Quaderni - Xaverians

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Volume 13 (2018) Quaderni del Centro Studi Asiatico Xaverian Missionaries Ichiba Higashi 1-103-1 598-0005 Izumisano Osaka - Japan Bangladesh – Indonesia – Japan – Philippines – Taiwan 2

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Volume 13 (2018)

Quaderni

delCentroStudiAsiatico

Xaverian MissionariesIchiba Higashi 1-103-1

598-0005 IzumisanoOsaka - Japan

Bangladesh – Indonesia – Japan – Philippines – Taiwan

2

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Quaderni del Centro Studi Asiatico

I Quaderni del CSA ospitano articoli e studi che riflettano su alcuni fenomeni religiosi, socio-economi-ci, politici, culturali e missionari delle Regioni Saveriane presenti in Asia. Essi si propongono anche di far conoscere eventi o esperienze che possano arricchire ed essere di aiuto ad altri missionari coinvolti nelle stesse attività.

Quaderni del Centro Studi AsiaticoXaverian Missionaries

Ichiba Higashi 1-103-1, 598-0005 Izumisano, Osaka – JapanTel. (0724) 64-3966 / Fax (0724) 64-3969

Direttore

Redazione

Tiziano Tosolini • Giappone

† Everaldo Dos Santos • Filippine

Matteo Rebecchi • Filippine

Valentin Shukuru Bihaira • Indonesia

Sergio Targa • Bangladesh

Fabrizio Tosolini • Taiwan

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Indice

Volume 13, n. 2 2018

58 Paolo e il «Cristianesimo ateo» Slavoj Žižek e il materialismo paolino (2 parte)

Tiziano Tosolini

RELIGIONI E MISSIONE

71 Ecumenismo e missione visti da OrienteFabrizio Tosolini

82 Misericordiæ Vultus. Ecumenical and Interreligious DialoguePaulin Batairwa

84 The 2018 Course of Introduction to Buddhism in JapanRocco Viviano

87 Riflessioni sul corso di Introduzione al Buddhismo per missionari in GiapponeRomualdus Juang

CULTURA E SOCIETÀ

93 Novelle Bengalesi - iv Il valore di una persona non si misura in denaro / Shuktara e il mostro / Il califfo e i tre pittori

Antonio Germano

99 Art. 9 della Costituzione giapponese In 23 località gruppi di semplici cittadini sfidano lo Stato

Silvano Da Roit

IN MARGINE

105 Annunciare il vangelo in Indonesia Intervista a p. Sandro Peccati

Matteo Rebecchi

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Paolo e il «Cristianesimo ateo»Slavoj Žižek e il materialismo paolino (2 parte)

Tiziano Tosolini

Žižek inizia la sua analisi citando alcuni esempi «perversi» (in senso lacaniano) della religione cristiana: la cacciata dal paradiso e il tradimento di Giuda. In entrambi

i casi, Dio sembra seguire la logica dell’osceno supplemento superegoico, ingiungendo un comando positivo ma, di fatto, desiderando o incitando la sua trasgressione. Detto altrimenti: Dio, secondo Žižek, pare necessiti della caduta dell’uomo al fine di salvare l’umanità, così come Gesù ha bisogno del tradimento di Giuda per poter portare a ter-mine il suo sacrificio redentivo. E, riguardo a quest’ultimo, Žižek non esita ad affermare che «L’intero destino della cristianità, il suo cuore più intimo, dipende dalla possibilità di interpretare questo atto in modo non perverso»1.

Ciò che rende questo problema così urgente non è quindi lo stato attuale del Cristia-nesimo, quanto piuttosto la possibilità di rintracciare una via d’uscita dalle trame della perversione. Infatti, per Žižek, la società moderna è nella sua essenza estremamente per-versa nel senso che l’ideologia tardocapitalista impone al soggetto di godere, ma in ma-niera totalmente prudente, morigerata e quasi ascetica2. Il Buddhismo e le varie religioni orientali, inoltre, sembrano essere il perfetto completamento ideologico del capitalismo,

1. S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, op. cit., 16.2. Per Žižek il godimento si situa al di là del principio del piacere freudiano: mentre il piacere si produce mediante una sorta di equilibrio tra il bisogno e la sua soddisfazione, il godimento nasce da un incontro traumatico con l’oggetto: esso è ciò che spezza la corrispondenza diretta tra soggetto-oggetto e introduce una dimensione altra, differente, non pacificata. Dirà ad esempio Žižek in un’intervista a Il Manifesto: «Il “godimento” è esattamente l’opposto del “piacere”. Il godimento è l’eccessivo piacere dato dalla rinuncia, o dallo stesso sacrificio. Cos’ha a che fare tutto questo con la nostra società liberal-permissiva che incita costantemente a godere il più possibile? Dovrebbe farci riflettere sui pericoli del moderno edonismo, che rischia di trasformarsi nel più rigoroso ascetismo. Oggi viene richiesto di godere, ma per poter davvero godere bisogna fare jogging, sottomettersi a una dura dieta, non bere, non fumare o abbandonarsi a eccessi sessuali. L’edonismo vorrebbe confinarci nella società più regolamentata che la storia umana abbia mai co-nosciuto. Piacere e dovere sono collegati in modi diversi: il regime totalitario, ad esempio, non ti chiede di fare solo il tuo dovere, ma anche di godere mentre lo compi. Il regime autoritario, invece, non si interessa a cosa pensi, ti ordina semplicemente di fare il tuo dovere. Il sistema totalitario è dunque più esigente. Un esempio ci viene dalla vita quotidiana. Una domenica mattina il padre autoritario dice al figlio: “Che ti piaccia o no andiamo a far visita alla zia.” Mentre il padre totalitario postmoderno, più furbo, dirà: “Tu sai quanto ti vuole bene la zia, sta dunque a te scegliere se venire a trovarla o no.” In questo modo dice al figlio che non solo deve andare a trovare la zia, ma che deve essere anche contento» in <http://www.genera-tion-online.org/p/fpzizek4.htm>.

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nel senso che esse si presentano come rimedi alle stressanti dinamiche capitaliste offren-do percorsi per ritrovare la pace interiore grazie alla quale è possibile prendere le distanze dai ritmi vertiginosi della società3. Il titolo del libro di Žižek, così, più che alludere al recupero di un elemento sovversivo del Cristianesimo, di fatto si riferisce a ciò di cui il Cristianesimo deve disfarsi per poter riattivare il suo potenziale rivoluzionario.

Questo potenziale è riscontrabile nella fondazione del Cristianesimo da parte di Paolo, un gesto che, secondo Žižek, è stato possibile solo perché inserito all’interno del contesto giudaico. L’unicità e particolarità della situazione ebraica viene rintracciata da Žižek non tanto a partire da figure importanti che hanno contribuito a stabilire o conso-lidare il popolo di Israele (come ad esempio quella di Mosè o di Davide), quanto piuttosto nella persona «isterica» (nel senso lacaniano del termine) di Giobbe.

Ciò che rende il libro di Giobbe così provocante non è semplicemente la presenza di mul-tiple prospettive senza una soluzione chiara… La perplessità di Giobbe nasce dal fatto che egli esperisce Dio come una Cosa impenetrabile; egli non sa bene, dalle prove che gli vengono inflitte e alle quali è sottoposto, che cosa Egli vuole da lui (il lacaniano «Che vuoi?») e, di conseguenza, egli — Giobbe — è incapace di appurare dove rientri nell’ordi-ne generale divino, è incapace di riconoscere in esso il proprio posto4.

Alla fine del libro, Dio interviene nella conversazione, ma non fornisce alcuna risposta diretta agli interrogativi pronunciati di Giobbe. Al contrario, qui si può intravedere «un Dio che agisce come colui è stato colto in un momento di impotenza — o perlomeno di debolezza — e cerca di sfuggire a questa situazione imbarazzante mediante una vuota sbruffoneria»5.

Giobbe è stato capace di condurre Dio a questo estremo risultato attraverso le sue

3. Si pensi qui a quanto Žižek scrive nel suo On Belief, op. cit. 12–3: «L’estrema ironia postmoderna è così lo scambio tra Europa e Asia: nel momento stesso in cui, a livello dell’“infrastruttura economica”, la tecnolo-gia “europea” e il capitalismo stanno trionfando a livello mondiale, a livello della “sovrastruttura ideologi-ca” l’eredità giudaico-cristiana è minacciata all’interno dello stesso spazio europeo dall’attacco del pensiero “asiatico” new age, il quale, nei suoi differenti modi, dal “buddismo occidentale” (il contrappunto odierno al marxismo-leninismo asiatico) ai diversi “tao”, sta affermandosi come l’ideologia egemone del capitalismo globale… Qui risiede la massima identità speculativa degli opposti nella civiltà globale di oggi: sebbene il “buddismo occidentale” si presenti come il rimedio contro la stressante tensione delle dinamiche capitali-ste, dal momento che ci permette di sganciarcene e di conservare la pace interiore e la Gelassenheit (dispo-nibilità), in effetti esso funziona come il suo perfetto supplemento ideologico… L’atteggiamento meditativo del “buddismo occidentale” è comprensibilmente il modo più efficace, per noi, di partecipare pienamente alle dinamiche capitaliste, mentre conserviamo un’apparenza di sanità mentale. Se Max Weber fosse in vita oggi, scriverebbe sicuramente un secondo volume supplementare alla sua Etica protestante, intitolato L’etica taoista e lo spirito del capitalismo globale».4. S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, op. cit., 124.5. Ibid., 125.

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incessante interrogazioni (il lato «isterico» di Giobbe). Proprio per questo la persona di Giobbe non coincide affatto con quell’immagine popolare che lo vede soffrire paziente-mente e sopportare le prove mediante la sua incrollabile fiducia in Dio. Al contrario, egli continua a protestare, a lamentarsi del suo destino, ad insistere sull’assoluta mancanza di senso della sua sofferenza. Ecco perché il libro di Giobbe rappresenta per Žižek il pri-mo caso nella storia umana di critica all’ideologia, di smascheramento di quelle strate-gie occulte che legittimano la sofferenza ingiusta. Perfino Dio non riesce a resistere alla tentazione di «schierarsi con Giobbe e affermare che ogni parola pronunciata da Giobbe era vera, mentre ogni parola proferita dai tre teologi era falsa»6. Tuttavia, all’ammissione da parte di Dio dell’integrità del comportamento di Giobbe, non corrisponde la dichia-razione da parte di Giobbe che Dio lo aveva deluso. Giobbe decide invece di rimanere in silenzio. E Žižek contende che Giobbe sceglie la strada del mutismo

non perché era schiacciato dalla travolgente presenza di Dio, e neppure perché in quel modo segnalava la sua continua resistenza, cioè il fatto che Dio aveva evitato di rispon-dere alla domanda di Giobbe, ma perché, con un gesto di silenziosa solidarietà, egli aveva percepito l’impotenza divina. Dio non è né giusto né ingiusto, è semplicemente impo-tente. Ciò che Giobbe ha improvvisamente compreso era che non era tanto lui, quanto piuttosto Dio stesso che era chiamato in giudizio dalle sventure di Giobbe, ed Egli aveva fallito miseramente la prova7.

Questo incontro col l’impotenza di Dio è ciò che caratterizza il popolo ebraico e lo distin-gue dagli altri popoli. La comunità ebraica, per Žižek, ancor oggi continua a mantenere le apparenze e a non rivelare il segreto che essa ha scoperto grazie alle incessanti domande di Giobbe. In questo modo l’identità della comunità ebraica viene costantemente confer-mata mediante il riferimento al trauma provocato da questa «narrativa spettrale».

Ora, Žižek contende che il gesto rivoluzionario di Paolo può essere propriamen-te compreso solo alla luce di questo contesto giudaico. Infatti, mentre Giobbe decide di simpatizzare con l’impotenza divina rimanendo in silenzio, Gesù, in quando Dio che si è fatto uomo, rivela invece in maniera diretta l’impotenza di Dio nella sua morte in croce, e soprattutto nel suo disperato grido «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). Questa è la ragione per cui, per Žižek, il Cristianesimo è essenzialmente la «religione dell’ateismo»8.

6. Ivi.7. Ibid., 126–27. Corsivo nell’originale.8. Ibid., 171. Žižek rivisita la figura di Giobbe e di Cristo nel suo «A Meditation on Michelangelo’s Christ on the Cross» in J. Milbank, S. Žižek, D. Creston, Paul’s New Moment. Continental Philosophy and the Future of Christian Theology, op. cit., 169–81. Circa il grido di abbandono di Gesù in croce, Žižek afferma: «Tornando

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Contro Badiou, il filosofo sloveno è convinto che la croce e la risurrezione sono dialetticamente identiche, nel senso che Cristo ha fondato la nuova comunità dei credenti (chiamata da Žižek lo «Spirito santo») fin dalla sua morte in croce. La ragione per una simile convinzione risiede nel fatto che la rivelazione pubblica del segreto giudaico per-mette a chiunque di «s-connettersi» dalle trame della legge e di aderire a quell’altra «legge senza legge» che è l’amore. A riprova di questa novità, Žižek si rifà alla logica paolina del «come se» presente in 1Cor 7 nella quale il soggetto non solo mantiene una vaga distanza nei confronti dell’ordine simbolico, ma «sconfessa il sistema simbolico stesso: faccio uso delle obbligazioni simboliche, ma sono libero da esse dal punto di vista performativo»9. Detto altrimenti: il soggetto è finalmente sottratto alla logica dell’osceno supplemento superegoico che lo aveva incatenato alla legge mediante il godimento.

Ciò che distingue la nuova comunità da quella giudaica è che la comunità cristiana rinuncia totalmente al segreto della «narrativa spettrale».

Il segreto a cui i giudei rimangono fedeli è l’orrore dell’impotenza divina — ed è questo il segreto che è «rivelato» nel Cristianesimo. Questa è la ragione per cui il Cristianesimo poté sorgere solo dopo il giudaismo: esso rivela l’orrore nel quale si erano per primi im-battuti gli ebrei10.

Grazie al fatto di essere fondata sulla pubblica rivelazione dell’impotenza di Dio, la comu-nità paolina «offre il primo esempio di una collettività che non è fondata e tenuta assieme attraverso il meccanismo descritto da Freud in Totem e tabù e L’uomo Mosè e la religione monoteistica»11.

L’importanza di questa nuova comunità di credenti fondata da Paolo è duplice. In primo luogo, essa rappresenta la prima forma di socialità che è veramente universale, nel senso che «posso partecipare in questa dimensione universale (dello Spirito santo)

alle parole “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, qui Cristo stesso commette ciò che per i cri-stiani rappresenta l’estremo peccato: vacillare nella sua fede. Così mentre nelle altre religioni ci sono delle persone che non credono in Dio, è solo nel Cristianesimo che Dio non crede in se stesso. E qui Chesterton riporta un arguto aneddoto tratto da una visita a Gerusalemme verso i primi anni del ventesimo secolo. Egli aveva provato a chiedere a un ragazzo arabo che parlava un po’ di inglese: “Dov’è il giardino?”. Il ragazzo gli chiese se intendesse dire il luogo dove Dio aveva pregato. Chesterton afferma che ciò è davvero unico: in altre religioni uno prega Dio, ma è solo nel Cristianesimo che Dio prega se stesso» in Ibid. 176. Per una lettura žižekiana di Chesterton, si veda S. Žižek, «From Job to Christ: A Paulinian Reading of Chesterton» in J. Caputo and L. Alcoff, St. Paul among the Philosophers, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2009, 39–58.9. Ibid., 112.10. Ibid., 129.11. Ibid., 130.

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direttamente, indipendentemente dal mio posto speciale all’interno dell’ordine sociale globale»12. Come direbbe Paolo: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). In secondo luogo, la comunità paolina è la prima comunità priva di qualsiasi significato sottinteso che integri la sua facciata ufficiale. E per Žižek la creazione di questo tipo di socialità coincide esattamente con lo scopo della psicanalisi, la quale cerca di «praticare un linguaggio che non inganni o occulti»13 — che è l’opposto della posizione «perversa» di violare la legge al fine di preservarla, o «di fare il male affinché venga il bene».

