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ANALISI NUMERO 24 - DICEMBRE 2015 L’OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA QUADRO CONCETTUALE DI RIFERIMENTO E ANALISI DELLA REALTÀ ITALIANA CENTRO STUDI

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ANALISI NUMERO 24 - DICEMBRE 2015

L’OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA

QUADRO CONCETTUALE DI RIFERIMENTO E ANALISI DELLA REALTÀ ITALIANA

CENTRO STUDI

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Centro studi intitolato a Ernesto Veronesi

Direttore: Paolo Gazzaniga

A cura di:

• Valeria Glorioso Centro Studi Assobiomedica – CSA

• Zineb Guennouna Centro Studi Assobiomedica – CSA

• Fabrizio Massaro Centro Studi Assobiomedica – CSA

• Veronica Tamborini Centro Studi Assobiomedica – CSA

• Alessandro Bacci TELOS CONSULTING – Università degli Studi di Siena

• Elena Giovannoni Università degli Studi di Siena

• Alida Nardiello TELOS CONSULTING

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INDICE

INTRODUZIONE 3

LA RIORGANIZZAZIONE DEGLI OSPEDALI PER INTENSITÀ DI CURA 51. PREMESSA 52. UNA PRIMA DEFINIZIONE 53. LE PRINCIPALI ESPERIENZE INTERNAZIONALI 74. L’OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA IN ITALIA 135. LE CARATTERISTICHE DELL’INTENSITÀ DI CURA 166. SINTESI 18

DISEGNO DELLA RICERCA 201. PREMESSA 202. OBIETTIVI CONOSCITIVI DELLA RICERCA 20

FASI DELLA RICERCA E SCELTE METODOLOGICHE 214. LA POPOLAZIONE DI RIFERIMENTO 215. IL CAMPIONE 226. IL QUESTIONARIO STRUTTURATO 237. LE DIMENSIONI DI ANALISI 258. L’ ANALISI DEI GRUPPI 289. SINTESI 29

RISULTATI DELLA RICERCA 301. PREMESSA 302. RISULTATI DEL CENSIMENTO 303. RISULTATI DELL’INDAGINE 334. RISULTATI DELL’ANALISI PER GRUPPI (CLUSTER) 475. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE 50

CONCLUSIONI 52

APPENDICE 56

QUESTIONARIO 57

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA 63

PUBBLICAZIONI DEL CENTRO STUDI ASSOBIOMEDICA 67

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Un sentito ringraziamento a tutti coloro i quali hanno collaborato alla realizzazione di questo lavoro di ricerca in virtù della loro professionalità, esperienza e della loro visione globale del processo di riorganizzazione dell’ospedale. In particolare si rin-graziano i direttori generali, direttori sanitari, dirigenti medici e dirigenti infermieristi-ci delle seguenti strutture ospedaliere:

Ospedali Riuniti di Pinerolo; Azienda Ospedaliera–Universitaria Maggiore della Carità di Novara; Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino; IRCCS San Raffaele di Milano; Istituto Clinico Humanitas di Rozzano; Azienda Ospedaliera “Istituti Ospitalieri” di Cremona; Azienda Ospedaliera Sant’Anna di Como; Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco; Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate; Azienda Ospedaliera Luigi Sacco di Milano; Azienda Ospedaliera Ospedale Civile di Legnano; Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate; Ospedale di Rovereto; Ospedale di Tione di Trento; Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona; Ente Ospedaliero Ospedali Galliera di Genova; Presidio Ospedaliero Val Tidone di Castel San Giovanni; Presidio Ospedaliero di Imola – Castel San Pietro; Azienda Ospedaliero Universitaria di Parma; Ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna; Ospedale Umberto 1° Lugo; Ospedale degli Infermi di Faenza; Nuovo Ospedale civile di Sassuolo S.p.a.; Presidio Ospedaliero di Riccione–Cattolica (Ospedale Ceccarini di Riccione e Ospedale Cervesi di Cattolica); Azienda Ospedaliera - IRCCS Santa Maria Nuova di Reggio Emilia; Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena; Azienda Ospedaliero–Universitaria e Azienda USL di Ferrara; Presidio Ospedaliero Zona Apuana di Carrara; Presidio Ospedaliero Piana di Lucca; Ospedali Riuniti di Pistoia; Ospedale Area Aretina Nord di Arezzo; Ospedale della Misericordia Grosseto; Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) di Siena; Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Università Senese; Ospedale Amiata Val d’Orcia di Abbadia San Salvatore; Ospedale dell'alta Val d'Elsa di Poggibonsi; Ospedali Riuniti della Val di Chiana.

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INTRODUZIONE

Il settore pubblico, ormai da anni, è oggetto di politiche mirate al suo completo rinno-vamento. A partire dagli anni Novanta, nel dibattito relativo alle teorie organizzative, hanno fatto irruzione concetti che fino ad allora erano dominio esclusivo del mondo imprenditoriale; la “nuova stagione” che ha preso il via ha avuto, infatti, nei concetti di efficienza, efficacia, economicità e qualità – per citarne alcuni – i suoi principi cardine.

Il mutamento dell’intero settore pubblico ha coinvolto anche il Sistema Sanitario Na-zionale (SSN) il quale, a partire dal D.lgs. 502/92, ha dovuto fare i conti con stru-menti, tecniche e metodi tipici dell’approccio aziendale. Tale novità normativa avreb-be richiesto un rapido adeguamento “culturale” che è, però, mancato: la risposta alla “aziendalizzazione” sancita dalla legge è stata, infatti, quella dei cosiddetti “tagli lineari” che, per quanto già difficilmente applicabili ai pubblici servizi in generale, sono palesemente inadatti in un campo come quello sanitario, dove il contenimento della spesa non può prescindere dal mantenimento della massima qualità della pre-stazione e dall’introduzione dell’innovazione tecnologica. A questo proposito biso-gna, inoltre, tenere in forte considerazione il fatto che l’attuale momento storico è ca-ratterizzato da fattori che difficilmente si conciliano con una revisione al ribasso della spesa sanitaria. In particolare, ci si riferisce qui: al progressivo invecchiamento della popolazione; ai mutamenti del quadro epidemiologico; all’esplosione dell’indice di cronicità delle patologie; al crescente ricorso a strutture ospedaliere per problemi non acuti; nonché, alla necessità di risorse per la ricerca scientifica e per l’innovazione tecnologica in campo sanitario che hanno permesso -- e permettono -- un miglioramen-to delle condizioni di vita della popolazione e un innalzamento della qualità delle prestazioni. Dunque, piuttosto che ragionare in termini di “riduzione dei servizi” è auspicabile che l’aziendalizzazione del SSN si traduca in una “riorganizzazione dei processi” in modo da rispettare i principi sopra citati e al contempo garantire la massima soddisfazione dell’utenza.

Per riorganizzare i processi, il settore sanitario pubblico può avvalersi di sistemi or-ganizzativo/gestionali nati in ambito manifatturiero che, se opportunamente conte-stualizzati, sono adattabili alle aziende sanitarie. Ne è un esempio il Lean Thinking, ispirato al modello di produzione della Toyota, che ha fatto la sua comparsa nel mondo sanitario circa dieci anni fa suscitando un forte interesse in varie istituzioni che si occupano di servizi sanitari. Infatti, è proprio nell’erogazione delle prestazioni in modo “snello”, suggerita dal Lean Thinking, che trova fondamento l’idea di nuovo ospedale, concetto che mette in discussione il tradizionale modello di cura centrato sulle divisioni e sulla “proprietà” delle risorse produttive da parte delle singole unità organizzative. In particolare, l’idea di nuovo ospedale si è concretizzata negli ultimi anni nella diffusione del modello “ospedale per intensità di cura”, tema centrale di questo lavoro, che in Italia è stato approfondito solo di recente, in alcuni contesti locali, ma non con respiro nazionale in un’ottica di sistema. Infatti, tutt’ora, mancano dati empirici per capire quanto e come si sia diffuso in Italia un modello di organizza-zione degli ospedali di questo tipo. Il nostro obiettivo è proprio quello di contribuire a colmare questo vuoto per comprendere più a fondo come e quanto l’intensità di cura sia diffusa in Italia.

Il presente lavoro è diviso in tre parti. Nella prima parte, viene introdotto il fenomeno della riorganizzazione degli ospedali per intensità di cura presentando il quadro con-

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cettuale di riferimento con attenzione alle esperienze internazionali e nazionali, utili a definire i tratti comuni dei diversi modi di interpretare e attuare l’organizzazione per intensità di cura. Nella seconda parte del lavoro viene delineato il disegno della ricerca. Qui vengono definiti gli interrogativi di ricerca, il quadro metodologico, gli strumenti e le tecniche utilizzate per raccogliere e analizzare i dati. La terza parte, infine, è dedicata alla presentazione dei risultati della ricerca a partire da quanto emerso dal censimento delle strutture sanitarie organizzate per intensità di cura a livello nazionale, per arrivare all’indagine empirica effettuata attraverso la sommini-strazione di interviste a un sottogruppo delle strutture censite.

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LA RIORGANIZZAZIONE DEGLI OSPEDALI PER INTENSITÀ DI CURA

1. PREMESSA

L’obiettivo di questa prima parte è quella di tracciare una definizione concettuale di ospedale per intensità di cura (IDC) e delineare un inquadramento teorico attraverso una rassegna della letteratura nazionale e internazionale. In particolare, nel secon-do paragrafo si darà una definizione di ospedale organizzato per intensità di cura partendo dai tratti principali di questo modello organizzativo. Nel terzo paragrafo si descrivono nel dettaglio le principali esperienze internazionali di organizzazione IDC, individuate attraverso l’analisi della letteratura, con l’obiettivo di tracciare i tratti comuni a tali esperienze e confrontarli con l’esperienza italiana. Nel quarto paragra-fo si descrive l’esperienza italiana in generale, con un breve sguardo alle declinazio-ni regionali dell’IDC. Nel quinto paragrafo si delineano le caratteristiche principali dell’IDC, i suoi punti di forza e di debolezza. Il sesto paragrafo, infine, è dedicato alle osservazioni conclusive.

2. UNA PRIMA DEFINIZIONE

Il modello assistenziale organizzato per intensità di cura è figlio dell’idea di “nuovo ospedale”, concetto che affonda le sue radici nel Lean Thinking (Womack e Jones, 2010), un modello di produzione tipico del contesto manifatturiero che ha fatto la sua comparsa nel mondo sanitario circa dieci anni fa, suscitando un forte interesse in va-rie istituzioni che si occupano di servizi sanitari. Nel campo della gestione dei servizi pubblici, più specificamente, Lean Thinking significa applicare un metodo scientifico alla programmazione, all’esecuzione e al continuo miglioramento delle proprie atti-vità. Lo scopo finale dell’applicazione di questo metodo dovrebbe essere quello di creare il maggior valore per gli utenti e per gli stakeholder. Nello specifico ambito sanitario, erogare prestazioni in maniera lean implica una valutazione del servizio erogato dal punto di vista dell’utente finale, il paziente, dedicando particolare atten-zione all’appropriatezza della prestazione erogata e all’eliminazione o alla riduzio-ne degli sprechi (Mazzocato et al.,2010; Jones e Mitchell, 2006). In quest’ottica, i bisogni del paziente assumeranno un ruolo centrale e tutte le attività della struttura/ospedale saranno ripensate in chiave di un’ottimizzazione dell’intero percorso assi-stenziale (Nicosia e Nicosia, 2008). Questo è il concetto chiave che guida i processi di riorganizzazione di questo tipo.

