira, quasi un solo destino di passeggianti li accomunasse: la bestia ad espellere, con fatica ogni volta maggiore, un piombo d’escremento, e la donna o l’uomo ad espellere la vecchia o nuova fissazione: un viso, un calcolo, un cognome. Gli somiglia pure chi non ha cani, perché tutto giunge all’uniforme fratellanza:

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le vertebre del piccione, con l’arabesco di viscere ancora gonfie sotto l’ala, la bambina color cera, che agita due stecchi dentro le maniche di maglia gialla, lo spacciatore, che ha cucito le mani nelle tasche, e tutto ormai dirige e schiva a cenni del capo, o schioccando la lingua. E la testa di pesce che attende nell’angolo remoto della piazza il ritorno delle squame, dell’acqua, della sabbia sul fondale, della luce oscurata da lame azzurre di correnti. * * * Non posso che guardare asfalti, mirabilmente, con sollievo, nelle sottili fatiche dell’attraversare, del camminare circospetti, la folla ben disseminata, e giovani scattanti con zaini o borse a tracolla, e vecchi che rallentano il flusso, che pensando sono costretti a fermarsi, le varietà, tutte, di asfalti, le lunghe gettate ancora nere e brillanti, rugose, e le vecchie pezze, crepate o esplose, con strati di malta grigia affioranti, e le date, tutte le date incise, di una pezza o di un’altra, di un tubo riesumato, o di trecce di cavi in aorte nuove… Gli asfalti, ora che li osservo e fotografo, e sogno la notte di dipingerli su pareti ampie, calcinate,

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si aprono come paraventi e sipari. Questi asfalti sono più puri e levigati degli strapiombi di grattacielo, hanno più storia dei nostri archivi familiari, e sono più misteriosi e fondi degli abitacoli delle auto in sosta quando un passante per caso li scruta. Tutte le nostre tracce ultime, i reconditi sforzi, le urgenze biologiche, sono fissate lì, addormentate, come in un glutine, in attesa di un lievito che non verrà mai, le cipolle o le rane spappolate, i fanghi digestivi, i tuorli d’uovo seccati, i grumi di vernice, le sigle misteriose tracciate con il gesso, stringhe, cucchiai, petali, maniglie, e le polpe dei cibi, le bucce, le carote grattate da un tacco, i chiodi, i potenti chiodi cerchiati da una vernice rossa, questi ultimi chiodi che forse tengono tutto fermo, fissato su una crosta, su qualcosa di ancora terrestre, antico, preistorico, prima che scivoli via con la vita anche l’intera impalcatura: arredi, derrate, metalli, la giungla leggera delle merci, e i nostri gusci di cemento appena più longevi di noi.

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Non accade. E intanto passano le minuscole cose, e ad esse ti attieni, spiando gradazioni infime di colore, infami, vuote. Non giunge. L’equilibrio è buono, aprendo la bocca l’aria vi entra, respiri, guardi lontano, fermo sulle due gambe, e le muovi. Non avviene. Intanto vanno, di ora in ora, con un delicato meccanismo di strazio, i giorni: siedi e ti alzi, cambi di tasca le chiavi, perché non scavino dentro la tela, passi la spugna sul tavolo, rivolti una maglia, guardi ad uno ad uno i gradini o in alto la flessione dei rami con l’ultima luce e sembra il raggio fare di ogni fine una cosa solenne. Non era questo. Ma quelle storie monche, rade, filtrate in inverno attraverso muri e pareti, hanno a lungo preparato un sogno: verrà l’unica viva sorte a devastare di nuovo, verrà guastando ogni misura di calma e di conforto, per ricomporre il piccolo vivere nostro dentro i ferocissimi mali del mondo. E sentiremo, quel giorno, ampio come un pianeta l’attimo e il passo, e la difficoltà ad ogni metro di non cadere.

