Analisi e progetto di sensori ottici...
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Università degli Studi di Roma La Sapienza
Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali
Corso di laurea in Fisica Anno Accademico 2002-2003
Tesi di Laurea
Analisi e progetto di sensori ottici neuromorfi
Candidato
Massimiliano Giulioni
Relatore interno Prof.ssa Lucia Zanello
Relatori esterni Dott. Gaetano Salina
Dott. Paolo Del Giudice
Numero di matricola: 11112657
Ai miei genitori
Indice
Introduzione.................................................................................................. 1
1. Visione e retine ..........................................................................................7 1.1 Visione ...............................................................................................................8 1.2 Sensori convenzionali, sensori neuromorfi e retine artificiali ..................10 1.3 Retina biologica ..............................................................................................13
1.3.1 Anatomia base.................................................................................13 1.3.2 Funzioni ...........................................................................................14
1.4 Codifica del contrasto....................................................................................18
2. Tecnologia e pixel ................................................................................... 21 2.1 Tecnologia .......................................................................................................22
2.1.1 CMOS o CCD?...............................................................................22 2.1.2 MOSFET.........................................................................................23 2.1.3 Fotosensori ......................................................................................29
2.2 Pixel lineari ......................................................................................................38 2.2.1 Pixel passivi e pixel attivi ................................................................38 2.2.2 Dark current e limiti di funzionamento ......................................40 2.2.3 In sintesi ...........................................................................................42
2.3 Pixel logaritmici ..............................................................................................43 2.3.1 Schema base ....................................................................................43 2.3.2 Pixel con feedback ..........................................................................45 2.3.3 Pixel adattivi .....................................................................................47
3. Analisi del pixel logaritmico derivativo................................................... 51 3.1 Il circuito..........................................................................................................52
3.1.1 Stato stazionario..............................................................................53 3.1.2 Analisi dei transienti .......................................................................54
3.2 Analisi stabilità ................................................................................................61 3.2.1 Analisi in AC per piccoli segnali...................................................62 3.2.2 Analisi grandi segnali......................................................................69
4. Retina, setup e misure............................................................................. 82 4.1 Retina artificiale ..............................................................................................83 4.2 Apparato sperimentale...................................................................................87
4.2.1 La parte opto-meccanica ...............................................................88 4.2.2 Sorgente di luce e filtri ...................................................................89 4.2.3 Acquisizione dati.............................................................................90
4.2.4 Test preliminari ...............................................................................91 4.3 Le misure .........................................................................................................92
4.3.1 Misura...............................................................................................92 4.3.2 Riconoscimento delle uscite di test ..............................................94 4.3.3 Interazione tra pixel e arbitro ........................................................96 4.3.4 Analisi spike da pixel anomali: ........................................................99 4.3.5 Conclusioni................................................................................... 103
5. Progetto ................................................................................................. 105 5.1 Scelta parametri ........................................................................................... 106
5.1.1 A, τ e layout.................................................................................. 106 5.2 Analisi statistica ........................................................................................... 110
5.2.1 Stato stazionario........................................................................... 110 5.2.2 Transienti ...................................................................................... 112
5.3 Il layout ......................................................................................................... 115 5.4 Idee di lavoro. .............................................................................................. 120
Conclusioni ................................................................................................121
Bibliografia................................................................................................ 123
Ringraziamenti.......................................................................................... 126
INTRODUZIONE
Lo studio e il progetto di sensori ottici neuromorfi è finalizzato alla
modellizzazione e riproduzione delle funzionalità della retina biologica. I sensori
ottici neuromorfi sono intimamente legati alla ricerca sulle reti neuronali, lo studio
delle quali tenta di comprendere le funzionalità della corteccia cerebrale, tra le quali
rivestono particolare importanza la classificazione ed il riconoscimento di
immagini. I sensori ottici neuromorfi codificano il segnale luminoso in impulsi
elettrici che possono essere utilizzati come stimoli per le reti neuronali. Questo
campo di ricerca coinvolge diverse discipline scientifiche quali psicologia cognitiva,
biologia, scienza dell’informazione e fisica.
Nello studio dei sensori ottici neuromorfi, ha assunto un ruolo importante la
realizzazione di dispositivi hardware in grado di riprodurre i comportamenti
osservati nel biologico e previsti dai modelli teorici. La tecnologia VLSI (Very Large
Scale Integration) consente di realizzare circuiti integrati complessi capaci di essere un
punto di riferimento per gli studi teorici. Il VLSI permette di implementare su uno
stesso circuito integrato, elementi fotosensibili, parti analogiche e parti digitali.
Sensori ottici che sfruttino a pieno queste possibilità, vengono usualmente chiamati
sensori “intelligenti”; essi sono in grado di acquisire l’immagine ed effettuarene una
prima elaborazione. I circuiti integrati costituiscono un efficace “banco di prova” in
grado di verificare, in condizioni realistiche ed in tempo reale, la validità delle teorie
sviluppate. L’efficienza dei dispositivi realizzati è una misura della conoscenza
acquisita e fornisce valide indicazioni sulla plausibilità biologica del modello
implementato. Nella realizzazione hardware, si impone la ricerca di soluzioni agli
inevitabili vincoli imposti da un circuito integrato, quali ad esempio il contenimento
1
dei consumi e degli spazi. Vincoli che la natura ha già affrontato e superato nel
corso dell’evoluzione dei sistemi biologici.
Il gruppo di ricerca nel quale ho lavorato si occupa dello studio teorico e
dell’implementazione hardware di reti neuronali. L’interesse per la costruzione di un
sistema neuromorfo completo per l’acquisizione e l’elaborazione delle immagini
spinge la ricerca verso lo studio di circuiti integrati ottici neuromorfi. Circuiti che
imitino le funzionalità della retina biologica. In questo contesto si colloca il
presente lavoro di tesi che studia e riprogetta un sensore ottico neuromorfo. Con
questo lavoro il gruppo si affaccia nel mondo della ricerca delle cosiddette retine
artificiali.
Le retine artificiali, o sensori ottici neuromorfi, nascono nell’89 grazie al lavoro di
Carver Mead [1] e Misha Mahowald [2]. L’implementazione VLSI che ne danno
rimane ancora oggi un punto di riferimento. Le idee sulle quali si fonda la loro
retina artificiale sono la codifica, basata sul contrasto, dell’informazione visiva e
l’interazione tra i vari fotopixel. Idee mutuate dalla retina biologica che hanno dato
vita ad uno specifico filone di ricerca [3].
Oltre alla ricerca nell’ambito del neuromorfo, il gruppo è interessato a circuiti
integrati ottici per un fine più specifico e immediato: la realizzazione di HAPTIC,
un ausilio per non vedenti che traduca lo stimolo visivo in sensazione tattile.
HAPTIC è previsto essere uno strumento completamente autonomo, di forma
simile a quella di un mouse. Sarà dotato di un sensore ottico nella parte inferiore e
di trasduttori tattili nella parte superiore. Questi ultimi sono cilindretti plastici che si
alzano, o vibrano, e si abbassano a seconda dello stimolo visivo rilevato dai pixel
ottici corrispondenti (figura 1, in basso a destra). Quando un insieme di pixel rileva
una variazione della luminosità, il cilindretto corrispondente viene fatto alzare.
Appoggiando un polpastrello sulla matrice tattile, e movendo HAPTIC sopra una
pagina di un libro, si dovrebbe riuscire a percepire il contenuto grafico della pagina
2
non codificabile in Braille. Il tatto, come ogni sensibilità umana, fatta eccezione per
il dolore, è un senso adattivo.
figura 1: progetto di HAPTIC. In basso a destra è riportata la foto degli attuatori meccanici piezoelettrici.
Una pressione costante genera una sensazione tattile che scompare al trascorrere
del tempo. Più che tradurre i diversi livelli assoluti di grigio della pagina, sembra
conveniente trasmettere le variazioni dell’intensità luminosa. HAPTIC è pensato
per l’esplorazione delle figure contenute in una pagina. Rilevare i cambiamenti di
luminosità, ipotizzando figure fortemente contrastate, significa individuare confini
importanti per la comprensione dell’immagine. La bassa risoluzione spaziale del
tatto e l’area limitata dei polpastrelli, impongono un basso numero di attuatori
tattili. La matrice ottica, può, d’altro canto, avere risoluzione anche molto maggiore
di quella tattile e garantire una capacità di zoom sui particolari dell’immagine.
Pensando ad una scansione attiva della pagina, le variazioni spaziali dei livelli di
grigio, vengono viste da HAPTIC come variazioni nel tempo della luminosità.
Questo ausilio per non vedenti, in altre parole, trarrebbe beneficio da un circuito
3
integrato ottico che fornisca una rappresentazione dell’immagine basata sul
contrasto temporale. I circuiti ottici integrati presenti sul mercato, accessibili al
mondo della ricerca, non codificano il segnale luminoso in modo utile per
HAPTIC; essi richiederebbero una elaborazione successiva dello stimolo ad opera
di un microprocessore aggiuntivo.
Dato l’interesse nel campo delle neuroscienze e il tipo di codifica che le retine
artificiali neuromorfe attuano, il gruppo ha scelto di studiare e riprogettare, con
questo lavoro di tesi, il prototipo di retina artificiale sommariamente descritto in
[4].
Oltre alle motivazioni presentate, il lavoro nasce dall’esigenza di recuperare le
conoscenze necessarie al progetto di retine del tipo scelto, dato che, purtroppo, il
loro progettista è morto poco tempo fa senza pubblicare nulla di dettagliato sui
prototipi ai quali lavorava.
La tesi prende le sue mosse dallo studio sperimentale della retina di cui sopra, e
dalla scarsa documentazione che l’accompagna. Da prime osservazioni qualitative si
è potuto notare che effettivamente la retina reagisce a stimoli che variano nel
tempo mentre azzera i suoi segnali di uscita nel caso in cui lo stimolo visivo
rimanga costante. I fotopixel della retina, completamente analogici, si adattano al
livello di luminosità stazionario e ne rilevano unicamente le variazioni. Il fotopixel
segue, in altre parole, una logica derivativa. Più in dettaglio, le due correnti in uscita
dal circuito sono proporzionali alla derivata logaritmica della luminosità. Una
corrente, la Ion è diversa da zero durante incrementi dell’irradianza (contrasti positivi
o ON), l’altra, la Ioff, durante le diminuzioni (contrasti negativi o OFF). Le uscite
analogiche del fotopixel vengono tradotte da neuroni elettronici [12] associati a
ciascun pixel in treni di spike, trasferiti all’esterno come sequenze di impulsi digitali
separati da intervalli di tempo analogici. La scheda descritta in [5], insieme al
4
software specifico, consente la visualizzazione grafica (figura 2) dell’attività della
retina..
figura 2: visualizzazione grafica della risposta del prototipo di retina ad uno spot luminoso lampeggiante. La matrice a sinistra riporta in rosso i pixel attivi durante i transienti negativi, la matrice a destra, in verde, quelli attivi durante i transienti positivi. La visualizzazione che se ne dà è integrata nel tempo, per questo si vedono attivi entrambi i canali.
Dalle prime osservazioni qualitative sono emersi anche i problemi legati allo
schema elettrico di questa retina. Si nota un’asimmetria di risposta tra i canali ON e
OFF e, anche al buio, alcuni pixel continuano ad avere un’attività elevata. Attività
particolarmente evidente sul canale OFF. Sono, in pratica, punti sempre accesi
nelle matrici di visualizzazione grafica. Un meccanismo a soglia per il filtraggio delle
correnti in uscita dal fotopixel è presente nella retina. Alzando il punto di soglia,
comune a tutti i fotopixel, si riesce ad eliminare l’attività dei pixel anomali solo a costo
di annullare completamente la risposta della retina a qualsiasi stimolo visivo. Ciò
lascia sospettare che questi fotopixel anomali producano correnti di uscita molto
maggiori di quelle generate dagli altri elementi della matrice, come se stessero
oscillando. Altro problema osservato, è la presenza di strane distorsioni
nell’immagine riprodotta, come se l’ottica introducesse delle riflessioni. Ad esempio
uno spot luminoso circolare viene riprodotto come un otto. Tali riflessioni, dovute a
interazioni spurie tra pixel indipendenti, alterano lo stimolo visivo al punto da
rendere l’uscita della retina inutilizzabile ai fini di HAPTIC.
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Lo studio svolto cerca di ripercorrere l’evoluzione delle retine artificiali al fine di
comprendere come e perché si è arrivati alla retina descritta sopra; procede poi
oltre, svolgendo un’analisi di stabilità di un particolare fotopixel e proponendo un
disegno per la sua realizzazione VLSI.
Il lavoro, articolato in cinque capitoli, si compone di una parte compilativa, (capitoli
uno e due), di un’analisi teorica (capitolo tre), di test sperimentali (capitolo quattro)
e di una parte di progetto (capitolo cinque).
Nel primo capitolo, di carattere generale, si accenna alla teoria computazionale della
visione di Marr [6] e si riporta la descrizione della retina biologica. Nel secondo
capitolo si parla di tecnologia e pixel. Si descrive la fisica dei dispositivi VLSI
utilizzati, MOSFET e fotodiodi, e si mettono a confronto i fotopixel di circuiti
integrati convenzionali con quelli utilizzati nei circuiti integrati neuromorfi. Il terzo
capitolo si concentra sull’analisi teorica del fotopixel scelto per HAPTIC: la prima
parte ripropone l’analisi presentata in [7], la seconda riporta il primo contributo
originale di questo lavoro di tesi: l’analisi di stabilità del circuito. Quest’ultima
individua nei ritardi dovuti alle non linearità dei MOSFET la causa primaria
dell’ingresso in oscillazione. In particolare evidenzia che il ritardo nella scarica della
capacità parassita del fotodiodo è il fattore che incide maggiormente sulla stabilità
del circuito. I risultati dei test sperimentali descritti nel capitolo quattro sembrano
dare ragione all’analisi teorica svolta. Nello stesso capitolo si riporta una descrizione
completa del prototipo di retina artificiale sottoposto alle misure e dell’apparato
sperimentale costruito appositamente per questi test. Il capitolo cinque, infine,
riguarda il progetto del fotopixel. In esso si evidenziano le relazioni tra i parametri
del circuito e la sua stabilità. Scelto un insieme di parametri, si svolge un’analisi
statistica Monte Carlo. Tale analisi stima l’influenza che le fluttuazioni dei parametri
di fabbricazione hanno sul comportamento del fotopixel. Il capitolo cinque si chiude
con il primo progetto del layout del fotopixel e con una panoramica sui possibili
sviluppi futuri.
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1. VISIONE E RETINE
La visione è il processo che permette di riconoscere cosa c’è nello spazio e dove si
trova. Consiste nell’elaborazione dell’informazione visiva ed ha come fine la
comprensione tridimensionale del mondo che ci circonda. Tale elaborazione inizia
nella retina e impegna il 55% circa della nostra corteccia cerebrale. La visione è più
che un senso un’intelligenza [10]. Non stupisce il fatto che i più potenti computer
digitali attuali trovino ancora delle grandi difficoltà nel riprodurre il processo della
visione umana. Sensori ottici neuromorfi sono stati sviluppati nell’intento di imitare
alcune funzionalità della retina biologica. La teoria computazionale della visione [6]
alla quale si accenna nel paragrafo 1.1, è lo studio teorico dell’elaborazione
dell’informazione visiva operata da retina e corteccia. Sensori ottici neuromorfi
tentano di riprodurre in hardware alcune delle idee evidenziate dalla teoria. Questi
sensori vengono spesso chiamati retine artificiali sebbene il confronto tra queste
retine e quelle biologiche sia appena possibile. Si possono comunque individuare
dei tratti distintivi tra sensori ottici convenzionali, impiegati nella riproduzione
fotografica della scena, e sensori neuromorfi; di questa distinzione, quanto mai
sfumata, tratta il paragrafo 1.2. Il paragrafo 1.3 riporta una breve descrizione della
retina biologica, il successivo 1.4 evidenzia l’importanza di una codifica del segnale
visivo basata sul contrasto.
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1.1 Visione Cosa significa vedere? Significa riconoscere cosa c’è nello spazio che ci circonda.
Un’immagine è una rappresentazione planare del livello assoluto di luminosità
proveniente da una determinata scena tridimensionale. L’immagine è creata dal
modo in cui la luce viene riflessa dalle varie superfici. Il fine della visione è estrarre
dall’immagine una descrizione delle strutture fisiche che compongono la scena,
riconoscere la forma delle superfici e degli oggetti, il loro orientamento, la loro
velocità e la loro posizione nello spazio. Questo obiettivo, secondo la teoria
computazionale della visione di Marr [6] è raggiunto grazie a distinte
rappresentazioni costruite a partire dall’immagine. Il primo passo di questo
processo è l’individuazione delle discontinuità nell’intensità luminosa che spesso
coincidono con “confini” importanti all’interno dalla scena. La rappresentazione
che si ottiene, chiamata da Marr raw primal sketch, consiste in una serie di
proposizioni circa la posizione e l’orientamento delle discontinuità presenti. A
partire da questa rappresentazione è possibile, sfruttando procedure di
raggruppamento, salire di livello di astrazione e fornire una nuova codifica
dell’immagine basata sulla distinzione tra bordi sottili e regioni estese. Questo
livello di descrizione è noto con il nome di full primal sketch e incorpora in sé le
distinzioni tra i vari contorni e le diverse tipologie di superfici presenti nella scena.
Il full primal sketch rimane ancora una riproduzione planare dello spazio circostante.
Per Marr l’obiettivo dell’early vision, prima elaborazione dello stimolo visivo, è la
creazione di una rappresentazione spaziale della scena relativa alla posizione
dell’osservatore: il 21/2D sketch. L’analisi del moto dei corpi presenti sembra giocare
un ruolo di primo piano nella costruzione del 21/2D sketch . Contribuiscono anche
l’esame delle ombre e delle sfumature delle superfici individuate. La
rappresentazione centrata sull’osservatore è chiaramente una descrizione
vantaggiosa ai fini della navigazione all’interno dello spazio. Non consente però di
comprendere a quale oggetto corrisponda una data forma. Per riuscire in questo
occorre una nuova descrizione spaziale della scena centrata, questa volta,
sull’oggetto e non sull’osservatore. Marr chiama questo livello di astrazione 3-D
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model rapresentation. Solo a questo stadio di elaborazione le varie strutture iniziano ad
essere percepite nella loro realtà tridimensionale. E solo adesso si tenta di associarle
a classi astratte di oggetti noti.
La teoria di Marr concepisce la visione come un processo di elaborazione
dell’informazione che avviene attraverso descrizioni simboliche successive delle
diverse proprietà dell’immagine.
Alla retina spetta il compito dell’acquisizione e della prima elaborazione del segnale.
Compito fondamentale se si pensa che la nostra percezione del mondo avviene in
tempo reale, e che l’informazione visiva, per essere elaborata ad alto livello, deve
essere trasmessa alla corteccia cerebrale attraverso il nervo ottico, canale di capacità
limitata
9
1.2 Sensori convenzionali, sensori neuromorfi e retine artificiali La distinzione tra sensori ottici neuromorfi e convenzionali è tutt’altro che ben
definita. Con l’aggettivo neuromorfo si indicano in letteratura quei sensori ottici
che prendono ispirazione, sotto un qualche aspetto, dalla retina biologica. In questo
senso uno stesso circuito integrato può essere neuromorfo se considerato da un
certo punto di vista e completamente convenzionale da altri. La distinzione rimane
sfumata a causa della reale diversità tra i circuiti integrati ottici finora sviluppati e la
retina biologica. La complessità e l’efficienza di quest’ultima rimangono traguardi
lontani per i circuiti integrati attuali. La distinzione tra neuromorfo e convenzionale
risulterà sempre meno sfumata man mano che la ricerca sarà in grado di produrre
sensori ottici sempre più somiglianti alla retina biologica. La distinzione assume
quindi pieno significato solamente in prospettiva degli sviluppi futuri. Per chiarezza
linguistica si precisa qui che il termine sensore ottico verrà riferito al circuito
integrato nella sua interezza. Nel seguito verranno poi indicati come convenzionali
quei circuiti integrati ottici progettati per la misura e l’acquisizione del livello
assoluto di luminosità. Lo scopo di questi sensori è la riproduzione fotografica della
scena che hanno di fronte. Per sensori ottici neuromorfi, o retine artificiali, si
intenderanno invece quei circuiti integrati interessati ad individuare di cosa è
composta la scena. Ossia sensori che si avvicinino maggiormente al concetto di
visione presentato nel paragrafo precedente. In particolare tali circuiti integrati,
cercano di evidenziare l’informazione riguardante le variazioni di intensità
luminosa. Queste ultime sono fondamentali per la costruzione di quello che Marr
chiama raw primal sketch. La divergenza di obiettivi tra circuiti convenzionali e
neuromorfi si riflette nella diversità delle scelte circuitali. Sensori ottici
convenzionali sono matrici di pixel letti serialmente in cui il livello assoluto di
luminosità viene campionato in maniera digitale. L’eventuale successiva
elaborazione dell’immagine avviene grazie all’implementazione digitale di specifici
algoritmi. I sensori neuromorfi sono invece analogici e l’elaborazione del segnale
avviene in parallelo e in tempo reale su tutti i fotorecettori. La scelta di
un’elaborazione analogica, ispirata al biologico, permette di sfruttare al massimo la
10
potenza di calcolo della fisica dei dispositivi VLSI. Mentre noi tendiamo a
distinguere la teoria computazionale della visione dalla realizzazione del circuito
integrato, la natura, nel corso dell’evoluzione, non ha attuato tale distinzione. La
natura ha realizzato una magnifica sintesi tra forma e funzione, sfruttando al meglio
le caratteristiche chimico-fisiche delle strutture a disposizione per portare a termine
il compito della visione. Un’architettura digitale consente di elaborare il segnale
senza risentire dei problemi di mismatch tra dispositivi ma priva i transistor della
maggior parte della loro potenza di calcolo. Mi spiego: in architetture digitali i
transistor vengono utilizzati unicamente in saturazione o in interdizione;
l’elaborazione analogica sfrutta invece regioni più estese della caratteristica dei
dispositivi utilizzati. In particolare, nei circuiti presentati nel seguito, si polarizzano i
MOSFET nella regione sottosoglia, in modo da impiegare la parte esponenziale
della loro caratteristica come elemento base per la costruzione di funzioni più
complesse. Se si individuano algoritmi utili alla visione, ricavabili da funzioni
esponenziali, si riesce a sfruttare al meglio la capacità di elaborazione dei dispositivi
VLSI. Al contrario, i circuiti digitali forzano, in un certo senso, la fisica dei
dispositivi, imponendo transizioni sempre più veloci che si scontrano con il
problema delle capacità parassite. L’elaborazione analogica tenta di armonizzare
forma e funzione.