Ne Il cuore perverso del Cristianesimo, Žižek instaura diversi parallelismi tra il vero esistente Cristianesimo e lo stalinismo (un progetto rivoluzionario che, secondo il filosofo sloveno, è completamente fallito perché ha abbandonato il vero comunismo conducendo una politica anti-statale), e afferma che anche il progetto paolino di costituire delle comu-nità libere ha ceduto alle lusinghe della «perversione». Questo degrado del Cristianesimo è iniziato nel momento stesso in cui ciò che avrebbe dovuto condurre i gentili a disfarsi della legge — l’idea del sacrificio di Cristo che abolisce qualsiasi altro sacrificio14, l’idea dell’«l’amore oltre la legge» e del perdono dei peccati15 — gli si è rivoltato contro portando i cristiani ad un ritorno al paganesimo. La misericordia e il perdono sono diventati così un’occasione per l’autorità di offrire una valvola di scarico per il godimento trasgressivo del soggetto, e il supremo sacrificio di Cristo che avrebbe dovuto liberare i credenti si è trasformato in un debito insormontabile che li incatena ancor più strettamente al potere. Ciò è accaduto perché il Cristianesimo ha rigettato la posizione giudaica nei confronti della legge, l’unica posizione o atteggiamento che li avrebbe condotti a quella dimensione di amore universale che caratterizza il Cristianesimo. Privandosi di quella posizione, il Cristianesimo ha così trasformato il suo nocciolo sovversivo nel suo «cuore perverso», e ora l’unica maniera per liberarsi di questo «cuore perverso» è quello di ritornare al suo momento fondante, a quella «religione dell’ateismo» in cui Dio stesso è ateo. Come affer-ma Žižek:

Quando Cristo muore, ciò che muore con lui è la segreta speranza percepibile nel «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: la speranza che ci sia un Padre che mi abbia abbandonato. Lo «Spirito santo» è la comunità privata del suo supporto nel Grande Altro. Il punto del Cristianesimo come religione dell’ateismo non è quella volgare umanista

12. S. Žižek, The Fragile Absolute: Or, Why is the Christian Legacy Worth Fighting For?, op. cit., 120. Corsivo nell’orginale.13. Ibid., 139. Corsivo nell’originale.14. S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, op. cit., 102–3.15. Ibid., 110.

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che il diventare-uomo-di-Dio svela che l’uomo è il segreto di Dio (Feuerbach e altri); al contrario, esso attacca il duro cuore religioso che sopravvive persino nell’umanesimo, perfino nello stalinismo con il suo credo nella Storia come il «Grande Altro» che decide il «significato oggettivo» delle nostre azioni. In ciò che forse è l’esempio più alto dell’Au-fhebung hegeliano è possibile oggi redimere questo cuore del Cristianesimo solo nel gesto di abbandonare il guscio della sua organizzazione istituzionalizzata (e, ancor di più, della sua specifica esperienza religiosa). Il divario è qui irriducibile: o si lascia cadere la forma religiosa, oppure si mantiene la forma ma si perde l’essenza. Questo è il supremo gesto eroico che attende il Cristianesimo: al fine di salvare il suo tesoro, deve sacrificare se stesso — come Cristo, che ha dovuto morire affinché potesse emergere il Cristianesimo16.

In questo senso, dunque, si comprende bene non solo come mai Žižek abbia più volte sostenuto che «per diventare un vero materialista dialettico, uno deve passare attraverso l’esperienza cristiana», ma anche (e in maniera correlativa) che il cuore sovversivo del Cristianesimo «è accessibile solo ad un approccio materialista»17. Questo cuore non coin-cide semplicemente con una posizione atea, ma rimanda anche al nuovo legame instau-rato dal e sull’amore di Cristo in croce, un amore che è necessariamente «materialista» e che si rivolge al cuore dell’altra persona in maniera non ideologizzata e libera da qualsiasi contrasto, illusione e cinismo18.

16. Ibid., 171. E che questo «supremo gesto eroico» sia oggi più fondamentale ed indispensabile che mai, lo dimostra anche quest’altra riflessione di Žižek: «Ecco perché io, e con me molti altri filosofi di sinistra, come Alain Badiou, sono interessati in rileggere, riabilitare e rappropriarsi dell’eredità di Paolo. Non è sol-tanto una questione di una privata convinzione religiosa. Io sostengo che se ci lasciamo sfuggire questo momento cruciale — il momento il compiere lo Spirito santo come comunità di credenti — noi vivremo in una società infelice, dove l’unica scelta sarà quella tra il volgare liberalismo egoista e il fondamentalismo che gli si oppone. Ecco perché io penso — in quanto persona radicale di sinistra — che il Cristianesimo è una cosa troppo preziosa per lasciarla in balia dei conservatori fondamentalisti» in S. Žižek, «A Meditation on Michelangelo’s Christ on the Cross», op. cit., 181.17. «Ciò che qui sostengo, non è solo il fatto che sono profondamente materialista, e che il cuore sovversivo del Cristianesimo è accessibile solo ad un approccio materialista. La mia tesi è ben più forte: questo cuore è disponibile solo a un approccio materialista — e viceversa: per diventare un vero materialista dialettico, uno deve passare attraverso l’esperienza cristiana» in S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, op. cit., 6. Corsivo nell’originale. Questa idea si ritrova anche in S. Žižek, The Parallax View, mit Press, Cambridge 2006, 103: «Dobbiamo asserire la verità letterale dell’affermazione di Lacan secondo il quale i teologi sono gli unici veri materialisti». Corsivo nell’originale.18. È questo tipo di amore che permette, ad esempio, di affrontare in modo adeguato il fenomeno della tolleranza e del multiculturalismo. Esempio significativo della configurazione ideologica che caratterizza la nostra epoca è infatti quello della vittimizzazione dell’altro. Fintantoché l’altro è percepito come vittima, esso è riconosciuto come (s)oggetto della nostra pietà e delle nostre iniziative umanitarie. Ma nel momento stesso in cui l’altro si ribella e si rifiuta di giocare il ruolo della vittima, ecco che allora viene denunciato come essere patriarcale, fanatico, intollerante. L’altro inizia a costituire una minaccia perché esprime un desiderio che sembra invadere e attentare all’equilibrio protetto della mia vita, della mia identità personale, di ciò che mi «appartiene». L’altro è ora percepito come colui che «ruba» il nostro godimento. Come afferma Luca Silvestri: «L’esempio canonico di Žižek è quello che si riferisce alle odierne forme di razzismo: esse sopravvivono proprio nel costante riferimento a ciò che è percepito a livello fantasmatico come godimento eccessivo dell’altro. Il razzista odierno non si limita semplicemente a disprezzare l’altro (tale posizione nel tempo dl politically correct sarebbe inaccettabile), egli piuttosto si mostra compiacente verso lo straniero (“io non sono razzista, ma…”) sebbene ci sia quel dettaglio molesto, quel qualcosa di fastidioso nell’altro:

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Dall’analisi condotta finora risulta chiaro come Žižek consideri Paolo non solo come l’apostolo che è stato in grado di offrire un’alternativa al soffocante circolo vizio-so di legge-trasgressione, ma anche come colui che, senza curarsi della figura umana di Gesù, del suo messaggio e delle sue opere, si concentra unicamente sull’evento della mor-te-risurrezione di Cristo portando alle estreme conseguenze la scoperta dell’impotenza di Dio e fondando così una nuova comunità basata sull’amore.

Ciò che a lui (Paolo) interessa non è Gesù in quanto figura storica, ma solo il fatto che egli è morto in croce ed è risorto dai morti — dopo aver convalidato la morte e risurrezione di Gesù, Paolo prosegue con il suo vero lavoro leninista, quello di organizzare il nuovo partito chiamato comunità cristiana19.

Ci potrebbe a questo punto chiedere se, visto il disinteresse di Žižek (oltre che di Badiou) nei confronti della persona di Gesù, il filosofo sloveno non incorra nello stesso errore che invece intendeva risolvere rivolgendosi a Paolo, e cioè quello di trattare il Cristiane-simo come strumento per far passare una diversa dottrina, ovvero l’ideologia materia-lista. Come egli stesso ebbe a dire, rovesciando il classico assunto di Benjamin secondo il quale il marxismo può trionfare solo in prospettiva messianica: «Vincere deve sempre il fantoccio chiamato teologia. Esso può senz’altro farcela con chiunque se prende al suo servizio il materialismo storico, che oggi, com’è noto, è piccolo e brutto. E che non deve farsi scorgere da nessuno»20. Ora, Žižek non incorre qui nello stesso problema (sebbene da una diversa prospettiva, cioè quella della pulsione di morte) in cui si era imbattuto Badiou, allorquando fonda le sue disquisizioni politiche sulla presunta «favola» della ri-surrezione? Qual è, in fondo, la differenza (se esiste) tra la «favola» (della risurrezione di Gesù) professata da Badiou e il «fantoccio» (la teologia che continua a riflettere e a esporre quella «favola») promosso da Žižek?

Ancora: l’enfasi con cui Žižek argomenta il ritorno ad un «Cristianesimo ateo», sembra ancora una volta dissociare la forma dal contenuto. Ma è davvero possibile una

il suo odore, il cibo che mangia, il modo di vestire; quella caratteristica indecifrabile che viene percepita come eccessiva ed attorno alla quale si condensa il godimento dell’altro» in L. Silvestri, «Sintomi tardo-ca-pitalisti: un’analisi tra godimento e politica attraverso il pensiero di Slavoj Žižek» in Philosophica, 2007, 30: 88. Corsivo nell’originale. La tolleranza trova così il suo limite reale nel momento stesso in cui si scontra non con un «altro immaginato», ma con una differenza concreta e il suo godimento. A questo riguardo si veda: S. Žižek, Tarrying with the Negative. Kant, Hegel and the Critique of Ideology, Duke University Press, Durham 1998 (Fare i conti con il negativo. Kant, Hegel e la critica dell’ideologia, trad. P. Terzi, Genova, Il Nuovo Melangolo 2014).19. S. Žižek, The Puppet and the Dwarf: The Perverse Core of Christianity, op. cit., 9.20. Ibid., 3.

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simile operazione? Si può, in altre parole, semplicemente spiritualizzare il cuore del mes-saggio cristiano in modo tale da ridurre la sua forma istituzionalizzata ad un feticcio o ad una pericolosa sovrastruttura? E poi come, di fatto, si articolerebbe quell’«organizzazione spirituale» evocata da Žižek? Quali idee e quali iniziative promuoverebbe una siffatta ete-rea «organizzazione»?21

Certo, Žižek insiste sul fatto che la morte in croce di Cristo significa appunto il rifiuto ormai di qualsiasi ricerca di un significato ulteriore o di un obiettivo superiore.

Il significato ultimo del Cristianesimo per me — scrive Žižek — è molto preciso. Esso non è: «Dobbiamo fidarci di Dio. Il “capo” è con me, e quindi non può capitarmi niente di male». Ciò è troppo semplice. Il messaggio non è: noi ci fidiamo di Dio. Il messaggio è piuttosto: Dio si fida di noi. Il gesto di Cristo dichiara: «Sta a voi». Di solito interpretiamo la religione come un via per garantire il significato: siamo preoccupati con i piccoli detta-gli di tutti i giorni e non sappiamo cosa ne verrà fuori, o come le cose andranno a finire; possiamo solo scommettere, e lo facciamo forse per assicurarci che Dio sistemerà le cose in nostro favore. Ma per me il significato della morte in croce di Cristo è l’opposto: Dio scommette su di noi. È davvero una scommessa inaudita quella in cui Dio dice: «Sta a voi. Spirito santo, comunità di credenti, dovete farlo voi»22.

La domanda sarebbe dunque la seguente: «Cos’è esattamente ciò che questa comunità dovrebbe fare?». E, a questo riguardo, non sarebbe forse più teologicamente pertinente e precisa l’intuizione di Bonhoeffer secondo il quale

Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti a Dio e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!23.

Dio ci tratta da adulti e ci lascia l’iniziativa (come in Žižek e Bonhoeffer), ma non scom-pare dalla scena, non si eclissa come una qualsiasi ideologia (come in Žižek), ma ci aiuta a grazie alla sua impotenza (come in Bonhoeffer). Che sia davvero questo l’amore trascen-dente e adulto che spezza i giochi della trasgressione, cioè di quel comportamento che sfasa il potere del Grande Altro? Che sia davvero questa la disposizione amorosa che vede

21. Su questo punto si veda O. Sigurdson, «Reading Žižek Reading Paul. Pauline Interventions in Radical Philosophy» in Odell-Scott, David, ed., Reading Romans with Contemporary Philosophers and Theologians, T&T Clark, New York and London 2007, 238–39.22. S. Žižek, «A Meditation on Michelangelo’s Christ on the Cross», op. cit., 179.23. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 440.

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nell’altro non tanto un pericolo al proprio godimento, ma la partecipazione sincera e non ideologica al godimento dell’altro? Chissà… Ma per poter almeno sperare in tutto questo ci vorrebbe un Dio e un Cristo vissuti nella fede, non nelle triadi hegeliane o nei labirinti lananicani. Ci vorrebbe, cioè, un Dio esperito, non immaginato, né ideologizzato o psico-analizzato. Sarà mai capace di tutto ciò, un giorno, il filosofo di Lubiana?

La prima parte di questo articolo era stata pubblicata sui Quaderni del CSA 13/1: 3–10

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Religioni e missione

Ecumenismo e missione visti da OrienteFabrizio Tosolini

Misericordiæ Vultus Ecumenical and Interreligious Dialogue

Paulin Batairwa

The 2018 Course of Introduction to Buddhism in JapanRocco Viviano

Riflessioni sul corso di Introduzione al Buddhismo per missionari in Giappone

Romualdus Juang

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Ecumenismo e missione visti da Oriente

Fabrizio Tosolini

Ringrazio il Seminario Teologico del pime per l’invito a offrire il mio contributo al Con-vegno Teologico di questi giorni1. Mi sento onorato ma anche un po’ confuso, perché non sono un esperto nel settore, per di più parlo davanti a persone che sono miei maestri nella missione e nella conoscenza del mondo cinese, e potrebbero venire qui al mio posto e dire cose molto più pertinenti, aggiornate e utili di quanto io sia capace di fare quest’oggi. Infine, da alcuni anni sono lontano da Taiwan, e non ho potuto seguire gli sviluppi più recenti del cammino ecumenico.

Il titolo

Rileggo con voi il titolo a me assegnato: Ecumenismo e missione visti da Oriente. Innanzi-tutto la determinazione conclusiva del titolo: Oriente. Dire «Oriente» è dire un universo di estrema ricchezza e complessità, il nuovo ed emergente baricentro del mondo. Sono necessarie alcune delimitazioni.

Già il loro elenco richiama alla mente mondi del tutto diversi, per ambienti geogra-fici e climatici, popoli, lingue, storia, religioni, culture: Vicino o Medio Oriente (il chi-lometro zero dell’Oriente sarebbe allora l’Europa?); Estremo Oriente; Sud-Est Asiatico; Subcontinente Indiano, Regione Asia-Pacifico… L’ambito dell’ecumenismo di cui mi propongo di parlare rientra geograficamente nella regione dell’Estremo Oriente.

Al di là della sua varietà, ricchezza e complessità, questa regione ha almeno una ragione, per quanto diversamente realizzata, di unitarietà: la tradizione confuciana, che in vari modi ha influenzato e influenza Cina, Giappone, Corea, Vietnam e le minoranze cinesi del Sud-Est Asiatico.

Ideale del Confucianesimo è il raggiungimento dell’armonia, segnatamente nell’ambito delle relazioni interumane e sotto il vigile sguardo del Cielo, una armonia or-

1. L’articolo riprende l’intervento fatto il 21 settembre al Convegno Teologico «Gesù è il Signore di tutti. Ecumenismo e Missione» organizzato nei giorni 19–21 settembre 2017 dal Seminario Teologico del pime di Monza presso la sua sede. Ringrazio il Seminario Teologico e il suo preside, P. Gianni Criveller, per la gentile permissione a pubblicare questo testo nei Quaderni del CSA (F. T.).

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dinata e perciò gerarchica tra tutti i componenti della famiglia e della società. Per quanto riguarda l’aspetto religioso, un detto cinese («I tre insegnamenti si unificano») segnala un approccio molto pragmatico, secondo il quale i molti aspetti visibili, e soprattutto l’etica, delle religioni superano le disquisizioni astratte, unificando nella vita concreta le varie credenze. Ci troviamo perciò in qualche modo in un ambiente che spinge verso la ricerca di una unità anche tra le Chiese cristiane. Le quali, nel loro insieme, sono un fattore de-stabilizzante nel quadro di queste culture, culture che distinguono molto bene tra ciò che è autoctono e ciò che è straniero. In particolare, in ogni caso, dirò qualcosa su Taiwan, il luogo che conosco meglio.

Veniamo poi all’altra parte del titolo, molto più problematica: Ecumenismo e missio-ne. Come articolare i due termini? L’ecumenismo aiuta o frena la missione? Va esso inteso come un suo prerequisito (se non siete uniti non fate missione), o come qualcosa che la accompagna (fate insieme missione ed ecumenismo, l’impegno ecumenico dà testimo-nianza al vangelo), oppure ancora come una conseguenza, un fine della missione (fate missione per poter realizzare unità, tra i cristiani e anche con tutti)?