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Presagi del passato Ti voglio dire che sotto, in me, laddove il mio cavo si congiunge con l’immensa cavità che divora nascosta la metropoli, facendo sabbioso il basamento, lì confluiscono le seti. L’ira dorme finché i sepolti affondano e non toccano fondo. La pietra che tu credi ultima o l’acciaio è disegno provvisorio, caso, che attende il taglio. La nube alta dentro cui usciremo bianchi spettri di polvere, a brandelli nei nostri brandelli, è la giustizia di sangue. Riconosceremo la fratellanza di un unico errore. D’abitudine, nei giorni di felice presente, si piange divisi, in abitacoli bui o dietro porte di pubblici bagni, schivandosi sempre. Ma nel crollo, prime a piegarsi come carta sono le paratie, le mura divisorie. * * * Guardali come ostinati scendono e cedono ad ogni passo, e dimenticano a lato, indietro, poche cose, tutte quelle che hanno, un giornale, un sacchetto di semi, un bicchiere

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di plastica, ma anche i nomi scordano, di persone anche vicine, che scendono con loro, con l’acqua fino all’inguine, e poi le alghe e la schiuma sudicia al petto, e dopo, per la pressione, la difficoltà del respiro, quando anche la vista cala, scendono del tutto, la testa sotto, fino a capovolgersi, perduti i punti di riferimento, la luce offuscata, verde, nessuna possibilità di risalita, più.

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da Prati

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Prato n° 111 (Pellicola cinematografica, giornali, ciuffo d’erba) Tutto deve scomparire e Sono morti mentre stavano pregando. La stagione non presenta colpi di scena. Rami si muovono adagio, le sedie oscillano. Una telecamera per chilometro quadrato, ma anche meno. Nonostante la generale agitazione, Pauline era calma. Le rimanevano molte occasioni di morte accidentale e violenta da vivere. Le mancavano quaranta o cinquant’anni prima di risolversi ad una morte naturale. Nonostante le apparenze, Pauline desiderava guadagnare grosse somme di denaro, e non ci teneva ad avere i bambini vicino. Insopportabile Paul Newman, appare tutto il tempo con lo stesso completo grigio e Cade dal balcone con la bibbia in mano. Il marito di Pauline continuava a raccontarle di operazioni commerciali scomode, di licenziamenti da tenere segreti. I due uomini dalla testa di pesce che si presentarono alla porta, non erano catalogati come entità biologiche modificate. Nonostante le apparenze, Pauline non preferiva i quadrupedi ai volatili, e desiderava fare l’amore con persone di età diversa. (I suoi capezzoli tremano appena azionano il martello pneumatico.) Ancora piccole meduse nella vasca e Perde la testa durante la processione. Gli sconosciuti rovesciarono pollo in gelatina per la casa. Nonostante il continuo inseguimento, Pauline teneva a mente la lista della spesa. Il marito di Pauline cadde in una trappola destinata ad un meticoloso terrorista sessuale. Gli sconosciuti presero in ostaggio le cassiere del supermercato. (Le si crea un vuoto allo stomaco, quando interrompono i canti al piano di sopra.) Pauline si vide costretta a rinnegare il giorno in cui perse la verginità. Nonostante le apparenze, gli uomini dalle teste di pesce nuotavano goffamente. Alpigiano parla con accento preistorico e Annega per recuperare

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la catenina col crocefisso. Il marito di Pauline fu defenestrato per un’incomprensione tra i due agenti di sicurezza. Pauline si lasciò sfiorare con la lingua, ma comprò ugualmente zucchero e sale. Gli sconosciuti cominciarono a perdere aria dalle branchie. (Sente un prurito sotto le ascelle, quando la sala da pranzo prende fuoco.) Nonostante le apparenze, gli uomini dalle teste di pesce sapevano sparare a casaccio sulla folla. Pauline chiuse con gran delicatezza quel periodo ambiguo della sua vita. Andò a vomitare sul prato. (Le lacrime le scorrono sulle guance, quando l’erba rimane immobile, non agitata dal vento né da minuscoli animali.) * * * Prato n° 147 (magnetofono e proiezione super otto) Cerchiamo di farla noi, in tutta tranquillità, così ravvicinati, confidenti, un’infanzia, senza drammatizzare. In qualsiasi momento, è di grande utilità, rimbocchiamoci le maniche, un’infanzia nuova, con rigore. È ovvio che ci va di mezzo un bambino, soluzioni alternative non ne esistono, ci andrà di mezzo, anzi mettiamocelo subito, meglio un maschio allora, che le bambine sono più difficili, se si sdraiano sull’erba, e sollevano i loro vestiti leggeri, a fiori. Come quelle fotografate da Lewis Caroll, dai vestiti logori e le facce adulte, per via delle gonnelline quasi rovesciate, di quella pelle troppo dolce, ma le labbra gonfie, come disegnate sopra, del tutto false, da donna matura, nessuno sa come gestire le labbra adulte, sulle gambe dolci, con il gonnellino tirato su, che poi uno le fotografa, come Lewis Carroll, queste bambine, e non sa più perché va a fotografare tutta questa infanzia, proprio tra le bambine, sui loro corpi, appena si sdraiano, e sceglie le facce più adulte, le labbra