Alla luce di quanto detto, l’organizzazione per intensità di cura prende nettamente le distanze dalla comune corrispondenza organizzazione/specialità, tipica del modello organizzativo tradizionale (tabella 1). Il principio che guida questo modello è quello di garantire a ciascun paziente il livello assistenziale realmente corrispondente alle sue necessità. Secondo quest’approccio, infatti, i pazienti sono classificati in base ai loro bisogni assistenziali e, dunque, all’intensità di cura richiesta; viene così superata l’assegnazione del paziente ad una specifica disciplina (ortopedia, neurologia, car-diologia, etc.) o ad un singolo reparto. Eliminando la classica divisione in reparti, questo approccio condiziona, chiaramente, anche la collocazione dei pazienti all’in-terno dell’ospedale: questa avverrà non più sulla base della tradizionale destinazio-ne a uno specifico reparto, ma sarà fondata sull’assegnazione ad aree assistenziali

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omogenee per grado di intensità in base appunto ad un’opportuna valutazione del livello assistenziale richiesto (ad esempio: basso, medio, alto). Oltre che nell’organiz-zazione strutturale dell’ospedale (il c.d. layout), l’IDC richiede un forte cambiamento nell’organizzazione delle risorse umane poiché presume un’assoluta collaborazione e un approccio fortemente integrato tra le diverse figure professionali. Le caratteristiche di questo genere di processo di riorganizzazione sono diverse e, al fine di fornire un quadro sintetico del fenomeno oggetto di studio, prima di passare alle singole espe-rienze nazionali e internazionali, è utile delineare qui di seguito gli elementi principali comuni sia alle esperienze italiane di IDC sia a quelle internazionali:

a. centralità del paziente e dell’assistenza necessaria: mettendo il paziente al centro viene meno l’importanza della singola patologia che affligge il paziente mentre, al contrario, diviene centrale la gravità delle sue condizioni e del suo stato di salute complessivo per poter definire, in base a questo, l’intensità di cura richiesta (Van Walraven et al., 2010; Nardi et al., 2012);

b. cambiamento dei criteri per la classificazione del paziente: raggruppando i pa-zienti in base alla gravità delle loro condizioni (ad esempio: alta complessità, media complessità, bassa complessità) e, conseguentemente, sistemandoli in aree distinte della struttura ospedaliera, cambia il metodo di associazione dei pazienti all’interno della struttura (Fries e Cooney, 1985; Villa, Barbieri e Lega, 2009);

c. ripensamento logistico e strutturale dell’ospedale: con il superamento dell’artico-lazione per reparti differenziati per singola disciplina specialistica, a vantaggio di un’organizzazione in aree dedicate ad accogliere pazienti con il medesimo fabbisogno assistenziale, viene strutturalmente modificato l’intero ospedale (Chie-si e Boni, 2012);

d. cambiamento nello schema gerarchico delle risorse umane: il superamento del tradizionale modello medico-centrico, basato sull’Unità Operativa, grazie a un ri-pensamento dei meccanismi organizzativi e all’assegnazione di nuovi ruoli, porta alla perdita d’importanza dei ruoli legati ad una sola patologia (specialisti della singola disciplina) a vantaggio di nuove figure dedicate a seguire il paziente per l’intera degenza (come, ad esempio, le nuove figure del medico tutor, dell’in-fermiere tutor, del bed manager, del flow manager, dell’operations manager) (Pignatto, Regazzo e Tiberi, 2010);

e. condivisione delle pratiche e del sapere: il lavoro di team multidisciplinare e l’at-tivazione di spazi per il confronto interdisciplinare, sia per quanto concerne la pratica clinica sia relativamente alle dinamiche gestionali, può portare a vantaggi di tipo cognitivo, motivazionale, relazionale, organizzativo (Serpelloni, Simeoni e Aldegheri, 2002).

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Tabella 1 – Differenze tra modello tradizionale di ospedale e modello per intensità di cura

Dimensione Modello tradizionale Modello per Intensità di cura Strumenti

Patologia Monospecialistico Polispecialistico Completezza dei regimi di cura

Dimensione della struttura

Numero di letti Casi trattati Spazi in funzione dei casi trattati

Configurazione Funzione specialistica di reparto

Processo clinico-assistenziale Aree di diversa intensità assistenziale

Investimento Degenza Tecnologia, innovazione Elettronica sanitaria, infor-matica

Formazione Aggiornamento professio-nale

Ricerca e cultura sanitaria Sperimentazioni e sviluppo del sapere

Responsabilità Patologia ed esito Processo di cura Outcome

Controllo di gestione Unità Operativa Caso trattato Protocolli, profili

Fonte: Porfido E, 2009

3. LE PRINCIPALI ESPERIENZE INTERNAZIONALI

Quella che segue è una rassegna delle principali esperienze internazionali di orga-nizzazione per intensità di cura. Tra tutte le esperienze esistenti, sono state riportate quelle con la letteratura più ricca, in particolare vengono trattati due Paesi: Stati Uniti, Paese pioniere nella sperimentazione di schemi organizzativi riconducibili al modello di ospedale per intensità di cura; e Regno Unito, il Paese che per primo in Europa ha messo in partica i modelli per IDC.

L’IDC NEGLI STATI UNITI: PROGRESSIVE PATIENT CARE E CHRONIC CARE MODEL

Negli Stati Uniti l’organizzazione ospedaliera per intensità di cura si è tradotta princi-palmente in due schemi organizzativi con le proprie peculiarità: il Progressive Patient Care, adatto alla presa in carico di tutti i pazienti, e il Chronic Care Model, destinato in maniera specifica alla gestione dei pazienti cronici. Il primo modello, il Progressive Patient Care è un modello che ha origine negli anni Cinquanta, quando negli ospedali militari americani i pazienti gravemente malati venivano collocati in aree separate per allontanarli dai pazienti in grado di collaborare alla somministrazione delle proprie cure (self-care) (Irvine, 1963; Claussen, 1955). Data la longevità di questo schema organizzativo, i tentativi di darne una definizione sintetica sono stati vari (Abdellah e Strachan, 1959; Raven, 1962; Exton-Smith, 1962; DeVries, 1970); tuttavia il punto che accomuna tali definizioni è l’accento posto sul “raggruppamento sistematico dei pazienti in base al loro grado di malattia e dipendenza assistenziale” (Raven, 1962). In questo modello, infatti, i pazienti sono classificati secondo il grado di complessità che presentano con l’obiettivo di garantire il setting di cure più appropriato (Guarino-ni et al., 2013). Inoltre, una delle spinte verso questo sistema è stata proprio la ricerca di una migliore gestione dei dispositivi medici e dei servizi sanitari in base al bisogno di cura dei pazienti (Haldeman, 1959). Nella sua formulazione originale, il modello Progressive Patient Care prevede le seguenti unità assistenziali:

a. Intensive care: unità di cura intensiva in cui sono ricoverati i pazienti in condizioni critiche e che, proprio per questo motivo, necessitano di assistenza, osservazione e monitoraggio continuo. In questo livello assistenziale il personale infermieristico

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b. Intermediate care: unità di cura intermedia nella quale viene ricoverata la mag-gior parte dei pazienti (il 60-70% del totale di pazienti). I pazienti destinati a questa unità sono quelli non in pericolo di vita né in situazione di emergenza, ma che necessitano di assistenza infermieristica ordinaria e non intensiva (Fetter e Thompson, 1969). In questo livello assistenziale, i pazienti possono ricevere una alfabetizzazione sanitaria (health literacy)1 grazie alla quale possono acquisire consapevolezza del proprio stato di salute e comprendere quali sono i percorsi terapeutici per loro indicati (Kickbusch, 2001; Nutbeam, 2008).

c. Minimal care: questo livello si suddivide a sua volta in self-care, unità di tipo al-berghiero dove sono ricoverati i pazienti in grado di svolgere le attività quotidia-ne senza l’ausilio del personale infermieristico ai quali viene fornito quello di cui hanno bisogno per portare avanti il proprio percorso terapeutico; long-term care, unità di lungodegenza in cui i pazienti ricevono il supporto di operatori ausiliari che sono coordinati dal personale infermieristico (Weeks e Griffith, 1964).

d. Organized home care: livello assistenziale che si può definire “trasversale” in quanto travalica i confini della struttura ospedaliera poiché comprende l’assisten-za territoriale sociosanitaria e non interessa solo i malati ma l’intera comunità; infatti, quest’ultima, da un lato, è destinataria di campagne di prevenzione e promozione della salute, dall’altro, ha un importante ruolo attivo nel sostegno dei convalescenti (Van Dyke e Brown, 1972).

Il successo ottenuto dal Progressive Patient Care negli Stati Uniti si è tradotto in una larga diffusione di questo modello incentrato sulla concezione patient focused o care focused; talvolta, per adattarlo alle esigenze della singola struttura, è stato integrato con ulteriori livelli assistenziali, come Progressive Care Unit, High Dependency Unit, Subacute Care o Transitional Care e Continuative Care Unit. La Progressive Care Unit è un’unità dedicata alla somministrazione di cure a pazienti già stabili (in “step down” da cure critiche o in “step up” da reparti generali medico-chirurgici) per i quali è richiesto un monitoraggio elettrocardiografico e respiratorio attraverso interventi correlati e che necessitano di particolari dispositivi medici (come, ad esempio, pace-maker), cateteri arteriosi e sistemi di supporto ventilatorio non invasivo (Fitzpatrick, 2004). Tale unità è occupata anche da pazienti che devono seguire un programma accurato di alfabetizzazione sanitaria in vista dell’assistenza domiciliare o di un au-mento dell’intensità delle cure. Passando alla High Dependency Unit, essa si può de-finire come un’unità appartenente all’ambito delle cure intermedie in cui sono trattati i pazienti che necessitano di un continuo monitoraggio, ma non della ventilazione meccanica; qui, il grado di dipendenza del paziente dal personale infermieristico è comunque alto. C’è poi la Subacute o Transitional Care che consiste in un livello di assistenza post-acuzie/riabilitativo dedicato ai pazienti che escono da un ricovero

1. L’health literacy, che in italiano trova il suo corrispettivo nei termini “competenze per la salute” o “alfabetizzazione alla salute”, implica il raggiungimento di un livello di conoscenze, di capacità individuali e di fiducia in sé stessi tali da spingere gli individui ad agire per migliorare la propria salute e quella della collettività, modificando lo stile e le condizioni di vita personali. Pertanto, health literacy non significa solo essere in grado di leggere opuscoli e prendere appuntamenti, ma è un’importante strategia di empowerment che può migliorare la capacità degli individui di accedere alle informa-zioni e di utilizzarle in modo efficace. Nel caso dei pazienti cronici o terminali è utile per accettare la propria difficile condizione (WHO Health Promotion Glossary, 1999).

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ospedaliero; qui è previsto un supporto per le attività quotidiane per la durata di due o tre mesi circa. Infine, la Continuative Care Unit, unità in cui il paziente trascorre più di un mese per poter essere sottoposto a lunghi trattamenti o riabilitazioni (Exton-Smi-th, 1962; Weeks e Griffith, 1964).

BOX 1 - IL CASO DI DELL CHILDREN’S MEDICAL CENTER

Il Dell Children’s Medical Center (Austin, Texas)* costituisce solo un esempio di realtà ospedaliera in cui è adottato il modello di Progressive Patient Care. In que-sta struttura pediatrica le cure sono concepite adottando un approccio sia family centered che family oriented. Di particolare rilievo è il Level I Trauma Center, unità assistenziale che offre cure di altissima qualità ai bambini (e ai loro familiari) che hanno subito un trauma. In questo centro ogni paziente viene seguito da un team multidisciplinare, di cui fanno parte specialisti in medicina di emergenza e urgen-za, chirurgia traumatologica, ortopedia, neurologia, chirurgia plastica, aneste-siologia, pediatria, nonché, infermieri, terapisti di riabilitazione, assistenti sociali. Altra caratteristica importante del Dell Children’s Medical è che dall’accettazione alla riabilitazione, il percorso dei pazienti non subisce alcuna interruzione poiché le prestazioni vengono erogate in maniera coordinata e continua, garantendo un percorso di cura centrato sul paziente.* Per un approfondimento su questo caso specifico si rimanda al sito: http://www.dellchildrens.net/

Negli U.S.A., oltre al Progressive Patient Care, come premesso, esiste un secondo modello che presenta una struttura fortemente focalizzata sul paziente ma destinata ai pazienti cronici: il Chronic Care Model. Ideato nel 2001 presso il McColl Institute for Healthcare Innovation, questo modello è volto a migliorare la condizione dei pazienti affetti da patologie croniche, infatti, è progettato per aiutare a migliorare le pratiche di cura e lo stato di salute dei pazienti cronici cambiando la routine del percorso di cura. L’obiettivo è quello di trasformare la quotidianità dei pazienti con malattie cro-niche e portarla a essere da reattiva a pro-attiva, pianificata, e basata sulla comunità (Coleman et al, 2009). Per raggiungere questi obiettivi è stata progettata una com-binazione di sei elementi cardine, schematizzati dal MacColl Institute for Healthcare Innovation come evidenziato nella figura 1 (Gorden e DuMoulin, 2004), descritti qui di seguito:

1. risorse del territorio e politiche locali (community: resources and policy): il miglio-ramento dell’assistenza ai pazienti è possibile instaurando una sinergia tra le strutture assistenziali e le altre strutture attive sul territorio (sociali, di volontariato, no profit, etc.) per predisporre programmi di supporto per la cronicità e per l’at-tivazione di tutte le forme di collaborazione possibile, promuovendo la coopera-zione tra associazioni di pazienti, centri per malati e anziani, cooperative sociali;

2. organizzazione dell’assistenza sanitaria (Health System – organization of health care): è prevista una riorganizzazione dell’intero sistema sanitario per far sì che si attivi il motore per il miglioramento della qualità delle cure e della sicurezza dei pazienti cronici; l’assistenza sanitaria a questo tipo di pazienti deve cambia-re radicalmente a tutti i livelli organizzativi per facilitare la comunicazione tra le professionalità coinvolte e lo scambio di dati e informazioni rilevanti sui pazienti cronici nel loro passaggio da un ambiente assistenziale all’altro;

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3. promozione del self-management: i pazienti cronici dovrebbero essere nelle con-dizioni di diventare consapevoli e coscienti della propria malattia e del loro per-corso di cura, al fine di acquisire un ruolo sempre più centrale nella gestione della patologia imparando ad organizzare le cure e il proprio stile di vita in autonomia (assunzione di farmaci, uso di dispositivi, monitoraggio, dieta, attività fisica, etc.) e in collaborazione con i servizi assistenziali;

4. promozione ed erogazione delle cure (Delivery System Design): l’approccio pro-at-tivo (prevenzione, invecchiamento in salute, stile di vita sano, etc.) dovrebbe sosti-tuire il semplice approccio reattivo (ricovero e cure al presentarsi della malattia); il follow-up dei pazienti cronici è essenziale e dovrebbe essere una procedura standard così come l’alfabetizzazione sanitaria di questo tipo di pazienti;

5. decisioni sulla base di evidenze scientifiche (Decision Support): i protocolli e i piani terapeutici dei pazienti dovrebbero essere uniformati adottando linee guida basate sulle migliori evidenze scientifiche disponibili (evidence-based medicine); i pazienti dovrebbero essere messi al corrente su quali sono le ragioni che portano a determinate decisioni e i professionisti sanitari dovrebbero ricevere un aggior-namento costante per rimanere al passo con la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica;

6. sistema informativo per dati clinici (Clinical Information System): un sistema infor-mativo per facilitare la condivisione e l’accesso a dati clinici, dati amministrativi, linee guida, registri di patologia, sistemi di allerta per eventi sentinella per i pa-zienti e i medici, al fine di monitorare e migliorare la pratica clinica sia a livello individuale sia di popolazione per ogni determinata patologia.