A prima vista sembra che ci sia una tensione tra le due azioni: fermarsi a fare ecume-nismo prima di far missione sembra un perdere tempo davanti alla urgenza di convertire molte persone alla vera fede. Molte tra la Chiese evangeliche o pentecostali sembra fac-ciano perfino una missione anti-ecumenica, criticando e perfino offendendo altre Chiese per attrarre a sé più adepti. Ci si accorge poi che la divisione può impedire la diffusione del vangelo, e si cerca in qualche modo di porvi rimedio. Il cammino in questa direzione, nelle terre tradizionalmente considerate di missione, ha una sua storia, anche se più breve che quella del cammino ecumenico in Occidente.

Che la missione faccia crescere l’ecumenismo (che ad esempio i nuovi cristiani co-stringano le antiche Chiese a superare antiche divisioni) è ancora solo un sogno per il futuro. Ma sognare può essere utile.

A partire dalla storia

Nel xvii secolo a Taiwan ci sono state delle comunità cattoliche (al nord) fino alla cacciata degli Spagnoli ad opera degli Olandesi; in seguito ci sono state delle comunità calviniste (soprattutto al centro-sud attorno alla città di Tainan), scomparse con la cacciata degli Olandesi dall’isola ad opera dei cinesi. L’evangelizzazione ricomincia nel xix secolo. I pri-mi missionari cattolici (Domenicani) giungono a Gao Xiong nel 1849 seguiti pochi anni dopo dai presbiteriani dal Canada e dalla Scozia, due missioni riformate indipendenti e

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fino ad oggi in qualche modo distinte. Le diverse comunità confessionali vivono vite separate per circa un secolo, fino a

quando le mutate condizioni storiche e i nuovi fermenti portati dall’Occidente comincia-no a creare nuove idee, possibilità, relazioni. Molti missionari cattolici e protestanti ven-gono sull’isola dopo l’espulsione dal Continente ad opera dei comunisti; i rapporti con gli usa favoriscono l’arrivo di molte altre Chiese riformate ed evangeliche.

Uno studio pubblicato nel 2014 stima che i cristiani delle varie Chiese a Taiwan costituiscano complessivamente il 5,86% della popolazione, 1.307.842 battezzati su circa 23 milioni di abitanti. Si incontrano in 4101 comunità, la maggior parte delle quali legate a 57 denominazioni più importanti. Altre sono comunità indipendenti, altre ancora sono dei gruppi carismatici autogestiti2.

Ad Hong Kong gli sviluppi del cammino ecumenico seguono un passo diverso, per la maggiore vicinanza al Regno Unito e agli sviluppi dell’ecumenismo in Occidente. Curiosamente, le tre istanze elaborate a Shanghai nel 1892 e portate ad Edimburgo dai rappresentanti delle Chiese di missione (le tre Autonomie: nella propagazione, nel finan-ziamento, nel governo) diventano la base sulla quale viene fondato il Three Self Patriotic Movement (tspm, il Movimento Patriottico delle Tre Autonomie), la struttura ecclesiasti-ca registrata e sotto il controllo del Partito Comunista Cinese, parallela alla Associazione della Chiesa Patriottica Cinese tra i Cattolici (cpca).

Nella rpc la situazione degli ultimi 70 anni ha accomunato le storie di cattolici e cristiani sotto il segno della croce, nella fedeltà al vangelo fino al martirio. Anche tra i cristiani c’è stato il rifiuto ad accettare l’ingerenza dello stato nella vita interna delle co-munità, con le sofferenze che ne sono seguite, fino ad oggi.

L’eredità di una storia. Immagini e situazioni

I 150 anni di missione, sia cattolica che riformata prima, sia di varie denominazioni cri-stiane poi, nel quadro più vasto della storia delle missioni cristiane nel mondo cinese, hanno dato vita a Taiwan a situazioni reali, e ad immagini di situazioni, che meritano uno sguardo seppure sommario, per poter cogliere in qualche modo il contesto in cui si sviluppa al presente l’ecumenismo, con i suoi risultati acquisiti, problemi e prospettive.

2. «2013 Report of the Chinese Christian Evangelical Association», elaborato dal Christian Research Center di Taizhong nel 2014. Ringrazio P. Paulin Batairwa Kubuya per aver messo questi dati a mia disposizione.

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Appartenenza e affinità politiche e socio-culturali

La missione presbiteriana si sviluppa fin dall’inizio nella direzione dell’elemento taiwane-se ed aborigeno e si fa portavoce delle sue istanze, in particolare durante i 50 anni di so-vranità giapponese, fino a subire persecuzione. Durante lo stesso periodo la missione cat-tolica, peraltro di numeri molto ridotti, rimane in qualche modo incerta nella sua scelta di campo e ai margini della vita politica, accettando i governanti di turno. Fino a quando, con l’arrivo dei profughi sconfitti nella guerra civile cinese (1945–1948), tende a rivolgersi all’elemento cinese del continente, e finisce per venire identificata con il Guo Min Dang (kmt), il partito nazionalista di Chiang Kai Sek (il quale peraltro era un cristiano wesleya-no). Questo significa dal punto di vista linguistico la preferenza per il mandarino piutto-sto che per il taiwanese, una attenzione particolare per i profughi venuti dal continente, una certa acquiescenza davanti ai drammatici eventi del febbraio 1947 che vedono tra le vittime molti riformati. Alla fine, i cattolici sono visti più vicini ai cinesi invasori, i rifor-mati più vicini alla maggioranza taiwanese e portavoce anche a livello politico delle loro istanze, veicolate attraverso il Partito Democratico Progressista (dpp) attualmente (2017) al potere. Fino al punto di considerare i presbiteriani come i veri cristiani di Taiwan, i cattolici come una denominazione cristiana venuta dal di fuori. Quanto alla minoranza aborigena, tradizionalmente oppressa dall’elemento taiwanese, essa si identifica più facil-mente con il kmt; la missione verso di loro, sia cattolica che riformata, ha molto successo, dividendo comunque in qualche modo le varie comunità a seconda dell’appartenenza a una o all’altra delle denominazioni cristiane.

L’arrivo delle nuove Chiese, soprattutto dagli usa, contestuale ai fenomeni di indu-strializzazione e urbanizzazione, dà vita a nuove figure: anche a motivo della provenienza contadina di molti missionari esteri e alla subordinazione del laicato, i cattolici ereditano una marginalità da cui non è facile uscire. Fatte le debite distinzioni, si riscontra una certo parallelismo tra la collocazione sociale della comunità cattolica e quella della religione tradizionale. Le altre denominazioni cristiane invece si caratterizzano per una grande dinamicità, per la capacità di entrare nella vita sociale e nel mondo della cultura dando il loro apporto anche ai livelli più alti della vita nazionale. Essi possono in qualche modo essere visti come paralleli all’elemento buddhista, che a Taiwan ha conosciuto uno svilup-po impensato, con un grande successo sia sull’isola che in molte altre parti del mondo, Cina inclusa.

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La traduzione in cinese delle differenze

Contestuale alla diffusione separata del messaggio cristiano è anche, da parte delle varie Chiese, la ricerca di forme che mettano in luce immediatamente quale sia la particolare tradizione attraverso la quale essa avviene.

Dal punto di vista architettonico, le chiese cattoliche si riconoscono per forme più tradizionali e, all’interno, per le molte immagini e statue. In particolare, la croce reca il Crocifisso, e ci sono statue ed immagini della Madonna e dei Santi (in particolare di san Giuseppe, il capo della Sacra Famiglia e patrono della Cina). Le chiese protestanti sono più spoglie, senza immagini e statue.

Quanto al vestito, ora è più frequente che siano i pastori protestanti piuttosto che i preti cattolici a portare il clergyman. Frati e suore parlano della loro appartenenza catto-lica in modo immediato attraverso i loro abiti religiosi. In questo seguono la tradizione cinese, nella quale monaci buddhisti e preti taoisti sono riconoscibili dalle loro vesti.

Mentre i cattolici praticano una «missione dialogica», aprendo dei dialoghi frater-ni e di lungo periodo prima di parlare della loro fede, le altre denominazioni tendono a praticare un «dialogo missionario», invitando esplicitamente e quasi spingendo i non cristiani verso la fede. Quando si vedono dei poster, o degli annunci pubblicitari che invi-tano alla fede cristiana, sono generalmente di matrice protestante. In queste chiese c’è più coraggio nel proporre l’annuncio, a differenza dei cattolici che sembrano molto timidi.

Questo si traduce anche in un diverso impegno nell’uso dei mezzi di comunicazio-ne sociale, dove sembra manchi ai cattolici quello spirito di impresa che abbonda in tutte le altre religioni e le altre denominazioni cristiane.

Anche i cammini di iniziazione seguono percorsi diversi, se non opposti. In molte chiese il battesimo è amministrato quasi agli inizi, poi seguono i tempi della catechesi e dell’ingresso progressivo nella vita delle comunità. Tra i cattolici, ad un lungo cammino di catecumenato segue, dopo il battesimo, un certo qual disinteresse per i nuovi cristiani, che si suppone siano immediatamente capaci di far propria la vita nuova che hanno ab-bracciato e le nuove relazioni di cui si sostanzia.

La storia delle traduzioni della Bibbia in cinese è in se stessa una epopea. Al presente le varie denominazioni cristiane usano la Traduzione Unitaria (He He Ben), frutto di un lunghissimo lavoro di ricerca, discussione, verifica. La traduzione cattolica riconosciuta attualmente è la Si Gao Sheng Jing, frutto della fatica del Beato Gabriele Allegra ofm (1907-1976) e dello Studium Biblicum Franciscanum di Hong Kong da lui fondato3.

3. Vedi <http://www.sbofmhk.org/>.

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Ma mentre ad esempio nel passato, quando i cattolici hanno cominciato ad usare la traduzione inglese della Bibbia (la King James Version, anglicana), non vi hanno apporta-to molte modifiche e in particolare non hanno cambiato la forma inglese dei nomi biblici, per il cinese non è stato così. La traduzione cattolica presenta differenze di vocabolario e di stile rispetto a quella protestante; è più pedissequa rispetto all’originale, che in filigrana si può spesso ancora intravvedere sotto il cinese (questo a prezzo della comprensibilità immediata e della fluidità del cinese). Ma soprattutto presenta una traslitterazione dei nomi propri diversa da quella protestante, al punto che diventa difficile riconoscere di quali persone, di quali luoghi si stia parlando, da una parte e dall’altra. E sembra che al problema non vi sia alcuna possibile soluzione, almeno in tempi brevi. Gli ortodossi giun-ti di recente a Taiwan hanno adottato la traduzione protestante.

Immagini delle Chiese

Alla fine, l’immagine esterna che ne risulta è quella di due religioni diverse. Così infatti i cattolici e i protestanti vengono registrati e gestiti nella Repubblica Popolare Cinese.

Tra le due, Chiesa cattolica e altre denominazioni globalmente considerate, a detta-re l’immagine del cristianesimo in terra cinese sono le altre denominazioni, soprattutto per la loro superiore forza mediatica.

I cattolici sembrano di fatto relegati a una posizione di nicchia — il che ha i suoi vantaggi — nel grande mall delle religioni che è Taiwan. I cattolici sono in genere consi-derati persone oneste, di cui ci si può fidare e che si possono avvicinare senza correre il ri-schio di venire fagocitati nelle loro strutture. Possono vantare come loro proprio apporto le molte opere sociali che hanno creato, le istituzioni culturali, il rispetto per la tradizione culturale e religiosa cinese. Quanto a opere sociali e a istituzioni culturali, le altre deno-minazioni cristiane complessivamente presentano un quadro più ricco ed integrato nel tessuto sociale taiwanese, in particolare perché gestito da personale locale. Quanto al rap-porto con la tradizione cinese, invece, hanno un approccio più dialettico, polarizzandosi sul divenire futuro della cultura cinese, che — ipotizzano — copierà quella americana. I cattolici invece sono più attenti al passato e alla ricchezza della tradizione, accompagnan-do con discrezione la sua evoluzione.

In ogni caso, una delle ragioni che danno alla Chiesa cattolica una rilevanza mag-giore della sua forza reale, è il fatto che la S. Sede è l’unico stato europeo ad intrattenere relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina in Taiwan.

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Cammini ecumenici

In questo contesto complesso e avvincente, i cammini dell’ecumenismo sono avviati da tempo e sono già ricchi di esperienze e scelte foriere di futuro, ovviamente in mezzo a problemi ed empasse che stimolano ulteriore impegno e creatività.

Alcuni eventi

Storicamente, è del 1956 l’adesione dei presbiteriani di Taiwan al wcc. Nel 1991 si costi-tuisce il National Council of Churches of Taiwan (ncct)4, a cui aderisce anche la Confe-renza Episcopale Regionale delle Chiesa cattolica dell’isola, unico caso al mondo insie-me all’Australia. Questo dinamizza tutto il lavoro di ricerca e di collaborazione che sta alla base di iniziative comuni e di tutte i loro risvolti positivi, in particolare una maggior conoscenza e rispetto reciproco, la scoperta di avere in comune molto di più di quanto separa o divide.

Nel ncct sono attivi diversi Tavoli (Desks) che si occupano di alcuni aspetti della vita ecclesiale (donne, aborigeni, ambiente) e organizzano iniziative e convegni. Oltre ad un importante Sportfest, il momento più qualificante è la preghiera per l’unità che si svol-ge annualmente, come del resto quasi ovunque nel mondo.

Inoltre, le 11 istituzioni universitarie di Taiwan (3 cattoliche e 8 di altre denomina-zioni) sono parte dell’acuca (Association of Christian Universities and Colleges in Asia)5.

Nel campo della formazione accademica pastorale, da più di 30 anni si tiene an-nualmente un pomeriggio di incontro e di scambio tra la Facoltà Cattolica di Teologia e l’omologo Collegio Teologico dei Presbiteriani a Taipei (attivo da più di 100 anni). Chi partecipasse a questo incontro avrebbe l’impressione che si stanno incontrando membri molto impegnati di movimenti della stessa denominazione, tanto è il clima di festa, di amicizia e di reciproca accoglienza.

Sul lungo periodo, grazie anche alla visione di alcuni gesuiti (in particolare P. Luis Gutheinz), alcune barriere si sono come abbassate. Ad esempio, studenti episcopaliani, metodisti, luterani e presbiteriani hanno frequentato e frequentano la facoltà cattolica ottenendo i gradi accademici. Questo significa una relazione di amicizia prolungata nel tempo, una più approfondita conoscenza della tradizione e del pensiero cattolico, in defi-nitiva una crescita nella fiducia reciproca.

Per superare il grave ostacolo posto dalle diverse traduzioni cinesi della Scrittura, alcuni biblisti di diverse denominazioni (da parte cattolica si deve fare il nome di P. Mark

4. Vedi <http://archived.oikoumene.org/en/member-churches/regions/asia/taiwan/ncct.html>.5. Vedi <http://www.acuca.net/>.

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Fang Zhi Rong sj) non hanno avuto timore di imbarcarsi nell’impresa di una traduzione ecumenica, partendo dai vangeli. La nuova traduzione è stata pubblicata nel 2015. C’è sta-to un accordo previo su due punti. Si è accettato da parte cattolica di tradurre il nome di Dio con Shang Di (traduzione protestante) lasciando da parte la traduzione cattolica Tian Zhu. Si è accettato da parte protestante di tradurre Spirito Santo con Sheng Shen (tradu-zione cattolica) lasciando da parte la traduzione protestante Sheng Ling. Ovviamente si sono levate proteste da entrambe le parti, sicuramente su base letteraria e teologica, ma anche, forse, per il timore di perdere, con la specificità dei nomi, alcuni segni della propria identità particolare.

Al di là delle obiettive difficoltà (tocca alle gerarchie approvare le traduzioni per gli usi ufficiali, e questo non è semplice: anche la revisione della He He Ben non viene accet-tata facilmente nelle varie Chiese), una traduzione ecumenica dei testi biblici è un passo in avanti molto promettente.

Ha più successo invece la traduzione comune di documenti ecclesiali, quali ad esempio i documenti conciliari e del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani.

Un motore che a Taiwan spinge nella direzione dell’unità è il movimento di Taizè. Gli incontri promossi dalla Fraternità vedono la presenza di molti partecipanti, i quali mostrano un sincero interesse e impegno verso la conoscenza e l’accoglienza reciproca in Cristo.

È a partire da questa esperienza che si delinea una impensata, possibile via verso l’unità: l’ignoranza. Quanto meno i singoli conoscono delle disquisizioni teologiche che hanno portato alle divisioni del passato, tanto più si muovono con facilità nella direzione di una condivisione sempre più piena della fede. Viceversa, gli incontri di rappresentanze a livelli ufficiali presentano un che di statico che non invoglia alla partecipazione e soprat-tutto, spiegando sempre meglio i fondamenti delle divisioni, rendono il loro superamento più difficile.