Altro elemento di distinzione tra circuiti integrati convenzionali e neuromorfi è la
modalità di lettura della matrice ottica. Circuiti integrati convenzionali effettuano,
per ogni immagine catturata, una scansione seriale di tutti i pixel della matrice. Una
CCD a colori che campioni il suo campo visivo in una griglia di 1024x1024 pixel, ad
esempio, genera circa 1Mbyte di informazione al secondo. Per comunicare con i
successivi stadi di elaborazione, le CCD necessitano di canali di comunicazione di
grande capacità. Capacità che si riduce nel caso in cui vi sia una circuiteria on-chip in
grado di effettuare una prima compressione dell’informazione. Sensori ottici
neuromorfi elaborano lo stimolo in modo analogico e trasmettono all’esterno
unicamente la parte utile dell’informazione. Se tale elaborazione avviene a livello
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dei singoli pixel, non necessariamente tutti gli elementi della matrice devono essere
letti per ottenere la codifica dello stimolo. Nei sensori neuromorfi, sono i singoli
pixel che richiedono di trasmettere l’informazione, non c’è un controllore esterno
che legge in continuazione, senza distinzioni, tutti gli elementi della matrice. Il
protocollo di comunicazione impiegato dai circuiti integrati neuromorfi viene detto
AER (Address-Event Representation). L’AER imita la modalità di trasmissione
dell’informazione, attraverso treni di spike, propria del nervo ottico e, più in
generale, della maggior parte dei neuroni. Questo implica la presenza di “neuroni”
elettronici [13][14], in grado di generare i treni di spike [11][12], all’interno di ciascun
pixel. Ciò comporta necessariamente un aumento delle dimensioni dei pixel ma
consente una più rapida trasmissione ed elaborazione dell’informazione.
Lo studio della retina biologica rimane il punto di partenza per la realizzazione di
sensori ottici neuromorfi. E, viceversa, l’efficienza dei circuiti integrati realizzati è
un elemento di valutazione della validità biologica del modello implementato.
12
1.3 Retina biologica La retina è stata oggetto di un gran numero di studi [15]. Sebbene le caratteristiche
particolari della retina di ciascuna specie siano uniche, è possibile individuare una
struttura comune per la retina di tutti i vertebrati. La retina traduce variazioni
spaziali e temporali dell’intensità luminosa in segnali elettrici. Segnali che vengono
trasmessi alla corteccia cerebrale attraverso il nervo ottico. La retina elabora il
segnale luminoso in una gran varietà di modi al fine di ottenere una codifica
efficiente per ciascuna delle proprietà (contrasto, colore, movimento, velocità,
direzione…) degli stimoli visivi. Questo si riflette nella complessità dell’anatomia
della retina; complessità che consente di mantenere elevato il rapporto
segnale/rumore sfruttando la ridondanza dell’informazione luminosa. La retina dei
vertebrati risponde in maniera affidabile a contrasti dell’ordine dell’1% [16]
nonostante il rumore e le distorsioni introdotte dall’elaborazione neurale.
L’elaborazione del segnale che la retina svolge facilita il compito della corteccia
cerebrale e permette la trasmissione dell’informazione attraverso il nervo ottico,
canale rumoroso di capacità limitata.
1.3.1 Anatomia base
La retina è un sottile (100-200µm) strato di tessuto. Una vista semplificata in
sezione della sua struttura è riportata in figura 1.1. La luce viene tradotta in un
potenziale elettrico dai fotorecettori (F) in alto. Il percorso principale del segnale è
dall’alto verso il basso, dallo strato dei fotorecettori l’ONL (Outer Nuclear Layer),
attraverso l’INL (Inner Nuclear Layer), fino allo strato delle cellule gangliari (GCL,
Ganglion Cellular Layer), cellule di uscita della retina. Nell’INL sono situati i corpi
delle cellule orizzontali (H) bipolari (B) e amacrine (A). In questo percorso verticale
il segnale attraversa due strati di elaborazione sinaptici orizzontali, l’OPL e l’IPL
(Outer e Inner Plexiform Layer). Sono le zone di interazione tra le varie cellule che
costituiscono la retina. L’OPL è situato immediatamente sotto i fotorecettori ed è
la zona in cui le cellule orizzontali e bipolari estendono i propri alberi dendritici per
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ricevere i contatti sinaptici dai fotorecettori; l’IPL è immediatamente sopra le cellule
gangliari e contiene i collegamenti sinaptici di cellule amacrine e gangliari.
figura 1.1: struttura di principio della retina di un vertebrato; la figura evidenzia i tre strati ONL (Outer Nuclear Layer), INL (Inner Nuclear Layer) e GCL (Ganglion Cell Layer) che contengono i nuclei delle varie cellule: nell’ONL i coni (C) e i bastoncelli (R); nell’INL le cellule orizzontali (H), le bipolari (B), le amacrine (A) e le cellule bipolari (RB) per l’amplificazione del segnale proveniente dai bastoncelli; nel GCL le cellule gangliari di diverso tipo. Gli strati OPL (Outer Plexiform Layer) e IPL (Inner Plexiform Layer) contengono le ramificazioni sinaptiche delle varie cellule.
1.3.2 Funzioni
Ciascuna delle cinque categorie introdotte, fotorecettori, cellule orizzontali,
bipolari, amacrine e gangliari, comprende differenti sottocategorie, ognuna delle
quali svolge particolari funzioni. Diverse specie hanno diversi tipi di cellule ma le
cinque categorie base si ritrovano nelle retine di tutti i vertebrati. Qui di seguito si
fornisce una breve descrizione delle funzioni delle varie categorie.
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Fotorecettori Sono coni e bastoncelli, traducono la luce in segnale elettrico attraverso una serie di
reazioni biochimiche in cascata. I coni rispondono bene a piccoli contrasti su un
range di variazione dell’intensità luminosa che si estende su più di 4 ordini di
grandezza. Per poter avere alto guadagno in tutto il range senza incontrare problemi
di saturazione i coni sono in grado di adattarsi al livello medio di luminosità.
Vengono utilizzati nella visione diurna, quando il livello di irradianza medio è
elevato. I bastoncelli, al contrario non mostrano capacità di adattamento e sono
accecati dalla luce del giorno; essi sono però sensibili alla ricezione di singoli fotoni.
In condizioni di bassa luminosità, lo stimolo è percepito dai bastoncelli e
amplificato attraverso dedicate cellule bipolari (RB in figura 1.1). In condizioni di
media luminosità, bastoncelli e coni sono accoppiati e il segnale dei primi passa
attraverso i secondi. Questi meccanismi consentono alla retina di estendere il range
di irradianza di buon funzionamento su sette ordini di grandezza.
OPL, cellule orizzontali e bipolari L’elaborazione del segnale che avviene nell’OPL consente di individuare il livello
medio di luminosità. Tale media è utilizzata dal sistema come punto di riferimento.
L’OPL consente al sistema visivo, con range di uscita limitato e risoluzione
analogica finita, di rilevare piccole variazioni locali d’intensità su tutto il range
dell’irradianza ambientale. Tutti i segnali elettrici delle cellule che interagiscono
nell’OPL, fotorecettori, cellule bipolari e orizzontali, sono segnali analogici che
variano lentamente nel tempo. Coni e bastoncelli eccitano sia le cellule bipolari che
quelle orizzontali. Queste ultime sono accoppiate tra loro, e formano una rete che
si estende su tutta l’area della retina. Rete in grado di produrre una versione
integrata, nello spazio e nel tempo, del segnale fornito dai fotorecettori. I coni
utilizzano questo segnale come riferimento per l’adattamento; le cellule bipolari
producono un’uscita proporzionale alla differenza tra il segnale proveniente dai
fotorecettori locali e la media fornita dalle cellule orizzontali. In altre parole, la
struttura del loro campo recettivo è del tipo centro-periferia: le sinapsi di una zona
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centrale sono eccitatorie, quelle dell’altra inibitorie, o viceversa. Diverse cellule
bipolari reagiscono secondo diverse costanti di tempo; questo è il primo passo nella
generazione di una particolare codifica temporale degli stimoli. Compito di alcune
cellule bipolari sembra essere l’estrazione dell’informazione relativa alla velocità o
alla direzione di moto dello stimolo visivo.
Cellule amacrine La maggior parte delle cellule amacrine svolgono funzioni di controllo e filtraggio
utilizzando una codifica del segnale basata su treni di spike. Alcune di esse
rispondono ai transienti dell’intensità luminosa e sono coinvolte nell’elaborazione
temporale dell’informazione. Si pensa accentuino la selettività direzionale delle
cellule gangliari e che effettuino vari tipi di controllo sull’amplificazione del segnale.
Cellule amacrine e bipolari risultano accoppiate tra loro. Questo permette loro di
sincronizzare la loro attività e consente, ad esempio, l’amplificazione non lineare di
segnali derivanti da singoli fotoni.
Cellule gangliari e IPL Le cellule gangliari sono particolarmente sensibili a stimoli relativi a piccoli
contrasti. Vari tipi di cellule gangliari codificano diverse proprietà del mondo
visivo. In molte specie esse forniscono un’eccellente percezione dei colori. Alcune
tipologie di cellule gangliari generano un segnale relativo al livello stazionario di
irradianza, altre rispondono a flash luminosi o a corpi in movimento. Molte specie
invertebrate possiedono cellule gangliari con complessi campi recettivi che
rispondono, ad esempio solamente al moto di piccoli o grandi oggetti.
Caratteristica fondamentale, ad esempio, per ipotizzare una prima distinzione tra
preda e predatore. La forma dei campi recettivi è legata alla morfologia dell’IPL,
zona di interazione tra cellule bipolari, amacrine e gangliari. Spetta alle cellule
gangliari la conversione dei livelli analogici dei segnali elaborati in treni di spike. Al
fine di diminuire il rumore nel processo di generazione degli spike, le cellule
gangliari sono divise in due sottoclassi, ON e OFF. Le prime reagiscono a contrasti
positivi, le seconde a contrasti negativi. Tale distinzione si ritrova anche a livello
16
delle cellule bipolari e amacrine oltre che nell’IPL. Quest’ultimo è organizzato in
due strati differenti, uno dedicato ai contrasti positivi, uno per l’elaborazione dei
segnali relativi a contrasti negativi. Gli assoni delle cellule gangliari si estendono
sotto la retina e vanno a costituire il nervo ottico.
Tutti i campi recettivi delle diverse cellule che compongono la retina hanno in
comune alcune proprietà: una zona centrale ristretta e un’estesa periferia
antagonista, alta sensibilità al contrasto e ampio range di buon funzionamento. Le
differenze tra i vari campi recettivi, le cellule e i percorsi seguiti dal segnale, sono
alla base dell’alta efficienza della retina. Particolari cellule e particolari percorsi
codificano specifiche proprietà del mondo visivo, come ad esempio contrasto,
movimento, direzione, velocità o colore dello stimolo. La specializzazione nella
codifica permette un aumento del rapporto segnale/rumore e sfrutta al meglio la
dinamica limitata di neuroni, sinapsi e treni di spike. L’alta efficienza e sensibilità
della retina è resa possibile dall’elevata complessità del sistema.
Retine artificiali con grado di complessità analogo sono attualmente impensabili.
Quello che è possibile è cercare di riprodurre alcune delle funzionalità della retina
studiando particolari implementazioni che favoriscano un certo tipo di
elaborazione del segnale luminoso. In questo caso si parla di circuiti integrati ASIC
(Application-Specific integrated Circuit), progettati per realizzare specifici compiti.
17
1.4 Codifica del contrasto In una scena uniformemente illuminata le variazioni di intensità luminosa veicolano
gran parte dell’informazione. Superfici differenti sono caratterizzate dalla diversa
frazione di luce che riflettono, ossia dal proprio coefficiente di riflessione R
i
r
PPR =
pari al rapporto tra la potenza della luce riflessa e la potenza della luce incidente
. Tale coefficiente è legato alla natura fisica della superficie e rimane quindi
costante al variare del livello assoluto di luminosità Se si è interessati al
riconoscimento di oggetti presenti nell’immagine, una misura del coefficiente
rP
iP
R è
molto più utile della misura del livello assoluto dell’irradianza1.
Esistono diverse definizioni di contrasto, ma tutte si basano sul rapporto tra due
livelli differenti di intensità luminosa. La definizione a cui si farà riferimento è
quella del contrasto di Michelson [17] Mc
21
21
EEEEcM +
−= 1.1
Dove con e si indicano i due livelli di irradianza. Una codifica basata sul
contrasto genera una rappresentazione dell’immagine diversa da quella fotografica.
Risultano evidenziate unicamente le variazioni di luminosità. L’informazione sul
livello assoluto di luminosità è persa. Ciò non necessariamente pregiudica la
possibilità di arrivare ad una percezione soddisfacente degli oggetti che
compongono la scena. Il livello assoluto di luminosità, infatti, più che veicolare
l’informazione sui componenti della scena, fornisce indicazioni sulla fonte di luce
che li illumina. In più, sensori ottici che sfruttano la codifica del contrasto non
1E 2E
1 Per la definizione delle varie unità di misura della luce, si può fare riferimento a [8]
18
soffrono dei problemi tipici della riproduzione fotografica di una scena con forti
disuniformità nell’illuminazione. La ripresa fotografica di una scena con una parte
esposta al sole e una in ombra, risulta in un’immagine troppo chiara in una zona o
troppo scura nell'altra. La conseguenza è che in una delle due zone si perde la
definizione dei particolari. Sensori che codifichino il contrasto invece non soffrono
di questo inconveniente semplicemente perché non “vedono” il livello assoluto di
luminosità.
19
20
2. TECNOLOGIA E PIXEL
I pixel (dall’inglese picture element) sono gli elementi base dei sensori ottici. È al loro
interno che avviene la traduzione del segnale luminoso in segnale elettrico. I sensori
ottici sono, in genere, semplici matrici di pixel. Le caratteristiche che questi ultimi
hanno sono legate allo scopo per il quale sono progettati. Scopo che distingue i
sensori ottici convenzionali da quelli neuromorfi. I primi sono tipicamente
costituiti da matrici di pixel con caratteristica irradianza-tensione lineare studiati per
ottenere una riproduzione fotografica della scena che hanno di fronte. Si basano
sulla traduzione elettrica del livello assoluto di irradianza. Pixel logaritmici vengono
invece utilizzati nei sensori neuromorfi. La caratteristica logaritmica consente una
codifica delle variazioni della luminosità basata sul contrasto. Tale codifica risulta
conveniente per l’estrazione dell’informazione utile al riconoscimento di bordi
statici o in movimento. Operazioni che la retina umana svolge in parallelo e in
tempo reale sul segnale proveniente da tutti i suoi fotorecettori. La scelta della
tecnologia con la quale realizzare il chip, influenza, chiaramente, il progetto del
pixel. In letteratura sono reperibili varie tipologie di pixel, realizzati con due diverse
tecnologie: CMOS (Complementary Metal Oxide Semiconductor) e CCD (Charge-Coupled
Device). In questo capitolo sono presentate le idee base, i pregi e i difetti delle
diverse implementazioni.
21
2.1 Tecnologia
2.1.1 CMOS o CCD?
I sensori ottici CCD richiedono dedicati e costosi processi produttivi. Gli elementi
fotosensibili che utilizzano sono photogate, dispositivi descritti nel seguito, che in
linea di principio potrebbero essere realizzati con i processi di produzione standard
per la tecnologia CMOS. Per mantenere il rapporto segnale/rumore
sufficientemente alto, però, è necessario che sensori CCD vengano realizzati in
linee produttive dedicate. Esse garantiscono una migliore qualità delle superfici di
interfaccia tra silicio e ossido e consentono il disegno di layer particolari. Sensori
CMOS sono invece realizzati in linee di produzione standard, le stesse che
realizzano la maggior parte dei circuiti integrati. Le camere CCD hanno dominato il
mercato dei sensori ottici fin dagli anni ’70 grazie alla loro alta sensibilità e al basso
rumore. Gli elevati consumi e il costo eccessivo della circuiteria periferica non le
rendono però appetibili in vista della progressiva miniaturizzazione. Questo guida il
mercato verso la scelta di sensori CMOS. Tale tecnologia consente il VLSI a basso
costo; ciò rende possibile la progettazione di pixel attivi (APS, Active Pixel Sensors) e
il disegno on-chip della circuiteria di lettura e controllo della matrice ottica. Altro
punto a favore della tecnologia CMOS sono i bassi consumi: in media sensori ottici
CCD consumano dai 2 ai 5 Watt di potenza, mentre sensori CMOS richiedono
solamente 20÷50 milliwatt. Un consumo 100 volte inferiore è chiaramente un
grosso vantaggio, soprattutto per applicazioni alimentate a batteria, quale potrebbe
essere HAPTIC. Svantaggio della CMOS rispetto alla CCD rimane il rumore: la
disuniformità della risposta alla luce e i mismatch tra pixel generano un FPN (Fixed
Pattern Noise), rumore nella matrice, ancora critico per bassi livelli di luminosità. Nel
seguito vengono brevemente descritti i principi base di funzionamento dei pixel
utilizzati in tecnologia CMOS.
22
2.1.2 MOSFET
Questo paragrafo fornisce una descrizione del funzionamento dei MOSFET tale da
permettere la comprensione dei circuiti riportati nel seguito. Una descrizione più
dettagliata è reperibile in [1][9][19]. La struttura del MOSFET è riprodotto in figura
2.1
figura 2.1: struttura di un nMOS in un substrato di tipo p-. Il MOSFET ha quattro terminali, il Source S, il Gate G, il Drain D e il substrato o Bulk B.
Le due regioni drogate n+ prendono il nome di source e drain. La regione di
substrato compresa tra essi viene detta canale. Quest’ultimo è ricoperto da un sottile
strato di SiO2 (quarzo) che funziona da eccellente isolante elettrico. Sopra di esso il
polisilicio fortemente drogato costituisce il gate. Tale struttura realizza un
dispositivo a portatori maggioritari in cui la corrente che circola nel canale è
controllata dalla tensione applicata al gate. Un MOSFET di questo tipo viene detto
nMOS in quanto i portatori maggioritari sono elettroni. La tecnologia attuale
permette di realizzare anche transistor pMOS: la struttura è la stessa degli nMOS
23
ma i drogaggi di substrato (bulk), drain e source sono opposti. Per ottenere una zona
di substrato debolmente drogata n a partire da un wafer di silicio drogato p-, si
realizzano delle grandi zone, dette well, che vengono drogate con ioni positivi.
Queste well servono da substrato per la realizzazione di pMOS. Nel seguito del
paragrafo si farà riferimento agli nMOS. Drain e source sono strutture
completamente simmetriche; per un nMOS, il source è a potenziale minore del drain.
Al variare della differenza g sV tra la tensione di gate V e la tensione di source V , è
possibile distinguere due diverse regioni della caratteristica tensione di gate-corrente
di canale: soprasoglia (
g s
gs > tV ) e sottosoglia (V gs tVV < ). La tensione di soglia V è
fissata dai parametri della tecnologia che si utilizza. V è tale che nella regione
soprasoglia la corrente di canale è essenzialmente corrente di spostamento, mentre
sottosoglia i portatori di carica si muovono per diffusione. In ciascuna regione è
possibile individuare due zone della caratteristica, lineare e di saturazione, al variare
della differenza V tra la tensione di drain V e la tensione di source V .
t
t
ds d s
Caratteristica soprasoglia
Per gsV V> t il MOSFET lavora nella regione soprasoglia, modalità di
funzionamento usuale per i MOSFET. Al variare di V si passa da una zona in cui
la corrente di canale
ds
I dipende linearmente dalla tensione V ad una zona di
saturazione in cui la
ds
I risulta quasi del tutto indipendente da V . ds
Nella prima zona, detta ohmica, si ha che
( )2
2ds
gs t dsVI V V Vβ
= − −
Il fattore di guadagno β è legato ai parametri di processo e alla geometria del
dispositivo:
24
ox
Wt Lµεβ =
dove µ indica la mobilità dei portatori di carica nel canale, ε è la costante
dielettrica dell’ossido di gate , è il suo spessore, W e sono rispettivamente la
larghezza e la lunghezza del canale (vedi figura 2.1). Questa regione è detta lineare
perché se
oxt L
tgsds VVV −<< allora la caratteristica diventa
( ) dstgs VVVI −≅ β .
In questo caso il MOS ha un comportamento ohmico in cui la resistenza tra drain e
source è modulata dalla gsV .
Nella regione di saturazione il MOS approssima il comportamento di un generatore
ideale di corrente controllato in tensione. La I di canale è determinata dalla gsV e,
in prima approssimazione è indipendente dalla tensione V : ds
( )2
2gs tV V
I β−
= . 2.1
In questa regione si manifesta però l’effetto di modulazione della lunghezza di
canale, analogo all’effetto Early dei BJT [1]; all’equazione 2.1 occorre quindi
aggiungere il termine correttivo dovuto a questo effetto:
( ) ( )
2
12
gs tds
V VI Vβ λ
−= + 2.2
dove λ è un fattore empirico tipicamente compreso tra 0.02 V-1 e 0.005 V-1 [21].
25
Caratteristica sottosoglia In questa zona la corrente che circola nel canale è dovuta alla diffusione dei
portatori di carica. La densità di corrente di diffusione per unità di larghezza di
canale può essere calcolata a partire dalla velocità di diffusione delle cariche
:
diffJ
diffv
diffdiff vqNJ = 2.3
con densità di carica e q carica elementare. La v è legata al gradiente di densità
delle cariche da questa realzione:
N diff
dzdN
NDvdiff
1−= 2.4
dove è la costante di diffusione delle particelle e è misurata a partire dal source.