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mature. Se facciamo un bambino maschio, poi lo piazziamo in mezzo, dentro la sua infanzia, in campagna per forza, lasciamogli quest’opportunità, che ci siano le galline, l’aia polverosa per giocare a pallone, il cane disteso sotto il sole, la montagna di fieno, le cantine e i solai, con dentro i bauli, e nei bauli le divise dell’ufficiale fascista, le scale a pioli poggiate sui muri, la serra in disuso, con molte ragnatele e vetri rotti, i fossi con dentro le rane, i prati con le lumache o le cavallette, i prati con l’erba così alta che uno ci si tuffa, si mette a pancia in giù, con gli steli che pungono la faccia, e dà grandi bracciate, nuotando in mezzo al polline, alle spighe, schiacciando qualche margherita, mangiando addirittura erba, e tirandosi dietro una bambina, vediamo di lasciargli questa opportunità, basta che non si metta sopra di lei a cavalcioni, tirandole i capelli, mordendole il collo, gridando che la farà annegare, mentre un’eccitazione gli scoppia in testa, e non capisce più nulla, sentendo come la bambina si abbandona alle sue sevizie, con la faccia che è divenuta rossa ad entrambi, lui con la schiuma di saliva agli angoli delle labbra, lei delle lacrime lungo le guance, i piccoli ematomi azzurri che le sbocciano sulle spalle, tra le scapole, dove lui tira colpi, con il palmo della mano aperto, o dove lui arriva con la bocca, per poi mordere, questa opportunità è così pericolosa, in fondo, qualche vecchia deve farsi vedere, o cominciare un lamento, o mettersi a gridare davanti alla cucina, che è pronto. Qualcosa deve salvarli dalla loro infanzia, facciamo in modo che ne escano bene, diciamo non così malconci, che lei non sanguini dalla bocca, che lui non si sia di nuovo tolto i pantaloni, per sdraiarsi come morto, tenendola ferma per un braccio, entrambi supini, il sole che ferisce gli occhi, il sesso di lui teso, lei che non parla, straordinaria bambina muta, sempre, perfettamente, come un animale, sotto ogni prova e sevizia, ma

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capace di calciare a volte, di sottrarsi di colpo alla presa, di fuggire via dal prato. Bisogna moderare questa infanzia, spingendo avanti la vecchia, che esca dalla cucina, la vecchia non vuole avvelenarli, o rapirli, come nelle favole nordiche, ma è bene che siano poco presenti padre e madre, anche perché il padre è morto, il bambino ha un assoluto bisogno di un padre morto, a volte si alza di notte e danza come sul cadavere del padre, ma il padre non è mai esistito, non è quello morto, sono tutte false piste, il bambino è stato messo nell’ignoranza, è nella menzogna che bisogna tenerlo, il padre è lontano o morto, non lo sa bene, gli danno notizie vaghe, la vecchia per lo più dorme o taglia ortaggi, la bambina si fa mordere ma non apre bocca, non riesce neppure a gridare, quando lui davvero perde il controllo, nell’erba, le tira forte i capelli, prova a strangolarla, e lei pare diventare ancora più morbida, tutta più molle, come fosse già slogata, un corpo disossato, di gomma, quando arrivano quelli più grandi qualcosa viene a sapere, diamogli quest’opportunità, senza drammatizzare, qualche sevizia anche passiva, non solo il piccolo torturatore del prato, sei un figlio di bastardo gli dicono, tua madre è una cagna puttana, ma non si deve prendere ciò alla lettera, lui per primo lo sa, nell’infanzia, tutti riversi nell’erba, o si lotta in silenzio, con la testa scoppiata dall’eccitazione, o si dicono cose apparentemente tremende, lasciamoli fare, sono ferite che prima arrivano prima rimarginano, lui neppure ascolta le frasi alla lettera, è lo spirito che conta, è che si calano i calzoni, e lui senza dispiacere ingoia i loro sessi, lo fanno per gioco, non l’hanno mai forzato, anzi si distendono nel prato, in mezzo alle cavallette e ai soffioni, come se nuotassero a dorso, vieni con noi bastardo, prenditi in mano l’uccello, pensa a tua madre, ma scherzano, ognuno impegnato col proprio sesso, e dura molto il pomeriggio, il prato