Problemi e prospettive

Propri a partire dal cammino fatto, appare anche una serie di problemi, sicuramente non peculiari della sola Taiwan; problemi che sono anche opportunità e indicano future di-rezioni di crescita.

Il primo è la non chiarezza di posizioni, nelle diverse Chiese non cattoliche, su al-cuni punti scottanti (problematiche legate alla differenza sessuale, ai ministeri, a prese di posizione nel campo di giustizia e pace…). Essa indebolisce la capacità di parlare alla so-cietà con una sola voce e di offrire in essa una testimonianza forte al messaggio di Cristo.

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Il secondo è la prospettiva di un moltiplicarsi di cammini personali di approfon-dimento della fede che non comportano necessariamente l’uscita dalla propria comuni-tà. Sono ormai numerose le esperienze di appartenenza incrociata, con partecipazione a momenti della vita di altre comunità, che aiuta a crescere nella fede e nella conoscenza di Cristo. Tale non esclusività nell’appartenenza, che mostra una comprensione dell’ap-partenenza diversa dalle modalità occidentali, più sfumata, e giocata sulle scelte concrete, trova le sue radici nel modo con cui tradizionalmente i cinesi si rapportano alla religione. Essi non avvertono contrasti o contraddizioni tra frequentare templi della religione tra-dizionale e insieme partecipare a celebrazioni buddhiste, mentre eventualmente la sera guardano programmi televisivi di ancora altre organizzazioni.

Si pone comunque il problema, in particolare da parte cattolica, della communicatio in sacris, con tutte le opportunità e la sfide ad esso legate. Ci si avvia verso un ecumenismo di accoglienza reciproca, secondo gli sviluppi più recenti della riflessione ecumenica.

Queste esperienze in qualche modo intermedie interessano comunque solo alcuni dei soggetti ecclesiali del dialogo ecumenico. In genere, sono le denominazioni antiche a sentire la necessità di intraprendere il cammino verso l’unità.

Le nuove comunità evangeliche invece fanno della loro differenza una bandiera che le aiuta a crescere nel numero di adepti6. Con questo, curiosamente si crea una polarizza-zione strana: da una parte lo spirito autarchico dei nuovi gruppi, dall’altra cattolici e altre antiche denominazioni cristiane insieme, che cercano vie all’unità.

C’è però anche un differente risvolto, una interpretazione di segno opposto: il Con-siglio delle Chiese può essere avvertito come un club chiuso, dove altri componenti e altre istanze fanno fatica ad entrare, e perciò preferiscono fare strada da soli. Questo fa capire come aprirsi all’ecumenismo con le sue continue sorprese sia già una grazia e un miraco-lo, una continua chiamata per tutte le Chiese.

Nello stesso tempo non si può negare che in tutte le comunità l’ecumenismo venga sentito come importante soltanto ancora da poche persone, ministri compresi. Non man-cano anzi predicazioni mirate a mettere altre Chiese in cattiva luce, confermando così implicitamente le proprie dottrine.

Le manifestazioni unitarie danno il loro contributo positivo, ma non è facile scalfire l’incertezza, la diffidenza, la paura che il cammino ecumenico può ingenerare. Prima che queste siano superate, là come anche qui in occidente, si possono prevedere tempi lunghi,

6. Bisogna riconoscere che anche il moltiplicarsi delle nuove comunità (al presente nel mondo sono più di 34.000) trova una radice nella tradizione cinese. Nella religione tradizionale cinese aprire un tempio è impresa privata, che viene confermata dall’eventuale successo religioso ed economico dell’impresa.

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)80

sempre che non accada qualche miracolo, ipotesi da non escludere. Diventa importante allora non forzare i tempi delle coscienze, e contemporaneamente portare avanti con fi-ducia l’istanza della comunione e dell’unità.

Una esperienza

Concludo presentando una breve storia che sto vivendo, e che mi porta grande consola-zione. Scorrendo delle bibliografie di studi biblici, avevo scoperto che un biblista del Sud Africa insegnava a Taiwan. Ad un incontro tra la Facoltà Cattolica e il Collegio Presbite-riano ho avuto conferma della sua presenza a Taipei e ci siamo messi in contatto. Ha avu-to verso di me, da subito, una fiducia estrema, al punto da chiamarmi per corsi tutoriali ad alcuni dei suoi allievi. Sono seguite delle visite alla sua famiglia: la sua casa è uno spec-chio, la moglie ha importato a Taiwan un po’ della Svizzera da cui proviene. Non abbiamo parlato molto di temi confessionali, quanto piuttosto di Bibbia, la quale notoriamente ci porta ad avvicinarci gli uni agli altri. Mi ha chiesto perfino di essere correlatore in alcune tesi di licenza e dottorato che lui stava seguendo. Al confronto, ho potuto offrirgli poco: un commento a un mio intervento durante un convegno su san Paolo e la presentazione della sua Chiesa al corso per nuovi missionari organizzato ogni due anni dall’Associa-zione Taiwanese della vita Consacrata. Mi ha offerto di entrare anche nelle situazioni controverse dell’ambiente in cui lavorava, sempre con discrezione, distacco e prudenza.

È nata una amicizia che considero come un miracolo. Frequentando la sua casa, ascoltando il racconto dei molti servizi che sia lui che la moglie fanno per la Chiesa, mi si è illuminata ad un tratto una bellezza speciale. Lui è non solo un professore ma anche pastore; sua moglie collabora con lui offrendo alle mogli degli studenti del marito alcune opportunità di formazione di altro tipo, ugualmente profonde. Lei parla con loro in cuci-na, mentre insieme preparano, ad esempio, dei biscotti, perché lì — dice — vengono alla luce i pensieri, i sentimenti, le esperienze più profonde. Ha anche pubblicato un libro di ricette bibliche. Ascoltandoli, ho visto con sorpresa la bellezza di un servizio ministeriale che non è chiuso dentro una persona singola ma che si realizza e porta frutto attraverso e come comunione tra uomo e donna, legati e fatti uno dal vincolo matrimoniale.

Nel dialogo con loro mi si sono chiariti due principi che penso possano avere gran-de utilità per il cammino ecumenico.

Il primo: siamo tutti sotto il giudizio della Parola del Signore. Se Gesù ha voluto e pregato per la nostra unità, l’impegno per essa ha priorità su tutto il resto, e non come progetto misurato dalle povere intelligenze umane, ma come apertura continua a quanto

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lui momento per momento ispira a fare. Sarà lui a far superare quasi per incanto tutti i limiti che le nostre coscienze, in buona fede, pongono al cammino ecumenico.

Il secondo: in funzione di questo, e proprio per non rimanere frustrati da un percor-so che sembra non finire mai (perché l’unità è infinita), occorre rendersi conto, accettare, e cercare di realizzare «il massimo dell’unità possibile in ogni dato momento». Questo è quanto mi è parso di aver vissuto molte volte con il Professore e la sua famiglia, mentre sentivo, ritornando a casa, un senso di gioia piena, nella pace. Questo è quanto spero di poter continuare a cercare7.

7. P. Fabrizio Tosolini è un missionario Saveriano che ripreso a svolgere la sua missione a Taiwan dopo l’intervallo trascorso in Italia come rettore dello Studentato Teologico di Parma.

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Quaderni del CSA 13/2: 82–83 2018 Centro Studi Asiatico

Misericordiæ VultusEcumenical and Interreligious Dialogue

Paulin Batairwa

Among the many characteristics of Misericordiæ Vultus, there is one particular sig-nificance for our relations with brothers and sisters of other denominations and

followers of other religious traditions. Pope Francis has not forgotten those beyond the physical boundaries of the Church. He hopes the Jubilee year of the mercy of God will foster encounters with them and provide more opportunities for dialogue and interac-tions with them. The encounters are not only with religions evoking God’s mercy, such as Judaism and Islam (for whom mercy is one of the most important attributes of God), but also with other «noble religious traditions.»

I trust that this Jubilee year celebrating the mercy of God will foster an encounter with these religions (Judaism and Islam) and with other noble religious traditions; may it open us to even more fervent dialogue so that we might know and understand one another better; may it eliminate every form of closed-mindedness and disrespect, and drive out every form of violence and discrimination.1

It would be misleading to restrict the attention and place Misericordiæ Vultus gives to other religions to the above mentioned paragraph. In fact, dialogue is one of the leading motives of the entire message. It is implied in the inclusive approach of the Church since Vatican ii and of which the Pope makes himself a flag bearer. The divine mercy that the Pope says is the foundation of Church’s life (n. 10) is not merely for Catholics. It embraces the life of the Church and embraces a specific mission, entrusting all humanity and the entire cosmos to the Lordship of Christ, who is the visible incarnation of God’s mercy (n. 5).

With regard to the field of ecumenism and interreligious dialogue, the message re-verberates and actualizes the views of Vatican ii. One can easily delineate the spirit of Gaudium et Spes, the inclusive openness of Pacem in Terris and Nostra Aetate. The em-phatic message that the Church is an instrument offering the mercy of God echoes the opening of Gaudium et Spes, according to which the joys and concerns of the citizens of the world are also the joys and concerns of the Church. The language is inclusive, in other

1. Francis, Misericordiæ Vultus, n. 23. At <https://w2.vatican.va/content/francesco/en/bulls/documents/papa-francesco_bolla_20150411_misericordiae-vultus.html>.

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83batairwa: misericordiæ vultus

words, it recognizes the values existing in the religions and the potentials that Christ can bring to them. Much of the concepts are familiar to Catholics since they evolve from the Magisterium of the Church, with illustrations taken from the Patristic era to the current theology of religions. Mercy is a Person, Jesus Christ is the face of the Father’s mercy; God desires our well-being and makes it visible and tangible in Jesus Christ.

In practical terms, the document inspires dialogue in many ways. First of all, some concepts, whose understanding might alienate the brothers and sisters of other denomi-nations and/or religious traditions, need clarification. For instance, any instructed Catho-lic knows what is implied by «works of corporal and spiritual mercy» (n. 15). The same cannot be said of members of other Christian denominations, not to mention followers of other religious traditions. Likewise, without additional explanation, and for historical reasons, protestant brothers might still be reluctant with the implications of the concept of indulgences (n. 22). The expected explanatory work is not meant to be self-censure, but a demand of the practice of hospitality in any conversation. Without this step, they will be locked out of a message that is meant for them too.

Other practical recommendations on how to live out the message from a dialogue perspective can be drawn from the icon of a Church offering the mercy of God and of which Jesus Christ is the embodiment (n.10). Since Vatican ii, in their particular dedica-tion to interreligious dialogue, the Popes have reached out to the existential peripheries, beyond the boundaries of the Catholic Church. Embodying the inspiration of Popes John xxiii and Paul vi, John Paul ii, Benedict xvi and the current Pope Francis have embraced people of other denominations and religious traditions. They not only receive them at home, they also go to their encounters. Since John Paul ii, encounters with religious lead-ers and visits to other religious places have now become part of the program of papal visits.

Our parishes and religious communities can also follow in their footsteps. As local institutions, we could strive to go beyond the boundaries set by our respective religions. The destinations for our community outings and on-going formation could include holy sites of other religions. What we learn from these visits and immersion might «open us to even more fervent dialogue,» showing in a particular way how our compassion can reach out to the existential peripheries, where God’s mercy is more needed (n. 15). Openness to ecumenism and interreligious dialogue will help us know and understand one another better, eliminate every form of narrow-mindedness and disrespect, and drive out every form of violence and discrimination (n. 23)2.

2. Fr. Paulin Batairwa is a Xaverian Missionary and a professor of the Department of Religious Studies, Fu Jen Catholic University, Taiwan.

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Quaderni del CSA 13/2: 84–86 2018 Centro Studi Asiatico

The 2018 Course of Introduction to Buddhism in Japan

Rocco Viviano

The 2018 Introduction to Buddhism in Japan seminar for foreign missionaries was held from 12 to 14 January at the Xaverian Regional House, in Izumisano, Osaka

Prefecture. The sixteen participants, from six different countries, represented seven mis-sionary religious orders and societies in Japan. Our own Fr Juang Romualdus, the young-est and newest member of our Region, since December 2016, also attended.

The Xaverian Programme of Formation for Missionaries in Japan

The seminar is one component of a broader programme of introduction to Japan for for-eign missionaries offered by the Xaverian missionaries for over fifteen years. The pro-gramme is designed to support non-Japanese consecrated men and women assigned to work in Japan, especially, but not exclusively, those who have recently arrived and are therefore new to this society and culture.

Recent Xaverian General Chapters have placed special emphasis on the dialogue with culture and religions as integral components of our mission.1 In line with Xaverian guidelines, this particular initiative is one of the ways in which Xaverian Missionaries in Japan wish to contribute to evangelization, by helping other missionaries to achieve a clearer and deeper understanding of the Japanese context and, consequently, to become capable of stronger connections with the Japanese people, and therefore more effective missionaries.

Although the programme cannot substitute for the formation that each religious order or society provides for its members, its aim is to make a small, but significant con-tribution, not only through its content, presented by specialists, but also by creating spac-es where missionaries striving to understand Japan can interact and support each other.

1. xvi General Chapter of the Xaverian Missionaries, «Practical Guidelines based on the “First Proclama-tion”» no. 70 in Xaverian Missionaries, xvi General Chapter Documents, 2013, p. 63. xvi General Chapter of the Xaverian Missionaries, «First Proclamation: A New Beginning for the Mission» no. 29 in Xaverian Mis-sionaries, xvi General Chapter Documents, 2013, p. 63. xvii General Chapter of the Xaverian Missionaries, «Mission, Communication and Culture» in Xaverian Missionaries, xvii General Chapter Documents, 2017.

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85viviano: introduction to buddhism

The full programme is composed of four modules, namely: Introduction to Japa-nese Culture and Society; Introduction to Japanese Buddhism; Introduction to Shintō; The influence of Confucianism on Japanese Culture and Religion. The module on culture is offered every year, while the three modules on religions are held once yearly, over a three-year cycle. Although cancellations have occurred at times, due mainly to insuffi-cient numbers of participants, the courses have been held regularly and have attracted a considerable number of participants.

The introduction to culture module was initially held at Shinmeizan Centre of Spirituality and Interreligious Dialogue, and organized by Fr Franco Sottocornola, the director of the Centre, until 2016. The Religion modules, alternately, were organized by Fr Tiziano Tosolini, director of the Xaverian Asian Study Centre, and held at the Xaverian Regional House, from 2002 to 2015. In 2018, the direction of the complete programme has been entrusted to Fr Rocco Viviano, as related his work as Xaverian Coordinator for Interreligious Dialogue for the Kansai district.

While building on the considerable experience accumulated over the years, the programme is being redesigned to respond better to the needs of the rapidly changing socio-cultural context in Japan.

The 2018 Module on Buddhism

Since its arrival in the sixth century ad, Buddhism in Japan has developed in different ways and has taken on very diverse forms. As a matter of fact, there are fourteen officially recognized denominations, most of which are further divided into several schools. Al-though each denomination would have to be treated separately in order to understand its importance, this is hardly achievable in the limited time available. Therefore, after a first introductory lecture on the origins and doctrinal developments of Buddhism from Shak-yamuni to the establishment of the Mahayana school and its arrival in Japan, delivered by Fr Rocco Viviano sx, the module focused on two denominations in particular: Fr James Heisig svd, from Nanzan University, presented Zen Buddhism, while Fr Shuichi Tsuno-da sj from Sophia University gave a lecture on Jōdo Shinshū, the most common form of Buddhism in contemporary Japan.

It was necessary to stress, both during the orientation on the first evening and sub-sequent sessions, that the purpose of the module was not to give practical tips on how to engage in dialogue with Buddhists in Japan. Such awareness can only come as the natural result of a patient process of understanding Buddhism and the way it shapes the minds

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)86

and lives of its Japanese followers. The purpose of the module was, rather, to lay the foun-dation for such a process.

From the methodological point of view, while acknowledging the importance of the experiential element, a conviction underlying the module was that intellectual engage-ment is a necessary component of true knowledge. Concretely speaking, it is to be expect-ed that missionaries in Japan will have abundant opportunities to encounter Buddhism at various levels, because Buddhism permeates, often inconspicuously, most cultural el-ements and social dynamics in Japan. To some extent, a sufficiently deep understanding of Buddhism is also useful to understand Japanese Catholic believers, who are strongly rooted in Japanese culture, especially those with Buddhist family backgrounds.

The aim of the module was to equip the participants with key ideas that might be useful to process experiences when the opportunity presents itself. By opening up impor-tant issues, presenting resources and pointing out directions, the module was intended as a starting point for further personal study of Buddhism.

There was ample time for questions and exchange both during and after each lec-ture. Moreover, the presence of Asian participants from countries where Buddhism is sig-nificantly present, was particularly enriching for the discussion, and further highlighted the distinct character of Japanese Buddhism.