è legata alla mobilità delle cariche
D z
D µ dalla relazione di Einstein:
kTDq
µ= 2.5
dove con k si indica la costante di Boltzmann e con T la temperatura assoluta.
Occorre ora calcolare dzdN . La densità dei portatori alle due estremità del canale è
data dalla distribuzione di Boltzmann:
kT
VVq
d
kTVVq
s
dg
sg
eNN
eNN)(
0
)(
0
0
0
−+−
−+−
=
=φ
φ
2.6
dove ( ) è la densità dal lato del source (drain), la densità dei portatori al
livello di Fermi e
sN dN 0N
0φ è il potenziale di contatto del diodo tra source (drain) e canale.
26
Poiché non vi è perdita di cariche nel passaggio da source a drain, la corrente lungo il
canale è costante ad ogni z e quindi il gradiente dzdN non può dipendere dalla
posizione z. Questo significa che la densità di portatori di carica è lineare in z:
−=
−=
−kTqV
kTqV
sds
kTdqVg
eeelN
lNN
dzdN 1 2.7
con )(01
0 kTeNN φ−= . Sostituendo la 2.7 e la 2.4 nella 2.3 e moltiplicando tutto per
la larghezza del canale W si ottiene:
0
g s dqV qV qVkT kT kTI I e e e
− − − = −
2.8
dove 0 1WI qDNL
= . In questa trattazione sono stati trascurati l’effetto Early e il
fatto che non tutta la tensione applicata al gate si ritrova sulla superficie del canale2.
Introducendo questi due effetti si ottiene:
00
1g s dsq V qV qV
dskT kT kT VI I e e eV
κ− −
= −
+ 2.9
dove è compreso tra 0.7 e 0.9, e V è la cosiddetta tensione di Early fissata dalla
geometria (W e L) del MOS e dai parametri della tecnologia scelta (drogaggi,
sovrapposizioni,…). Quando V si entra nella zona di saturazione in cui
la I dipende dalla V solo attraverso l’effetto Early:
κ 0
kT>> qds /
ds
0
1 dssat
VI IV
= +
2.10
2 Per una trattazione dettagliata si rimanda a [9]
27
con ( )
0
g sq V VkT
satI I eκ− −
= . 2.11
L’andamento tipico di I al variare della V per un fissato valore della V è
riportato in figura 2.2.
ds gs
figura 2.2: Andamento della corrente I di un nMOS nella regione sottosoglia in funzione di Vds. La corente I è approssimativamente lineare con Vds per valori di Vds < 4UT (UT= kT/q). Per Vds > 4UT la I rimane circa costante.
I vantaggi dell’utilizzo dei MOSFET sottosoglia sono:
1. Quantità di potenza dissipata estremamente bassa tra 10-12 e 10-6 Watt per un
circuito tipico;
2. La corrente di canale entra in saturazione per V [9][20], con Tds U4>
qkTUT = , permettendo al MOS di approssimare un generatore ideale di
corrente su un ampio range dinamico;
28
3. La caratteristica esponenziale è un ottimo punto di partenza per il progetto di
pixel sensibili al contrasto.
2.1.3 Fotosensori
I fotosensori sono elementi in grado di convertire la radiazione elettromagnetica in
un’altra forma, usualmente carica elettrica. La crescita del mercato nell’ambito delle
comunicazioni ottiche e della fotografia digitale ha dato una grande spinta alla
ricerca nel campo dell’optoelettronica. Di seguito si dà una descrizione dei
fototrasduttori che possono essere costruiti utilizzando tecnologia CMOS.
Fotoconduttori In un semiconduttore l’energia di un fotone incidente può essere assorbita da un
elettrone: tale processo va sotto il nome di effetto fotoelettrico interno. Un fotone con
un’energia maggiore o uguale alla gap energetica del semiconduttore può eccitare un
elettrone e farlo saltare dalla banda di valenza a quella di conduzione. Si ha in
questo modo la formazione di una coppia elettrone-lacuna indotta
dall’illuminamento. Questo causa l’aumento della concentrazione di portatori di
cariche sopra il valore dell’equilibrio termico. In assenza di un campo elettrico
esterno le nuove coppie elettrone-lacuna tendono a ricombinarsi movendosi per
diffusione. In presenza di un campo elettrico esterno, invece, elettroni e lacune
tendono a separarsi e a formare un segnale elettrico rilevabile dall’esterno. Tale
fenomeno viene detto fotoconduzione. Il più semplice elemento in grado di dar vita a
tale fenomeno è il fotoconduttore: un semiconduttore al quale viene esternamente
applicato un campo elettrico. I fotoconduttori presentano però un’elevata corrente di
buio (dark current), che rimane presente anche in assenza di illuminazione. Questa
corrente è indotta dal campo elettrico esterno e favorita dall’elevato drogaggio
usato nella maggior parte dei processi di fonderia. Il risultato è un basso rapporto
segnale/rumore.
29
Fotodiodi Un fotodiodo è un diodo utilizzato come fotosensore. Il suo compito è di
tradurre il segnale luminoso in segnale elettrico. Un diodo risulta essere un
fotosensore migliore di un fotoconduttore grazie alla bassa conduttività della
regione di svuotamento e al campo elettrico interno. La regione di svuotamento
riduce la dark-current mentre il campo elettrico interno induce la separazione di
elettroni e lacune nella regione di svuotamento anche in assenza di una tensione
esterna. Il risultato è una corrente inversa detta fotocorrente. Come per i
semiconduttori semplici un fotone incidente non può contribuire per più di un
elettrone alla fotocorrente.
figura 2.3: caratteristica tensione-corrente di un fotodiodo. La curva superiore è la caratteristica di un diodo normale; la curva inferiore quella di un diodo illuminato. I fotodiodi vengono utilizzati nel III quadrante come fotosensori o nel IV come celle solari.
Se il fotodiodo è lasciato isolato, ossia non si permette il passaggio di corrente in un
circuito esterno, allora le cariche generate dai fotoni incidenti vanno ad accumularsi
30
alle estremità della zona di svuotamento fino a quando non si raggiunge uno stato
stazionario. In queste condizioni la fotocorrente interna viene bilanciata da una
corrente di diffusione diretta. Se il fotodiodo viene invece cortocircuitato la
fotocorrente può essere misurata all’esterno come una corrente inversa. In
presenza di un campo elettrico esterno la fotocorrente viene a sommarsi alle tipiche
correnti presenti in un diodo. La caratteristica corrente tensione di un fotodiodo ha
la stessa forma di quella di un normale diodo ma la curva è traslata verso il basso,
lungo l’asse della corrente, del valore della fotocorrente (figura 2.3). Un fotodiodo
può essere utilizzato in due modalità differenti: fotovoltaica, ossia come cella
solare, o fotosensibile, come misuratore dell’intensità luminosa. Nel primo caso il
diodo viene fatto lavorare nel quarto quadrante ed è utilizzato per convertire la
potenza ottica in potenza elettrica. Nel secondo caso, il diodo o è lasciato isolato e
si misura la tensione diretta sui suoi terminali, oppure una tensione nulla o inversa
viene applicata ai suoi capi e la misura dell’intensità luminosa è ricavata dalla
fotocorrente.
In quest’ultimo caso il diodo opera nel terzo quadrante della caratteristica tensione-
corrente. Qui si comporta essenzialmente come un generatore ideale di corrente. In
tale regione, infatti, la corrente è in pratica indipendente dalla tensione inversa
applicata. In questa condizione si ha che la fotocorrente prodotta risulta
proporzionale all’irradianza (W/m2).
Caratteristica del fotodiodo Si è già accennato al fatto che la fotocorrente altro non è che una corrente inversa
che va a sommarsi alle altre correnti presenti nel diodo. Per calcolarla è necessario
considerare in che modo la luce viene assorbita dal materiale. Come riportato in
[9][20] la riduzione del flusso di fotoni all’interno del materiale va
esponenzialmente con la profondità x raggiunta:
xex α−Φ=Φ 0)(
31
dove è il flusso dei fotoni sulla superficie del semiconduttore e α è detto
coefficiente di assorbimento ottico. α varia da materiale a materiale ed è funzione della
lunghezza d’onda λ del fotone. Fotoni con λ maggiore hanno meno energia e di
conseguenza meno probabilità di creare una coppia elettrone-lacuna; essi penetrano
quindi maggiormente nel materiale. La lunghezza d’onda λ
0Φ
C alla quale il coefficiente
α va a zero corrisponde a fotoni con energia pari al gap energetico del materiale.
Per il silicio λC = 1.1µm che corrisponde al vicino infrarosso. Il termine può
essere calcolato dalla potenza ottica incidente in questo modo:
0Φ
optP
optPhcAR λ−
=Φ1
0
dove R è il coefficiente di riflessione del materiale, A l’area del semiconduttore
perpendicolare alla direzione del fotoflusso e λhc
(G
l’energia del fotone (h = costante
di Planck, c = velocità della luce). Il rate di generazione delle coppie
elettrone-lacuna può essere calcolato a partire dalla attenuazione del fotoflusso:
)x
xedxdxG αα −Φ=Φ
−= 0)( .
La densità di fotocorrente è la risultante di due componenti: una corrente di drift
dovuta alle cariche generate nella regione di svuotamento, e una corrente di
diffusione dovuta alle cariche generate nel substrato. È possibile procedere nel
calcolo di queste due componenti formulando le seguenti ipotesi: la corrente
dovuta alla generazione di cariche per effetto termico sia molto minore della
fotocorrente; lo strato di semiconduttore neutro che i fotoni devono attraversare
per giungere alla zona di svuotamento sia molto minore di
driftJ
diffJ
α1 . Per la componente
di drift si ottiene:
32
)1())0()(()( 00
WW
drift eqWqdxxGqJ α−−Φ−=Φ−Φ=−= ∫
dove è la profondità della zona di svuotamento nella direzione del fotoflusso.
La si può mostrare [9] essere pari a:
W
diffJ
Wdiff e
LLqJ α
αα −
+Φ−=
10
dove L è la lunghezza di diffusione delle cariche minoritarie nel bulk.
In aggiunta a queste due componenti, nel fotodiodo circola anche la corrente di
diffusione propria di un normale diodo. Corrente quindi presente anche al buio e
per questo chiamata dark current. Se la polarizzazione inversa è sufficientemente
elevata, la dark current ( − ) , ipotizzando tutte le approssimazioni del caso, può
essere così calcolata:
sJ
p
np
n
pnS L
pqDLnqD
J 00 +=
dove nnn DL τ= e ppp DL τ= sono rispettivamente la lunghezze di diffusione
degli elettroni e delle lacune. Sommando i vari contributi, si ottiene quindi che la densità
di corrente totale nel fotodiodo è pari a:
S
W
Sdiffdrift JL
eqJJJJ −
+
−Φ−=−+=−
α
α
110 .
È da notare che, in queste condizioni, la fotocorrente dipende dalla tensione
inversa applicata al fotodiodo solo tramite la profondità W della regione di
svuotamento. Si sottolinea anche che, in un fotodiodo reale, la dark current è
decisamente maggiore della sJ calcolata sopra e non risulta completamente
33
indipendente dalla tensione inversa applicata. Tipicamente si utilizzano i fotodiodi
in condizioni tali da poter considerare la dark current trascurabile rispetto alla
fotocorrente. In questo modo, la corrente inversa di un fotodiodo polarizzato
inversamente risulta essere direttamente proporzionale al fotoflusso Φ e quindi
all’irradianza.
0
λ (µm)
η(%)
figura 2.4: Efficienza quantica η di fotodiodi fabbricati con differenti semiconduttori in funzione della lunghezza d’onda λ. Il silicio mostra un’ottima efficienza quantica con un picco nel vicino infrarosso.
Tale relazione lineare può essere espressa tramite la cosiddetta efficienza quantica η
che indica il numero di coppie elettrone-lacuna prodotte per ogni singolo fotone
incidente; η è il rapporto tra numero di cariche generate , e la densità del
fotoflusso incidente
qJ /
/optP Ahcλ :
34
+
−−==−
LeR
PJ
qAhc W
opt αλη
α
11)1( .
η è quindi funzione della lunghezza d’onda e il suo andamento varia da materiale a
materiale (vedi figura 2.4). Per il silicio l’efficienza quantica è molto elevata nel
visibile e nel vicino infrarosso avvicinandosi al 100% in certe bande spettrali
L’efficienza quantica dei fotodiodi che lavorano nel range descritto può essere al
massimo pari ad uno. Ogni singolo fotone non può produrre più di una sola coppia
elettrone-lacuna. Se il diodo viene invece polarizzato nella regione di
moltiplicazione a valanga, l’efficienza quantica può essere molto superiore ad uno.
Questo grazie al meccanismo di moltiplicazione delle cariche fotogenerate dovuto
alla ionizzazione per impatto. Fotodiodi a valanga, sono fotodiodi pensati per lavorare
in questo regime. I fotodiodi a valanga che possono essere prodotti con i normali
processi di fonderia presentano però problemi di instabilità e mismatch. Per ottenere
fotocorrenti più elevate è più utile utilizzare fototransistor.
fototransistor Un fototransistor è usualmente un transistor a giunzione BJT. Normali processi
CMOS consentono il disegno di transitor BJT parassiti: il loro emettitore è
costitutito dal source o dal drain di un MOS, la base è la well mentrre il substrato
funziona da collettore. Illuminando transistor di questo tipo, si formano coppie
elettrone-lacuna nella giunzione base-collettore polarizzata inversamente. La corrente
che scorre in questa giunzione a causa dell’illuminamento verrà indicata con I ′ . La
base rimane isolata e il suo potenziale viene determinato dall’accumulo di cariche
fotogenerate. La I ′ è poi amplificata dall’effetto transistor, e la risultante
fotocorrente phI è pari a
IhI FEph ′+= )1( .
35
Dove con si indica il fattore di guadagno del transistor. La fotocorrente
generata in questi dispositivi è nettamente maggiore di quella propria dei fotodiodi.
Svantaggi dei fototransistor sono però la maggiore occupazione di area sul silicio,
l’assenza di linearità tra fotoflusso e fotocorrente e la lentezza di risposta allo
stimolo luminoso. La linearità è compromessa dalla dipendenza di dal livello di
fotocorrente, mentre la lentezza di risposta è dovuta alla grossa capacità base
collettore che bisogna caricare o scaricare al variare dell’intensità luminosa.
FEh
FEh
Fotogate Strutture dette MIS (Metal Insulator Conductor) che normalmente costituiscono la
parte centrale di un MOSFET, possono essere utilizzate da sole come fotosensori.
In figura 2.5 è riportata la vista in sezione. I fotoni, che giungono dall’alto,
generano coppie elettrone-lacuna nella regione di svuotamento sotto il gate. Le
coppie si separano sotto l’azione del campo presente. Un tipo va ad accumularsi
sotto il gate, creando una regione di inversione, l’altro tipo lascia la MIS attraverso il
bulk.
La carica accumulata è letta nel momento in cui viene variata la tensione di gate. Le
MIS sono alla base del funzionamento dei più comuni sensori ottici commerciali: le
camere CCD. Diversamente dai fotodiodi le MIS sono strutture intrinsecamente
capacitive che non possono essere usate in continous mode. Nei sensori CCD le MIS
vengono utilizzate sia come fotosensori, sia per spostare le cariche fuori dalla
matrice. Tale risultato viene raggiunto variando in modo opportuno la tensione di
gate applicata a MIS adiacenti.
Le fotogate più semplici hanno la struttura riportata in figura 2.5 (a). In esse le
cariche fotogenerate si accumulano vicino all’interfaccia substrato-ossido. A causa
delle imperfezioni del silicio presenti in questa zona, le cariche tendono a
ricombinarsi con costanti di tempo diverse e il segnale viene alterato. Per evitare i
36
problemi dovuti all’interfaccia si realizza sotto il gate una regione di diffusione
debolmente drogata figura 2.5 (b). Nel caso di un substrato di tipo p, la regione di
diffusione è di tipo n. La diffusione viene collegata ad una tensione molto maggiore
di quella di bulk e gate. In questo modo si formano due regioni di svuotamento: una
sulla superficie del semiconduttore, l’altra tra la diffusione e il bulk. Le cariche
fotogenerate che si accumulano nella diffusione non risentono più dei problemi di
interfaccia.
figura 2.5: struttura in sezione delle fotogate. In (a) è riportata la struttura più semplice in cui le cariche fotogenerate si accumulano sotto l’interfaccia silicio-ossido di gate; in (b) è mostrata la struttura con la diffusione sotto il gate, le cariche qui si accumulano nella diffusione e risentono meno delle imperfezioni del silicio.
In linea di principio sensori ottici basati sulle MIS potrebbero essere realizzati con
processi standard CMOS. Questi, però, hanno una qualità delle superfici di
interfaccia troppo bassa e non consentono la realizzazione di regioni debolmente
drogate sotto il gate. Dedicate e costose linee produttive sono necessarie per la
realizzazione delle CCD.
37
2.2 Pixel lineari Pixel lineari traducono lo stimolo luminoso in un segnale elettrico direttamente
proporzionale all’intensità dello stimolo stesso. Sensibili al livello assoluto di
irradianza, vengono in genere utilizzati in quei sensori ottici il cui scopo è la
riproduzione fotografica della scena che hanno di fronte. Caratteristica importante
per questi pixel è l’area di ingombro su silicio. Minori sono le dimensioni del pixel e
più alta è la risoluzione dell’immagine. Tali pixel sono inoltre caratterizzati da un
elevato rapporto tra l’area dedicata al fototrasduttore e l’area occupata dell’intero
pixel.(fototrasduttore più MOSFET). Questo rapporto viene detto fill-factor. I pixel
attivi e passivi descritti nei paragrafi successivi sono sviluppati per questi scopi. Per
la riduzione del rumore presente in matrici costituite da questi pixel, vengono
utilizzate particolari procedure di lettura del segnale (CDS, Correlated Double
Sampling). Il range dinamico in cui operano e i problemi del rumore vengono
discussi nel paragrafo 2.2.2.
2.2.1 Pixel passivi e pixel attivi
Due sono le modalità di funzionamento dei pixel: continuous-time mode o integration
mode. Nel primo caso, il segnale che il pixel produce è una corrente proporzionale,
istante per istante al livello di irradianza, nel secondo caso, le cariche fotogenerate
vengono accumulate in una capacità e, solo alla fine del periodo di integrazione,
lette. Questa seconda modalità offre una maggior sensibilità a patto che il tempo di
integrazione, e quindi quello di lettura, sia maggiore del tempo di risposta del
sensore.
I pixel più semplici sono quelli passivi, costituiti da un fotodiodo e da un MOSFET
(figura 2.6 (a)). All’istante iniziale il MOSFET è in saturazione e il diodo viene
polarizzato inversamente (Vph refV= ). Durante il tempo d’integrazione, il
MOSFET rimane in interdizione e le cariche fotogenerate si accumulano sulla
capacità della regione di impoverimento del diodo. Più cariche si accumulano e più
38
phV diminuisce. Dopo il periodo di integrazione V è letta da un amplificatore
mentre la tensione viene riportata al livello V . Questo tipo di lettura viene detta
distruttiva: non è possibile leggere due volte lo stesso segnale. Pixel passivi sono
caratterizzati da un fill-factor piuttosto elevato e, utilizzati come elementi di una
matrice ottica, causano un limitato Fixed Pattern Noise (FPN). Svantaggi di questi
pixel sono le grandi capacità parassite delle linee di uscita che portano ad un elevato
rumore di lettura.
ph
ref
M1
D D
phV
M1Vres Vres
Vref
M
M
2
3
E E V
V
ro
out
figura 2.6: Schemi elettrici di pixel lineari ad accumulo di carica. (a) pixel passivo connesso alla tensione di reset Vref tramite il MOS M1. (b) Pixel attivo (APS): il segnale viene letto attraverso M2, che opera soprasoglia nella regione lineare, quando M3 è aperto. Quando M1 viene chiuso il pixel è riportato nella condizione iniziale.
I pixel attivi (APS) sono quelli che contengono al loro interno per lo meno un
amplificatore o un buffer. Il disegno base è riportato in figura 2.6 (b). La tensione
dovuta alle fotocariche, pilota il gate del MOSFET M2. Questo è polarizzato in
modo da lavorare nella regione ohmica soprasoglia; la tensione di gate qui controlla
linearmente la resistenza di canale. Un generatore ideale di corrente, non in figura
39
in quanto comune a tutta la colonna, inietta corrente nel ramo di destra. In questa
configurazione, fissato un tempo di integrazione, la tensione V risulta lineare con
l’irradianza. è letta quando M3 è aperto; il pixel è riportato alla condizione
iniziale quando viene aperto M1. Gli APS consentono una lettura non distruttiva e
un miglior rapporto segnale/rumore rispetto ai pixel passivi. Di contro hanno delle
dimensioni maggiori, un fill-factor minore e, poichè M2 è utilizzato nel suo dominio
analogico, un maggior FPN.
out
outV
2.2.2 Dark current e limiti di funzionamento
Il range di irradianza entro il quale i sensori lineari descritti funzionano
correttamente è limitato superiormente dalla quantità massima di carica
immagazzinabile, e inferiormente dal rumore e dalle dark current.
Limite superiore La massima quantità di carica accumulabile nella capacità del diodo è pari a
refDVCQ =max
Se la carica accumulata si avvicina troppo a , tende a zero e le cariche
iniziano a ricombinarsi a causa di una corrente di diffusione diretta che si genera.
Come mostrato in [20] è possibile allontanare il limite di saturazione, suddividendo
la caratteristica irradianza-tensione in tratti lineari sempre meno pendenti. In pratica
tale soluzione cerca di creare una caratteristica che approssimi il range dinamico dei
sensori logaritmici, descritti nel seguito, e, contemporaneamente, di mantenere la
linearità della risposta nella zona di bassa irradianza. Il problema della saturazione è
proprio anche delle CCD: raggiunta la , le cariche in eccesso invadono le
photogate vicine generando fenomeni di blooming che alterano il segnale. Tecniche per
l’aumento del range dinamico, analoghe a quella discussa in [20] sono state
brevettate per i sensori CCD. Esse si basano sulla variazione discreta della tensione
applicata al gate. D’altro canto, sensori CMOS logaritmici garantiscono un ampio
maxQ
x
phV
maQ
40
range di funzionamento risultano però molto rumorosi per bassi livelli di luminosità.