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sembra prendere fuoco, allora lui ingoia un sesso, poi l’altro, vuole che gli altri facciano lo stesso, ma è troppo piccolo il suo, loro poi cantano la canzone del bastardo, tuo padre ne riempie un’altra, gli dicono, ma quando arriva Jusuff, che è turco, allora lo fanno nuotare loro, tutti assieme nell’erba, gli fanno mangiare le cavallette e, quando riescono a catturarle, le lucertole, anche Jusuff non parla, lui neppure piange, grida moltissimo, come se gli stessero strappando la pelle, sputa tutto, sputa addosso a tutti i pezzi d’erba, di cavalletta, di lucertola, nell’infanzia le cose vanno veloci, è come se precipitassero, si caricano durante la notte, si accumulano di mattina, come tante sorprese, e poi esplodono nel pomeriggio, il prato sembra prendere fuoco, sarà che l’infanzia è solo d’estate, non possiamo anticiparla o posporla, è proprio nella combustione che bisogna mettere di mezzo il bambino, dove la fiamma è più fitta, alta, tentano di fargli mangiare tutte le cose del prato, a Jusuff, e il bambino fa la sua parte, va a cercare i gusci, le radici, i piccoli sassolini che Jusuff deve inghiottire, anche se quello grida, la vecchia, e tutti gli adulti, anche loro vecchi, sono in cucina, dormono, sono al fresco dietro le persiane chiuse, lasciano che l’infanzia faccia il suo corso, che l’incendio si propaghi, e che tornino a sera, ormai combusti, senza più luce negli occhi, il bambino, sopravvissuto alla sua infanzia, lasciamolo lì, a mangiare la minestra, a buttare a terra i pezzi di carne che non riesce a inghiottire, lasciamo che la vecchia gli parli della madre, dei lunghi viaggi della madre, e del padre, di come il padre è morto giovane e bello, quanto era elegante il padre, e quanto viaggia lontano lavorando sempre la madre, lasciamo che la vecchia gli parli, gli dica qualche parola dolce anche, provi a fargli una carezza, gli posi le mani leggere sui capelli, al bambino, ormai tutto consumato, combusto, che non sa più di esistere,

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dimentico di sé, avendo tutto bruciato nel prato, a contatto con i sessi degli amici, mordendo la nuca alla bambina, facendo ingoiare fango a Jusuff, si è così ben arroventato, nel nuoto d’erba, perdendo tutto quanto, non avendo più qualcosa da difendere, un proprio nome, una parte sacra del corpo, dei ricordi dolci, nulla gli è rimasto, tutto è stato messo dentro, divorato, violato, non ha più vergogna, nel prato ha perso ogni vergogna, non drammatizziamo, è così che si fa spazio l’infanzia, che fa il suo corso, poi quando finisce, il prato viene sepolto, si getta molta ombra sul prato, manciate di ombra, al posto delle urla afone, si mettono in bocca alla bambina delle frasi semplici, una canzone di coccodrilli, agli amici si mette in mano un pallone, invece dei loro sessi, sempre gonfi, tumefatti, sotto il sole, a Jusuff si dà un sorriso allegro, e si ricordano i dolci che portava di pomeriggio, avvolti in un fazzoletto, quei dolci da mangiare sull’erba, rompendoli in tanti bocconi, per ognuno. In questo modo è finalmente finita, possiamo mettergliela alle spalle, tutta ricordata, mai esistita, la sua infanzia.