Last but not least, an important feature of the seminar was the hosting environ-ment. The community of the regional house is composed of eight members and brings together a wealth of experience at many levels. By sharing prayer and meals with the Xaverian community, the participants were able to take advantage of that cornucopia. In particular, the participants, mostly young religious, had the opportunity to interact with missionaries who have spent two, three and in some cases more than five decades in Japan, and also to get to know the various forms of ministry we are engaged in. Likewise, welcoming the participants was particularly stimulating for our community, providing a rare chance to offer our distinctive form of Xaverian hospitality in a contemporary Japanese context.

There is certainly room for improvement, however feedback from participants and community members showed that the experience was successful.

The Regional House is now preparing to host the next module, “Introduction to Japanese Culture and Society,” from 20th–24th August, 2018. We hope it will be another successful contribution to the mission of the Church in our beloved land of Japan.

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Quaderni del CSA 13/2: 87–89 2018 Centro Studi Asiatico

Riflessioni sul corso di Introduzione al Buddhismo per missionari in Giappone

Romualdus Juang

È importante evidenziare la necessità di una buona formazione per quanti promuovono il dialogo interreligioso, che per essere autentico deve essere un cammino di fede…

Per questo motivo incoraggio gli sforzi (del Pontifico Consiglio per il Dialogo Interreligioso) volti a organizzare corsi di formazione e programmi di dialogo interreligioso per differenti gruppi

cristiani, in particolare seminaristi e giovani negli istituti educativi terziari

Benedetto xvi

Partendo da questa citazione di Papa emerito Benedetto xvi che sottolineava l’impor-tanza della formazione per il dialogo interreligioso, soprattutto rivolta ai giovani e

seminaristi, vorrei condividere la mia esperienza e riflessione fatta in Giappone nel mio primo contatto con il Buddhismo. Nonostante sia stata solo un’introduzione, il corso mi è stato utile. A gennaio di quest’anno presso la casa regionale di Izumisano si è svolto un incontro di formazione intitolato «Introduzione al Buddhismo», organizzato per noi nuovi missionari appena giunti in Giappone, desiderosi di arricchire le proprie cono-scenze, attraverso approfondite presentazioni offerte da persone competenti nell’ambito del Buddhismo. Anche io ho avuto bella occasione di poter partecipare al programma, organizzato da padre Rocco Viviano.

L’incontro, della durata di tre giorni, è stato davvero molto interessante e arricchen-te per noi perché ci ha offerto la possibilità di scoprire sin dall’inizio del nostro cammino missionario, la bellezza del Giappone, in modo particolare il suo lato religioso, che in-fluenza profondamente l’identità e la vita dei giapponesi.

All’inizio dell’incontro, ero entusiasta, pensando sia ai temi che agli ospiti, ma allo stesso tempo avevo tante domande. Sapevo che sarebbero venuti a parlare degli esperti, ma in loro ho trovato anche persone come me, ricercatori della verità, pieni di entusia-smo, con il desiderio di condividere le loro esperienze e scoperte.

Da questo incontro ricco di spunti ho imparato tante cose belle, in modo partico-lare dalla presentazione sul Buddhismo della Terra Pura tenuta da un gesuita. A dir la verità, tutto era completamente nuovo per me. Il linguaggio era un po’ difficile da capire subito, però ciò che ha attratto di più la mia attenzione è stato, prima di tutto, la descri-

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)88

zione degli elementi caratteristici per poter acquistare la salvezza, cioè arrivare alla Terra Pura. Il cammino richiede solo l’aspirazione a rinascere nella Terra Pura e la recitazione ripetuta del nome di Amida; in questo modo il raggiungimento del nirvana è certo ed accessibile a chiunque. Per un buddhista, avere fede in Buddha è qualcosa che tocca il quotidiano. Ciò mi porta a pensare all’aspetto centrale del Cristianesimo, Gesù. Lui è la ragione nel nostro essere cristiani.

Dal mio punto di vista, partecipare a queste attività di formazione, ci aiuta dav-vero a conoscere le ricchezze delle diverse tradizioni religiose, in questo caso quello del Buddhismo, per poter costruire assieme ponti di amicizia, ricercare il bene autentico di entrambe le parti e suscitare il desiderio di incontro e di collaborazione nel futuro. Il desiderio di conoscere è ciò che ci unisce e ci pone in relazione di ascolto e di accoglienza degli altri. Ma ciò diventa possibile solo dopo un’adeguata preparazione. Ed è per questo che, a mio parere, è stato utile partecipare a questo corso.

Per quanto riguarda i partecipanti, eravamo un bel gruppo dei giovani missiona-ri pieni di energia e forza. Durante l’incontro, ho notato che eravamo tutti entusiasti e desiderosi di ascoltare con attenzione gli elementi spirituali del Buddhismo presentati dai professori invitati. Ci sono state tante domande, e interventi su questioni di interesse pratico nei rapporti tra la Chiesa, il Buddhismo e i giapponesi in generale.

Il gesuita, padre Yuichi Tsunoda, proviene originariamente da una famiglia che pratica il Buddhismo della Terra Pura, perciò, per noi giovani missionari, la sua espe-rienza personale è stato un regalo che ci incoraggia ad andare oltre le nostre barriere per edificare assieme un ponte di comprensione al di là dei confini religiosi.

Infine, ho riflettuto su un’idea legata al nostro carisma. Io sono cresciuto in un ambiente multiculturale e multi-religioso, e ho sperimentato che è bello vivere insieme. Nonostante a volte ci sono incomprensioni e pregiudizi, non mancano i momenti per trovarci e dialogare. Ciò che ci accomuna è la profonda riconoscenza per le rispettive spiritualità e il rispetto reciproco.

Nella comunità Saveriane, sono consapevole che secondo il nostro carisma siamo inviati alle persone non cristiane, fuori dal nostro ambiente d’origine (cfr. Costituzioni n. 9). Per cui con grande interesse, rispetto e passione per questa missione, desidero immer-germi nell’incontro con gli altri nella loro particolarità, con un atteggiamento di ascolto, di cordialità, di empatia arrivando fino alla conversione, cioè all’atto di purificazione di ciò che blocca la relazione reciproca (cfr. Costituzioni n. 13; Ratio Missionis Xaxeriana nn. 43–44). Perciò questi momenti di formazione possono essere momenti privilegiati di pre-parazione e di discernimento per il nostro cammino di fede e missionario. Considerando

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89juang: riflessioni sul corso di introduzione al buddhismo

il nostro ruolo come responsabili religiosi nelle società pluralistiche in cui ci troviamo e operiamo, queste sono attività importanti di formazione, a cui dobbiamo prestare molta attenzione.

Questa è dunque la mia breve condivisione dell’esperienza avuta durante l’incontro di introduzione al Buddhismo. Aspetto con grande entusiasmo i prossimi appuntamenti.2

2. P. Romualdus Julian è un missionario Saveriano attualmente impegnato nello studio della lingua giap-ponese a Osaka.

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Cultura e società

Novelle Bengalesi - iv Il valore di una persona non si misura in denaro

Shuktara e il mostroIl califfo e i tre pittori

Antonio Germano

Art. 9 della Costituzione giapponese In 23 località gruppi di semplici cittadini sfidano lo Stato

Silvano Da Roit

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Novelle bengalesi - IV

A cura di Antonio Germano

Il valore di una persona non si misura in denaro

Questa non è una fiaba o una novella. È un racconto, il cui protagonista è un ragazzo di nome Reza. Gli episodi che accadono nel racconto hanno una matrice bengalese, ma possono accadere in qualunque parte del mondo. Il gioco di cui si parla è chiamato in bengalese danguli («the game of tip-cat» in lingua inglese) e pare sia un tipico gioco anglosassone che è stato poi introdotto an-che in quelle che una volta erano le colonie inglesi. Il gioco comprende un bastone della lunghezza di un metro e un piccolo pezzo di legno lungo circa una decina di centimetri e appuntito agli estremi. Esso consiste nel percuotere con il bastone il pezzo di legno più piccolo facendolo alzare da terra e poi colpendolo mentre sta ancora roteando in aria. L’altro giocatore deve essere in grado di correre e afferrarlo al volo.

• •

Reza aveva dieci anni. Suo padre era morto due anni fa. La mamma, perché il ragazzo avesse di che mangiare, lo mandava a pascolare le mucche di Kalu Mia. Quando si

recò al pascolo, incontrò i suoi coetanei, che andavano a scuola. Oggi il figlio di Kalek Mia, dopo avergli dato uno spintone, gli disse: «Figlio di una buona donna, perché vieni a pascolare nei nostri campi? Perché, raccolto un pezzo di merda di mucca, non te ne vai a casa?».Reza si allontanò piangendo. Al pascolo incontrò Alì, due anni più grande di lui. Con le lacrime agli occhi gli raccontò della presa in giro da parte degli scolari suoi coetanei. Alì lo consolò dicendo:«Non c’è gente più stupida di un gruppo di scolari! Forse che essi sanno giocare meglio di me a danguli? Prendi e gioca».Da quel giorno Reza cominciò a giocare a danguli. All’inizio continuava a sbagliare ed Alì lo rimproverava. Ma quindici giorni dopo non sbagliava più un colpo e adesso, recandosi al pascolo, giocavano fra di loro: uno lanciava il pezzo col bastone, e l’altro lo raccoglieva al volo. Il direttore della scuola rimase sorpreso nel vedere i due giocare senza commettere errori. Alì suonò il flauto e disse:«Vedrai che un giorno andrò a Dhaka e suonerò alla radio! Hai voglia di imparare?».

Quaderni del CSA 13/2: 93–98 2018 Centro Studi Asiatico

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)94

Reza rispose: «Sì, ho tanta voglia!».Questa volta, però, ci vollero molti giorni per imparare. Per tre volte dovette chiedere i soldi alla madre per comprare un flauto.Due mesi dopo con mille take1 riuscì a comprarsi un flauto. Alla fine Alì gli disse: «Questa volta, però, se non ne compri uno di almeno duemila take, non puoi andare avanti». La madre di Reza, sentendolo suonare, privandosi del cibo, riuscì a mettere assieme le duemila take per il figlio. Un giorno Alì gli disse: «Su, questa volta ti porterò dal mio maestro di musica». Il maestro, dando il suo flauto a Reza, gli disse: «Su, fammi sentire quello che sai fare». Reza soffiò nel flauto e ne venne fuori un suono così dolce che egli cominciò a suonare con tutta l’anima. Il maestro lo ascoltò in silenzio per mezz’ora. I suoi occhi si stavano bagnando di lacrime e alla fine disse: «Quel flauto è mio, ma se ora lo chiedo indietro, faccio un grande sbaglio. Il suo prezzo però non è di duemila take, ma di ventimila». Il volto di Reza si oscurò e sui suoi occhi comparvero le lacrime. Alla fine disse: «Maestro, le prometto che un giorno salderò il prezzo del flauto». Il maestro prese dalle mani di Reza solo cento take2 e, restituendogli le altre take, disse: «Ragazzo mio, io prego che tu possa crescere da vero uomo! Il tuo debito è già stato sal-dato!»Da quel giorno, andando al pascolo, Reza suonò il flauto. Un giorno lo chiamò il direttore della scuola: «Vieni, Reza, col tuo bastone percuoti il gong della scuola»3. Reza cominciò a percuotere il gong: una, due, tre… e per dieci volte colpì il gong. Non fece neppure uno sbaglio. Gli scolari, sorpresi, scattando in piedi si allinearono. Il maestro annunciò: «Oggi Reza suonerà l’inno nazionale»4. Rimanendo in piedi, i trecento alunni rimasero ad ascoltare con le orecchie tese. Quando l’inno finì, uno scroscio di applausi risuonò nel cielo.

1. Circa dieci euro.2. Un euro.3. Un tempoi colpi di gong segnavano l’inizio e la fine delle lezioni.4. In Bangladesh, in ogni ordine di scuola, le lezioni iniziano con l’inno nazionale.

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95germano: novelle bengalesi - iv

Shuktara e il mostro

Shuktara è il nome della giovane protagonista della fiaba. In lingua bengalese Shuktara significa «stella del mattino» ed è anche il nome del pianeta Venere. Dato come nome ad una ragazza si vuole sottolineare la sua bellezza. Quindi in italiano la fiaba si potrebbe intitolare: «La bella ed il mostro».

• •

C’era una volta un commerciante, che aveva una figlia meravigliosa, che si chiamava Shutara ed era molto affezionata al papà. Un giorno il papà venne a sapere che al

porto era approdata la nave. In procinto di partire, chiese alla figlia: «Cosa posso portarti in regalo?».Sorridendo Shuktara rispose:«Una rosa».Sulla via del ritorno, il papà smarrì la strada e si trovò nel mezzo della giungla. Stava scendendo la notte e lui, per la fame e la paura, si sentiva vicino alla morte. Improvvisa-mente si presentò ai suoi occhi una splendida reggia. Dentro non c’era nessuno. Però, per l’ospite di passaggio era allestita una mensa e c’era anche il posto per dormire. Dopo aver mangiato e ben bevuto, si abbandonò al sonno. Al mattino, se ne stava andando, quando nel giardino vide una bellissima rosa. Si ricordò allora della richiesta della figlia ed andò a coglierla.Immediatamente il suono terrificante di una voce giunse ai suoi orecchi: «Altolà! Fermati! Per me non c’è un valore più grande di questa rosa e tu hai osato strap-parla? Devi morire!».In vita sua il commerciante non aveva mai visto un uomo così abominevole e terrificante. Si prostrò ai suoi piedi dicendo: «Hujur,5 io ho una figlia più bella di questa rosa. Ella ha voluto da me solo questa rosa. Prima di morire gliela porto e poi torno». Il mostro accolse la richiesta dicendo:«D’accordo! Se tua figlia acconsente di vivere nella mia reggia, allora tu avrai salva la vita. Vai dunque, ti do tre giorni di tempo!».Tornato a casa, dopo aver dato la rosa alla figlia, il papà le raccontò tutta la storia. Sentito il racconto, Shuktara disse:

5. Signore.

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)96

«Papà io andrò ed abiterò con lui. Anche se dovessi morire, non mi costerà nessun dolo-re». Il padre, con le lacrime agli occhi, l’accompagnò sul posto. Al calar della notte il mostro si sedette a mangiare di fronte a Shuktara. Shuktara provò tanta paura che non riuscì a portare alla bocca neppure un boccone. Il giorno dopo, però, il mostro le disse: «Quello che vedi nella reggia è tutto tuo!».Erano ormai trascorsi tanti giorni, quando a Shuktara giunse la notizia che il papà era caduto ammalato. Allora disse al mostro: «Io devo andare». Al che il mostro rispose: «Se tu non torni dentro sette giorni, io morirò».Shuktara partì per assistere il papà, ma non tenne calcolo dei giorni che passavano. Un giorno arrivò il cavallo bianco del mostro con un messaggio legato al collo: «Io sto per morire, la mia reggia è tua!». Shuktara intraprese immediatamente il viaggio di ritorno. Il mostro era caduto a ter-ra svenuto: i suoi due occhi erano bellissimi ed invocavano affetto. Shuktara scoppiò a piangere. Dai suoi occhi una lacrima cadde sulla bocca del mostro… Improvvisamente il suo volto si trasformò ed un poco alla volta il mostro diventò un giovane meraviglioso. Quindi si alzò e disse: «Un mago cattivo mi ha buttato addosso un unguento malefico. Il maleficio si è disciolto a contatto delle tue lacrime. Da adesso per noi due incomincerà una vita di felicità».

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97germano: novelle bengalesi - iv

Il califfo e i tre pittori

Nella città di Bagdad vivevano tre grandi pittori. Di anno in anno essi dipingevano dei quadri per ricevere il premio dal califfo. Nessuno però era in grado di giudica-

re chi fosse il più grande fra i tre, per cui il premio era diviso fra di loro in parti uguali. Quell’anno ognuno di loro aveva presentato un quadro al califfo, il quale insieme ai suoi ministri un giorno era uscito per giudicare quale dei tre fosse il più bello. Per la gioia di tutti, i quadri erano stati collocati dinanzi alla dimora regale del califfo. Centinaia e centi-naia di spettatori in piedi dinanzi al palazzo del califfato stavano ammirando i capolavori.I ministri dissero al califfo: «Nessuno può uguagliare la bellezza della terra, opera di Allah! Perciò Vostra Altezza sceglierà quel quadro che si avvicina di più alla natura». Guardando il quadro del primo artista, il califfo rimase straordinariamente sorpreso. La scena rappresentava la casa di un contadino in mezzo alla campagna. L’erba dei campi appariva così vera che mucche e capre vi si fermavano davanti per brucare.Il secondo artista aveva disegnato un giardino in fiore. I fiori sembravano così belli e na-turali che api e farfalle vi si posavano per succhiarne il nettare. Gli occhi del califfo quasi si riempivano di lacrime per la gioia. Disse ad uno dei ministri: «In vita mia non ho mai visto un’opera di tale portata. Ovviamente sarà questa a prendere il premio». Il ministro intervenne dicendo: «Maestà, abbia ancora un po’ di pazienza! C’è ancora un altro quadro e finché non lo vediamo non possiamo assegnare il premio».Il quadro era enorme e così verosimile che non sembrava un quadro. Tuttavia il califfo, vedendo che il pittore stesso stava in piedi dinanzi al quadro, andò su tutte le furie e disse al ministro: «Ordina all’artista Polash di spostarsi dal quadro!». Di rimando il ministro rispose: «Polash non ascolterà la mia parola e, probabilmente, neppure la sua, maestà!». A questo punto, inferocito, il califfo replicò: «Cosa dici mai! Non darà ascolto alla mia parola? Ehi, Polash, spostati di là! Ti ordino di spostarti!».Polash rimase in piedi là dove si trovava. I suoi due occhi rimanevano fissi sul volto del califfo. Il califfo bruciava dalla rabbia. Ordinò alle guardie: «Afferratelo e portatelo da me!».