Tentativi di combinare immagini della stessa scena, ottenute da sensori logaritmici e
da sensori lineari sono riportati in [22]. Nonostante gli sforzi fatti in questo campo,
i sensori commerciali non sono ancora in grado di offrire buone risposte a scene
fortemente contrastate: puntando una videocamera fuori da una finestra,
normalmente una delle due parti delle scena, l’interno o l’esterno, risulta sotto o
sovra esposta.
Limite inferiore Le dark current sono correnti di perdita della giunzione pn presenti anche al buio e
costituiscono il limite principale alla sensibilità del fotodiodo per bassa luminosità.
Si originano sia all’interfaccia sia ai bordi della giunzione. Le dark current di area
sono dell’ordine di 1nA/cm2 mentre quelle di bordo possono arrivare quasi a
10nA/cm. Questo significa che per piccoli fotodiodi le correnti di bordo danno il
contributo principale. Le dark current costituiscono il limite inferiore per le
fotocorrenti rilevabili e in più vanno ad accumulare cariche sulla capacità del diodo,
riducendo così la frazione della disponibile per le fotocariche. Queste correnti
di perdita sono praticamente indipendenti dalla tensione inversa applicata al diodo,
mentre dipendono fortemente dalla temperatura, raddoppiando all’incirca ogni 8°C
[9].
maxQ
Esse sono responsabili dei cosiddetti hot pixel. Questi ultimi sono pixel con dark
current particolarmente elevate che generano alti segnali di risposta anche al buio,
degradando il segnale. Gli hot pixel appaiono come punti bianchi nell’immagine
finale. Le dark current possono variare anche di un fattore 100 all’interno dello
stesso sensore ottico. Elevate dark current sono dovute alle imperfezioni del silicio
presenti soprattutto nelle interfacce tra silicio e ossidi. Per limitarle sono stati
affinati particolari processi produttivi per la realizzazione dei cosiddetti buried
photodiode o pinned photodiode. Sono fotodiodi ricoperti da una sottile diffusione
collegata al substrato. Grazie a questa tecnica è possibile eliminare quasi del tutto le
41
correnti di perdita dovute ai bordi. Questi processi sono però ancora inaccessibili al
mondo della ricerca universitaria. Svantaggio di questi particolari layout è la bassa
sensibilità al blu; fotoni di questa lunghezza d’onda, infatti, non penetrano a fondo
nel materiale e generano coppie elettrone-lacuna vicino alla superficie, punto ricco
di impurità dove le coppie tendono a ricombinarsi.
Per eliminare la componente del FPN dovuto alla non uniformità della risposta alla
luce, al rumore di reset dei pixel e al mismatch tra i MOSFET, i sensori commerciali
sfruttano un sistema di read-out detto CDS (Corrrlated double Sampling). Ogni pixel
viene letto due volte, prima e dopo il segnale di reset, i due valori vengono poi
sottratti per ottenere un segnale con minor rumore [23]. Questo procedimento non
riesce però ad eliminare il rumore termico associato alle fluttuazione delle dark
current e ai MOSFET del sistema di lettura.
2.2.3 In sintesi
I pixel attivi e passivi descritti in questo paragrafo condividono le seguenti
caratteristiche:
- Caratteristica irradianza-tensione lineare
- Piccolo ingombro su silicio: sono costituiti da un fotodiodo e al
massimo tre MOSFET, consentono quindi alta densità della matrice ottica
- Sono utilizzati in sensori ottici convenzionali per la ripresa fotografica
- Creano un limitato FPN.
Di contro hanno:
- Elevati tempi di integrazione e di lettura
- Non svolgono nessuna elaborazione dell’immagine
42
2.3 Pixel logaritmici Sono pixel che presentano una caratteristica irradianza-tensione logaritmica. Un
mapping logaritmico comprime l’enorme range di variazione dell’irradianza
ambientale (oltre 6 ordini di grandezza) e riduce i problemi dovuti alla saturazione.
Questi pixel possono essere utilizzati per ottenere una codifica della scena basata sul
contrasto temporale o spaziale. Questa codifica, come riportato nel capitolo 1 è,
secondo la teoria di Marr [6], il primo passo del processo della visione. Pixel
logaritmici vengono principalmente utilizzati in sensori ottici neuromorfi:
l’interesse in questo tipo di sensori sta nel cercare di imitare alcune delle
funzionalità della retina biologica. Si sceglie, in certi casi, di realizzare pixel più
ingombranti, sacrificando così la definizione dell’immagine pur di avere dispositivi
in grado di effettuare una prima elaborazione, in tempo reale, del segnale. Tali pixel
sfruttano la caratteristica sottosoglia dei MOSFET ed elaborano il segnale in modo
analogico. Di seguito sono riportati i principi di funzionamento e le caratteristiche
essenziali di diversi tipi di pixel logaritmici.
2.3.1 Schema base
L’implementazione più semplice di pixel logaritmici è quella riportata in figura
2.7(a); è costituita da un MOSFET in serie ad un fotodiodo. Il fotodiodo è
assimilabile ad un generatore ideale di fotocorrente la quale viene letta e tradotta in
tensione dal MOSFET. La fotocorrente è direttamente proporzionale al livello di
irradianza e all’area esposta del fotodiodo. In condizioni tipiche essa risulta nel range
dei pico o dei nano Ampere.
43
E
Vout
D
IphE
Iph
Vout
M1 M1
D
Vb
figura 2.7: fotopixel con caratteristica irradianza-tensione logaritmica. Il fotodiodo funziona da generatore ideale di fotocorrente mentre il MOSFET, polarizzato sottosoglia, traduce in maniera logaritmica la corrente in tensione. Lo schema (b) consente il controllo di un offset sulla tensione di uscita.
Correnti di questa intensità fanno lavorare il MOSFET sottosoglia cosicché la
traduzione della fotocorrente in tensione risulta logaritmica su più di cinque ordini
di grandezza. La caratteristica di sensori di questo tipo è la seguente:
0
log phTout dd
IUV VIκ
= −
2.12
dove V è la tensione di alimentazione, dd κ , I0 e TkTq
=U (k costante di
Boltzmann, T temperatura assoluta e q carica elementare) sono i fattori presenti
nell’equazione 2.11. Il pixel di figura 2.7(b), permette il controllo di un offset sul
punto di lavoro di fotodiodo e MOSFET; la sua caratteristica è infatti:
44
0
log phout b T
IV V U
Iκ
= −
. 2.13
Differenziando la 2.13 si ottiene
phout T
ph
dIdV U
I= −
che indica come piccole variazioni della V codifichino il rapporto tra la
variazione della fotocorrente e il livello stazionario della stessa. Tale rapporto
fornisce una misura del contrasto. L’informazione interessante sta nelle variazioni
dell’uscita più che sui livelli stazionari della stessa. I pixel adattivi, descritti nel
seguito, riportano in uscita unicamente le variazioni della
out
phdI
phI .
Il maggior problema dei fotopixel di figura 2.7 è la loro ristretta banda passante. Al
variare del livello di intensità, la piccola fotocorrente si trova a dover caricare e
scaricare la capacità parassita del fotodiodo. Questi pixel rivelano un
comportamento da passa basso in cui la costante di tempo varia al variare della
fotocorrente [24].
2.3.2 Pixel con feedback
Per allargare la banda passante si realizza una struttura a feedback del tipo riportato
in figura 2.8. I MOSFET M2 e M3 realizzano un amplificatore invertente ad alto
guadagno ( ). In questa configurazione la caratteristica è A 0<A
1
0
log phout s T
IV V U
Iκ −
= + 2.14
e V è mantenuto pressoché costante al valore s
45
( ) 01
0
log ps n p dd b T
n
IV V V U
Iκ κ−
= − +
dove e sono i fattori della caratteristica sottosoglia di M2 e M3 mentre nκ pκ 0nI e
0 pI sono i corrispondenti fattori di scala.
Iph
M2
M1
M3 Vb
Vout
Vs
DE
figura 2.8: : fotopixel logaritmico con feedback. Aumenta la larghezza di banda diminuendo la dinamica del punto Vs. M2 e M3 realizzano un amplificatore invertente ad alto guadagno.
Variazioni della fotocorrente, comportano variazioni dV pari a phdI out
1ph phT
out Tph ph
dI dIUAdV UA I Iκ κ
= ≈−
.
Variazioni maggiori di un fattore 1/κ e invertite rispetto a quelle date dai pixel privi
di feedback. Al contrario la variazione di sV è limitata da un fattore Aκ :
46
1
ph phT Ts
ph ph
dI dIU UdVA I A Iκ κ
= ≈−
. 2.15
Se la corrente che scorre all’interno dell’amplificatore invertente è molto maggiore
della fotocorrente e le costanti di tempo introdotte dal feedback sono trascurabili,
allora la costante di tempo del circuito viene ridotta di un fattore . Da
sottolineare è il fatto che la riduzione dei tempi di integrazione del circuito ha come
controparte il peggioramento del rapporto segnale/rumore.
Aκ
Sensori ottici costituiti dai pixel sopra descritti soffrono pesantemente di FPN
dovuto alla non uniformità della risposta alla luce e al mismatch tra i vari pixel. A
causa della variabilità dei parametri dei fotodiodi e dei MOSFET all’interno del
circuito integrato. Le caratteristiche di MOSFET nominalmente identici possono
differire anche per un 30%. La risposta della matrice ottica ad un’illuminazione
uniforme risulta quindi tutt’altro che uniforme.
2.3.3 Pixel adattivi
Il FPN presente è legato essenzialmente ai problemi di mismatch tra i MOSFET e
tra i fotodiodi. Per migliorare il rapporto segnale/rumore una soluzione consiste
nella calibrazione invidivuale di ciascun pixel. Questo, oltre alla procedura di
calibrazione, richiede però la presenza di elementi in cui memorizzare i parametri
trovati. Una soluzione più elegante è l’utilizzo di pixel adattivi. L’implementazione
che hanno realizzato C. Mead e M. Mahowald, riportata in [2] e in [25], è
schematizzata in figura 2.9. Questi pixel si adattano al livello stazionario di
luminosità, e riportano in uscita solo i transienti della fotocorrente.
47
Iph
Vs
M1
M2
M3 VbC1
Vfb Vout
ED
Ib
C
R1
2
figura 2.9: Pixel logaritmico adattivo: l’elemento resistivo R1 regola la costante di tempo dell’adattamento, mentre il partitore capacitivo C1 C2 amplifica i segnali transienti.
L’elemento resistivo consente il feedback e l’adattamento ai livelli stazionari;
l’amplificazione dei transienti avviene per mezzo di un partitore capacitivo che
risente meno dei MOSFET dei problemi di mismatch. In questo modo il FPN risulta
ridotto e si fa un miglior uso del range dinamico disponibile per la tensione di uscita.
Per gran parte la V viene ora impegnata per la codifica delle variazioni della
fotocorrente. Per il circuito in figura 2.9, variazioni rapide dell’irradianza, rapide al
punto da poter considerare trascurabili gli effetti dell’adattamento, causano
out
48
variazioni dell’uscita, volte maggiori di quelle generate da variazioni lente
del segnale in ingresso; è definito dal partitore capacitivo:
outdV CA
CA
out CA
A
out
fb
1 2
2C
C CAC+
=
Il cambiamento V , dovuto a segnali transienti, risulta quindi essere out
1ph phT
T Cph ph
dI dIUAdV U AA I Iκ κ
= ≈−
dove con si indica il fattore di guadagno dell’amplificatore invertente costituito
da Mn e Mp. L’adattamento del pixel avviene su tempi che possono essere anche
molto lunghi e che dipendono da come viene implementato l’elemento resistivo.
Tempi lunghi sono tipici dei cambiamenti del livello medio di luminosità dovuti a
fattori naturali, quali ad esempio il moto del sole durante le ore del giorno. La
carica presente nella capacità C rappresenta lo stato stazionario a cui il pixel si
è adattato. L’uscita V è legata a e a V dalla relazione
fbQ 1
fbQout fb
1
2
fb ddC fb
Q CVV A V
C+
= −
dove V è dato da fb
1
0
log phs T
IV V U
Iκ −
= + .
La logica dei pixel adattivi è essenzialmente di tipo derivativo; essa mira ad
amplificare le variazioni di intensità luminosa. I pixel descritti riportano in uscita la
derivata logaritmica dell’irradianza, realizzando una codifica basata sul contrasto.
49
Data la loro caratteristica sono in grado di evidenziare spostamenti delle
discontinuità luminose, o, pensando ad una scansione attiva della scena, variazioni
di irradianza dovute a superfici fisse con differenti coefficienti di riflessione. Essi
risultano essere ideali per i fini di HAPTIC. Di contro hanno, come primo fattore,
l’eccessivo ingombro sul silicio, dovuto essenzialmente alla grossa superficie
occupata dai condensatori. Uno schema elettrico diverso che segue una logica
derivativa e riduce ad uno il numero dei condensatori è proposto in [7]. Sensori
ottici che utilizzano tale pixel, soffrono maggiormente dei problemi del FPN ma
realizzano risoluzioni più elevate. Lo schema elettrico del pixel è riportato in figura
3.1. Esso fornisce due segnali in uscita, uno per le transizioni chiaro-scuro
(diminuzioni di fotocorrente), uno per le transizioni scuro-chiaro (incrementi della
fotocorrente). Tale pixel è l’oggetto dell’analisi di stabilità effettuata in questo lavoro
di tesi; lo studio svolto viene presentato nel prossimo capitolo.
50
3. ANALISI DEL PIXEL LOGARITMICO
DERIVATIVO
In questo capitolo viene presentata un’analisi dettagliata del pixel logaritmico
derivativo. Il pixel è completamente analogico, composto da un fotodiodo e da
cinque MOSFET sottosoglia. Tale pixel fornisce tre segnali di uscita attraverso i
quali è possibile codificare il contrasto temporale e spaziale: un segnale è
proporzionale al logaritmo del livello stazionario dell’irradianza, gli altri due ai
contrasti positivi il primo e a quelli negativi il secondo. Canali separati per la
codifica di aumenti e diminuzioni della luminosità si ritrovano nelle retine
biologiche [15]. Il problema principale di questi pixel, individuato in simulazione, è
la loro instabilità. Sperimentalmente si trova che alcuni dei pixel della retina [4]
sembrano entrare in oscillazione all’accensione del circuito integrato. Per il progetto
di un nuovo sensore ottico occorre tenere in considerazione tale problema. Nel
paragrafo 3.1 si riporta lo studio stazionario analitico del circuito descritto in [7]. Il
primo contributo originale di questa tesi è l’analisi del comportamento dinamico
del pixel riportato nel paragrafo 3.2. Tale paragrafo si avvale dello studio numerico
svolto con SPECTRE: simulatore di circuiti che utilizza i modelli dei dispositivi
VLSI forniti dalla fonderia che produrrà il circuito integrato. Lo studio mira a
comprendere le cause dell’ingresso in oscillazione. Per prima cosa si controlla la
stabilità del circuito per piccoli segnali; si procede poi ad un’analisi qualitativa che
tenga conto delle non linearità e delle capacità parassite dei dispositivi. L’analisi,
sostenuta dai test sperimentali descritti nel capitolo successivo, individua due
macroparametri τ, ritardo del feedback e , fattore di guadagno dell’amplificatore
invertente, al variare dei quali il sistema risulta più o meno stabile.
A
51
3.1 Il circuito Lo schema elettrico del pixel è riportato in figura 3.1. Esso aggiunge al pixel
logaritmico con feedback descritto nel capitolo precedente, un ramo derivativo
raddrizzatore che fornisce le correnti e . Tale ramo è costituito dai due
mosfet M
onI
fb
offI
fb
on e Moff e dalla capacità C. Nello stato stazionario, in linea di principio,
esso non altera in modo significativo il feedback del circuito introducendo
unicamente un piccolo offset tra V e V . Durante i transienti della fotocorrente
invece, la V varia più velocemente della V attivando M
out
out on o Moff.. In questo
modo scorre, a seconda del verso del transiente, la corrente o la corrente
che, caricando o scaricando la C riporta la V al livello della V .
onI
out
offI
fb
Vfb
Vph
VoutIoff
Ion
M
Mon
M
M V
fb
off
pb
n
MC
D
figura 3.1: : schema elettrico del pixel logaritmico derivativo. Fornisce due segnali distinti per le transizioni chiaro-scuro Ioff e scuro-chiaro Ion.
52
Con questo sistema le correnti e forniscono una misura della derivata
temporale di V , ossia una misura della derivata temporale del logaritmo della
fotocorrente. Nei due sottoparagrafi seguenti si riporta in dettaglio la soluzione
dell’equazioni differenziali che fotografano il circuito in due casi distinti: caso
stazionario, individuato dall’uguaglianza
onI offI
onI
out
offI= , e momento del transiente, in
cui o viceversa. Si arriva a dimostrare che, durante i transienti della
fotocorrente, i segnali di uscita del fotopixel dipendono dal contrasto temporale.
offon II >>
3.1.1 Stato stazionario
Per stato stazionario s’intende il punto di lavoro del circuito relativo ad un certo
livello costante della fotocorrente . Le dimensioni dei MOSFET sono scelte in
modo che essi lavorino sottosoglia in tutto il range di variabilità della fotocorrente.
Considerando il fotodiodo D come un generatore ideale di fotocorrente e
trascurando l’effetto Early del mosfet M
phI
fb, la tesione V è data dalla 2.13: ph
+= −
0
1 logfb
phTphfbfb I
IUVV κ 3.1
dove V assume, sempre trascurando l’effetto Early, il valore dato da ph
+−= −
0
01 log)(n
pTbddpnph I
IUVVV κκ 3.2
dove nκ e pκ , e sono i fattori che compaiono nelle caratteristiche
sottosoglia di M
0nI
A
0pI
n e Mp. Come indica l’equazione 2.15, si ha che maggiore è
l’amplificazione e minore risulta essere la dinamica di V attorno al suo punto ph
53
di equilibrio. In questa approssimazione, V non dipende dalla fotocorrente. Il
legame tra V e è dovuto all’effetto Early dei mosfet M
ph
outoff
fbout
V
V
( −
−
offI
ph
out
0onI
phI
fb
n e Mp. L’offset
presente tra V e V può essere calcolato a partire dalle caratteristiche dei mosfet
Mon e Moff:
)off V(= κ
I
V
. 3.3 Tfb
Ton
UVoffoff
UVonon
eII
eII/)
0
/)(0
−=
=κ
κ
dove e sono correnti determinate dalla tecnologia e dalla geometria di
M
0offI
off e Mon. Considerando che nello stato stazionario si ha
onI = , 3.4
si ricava la seguente relazione:
.log1()0
01
+++ −
on
offTfboffonout I
IUκκ 3.5
Come riportato in [7] in realtà si ha che lo stato stazionario è alterato dalle correnti
parassite; in particolare la corrente di perdita verso il bulk, dei diodi formati dalle
diffusioni di drain e source di Mon, si sommano con la corrente di perdita della well di
Moff e formano una corrente parassita che altera la condizione di equilibrio 3.4.
Dal momento che la può risultare, a seconda dell’implementazione hardware,
anche molto maggiore della , si ha che lo stato stazionario del circuito risente
pesantemente degli effetti parassiti dovuti alla fisica dei dispositivi VLSI.
parI
par
offI
3.1.2 Analisi dei transienti
In questo paragrafo si “fotografano” le tensioni del circuito nel caso in cui
transienti della fotocorrente generino la condizione
54
3.6 offon II >>
o la sua opposta; qui non vengono considerati gli effetti associati alle correnti di
perdita e alle capacità parassite dei MOSFET. Le capacità parassite verranno
considerate nel seguito: esse sono le principali responsabili della transizione del
sistema da sistema stabile a sistema oscillante. Il fattore di guadagno
dell’amplificatore invertente formato da M
A
n e Mp, è dovuto all’effetto Early ed è
dato da
( 111
2−−− +=−= pEnE
Tph
out VVUdV
dVA κ ) . 3.7
Dove e V sono le tensioni di Early di MnEV pE n e Mp rispettivamente. Per una
trattazione dettagliata dell’effetto Early si rimanda a [1]. Sfruttando il fatto che
3.8 phout VAV −=
e derivando la 3.1 rispetto al tempo si ottiene:
+−= −
ph
phT
outfbfb I
IU
AV
V 1κ . 3.9
Trascurando le correnti di perdita, si ha che
3.10 fboffon VCII =−
e quindi, utilizzando la 3.9,
+−=−
ph
phT
out
fboffon I
IU
AVCII
κ 3.11
55
Se è tale che Aph
phT
out
II
UAV
<< allora la differenza offon II − risulta essere
proporzionale alla derivata logaritmica della fotocorrente. Derivata che fornisce una
misura del contrasto temporale.
Nel caso di transienti ON in cui si abbia , la 3.10 si riduce a offon II >>
. 3.12 fbon VCI =
Derivando le 3.3 rispetto al tempo si ottiene:
T
fb
T
outon
on
on
UV
UV
II
−= κ 3.13
T
fboff
T
outoff
off
off
UV
UV
II
κκ +−= . 3.14
Utilizzando la 3.9, la 3.12 e la 3.13, si ricava l’equazione differenziale
ph
phon
T
fbon
fb
fb
II
AUV
AVV
κ=++ )1( 3.15
dove
fbonon AA κκ=
è il guadagno a ciclo aperto per i transienti positivi. Risolvendo la 3.15 e utilizzando
la 3.12 e la prima delle 3.3, si ottiene
56
( )
1
0
1
0
( )( ) (0) log 1
1 (0)
( ) ( )( ) (0) log log 1
(0) 1 (0)
( )(0)
( ) (0)
on
on
At phT
fb fb onon ph
Atph fb ph
out out T onph on ph
ph
phon on
I tUV t V dtA I
I t I tV t V AU dt
I A I
I tI
I t I
κ
κ
τ
κτ
−
−
′= + + +
′= + − + +
=
∫
∫
1
0
( )1
(0)
on
on
A
At ph
onph
I tdt
I
κ
κ
τ −
′+
∫
3.16
con
)0(1 onon
Ton I
CAU
+=τ .