Figura 1 – MacColl Institute for Healthcare Innovation, Chronic Care Model

Fonte: Gorden e DuMoulin, 2004 e MacColl Institute for Healthcare Innovation web site

Organization of Health Care

Self-management Support

DecisionSupport

DeliverySystem Design

Clinical Information

System

Resources and Policies

Health SystemCommunity

Functional and Clinical Outcomes

Informed, ActivatedPatient

Prepared, Proactive

Practice TeamProductive Interaction

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Il Chronic Care Model ha portato a declinazioni e sviluppi come, ad esempio, il mo-dello Kaiser Triangle, sviluppato dal Kaiser Permanente2, nel quale sono individuati tre livelli di cura delle malattie croniche (come riportato nella figura 2). Nel primo livel-lo sono compresi i pazienti affetti da malattie croniche con basso rischio di complican-ze e con un grado di autosufficienza elevato. Questo livello, in cui ricade all’incirca il 70-80% dei pazienti, corrisponde alle unità di minimal care e intermediate care del Progressive Patient Care. Il secondo livello comprende i pazienti affetti da patologie croniche con rischio elevato di complicanze e richiede l’attività di un team multidi-sciplinare responsabile del disease management. Il terzo livello, infine, comprende i pazienti maggiormente esposti ad altissimo rischio di complicanze ed è associato ad un’elevata intensità di cura con la presa in carico da parte del case-manager.

Figura 2 – Kaiser Permanente, Kaiser Triangle Model

Fonte: National Health System e University of Birmingham

L’ESPERIENZA DEL REGNO UNITO: COMPREHENSIVE CRITICAL CARE

L’esperienza qui ha inizio nel 1999, circa quarant’anni dopo quella statunitense, quando il Dipartimento della Salute effettua un’analisi dei servizi sanitari invitando un gruppo di esperti a definire un framework per la ri-organizzazione dei servizi di critical care. Il nuovo approccio organizzativo proposto da un gruppo di esperti è anch’esso focalizzato sul livello di gravità del paziente e prende il nome di Com-prehensive Critical Care. Questo approccio, adottato dal National Health System (NHS) su tutto il territorio, dovrebbe essere caratterizzato da un’organizzazione dei servizi sanitari volta a garantire: l’integrazione (Integration), ossia un approccio omni-comprensivo all’interno dell’ospedale, all’insegna del superamento della suddivisione logistica tra unità di cura intensiva e unità di cura con forte dipendenza dal sistema infermieristico (high dependency), puntando all’ottimizzazione di tutte le risorse a disposizione (inclusi i posti letto); il network tra strutture ospedaliere per far sì che il modello, una volta adotatto, sia diffuso su tutto il territorio nazionale e non solo da

2. Kaiser Permanente è un consorzio di cura integrata con sede a Oakland, California, U.S.A., fondato nel 1945 dall'industriale Henry J. Kaiser e il medico Sidney Garfield; è composto da tre gruppi distinti e interdipendenti di enti: il Piano Sanitario Kaiser Foundation e le sue controllate regionali; Ospedali Kaiser Foundation e il Permanente Medical Groups. A partire dal 2014, Kaiser Permanente opera in otto stati ed è la più grande organizzazione di questo tipo negli Stati Uniti. I registri e gli esiti di Kaiser Per-manente vengono pubblicati dalla rivista Permanente Journal (Paxton, Inacio, e Kiley, 2012).

Case manage

Disease management

Supported self care

Population-wide prevention

Highly complex patients

Hig-risk patients

70-80% of people with chronic conditions

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alcune strutture, per arrivare a standard e protocolli condivisi per i pazienti più critici, mettendo a fattor comune le eccellenze di tutte le specialità; lo sviluppo di una forza lavoro (workforce development) tramite training e accrescimento di competenze spe-cializzate, sia in ambito medico sia in ambito infermieristico, che possa bilanciare il paniere delle competenze in modo che sia possibile delegare a specifiche professio-nalità i compiti meno critici che richiedono meno specializzazione; una cultura della misurazione e della verifica degli esiti tramite un adeguato sistema informativo e di auditing comparativo (Departement of Health, 2000).

Il rilievo assunto dal Comprehensive Critical Care nel Regno Unito è testimoniato dai numerosi studi e dalle pubblicazioni su questo modello organizzativo. In particola-re, nel 2002, la Intensive Care Society, insieme a rappresentanti della Independent Healthcare Association (IHA), ha definito le linee guida da seguire per l’implementa-zione del modello3. Successivamente, nel 2005, il Critical Care Stakeholder Forum ha pubblicato il documento “Quality Critical Care – Beyond Comprehensive Critical Care” nel quale è stata ribadita l’importanza dei critical care networks per il rapido trasferimento dei pazienti tra i vari livelli e per una tempestiva identificazione del livel-lo di assistenza necessario e di come questo evolve durante la degenza del paziente.

Il modello Comprehensive Critical Care è strutturato in quattro livelli di assistenza in base all’intensità di cura, identificati come segue:

• Livello 0: unità con livello di cura medio (normal acute ward care);

• Livello 1: unità con livello di cura intenso (acute ward care) in cui sono importanti i pareri di esperti specializzati e il supporto addizionale da parte di un team spe-cializzato; in questo livello assistenziale sono collocati, ad esempio, i pazienti a rischio di peggioramento, o che si stanno rimettendo dopo essere stati sottoposti a cure intensive;

• Livello 2: unità in cui è richiesta una più dettagliata ed attenta attività di osserva-zione e di intervento (intensive care); ad esempio in questa unità sono collocati quei pazienti con problemi ad un singolo sistema di organi (apparato respirato-rio, nervoso, circolatorio, etc.), o che si trovano in fase post-operatoria, o pazienti che stanno per essere dimessi da più alti livelli di cura;

• Livello 3: unità in cui, oltre a team specializzati, ci sono strumenti di supporto re-spiratorio avanzati o di base, insieme al supporto di almeno due sistemi di organi (high intensive care).

Da quando questo modello è stato teorizzato, molti ospedali hanno implementato il processo di riorganizzazione, portando avanti il follow-up per i pazienti dimessi dalla terapia intensiva, utilizzando sistemi di allarme precoce a punteggio per migliorare l'identificazione dei pazienti in peggioramento di malattie gravi. Tuttavia, sembra che vi sia scarsa evidenza che questo tipo di riorganizzazione sia utile in termini di miglioramento delle condizioni cliniche del paziente come, ad esempio, la riduzione di arresti cardiaci nei reparti, la riduzione dei ricoveri non programmati per terapia intensiva o i rinvii alla terapia intensiva (Robson, 2002). Esiste quindi la necessità concreta di dimostrare l’impatto di questo genere di riorganizzazione.

3. Guidance on Comprehensive Critical Care for adults in Independent Sector Acute Ho-spitals, 2002

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BOX 2 - IL CASO DI BLISS*

Bliss è un’organizzazione benefica che opera in tutto il Regno Unito con l’obietti-vo di garantire le migliori cure possibili a tutti i bambini nati prematuri e malati, nonché alle loro famiglie. Il legame tra Bliss e il modello Comprehensive Critical Care risiede nell’organizzazione delle strutture di Bliss, le quali si articolano in quattro livelli di cura; in base ai bisogni, infatti, i neonati sono assegnati al livello di cura ritenuto maggiormente appropriato. I livelli sono i seguenti:

• Level 1 - Special Care Baby Unit (SCBU): unità dedicata ai pazienti neonatali che necessitano di un continuo monitoraggio della frequenza respiratoria o del battito cardiaco; questo è il livello di assistenza in cui vengono effettuati inter-venti come fototerapia per la cura dell’itterizia e somministrazione di ossigeno aggiuntivo;

• Level 2 - Local Neonatal Unit (LNU): unità dedicata ai pazienti neonatali che devono essere sottoposti a una terapia intensiva di breve termine, necessitano di ventilazione meccanica, soffrono di apnee o sono nutriti con il sondino na-sogastrico;

• Level 3 - Neonatal Intensive Care Unit (NICU): unità dedicata ai bambini che hanno bisogno di supporto respiratorio (ventilazione), che pesano meno di 1.000 g, che sono nati dopo una gestazione inferiore alle 28 settimane, che hanno importanti problemi di respirazione o richiedono intervento chirurgico;

• Level 4 - Transitional Care (NICU): unità dedicata ai bambini che hanno ancora bisogno di cura ma che sono quasi pronti per essere dimessi. È importante no-tare che a questo punto la mamma diventa la principale persona che si prende cura del bimbo, con il supporto dello staff infermieristico o di altro staff dell’u-nità.

* Per un approfondimento su questo caso specifico si rimanda al sito: http://www.bliss.org.uk/

4. L’OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA IN ITALIA

In Italia, a differenza di quanto visto per Stati Uniti e Regno Unito, non esiste una tradizione consolidata di processi e modelli in tema di organizzazione per intensità di cura. Infatti, è solo nell’ultimo decennio che nel nostro Paese sono stati introdotti processi di riorganizzazione di questo tipo. Recuperare il “ritardo” nell’adozione di schemi organizzativi IDC potrebbe essere una delle possibili strade percorribili per affrontare il difficile momento storico che sta attraversando il Servizio Sanitario Na-zionale, caratterizzato al tempo stesso da tagli lineari, “spending review” in forma assai discutibile, cronicizzazione delle patologie, invecchiamento della popolazione, difficoltà a portare avanti ricerca e innovazione clinica e tecnologica. Tuttavia, i pa-reri sull’adozione di questo modello, come spesso accade per le novità, non sono affatto unanimi. Se da un lato c’è chi vede nell’organizzazione per intensità di cura “un’opportunità per l'Italia di operare nella direzione di un'assistenza che si basi sul concetto di continuità di cure” (Guarinoni et al., 2013), dall’altro lato non mancano le perplessità (Nardi et al., 2012) e le rimostranze che sono sfociate, talvolta, in pole-

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miche in occasione di alcuni casi di cronaca4 in cui sono stati evidenziati i rischi che il trasferimento dei pazienti comporta, con il conseguente passaggio di consegne e cambio di setting assistenziale.

L’assenza di un modello tradizionale ancorato sui processi organizzativi per intensità di cura però non significa necessariamente mancanza totale di esperienze nell’or-ganizzazione per intensità di cura. Da qualche anno, infatti, alcune regioni si sono mosse in questa direzione. Un esempio è quello della Regione Toscana che con la Legge Regionale n. 40 del 24 febbraio 2005, ha fatto espressamente cenno a una “strutturazione delle attività ospedaliere in aree differenziate secondo le modalità assistenziali, l’intensità delle cure, la durata della degenza ed il regime di ricovero, superando gradualmente l’articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica” (art. 68, comma 2). Le disposizioni contenute in questo atto normativo sono tese a incoraggiare le strutture ospedaliere ad avviare delle sperimentazioni finalizzate a promuovere una riorganizzazione per intensità di cura.

La riorganizzazione per intensità di cura è entrata poi nei piani sanitari regionali di Piemonte (piano socio-sanitario regionale 2012-2015, allegato A); Emilia Romagna (la sperimentazione è stata avviata nel 2012 e riguarda nove Aziende sanitarie della regione che hanno risposto a un bando del Fondo per la modernizzazione, uno dei quattro programmi di ricerca e innovazione del Servizio sanitario regionale promosso dall’Agenzia sanitaria e sociale regionale); e Lombardia (Piano socio sanitario regio-nale 2010 – 2014, allegato A). Esistono anche programmazioni specifiche come, ad esempio, il Programma Stroke Care in Emilia Romagna che ha l’obiettivo di garantire un’assistenza integrata di pazienti con ictus dalla fase pre-ospedaliera a quella suc-cessiva al ricovero (Bartoli, Ferro e De Palma, 2012).