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Quaderni del CSA 13/2 (2018)98

Su suo ordine le guardie si mossero, ma, afferrato Polash, non riuscirono a trasportarlo. L’artista non era lì! C’era solo la sua immagine che appariva così verosimile che riuscì a trarre in inganno perfino il califfo. L’artista era in mezzo alla folla a gustarsi lo spettacolo. Questa volta il califfo disse:«Se qualcun altro avesse osato farmi uno scherzo simile, ne sarebbe andata di mezzo la sua testa. Invece Polash, per un simile scherzo, prenderà il premio! Egli ha tratto in ingan-no non soltanto animali e uccelli, ma anche me».6

6. Traduzione dal bengalese del missionario Saveriano p. Antonio Germano Das.

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Art. 9 della Costituzione giapponeseIn 23 località gruppi di semplici cittadini sfidano lo Stato

Silvano Da Roit

La Costituzione giapponese formulata dopo le atrocità della seconda guerra mondiale, per tutelare la pace e la stabilità delle nazioni, prevede la rinuncia all’esercito e alla

guerra. L’articolo 9 recita testualmente: «Nella sincera aspirazione alla pace internaziona-le, basata sulla giustizia e l’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra quale sovrano diritto della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per la risoluzione delle dispute internazionali. Allo scopo di raggiungere l’obiettivo di cui al pre-cedente paragrafo, le forze di terra, di mare ed aeree, così come le altre potenzialità belli-che, non saranno mai mantenute. Non sarà riconosciuto il diritto dello stato alla guerra».

La Costituzione, entrata in vigore nel 1947, viene studiata nelle scuole, e molti giap-ponesi sono orgogliosi di appartenere ad una nazione che ha rinunciato all’uso della forza per risolvere le dispute internazionali. Il giapponese medio, se possiede un’occupazione e riesce a sostenere la sua famiglia, si ritiene felice di appartenere ad una grande nazione che mediante il lavoro e l’organizzazione sociale è in grado di garantire una vita decorosa e pacifica per tutti i suoi membri. Tuttavia, ultimamente la situazione sta deteriorando in maniera preoccupante.

La vicina Cina, oltre ad un rapido e capillare sviluppo economico, sta investendo sempre più nell’esercito e in armamenti, e persegue una politica piuttosto aggressiva cercando di espandere il più possibile i confini delle proprie acque territoriali per impa-dronirsi di isole appartenenti a nazioni limitrofe. La Corea del Nord, a causa del lancio sistematico di missili che cadono sempre più vicini al territorio giapponese e lo sviluppo costante di ordigni atomici, rappresenta ormai per il Giappone un Paese scomodo e insta-bile, oltre che pericoloso. La Russia, dal canto suo, sta rivitalizzando ed modernizzando il suo esercito. Da ultimo, gli Stati Uniti d’America, che finora hanno garantito la sicurezza del Giappone, esigono ora da parte dello Stato giapponese un contributo maggiore alle spese per le basi militari americane stanziate sul suo territorio. Inoltre l’America esercita sul Giappone una certa pressione affinché i contingenti delle Forze di Autodifesa giap-ponesi si muniscano e siano pronti all’uso delle armi. Infatti, per circa sessant’anni nelle missioni di aiuto a Paesi terzi le forze di autodifesa giapponesi hanno contribuito portan-

Quaderni del CSA 13/2: 99–102 2018 Centro Studi Asiatico

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do con sé solo macchinari per la costruzione di infrastrutture senza però mai usare armi di alcun tipo. In questo contesto è comprensibile che il Governo giapponese sia molto preoccupato per i fragili equilibri di pace che si sono venuti a creare in questa zona del mondo, anche se per molti suoi cittadini ciò non giustifica affatto che la Costituzione pa-cifista del Giappone debba essere modificata. Di fatto, e gettando anche solo un semplice sguardo sugli avvenimenti storici del passato, si nota come sia la Cina che la Corea non abbiano mai invaso il Giappone: è stato semmai il Giappone che ha occupato i suoi vicini per assicurarsi le materie prime di cui è sprovvisto.

Il Governo attuale sa che difficilmente potrà modificare la propria Costituzione senza creare malumori tra la popolazione, e cerca quindi di raggirare questo ostacolo offrendo un’interpretazione diversa, cioè una lettura più possibilista dell’uso miliare, por-tando come giustificazione il fatto che oggigiorno sono cambiate le esigenze e gli equilibri che sorreggevano l’impianto teorico e ideologico di quella carta costituzionale. In questo modo il Governo ha approvato molte leggi e decreti che permettono alle forze di autodi-fesa di addestrarsi le armi più sofisticate in commercio e di portarle (nonché di usarle) eventualmente con sé nelle missioni all’estero.

Questa svolta decisamente nazionalista e interventista, sta inesorabilmente portan-do il Giappone a chiudersi su se stesso e a isolarsi — avvenimenti questi che più volte si sono ripetuti nella storia di questa grande nazione. Tuttavia il Giappone, in quanto Stato moderno e democratico, prevede anche che i cittadini possano citare in tribunale il Governo se questo non adempie i suoi obblighi costituzionali. E questo è esattamente ciò che è accaduto in 23 città giapponesi. Molte persone che si sentivano sicure e che con orgoglio avevano spiegato ai loro figli come il Giappone fosse una nazione risolutamente opposta alla guerra e alla violenza, ora si sentono tradite dalle politiche che il Governo sta attuando per cambiare l’essenza pacifista della sua Costituzione. Perciò alcuni giap-ponesi stanno seriamente pensando ad emigrare per non permettere che i loro figli o nipoti vengano a trovarsi in mezzo ad una guerra. In molte località, compresa una città di provincia fortemente tradizionalista come Miyazaki, dove al momento risiedo, è sorto un movimento composto da 226 cittadini, i quali hanno scelto quattro loro rappresentati affinché facessero sentire la loro voce di dissenso citando in tribunale lo Stato per la sue scelte anticostituzionali. Tra queste persone, vi è anche una signora cattolica che si è re-cata in tribunale ad esporre il suo punto di vista di mamma preoccupata per il futuro dei suoi figli. Di seguito riporto parte del discorso che questa persona forte e coraggiosa ha esposto in tribunale. Una voce senz’altro profetica.

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101da roit: art. 9 della costituzione giapponese

• •

Ogni madre desidera la crescita e la felicità per i propri figli. Molte mamme si sentono però alienate da questo desiderio materno e naturale perché le parole di pace racchiuse nella nostra Costituzione all’art. 9 pare stiano non abbiano più alcun riscontro nella real-tà. Tutto ciò ci incute paura e apprensione, soprattutto quando guardiamo i nostri figli e pensiamo al loro futuro. Mio figlio avverte queste mie preoccupazioni, e vorrei poter dire a lui e a me stessa di «non aver paura», di «non temere». Tuttavia, ora sento di non essere più in grado di farlo. Sono molte le mamme che, come me, provano questi sentimenti di smarrimento e di insicurezza. È per questo che sono qui, oggi, in questo tribunale: per rappresentare tutte quelle madri. Tutti voi presenti in quest’aula siete figli di una madre, vostra madre vi ha dato la vita e vi ha allevato nel modo migliore possibile augurando per ciascuno di voi una vita felice e tranquilla. I cambiamenti che stanno avvenendo nel no-stro Paese mettono in dubbio la pace e la serenità delle famiglie e gettano una luce sinistra su tutte le mamme che vogliono mettere al mondo dei figli e desiderano vederli crescere in pace. Mi dispiace di dover dire queste cose, ma è onestamente ciò che sento e che è comune a molte madri e donne di questa città. Io non sono altro che la loro portavoce, e mi rivolgo a tutti voi presenti in questo tribunale affinché riflettiate su queste nostre paure e inquietudini.

Le politiche educative adottate dal Governo e che coinvolgono tutte le istituzioni scolastiche — dalla scuola elementare fino all’università — sono anch’esse fonte di gran-de preoccupazione. In esse vengono proposti modelli educativi che precludono spazi di approfondimento personale, perpetuando unicamente dei modi di pensare e compor-tamenti prestabiliti. I soldi della nostra nazione sono usati per imporre un modello di società e cultura standardizzati a favore di chi detiene il potere, ignorando così un ne-cessario pluralismo e una salutare capacità di dissenso. Mi chiedo, a questo punto, se nel nostro Paese esista ancora libertà di educazione, oppure se non si è costretti a studiare solo ciò che ci è imposto dal Governo.

Mi fa certamente riflettere il fatto che nei testi scolastici delle elementari appaia la fotografia del nostro Primo Ministro, e che la si indichi come persona da ricordare per tutto il «bene» che sta facendo alla nostra nazione. Mi rammarico di dover dire che molte persone non la pensano assolutamente in questo modo, anche se esse hanno timore di esprimere apertamente il loro disaccordo. Che educazione viene offerta ai nostri figli? Che valori universali vengono additati loro? A me sembra che le minoranze, e coloro non si allineano con il pensiero comune, siano malviste e ridotte al silenzio. Anche questo mi

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preoccupa, ed assieme a me preoccupa la maggioranza delle mamme di questo nostro Paese.

Certo, sappiamo che gli individui si allineano sempre con le persone più forti, e che la storia l’hanno sempre scritta i vincitori. Molte persone preferiscono pensare al lavoro e al divertimento, invece che soffermarsi a riflettere su queste realtà difficili e compromet-tenti. Devo tuttavia anche aggiungere una parola sulla dubbia imparzialità dei tribunali giapponesi, che per lo più decidono assecondando le direttive imposte loro dall’alto. Sia-mo a conoscenza di giudici che si sono dimostrati troppo indipendenti, e che per questo sono stati relegati in piccoli tribunali di provincia. Anche questo ci incute paura perché sappiamo che è in gioco la democrazia del nostro Paese. E mi chiedo: Non è che la demo-crazia nel nostro Paese si stia svilendo sempre più finché un giorno essa scomparirà del tutto? Come ho detto: io, e tutte le donne che qui rappresento, siamo seriamente preoccu-pate per il futuro dei nostri figli. Grazie della vostra attenzione e considerazione.1

1. P. Silvano Da Roit è un missionario Saveriano che da molti anni lavora in Giappone. Attualmente è par-roco della chiesa di Minami Miyazaki, in Kyūshū, e direttore della scuola materna.

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In margine

Annunciare il vangelo in Indonesia Intervista a p. Sandro Peccati

Matteo Rebecchi

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Annunciare il vangelo in IndonesiaIntervista a p. Sandro Peccati

Matteo Rebecchi

L’intervista al padre Saveriano Sandro Peccati, missionario in Indonesia dal 1961, è stata condotta il 4 settembre 2015 e il 10 dicembre 2016. Si ringrazia Barbara Vismara per il suo prezioso aiuto nella trascrizione della registrazione. Il testo, rivisto da p. Peccati per la pubblicazione, mantiene lo stile colloquiale con cui è stata raccolta l’intervista.

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Per viaggiare insieme a p. Fantelli, sono partito la notte del primo dell’anno del ’61, da Ancona, con la nave Porto Rose. Si trattava di una nave usata dagli americani per lo

sbarco in Sicilia che era poi stata riadattata ad uso commerciale. Era stata appena revi-sionata, ma era comunque al suo ultimo viaggio. Era una nave molto spartana. Ci hanno dato una cabina gratis, visto che era una nave governativa del Loyd Triestino. Così siamo partiti.

Abbiamo fatto trentacinque giorni di viaggio, con brevi soste: ci siamo fermati po-che ore a Port Said e poi a Aden una mezza giornata, per caricare e scaricare merci. Fu molto interessante l’attraversamento del canale di Suez: sembrava di rivivere i tempi di Mosè del passaggio del Mar Rosso, in particolare la zona dei grandi laghi salati, residuo di fondali marini riemersi.

Siamo poi arrivati al golfo di Kutch, in India. Si trattava di uno scalo portuale anco-ra in costruzione dopo la divisione del vecchio Pakistan dall’India, porto che era diven-tato necessario agli indiani per servire Deli, in quanto quello di Karachi era stato conqui-stato dai pakistani. In India ci eravamo fermati a scaricare concime: molti sacchi di urea. Così ricevemmo una prima introduzione al mondo asiatico, cosa che in futuro sarebbe continuata in modo continuo e graduale.

In seguito siamo ripartiti e, dopo dodici giorni continuativi di oceano, una mattina siamo entrati nel porto di Jakarta. P. Fantelli si era già preparato dall’Italia con tutto il suo entusiasmo, ed aveva un programma da eseguire: scendere dalla nave, inginocchiarsi e baciare la terra della missione. Tuttavia, una volta arrivati a Tanjung Priok, il porto di Jakarta, e dopo aver visto il mare di sporcizia che c’era, cambiò subito idea. Gli chiesi:

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«Ed ora, cosa intendi fare?». E lui mi rispose, «Andiamo via!». E così non attese alla sua promessa di inginocchiarsi per baciare la terra Indonesiana.

Una famiglia di amici vennero ad accoglierci assieme a p. Alessandro Patacconi, il quale aveva programmato il suo viaggio di rientro in Italia, in quanto era stato richiama-to in patria. Abbiamo passato alcuni giorni nella capitale indonesiana. Era stato appena celebrato l’Imlek, cioè il capodanno cinese, e così venivamo invitati da cinesi originari di Padang e residenti a Jakarta: da loro si mangiava bene, mentre nel convento di fratelli religiosi dove eravamo ospitati ci davano cibo molto differente dai nostri gusti italiani.

Dopo dieci giorni, non avevamo ancora trovato il biglietto aereo per Padang ed al contempo non c’erano navi che partivano per quella rotta. Un giorno p. Patacconi fu invitato dalle suore Orsoline per parlare delle Mentawai in una classe del liceo che loro dirigevano. Io lo seguivo dovunque andava, per cui mi recai anche lì. In quell’occasione, la suora che ci aveva invitati aveva saputo di questi due padri appena arrivati dall’Italia che dovevano andare a Padang, ma che non avevano ancora trovato il biglietto aereo. Ci disse di lasciar fare a lei. In quel momento è arrivato l’autista del generale Yani1 che era ve-nuto a prendere le due figlie del generale che frequentavano la scuola delle Orsoline. Dopo un quarto d’ora avevamo già i biglietti in mano. Li aveva comprati l’autista a nome del generale Yani. Questa suora insegnava francese e inglese alla moglie dello stesso generale, e quindi conosceva molto bene la sua famiglia. Da lì siamo partiti e siamo atterrati a Pa-lembang (Sumatra Meridionale) per un rifornimento, e poi siamo decollati verso Padang.

Io e p. Fantelli ci siamo stabiliti a Padang per un anno di studio della lingua. Dopo un mese sono arrivati i padri Bagnara e Clementini, mentre dopo tre mesi è sopraggiunto un bel gruppo con i padri Grappoli Pietro, Chiari, Orsi e alcune suore ali2. Questo grup-po aveva viaggiato fino a Jakarta con una nave passeggeri che poi avrebbe proseguito per l’Australia. In seguito si sono spostate da Jakarta a Padang con un’altra nave.

Per il corso di lingua abbiamo utilizzato i libretti in uso per la prima elementare. Studiavamo le frasi del tipo «Titi memanggil ibu, ibu memanggil Titi» («Titi chiama la mamma, la mamma chiama Titi»). In seguito sono arrivate le casse con tutti i nostri bagagli, tra cui la mia bicicletta. Era un modello sportivo, una Legnano color testa di moro, da cui avevo fatto asportare il cambio dai giovani della mia parrocchia: la volevo il più semplice possibile, perché in Indonesia non erano disponibili pezzi di ricambio per eventuali riparazioni.