Se
tdItI
At
ph
phon ′
′>> ∫0 )0(
)(τ
allora il circuito lavora a ciclo aperto ed è possibile approssimare le 3.16 a
.)0()(
log)0()(
)0()(
)0()(
)0()(
+=
=
=
ph
phToutout
A
ph
phonon
fbfb
ItI
AUVtV
ItI
ItI
VtVonκ
3.17
57
Queste risposte transienti sono tutte proporzionali al rapporto tra fotocorrente
finale e iniziale. Nell’approssimazione opposta, ossia per grandi segnali o per tempi
lunghi
tdItI
At
ph
phon ′
′<< ∫0 )0(
)(τ
si ha che non sono più trascurabili i termini integrali che tendono a
controbilanciare il cambiamento; la controreazione fa sentire il suo effetto e il
circuito lavora a ciclo chiuso. Ad un certo istanteV inverte il suo andamento e
per , e
out
∞→t −∞→outV ∞→fb
off
V cosicché, secondo le 3.16, la differenza
che pilota la s’inverte e all’infinito diventa negativa e di modulo
sempre maggiore. La validità di questi andamenti è ristretta dall’approssimazione
iniziale secondo cui . Le equazioni non descrivono quindi gli andamenti
di tensioni e correnti nell’intorno del nuovo punto di equilibrio del circuito.
fbV−outV on
I
I
onI >>
Nel caso di transienti OFF, utilizzando l’approssimazione opposta, ,
sviluppando conti analoghi al caso precedente si ha:
onoff II >>
( )
tdI
tI
ItI
ItI
tdI
tIAI
tIAUVtV
tdI
tIAU
VtV
off
off
off
ffn
At
ph
phffn
A
ph
ph
offoff
At
ph
phoff
offoff
fb
ph
phToutout
At
ph
phffn
offoff
Tfbfb
′
+
=
′
+
+−
+=
′
+
+−=
−
−
−
−
−
−
−
∫
∫
∫
κ
κ
κ
κ
τ
τκ
κ
τκ
0
1
0
1
0
1
)0()(
1
)0()(
)0()(
)0()(
1log)1()0(
)(log)0()(
)0()(
1log)1(
)0()(
3.18
58
con
fboff AA κ= .
Si hanno degli andamenti analoghi ma questa volta i segnali sono proporzionali
all’inverso del rapporto tra fotocorrente iniziale e finale. Questo fa sì che la codifica
del contrasto sia simmetrica per transienti ON e OFF poiché i segnali sono sempre
proporzionali al rapporto tra la maggiore e la minore. Simmetria evidente
dagli andamenti riportati in figura 3.2 ottenuti simulando il circuito con SPECTRE.
phI phI
figura 3.2: Andamenti di Ion e Ioff per contrasto pari al 33% in 0.2ms. La Ion si attiva durante il transiente positivo, la Ioff durante il transiente negativo. I parametri del circuito sono stati scelti al fine di evidenziare la simmetria della risposta.
59
Nel simulare il circuito SPECTRE utilizza i modelli dei dispositivi VLSI forniti
dalla fonderia che produrrà il circuito integrato. Tali modelli non sono
completamente trasparenti all’utilizzatore in quanto protetti dai diritti della
fonderia. I modelli, secondo le indicazioni fornite dal produttore, tengono in
considerazione tutte le varie correnti di perdita e capacità parassite dei dispositivi.
Con quale grado di approssimazione lo facciano, questo non è dato saperlo, a
meno di non poter confrontare i risultati di simulazione con test sperimentali.
60
3.2 Analisi stabilità Le equazioni del circuito riportate nei paragrafi precedenti non descrivono il
comportamento dinamico del circuito ma unicamente “fotografano” il sistema in
due condizioni differenti ( offon II = e o viceversa). Primo contributo
originale di questo lavoro di tesi è lo studio del comportamento nel tempo del
sistema. In condizioni di buon funzionamento, il sistema passa, a causa di una
variazione dell’irradianza, da uno stato stazionario ad un altro. Per la variazione
opposta è poi in grado di ritornare allo stato stazionario iniziale. Sotto certe
condizioni, però, il sistema, a causa di una variazione della fotocorrente, transisce
dallo stato stazionario ad uno stato oscillante dal quale non è più in grado di
spostarsi. Tale stato è noto come stato di oscillazioni permanenti ed è proprio dei
sistemi non lineari [26].
offon II >>
figura 3.3: : Ingresso del pixel nello stato di oscillazioni permanenti. I picchi della Ioff raggiungono quasi 1.8µA mentre quelli della Ion rimangono inferiori ad 1µA. I parametri del circuito sono stati scelti in modo da evidenziare l’ingresso in oscillazione.
61
Le equazioni dei paragrafi precedenti sono state ricavate trascurando le capacità
parassite dei MOSFET e del fotodiodo. Quest’ultima gioca un ruolo di primo
piano per la stabilità del circuito. Simulando lo schematico del pixel con SPECTRE,
che tiene conto di alcuni degli effetti parassiti, si è notato che, per un certo insieme
di parametri e per transienti della fotocorrente sufficientemente veloci o ampi il
pixel entra in oscillazione. L’analisi è supportata, oltre che dalle simulazioni
numeriche effettuate con SPECRTE, dalla verifica sperimentale riportata nel
capitolo 4. Per individuare le ragioni di queste oscillazioni si è studiato il
comportamento del circuito prima per piccoli e poi per grandi segnali. Nell’analisi
per piccoli segnali, si linearizza il circuito intorno a punti di lavoro differenti; si
studia la funzione di trasferimento al fine di individuare se i poli dovuti alle capacità
parassite introducono una rotazione di fase tale da portare il circuito in oscillazione.
Nell’analisi per grandi segnali, s’introducono gli effetti dovuti alle non linearità e
l’analisi si sposta dal dominio della frequenza a quello del tempo.
3.2.1 Analisi in AC per piccoli segnali
L’analisi della funzione di trasferimento in AC ha senso unicamente in un contesto
puramente lineare. Il pixel è invece un circuito completamente non lineare con
punto di lavoro variabile. Fissando un determinato punto di lavoro e pensando di
stimolare il circuito con piccole variazioni della fotocorrente, è ragionevole andare a
studiarne il comportamento linearizzandolo attorno al punto di lavoro scelto. La
linearizzazione esclude dall’analisi in AC l’influenza delle non linearità del circuito
ma consente l’utilizzo di strumenti di analisi quali le funzioni di trasferimento.
Scopo di questa analisi è lo studio della stabilità del circuito per piccoli segnali in
relazione alle capacità parassite presenti.
62
Capacità parassite Sia il fotodiodo che i MOSFET presentano delle capacità parassite: il fotodiodo
porta con sé la capacità della regione di svuotamento, i MOSFET, in primo luogo,
la capacità di gate, alla quale bisogna aggiungere le capacità dovute alle diffusioni di
drain e source e, nel caso di pMOS quellapresente tra la well e il bulk. Tutte queste
capacità parassite dipendono dalle dimensioni e dalla polarizzazione dei dispositivi
[21]. Per i MOSFET polarizzati sottosoglia, la capacità parassita maggiore risulta
essere la capacità di gate.
Modello per la controreazione. Prima di procedere all’analisi numerica al simulatore della FDT del circuito, si
presenta il modello teorico per il ciclo di feedback. Il modello classico per un circuito
in controreazione è riportato in figura 3.4; A è il blocco diretto, B il blocco di
reazione,V , , , e V , rappresentano le variazioni dei segnali di ingresso,
uscita, feedback ed errore.
in outV fbV e
A
B Vfb
Ve vout Vin -
+
figura 3.4: schema classico per circuito in controreazione.
Il segnale di errore V è dato da e
fbine VVV −=
e la funzione di trasferimento del circuito è
63
)()(1)(
)()(
sBsAsA
sVsV
in
out
+= .
Il circuito è in reazione positiva se il denominatore risulta in modulo minore di 1.
Se 1)()( −=sBsA allora il circuito oscilla: in questo caso matematicamente si ha
che la FDT va in modulo all’infinito, ciò fisicamente corrisponde ad un circuito che
presenta un segnale di uscita Vout(s) diverso da zero anche se segnale di ingresso
è nullo. inV
Vfb
Vph
VoutIoff
Ion
M
Mon
M
M V
fb
off
pb
n
MC
D
figura 3.5: Schema elettrico del pixel. Sono evidenziate i blocchi corrispondenti allo schema classico della controreazione: in rosso il blocco diretto, in giallo quello di reazione e in verde il blocco di confronto.
64
Nel circuito del pixel è possibile individuare gli stessi blocchi dello schema classico
della controreazione. In figura 3.5, i colori evidenziano le corrispondenze: in rosso
il blocco diretto, costituito dai Mosfet Mn e Mp che formano l’amplificatore
invertente; in giallo il blocco di reazione, costituito dal ramo derivativo; in verde la
parte del circuito responsabile del confronto tra segnale di ingresso e il segnale
di feedback V . In questo caso il segnale di errore V , è legato al segnale di
ingresso e a quello di feedback dalla caratteristica sottosoglia di M
phI
fb ph
phI fbV fb. Lo
schema base di un MOS linearizzato è quello di un generatore ideale di corrente
controllato in tensione. In questa approssimazione è possibile scrivere
gsI
sVsV phfbph
)()()( −=
dove g è la transconduttanza di Mfb determinata dal punto di lavoro:
T
dc
UkI
g =
dove è la corrente stazionaria che scorre nel MOSFET nel punto di lavoro
scelto. La FDT del circuito risulta quindi essere pari a
dcI
−
−=)()(1
)(1)()(
sBsAsA
gsIsV
ph
out .
Il pixel linearizzato entra in reazione positiva se il denominatore della funzione di
trasferimento risulta in modulo minore di 1; entra in oscillazione se ,
ossia quando la FDT a ciclo aperto
1)()( =sBsA
)()()()(
sBsAsVsV
ph
fb =
65
risulta avere modulo pari a 1 e fase nulla. Quello che è interessante verificare al
simulatore SPECTRE è l’andamento di V , per controllare se fase e modulo
raggiungono i valori critici. Linearizzato il circuito attorno al punto di lavoro che
raggiunge adattandosi ad una fotocorrente di 1nA, la FDT a ciclo aperto ottenuta
con SPECTRE è riportata nel grafico seguente.
phfb V/
figura 3.6: FDT a ciclo aperto del circuito ottenuta linearizzando il circuito attorno al punto di lavoro che raggiunge per Iph=1nA
Essa presenta due poli e uno zero. La fase è pari a 180° per 0=ν Hz e tende a
diminuire al crescere di ν . Il circuito linearizzato risulta stabile per piccoli segnali
mantenendo un margine di fase di 90° circa. Il margine di guadagno è molto
elevato in quanto la fase non ruota fino al valore 0° se non per frequenze maggiori
di 1 GHz.
66
Capacità parassite e andamento della FDT Senza considerare le capacità parassite dei dispositivi, un andamento di questo tipo
sarebbe impossibile. La principale capacità parassita presente nel circuito è quella
dovuta alla zona di svuotamento del fotodiodo. Tale capacità dipende dalla
tensione di polarizzazione inversa e dalle dimensioni del diodo stesso.
Vph
VoutIoff
Ion
Vfb
ICIdarkIph+
Ifb
M
M
M V
fb
pb
n
Mon
offMC
CD
figura 3.7: schematico pixel con capacità parassite. La CD risulta essere la più influente sul ritardo del ciclo di feedback.
La tecnologia scelta, AMS 0.35µm, consente di disegnare tre diodi differenti.
Scegliendo il diodo che si forma tra una n-well e il bulk, i parametri di processo
indicano che la capacità parassita introdotta è dell’ordine di 0.08fF/µm2 di
superficie più 0.51fF per ogni µm del perimetro. Questo implica che per diodi
quadrati di dimensioni comprese tra 100 e 900 µm2 la capacità varia da 28.8 a 134.4
fF. Per quanto riguarda i MOSFET sottosoglia, le capacità parassite sono
dell’ordine di pochi fF/µm2. Più grandi sono i MOSFET e maggiore è la superficie.
67
I MOSFET più grandi utilizzati sono Mn e Mp che costituiscono l’amplificatore
invertente. Essi hanno canali di lunghezza superiore al µm. L’amplificazione è
infatti dovuta all’effetto Early che aumenta all’aumentare della lunghezza di canale.
Capacità parassita rilevante per il circuito è la capacità di Miller dell’amplificatore;
capacità che va a sommarsi alla capacità del fotodiodo. E’ possibile ridurre l’effetto
della capacità di Miller introducendo un MOSFET di dimensioni minime Mcas tra
Mn e Mp. In figura 3.7 riporto lo schema elettrico del circuito con le più importanti
capacità parassite esplicitate [24]. Il fotodiodo è pensato come un diodo normale
con in parallelo un generatore ideale di corrente. E’ possibile mantenere la stessa
descrizione a blocchi del circuito evidenziata in figura 3.4, pur di vedere la CD e la
capacità di ingresso dell’amplificatore come la capacità di ingresso del blocco
diretto e di includere in le capacità parassite del ramo derivativo. La
FDT a ciclo aperto diventa allora
)(sA )(sB
)()()()(
sBsAsVsV
ph
fb ′=
con
( )( )1 in
A sA ssτ
′ =+
dove gC
inD=τ . g è la transconduttanza di Mfb che varia al variare del punto del
punto di lavoro del MOSFET. Linearizzando il circuito intorno a punti di lavoro
differenti si ottengono FDT differenti. Nella figura 3.8 è graficata la FDT ottenuta
fotografando il circuito durante un transiente positivo per una scelta arbitraria dei
parametri.
Poli e zero si sono spostati ma i margini di stabilità sono ancora elevati. Una
mappatura dettagliata delle relazioni tra poli e zeri della FDT e capacità parassite
68
del circuito è un lavoro che richiede una gran quantità di tempo e che non
aggiungerebbe molto all’analisi; in tutte le situazioni in cui il circuito è stato
simulato, al variare dei parametri dei dispositivi, della e della V , le FDT
mantengono sempre ampi margini di fase e di guadagno. Più interessante è, a
questo punto, andare a studiare il comportamento del circuito per grandi segnali,
introducendo le non linearità proprie dei dispositivi.
phI b
figura 3.8: : FDT a ciclo aperto del pixel fotografato durante un transiente positivo della fotocorrente. Anche in questo punto di punto di lavoro, la FDT del circuito linearizzato mantiene ampi margini di fase e guadagno.
3.2.2 Analisi grandi segnali
L’analisi per grandi segnali tiene conto delle non linearità del circuito. Al
simulatore, l’analisi per grandi segnali, corrisponde all’analisi in transiente. Un
circuito lineare in controreazione necessita la presenza di un numero di poli
69
maggiore di due per poter entrare in oscillazione. Un circuito non lineare invece
può oscillare anche se la FDT del circuito linearizzato corrispondente presenta
meno di due poli. Sono le non linearità del circuito ad introdurre dei ritardi
all’interno del ciclo tali da trasformare la reazione negativa in positiva, e in alcune
situazioni, portare il circuito non lineare nello stato di oscillazione permanente.
Permanente nel senso che tale stato si dimostra robusto ad una variazione
successiva del segnale che lo ha generato. L’analisi in transiente dello schematico di
figura 3.1 è riportata nel grafico seguente.
figura 3.9: oscillazioni di Vout, Vfb e Vph per una variazione veloce della fotocorrente Iph. Il periodo dell’oscillazione è di circa 8µs.
70
Il grafico riporta la risposta nel tempo del pixel per una variazione veloce (50µs)
della fotocorrente corrispondente ad un contrasto del 50%. Il pixel entra nello
stato di oscillazioni permanenti. Variazioni della fotocorrente di questo tipo,
nei circuiti integrati reali, più che essere dovute a variazioni dell’irradianza possono
essere associate al rumore presente nel circuito e al crosstalk tra piste digitali e piste
analogiche. Variazioni della fotocorrente che avvengano dopo l’ingresso in
oscillazione non riportano il pixel alla stabilità. Studiare la stabilità del circuito
equivale a studiare la stabilità dell’equazione differenziale completa che ne descrive
il comportamento. Come è prevedibile questo non è un metodo d’indagine
facilmente percorribile. Nel seguito si riporta un’analisi qualitativa che descrive
l’influenza delle non linearità sui ritardi nel ciclo di feedback. Per prima cosa si dà
una descrizione dei ritardi dovuti alle non linearità del circuito in relazione alle
capacità C e C
phI
D (vedi figura 3.7). In generale si può dire che, per grandi segnali è
possibile considerare i MOSFET come interruttori, ossia approssimare la loro
caratteristica ad una caratteristica a gradino: a seconda del segno della V , i
MOSFET fanno scorrere una pari a
gs
DI 0min, ≈DI o a . Questa
approssimazione è sensata quando gli stimoli sono di ampiezza elevata. In pratica si
approssima il comportamento analogico dei MOSFET con quello digitale. I ritardi
introdotti dalle capacità parassite dei MOSFET, per scelte ragionevoli dei parametri
del circuito, sembrano, dalle simulazioni, incidere poco sulla dinamica del sistema.
max,DI
Ritardo dovuto alla capacità C.
Immaginando il ramo derivativo isolato (figura 3.10), si considera il caso in cui V
subisce una variazione a gradino
out
outV∆ all’istante 0=t . A seguito di ciò la V
varia secondo la legge:
fb
∫= dttiC
V fb )(1
71
dove la i è determinata dalla differenza V)(t fbout V− . La caratteristica dei mosfet
riportata in figura 2.2, indica che i varia esponenzialmente con la V
finché V dopodiché i aumenta in maniera quadratica.
)(t
(t
fbout V−
sogliafb VV <out − )
C
Ion
M
M
I
VV out
off
on
fb
off
figura 3.10: Ramo derivativo del fotopixel.
A seconda del valore delle costanti della caratteristica dei MOSFET, il ritardo con
cui V raggiunge V nel caso non lineare sarà maggiore o minore di quello che si
ha nel caso del corrispondente circuito linearizzato. Quello che si verifica al
simulatore per valori tipici dei parametri, è che, nel caso non lineare, il ritardo è
inferiore. Questo implica che passando dall’analisi per piccoli segnali in AC a quella
in transiente, il ritardo introdotto dalla capacità C diminuisce, cosa che dovrebbe
ridurre la tendenza all’instabilità del circuito. Ciò è vero finchè la dinamica di V
non è tale da raggiungere i limiti imposti dalle alimentazioni. Poiché V e V
sono limitati, esiste un valore massimo anche per la i che carica/scarica la C.
Quando si raggiunge tale limite allora la carica/scarica della C avverrà con
pendenza costante pari a i e il ritardo del circuito non lineare può diventare
maggiore del corrispettivo lineare.
fb out
out
fbout
maxi
C/max
72
Ritardo dovuto alla capacità parassita del diodo C D
Modellizzando il fotodiodo come riportato in figura 3.11, si ha che la tensione V
è determinata da
ph
)(tICV CDph =
con darkphfbC IIItI −−=)(
dove è la corrente che scorre nella capacità parassita, è la corrente di drain
di M
CI
I
fbI
fb, è la fotocorrente e è la corrente di perdita della giunzione
polarizzata inversamente, detta dark current.
ph darkI
CD IC
IdarkIph
figura 3.11: Schema elettrico per la modellizzazione del fotodiodo.
È possibile analizzare il comportamento del circuito in oscillazione ipotizzando
che, per i grandi segnali coinvolti, la sia o nulla, o pari alla massima possibile
. In questa approssimazione, la corrente che carica la C
fbI
max,fbI
fbI
D è la (se max,fbI
darkph II +>>max, ), la corrente che scarica la CD è darkph II + . La carica e la
scarica avvengono quindi a pendenza costante. Il risultato, durante le oscillazioni, è
l’andamento di V a dente di sega che si nota nel grafico di figura 3.9. Da tale ph
73
grafico è possibile evincere, nota la capacità parassita del diodo, la corrente di
scarica di CD che risulta dell’ordine del nA, pari alla fotocorente imposta. Tale
asimmetria tra tempi di carica e scarica è dovuta all’asimmetria della caratteristica di
Mfb, non considerata nell’analisi per piccoli segnali. Il ritardo introdotto dalla
capacità del fotodiodo, aumenta all’aumentare dell’ampiezza delle variazioni e al
ridursi della fotocorrente. Ritengo sia da associare a tale asimmetria la differenza in
ampiezza tra i picchi della e della durante le oscillazioni ( vedi figura 3.3). onI offI
Ingresso in oscillazione A questo punto rimane da capire come i tempi di ritardo introdotti dalle capacità
parassite riescano a far entrare il circuito in oscillazione. In questo paragrafo si
descrive, in modo qualitativo, l’idea base dell’ingresso in oscillazione.
CD
Ifb
Vfb
Vph
ICIdarkIph+
figura 3.12: schema elettrico del pixel logaritmico senza feedback con la CD esplicitata.
74
L’oscillazione ha inizio se, a seguito di una variazione phI∆ della fotocorrente, si ha
una diminuizione tale che fbI∆ phfb II ∆>∆ . Un tempo di ritardo τ troppo
elevato nel ciclo di feedback e/o valori troppo alti dell’amplificazione possono
portare alla condizione di ingresso in oscillazione.
A
Per comprendere il funzionamento della controreazione, si consideri dapprima il
comportamento nel tempo del pixel logaritmico semplice senza feedback,
presentato nel capitolo precedente, del quale se ne riporta lo schematico nella
figura 3.12.