In Italia, dunque, siamo di fronte a un fenomeno piuttosto recente e, per questo, non esiste ancora un vero e proprio “modello italiano”. In linea di massima, nelle esperien-ze attualmente esistenti, sono previsti generalmente tre livelli5 di cura in cui i pazienti sono allocati in modo omogeneo in base al loro fabbisogno assistenziale, al tempo necessario per le cure e, dunque, all’intensità di cura richiesta (Alesani et al., 2006; Sebastiano e Croce, 2007). Le tre aree sono organizzate generalmente come segue:

• livello 1 – alta complessità assistenziale: è un livello ad intensità di cura alta in cui rientrano la terapia intensiva e la terapia subintensiva; al paziente in pericolo di vita o giunto in condizioni critiche in ospedale, viene data la massima attenzione per evitare l’insorgere di complicanze o insufficienze acute;

• livello 2 – media complessità assistenziale: è un livello di cura, organizzato in aree funzionali, che comprende il ricovero ordinario e il ricovero a ciclo breve; presup-pone la permanenza del paziente almeno una notte in ospedale (week surgery,

4. Ne è stato esempio il caso di cronaca di una donna ricoverata nell’ospedale Torregalli di Firenze, organizzato per intensità di cura, il cui decesso è stato correlato, tra le altre cause, al tempo intercorso (troppo lungo) prima della presa in carico da parte del per-sonale sanitario (per approfondimenti si rimanda al sito: http://www.asf.toscana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2255%3Apaziente-deceduta-a-torre-galli-seguite-le-procedure-standard&catid=182%3Acomunicati-stampa&Itemid=83).

5. In alcuni casi, anche nel nostro contesto nazionale, i livelli non sono tre ma quattro (come, ad esempio, nel caso dell’ospedale Niguarda di Milano, in cui sono previsti: il livello 0 – bassa intensità; livello 1 – media intensità; livello 2 – alta intensità; e livello 3 – terapia intensiva o sub-intensiva) oppure due (come nel caso dell’Azienda ospeda-liera Ospedali riuniti di Bergamo, in cui sono previsti solamente i livelli di: alta intensità e medio-bassa intensità).

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one-day surgery); al paziente viene assicurata la stabilizzazione dello stato fisico e la sorveglianza delle funzioni vitali ma senza un’osservazione continuativa;

• livello 3 – bassa complessità assistenziale: è il livello dedicato alla cura delle post-acuzie; l’intensità di cura è bassa ed è assimilabile al subacute care (seb-bene non sia il corrispettivo preciso); al paziente viene assicurata un’assistenza senza sorveglianza specifica, nella fase conclusiva del percorso verso i servizi territoriali (come l’assistenza domiciliare).

In questo quadro, come si colloca l’Italia rispetto alle principali esperienze internazio-nali? Il confronto con le esperienze di altri paesi porta a una considerazione piuttosto immediata sullo schema organizzativo italiano che, come afferma Guarinoni, “può essere considerato come una contestualizzazione del Progressive Patient Care [...] sia dal punto di vista delle finalità che il modello si pone, sia per la tipologia di livelli assi-stenziali” (Guarinoni, 2012). In particolare il parallelismo con il modello statunitense (illustrato nella tabella 2) è chiaro soprattutto per il livello 1 e il livello 2, i quali sono del tutto simili rispettivamente alla intensive care e alla intermediate care. Resta più difficile, invece, trovare una perfetta corrispondenza del livello 3 italiano nel Progres-sive Patient Care, visto che, negli Stati Uniti, la cura delle post-acuzie e la riabilitazio-ne toccano trasversalmente più livelli assistenziali del modello base, ossia il minimal care, che si articola in self-care, long term care, organized home care, subacute care quando previsto. Inoltre, nello schema italiano, non compaiono i livelli assistenziali di transizione che, nel modello statunitense, rivestono invece un ruolo importante nel garantire la continuità assistenziale tra ospedale e territorio (transitional care), anche se questa funzione dovrebbe essere in qualche modo ricoperta dal livello di bassa complessità assistenziale.

Tabella 2 – Confronto tra modello italiano e Progressive Patient Care

Modello italiano Progressive Patient Care

Livello 1 – Intensità di cura alta Intensive care

Livello 2 – Intensità di cura media Intermediate care

Livello 3 – Intensità di cura bassa Subacute careSelf-careLong term careOrganized home care

Fonte: elaborazione Centro studi Assobiomedica

Il confronto con il Regno Unito, ovvero con il modello Comprehensive Critical Care, invece, non è immediato perché i quattro livelli di quest’ultimo sono strutturati con una logica diversa che differenzia l’intensità alta in due livelli -- il terzo (intensive care) e il quarto (high intensive care) -- e lascia ai primi livelli -- il secondo (acute ward care) e il primo (normal acute ward care) -- l’intensità di cura media e bassa.

Il “modello” italiano ad oggi si può rintracciare nelle riorganizzazioni di alcuni ospe-dali che vengono descritte in specifici articoli o report che ne delineano l’applica-zione concreta. Ad esempio, per citarne solo alcuni, l’Azienda USL 2 di Lucca in Toscana6, seguita da altri esempi in Toscana (De Pietro, Benvenuti e Sartirana, 2011);

6. Per approfondimenti si veda il sito: http://www.usl2.toscana.it

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l'azienda ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino (Bonfanti et. al, 2012); l’ospedale S. Gerardo di Monza (Croce, 2007); l'Azienda Ospedaliera di Vimercate (Moroni et. al, 2011); l’Ospedale Civile di Legnano (Zoppini, Lombardo e Cordone, 2010); l’Ente Ospedaliero Ospedali Galliera di Genova (Nicosia, Tra-malloni, e Lagostena, 2008); l’Azienda USL 3 dell’Umbria (Orlandi, Duca e Pioppo, 2006). Nonostante sia reperibile una documentazione riguardo ad alcune singole realtà ospedaliere, ad oggi, non sono disponibili dati empirici utili a capire come e quanto il modello di organizzazione per intensità di cura si sia diffuso in Italia. Gli obiettivi conoscitivi della ricerca descritta in questo documento (cfr. seconda e terza parte) nascono proprio per colmare questa lacuna e per raccogliere evidenza empiri-ca utile ad avere una descrizione puntuale del fenomeno a livello nazionale.

5. LE CARATTERISTICHE DELL’INTENSITÀ DI CURA

Alla luce dell’excursus sull’organizzazione per intensità di cura nel contesto interna-zionale e nazionale, è possibile ora tracciare le principali caratteristiche che sono alla base di processi di riorganizzazione di questo tipo. In particolare, è possibile sintetizzare i tratti fondamentali in tre caratteristiche principali:

1. la centralità del paziente e del suo bisogno di cure distinto per livello di intensità (rispetto al più tradizionale criterio basato unicamente sulla patologia principale riscontrata);

2. la riorganizzazione del personale all’interno dell’ospedale;

3. i processi e lo scambio di dati durante i diversi passaggi del percorso di cura dei pazienti (il patient-flow).

Per ognuna di queste caratteristiche è possibile delineare i punti di forza e i punti di debolezza correlati all’adozione del modello di organizzazione per intensità di cura (riassunti nella tabella 3).

I PUNTI DI FORZA

Il principale punto di forza della prima delle caratteristiche sopra delineate è la cen-tralità del paziente e delle sue condizioni cliniche, che è anche il cardine attorno al quale si sviluppa l’intero modello dell’organizzazione per intensità di cura. Grazie a questo cambio di prospettiva, con il paziente al centro, si definisce una organizza-zione in cui è possibile dedicare la giusta attenzione all’intero processo di cura del paziente; dall’ingresso, alla dimissione, al percorso di cura a domicilio, per raggiun-gere l’obiettivo della continuità del flusso di erogazione delle cure (Van Walraven et al., 2010). Questo tipo di percorso dovrebbe rendere possibile una riduzione delle inefficienze durante la prestazione del servizio al paziente. Si tratta di una vera ri-voluzione di approccio affinché tutto ruoti attorno alla soddisfazione delle esigenze di ogni singolo paziente. In quest’ottica, è possibile dare risposta sia all’esigenza di incremento della complessità clinica di pazienti con elevati gradi di instabilità, sia alle esigenze assistenziali dovute alla significativa presenza di pazienti anziani con comorbilità (Sebastiano e Croce, 2007).

Il punto di forza principale della seconda caratteristica tra quelle elencate, è sicura-mente l’approccio multidisciplinare e multiprofessionale, con un impiego di compe-tenze trasversali. Questo approccio permetterebbe lo sviluppo di una rete tra pro-fessionisti in cui le responsabilità clinico-assistenziali-gestionali sono differenziate e organizzate sia in ambito medico che infermieristico. Affinché questo tipo di gestione

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funzioni è necessario introdurre nuove figure professionali come l’infermiere tutor, il quale dovrebbe garantire l’assistenza personalizzata al paziente affidatogli e dive-nire così responsabile del risultato del progetto assistenziale, e il medico tutor, che prendendo in carico il paziente entro le prime 24 ore dopo il piano clinico diventa responsabile del suo percorso (Sebastiano e Croce, 2007). In questo modo aumenta anche l’importanza del ruolo dell’infermiere che, conoscendo i singoli casi in modo più approfondito, diventa il “custode” dei dati e delle informazioni che riguardano il paziente e che sono necessari all’assegnazione di ogni paziente al livello di assi-stenza più appropriato. Queste nuove figure sono anche quelle che dovrebbero fare da filtro occupandosi della corretta gestione del paziente all’interno della struttura ospedaliera evitando così ingressi impropri o passaggi inadeguati.

Infine, esistono dei vantaggi anche nell’introduzione del cosiddetto patient-flow -- pro-cesso che consente l’identificazione, la discussione e la formalizzazione tra professio-nisti di un insieme di criteri clinici di passaggio, accesso e di esclusione per i diversi livelli di cura -- così come del PDTRA (Percorso Diagnostico-Terapeutico Riabilitativo Assistenziale), che consente il coordinamento e l’integrazione delle competenze pro-fessionali e l’uniformità dei processi di cura in base alle migliori evidenze cliniche. Infatti, simili processi posso contribuire a fornire un certo grado di standardizzazione del percorso assistenziale dei pazienti e un orientamento verso il miglioramento conti-nuo, coerentemente con la filosofia manageriale e gestionale del Lean Thinking. Adot-tare processi di questo tipo porterebbe a ottimizzare tutte le risorse all’interno della struttura ospedaliera, porterebbe ad un uso ottimale dei posti letto e al miglioramento della logistica, grazie anche all’elevato grado di flessibilità.

I PUNTI DI DEBOLEZZA

La letteratura sull’organizzazione per intensità di cura mette in luce non solo i punti di forza ma anche alcune debolezze di questo schema organizzativo e della sua appli-cazione. Uno dei principali punti di debolezza si trova nella relazione tra la comples-sità assistenziale e la severità clinica del paziente. Infatti, può essere problematico distinguere le aree a medio-bassa intensità da quelle a intensità medio-alta (Nardi et al., 2012; Chesi e Nardi, 2013). Inoltre, in un simile sistema, possono emergere difficoltà nel garantire trasferimenti tempestivi dei pazienti da un’area all’altra in caso di aggravamento delle condizioni del paziente. Ma le difficoltà nell’implementazione di questo tipo di organizzazione sono anche dei pazienti: la possibile resistenza al cambiamento e la difficoltà a comprendere il funzionamento del nuovo assetto orga-nizzativo, potrebbero compromettere il valore cardine dell’IDC.

Un altro punto di debolezza è sicuramente il rischio di possibili conflitti o sovrapposi-zioni tra le diverse figure professionali coinvolte nella gestione dei pazienti. Infatti, la necessità di un approccio al lavoro in team nell’IDC, un approccio che ribalta la clas-sica gestione monospecialistica del paziente (gestione “verticale”) in favore di una gestione multiprofessionale e plurispecialistica (gestione “orizzontale”), può portare a difficoltà nel determinare le singole responsabilità. Le diverse figure professionali tra quelle coinvolte possono intravedere nell’applicazione dell’IDC una perdita di importanza del proprio ruolo, questo perché viene a mancare il controllo del reparto da parte della singola specialità; conseguentemente può manifestarsi una resistenza al cambiamento e al riequilibrio dei poteri e delle funzioni gestionali e clinico-assisten-ziali (Nardi et al., 2012). Infine, non va dimenticato che le nuove figure professionali del medico tutor e dell’infermiere tutor richiedono un forte investimento in formazione e valutazione (Cavada et al., 2012), infatti, dal punto di vista manageriale l’adozione

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dell’IDC comporta una ridefinizione dei sistemi di pianificazione e misurazione delle performance, non sono dei singoli professionisti ma più in generale una valutazione complessiva degli esiti e un attività di reporting diversa da quella tradizionale.