1. Ministro della Difesa dal 1962 al 1965.2. Assistenti Laiche Internazionali, un istituto secolare con sede a Milano che fu fondato particolarmente per la missione alle Mentawai.

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Durante questo periodo io mi sono offerto subito per celebrare l’Eucarestia, in quanto la liturgia era ancora eseguita in latino. In seguito iniziai a preparare qualche pa-rola per l’omelia. Incominciai ad andare a Padang Panjang e a Sawahlunto, due città nella zona di Sumatra Occidentale, alternandomi con p. Bagnara. A parte noi più giovani, e con l’eccezione di p. Grappoli, i padri che avevano superato i quarant’anni avevano molte difficoltà ad imparare la lingua Indonesiana.

Nel frattempo, tra marzo e aprile, pur sapendo soltanto alcune frasi in indonesiano, mi chiesero la disponibilità di andare a Pekanbaru per accompagnare una giovane mae-stra della scuola elementare Santa Maria, perché i genitori non la volevano lasciar partire da sola. Il viaggio è durato «appena» 3 giorni e 2 notti (lo stesso itinerario lo si percorre ora normalmente in 7–8 ore): effettivamente c’erano buone ragioni per preoccuparsi da parte dei suoi genitori. Le strade erano in condizioni disastrose; tutto era in stato di abbandono ed inoltre c’erano almeno una ventina di posti di blocco presidiati dai militari. Nella zona di Indarung, e nelle montagne limitrofe, era ancora attiva la guerriglia e la resistenza dei gruppi separatisti che reclamavano l’indipendenza dalla Repubblica Indonesiana.

Io avevo 26 anni, ed ero perciò pieno di energie e di entusiasmo. Alle 5 del mattino mi recavo a celebrare la messa in latino dalle suore olandesi alla quale seguiva una buo-na colazione con prosciutto e formaggio. Irrobustito da ciò, partivo poi in bicicletta per andare a Bungus, ad Indarung o a Pasar Usang, delle località vicine a Padang. Le stra-de erano ombreggiate da piante rigogliose, per cui anche verso mezzogiorno si pedalava bene, anche con la tonaca, visto che prima del Concilio bisognava mettere sempre la veste.

Destinazione Siberut-Mentawai

Precisamente un anno dopo, verso i primi di febbraio, ricevetti la destinazione dal nuovo Vescovo Saveriano mons. Bergamin, consacrato il 6 gennaio, che mi inviava alle Men-tawai. Così, assieme a p. Piero Calvi siamo partiti con la nave che ha attraccato a Sipora e lì per dieci notti abbiamo fatto diversi tentativi per navigare verso nord, ma senza successo, a causa delle condizioni del mare nello stretto tra le isole di Sipora e Siberut. Ogni qual volta si tentava di attraversare lo stretto venivamo respinti da un mare turbolento con delle onde spaventose che non ci permettevano di proseguire nella navigazione.

A Sipora eravamo ospiti di un catechista che avevano mandato da Sikakap con sua moglie e la figlia piccola che si chiamava Carolina. Dopo tre giorni non c’era più niente da mangiare: avevamo finito quel poco riso che avevano. Ma la Provvidenza ci è venuta incontro. Siamo andati a passeggiare per conoscere un po’ il villaggio, e ciò è anche servi-

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to a trovare un terreno che successivamente avremmo acquistato per la costruzione della parrocchia di Sipora. La terza o quarta mattina dal nostro arrivo, mentre passeggiavamo, ad un certo punto ho detto a Piero che mi girava la testa. Avevamo mangiato solo una banana divisa in due. P. Piero, per tagliarla, aveva preso bene le misure in modo da divi-dere esattamente le porzioni in due: era davvero una persona comica! Sulla strada del ri-torno, incontrammo una donna che stava brillando il riso. P. Piero aveva dato dei soldi al catechista che ci ospitava, affinché andasse a comprare un po’ di riso dai Minangkabau3. Ma nessuno voleva venderlo perché si era vicini alla fine del Ramadhan e perciò anche loro non volevano sprecarlo. Proprio in quel momento, si è fermato un ometto con la sua bicicletta per salutarci ed ha iniziato a parlare con p. Piero. Era Uria, un signore che poi si è fatto cattolico ed è diventato uno dei primi fedeli che ha molto aiutato i padri. Quando il catechista tornò ci disse che nessuno voleva vendere il riso. A questo punto Uria disse a p. Piero: «Cosa cerchi padre? Te l’ho portato io il riso!». Scese dalla bicicletta e prese dal portapacchi un sacchetto di tela grigia contente il riso appena brillato dalla moglie. Uria aggiunse: «Senz’altro il padre ha pregato il Padre Nostro, chiedendo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”», e «un angelo» — cioè sua moglie, che era quella donna che in prece-denza avevamo visto pestare il riso nel mortaio — gli aveva detto di portare il riso ai due bule (stranieri, occidentali).

Questo riso ci è bastato fino alla notte in cui siamo partiti. I nostri bagagli erano in-vece su una nave a vela che è salpata dopo di noi da Padang, e che era già a Siberut quando siamo arrivati a destinazione. La trovammo già attraccata al molo nella foce del fiume, perché a quell’epoca la foce di Siberut era ancora navigabile.

I miei due guru

Così è cominciata la mia missione a Siberut. Ringrazio il Signore, e l’ho sempre ringra-ziato, per aver avuto fin dall’inizio due maestri, ed anche per aver avuto il buon senso di prendere degli appunti. I maestri erano p. Piero Calvi, una persona davvero carismati-ca, e p. Rossoni, un individuo organizzato e preciso circa l’amministrazione, i registri ecc. P. Rossoni era entrato dai Saveriani già sacerdote della diocesi di Cremona. Allora in seminario insegnavano l’archiviazione e la schedatura delle famiglie dei fedeli. Così, seguendo loro nelle varie attività, io annotavo ed imparavo tante cose, oltre alla lingua mentawaiana.

3. Etnia di Padang esclusivamente islamica; alle Mentawai i Minangkabau svolgono spesso attività di com-mercio.

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Era il febbraio del ’62, e sempre accompagnando l’uno e l’altro, mi accorgevo della loro diversità e vedevo anche l’effetto che esse producevano sugli altri. P. Piero aveva gran-de facilità nella comunicazione e nelle relazioni; p. Rossoni invece, era più preciso: prima di partire si preparava con le schede e scriveva delle note in un libretto per sapere ciò che si doveva fare in ogni villaggio che visitavamo. Al ritorno, inseriva tutte le informazioni in un registro, scriveva quanto aveva operato e la situazione della comunità.

Padre Piero, che aveva un carattere più carismatico, ne combinava di tutti i colori. Quando era già superiore regionale, andò in visita a Taileleu, un grosso villaggio dove non c’era ancora nessun battezzato, eccetto il maestro e la sua famiglia, il papà di Cristina — una bambina affetta da distrofia muscolare che è poi stata accolta nella casa delle suore ali di Padang dove ha vissuto fino alla sua morte avvenuta nel 2015. P. Piero ha ammi-nistrato 50 battesimi di adulti. Arrivò a casa con una striscia di carta ritagliata dal bordo del giornale Haluan4, sulla quale era riportato l’elenco dei nomi dei battezzati: Cristina, Piero, Angelo… Ma non si sapeva chi fossero queste persone: il loro clan, i loro genitori, se fossero già sposati e con chi… nulla. Nell’elenco era riportato solo il loro nome di battesi-mo. Dopo due settimane, mi sono recato là per cercare di capire la situazione, ma anche il maestro non aveva nessuna nota di questi battesimi perché Piero semplificava ogni cosa, battezzava tutti e poi ti diceva le sue frasi del tipo: «Li mantieni tu? Li mantieni tu?» — intendendo con questo dire che pur avendoli battezzati, non li avremmo dovuti sostenere finanziariamente, e che quindi non c’era bisogno di prendersela a male e di preoccuparsi più di tanto di chi fossero. Dico questo per spiegare come erano diversi questi due padri.

Il fatto di annotare su un quadernetto le mie impressioni si è rivelata col tempo una mossa molto saggia: appuntavo quello che mi piaceva e quello che non mi piaceva; quello che, secondo il mio modo di vedere, era giusto e quello che non lo era. Così feci per quattro anni. In seguito p. Rossoni è stato richiamato in Italia. Nel frattempo p. Piero si era spostato a Padang per un periodo di riposo, ma poi si era ammalato, per cui per un lungo periodo sono rimato in missione da solo. Così, a Siberut mi sono improvvisamente ritrovato ad essere responsabile di tutto, e proprio in questo frangente si è rivelata l’utilità degli appunti che avevo preso. In questo periodo, per 5 mesi non ebbi nessuno con me. Perciò, tutto il lavoro di preparazione del Natale ricadde sulle mie spalle, ma tutto proce-dette senza particolari problemi.

Nonostante questo, dopo la festa di capodanno, fui colto da una forte febbre causata dalla malaria. Un pomeriggio, dopo due o tre giorni che ero sfebbrato e mi sentivo ancora

4. Un quotidiano di Padang.

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debole, improvvisamente ho sentito che non ero più in grado di respirare. Alcune sorelle ali, Cristina e Carolina, vennero allora a visitarmi. Quest’ultima, dopo aver visto le mie condizioni, se ne andò subito via di nuovo per ritornare immediatamente con un vassoio per le iniezioni. Mi fece ben 5 iniezioni e poi subito si ritirò di nuovo in disparte. Dopo alcuni anni lei stessa mi ha raccontato quanto accadde: «Dopo che ti ho fatto le iniezioni sono andata in chiesa a pregare: “Signore io ho agito in base a quello che mi pare di aver capito. Adesso fai Tu!”». E aveva indovinato. La suora aveva intuito che si trattava di una pleurite localizzata in cima al polmone, e dolorosa come una ferita procurata da una col-tellata. In quei frangenti non c’erano navi per recarsi a Padang. Ma grazie a questa cura, mi son ripreso un po’, e dopo un mese e mezzo o più, è arrivata una nave, per cui sono partito con sr. Carolina che mi ha accompagnato a fare delle lastre. Ma la ferita si era già cicatrizzata: la suora aveva fortunatamente indovinato la diagnosi.

Il mio fisico si era molto indebolito: al mattino non riuscivo a mettere giù le gambe dal letto. Ero dimagrito. Mi hanno alloggiato in seminario vicino alla grotta della Ma-donna dove c’era un salone con delle seggiole e un letto con una zanzariera; per andare al bagno dovevo attraversare il salone e andare abbastanza lontano. Era così, in quei tempi. Successivamente, mi hanno detto di andare a Bukittingi, una città di Sumatra Occiden-tale, culla della cultura Minangkabau, perché l’aria era buona. Invece, quel clima non era per nulla adatto ai miei polmoni in quanto faceva piuttosto freddo. Comunque, sono andato là e p. Mario Boggiani mi accompagnò dal medico.

La mattina p. Mario faceva il bagno versandosi addosso dell’acqua con un secchiel-lo. Il rumore dell’acqua si sentiva fino al mercato. Io, dopo la prima secchiata di quell’ac-qua gelida sulla schiena e poi sul fondo schiena, feci un salto in avanti. Da quel momento non ho più fatto il bagno, ma mi limitavo a lavarmi un po’ la faccia. Dopo due settimane ho ricevuto una telefonata da p. Grappoli, che allora svolgeva la funzione di Vicario Ge-nerale della Diocesi, il quale mi comunicava: «Vieni subito a Padang perché il tal giorno partirà la nave per andare a Siberut». Mario si arrabbiò dicendo che non ero in condizioni di andare a Siberut. Ma io gli risposi: «Mario, noi ubbidiamo! Io vado a Padang. Poi, sulla questione di tornare alle Mentawai, ci penseremo». In realtà gli risposi in quel modo per-ché mi sentivo meglio a Padang piuttosto che a Bukittinggi.

Il motivo della richiesta di p. Grappoli era l’arrivo di p. Vanzin per la visita canoni-ca della Direzione Generale e anche per la decisione di eleggere p. Piero come superiore religioso per l’Indonesia e dato che lui si trovava alle Mentawai da solo, avrei avuto il compito di sostituirlo. All’epoca tutto dipendeva dalla Direzione Generale, compresa la nomina del Superiore. E anche dopo la nomina di p. Piero, tutto continuò a essere stabi-

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lito da Roma perché l’Indonesia non era stata ancora formalizzata come Regione, con la sua propria autonomia.

Perciò, ritornai alle Mentawai e da quel momento iniziai a stare meglio. Per un po’ di tempo rimasi solo e poi fui raggiunto da p. Nando Mencarelli che era arrivato da poco e stava studiando l’indonesiano. Intanto i superiori pensavano a un mio sostituto: aveva-no infatti in programma di mandarmi al Riau (Sumatra Centrale-Orientale) con il pro-gramma di affidare l’incarico di parroco a p. Bagnara. Arrivò il vescovo per comunicare la decisione del mio trasferimento e trovò sia p. Bagnara che p. Mencarelli con la febbre, per cui dovetti accompagnarlo io nelle visite dei vari villaggi per le cresime. Giunto il momento di dare la sua comunicazione, disse: «Sono venuto per prendere p. Sandro, ma vedo che è il più efficiente di tutti e quindi è meglio che stia qui». Così sono rimasto lì con p. Bagnara e p. Mencarelli ai quali si aggiunse in seguito p. Caissutti.

Successivamente, p. Bagnara ricevette il mandato di aprire la missione di Sikaba-luan (al nord dell’isola di Siberut) e quindi abbiamo iniziato ad organizzare questa nuova apertura. Due o tre volte ci siamo recati a vedere il posto: abbiamo trovato una casa nel villaggio, l’abbiamo comprata, ed ho suggerito che si trovasse un collaboratore. Gli ho consigliato l’ex catechista Yohanes Satoko, il quale era divorziato ma non si era ancora risposato, e che, secondo me, era un bravo ragazzo. Così questo giovane è andato ad assi-stere p. Bagnara. Rimanevano a Sikabaluan per un mese, un mese e mezzo, poi venivano al sud, a Muara Siberut, per un po’ di giorni. Quindi ritornavano al nord. In seguito, sia-mo andati insieme a cercare il terreno per la sede della parrocchia. Io ero più propenso ad aprire nella località di Pokai per la facilità di sbarco, visto che è un porto naturale, e con la presenza di acqua assicurata dalle colline poco distanti.

Invece, la terra che aveva comprato p. Canizzaro e che poi è diventata la zona dove spesso andava p. Monaci a riposare, tutta sul corallo, non era delle migliori. Non si può costruire una missione lì, senza acqua: l’acqua è importante! Era meglio costruire di fron-te al porticciolo, verso l’attuale Malancan, vicino alla foce del fiume, sotto la collina, dove c’era acqua. Proprio in quel luogo una società del legname aprì in seguito la sua attività. Era il posto ideale per attraccare con la nave Santa Maria5.

A Sikabaluan, dove alla fine si è deciso di costruire la missione, c’era un buon inse-diamento, con un villaggio mentawaiano, la presenza di funzionari del governo e le case di alcuni commercianti sulla foce del fiume. Ma il terreno buono, secco e sabbioso non l’hanno ceduto e così siamo stati costretti a rinunciarvi ed a comprarne uno ancora palu-

5. È una nave appartenente alla diocesi di Padang che per anni ha garantito i rifornimenti e alle parrocchie delle Mentawai.

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doso, per cui poi abbiamo avuto bisogno di riportare sabbia per rialzare il terreno oltre a scavare i canali per il drenaggio dell’acqua. Così è cominciata la missione di Sikabaluan, al nord dell’isola di Siberut.

Nomina di Superiore Regionale

In seguito, nel 1971, mi hanno eletto Superiore Regionale e mi sono trasferito a Padang a sostituire p. Piero. Qui a Padang avevano costruito la casa, l’attuale Biara. Prima del sondaggio per suggerire i nomi dei candidati di Superiore a Roma, Piero aveva fatto una campagna per la mia nomina, in quanto sperava di tornare alle Mentawai. Io ho raccolto una sessantina di voti su sessantaquattro: non si poteva quindi rinunciare all’incarico. Ma ho ritardato di tre mesi la mia partenza per Padang: eravamo infatti in tempo di Qua-resima e dovevamo completare tutto il giro delle visite ai villaggi per celebrare la Pasqua. Rimasi quindi a Siberut.