Nello stato stazionario la V è costante e quindi la è nulla. Questo implica
. Se diminuisce bruscamente, allora aumenta altrettanto
bruscamente, cresce e
ph CI
fbdarkph III =+
phV
phI CI
fb pV hV − diminuisce. Il processo si ferma quando la
differenza fbV pV h− impone una pari al nuovo livello di . torna
nuovamente a zero e un nuovo livello stazionario è raggiunto. Durante il transiente
la V rimane costante.
fbI phI CI
fb
Circuito con feedback
Nel circuito con il feedback la V non è più costante (vedi figura 3.7). La
controreazione fa variare la V in modo da contrastare la variazione della . Se la
si riduce bruscamente di al tempo t
fb
fb
∆
CI
phI phI 0t= , allora la diventa pari a
e V inizierà ad aumentare. (vedi figura 3.13). All’aumentare di V ,
diminuisce secondo la legge 3.8, e V segue V . Il ritardo con il quale V
reagisce ad una variazione di V è indicato in figura 3.13 con τ. L’effetto del
feedback tende a ridurre la differenza
)( 0+tIC
phI∆ ph ph outV
fbfb out
ph
phfb V−V , a diminuire la differenza
e quindi la . darkI ph I−fbI − CI
75
Il raggiungimento di un nuovo stato stazionario è possibile perché una riduzione
della rallenta la salita della V che frena la discesa di V e V . Le derivate
delle curve che descrivono l’andamento nel tempo di V , V e V si riducono
progressivamente fino a diventare nulle. A questo punto,
CI ph out
out
fb I
fb
fb
I
ph
I darkph += e si ha il
nuovo stato stazionario. Grazie al feedback quest’ultimo è raggiunto in un tempo
inferiore a quello impiegato dal pixel senza controreazione.
τ t
Iph
Vfb
Vph
Ifb
figura 3.13: Andamento di principio di tensioni e correnti nel passaggio da uno stato stazionario ad un altro.
Lo stato stazionario viene raggiunto anche nel caso in cui intersechi la ma
gli andamenti siano tali da non generare, dopo l’istante t
fbI
dt
phI
I in cui si intersecano, una
IC maggiore della IC iniziale generata dalla variazione della fotocorrente. In questo
caso il circuito raggiunge il nuovo stato stazionario dopo alcune oscillazioni. Negli
istanti immediatamente successivi a , si ha che It )(tI IC + ha segno opposto
della . Gli andamenti di principio relativi a questo situazione sono riportati
in figura 3.14.
)( 0+tIC
76
L’entrata in oscillazione si ha se esiste un istante Itt >′ tale che .
Ciò significa che il circuito ha amplificato la variazione iniziale e andrà a cadere
nello stato di oscillazione permanente. In figura 3.15 sono riportati gli andamenti di
principio relativi a questa situazione.
)()( 0+>′ tItI CC
Quanto esposto trova riscontro nei grafici ottenuti in simulazione. In figura 3.17 si
riportano gli andamenti delle correnti , e nel momento di ingresso in
oscillazione. La ha un andamento a gradino, la la segue con un certo
ritardo e poi la interseca generando una nuova variazione della tale da portare
in oscillazione il fotopixel.
phI fbI CI
phI fbI
CI
Vph
Vfb
Iph
Ifb
tτ
figura 3.14: Andamenti di principio di tensioni e correnti nel passaggio da uno stato stazionario ad un altro raggiunto dopo poche oscillazioni.
In figura 3.16 viene riportato l’andamento temporale di , e per un
transiente lento. Mentre nella trattazione fin qui svolta, per chiarezza espositiva, si è
phI fbI CI
77
fatto riferimento ad una variazione a gradino della fotocorrente, in figura 3.16 la
passa da un livello stazionario all’altro attraverso una rampa. Il fotopixel, in
questo caso, riesce, dopo un primo intervallo di tempo, ad inseguire correttamente
la . Durante gli istanti iniziali, il circuito riadatta i suoi parametri in maniera
sufficientemente veloce da non entrare in oscillazione. Il nuovo stato stazionario,
nel quale i valori di tensioni e correnti del fotopixel sono tutti nuovamente costanti è
raggiunto unicamente dopo che la raggiunge il suo nuovo livello stazionario.
phI
I ph
phI
Vph
Vfb
Iph
Ifb
tτ
t/t0
figura 3.15: Andamenti di principio per tensioni e correnti nel passaggio da uno stato stabile ad un o stato oscillante.
78
figura 3.16: rafico di Iph Ifb e IC in condizioni di buon funzionamento.
figura 3.17: grafico di Iph, Ifb e IC in ingresso in oscillazione.
79
τ, A e stabilità Da una prima analisi numerica si scopre che, detto r il tempo di salita della
fotocorrente, esiste un r tale che per C Crr < il circuito entra in oscillazione. Se si
agisce sui parametri del circuito in modo da diminuire τ e A, dove τ è il tempo di
ritardo con cui V reagisce a variazioni di V , diminuisce. Questo concorda
con l’analisi qualitativa esposta sopra. Riducendo τ, infatti, diminuisce la variazione
fb ph Cr
)()0( τphphph VVV −=∆
e, di conseguenza, la ∆ . Semplificando al massimo gli andamenti, la può
essere scritta come
fbV fbV∆
phfb VAV ∆−≈∆
Diminuendo τ o , si riduce, quindi, la variazione della indotta dal feedback,
aumentano i tempi per il raggiungimento del nuovo stato stazionario ma si riduce la
tendenza all’oscillazione.
A fbI
Fissato quindi un certo transiente della , nel piano A-τ è possibile individuare
regioni di stabilità e regioni di instabilità. Le simulazioni svolte non campionano
tutto il piano A-τ. Indicano però un intorno stabile dell’origine. Il confine di questa
regione è definito dalla relazione che lega τ ad A. Relazione in cui intervengono sia
il punto di lavoro che tutti i parametri, forma e dimensioni, dei dispositivi. Questo
se si rimane a livello di schema elettrico, se si passa al layout su silicio, oltre a forma
e dimensione occorre tener presente anche le capacità parassite che variano a
seconda della posizione relativa dei dispositivi. L’influenza qualitativa dei vari
parametri su A e τ viene descritta nel capitolo 5. Sebbene non sia stata effettuata
phI
80
una campionatura completa dello spazio dei parametri, ragionevolmente ci si
aspetta che tanto più grande è e tanto più ampia è la regione stabile intorno
all’origine. Passando dalla pendenza del segnale con cui si stimola il circuito al
simulatore, al rumore del circuito reale (rumore intrinseco, rumore dovuto alle
alimentazioni o al crosstalk), la zona di stabilità sarà tanto più estesa quanto più
ridotta è, utilizzando il linguaggio dei circuiti lineari, la “frequenza di taglio” del
circuito. Il controllo sulla larghezza della “banda passante” del circuito si ha tramite
la tensione V che regola l’amplificazione A. Se A aumenta ci si sposta verso la
regione di instabilità e, contemporaneamente, come descritto dalla 2.15, si allarga la
“banda passante” del pixel. Variando la V si passa quindi dalla zona stabile a quella
instabile. è l’unico parametro del pixel che può essere variato sulla retina
sottoposta a misure. Il capitolo successivo riporta i risultati dei test sperimentali che
sembrano confermare l’analisi qualitativa qui esposta.
Cr
b
b
b
V
81
4. RETINA, SETUP E MISURE
La retina descritta in [4] risulta per lo più una scatola nera. Il draft [7] è
probabilmente la documentazione più ampia che si ha sul tipo di fotopixel utilizzato
nella retina. L’architettura generale di quest’ultima, è riportata nel paragrafo 4.1. La
retina costituisce però l’unico punto di partenza che il laboratorio in cui ho lavorato
possiede per lo studio e la realizzazione di circuiti integrati ottici con fotopixel
logaritmici. Per la verifica dell’analisi riportata nel capitolo precedente si è deciso di
sottoporre la retina a test sperimentali. Per effettuare le misure è stato assemblato
un apparato che consentisse di operare in condizioni di luminosità controllata. Il
setup costruito (figura 4.3) è un banco ottico compatto a tenuta di luce, consente
una buona messa a fuoco e la regolazione dell’ingrandimento. Ospita ad una
estremità la retina e all’altra estremità una sorgente luminosa. Attraverso le misure
eseguite si è riusciti a riconoscere due delle sette uscite di test, ad evidenziare i
problemi dovuti all’arbitro e all’interazione tra i pixel, e ad individuare la natura
periodica dei segnali provenienti dai pixel anomali. Quest’ultimo risultato,
conferma, con tutta probabilità, l’analisi del pixel logaritmico riportata nel capitolo
precedente. Nel seguito vengono descritti la retina testata, l’apparato sperimentale e
le misure effettuate.
82
4.1 Retina artificiale La retina sottoposta a misure e sommariamente descritta in [4] è costituita da una
matrice 48x48 di pixel senza interazione reciproca. Ciascun pixel è costituito da un
fotopixel [7], da due neuroni integra e impulsa [11][12] e da una parte di circuiteria
digitale per il trasferimento del segnale all’esterno della matrice. Il fotopixel codifica il
contrasto temporale dell’irradianza su due canali separati uno per gli aumenti, l’altro
per le diminuzioni della luminosità. I neuroni traducono i livelli analogici delle
correnti in uscita dal fotopixel in treni di spike.
arbitro
Matrice ottica
pixel
Bus AER di uscita
figura 4.1: struttura di principio del prototipo di retina testata sperimentalmente
La circuiteria digitale che si occupa della trasmissione all’esterno del pixel degli spike,
segue il protocollo di comunicazione AER. L’interesse teorico di questa retina sta
nel cercare di comprendere come i treni di spike prodotti codifichino l’informazione
83
relativa alle discontinuità luminose presenti nell’immagine. La documentazione
relativa a questo prototipo di retina è, a dir poco, misera e il progettista è purtroppo
morto poco tempo fa. È sorta quindi la necessità di recuperare la conoscenza alla
base di questo circuito integrato che, per il gruppo in cui ho lavorato, rappresenta
l’unico punto di riferimento per il progetto di nuovi sensori ottici neuromorfi.
Dalla documentazione che ci è giunta, non si ricava molto di più della struttura di
principio del prototipo (figura 4.1). In figura 4.2 riporto lo schema elettrico del
pixel. Non si ha la certezza che sia l’esatto schema elettrico del pixel della retina: ce
ne sono giunti più d’uno. Ognuno con piccole differenze rispetto agli altri.
Ciascuna versione dello schema elettrico riporta dimensioni dei dispositivi anche
molto diverse tra loro. Lo schema base riprodotto in figura 4.2 è però comune a
tutti i disegni di cui siamo in possesso.
Parte digitale
Neuroni integra e impulsa fotopixel
figura 4.2: : schema elettrico del pixel: a sinistra vi è il fotopixel, al centro i due neuroni integra e impulsa per la traduzione dei livelli analogici in treni di spike, a destra la parte di circuiteria digitale necessaria per il ciclo di handshaking con l’arbitro.
84
La parte a sinistra è il fotopixel, al centro vi sono i due neuroni, in alto quello del
canale on, in basso quello del canale off, e a destra vi è la circuiteria necessaria per
la trasmissione degli spike. Di seguito si riporta una breve descrizione delle parti che
compongono la retina.
Fotopixel L’elemento centrale di questo chip ottico è il fotopixel. Esso svolge una prima
elaborazione dello stimolo luminoso fornendo tre segnali in uscita. Un segnale è
una tensione proporzionale al logaritmo dell’irradianza (segnale che non viene
sfruttato nella retina), gli altri due sono due correnti che codificano il contrasto
temporale: una, la , è attiva durante i transienti positivi (aumenti) dell’irradianza,
l’altra, la , durante quelli negativi. Tutti i segnali interni al fotopixel sono analogici
e l’elaborazione dello stimolo luminoso avviene sfruttando la caratteristica
sottosoglia dei mosfet impiegati.
onI
offI
Neuroni e AER Ogni pixel della matrice ospita due neuroni integra e spara [12][13], uno “eccitato”
dalla e l’altro dalla . Se la ( ) supera la soglia impostata dalla tensione
, la capacità (C ) inizia a caricarsi. Se la tensione ( r ) supera un
certo livello, attiva un ciclo di handshaking tra il pixel e la parte digitale del circuito
esterna alla matrice ottica. Ciclo che porta all’emissione di uno spike e si conclude
con la scarica della capacità (C ) di soma del neurone. Una descrizione
dettagliata del funzionamento del ciclo di handshaking è riportata in [4]. I treni di
spike emessi sono impulsi digitali separati da intervalli di tempo analogici. Questa
modalità di comunicazione viene chiamata, nell’ambito dell’hardware neuromorfo,
AER (Address-Event Representation): nel momento in cui si presenta l’evento, lo spike,
sul bus di uscita viene caricato l’indirizzo del neurone che ha generato l’evento.
L’AER è un protocollo di comunicazione in frequenza. L’informazione è codificata
dagli intervalli di tempo interspike (ISI, Inter Spike Interval). I pixel utilizzati in questa
onI offI
off
onI
on
offI
off
thrV onC onr off
C
85
retina consentono di utilizzare al meglio la capacità del canale di uscita. Solamente i
pixel che hanno qualcosa da comunicare chiedono l’accesso al bus esterno.
Situazione completamente differente rispetto alla scansione per righe e colonne
impiegata nei circuiti integrati convenzionali. I treni di spike che viaggiano sul bus
esterno sono solamente quelli provenienti dai pixel che rivelano variazioni
dell’intensità luminosa.
Arbitro I pixel della matrice sono completamente indipendenti e nessun segnale di busy
viene comunicato ai vari neuroni nel caso in cui uno di essi stia emettendo lo spike,
ossia caricando il bus esterno con un codice che lo identifica. Un sistema di
selezione tra neuroni in competizione per l’accesso al bus è necessario. La parte
circuitale che opera tale selezione viene detta arbitro. L’arbitro sceglie a quale
neuroni accordare l’accesso al bus AER in base ai tempi di presentazione delle
richieste di accesso. I neuroni che non vengono selezionati non vengono scaricati e
rimangono in attesa di poter emettere lo spike. Nella sua architettura base il
processo di arbitraggio procede confrontando a due a due le richieste di accesso dei
vari neuroni in uno schema a “eliminazione diretta”. Gli elementi in competizione,
in questo schema, sono pari al numero dei neuroni. La retina di J. Krämer, invece,
sfrutta un arbitraggio per righe e colonne al fine di ridurre gli elementi in
competizione e di velocizzare la scelta [4]. Il tempo richiesto dall’arbitraggio è
chiaramente un parametro fondamentale nella dinamica del circuito. L’arbitraggio
per righe e colonne introduce degli effetti di accoppiamento tra i pixel appartenenti
ad una stessa riga o colonna. L’accesso al bus di riga o colonna non avviene, infatti,
secondo una logica three-state e i neuroni di una stessa riga o colonna, s’influenzano
a vicenda. Tali interazioni causano distorsioni nel segnale di uscita della retina.
86
4.2 Apparato sperimentale Per effettuare le misure abbiamo realizzato un apposito apparato sperimentale.
Esso si compone di una sorgente di luce e di una parte opto-meccanica sulla quale
viene montata la retina; La sorgente di luce è costituita da un led ad alta intensità
luminosa pilotato in corrente, mentre la parte opto-meccanica è un banco ottico
compatto a tenuta di luce. Il setup di test è completato dalla scheda PCI-AER [5]
montata su PC che consente l’acquisizione degli spike generati dalla retina. La parte
opto-meccanica consente di focalizzare sulla retina un fascio luminoso di intensità e
diametro controllati. Di seguito è riportata una breve descrizione delle singole parti
e i risultati dei test preliminari di funzionamento.
figura 4.3: Apparato sperimentale, parte opto-meccanica a tenuta di luce. Le guide rigide e le viti micrometriche consentono l’allungamento dei due soffietti. Al centro è posizionato l’obiettivo, all’estremità sinistra è montato il sensore del radiometro, a quella destra il supporto della sorgente luminosa collegata alla scheda LED-DRIVER [27].
87
4.2.1 La parte opto-meccanica
É stata realizzata riadattando un soffietto per macrofotografia della Hasselblad. Il
sistema è composto da un obiettivo, Hasselblad CF planar da 80mm, e da due
soffietti telescopici a tenuta di luce. Un soffietto collega l’obiettivo alla sorgente
luminosa; l’altro l’obiettivo alla retina. Sorgente luminosa e retina sono alloggiati in
appositi raccordi fissati alle estremità dei soffietti. Guide rigide, scale millimetrate e
viti micrometriche consentono l’allungamento dei due soffietti e quindi il controllo
delle distanze lente-oggetto e lente-retina s s′ .
La regolazione di e permette la messa a fuoco e il controllo approssimativo
dell’ingrandimento lineare dello spot luminoso
s s′
TM
ssMT′
= . 5.1
Approssimativo in quanto non sono note le posizioni dei piani principali
dell’obiettivo dalle quali misurare e s s′ . Posizioni che variano con la messa a
fuoco. Per una messa a fuoco fine si possono poi utilizzare i movimenti
dell’obiettivo stesso. La possibilità di aumentare s′ consente di diminuire la
distanza minima di messa a fuoco , e di ridurre così i problemi di allineamento e
tenuta alla luce. e sono infatti legate dall’equazione per lenti sottili alla quale è
possibile ricondurre il nostro caso facendo uso della nozione di lunghezza focale
equivalente
s
s s′
sfs ′
=+111 5.2
dove f è la lunghezza focale equivalente dell’obiettivo ( f = 80mm). Il supporto della
retina è stato progettato in modo da poter sostituire la retina o con carta satinata, o
con il sensore di un radiometro. La carta satinata consente di verificare la messa a
fuoco, l’allineamento del sistema, e di misurare le dimensioni dello spot luminoso sul
88
piano della retina. Il radiometro permette di avere una misura della potenza
radiante del fascio luminoso sullo stesso piano. Con queste due informazioni è
possibile ricavare facilmente l’irradianza E, misurata in W/m2, sul piano della
retina. Tra l’obiettivo e il soffietto anteriore, all’interno di un apposito raccordo, è
possibile inserire una lente convergente Proxar da 1m di focale. La lente, così
sistemata, riduce la lunghezza focale complessiva dell’ottica e consente quindi una
messa a fuoco a distanze ancora minori.
4.2.2 Sorgente di luce e filtri
Per illuminare la retina si è fatto uso di un led ad alta intensità luminosa pilotato in
corrente dalla scheda Led-Driver [27]. Regolando la tensione VLED della scheda, è
possibile controllare linearmente la quantità di corrente che scorre nel led e quindi
la potenza radiante della sorgente luminosa. La caratteristica corrente-potenza
radiante del led è, in prima approssimazione, lineare. Il modulo Led-Driver,
progettato per i test preliminari dell’esperimento AUGER., consente inoltre di
accendere e spegnere il led fino alla frequenza di 10 MHz senza incorrere in
significativi overshoots [27]. Con questo sistema, pilotando il segnale VLED con un
generatore di forme d’onda, si sono realizzati i test e le misure riportate nel seguito.
Per poter variare l’intensità luminosa su più ordini di grandezza si è reso
indispensabile l’utilizzo di filtri neutri attenuatori da 1 e 2 densità ottiche. La densità
ottica è così definita:
out
in
II
OD log= 5.3
dove Iin è l’intensità del raggio incidente e Iout è l’intensità del raggio trasmesso. Ci si
è serviti, inoltre, di un filtro in PVC bianco dello spessore di 0.5 mm per rendere la
sorgente luminosa il più uniforme possibile. Caratteristica questa fondamentale per
le misure effettuate. La retina è sensibile alle variazioni di luminosità, se il fascio di
luce non fosse sufficientemente uniforme, vibrazioni dell’apparato sperimentale
89
causerebbero risposte della retina alle disuniformità del fascio. Utilizzando il filtro
in PVC e posizionando l’apparato su materiale antivibrante, si è raggiunta la
condizione in cui, mantenendo il fascio luminoso ad intensità costante, la retina
non genera segnali in uscita. Per ottenere una sorgente luminosa di dimensioni
note, di fronte al filtro in PVC è stato posto un quadrato in PVC nero,
completamente opaco, con al centro un foro di diametro noto.
4.2.3 Acquisizione dati
Per l’acquisizione degli spike prodotti in uscita dalla retina, si è fatto uso della
scheda PCI-AER montata su un PC e del relativo software. Tale scheda, permette
l’interazione tra il PC e un sistema interconnesso di più chip AER [5]. La PCI-AER
integra varie funzioni di controllo e monitoraggio. Collegata alla retina ha permesso
la visualizzazione grafica degli spike emessi (figura 4.4): quando un pixel della retina
emette uno spike, sullo schermo del PC, un punto di una matrice 48x48 si illumina.
Gli spike provenienti dai due canali, on e off, sono visualizzati
contemporaneamente su due matrici distinte. Tale visualizzazione permette il
controllo delle dimensioni dello spot luminoso, della messa a fuoco e
dell’allineamento dell’apparato. La PCI-AER, inoltre, associa ad ogni spike un
tempo di emissione, consentendo l’analisi off-line. I livelli analogici delle uscite di test
sono invece stati acquisiti tramite tester da tavolo e oscilloscopio. Per la misura
della potenza radiante del fascio luminoso si è utilizzato un apposito radiometro.
90
figura 4.4: Visualizzazione grafica degli spike emessi dalla retina illuminata con uno spot luminoso lampeggiante. Il riquadro a sinistra si riferisce agli spike emessi sul canale off, quello a destra al canale on. Lo spot luminoso reale è quello in basso, quello in alto è dovuto agli effetti di interazione tra pixel descritti nel testo.