Per quanto riguarda i nuovi processi, invece, il principale punto di debolezza consiste nella tendenza a vedere i nuovi percorsi di cura come un rovesciamento di sistematiz-zazioni già esistenti e già consolidate. Questo porterebbe a uno spreco di risorse per rivoluzionare dei processi che attualmente sono in funzione nelle strutture ospedaliere per modificare solo il loro nome e la loro gestione, tuttavia, senza modificarne real-mente l’esito. Inoltre, il PDTRA non funziona se non si tiene debitamente conto della reale compatibilità con tutte le strutture esistenti sul territorio e della compatibilità con le tecnologie effettivamente disponibili (Nardi et al., 2012).

Tabella 3 – Sintesi delle caratteristiche, punti di forza e punti di debolezza dell’IDC

Caratteristiche Punti di forza Punti di debolezza

Centralità del paziente e del suo bisogno di cure

Adeguatezza delle cure ai bisogni del paziente con assistenza di elevata qualità

Richiede tempestività nel processo di transito da una unità all’altra appena il bisogno evolve

Maggiore supporto al paziente nel passaggio dall’ospedale alla cura domiciliare

Richiede personale specializzato e risorse ad hoc

Riorganizzazione del perso-nale all’interno dell’ospedale

Approccio multidisciplinare che porta a una visione olistica del paziente

Perdita del controllo del reparto da parte della singola specialità con conseguente assegnazione poco chiara delle responsabilità

Gestione ottimale delle competenze e delle professionalità

Depotenziamento delle risorse delle singole Unità Operative

Processi e scambio di dati durante i diversi passaggi del percorso di cura dei pazienti (il patient-flow)

Uniformità dei processi di cura in base alle migliori evidenze cliniche

Difficoltà di implementazione in base alla compatibilità con le risorse disponi-bili all’interno della struttura ospedalie-ra e sul territorio

Fonte: elaborazione Centro studi Assobiomedica

6. SINTESI

In questa prima parte del lavoro, anzitutto, è stato introdotto il concetto di ospedale per intensità di cura e sono state delineate le caratteristiche principali del modello. Per prima cosa, è emerso che l’organizzazione per IDC è uno schema organizzativo afferente al filone della “gestione snella” (lean thinking) che ha come obiettivo l’utiliz-zo più efficiente delle risorse. Si è visto poi che la “centralità del paziente” comporta un superamento dell’organizzazione tradizionale dato che va a condizionare tutte le dimensioni dell’ospedale: dalla sua strutturazione; all’organizzazione del personale (cambiamento nelle gerarchie e lavoro in team); fino alla gestione dei pazienti, i quali non sono più considerati in base alla patologia bensì al livello di cura che necessitano (alto, medio, basso).

Dalla rassegna delle principali esperienze internazionali è emerso che negli Stati Uniti e nel Regno Unito l’organizzazione per intensità di cura non è assolutamente una novità ma, al contrario, uno schema organizzativo ampiamente utilizzato sia in ambito pubblico che in ambito privato. In questi Paesi le esperienze riconducibili all’organizzazione per intensità di cura sono varie e talvolta adattate al particola-

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re contesto in cui vengono applicate, ma restano sempre fedeli ai principi cardine dell’orientamento patient focused. Nel contesto italiano, invece, è stato rilevato che a differenza di Stati Uniti e Regno Unito, non è possibile parlare di tradizione in tema di organizzazione per intensità di cura. Dato il fermento sul tema degli ultimi 15-20 anni non mancano, però, ospedali che hanno seguito – e seguono – questo modello; ciò è potuto accadere anche grazie alla spinta data sul piano normativo da alcune regioni che hanno indirizzato le strutture ospedaliere del loro territorio ad organizzarsi in tal senso. Il confronto tra le esperienze italiane e quelle internazionali ha fatto emergere, poi, una certa similitudine tra il modello italiano e quello statunitense, sebbene non sia possibile individuare una precisa corrispondenza tra i due schemi organizzativi.

In chiusura si è cercato di mettere in evidenza i punti di forza e i punti debolezza dell’organizzazione per intensità di cura. Si è partiti definendo i tre elementi chiave del modello e, per ciascuno di essi, sono stati considerati i vantaggi e gli svantaggi che possono apportare. La centralità del paziente è risultata un vantaggio per il mi-glioramento nella qualità delle cure che esso riceve, ma porta con sé anche alcune criticità legate alla definizione del livello di cura necessario; i cambiamenti nell’or-ganizzazione del personale sono parsi un fattore assolutamente positivo per quanto riguarda la possibilità di un approccio multidisciplinare, ma possono anche essere fattore di frizione tra le varie professionalità dell’ospedale e causare una non chiara assegnazione delle responsabilità sul paziente; il patient flow, infine, si è rivelato un fattore positivo per quando riguarda l’opportunità di uniformare i processi di cura in base alle evidenze cliniche, ma la sua implementazione in tutte le strutture è parsa piuttosto difficile.

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DISEGNO DELLA RICERCA

1. PREMESSA

Sulla base delle premesse teoriche delineate nella prima parte, in questa seconda par-te, si descriverà il disegno della ricerca del presente lavoro. Si tracceranno l’oggetto di studio e le finalità conoscitive dell’indagine, nonché le scelte metodologiche e gli strumenti d’analisi utilizzati. Il disegno della ricerca adottato ha consentito, in modo progressivo e puntuale, di ottenere una fotografia dello stato dell’arte e raccogliere informazioni particolarmente significative sulle esperienze di organizzazione ospeda-liera per intensità di cura condotte in Italia. In particolare, nel secondo paragrafo si illustreranno gli obiettivi conoscitivi di ricerca individuati a partire dal quadro di riferi-mento teorico nell’ambito dell’intensità di cura in Italia. Nel terzo paragrafo ci si con-centrerà sul percorso seguito per la definizione e la realizzazione della ricerca. Nel quarto paragrafo verranno approfonditi i metodi utilizzati per condurre il censimento delle strutture. Nel quinto paragrafo verranno descritte le caratteristiche del campio-ne, mentre il sesto paragrafo è incentrato sullo strumento di rilevazione dei dati e sulla tecnica di somministrazione impiegata per la raccolta dei dati. Il settimo paragrafo è dedicato alla definizione delle dimensioni di analisi e l’ottavo è il paragrafo nel quale è descritto il metodo utilizzato per l’analisi dei gruppi (cluster analysis). Infine, il nono paragrafo è dedicato alle osservazioni conclusive.

2. OBIETTIVI CONOSCITIVI DELLA RICERCA

A partire dal quadro concettuale di riferimento, delineato nella prima parte del la-voro, sono stati definiti gli interrogativi di ricerca che hanno orientato l’indagine. A seguito della riscontrata mancanza di dati sulle esperienze di ospedali organizzati per intensità di cura, sono stati considerati importanti i seguenti quesiti:

• Quante e quali strutture hanno dichiarato di aver concluso, avviato, o di avere in programma di avviare, un processo di riorganizzazione per intensità di cura?

• Tra queste, quante e quali lo fanno realmente o hanno in programma di farlo realmente?

• Esiste un unico modello di approccio gestionale o vengono adottate strategie di intervento diverse a seconda delle singole realtà territoriali?

• Quali sono i processi realmente utilizzati nella riorganizzazione per intensità di cura?

• È possibile raggruppare le esperienze italiane in gruppi omogenei (in relazione alle tre dimensioni prese in esame)?

• Quali sono le caratteristiche dei diversi gruppi?

Tra gli obiettivi appare dunque prioritario quello di fornire una “fotografia” sullo stato dell’arte e analizzare con più dettaglio le esperienze per intensità di cura delle struttu-re sanitarie che hanno avviato, concluso o hanno realmente intenzione di avviare una tale riorganizzazione, al fine di definire se esiste un vero e proprio “modello italiano”.

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3. FASI DELLA RICERCA E SCELTE METODOLOGICHE

Alla luce degli obiettivi conoscitivi sopraesposti è stato definito un disegno di ricer-ca per dare risposta a tutti gli interrogativi di ricerca. L’indagine è stata articolata principalmente in 2 fasi che hanno permesso di fornire un contributo euristico alle conoscenze sull’oggetto di studio: il censimento delle strutture organizzate per inten-sità di cura su tutto il territorio nazionale, utile per definire la nostra popolazione di riferimento; e la raccolta di interviste. Nello specifico, la prima fase di censimento delle strutture ospedaliere per intensità di cura – come si vedrà meglio successivamen-te – ha consentito una iniziale ricognizione delle strutture ospedaliere che hanno in essere processi di riorganizzazione IDC su tutto il territorio nazionale. Questa prima fase ha permesso di individuare la popolazione di riferimento per poter procedere con le successive fasi della ricerca. Nella seconda fase, sono state contattate tutte le strutture della popolazione di riferimento e solo a un sottoinsieme di queste è stata somministrata un’intervista tramite un questionario strutturato (cfr. Appendice I). Gli in-tervistati sono stati i testimoni privilegiati (figure dirigenziali) 7 all’interno delle strutture ospedaliere con l’obiettivo di arrivare, attraverso il loro potenziale informativo, a un approfondimento della conoscenza dei processi in atto. Più precisamente, l’obiettivo dell’intervista è stato quello di indagare quali sono gli elementi chiave dell’applicazio-ne del modello per intensità di cura nelle strutture ospedaliere italiane analizzate e le azioni finora svolte per promuovere tale percorso.

4. LA POPOLAZIONE DI RIFERIMENTO

Il censimento delle strutture che hanno dichiarato di aver concluso, avviato o di aver intenzione di avviare un processo di riorganizzazione per intensità di cura è stato condotto mediante una ricerca via web alla quale è seguita un’organizzazione delle informazioni reperibili in una griglia di rilevazione contenente l’anagrafica delle strut-ture sanitarie mappate. La base dati di partenza è stata l’elenco di tutte le strutture sanitarie pubbliche e private accreditate in Italia fornito dal Ministero della Salute, suddivise in base al tipo:

• Azienda Ospedaliera;• Azienda Ospedaliera Universitaria e Policlinico;• Istituto di Ricovero e Cura a carattere scientifico;• Istituto qualificato presidio della U.S.L.; • Ospedale a gestione diretta;• Ospedale classificato o assimilato (ai sensi dell’art. 1, ultimo comma, Legge 132/68).

Questo elenco conta 576 strutture distribuite su tutto il territorio nazionale e suddivise in questo modo8:

• 203 al Nord;• 127 al Centro;• 246 al Sud.

7. Come si vedrà più in dettaglio nel paragrafo 6, si tratta di figure dirigenziali che rico-prono sia incarichi di top management (direttore generale o sanitario), sia incarichi di responsabilità di articolazione aziendale (ad es. dirigente medico).

8. La suddivisione utilizzata fa riferimento alle tre macro-regioni individuate dall’ISTAT, classificate come segue: Nord (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lom-bardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto); Centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria); Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sar-degna, Sicilia).

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Il censimento delle strutture è stato effettuato mediante una ricerca via web compiuta in forma diretta e indiretta sulla totalità delle strutture considerate (n=576). La ricerca diretta è stata condotta tramite la visita del sito web di ogni singola struttura e, in ogni sito, sono state consultate le seguenti sezioni: Home, Organizzazione, Progetti, News/Comunicazione, Funzione Cerca. In particolare, nella sezione Funzione Cerca sono state utilizzate le seguenti parole chiave: “intensità” e “intensità di cura”.

La ricerca indiretta è stata successivamente effettuata con l’ausilio dei principali motori di ricerca. In questo caso sono state utilizzate le seguenti parole chiave: “intensità”, “intensità di cura” o “riorganizzazione”, associate al nome della struttura oggetto di indagine.

Figura 3 – Diagramma logico del metodo utilizzato per il censimento delle strutture

Fonte: elaborazione Centro studi Assobiomedica

Nella figura 3 è rappresentato il percorso logico del metodo utilizzato per la ricerca via web diretta e indiretta per identificare le strutture che hanno dichiarato di aver concluso, avviato o che hanno intenzione di avviare il processo di riorganizzazione per intensità di cura, sui loro siti internet o su documenti reperibili sul web. La popola-zione di riferimento è stata così definita come l’insieme di unità (strutture ospedaliere) alle quali si intende estendere i risultati dell’indagine che seguirà e, per questo motivo, è stato necessario specificare esattamente le condizioni di eleggibilità, ossia le carat-teristiche che determinano l’inclusione (o l’esclusione) delle unità della popolazione. Come è stato detto, in questo caso, la caratteristica di inclusione è quella di: aver dichiarato di aver concluso, avviato o progettato una riorganizzazione dell’ospedale per intensità di cura. Le strutture individuate che possiedono questo requisito, comples-sivamente, sono 124 su tutto il territorio nazionale.

5. IL CAMPIONE

In questa indagine sono state contattate tutte le unità della popolazione di riferimento, infatti, nel caso di popolazioni composte da pochi elementi è necessario contattare tutte le unità. Il primo contatto con le 124 strutture ospedaliere ha dato esiti differenti (tabella 4).