Nel frattempo, arrivò una comunicazione da Roma nella quale mi veniva dato l’in-carico di preparare il Capitolo Regionale. Il primo anno ho collaborato con p. Abis. Ho chiesto aiuto anche a p. Morini che si trovava a Sawahlunto e che facevo risiedere a Pa-dang per tutta la settimana. P. Morini rientrava a Sawahlunto il sabato sera e la domenica, poi il lunedì tornava nuovamente a Padang. Insieme a questi padri, iniziammo a pensare alla Regione, alla sua struttura, a tutto ciò che era necessario per il suo funzionamento. La cosa si rivelava alquanto complicata. Gli unici esempi che avevamo e da cui potevamo attingere per strutturare la nostra regione erano quelli dell’Italia e del Congo. Di fatto, abbiamo richiesto del materiale da queste regioni per avere qualche idea su come lavorare: c’erano da preparare gli statuti ed i direttori della futura Regione, e poi si doveva definire la relazione con la Diocesi… tutte cose che avrebbero dovuto essere corrette ed approvate dal primo Capitolo Regionale.

P. Piero ed il suo predecessore ogni mese andavano a prelevare i soldi dal Vescovo: si trattava di soldi dell’Istituto provenienti da offerte, ma che venivano depositati in Diocesi. Purtroppo non sempre era facile mettersi d’accordo e a volte scaturivano delle tensioni a causa dello stesso deposito: bisognava quindi dividere le casse. C’era anche il problema delle destinazioni. Io ne sono stato testimone una volta che ho accompagnato p. Piero in auto all’aeroporto del Tabing. Prima di partire per Roma il Vescovo gli aveva dato un pac-chetto di buste dicendogli: «Ti chiedo l’aiuto di distribuirle». Si trattava di alcune lettere di destinazione sulle quali era scritto il giorno in cui il destinatario si doveva insediare per il nuovo incarico — e questo anche se in precedenza l’individuo in questione non era stato

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messo al corrente di nulla. Questo era il sistema autoritario che vigeva al tempo. Non è stato facile richiedere la collaborazione ed il dialogo con il Vescovo e i confratelli interes-sati. Quindi, incontrai il Vescovo e potei chiarire tutte queste questioni e mi offrii come interlocutore tra il Vescovo ed i confratelli.

Uno degli impieghi più esigenti che spettavano al Regionale era quello delle visite ai confratelli. Cercavo di stare a lungo nelle comunità per incontrare tutti. Alle Mentawai il problema erano le difficoltà di trasporto: o si rientrava in giornata con la stessa nave con cui si era arrivati, o si doveva imbarcarsi sulla nave successiva, che però non si sapeva quando sarebbe giunta. Ma allo stesso tempo, non era facile recarsi a far visita a coloro che risiedevano a Kayu Aro, oppure andare a trovare p. Giuliano Varalta a Bagansiapiapi, dove viveva da solo: si trattava infatti di settimane di viaggio. Per recarvisi bisognava andare a Pekanbaru, e da lì a Dumai, per poi aspettare la nave che navigava solo con la marea alta e che viaggiava solamente due volte al mese. Se non si arrivava in tempo, si perdeva la nave.

Trascorsi tre anni come Superiore Regionale. Il primo anno è stato anche dedicato alla preparazione del primo Capitolo Regionale che avrebbe eletto i consultori membri del Consiglio Regionale. Al secondo Capitolo Regionale era evidente che i confratelli deside-ravano rieleggermi, ma io spiegai la situazione e soprattutto che il rapporto con il Vescovo si era ormai incrinato. Quando entravo nel suo ufficio, lui incominciava a tremare. Non si riusciva più a dialogare. C’era quindi bisogno di un’altra persona in grado di ricucire le relazioni tra lui e i Saveriani. Chiesi al Capitolo di interrompere per un giorno i lavori affinché si pregasse e si parlasse tra confratelli su chi eleggere. Io proposi un candidato che però era da solo due anni in Indonesia: p. Giovanni Ferrari. Mi pareva una persona per bene, paziente, in grado di realizzare questa sutura. Ed andò proprio così: scelsero lui e così io andai a Air Molek a sostituirlo.

A Roma come Segretario Generale

Nel ’77, venni eletto dai confratelli per essere inviato al Capitolo Generale. Vi andai as-sieme a p. Ferrari: anzi, io partii prima per studiare il nuovo metodo di svolgimento del Capitolo. Ci siamo preparati facendo una sua simulazione in un gruppetto di alcune per-sone soltanto con i membri della Direzione Generale studiando le dinamiche di gruppo.

Ci vollero tre mesi per svolgere il Capitolo. Era programmata la revisione delle Co-stituzioni Saveriane, ma non si riuscì ad approvare neppure un articolo a causa dell’oppo-sizione di un gruppo di otto persone che non voleva modificare assolutamente il testo in

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quanto, dicevano, si trattava di scritto redatto direttamente dal Fondatore. Il p. Ballarin, invece, aveva già spiegato in precedenza che gli articoli delle costituzioni del 1921 non erano voluti dal Fondatore, ma essi gli erano stati imposti dalla Congregazione dei Reli-giosi. Dimostrò quanto affermava comparando i testi delle nostre Costituzioni con quelli della Consolata e dei Comboniani: in tutte comparivano gli stessi identici articoli. Fu per questa ragione che il Fondatore sentì l’esigenza di aggiungere alle Costituzione anche la sua Lettera Testamento, dalla quale traspare il suo vero pensiero: un pensiero molto es-senziale, adatto alle varie situazioni delle missioni.

Alla fine del Capitolo, tre giorni prima della conclusione, p. Gabriele Ferrari, il ne-oeletto Generale, mi comunicò: «Tu non tornerai in Indonesia. Rimarrai qui a Roma con l’incarico di Segretario Generale». Fu come un fulmine a ciel sereno. «Addio Indonesia!» — pensai. Avrei perso il visto di entrata nel paese e difficilmente lo avrei riottenuto. Dissi a p. Gabriele: «Con questa tua scelta hai reso cinque persone infelici!» — io, p. Pelizzo (il Segretario che avrei dovuto sostituire) e altri tre, già presenti a Roma, che ambivano a questa carica.

Tuttavia era chiaro, e io stesso ne ero cosciente, che la mia posizione non era altro che un espediente temporaneo per venire incontro ad una situazione difficile. Con il mio nuovo incarico, p. Pelizzo, che precedentemente svolgeva la funzione di Segretario, veniva in questo modo rimosso a causa della resistenza di un membro del Consiglio Generale che non si sentiva libero nei suoi confronti. Avevo capito quale fosse la situazione e perciò tentai ugualmente di tenere vicino p. Pelizzo per consultarmi con lui e per farmi aiutare. Poiché era efficiente nel redigere i profili dei missionari defunti, egli si offrì volentieri di dedicarsi a questa attività. Quando c’era bisogno, gli passavo tutti i documenti necessari affinché svolgesse il compito affidatogli: lui li studiava e procedeva a scrivere il profilo richiesto.

In seguito, ci dedicammo assieme ad un altro lavoro: a partire dal periodo succes-sivo alla morte del Fondatore, l’inchiostro dei documenti conservati in archivio stava in-giallendo e quasi svanendo. Per questo motivo, ogni volta che qualcuno aveva bisogno di un’informazione, non la si riusciva a leggere. Inoltre, per trovare ciò che serviva si doveva consultare il testo dalla prima pagina all’ultima perché non esisteva un indice degli in-contri a cui i documenti si riferivano. Perciò p. Pelizzo riscrisse a macchina tutti i verbali degli incontri della Direzione Generale. Ogni volume fu corredato di un indice alfabetico dei temi e dei nomi, oltre all’indice analitico, con il numero di pagina e del volume, così da facilitare le ricerche. Questo è stato uno dei primi lavori che in seguito p. Allevi trasferì al computer. Oggi, grazie alla tecnologia moderna, basta schiacciare un bottone e si rin-

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traccia subito quel che si cerca, mentre al tempo era tutto più complicato. Io non cambiai nulla del sistema di archiviazione che si usava in precedenza, ma mi adattai a quello già esistente e in vigore.

Prima del Capitolo Generale del 1983 si cominciò il trasferimento della Direzione Generale da via Lullo alla sede attuale di Viale Vaticano 40. Tutto l’archivio e la biblioteca vennero inscatolati e portati nella nuova residenza: per fortuna ricevemmo l’aiuto di p. Stradiotto e due o tre studenti Saveriani. Non avendo cambiato il sistema di archiviazione e avendo fatto assieme le modifiche necessarie, quando poi p. Pelizzo mi subentrò ripren-dendo il suo l’incarico di Segretario, furono sufficienti solo un paio di ore per il passaggio di consegne.

In seguito, a conseguenza degli sforzi fatti per il trasloco, mi presi un bel mal di schiena. Andai quindi a Parma per potermi curare e sottopormi a un programma di fisioterapia. Nel frattempo seguivo alcune lezioni in teologia presso la nostra Casa Madre. All’epoca il corso teologico era molto ricco e si studiavano materie che in passato noi non avevamo affrontato come, ad esempio, la sociologia.

Rientro in Indonesia

Il 26 novembre del 1983 avevo inoltrato la domanda del visto per rientrare in Indonesia. Alla fine di dicembre, dovendo aspettare il visto, avevo chiesto di risiedere temporanea-mente ad Alzano Lombardo (bg) perché ormai avevo concluso le terapie. I membri della Direzione Generale mi deridevano, in quanto la procedura per ottenere i visti era molto lenta. Infatti, degli altri confratelli che avevano tentato di rientrare in Indonesia, nessuno aveva ancora ottenuto il visto. Tuttavia, il mese seguente ricevetti di sorpresa una telefo-nata da parte di p. Marini che mi comunicava dell’avvenuto rilascio del permesso. Nel frattempo avevo comunicato a mia madre che sarei andato a stare per un po’ vicino a lei, ad Alzano Lombardo. Lei era anziana ed era sicuramente felice che potessi rimanerle un po’ di tempo vicino, a solo qualche chilometro da casa. Invece, ho potuto stare con lei solo per due settimane, per poi ripartire subito in modo da arrivare in Indonesia per il 31 dicembre.

Giunto a Padang mi recai a Medan e Sibolga (Sumatra Settentrionale) per sbrigare le pratiche richieste nell’ufficio della polizia e all’immigrazione perché ero potuto rientra-re grazie al sostegno della diocesi di Sibolga. Sbrigate le pratiche ritornai a Padang dove mi chiesero la disponibilità di andare ad Aek Nabara dove da mesi p. Germano Framarin abitava solo. Qui vi rimasi da gennaio fino a giugno del 1984. Poi fui chiamato a Padang

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dove sono stato incaricato dei giovani nella parrocchia della Cattedrale. Dopo dieci anni, nel 1993, fui assegnato al nascente Studentato Teologico Saveriano di Yogyakarta, a Giava Centrale. Nel 1999 tornai nella pastorale a Jakarta nella Parrocchia di Santa Maria di Fati-ma del Toasebio situata nella China Town, il primo nucleo di Batavia (il vecchio nome di Jakarta) e qui rimasi fino al febbraio del 2013.

Alcune esperienze alle Mentawai

Ritornando al periodo vissuto alle Mentawai, una delle esperienze che si potrebbero defi-nire «plastiche», è stata quella di andare per la prima volta al Matotonan, l’ultimo villaggio della valle di Rereket. Lì chiesi ospitalità al capo villaggio che era islamico. Passeggiando tra le case incontrai un vecchietto che mi salutò e mi chiese di stare da lui. Gli risposi che, non sapendo dove andare, avevo già chiesto ospitalità al capo villaggio, ma gli promisi che la volta successiva avrei accettato il suo invito. Il suo è stato il primo clan a convertirsi e a diventare cattolico. Quel vecchietto è poi morto senza aver ricevuto il battesimo, ma sono convinto sia in Paradiso. L’accoglienza di quest’uomo mi ha fatto riflettere molto. Pensa-vo: «Sono stato mandato a predicare il vangelo, a far conoscere Gesù, ma Lui era già lì ad aspettarmi». Fu una sensazione fortissima, che era consona allo spirito del Vaticano ii.

Alle Mentawai feci delle esperienze che mi rammentavano i viaggi degli Apostoli e alcune esperienze di Paolo. Una di queste la ebbi a Silaoinan Tengah. Dopo la messa chiacchieravamo un po’ in veranda, mentre i vecchietti fumavano. In seguito entrai nella mia camera, per sdraiarmi, mentre sentivo quello che loro dicevano oltre la parete di le-gno. Un anziano spiegò agli altri una cosa che mi aprì gli occhi. Diceva: «Quando il padre prega “Padre nostro che sei nei cieli”, alza le braccia così; poi, quando ha finito, le allarga come se mandasse indietro qualcosa e dice “allontana il male”». Lì capii che dovevo stare molto attento anche ai gesti che facevo. Non sono cose qualsiasi. La liturgia e i suoi gesti hanno un significato simbolico che la nostra mentalità moderna tende a sottovalutare, mentre alla gente semplice essi parlano in maniera eloquente.

Un altro aspetto riguardava il matrimonio. Un giorno arrivò una coppia di vecchi sposi che si sedettero ad aspettarmi fuori dal mio studio. Lei sdentata e rugosa; lui vec-chietto come lei. Non erano cattolici. Forse provenivano da Salappa o da Ugai. Chiesi al vecchietto: «Dimmi: come posso aiutarti?». Mi rispose: «Voglio un vestito per la tua eiram (cioè: per tua nuora)». Rimasi colpito da questo suo modo di parlare: io, come anziano, ai suoi occhi apparivo come il suo papà e perciò sua moglie diventava la mia eiram, la mia nuora. Non prendendolo troppo sul serio, diedi a lui una bella camicia, con le maniche

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lunghe, tutta bianca, ma non la volle ricevere. Poi un altro vestito, ma lo rifiutò. Diedi anche una giacca, ma neppure questa fu accettata. Allora gli chiesi di nuovo: «Ma scusa, tu cosa vuoi?». Insisteva a volere un vestito per sua moglie. Aveva portato un pollo molto grande per scambiarlo col vestito. Ancora scherzando gli dissi: «Ma lascia stare! Lo sai che le donne si arrangiano da sole». Secondo la mentalità tradizionale, infatti, durante il fidanzamento l’uomo non dà mai nulla alla fidanzata, ma fa piuttosto dei regali alla mamma della futura sposa, la quale a sua volta gli dà il permesso di parlarle e di stare con lei. Poi, quando sono sposati, la moglie alleva i polli, coltiva i tuberi ecc., per poi venderli e comprarsi quello di cui ha bisogno. È quindi abituata a provvedere alle proprie necessità ed il marito non è prodigo di attenzioni nei suoi riguardi. Nello svolgimento del matri-monio si nota questa mentalità: la sposa viene comprata e poi trattata come fosse una schiava. Il motivo con cui il marito si giustifica è che: «Mi è costata cara!». Eppure, sor-prendentemente, questo vecchietto mi prese il braccio per farmi capire meglio il perché della sua strana richiesta, e mi disse: «Sono tanti anni che lei mi serve!». A sentire queste parole piene di riconoscenza verso la moglie rimasi commosso. Sono andato in canonica, ho preso un vestito per lui e uno per sua moglie. E loro sono andati via colmi di gioia. Ecco cos’è il matrimonio: è un processo. Il matrimonio è stato istituito da nostro Signore appunto perché l’uomo esca dal suo egoismo e cominci a pensare agli altri: ai figli, alla moglie, ecc. Si tratta di un lungo cammino per imparare la gratuità.

Un altro aspetto relativo al matrimonio riguarda il prezzo che si paga per la dote: qual è il suo motivo? Il motivo è che l’uomo deve rispettare la moglie che è costata cara alla sua famiglia, e perciò non deve trattarla male; anzi, deve trattarla bene: infatti se lei scappa bisogna comprarne un’altra, ma non ci sono più i soldi per farlo. Quindi possia-mo notare il lato buono di queste tradizioni e, allo stesso tempo, l’ingordigia e l’egoismo umano che porta all’arroganza e alla violenza. Ecco alcune cose relative al matrimonio, al valore di questa vita insieme che trasforma l’uomo.

Un giorno, a Malupetpet, un ragazzo orfano che avevo aiutato negli studi, morì. Viveva in casa del fratello del papà il quale aveva due o tre figli. Io avevo sentito che questo zio lo maltrattava. Allora davanti alla salma del ragazzo ho pronunciato queste parole: «C’è una bella cosa alle Mentawai: non ci sono orfani, perché i bambini che perdono i genitori sono accolti dagli zii. Tuttavia: come vengono considerati questi bambini? Come figli propri oppure no?». C’era infatti qualcuno che li trattava bene, mentre altri venivano trascurati o picchiati. Se poi un orfano moriva, tutti i campi del padre diventavano pro-prietà del patrigno. Questo era uno dei motivi sottintesi per offrire la propria disponibilità a ricevere gli orfani. Quando pronunciai quelle parole, in chiesa si fece subito silenzio.

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Ed allora aggiunsi: «Gli antenati ci hanno tramandato delle cose belle e noi le abbiamo rovinate con il nostro egoismo. E Gesù è venuto proprio a insegnarci che questo non va bene!».

La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata sul prossimo numero dei Quaderni del CSA

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