4.2.4 Test preliminari
L’apparato è stato sottoposto a test preliminari per il controllo dell’allineamento e
della tenuta alla luce. In tutte le configurazioni in cui è stato utilizzato il livello di
potenza radiante misurato a led spento è risultato inferiore a 15nW. Lo stesso
valore che il radiometro riporta con sensore ottico otturato. La tenuta alla luce
dell’apparato è più che sufficiente per gli scopi che ci prefiggiamo. Il problema
maggiore che si è presentato durante le misure riguarda l’allineamento di led, ottica
e retina/radiometro. Cambiando i filtri l’allineamento viene spesso compromesso e
risulta difficile effettuare misure precise su un range molto ampio di potenza
radiante. Riducendo a 1,1 mm il diametro della sorgente luminosa, e utilizzando il
filtro in PVC bianco, è stato possibile focalizzare l’immagine del led su 4 pixel della
retina 48 x 48. Senza il filtro in PVC, per basse potenze radianti, il fascio risulta
non completamente uniforme, con una zona centrale più intensa. Sfruttando ciò e
aumentando al massimo è stato possibile fare in modo che solo uno dei pixel
della retina emettesse spike. Questo ha consentito la verifica sperimentale
dell’interazione tra pixel distanti.
s
91
4.3 Le misure Le misure effettuate sulle retine 48 x 48, avevano lo scopo di verificare le ipotesi
formulate in fase di simulazione. In particolare intendevano controllare se il segnale
proveniente dai pixel più rumorosi nel canale off fosse di tipo periodico. Il setup
sperimentale ha inoltre permesso il riconoscimento di due delle sette uscite di test e
l’acquisizione di maggiori informazioni sui problemi legati all’arbitro e
all’interazione tra i pixel. Lo studio sperimentale delle retine 48 x 48 ha fornito un
primo punto di riferimento per lo sviluppo e il disegno di nuovi chip ottici. I
risultati ottenuti sono di seguito riportati.
4.3.1 Misura
Prima di procedere alla misura occorre mettere in posa il setup sperimentale e
disegnare la curva di calibrazione della sorgente luminosa. Per mettere in posa il
setup si sceglie approssimativamente il numero di pixel che si desidera illuminare
durante la misura e, di conseguenza, si fissa il fattore di ingrandimento MT. Noti MT
e la lunghezza focale dell’obiettivo f, è possibile, utilizzando la 5.1 e la 5.2, ricavare
dei valori indicativi di e . La messa a fuoco definitiva e il controllo del numero
dei pixel illuminati è possibile grazie alla visualizzazione grafica on-line dei pixel che
emettono spike. Nel seguito si farà riferimento alle posizioni B e C del sistema di
test:
s s′
posizione B: posizione C:
=′=
cm 3.9cm 0.31
ss
=′=
cm 17cm 7.13
ss
Messa in posa la parte opto-meccanica, occorre disegnare la curva di taratura VLED-
irradianza per la posizione scelta. In questa fase il sensore del fotometro viene
sostituito alla retina. Date le dimensioni della sorgente di luce, 1.1 mm di diametro,
e le potenze in gioco, le calibrazioni sono state effettuate senza l’utilizzo dei filtri
neutri attenuatori. Per ricavare i livelli di irradianza in presenza di un filtro neutro, si
92
è poi fatto uso della curva di attenuazione propria del filtro. In posizione B la curva
ottenuta è la seguente:
LED calibration
0
500
1000
1500
2000
2500
0,00 0,20 0,40 0,60 0,80 1,00 1,20 1,40 1,60 1,80 2,00
Vled (V)
E (W
/m^2
)
figura 4.5: curva di taratura della sorgente luminosa VLED-irradianza per l’ottica in posizione B.
Sull’asse delle ordinate è riportata l’irradianza E, ottenuta moltiplicando la potenza
radiante misurata, per l’area che lo spot luminoso ha sul piano della retina. Il
diametro dello spot è stato misurato osservandolo al microscopio. Tale misura
soffre di un errore sistematico. Il grafico ottenuto potrebbe quindi avere una
“pendenza” non corretta. Questo non inficia però i risultati delle misure poiché,
più che al range assoluto di variabilità delle grandezze misurate, si era interessati al
loro andamento al variare dell’irradianza su più ordini di grandezza. In altre parole,
i grafici costruiti a partire da questa curva di taratura soffrono di un problema di
offset sull’asse dell’irradianza che non compromette, però, le conclusioni a cui si
93
giunge. Il grafico è stato interpolato con due rette dalle quali sono stati ricavati i
valori dell’irradianza durante la misura. L’andamento vicino alla linearità favorisce il
controllo di piccole variazioni di luminosità tipiche di una scena uniformemente
illuminata.
4.3.2 Riconoscimento delle uscite di test
La retina presenta 7 uscite di test; dalla documentazione non è chiaro a quali segnali
tali uscite siano collegate. Dagli schematici sembra che due di esse derivino da un
pixel interno alla matrice 48 x 48, mentre le altre cinque provengano da quattro pixel
fuori matrice. Per quanto ne sappiamo, questi quattro pixel sono completamente
differenti da quelli interni alla matrice.
uscite di test
0,00
0,20
0,40
0,60
0,80
1,00
1,20
1,40
1,60
1,80
2,00
1,0E-01 1,0E+00 1,0E+01 1,0E+02 1,0E+03 1,0E+04
E (mW/m^2)
(V)
33 2OD34 2OD33 1OD34 1OD3334
figura 4.6: risposta in tensione delle uscite di test associate ai pin numero 33 e 34. Le curve sono relative alla risposta a livelli stazionari di irradianza E. Le sfumature di colore differenti si riferiscono a filtri ottici differenti da una o due densità ottiche (1 o 2 OD, Optical Density). (Gli errori sono più piccoli dei simboli).
94
J. Kramer li aveva inseriti per testarli per la prima volta. Di essi nessuna
documentazione ci è giunta. I segnali provenienti, invece, dal pixel interno alla
matrice sembrano essere molto interessanti: gli schematici lasciano pensare che
questi due punti di test corrispondano alle net V e V . Per verificarlo si è
controllata la loro risposta a livelli stazionari. I risultati sono riportati in figura 4.7:
in ascissa è riportata l’irradianza E in mW/m
out fb
2; in ordinata le tensioni misurate sui
pin numero 33 e 34, in Volt. Nel grafico, i dati relativi all’uscita 33 sono riportati in
arancione, quelli della 34 in blu. Per realizzare la misura si è fatto uso di filtri neutri
attenuatori da 1 e 2 densità ottiche (1OD e 2OD): le sfumature del colore indicano
quale filtro era montato. La sostituzione dei filtri ha causato il disallineamento del
setup sperimentale e, di conseguenza, per ciascuna uscita, la sovrapposizione delle 3
tracce non è completa.
Si riesce in ogni caso ad individuare un andamento logaritmico su più di tre ordini
di grandezza. Per livelli di irradianza elevati il pixel sembra entrare in saturazione.
0,00
0,50
1,00
1,50
2,00
2,50
0,00 0,50 1,00 1,50 2,00 2,50 3,00 3,50
Vb (V)
(V)
33 (V)34 (V)
figura 4.7: andamenti delle tensioni delle uscite di test 33 e 34 al variare della Vb. (Gli errori sono più piccoli dei simboli)
95
Andamenti di questo tipo sono compatibili con quelli delle tensioni V , V e out ph fbV
riportati nel draft [7] e ritrovati in simulazione non solo per la tendenza logaritmica
ma anche per quel che riguarda il range di variazione. Per distinguere quali tra queste
tre tensioni sono le due misurate si è proceduto a misurarne gli andamenti al variare
della . Il grafico ottenuto è riportato nella figura 4.7. Confrontando gli
andamenti misurati con quelli trovati al simulatore, si evince che le uscite di test 33
e 34, con tutta probabilità, corrispondono alle tensioni V e V rispettivamente.
bV
out ph
L’analisi del comportamento dinamico sembra avvalorare la suddetta ipotesi.
Associare queste uscite di test a V e V permette di avere delle prime
indicazioni sul range di irradianza di buon funzionamento di fotopixel di questo tipo
nonché sul fattore di guadagno dell’amplificatore invertente interno al pixel. In altre
parole, tale misura ci consente di avere una prima idea delle situazioni in cui questi
pixel possano essere utilmente impiegati in HAPTIC.
out ph
4.3.3 Interazione tra pixel e arbitro
Questa parte è dedicata alla documentazione dei curiosi fenomeni di interazione
osservati tra pixel. Come già visto nelle osservazioni preliminari, in certe condizioni,
gli stimoli presentati vengono riprodotti dalla retina come se l’ottica introducesse
alcune riflessioni. In particolare uno spot luminoso lampeggiante viene riprodotto
come se fosse un otto (figura 4.4).
L’ipotesi iniziale di associare queste riflessioni all’ottica e a problemi di messa a
fuoco è stata scartata: utilizzando tre ottiche differenti e variando per ognuna
fuoco, diaframma e allineamento, le riflessioni continuavano a presentarsi sempre
nello stesso modo. Anche utilizzando il setup costruito, che integra un’ottica di alta
qualità con una buona capacità di messa a fuoco, le riflessioni continuano a
presentarsi sempre uguali. Se ne deduce che esse devono originarsi all’interno del
96
circuito integrato stesso a causa di fenomeni di crosstalk o interazione tra pixel. Un
altro fenomeno che si è potuto evidenziare grazie all’apparato sperimentale
costruito, è il formarsi di una sorta di onde circolari (figura 4.8), su entrambi i
canali. Esse si originano nel punto in cui è focalizzato il led per poi allargarsi
proprio come le onde generate da un sasso tirato in uno stagno.
figura 4.8: sequenza di immagini successive raffiguranti l’espansione delle “onde” che la retina genera come risposta ad uno spot luminoso che lampeggia a 0,9 Hz.
Tale comportamento è particolarmente evidente in posizione B se si sceglie di
accendere (VLED=1.047 V) e spegnere (VLED= 0 V) il led alla frequenza di 0.9 Hz. I
malfunzionamenti qui descritti rendono completamente inutilizzabile la retina in
HAPTIC in quanto alterano in modo irrecuperabile lo stimolo visivo.
Sono stati eseguiti dei test per cercare di comprendere meglio l’origine di tali
riflessioni. In primo luogo si è cercato di focalizzare il fascio luminoso sul minor
numero possibile di pixel. Il led, acceso e spento ad alta frequenza, rende possibile
tale operazione; le dimensioni minime dello spot luminoso, sul piano della retina,
sono tali da illuminare quattro pixel. Sfruttando però la disuniformità del fascio, più
intenso al centro che ai bordi, mantenendo VLED su bassi livelli e aumentando al
massimo , si riesce ad illuminare un solo pixel. Fissato quindi l’apparato nella
posizione trovata, è stata fatta variare V
s
LED. Man mano che la potenza radiante del
fascio aumenta si ha la comparsa delle riflessioni. Sulla stessa colonna, ma una
ventina di pixel più in alto rispetto al pixel illuminato, compare il segnale dovuto ad
un altro pixel, non illuminato. Una qualche interazione tra questi pixel è necessaria.
L’interazione potrebbe essere dovuta a fenomeni di crosstalk tra le piste metalliche
97
o all’architettura dell’arbitro. Quest’ultimo è progettato per arbitrare separatamente
righe e colonne [4] ma non è sviluppato in logica three-state. Questo causa
sicuramente dei problemi d’interferenza tra pixel appartenenti alla stessa riga o alla
stessa colonna.
Canale off (2.5s < t < 3.5s)
5 10 15 20 25 30 35 40 45
5
10
15
20
25
30
35
40
45
Canale on (3s < t < 4s)
5 10 15 20 25 30 35 40 45
5
10
15
20
25
30
35
40
45
Canale off (3.5s < t < 4.5s)
5 10 15 20 25 30 35 40 45
5
10
15
20
25
30
35
40
45
Canale on (4s < t < 5s)
5 10 15 20 25 30 35 40 45
5
10
15
20
25
30
35
40
45
figura 4.9: analisi off-line degli spike emessi. Lo spot luminoso lampeggiante alla frequenza di 1 Hz illumina in modo uniforme l’angolo in basso a sinistra della retina. Si nota che lo spot non è riprodotto dalla retina in maniera uniforme. Molti pixel non emettono spike. Fenomeno da associare all’interazione tra pixel causato dal crosstalk e/o dall’architettura dell’arbitro.
98
Per valutare meglio queste forme d’interferenza tra pixel la retina è stata
illuminata con uno spot uniforme e lampeggiante, guidato da un’onda quadra
alla frequenza di 1Hz. Tale frequenza ha reso possibile separare gli effetti della
transizione on da quelli della transizione off. Una parte dello spot illumina
l’angolo in basso a sinistra della retina. Gli spike acquisiti sono stati analizzati off-
line con Matlab; Nelle immagini seguenti sono stati riportati in nero i pixel che
hanno emesso spike durante l’intervallo di tempo specificato.
Lo spot non è riprodotto in maniera uniforme; un congruo numero di pixel non
ha emesso spike. Cause possibili di quanto osservato potrebbero essere
fenomeni di crosstalk, accoppiamenti tra pixel o perdita di spike nel processo di
arbitraggio a causa dell’eccessiva velocità del fronte di salita dello stimolo. A
tutto questo c’è da aggiungere il problema del mismatch tra i vari pixel. Test
simili, svolti con l’ottica in configurazioni differenti e spot luminosi di
dimensioni diverse, hanno dato risultati del tutto analoghi. L’origine dei
problemi riscontrati non è ancora compresa in dettaglio. Un’analisi accurata del
crosstalk tra le piste metalliche del layout, data la misera documentazione, sembra
essere fuori luogo. Per quanto riguarda invece i problemi legati all’arbitro,
questo è argomento interessante che però esula dagli scopi di questa tesi.
4.3.4 Analisi spike da pixel anomali:
Come evidenziato dalle prime osservazioni qualitative sulle retine, la presenza di
pixel anomali è uno dei problemi di questo prototipo. Dal momento in cui il
circuito integrato viene acceso, alcuni dei suoi pixel iniziano ad emettere
ininterrottamente spike. Alzando la soglia V questi treni di spike spariscono,
naturalmente ma unicamente a costo di sopprimere anche il segnale
proveniente dagli altri pixel. Risultato dell’analisi svolta al simulatore è l’ipotesi
che i treni di spike anomali siano dovuti ad oscillazioni che si innescano
thr
99
all’interno del fotopixel. Secondo tale ipotesi i treni di spike emessi da questi pixel
dovrebbero essere periodici. La misura effettuata mira a verificare tale ipotesi.
L’ottica è stata sistemata in posizione C, così da illuminare il sensore ottico in
modo uniforme. Si è verificato che oscillazioni dell’apparato sperimentale non
influissero sulla misura. In queste condizioni, in teoria, nessun pixel dovrebbe
emettere spike a meno di non abbassare la V a livelli tali da leggere le
variazioni termiche delle dark current. Tuttavia alcuni pixel continuano ad
emettere spike anche quando la soglia raggiunge valori di funzionamento
normale, ossia intorno a 0.22 V. Fissata V a 0.222 V, il circuito integrato è
stato stimolato con un fascio luminoso di intensità costante. I treni di spike
emessi sul canale off sono stati acquisiti e analizzati off-line con Matlab. Per
ciascun pixel, poi, la distribuzione in frequenza degli intervalli temporali tra gli
spike (ISI, Inter Spike Interval) è stata valutata. Questa analisi è stata ripetuta per
diversi livelli di irradianza. In tutti i casi è stato possibile individuare una
componente periodica del segnale. Nei grafici di figura 4.10 riporto la
distribuzione degli ISI per due tra i pixel considerati in tre diverse condizioni di
illuminamento differenti. Ogni pixel, a livello hardware, è contraddistinto da un
indirizzo esadecimale a 4 cifre che codifica la posizione e il canale su cui sta
sparando. I pixel in questione sono i numeri 2428 e 1606. Ogni grafico prende
in considerazione un campione di circa 200 spike emessi sul canale off; in ascissa
vi è la frequenza, in ordinata il conteggio del numero degli ISI che
appartengono alla classe di frequenze considerata.
thr
thr
100
pixel 2428, VLED = 0.8 V, senza filtri
150 200 250 300 350 400 450 500 550 600 6500
10
20
30
40
50
60
70
80
Frequency (Hz)
pixel 2428, VLED = 1.0 V, filtro PVC bianco
250 300 350 400 450 500 550 600 650 7000
10
20
30
40
50
60
Frequency (Hz)
pixel 2428, VLED = 0.3 V filtro PVC bianco
150 200 250 300 350 400 450 500 550 600 6500
10
20
30
40
50
60
70
80
Frequency (Hz)
pixel 1606, VLED = 0.8 V senza filtri
30 40 50 60 70 80 90 1000
5
10
15
20
25
30
35
Frequency (Hz)
101
pixel 1606, VLED = 1.0 V filtro PVC bianco
o60 65 70 75 80 85 90 95 100 105
0
5
10
15
20
25
Frequency (Hz)
pixel 1606, VLED = 0.3V filtro PVC bianco
30 40 50 60 70 80 90 100 1100
5
10
15
20
25
30
35
40
Frequency (Hz)
figura 4.10: Distribuzione in frequenza degli ISI relativi a treni di spike provenienti da 2 pixel anomali sotto 3 livelli diversi di irradianza. Ogni grafico si riferisce ad un campione di circa 200 spike emessi sul canale off.
Andamenti simili si ritrovano per gli altri pixel rumorosi. Ognuno di essi sembra
oscillare ad una particolare frequenza che non varia in modo significativo al variare
dell’irradianza. Tali risultati confermano l’ipotesi di spike periodici ma non
forniscono informazioni sull’origine di questi segnali.
A questo scopo si è controllato l’effetto delle variazioni delle tensioni di bias della
retina sui pixel rumorosi. In particolare si è notato che aumentando il valore di V il
numero dei pixel rumorosi aumenta in modo rilevante fino a saturare la capacità di
lettura degli spike della scheda PCI-AER. Tale bias controlla il fattore di guadagno
dell’amplificatore invertente interno al fotopixel. Aumentando V , aumenta
l’amplificazione. Sembra logico dedurne che, aumentando l’amplificazione, si
riducano i limiti di guadagno e di fase critici della funzione di trasferimento a ciclo
aperto del fotopixel linearizzato. È, quindi più facile che il pixel entri in oscillazione. Il
b
b
102
fatto che solo alcuni pixel tendano a rimanere in oscillazione anche a basse V è da
imputare alle fluttuazioni dei parametri di MOSFET, diodi e capacità dovuti al
processo produttivo come evidenziato nell’analisi statistica riportata nel capitolo 5.
Si è inoltre cercato di verificare, come trovato in simulazione, se i pixel rumorosi
emettessero treni di spike periodici su entrambi i canali. Tale prova è però tutt’altro
che agevole a causa dell’asimmetria intrinseca del circuito e delle regolazioni globali
e comuni ad entrambi i canali. Non si riesce, infatti, ad ottenere una situazione in
cui i pixel rumorosi emettano alla stessa frequenza su entrambi i canali. Situazione
prevedibile tenendo conto che l’ampiezza delle oscillazioni di I
b
off in simulazione è
maggiore di quella delle oscillazioni di Ion. E che vi è da tener presente la variabilità
del fattore di guadagno degli specchi di correnti che amplificano le Ion e Ioff.. Dai
treni di spike acquisiti regolando al meglio la retina si nota che vi sono alcuni pixel
che emettono sia sul canale on che sull’off ma a frequenze anche molto differenti.
Interpretare tali dati non è per nulla semplice a causa della mancanza di punti di
test opportunamente studiati. La lettura degli spike avviene attraverso l’arbitro, che,
come visto, introduce esso stesso un certo numero di problemi ancora da studiare e
comprendere.
4.3.5 Conclusioni
Le misure effettuate hanno permesso il riconoscimento di due uscite di test, hanno
rilevato i problemi di interazione e mismatch tra i pixel ed evidenziato una certa
periodicità nel segnale proveniente dai pixel anomali. Quanto trovato concorda con
l’analisi teorica e numerica riportata nel capitolo precedente. Per ottenere maggiori
informazioni sui problemi che caratterizzano la retina si rende però necessaria la
progettazione di un nuovo circuito integrato che fornisca un maggior numero di
segnali di test e che abbia controlli di soglia per il canale on separati da quelli per il
canale off. Questo è lo scopo del lavoro riportato nel capitolo 5 che, a partire dalla
conoscenza acquisita da analisi e test sperimentali propone un primo progetto
VLSI del fotopixel. Da sottolineare è il fatto che i problemi relativi all’arbitro
103
potrebbero anche essere dovuti alla continua richiesta di accesso al bus AER da
parte dei pixel anomali. Il tentativo di cura di questi pixel sembra necessario se si
vuole migliorare l’efficienza di circuiti integrati di questo tipo.
104
5. PROGETTO
Le misure sperimentali sembrano avvalorare l’analisi teorica svolta. Si procede
quindi al progetto circuitale. In questo capitolo si sceglie un insieme di parametri
per il pixel e si disegna il layout del circuito. Si riportano inoltre i risultati di un’analisi
statistica svolta per controllare il comportamento del circuito al variare dei
parametri di fabbricazione quali, ad esempio, spessori degli ossidi, densità di
drogaggio o dimensione delle maschere. Elementi che la fonderia non è in grado di
mantenere costanti durante la fabbricazione dell’intero circuito integrato. La
variabilità dei parametri di fabbricazione è caratterizzata da una serie di
distribuzioni gaussiane fornite dalla fonderia. L’analisi statistica Monte Carlo è il
mezzo migliore a disposizione per valutare che influenza abbiano i mismatch tra
dispositivi sui segnali d’uscita. L’analisi fornisce una prima stima dell’uniformità di
risposta di una matrice di pixel. Non tiene però conto della variabilità dell’efficienza
quantica η dei fotodiodi. La realizzazione di un primo circuito integrato ottico è a
questo punto necessaria per poter acquisire esperienza e conoscenza su questo tipo
di sensori. Nel paragrafo 5.3 si riporta il disegno del layout del pixel. Primo passo
verso la realizzazione di un sensore ottico VLSI neuromorfo.
105
5.1 Scelta parametri I risultati dei test sperimentali mostrano la validità dell’analisi qualitativa sviluppata
nel capitolo 3. Si procede quindi alla scelta di un insieme di parametri tali da
garantire i requisiti minimi per HAPTIC.