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Tabella 4 – Distribuzione del tipo di risposta al primo contatto: frequenze assolute (N)

Tipo di risposta dopo il primo contatto N

Strutture contattate che non hanno mai risposto 81

Strutture che hanno risposto di non avere avviato (o progettato) una riorganizzazione per intensità di cura 6

Strutture che hanno risposto di avere effettivamente avviato (o progettato) una riorganizzazione per intensità di cura alle quali è stato somministrato il questionario 37

Popolazione di riferimento 124

Fonte: tutte le elaborazioni di dati riportati in tabella o in tramite una rappresentazione grafica da qui in avanti sono a cura del Centro Studi Assobiomedica. Per questo motivo, da qui in avanti, non verrà più ripetuta la fonte in calce ad ogni elaborazione. La fonte è specificata solo nei casi in cui le elaborazioni o le fonti sono diverse da questa.

Se osserviamo i dati riportati nella tabella 4, per 81 strutture i tentativi di contatto non hanno avuto esito positivo. Delle restanti 43 strutture 6 strutture hanno risposto di non avere avviato (o progettato) una riorganizzazione per intensità di cura, mentre 37 strutture hanno confermato di aver esperienza di organizzazioni IDC e hanno accon-sentito di rispondere all’intervista telefonica per la somministrazione del questionario. Quindi, il totale delle strutture per le quali è possibile estendere i risultati delle analisi che saranno effettuate sui dai forniti dalle 37 strutture intervistate non è più pari a 124 ma a 118, data l’esclusione delle 6 strutture che hanno negato durante il contatto tele-fonico di aver intrapreso una riorganizzazione IDC. In termini percentuali le strutture alle quali è stato somministrato il questionario sono più del 30%. Questo significa che un terzo del totale della popolazione di riferimento è stato intervistato con successo garantendo una raccolta di informazioni che costituisce una mole importante di dati per poter condurre un analisi empirica del fenomeno oggetto di studio.

6. IL QUESTIONARIO STRUTTURATO

LO STRUMENTO

Ai fini della nostra rilevazione è stato utilizzato un questionario strutturato (cfr. Appen-dice). L’utilizzo di questo strumento, che consente la standardizzazione degli stimoli e, quindi, la possibilità di porre le domande nello stesso ordine e con gli stessi ter-mini a tutti i soggetti intervistati, ci ha permesso di raccogliere in maniera uniforme le informazioni e di confrontare le risposte tra loro. In particolare, le domande dei questionari standardizzati e strutturati - così come quelle di quelli semi strutturati - pos-sono essere ricondotte a diversi tipi e sottotipi ma sono due le famiglie principali di domande: chiuse (dicotomiche, politomiche, scale numeriche, scale verbali, ecc.) o aperte. Nel nostro caso non sono state introdotte domande aperte ma solo domande chiuse (a risposta strutturata) di tipo dicotomico - che prevedono una sola risposta tra due modalità - e di tipo politomico - che prevedono una o più risposte tra più opzioni previste. Il fenomeno oggetto di studio è stato quindi scomposto in dimensioni e sot-to-dimensioni e così ogni domanda rileva una determinata sotto-dimensione. L’analisi delle risposte a questo tipo di domande consente di tener conto di tutte le dimensioni che compongono il fenomeno e di restituire una sintesi di tutte le sue componenti. Le batterie di domande sono state elaborate sulla base della letteratura di riferimento e del quadro concettuale definito nella prima parte di questo lavoro.

Il questionario è stato suddiviso in tre aree tematiche corrispondenti rispettivamente a tre sezioni. La prima sezione è dedicata agli aspetti generali del fenomeno ed è co-

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stituita da tredici domande a risposta chiusa, utili a rilevare gli elementi fondamentali relativi all’adozione del modello per intensità di cura nelle strutture prese in esame. In primo luogo, è stato chiesto agli intervistati di specificare se, al momento dell’intervi-sta, il processo di riorganizzazione risultasse in fase progettuale, in fase di realizza-zione oppure concluso, indicando anche l’anno di avvio e l’anno di conclusione. Le domande successive sono state definite per identificare il livello decisionale – azien-dale o regionale – che ha dato avvio alla riorganizzazione e l’eventuale presenza di un finanziamento ad hoc di origine aziendale o regionale. L’obiettivo del seguente blocco di domande di questa sezione, invece, è stato quello di indagare se il processo di riorganizzazione ha interessato tutto l’ospedale nel suo insieme oppure solo alcune sue parti e, in quest’ultimo caso, quali sono state le unità operative maggiormente inte-ressate. Le ultime domande di questa prima sezione del questionario, infine, mirano a identificare i casi in cui la riorganizzazione per IDC ha coinciso con la realizzazione di interventi strutturali e in particolare con la costruzione di un nuovo ospedale, con la realizzazione di nuove aree o con la ristrutturazione degli spazi esistenti.

La seconda sezione del questionario è stata dedicata all’implementazione della rior-ganizzazione per intensità di cura nelle strutture ospedaliere. Questa sezione, infatti, è costituita da undici domande utili a comprendere il significato attribuito al modello concettuale dell’ospedale per intensità di cura e i modi attraverso i quali il processo di riorganizzazione è stato implementato. In particolare, è stato chiesto agli intervistati di specificare quanti sono i livelli di intensità previsti e di indicare quali sono gli aspetti per cui si differenziano tra loro i vari livelli, così come i criteri utilizzati per l’allocazio-ne dei pazienti. Inoltre, al fine di conoscere quale sia il principale modello di ispira-zione per la riorganizzazione per intensità di cura in Italia, si è chiesto di indicare se sia stata presa come riferimento l’esperienza di altri ospedali italiani, di altri ospedali esteri oppure nessuna delle due in favore di altri modelli descritti in letteratura. Infine, si è chiesto di indicare se sono stati adottati processi e strumenti a supporto della riorganizzazione per intensità di cura. In particolare, gli strumenti ai quali si è fatto riferimento sono nuovi protocolli e linee guida, la cartella clinica condivisa, l’adatta-mento di sistemi informativi e di audit, gli strumenti e i metodi di Lean Management.

La terza sezione riguarda gli aspetti organizzativi che è stato utile indagare al fine di comprendere se, in seguito all’adozione dell’IDC, siano stati apportati dei cambia-menti organizzativi a livello di struttura. In particolare, le domande in questa sezione erano utili a capire se sono stati apportati cambiamenti formali all’organigramma, se sono state introdotte nuove figure e nuovi ruoli professionali come l’infermiere tutor, il medico tutor, il bed manager, il flow manager, l’operations manager, tutte figure e ruoli di cui si è discusso nella prima parte di questo lavoro. Inoltre, si è indagato se nell’ospedale siano stati realizzati percorsi di formazione per il personale interno al fine di introdurre e descrivere il modello al personale in organico; e se l’adozione della nuova organizzazione abbia incontrato resistenze interne da parte dei diversi profili professionali.

LA SOMMINISTRAZIONE

Il questionario è stato somministrato attraverso un’intervista telefonica a figure diri-genziali interne alle strutture ospedaliere unità di analisi che, da un lato, ricoprono incarichi di top management -- come direttori generali o direttori sanitari dell’intera azienda -- dall’altro, incarichi di responsabilità di articolazione aziendale -- come ad esempio il dirigente medico o il dirigente infermieristico. Gli intervistati sono sempre stati indicati come referenti del progetto “ospedale organizzato per intensità di cura”

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delle aziende sanitarie considerate. Nello specifico, la selezione delle persone da intervistare all’interno delle aziende sanitarie oggetto d’indagine si è svolta grazie all’intervento delle diverse direzioni aziendali. Partendo dai primi contatti reperiti attraverso i canali che riconducono per lo più alle direzioni sanitarie è stato chiesto di indicare i referenti interni alla struttura adatti a questo tipo di intervista telefonica.

L’obiettivo è stato quello di arrivare ad intervistare osservatori privilegiati che potesse-ro avere una visione globale del processo di riorganizzazione dell’ospedale. Questa scelta però ha contribuito ad aumentare la difficoltà nell’ottenere gli appuntamenti telefonici e a dilatare i tempi dato che, come è noto, i professionisti con incarichi dirigenziali non sono facilmente reperibili. Per avere un’idea di massima del tempo necessario per raccogliere le interviste, si può considerare la data della prima -- 23 maggio 2014 -- e dell’ultima intervista -- 19 settembre 2014 -- per un periodo com-plessivo di 4 mesi. Durante il periodo dedicato alla rilevazione delle informazioni sono state effettuate le telefonate, inviate le e-mail di contatto e di sollecito e fissati gli appuntamenti telefonici (non sempre rispettati). In generale le interviste si sono svolte in un clima di collaborazione e interesse per la tematica affrontata. La rispondenza degli intervistati è stata di diversa intensità: alcuni si sono limitati a rispondere in modo sintetico, altri hanno avuto piacere a fornire particolari significativi che sono stati raccolti in forma di note e analizzati separatamente in modo qualitativo.

7. LE DIMENSIONI DI ANALISI

Gli interrogativi di ricerca specificati precedentemente (cfr. par. 2), si basano su grup-pi di domande che si articolano nelle varie sezioni del questionario. Per selezionare gli indicatori utili all’analisi dei dati abbiamo identificato le dimensioni secondo le quali è possibile analizzare le strutture sanitarie prese in esame. Le dimensioni pre-scelte seguono la distinzione concettuale che è emersa alla luce della letteratura di riferimento analizzata nella prima parte di questo lavoro. L’obiettivo dell’analisi è quello di comprendere come è stato applicata concretamente la riorganizzazione per intensità di cura nelle strutture ospedaliere italiane, individuando così similarità e dif-ferenze tra le diverse esperienze. Ognuna delle dimensioni prescelte è stata misurata attraverso appositi indici numerici costruiti combinando in modo appropriato le rispo-ste alle domande relative a ciascuna dimensione. Le dimensioni di analisi sono tre:

1. la propensione ad aderire al modello di ospedale per intensità di cura; 2. la propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione

per intensità di cura;3. la propensione ad introdurre cambiamenti nella struttura organizzativa.

La prima delle tre dimensioni, la propensione all’aderenza al modello di ospedale per intensità di cura, misura il grado di aderenza agli aspetti che riguardano l’im-plementazione del modello di ospedale IDC. Come abbiamo visto nella prima parte del lavoro, in Italia non esiste un vero e proprio modello di ospedale per intensità di cura condiviso e valido su tutto il territorio nazionale. Per questo motivo, quando parliamo di “modello” facciamo riferimento in particolare al modello toscano, che abbiamo scelto di prendere come esempio poiché è quello per cui sono disponibili i più consistenti contributi utili a individuare le caratteristiche specifiche di implemen-tazione. Questo indicatore di propensione è stato ottenuto sommando le risposte alle domande presenti nel questionario finalizzate a misurare questa dimensione e riguar-danti: la definizione di ospedale per intensità di cura; gli elementi di differenziazione dei livelli; i criteri utilizzati per l’allocazione dei pazienti. La definizione operativa

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dell’indice di propensione all’aderenza al modello (IPM) è stata calcolata come segue, formalmente:

IPM = Ipmx1+ Ipmx2+ Ipmx3 + Ipmx4 + Ipmy1 + Ipmy2 + Ipmy3 + Ipmz1 + Ipmz2 + Ipmz3

Dove Ipmx esprime le quattro variabili ottenute con le risposte alla domanda a ri-sposta multipla: “Cosa intende per Ospedale organizzato per intensità di cure alla luce dell’esperienza nella sua struttura?”; Ipmx1 denota le risposte che confermano il superamento dell’articolazione dell’ospedale per reparti e specialità cliniche; Ipmx2

denota le risposte di chi condivide le risorse tra diversi reparti e unità operative; Ipmx3 denota il rafforzamento della struttura organizzativa dipartimentale; Ipmx4 de-nota l’organizzazione dell’attività secondo il livello di complessità assistenziale. Ipmy esprime le tre variabili ottenute con le risposte multiple alla domanda “Il paziente è assegnato a un diverso livello in funzione di cosa?”; Ipmy1 denota l’assegnazione se-condo il livello di instabilità clinica associata; Ipmy2 denota l’assegnazione secondo il livello di complessità assistenziale; Ipmy3 denota l’assegnazione secondo la durata della degenza. Ipmz esprime le risposte alla domanda “Il livello a cui è assegnato il paziente è differenziato in funzione di cosa?”; in questo caso Ipmz1 denota la diffe-renziazione del livello in base alle tecnologie disponibili; Ipmz2 denota la differen-ziazione del livello in base alla qualità e competenze del personale; Ipmz3 denota la differenziazione del livello in base alla quantità del personale.