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Andrea Inglese è nato a Torino nel 1967. Vive e lavora a Parigi. Insegna attualmente letteratura e lingua italiana presso l’Università di Paris III. Suoi interventi saggistici sono apparsi su varie riviste (“Baldus”, “Derive/Approdi”, “L’Atelier du roman”, “Versodove”, “il Verri”, “Trame”, “Qui”, ecc.) e nei volumi Ákusma. Forme della poesia contemporanea (Metauro, 2000), Scrivere sul fronte occidentale (Feltrinelli, 2002) e Ritmologia. Il ritmo del linguaggio, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2002). Ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo per le edizioni del Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate di Cassino (2003). Ha pubblicato le raccolte poetiche Prove d’inconsistenza, con prefazione di G. Majorino nel VI Quaderno italiano (Marcos y Marcos, 1998), Inventari (Zona 2001) con postfazione di B. Cepollaro, Bilico (d’if, 2004), Quello che si vede (Arcipelago 2006) e l’E-book, L’indomestico, Biagio Cepollaro E-dizioni 2005 (www.cepollaro.it). È in preparazione Colonne d’aveugles, per l’editore francese Le Clou Dans Le Fer.

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Una sezione di Inventari e altre poesie sono pubblicate in Poesie dell’inizio del mondo (Sossella, 2003), che raccoglie i finalisti del premio Antonio Delfini. Alcuni testi inediti sono apparsi sulla rivista “Avanguardia” (n°22, 2003), accompagnati da saggi di Cecilia Bello e Giovanni Palmieri sul suo lavoro poetico. È presente nel numero 135 (2005) di « Nuova corrente », che contiene un’antologia di testi di poeti italiani 1996-2005 curata da Paolo Zublena e Giancarlo Alfano. Ha curato con Andrea Raos un dossier sulla poesia italiana, Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in Action poétique (n° 177, settembre 2004) e uno sulla poesia francese, Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in Nuovi Argomenti (n° 32, ottobre-dicembre 2005). Traduzioni in francese dei suoi testi appaiono nella riviste francesi Action poétique (n°177, settembre 2004) e If (n° 27, 2005), nella rivista canadese Exit (n° 40, 2005), nella rivista belga Le Fram (n° 14, inverno-primavera 2006). Traduzioni di suoi testi in rumeno sono apparsi nella rivista Semn (n°3-4, 2005 e n°1, 2006). Traduzioni in inglese sono disponibili sul sito Poetry International Web, nella sezione dedicata alla poesia italiana. È presente nelle antologie di poesia italiana contemporanea Parola Plurale (Sossella 2005) e Il presente della poesia (LietoColle, 2006). È il curatore di Per una poesia futura. Quaderni di critica letteraria, rivista di critica letteraria on sul sito di Biagio Cepollaro. Ha partecipato a diverse manifestazioni di poesia in Italia e all’estero, tra cui Ricercare ’97 (Reggio Emilia), Romapoesia (1999 e 2005), Festival Internazionale di Poesia del Mondo Latino Ars Amandi tenutosi in Romania (2005), 34ème Rencontre québécoise internationale des écrivains a Montreal (2006), Milano

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Festival Internazionale di Poesia (2006) e La poésie /nuit festival di poesia contemporanea a Lione (2007). Suoi racconti sono apparsi sulle riviste “Qui”, “Sud”, “Nuova prosa” e sul blog collettivo “Nazioneindiana”. Suoi testi sono stati utilizzati dal compositore di musica elettronica Giovanni Cospito: Supra Modum, per soprano, suoni elettroacustici e live electronics (1996) e Prologo da “Le camere di Orfeo”, per elettronica (1993). È autore con la videoartista Rosanna Guida del video La buiosa (1997), Prix de la Création Vidéo 98 al Festival “Art contemporain” di Clermont-Ferrand (Francia 1998). Con il gruppo Sincretica ha presentato due spettacoli multimediali: Memorie dell’immediato (1996, Milano e Venezia) e Spot-city: esercizi di persuasione urbana (1998, Genova e Milano). Ha curato con lo scrittore Giorgio Mascitelli Akusma: forme della scrittura contemporanea: rassegna di letture e discussioni di poeti, romanzieri e critici per il Fastweb Foyer del Teatro Franco Parenti di Milano (2002-2003). Collabora al blog di romanzieri e poeti Nazioneindiana, alla rivista on line L’Ulisse, Italianistica online). Materiali critici sulla sua opera sono disponibili sul blog www.cepollaro.splinder.com.

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