5.1.1 A, τ e layout
Strategie di analisi I parametri che è possibile controllare a livello di layout sono dimensione, posizione
e forma di MOSFET, diodo e capacità. Variando questi parametri il circuito
diventa più o meno stabile. Ogni parametro, in genere, influisce in maniera
articolata sul circuito. Rimanendo a livello dello schema elettrico, i parametri che
possono essere variati sono una ventina. Passando al layout occorre aggiungere le
capacità e le resistenze parassite. Una campionatura numerica dell’intero spazio dei
parametri richiede una gran quantità di tempo. Campionatura che non è detto sia
significativa se oltrepassa un certo livello di precisione. Lo studio numerico viene
infatti svolto al simulatore, e non è noto con che approssimazione i modelli che
esso utilizza corrispondano a realtà. Il simulatore, ad esempio, non considera gli
effetti della diffusione della fotocorrente nel bulk. La fotocorrente viene aggiunta a
livello di schema elettrico attraverso un generatore ideale di corrente in parallelo ad
un normale diodo. Una campionatura dettagliata dello spazio dei parametri
potrebbe quindi non avere significato. Di seguito vengono date delle indicazioni su
come, variando determinati parametri, varino τ e A.
Il diodo e Mfb La capacità CD è uno dei parametri che ha maggiore influenza sulla stabilità del
circuito. Riducendo CD, τ diminuisce e, anche se aumenta la pendenza iniziale di
, dalle simulazioni effettuate si nota una riduzione diphV Cr . Dove con r si indica
il tempo di salita critico della variazione della fotocorrente (vedi §3.2.2). Abbassare
C
C
D significa ridurre le dimensioni del fotodiodo e quindi la costante di
proporzionalità tra irradianza e fotocorrente. Il limite basso di intensità luminosa
106
rilevabile si sposta verso l’alto. Il limite alto rimane fissato dal valore massimo della
tale da tenere MfbI fb sottosoglia. Il range di irradianza entro cui il pixel funziona
correttamente, quindi, si riduce. Diminuendo le dimensioni del diodo aumentano
inoltre i problemi di mismatch tra pixel differenti e il risultato è un aumento del
FPN. Variare il rapporto W/L di Mfb fa variare l’offset tra V e e traslare il
range logaritmico della caratteristica di M
fb phV
fb rispetto all’asse delle correnti. Ciò non
sembra incidere in maniera significativa su . Cr
fb onI
ampI
bV
L’amplificatore invertente Una diminuzione della lunghezza di canale dei MOSFET Mn e Mp riduce sia le
capacità parassite, sia l’amplificazione A. Questo favorisce la stabilità del circuito
ma diminuisce la variazione di V e V fornendo così segnali e più
piccoli. Minori sono le ampiezze dei segnali in uscita e più grande è il FPN nella
matrice dei pixel. L’effetto finale sulla risposta della retina è l’aumento del contrasto
minimo rilevabile in maniera sufficientemente uniforme. Ridurre l’ampiezza delle
variazioni dei segnali riduce il ritardo
out offI
τ del feedback, e, viceversa, la riduzione di τ
implica la chiusura più veloce del feedback e un controllo maggiore sulle variazioni
dei segnali. Variando la tensione di controllo V è possibile controllare la corrente
che scorre all’interno dell’amplificatore e, conseguentemente, il fattore di
guadagno . Se V diminuisce aumenta e si riduce. L’aumento di
porta alla riduzione dei tempi di ritardo dovuti alle capacità parassite di M
b
A b ampI A ampI
n e Mp.
è una tensione di bias e può essere variata dall’esterno del circuito integrato.
Risulta quindi un parametro di controllo importante per la regolazione del pixel.
Il ramo derivativo Aumentando il rapporto W/L di Mon e Moff, aumentano i fattori preesponenziali
e delle rispettive caratteristiche. Le correnti e crescono più
rapidamente e
0onI 0offI onI offI
τ si riduce. Al simulatore l’effetto è una maggiore stabilità ma
107
minor ampiezza dei picchi di e . Variando il valore della C entro i limiti
sensati per una realizzazione in VLSI del circuito, non si nota una variazione
significativa di r .
onI offI
C
conclusioni Modificare i parametri del circuito in modo da evitare l’ingresso in oscillazione del
pixel per segnali sempre più veloci significa renderlo stabile per uno spettro di
rumore sempre più esteso ed ampio. L’aumento della stabilità del circuito
comporta però una riduzione del range di irradianza di buon funzionamento,
variazioni dei segnali di uscita più ridotte e l’aumento del FPN. È tuttavia possibile
scegliere un insieme di parametri tale da soddisfare gli scopi per i quali il circuito
integrato è progettato. Una prima scelta sensata, ai fini non solo di HAPTIC,
sembra essere quella riportata nello schema elettrico di figura 5.1. Il circuito
comprende il MOSFET Mcas. Esso riduce gli effetti della capacità di Miller
dell’amplificatore invertente. L’insieme dei parametri scelto garantisce variazioni dei
segnali di uscita e range di buon funzionamento sufficientemente ampi. Per
variazioni della fotocorrente in 300µs corrispondenti a contrasti del 50% si hanno
variazioni delle correnti in uscita di circa 100pA. Correnti che possono essere
“specchiate”, amplificate e utilizzate per caricare le capacità di soma dei neuroni. La
durata dei transienti ai quali il pixel reagisce correttamente è compatibile con gli
scopi di HAPTIC.
108
mµmµW=0.8
L=0.4
mµ
mµ
mµ
mµ
mµ
mµmµ
L=0.4W=0.4
µm
W=0.4L=3
W=0.4mµ
mµ
L=0.4W=0.4
mµ
W=0.8L=0.4 mµ
mµ
L=1.5
W=0.4L=0.4
mµW=0.4L=0.35
C=400fF
A=400 mP=72.8 m
µ 2
µ
Mcas
figura 5.1: schema elettrico completo con i parametri scelti. I due MOS sopra e sotto il ramo derivativo non perturbano il circuito: leggono le correnti Ion e Ioff e le traducono in una tensione. Sono i master degli specchi di corrente [9] che prelevano la Ion e la Ioff.
109
5.2 Analisi statistica Il circuito integrato completo sarà una matrice quadrata di pixel. Ciascun pixel è
costituito da un fotopixel, da due neuroni e dalla circuiteria digitale necessaria. Per
avere una prima stima della non uniformità di risposta sulle uscite del fotopixel, se ne
studia il comportamento al variare dei parametri di fonderia. Ciò è possibile grazie
all’analisi Monte Carlo. I risultati di questa analisi sono delle distribuzioni statistiche
di parametri scelti per valutare le uscite del fotopixel. Le distribuzioni ottenute non
tengono in considerazione la non uniformità di risposta alla luce dei fotodiodi,
ossia della dispersione dei valori dell’efficienza quantica η . Questo semplicemente
perché il simulatore non possiede modelli di fotodiodi ma unicamente modelli di
diodi. Diversi valori di η implicano diversi valori di . Grazie alla logica
derivativa del pixel, tali differenze si riflettono in maniera logaritmica unicamente
sul punto di lavoro del circuito (vedi § 3.1.1) e non incidono direttamente sulla
risposta al contrasto. Se la variazione di
phI
η fosse di pochi punti percentuali, la sua
influenza sulla risposta al contrasto risulterebbe trascurabile rispetto alla variabilità
indotta dalle dispersioni degli altri parametri costruttivi. È normale ritrovare
caratteristiche di mosfet nominalmente uguali che differiscono in realtà per più del
30%. La dispersione dei parametri è dovuta a variazioni locali delle caratteristiche
del silicio; ridurre la distanza tra dispositivi non ha quindi influenza. Anche la retina
biologica è costituita da un gran numero di elementi con problemi di mismatch.
L’interazione tra essi, però, consente alla retina di mantenere un’elevata uniformità
di risposta. L’analisi statistica svolta è pensata come punto di riferimento e
confronto per i test sperimentali sul circuito integrato reale.
5.2.1 Stato stazionario
L’istogramma di figura 5.2 mostra la distribuzione dei valori delle nello stato
stazionario. Il valore della al quale il pixel viene fatto adattare, è stato variato da
onI
phI
110
10pA a 1µA e i risultati sono tutti accumulati nello stesso istogramma. In ascissa
sono riportati i valori delle correnti, in ordinata i conteggi.
figura 5.2: dispersione della Ion nello stato stazionario.
I valori rimangono inferiori ai 3pA, correnti che determinano una soglia per il
valore minimo di contrasto rilevabile. Per contrasti dell’ordine del 50% che
avvengano in mezzo millisecondo, si ottengono correnti già molto maggiori.
Correnti dell’ordine dei 3pA sono naturalmente eliminate dal meccanismo a soglia
del neurone. Retine costituite da matrici di questi pixel, quindi, interpretano
correttamente anche immagini con forte contrasto spaziale, capacità che non
hanno i circuiti integrati convenzionali. È la logica derivativa del pixel che consente
di raggiungere tale risultato.
Altro parametro che si vuole tenere sotto controllo è la variazione
dell’amplificazione . Pixel con fattori di guadagno molto elevati hanno, a causa A
111
del rumore, alta probabilità di entrare in oscillazione. I risultati ottenuti per due
valori differenti di V , 2.2V e 2.4V, sono riportati in figura 5.3. b
A
phI
figura 5.3: dispersione di A per tre valori diversi di Vb e per Iph che varia da 10pA a 1uA
Le distribuzioni di ci assicurano che, diminuendo il valore di V , il limite alto
della distribuzione scende. Le distribuzioni di mostrano inoltre come sia
possibile che, all’interno del circuito integrato, vi siano alcuni pixel che entrano in
oscillazione più facilmente di altri e che il numero di tali pixel cambi al variare di
. Questo coincide con i risultati delle misure riportati nel capitolo precedente.
b
A
bV
5.2.2 Transienti
In figura 5.4 si riporta la dispersione dei valori massimi che raggiunge la Ion a seguito
di transienti della di durata pari ad 1ms e corrispondenti a contrasti dell’80%.
112
figura 5.4: dispersione picchi della Ion per variazioni, in 1ms, della fotocorrente corrispondenti a contrasti dell’80%. Analoghi risultati si ottengono per la Ioff
Si nota una grossa variabilità dei picchi della , come se pixel differenti reagissero
a contrasti differenti. Risultati analoghi si ottengono per la . Questo causa una
perdita di informazione tanto più alta quanto più larga è la distribuzione, riducendo
la risoluzione analogica del sistema. Il risultato nell’uscita finale del circuito
integrato è una variazione nello spike rate dei neuroni appartenenti a pixel differenti.
La risoluzione analogica che richiede HAPTIC (vedi introduzione) è, attualmente,
molto ridotta. Gli attuatori meccanici o sono in posizione alta, o sono in posizione
bassa. Riuscire a rilevare la presenza o meno di una forte discontinuità
nell’immagine, per HAPTIC, è più che sufficiente. L’insieme dei parametri scelti, a
patto di una conferma sperimentale, sembra garantire la risoluzione di contrasto
necessaria ad HAPTIC su più di 5 ordini di grandezza della fotocorrente. Nel
paragrafo successivo viene riportato il progetto in VLSI del pixel.
onI
offI
Per aumentare l’uniformità della risposta del sensore ottico, credo che, oltre che
lavorare sul singolo pixel, si renda necessario aumentare il livello di complessità
dell’architettura dell’intero circuito integrato. La retina biologica presenta due strati
113
di elaborazione orizzontale del segnale, l’OPL e l’IPL (vedi capitolo 1) che mettono
in interazione i segnali provenienti da fotorecettori differenti. Tentativi in questo
senso sono già stati messi in atto su retine artificiali basate su un’altra tipologia di
pixel [1][28]
114
5.3 Il layout Il progetto VLSI di un circuito integrato si conclude con la trasmissione alla
fonderia del layout. Quest’ultimo è la traduzione su silicio degli elementi circuitali
riportati nello schema elettrico e permette alla fonderia di realizzare il circuito
integrato. Per il processo produttivo si faccia riferimento a [9]. Il layout è il disegno
tecnico di tutto ciò che andrà a costituire il circuito integrato: le aree di silicio
drogato, le zone ricoperte da polisicio, i punti in cui sono posizionati i contatti, il
disegno delle piste metalliche ecc.. Circuiti integrati con identico schema elettrico
possono funzionare o bruciarsi all’accensione, a seconda del disegno del layout. A
differenza dello schema elettrico la topologia del circuito è essenziale a questo
livello. Al fine di minimizzare l’ingombro su silicio, nel disegnare una singola parte,
occorre tener presente la geografia dell’intero circuito integrato. Lo schema base
della retina che si sta progettando è riportato in figura 5.5.
figura 5.5: struttura della matrice ottica della retina.
capacitàparte digitale
Parte analogica
fotodiodo
Bus AER
Arbitro
Matrice ottica
limite pixel
115
La matrice ottica è costituita dall’insieme dei pixel. Ciascuno di essi composto dal
fotopixel, dai due neuroni e dalla circuiteria digitale necessaria per la comunicazione
con l’arbitro (vedi figura 5.5). Gli elementi più ingombranti all’interno del pixel
sono il fotodiodo, l’ottagono verde in figura 5.5, e la capacità C del ramo
derivativo, l’ottagono viola. I MOSFET del fotopixel sono contenuti all’interno dei
quadrati azzurri insieme ai neuroni; lo spazio delimitato dai quadrati grigi è invece
riservato alla circuiteria digitale. In questa disposizione parti analogiche e parti
digitali sono sempre separate da una capacità o da un fotodiodo: si riducono così
gli effetti del crosstalk tra le due zone.
In figura 5.6 è riportato il layout del fotopixel: esso rappresenta la traduzione su silicio
dello schema elettrico di figura 5.1. Le distanze tra i vari elementi sono le minime
consentite dalla tecnologia. Le due grandi strutture ottagonali sono il fotodiodo, in
alto a sinistra, e la capacità C, in basso a destra. In basso a sinistra sono disegnati i
MOSFET. Il fotodiodo è costruito in verticale. La luce deve penetrare una sottile
zona di silicio prima di raggiungere la giunzione. La forma ottagonale consente di
minimizzare il rapporto area/perimetro e di ridurre le correnti di perdita dovute
principalmente ai confini del diodo. La forma è ottagonale e non circolare in
quanto la tecnologia consente solamente angoli multipli di 45°. L’area del diodo è
pari a 400µm2, il suo perimetro di 72.8µm. Stessi valori utilizzati in fase di
simulazione dello schema elettrico. Un ingrandimento della regione dei MOSFET è
riportato in figura 5.7.
116
figura 5.6: vista in pianta del layout del pixel. Le due grandi strutture ottagonali sono una, in alto a sinistra, il fotodiodo, l’altra in basso a destra, la capacità C. Gli altri elementi sono i MOSFET che costituiscono il fotopixel.
117
figura 5.7: Layout dei MOSFET costituenti il fotopixel. Nella zona in alto a destra sono raggruppati tutti gli nMOS presenti. In basso e sulla sinistra, all’interno delle well delimitate dal contorno arancione, vi sono i pMOS.
La tecnologia mette a disposizione quattro layer metallici sovrapposti e separati
dall’ossido di silicio; questi layer sono numerati dall’1 al 4 dal più basso al più alto.
In figura 5.7 sono visibili il metallo1 in blu e il metallo 2 in bianco. Essi vengono
utilizzati per le connessioni all’interno del pixel. Nel disegno si è cercato di ridurre
al minimo la sovrapposizione tra le piste metalliche, per diminuire gli effetti di
crosstalk tra il canale on e l’off. Il metallo 3 è stato scelto per portare ai pixel le
alimentazioni. Queste ultime utilizzano piste molto larghe che schermano i fotopixel
analogici dalle piste digitali disegnate nel metallo quattro. Ci si aspetta che tali
118
accortezze, insieme alla scelta dei parametri effettuata, riducano la tendenza
all’oscillazioni del pixel. I quadrati verde acqua, viola, arancione e giallo sono i punti
di contatto tra i vari metalli. I poligoni rossi rappresentano invece il polisilicio
fortemente drogato. Questo è utilizzato per formare il gate dei MOSFET ed è
separato dal silicio da un sottile strato di ossido; le zone verdi sotto il polisilicio
sono i canali dei MOSFET. Al fine di ridurre l’ingombro su silicio i MOSFET sono
stati raggruppati per tipo: quelli in alto a destra sono gli nMOS, in basso e a sinistra
vi sono invece i pMOS confinati all’interno delle well delimitate dai contorni
arancioni.
119
5.4 Idee di lavoro. Il layout di figura 5.6: è il primo passo verso la realizzazione del primo circuito
integrato ottico del gruppo. Tale circuito sarà una retina AER costituita da una
matrice di pixel indipendenti. É previsto che la retina sia suddivisa in quattro
quadranti, ognuno caratterizzato da un diverso layout dello stesso pixel. Questo
permetterà di valutare i pregi e i difetti delle diverse implementazioni. Sarà inoltre
possibile misurare le correnti di uscita di ciascun fotopixel grazie a un sistema di
scansione di tipo tradizionale. La ricchezza dei punti di test permetterà una
caratterizzazione sperimentale completa della retina. Fuori matrice sono inoltre
previsti fotodiodi e fotopixel da testare singolarmente. A seguito degli esiti delle
misure riportate nel capitolo 4, la forma e l’algoritmo funzionale dell’arbitro, sono
ancora argomenti di discussione.
120
CONCLUSIONI
Sensori ottici neuromorfi VLSI sono di grande interesse nell’ambito delle
neuroscienze; essi tentano di imitare alcune delle funzionalità delle retine biologiche
sfruttando una codifica dell’informazione luminosa basata sul contrasto. La
tecnologia CMOS VLSI permette la realizzazione di circuiti integrati che
contengano ciascuno elementi fotosensibili, parti analogiche e parti digitali. Questo
consente, ad un singolo circuito integrato, di tradurre il segnale luminoso in stimolo
elettrico, di effettuarne una prima elaborazione analogica e di trasmetterlo
all’esterno attraverso il protocollo AER. Una prima elaborazione dell’immagine per
l’estrazione delle discontinuità dell’intensità luminosa, è, secondo la teoria
computazionale della visione di Marr, il primo passo per la comprensione della
scena che si sta osservando. Studi di anatomia e fisiologia, hanno messo in luce che,
caratteristiche comuni ai vari campi recettivi delle cellule della retina, sono l’elevata
sensibilità al contrasto e l’ampio range di buon funzionamento. É possibile
distinguere sensori ottici convenzionali da sensori ottici neuromorfi proprio grazie
al fatto che i primi sono sensibili al livello assoluto di intensità luminosa, mentre i
secondi reagiscono a variazioni della luminosità, ossia al contrasto. Questo lavoro
di tesi analizza e riprogetta un fotopixel di un sensore ottico neuromorfo, partendo
da misure sperimentali di un prototipo di retina artificiale, e dalla misera
documentazione che la accompagna. Il lavoro presentato studia il comportamento
dinamico del fotopixel che, in certe circostanze, entra in oscillazione, e ne propone
un nuovo progetto VLSI. L’analisi di stabilità del fotopixel si articola in una prima
parte in cui si studia la funzione di trasferimento del circuito linearizzato e in una
seconda in cui si introducono gli effetti dovuti alle non linearità dei dispositivi. Lo
studio individua, nei ritardi introdotti dalla capacità parassita del fotodiodo, la causa
principale dell’instabilità. L’analisi di principio svolta trova conferma nelle
121
simulazioni numeriche. La proposta di progetto VLSI riportata sceglie un insieme
di parametri tali da garantire un ampio range di buon funzionamento. Si svolge
inoltre un’analisi statistica per il controllo dell’uniformità della risposta di pixel solo
nominalmente identici. Le fluttuazioni dei parametri propri del processo produttivo
del circuito integrato causano, nella realizzazione hardware, comportamenti
differenti per elementi circuitali in teoria identici. Nella fase di progetto occorre
tener presente tale problema. La scelta dei parametri effettuata garantisce, a livello
di simulazione, uniformità della risposta sufficiente agli scopi di HAPTIC.
Questo lavoro di tesi rappresenta, per il gruppo in cui ho lavorato, il punto di
partenza per la ricerca su sensori ottici neuromorfi. Sensori che saranno parte di
sistemi neuromorfi più complessi costituiti da retine artificiali e reti neurali hardware.
Sviluppi futuri di questo lavoro di tesi sono, in primo luogo, la progettazione VLSI
di una retina artificiale neuromorfa completa in grado di comunicare con le reti
neurali già realizzate dal gruppo. Essa sarà sottoposta a test sperimentali per la
verifica delle conoscenze acquisite con il presente lavoro di tesi; i risultati
permetteranno di progredire in questo appassionante campo di ricerca.
122
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125
126
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare la prof.ssa L. Zanello, il dott. G. Salina e il dott. P. Del Giudice,
per avermi offerto la possibilità di lavorare nell’ambito di un campo di ricerca di
grande interesse. Ringrazio D. Badoni, V. Dante e E. Petetti per l’aiuto e il
sostegno.
Ancora un grazie sentito a Davide, per avermi ospitato, sopportato, sostenuto e
aiutato durante tutto questo periodo di tesi. Grazie ai professori per la loro
pazienza ed elasticità mentale. E naturalmente grazie a Vittorio per i consigli e per
le chiacchierate in giro per Zurigo. Senza l’aiuto di Erminio poi il quarto capitolo
non esisterebbe. E per fortuna che Maurizio e Andrea stanno nella stanza accanto,
anche se in due edifici differenti, che altrimenti avrei impiegato il quadruplo con
Linux e Matlab. Di nuovo un ringraziamento a Gaetano per la tranquillità
psicologica che mi ha trasmesso durante le discussioni nel suo studio: c’è da
lavorare, ma ce la facciamo. Inoltre, un grazie generico a tutto il gruppo, per
l’incredibile disponibilità nei miei confronti. Mi va di ringraziare qui tutti quelli che
mi sono stati vicino durante questi anni di università a partire dagli amici di “casa”
Ale V. e gli alpaca, Vale, il Duca, Rocco a Novara, quei matti di Remo e Teo, Enri,
Lumi, Elena di AN, Giulia e tutti gli altri per il loro affetto, per le telefonate infinite
e per la gioia delle serate insieme; e poi grazie ai nuovi amici trovati a Roma, grazie
a Genio, Fabio, Tusino, Guzzo, il Bradipo, Michela, il Fiacco, Zampetti, Mario, e a
tutti gli altri dell’università, grazie perché mi hanno fatto sentire a casa. E infine un
grazie di cuore a Benedetta, per l’infinita pazienza e i calorosi abbracci.