La seconda dimensione, la propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura, è un indicatore che esprime la qualità e la quantità degli strumenti e dei processi che sono stati formalmente modificati o introdotti nella struttura ospedaliera a supporto della riorganizzazione per intensità di cura. Questo indicatore è stato ottenuto sommando le risposte alle domande pre-senti nel questionario relative all’introduzione di nuovi protocolli e linee guida per la gestione dei pazienti e corsi di formazione per il personale interno; alla condivisione della cartella clinica; all’adattamento dei sistemi informativi e di audit; all’adozione di strumenti e metodi di lean management. Più nel dettaglio, l’indice di propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura (IPP) è stato calcolato come formalmente segue:

IPP = Ippx + Ippy1 + Ippy2 + Ippy3 + Ippr + Ippz

Dove Ippx denota l’introduzione di nuovi protocolli e linee guida condivise; Ippy

esprime le tre variabili ottenute con le risposte multiple alla domanda “cosa prevede/ha previsto Il modello per intensità di cura?”; Ippy1 denota la condivisione della cartella clinica; Ippy2 denota l’adattamento dei sistemi informativi; Ippy3 denota l’a-dattamento dei sistemi di audit; Ippr denota l’adozione di strumenti e metodi di lean management. Infine, Ippz denota l’introduzione di corsi ad hoc9.

Il terzo ed ultimo indice misura la qualità e la quantità dei cambiamenti che sono stati introdotti in termini di personale e di struttura organizzativa, in seguito all’adozione del modello per intensità di cura. Questo indicatore è stato ottenuto sommando le ri-sposte alle domande presenti nel questionario finalizzate a misurare l’introduzione di cambiamenti organizzativi a livello formale; all’introduzione della figura dell’infermie-

9. In questo caso le domande considerate sono di due tipi: a risposta singola (Ippx; Ippz) e a risposta multipla. Nel primo caso è stata prevista solo una variabile per contenerla, mentre nel secondo caso sono state previste tante variabili quante sono le risposte pos-sibili (Ippy1, Ippy2, Ippy3).

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re tutor; della figura del medico tutor; e di altre figure ad hoc come il bed manager, il flow manager e l’operations manager. L’indice di propensione ad adottare cambia-menti nell’organizzazione interna (IPC) è stato calcolato formalmente come segue:

IPC = Ipcx + Ipcy + Ipcz + Ipcr + Ipcs

Dove Ipcx denota l’introduzione di cambiamenti organizzativi a livello formale; Ipcy denota l’introduzione di un infermiere responsabile del percorso del paziente (come l’infermiere tutor); Ipcz denota l’introduzione (o la previsione ad introdurre) un medico responsabile del percorso del paziente (come il medico tutor); Ipcr denota l’inserimen-to di altre figure ad hoc; Ipcs denota il numero di figure introdotte (bed manager, il flow manager e l’operations manager).

Gli indici così calcolati sono stati sottoposti a un test di attendibilità (alpha di Cronba-ch) volto a verificare la loro capacità di misurare in modo preciso le dimensioni corrispondenti. La coerenza interna degli indici, ossia il grado di accordo esistente tra le risposte alle domande (item) utilizzate per il calcolo di ognuno, è stata così determinata attraverso una misura che assume valori compresi tra 0 e 1, dove valori vicini allo 0 indicano una bassa attendibilità, mentre valori vicini a 1 indicano un’al-ta attendibilità (Cronbach, 1951). Questa misura esprime il rapporto tra la somma delle varianze degli item e la varianza totale della scala. Convenzionalmente, valori maggiori o uguali a 0,8 si interpretano come molto affidabili; valori compresi tra 0,7 e 0,8 indicano un grado di affidabilità più che soddisfacente; valori inferiori a 0,7 e maggiori o uguali a 0,6 sono interpretabili come appena affidabili; e, infine, valori minori di 0,6 corrispondono a livelli inaccettabili di affidabilità (Carmines e Zeller, 1979). Nella tabella 5 sono riportati i valori dell’alpha di Cronbach per i nostri tre indici (IPM, IPP e IPC) e il numero di variabili (item) che li compongono.

Tabella 5 – Valori dell’alpha di Cronbach per ogni indice sottoposto al test di affidabilità

Indice sottoposto al test Numero di item Alpha di Cronbach

IPM 10 0,8

IPP 6 0,7

IPC 5 0,6

Come si può notare dalla tabella 5, i risultati del test dimostrano l’affidabilità dei no-stri indici, in particolare, per due dei tre indici, IPM e IPP, l’affidabilità è risultata molto alta. Invece, nel caso dell’indice IPC, i valori del test sono interpretabili come appena affidabili (risultato probabilmente dovuto anche al basso numero di item utilizzati per ottenere quest’ultimo indice) ma comunque accettabili.

Nella tabella 6, invece, sono riportate le distribuzioni dei tre indici. Osservando i valori minimi e massimi, si può notare che, per quanto riguarda sia la propensione all’aderenza al modello, sia quella ad adottare strumenti e processi di supporto, c’è almeno un caso di risposta positiva ad almeno una delle domande che compongono l’indice e almeno un caso in cui tutte le risposte a tutte le domande sono state positive – punteggio pari a 10 nel caso di IPM e pari a 6 nel caso di IPP. Diversamente, per quanto concerne la propensione a introdurre cambiamenti nella struttura organizzati-va, notiamo che esiste un caso di risposta negativa a tutti gli item, ossia esiste almeno una struttura che ha affermato di non aver introdotto nessuno dei cambiamenti previ-sti. Osservando i valori medi, invece, si può notare come per IPM il valore sia piuttosto alto -- media pari a 8,1 (minimo 1 e massimo 10) -- così come per IPP -- media pari a 4,6 (minimo 1 e massimo 6) -- mentre è più basso nel caso di IPC -- media pari a 3,4 (minimo 0 e massimo 6).

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Tabella 6 – Distribuzione degli indici IPM, IPP e IPC: valore minimo, massimo e media

Indice sottoposto al test Minimo Massimo Media

IPM 1 10 8,11

IPP 1 6 4,62

IPC 0 6 3,41

Gli indici sono stati poi standardizzati (attraverso il calcolo degli z-score) per trasformarli in scale numeriche comparabili tra loro, tutte con media pari a 0 e varianza pari a 1. Attraverso questa trasformazione gli indici possono essere confrontati e combinati tra loro senza inficiare il risultato per la diversa misurazione delle variabili originali (figura 4).

8. L’ANALISI DEI GRUPPI

Gli interrogativi di ricerca come quelli che guidano questo studio (cfr. par. 2.2) sono stati affrontati mediante una analisi dei gruppi -- cluster analysis. Una tecnica di classificazione il cui obiettivo generale è descrivere il modo in cui le osservazioni del campione possono essere raggruppate e classificate definendo un certo numero di gruppi omogenei al loro interno a seconda dei valori delle variabili d’interesse. Nel nostro caso, le variabili d’inte-resse sono i tre indici -- IPM, IPP e IPC -- che, una volta standardizzati, sono stati utilizzati per creare uno spazio vettoriale a tre dimensioni, le tre dimensioni di analisi. Ogni struttu-ra ospedaliera del campione trova così la sua collocazione nello spazio a tre dimensioni rispetto al proprio grado di propensione all’aderenza al modello, di propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura, e di propensione da adottare cambiamenti nell’organizzazione interna (figura 4).

Figura 4 – Distribuzione delle osservazioni nello spazio a tre dimensioni: la propensione all’aderenza al modello (IPM), la propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura (IPP), e la propensione ad adottare cambiamenti nell’organizzazione interna (IPC)

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Come abbiamo detto, lo scopo di questo tipo di analisi è quello di identificare un certo numero di gruppi di strutture, omogenei al loro interno, nello spazio a tre dimen-sioni. La scelta del numero di gruppi è stata effettuata attraverso una tecnica mista. Dapprima i casi sono stati classificati con una tecnica gerarchica (tecnica di Ward, cfr. Appendice) definendo il numero ottimale di gruppi che, nel nostro caso, è pari a tre. In seguito, è stato utilizzato l’algoritmo dei k-means di tipo non gerarchico (Mac-Queen, 1967) che permette di effettuare l’assegnazione dei casi ai gruppi con ap-partenenza ad un solo gruppo. Con tale metodo è possibile suddividere le unità in k gruppi (con k scelto a priori, pari a 3), ognuno dei quali ha un centroide (baricentro). L’algoritmo assegna ciascuna unità al gruppo rappresentato dal centroide ad esso più vicino e, per ogni gruppo, viene calcolato il baricentro degli elementi che esso contiene. Tale valore indica il nuovo centroide del gruppo in base al quale si possono verificare le distanze delle varie unità dal proprio centroide. L’algoritmo itera questo processo fino a quando qualche condizione di arresto si verifica e blocca il processo.

9. SINTESI

In questa seconda parte del lavoro è stato illustrato il disegno della ricerca definito per rispondere agli interrogativi di ricerca. Nello specifico sono stati descritti i metodi e le tecniche utilizzati per definire la popolazione di riferimento, ossia il totale delle strutture ospedaliere che hanno dichiarato di aver concluso, avviato o progettato un processo di riorganizzazione dell’ospedale per intensità di cura. A seguire è stato descritto: il campione; lo strumento ossia il questionario strutturato, e le tecniche di somministrazione del questionario. Inoltre sono state definite le dimensioni di analisi, illustrate le modalità di costruzione degli indici utilizzati e la loro distribuzione. Infine, sono state descritte le tecniche impiegate per l’analisi dei gruppi.

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RISULTATI DELLA RICERCA

1. PREMESSA

Lo scopo di questa terza parte è quello di dare alcune risposte empiricamente fondate al principale gruppo di interrogativi di ricerca sui quali si fonda il presente lavoro (cfr. par. 2, seconda parte): quante e quali strutture dichiarano di aver progettato, avviato o realizzato una riorganizzazione per intensità di cura? Quante e quali strutture sono realmente interessate da processi di riorganizzazione di questo tipo? Le strutture re-almente interessate in che modo portano avanti questo tipo di processo? È possibile raggruppare le strutture in gruppi omogenei rispetto alle dimensioni considerate? Per rispondere a questi interrogativi, come dettagliatamente descritto nella seconda parte di questo lavoro, sono stati portati a termine due tipi di ricerca: l’attività di ricerca via web per censire le strutture che dichiarano di aver progettato, avviato o realiz-zato una riorganizzazione per intensità di cura; e l’indagine condotta attraverso la somministrazione del questionario al campione di strutture oggetto di studio. Nel prossimo paragrafo verranno illustrati in maniera dettagliata i risultati del censimen-to delle strutture che hanno dichiarato di aver progettato, avviato o realizzato una riorganizzazione per intensità di cura. Nel terzo paragrafo, invece, l’analisi viene approfondita prendendo in esame i risultati dell’indagine sul campione di strutture che hanno risposto al questionario. Il quarto paragrafo è dedicato ai risultati dell’analisi dei gruppi – cluster analysis -- e, infine, nel quinto paragrafo sono tracciate le osser-vazioni conclusive.

2. RISULTATI DEL CENSIMENTO

Come già anticipato nella seconda parte del lavoro, il censimento condotto attraverso la ricerca diretta e indiretta via web ha permesso di individuare 12410 strutture su 576 (totale di strutture ospedaliere in Italia) che, a vario titolo e in diversi contesti, dichiarano di aver progettato, avviato o realizzato con successo una riorganizzazio-ne dell’ospedale per intensità di cura. I primi risultati relativi all’attività di censimento hanno consentito di fotografare l’Italia con una distribuzione regionale riportata nella tabella 7.

Alla luce di questi risultati emerge una distribuzione disomogenea. In particolare, si può notare che esiste un solo caso, quello della regione Emilia Romagna, in cui l’inte-ra totalità delle strutture presenti sul territorio regionale ha dichiarato di aver progetta-to, avviato o realizzato una riorganizzazione per intensità di cura. In altre regioni, il numero è consistente ma minore rispetto al totale, come Toscana e Umbria, regioni in cui più della metà delle strutture ha dichiarato di aver progettato, avviato o realizzato una riorganizzazione per intensità di cura. Ci sono, poi, i casi di Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto in cui la presenza di dichiarazioni relative a una riorganizzazione per IDC è importante seppur non predominate. Infine, esistono realtà come Abruzzo, Molise, Puglia e Valle d’Aosta nelle quali si riscontra la totale assenza di dichiarazioni in merito a processi di riorganizzazione per intensità di cura.

10. Questo numero comprende le 6 strutture che durante il contatto telefonico, successivo alla ricerca via web, hanno affermato di non avere avviato (o progettato) una riorga-nizzazione per intensità di cura.

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Tabella 7 – Distribuzione delle strutture secondo la regione e la presenza (Sì) o assenza (No) di documenti e/o dichiarazioni in merito alla progettazione/avviamento/realiz-zazione di un modello organizzativo per intensità di cura (frequenze assolute)

Regione Sì No Totale

Abruzzo 0 18 18

Basilicata 2 7 9

Calabria 1 33 34

Campania 1 47 48

Emilia Romagna 27 0 27

Friuli Venezia Giulia 2 11 13

Lazio 11 51 62

Liguria 2 9 11

Lombardia 20 40 60

Marche 2 14 16

Molise 0 4 4

Piemonte 9 30 39

Puglia 0 36 36

Sardegna 3 29 32

Sicilia 1 64 65

Toscana 26 13 39

Trentino Alto Adige 3 12 15

Umbria 6 4 10

Valle d’Aosta 0 1 1

Veneto 8 29 37

Totale 124 452 576

Alla luce di questa prima ricognizione, possiamo concludere che la disomogeneità nella distribuzione delle dichiarazioni probabilmente è dovuta all’assenza di interven-ti normativi a livello nazionale capaci di indirizzare questa riorganizzazione ospeda-liera secondo uno specifico modello predefinito.

Nella figura 5, sono riportati i risultati del censimento, in proporzione alle strutture presenti in ogni regione, ottenuti calcolando la percentuale delle strutture che hanno dichiarato di essere interessate da una riorganizzazione IDC rispetto al totale. In par-ticolare, sono evidenziate in colore verde scuro le tre regioni con la più alta densità di strutture che hanno dichiarato di riorganizzarsi per intensità di cura (da 100% a 60%); in colore verde oliva sono indicate le regioni nelle quali la densità di strutture che hanno dichiarato una riorganizzazione per IDC è media (da 59% a 20%); in colore verde chiaro sono indicate le regioni in cui la densità è medio bassa (da 19% a 5%); infine, in colore grigio, ci sono le regioni nelle quali la densità è bassa o nulla (da 4% a 0%).

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Figura 5 – Densità delle strutture che hanno dichiarato una riorganizzazione IDC

Rispondenti IDC

n/r

Bassa

Media

Alta

In generale, dal censimento emerge che la concentrazione di strutture che hanno di-chiarato una riorganizzazione per IDC è maggiore al Centro Nord, mentre al Sud si osserva una bassa presenza (o addirittura nulla) di tali strutture.

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3. RISULTATI DELL’INDAGINE

L’elaborazione dei dati raccolti si è avvalsa di tecniche diverse e diversi livelli di analisi dei dati. Si è fatto uso di tecniche di analisi monovariata e bivariata, come si vedrà in questo paragrafo. L’analisi monovariata è stata impiegata, in una prima fase, per rappresentare sinteticamente le distribuzioni delle singole variabili, fornen-do così una descrizione complessiva del fenomeno oggetto di studio. I risultati delle statistiche descrittive sono utili e rilevanti proprio perché la riorganizzazione delle strutture ospedaliere per intensità di cura è un fenomeno non ancora ben definito in Italia. Successivamente, l’utilizzo di tecniche di analisi bivariata ha permesso, invece, di approfondire l’analisi dei dati raccolti, permettendo di evidenziare le eventuali correlazioni tra due o più variabili.

Figura 6 – Distribuzione del campione secondo la regione: frequenze assolute

1

2

1

3

9

10

11

Rispondenti IDC

n/r

Bassa

Media

Alta

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La distribuzione delle strutture che hanno risposto al questionario ci mostra che esse sono concentrate maggiormente in Emilia Romagna (11 strutture), Toscana (10) e Lombardia (9), come si può notare osservando i dati riportati nella figura 6. In Pie-monte e Trentino Alto Adige i numeri sono decisamente più contenuti (rispettivamente 3 e 2 strutture rispondenti), mentre in Liguria e Veneto solo una struttura ha deciso di sottoporsi all’intervista telefonica. Per tutte le altre regioni non abbiamo ottenuto dati relativi all’IDC. Da qui in avanti, saranno riportati i dati relativi al questionario sommi-nistrato alle 37 strutture rispondenti.

Figura 7 – Distribuzione delle risposte alla domanda: “il processo di IDC presso la sua struttura risulta: in fase progettuale, di realizzazione o concluso?” (n=37)

9

26

2

0 5 10 15 20 25

Fase

del

pro

cess

o

In fase progettualeIn fase di realizzazioneConcluso

Nella figura 7 sono riportati i dati relativi alla domanda: “il processo di IDC presso la sua struttura risulta: in fase progettuale, di realizzazione o concluso?”. Il numero di strutture per le quali il processo di riorganizzazione secondo il modello per intensità di cura risulta in corso, ossia in fase di realizzazione al momento dell’intervista, è pari a 26 su un totale di 37. Il processo di riorganizzazione risulta concluso per 9 strutture, mentre è in una fase progettuale per 2 ospedali del nostro campione. Ne deriva che il 75% circa delle strutture presenti nel campione è ancora in una fase progettuale o di realizzazione del processo mentre solo il 24% delle strutture intervistate ha portato a termine la riorganizzazione per intensità di cura.

Per ogni struttura sono stati rilevati anche l’anno di avvio e l’anno di conclusione – effettivi o previsti – del processo di riorganizzazione per intensità di cura e, dai dati raccolti e riportati nella figura 8, si può osservare che più di due terzi delle strutture hanno avviato il processo di organizzazione per intensità di cura negli ultimi cinque anni -- ossia tra il 2011 e il 2014 -- e che solamente cinque ospedali l’hanno avviato prima del 2008.

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Figura 8 – Anno di avvio (pallino verde) e di conclusione (triangolo rosso) del processo IDC (n=37)

123456789

10111213141516171819202122232425262728293031323334353637

19951997

19992001

20032005

20072009

20112013

20152017

2019

Anno di avvio Anno di conclusione

Guardando i dati relativi all’anno di conclusione, notiamo che per 8 strutture esso coincide con il 2014, mentre per 16 ospedali l’organizzazione per intensità di cura si concluderà tra il 2015 e il 2016. Infine, per sette strutture non è riportato l’anno di conclusione poiché i referenti delle direzioni sanitarie non hanno ritenuto possibile fornire questo tipo di informazione. Un caso particolare è costituito da un solo istituto clinico per il quale è stato indicato il 1996 come anno di conclusione del processo, che coincide con l’anno di inizio delle attività dell’ospedale. Infatti, secondo il rispon-dente, questo istituto è stato organizzato secondo il modello per intensità di cura fin dalla sua progettazione e costruzione. Con riferimento alle trenta strutture che indica-no sia la data di avvio che di conclusione del processo è interessante notare come, in media, esso ricopra un arco temporale di circa quattro anni. Per i progetti dichiarati conclusi la durata media si attesta a tre anni e mezzo, con un picchi che vanno da cinque fino a otto anni. Tra i progetti in corso di realizzazione la durata media si alza fino ad arrivare a quattro anni e mezzo circa, presentando del resto un picco di tredici anni, uno di undici e due di nove anni. A questo dato si contrappongono

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cinque realtà che prevedono un processo molto rapido indicando come anno di avvio il 2014 e la conclusione entro un anno. Tali realtà sono principalmente localizzate in Emilia Romagna. Quando si guarda all’anno di avvio e di conclusione di tali processi è importante precisare che qualsiasi processo di ristrutturazione organizzativa richie-de il coinvolgimento di una serie di variabili --- organizzative, strumentali e procedu-rali – il cui equilibrato funzionamento va testato nel tempo secondo fasi ben definite e graduali. Tutto ciò determina un tempo “fisiologico” di adattamento e di sviluppo.

Figura 9 – Distribuzione congiunta del livello decisionale del processo IDC (regionale o aziendale); e della presenza (sì) o assenza (no) di un finanziamento ad hoc: frequenze assolute (n= 37)

2

14

4

17

0 5 10 15 20

Regionale

Aziendale

No Sì

Il livello decisionale prevalente relativo all’adozione del modello organizzativo per intensità di cura sembra essere quello aziendale: infatti 21 strutture (poco più della metà) dichiarano che il processo di riorganizzazione è stato realizzato su iniziativa aziendale, mentre 16 strutture dichiarano che tale processo è stato realizzato su ini-ziativa regionale. Se si guarda invece alla presenza o assenza di un finanziamento ad hoc dedicato al processo di riorganizzazione per intensità di cura, si osserva che tale finanziamento è stato previsto solo per 6 strutture, di cui 4 ne hanno beneficiato a livello aziendale e altre 2 a livello regionale.

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37

Figura 10 – Distribuzione delle strutture che hnno dichiarato di aver avviato il processo IDC in tutte le unità operative/aree (sì) o solo in alcune (no): frequenze assolute (n=37)

19

18

0 5 10 15 20

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Tutte

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Rispetto al coinvolgimento di tutte le unità operative o di tutte aree della struttura ospedaliera nel processo di riorganizzazione IDC o solo di alcune sue parti, Il nostro campione si divide in due gruppi, di numerosità quasi identica. Infatti, come rappre-sentato nella figura 10, al momento dell’intervista, in 18 strutture risultano coinvolte solo alcune aree o unità operative mentre per 19 strutture il processo di riorganizza-zione per intensità di cura ha interessato l’intero ospedale.

Inoltre, al fine di comprendere quali unità operative fossero più coinvolte di altre in simili processi di riorganizzazione delle strutture ospedaliere, per ognuna delle disci-pline ospedaliere previste dal Ministero della Salute, è stato chiesto agli intervistati di indicare il coinvolgimento nel processo di IDC delle diverse specialità.

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Figura 11 – Principali specialità coinvolte nel processo riorganizzazione per intensità di cura: frequenze assolute (n=37)

17

17

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19

19

20

21

23

25

28

28

0 10 20 30

Nefrologia

Neurologia

Ortopedia e traumatologia

Ostetricia e ginecologia

Pneumologia

Oculistica

Chirurgia vascolare

Cardiologia

Urologia

Chirurgia Generale

Medicina Interna

Come è possibile notare guardando la figura 11, le specialità indicate più frequen-temente dai rispondenti come quelle più coinvolte sono le seguenti: medicina interna (n=28) chirurgia generale (n=28); urologia (n=25); cardiologia (n=23); chirurgia va-scolare (n=21); oculistica (n=20); pneumologia (n=19); ortopedia e traumatologia (n=19); ostetricia e ginecologia (n=19)11. Un risultato emerso in questa fase della ricerca è proprio l’individuazione delle specialità più colpite. Infatti, tra gli obiettivi di un futuro approfondimento c'è quello di capire come ogni singola specialità, tra quelle che risultano essere le più coinvolte, abbia reagito al cambiamento. Questo perché sarebbe utile cogliere le specificità che possono portare alla luce differenze fondamentali nell'implementazione della riorganizzazione per intensità di cura.

Passando agli interventi strutturali, sugli edifici degli ospedali, avvenuti in concomi-tanza all’adozione del modello organizzativo per intensità di cura, pressoché in tutte le strutture sanitarie del nostro campione (34 su un totale di 37) sono stati realizzati interventi di questo tipo.

11. Le frequenze riportate per le specialità coinvolte nel processo di organizzazione per intensità di cura non tengono conto della distribuzione delle discipline nelle strutture del campione.

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Figura 12 – Tipo di intervento previsto nelle strutture ospedaliere che hanno effettuato interventi strutturali: frequenze assolute (n=34; casi mancanti = 3)

23

3

8

0 5 10 15 20 25

Inte

rven

ti str

uttu

rali

Nuovo presidioNuove partiRistrutturazione presidio

Come mostrano i dati riportati nella figura 12, il tipo di intervento più frequente è la ristrutturazione dell’edificio esistente (n=23), seguito dalla costruzione di un nuovo ospedale (n=8) e dalla realizzazione di nuove parti nell’ambito del presidio esistente (n=3). Un caso particolarmente interessante è costituito dalle strutture che, secondo i rispondenti, sono state progettate e costruite ex novo in modo da rispondere alle spe-cifiche esigenze funzionali, organizzative e logistiche dell’ospedale per intensità di cura. Le strutture in questione sono le seguenti: Istituto Clinico Humanitas di Rozzano; Azienda Ospedaliera Sant’Anna di Como; Azienda Ospedaliera di Legnano; Azien-da Ospedaliera di Vimercate; Presidio Ospedaliero di Imola; Azienda Ospedaliero-U-niversitaria di Ferrara; Ospedale Zona Apuana di Carrara; Ospedale San Jacopo di Pistoia. Queste otto strutture di ricovero sono collocate in tre regioni del Centro-Nord e in particolare in Lombardia (n=4), Emilia Romagna (n=2) e Toscana (n=2). Anche la struttura architettonica connota fortemente il processo organizzativo per intensità di cura e queste otto realtà sono quelle in cui è stato interamente abbracciato il modello di riorganizzativo.

Tra gli obiettivi di un futuro approfondimento di questo studio c'è anche quello di mettere a confronto i principali requisiti architettonici che sono richiesti affinché ci sia una struttura idonea alla riorganizzazione per intensità di cura. Con le attuali carat-teristiche architettoniche delle strutture ospedaliere italiane che, come noto, risalgono ad anni in cui non era nemmeno immaginabile un'ipotesi di riorganizzazione simile all'IDC, non è sempre possibile adattare gli edifici esistenti che talvolta sono soggetti a vincoli dettati da norme di salvaguardia degli edifici storici.

Ma a cosa o a chi si sono ispirate le strutture che hanno deciso di avviare o program-mare un intervento di riorganizzazione per IDC?

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Figura 13 – Principali fonti di ispirazione del modello IDC: frequenze assolute (n=33; casi mancanti = 4)

9

3

14

7

0 5 10 15

Font

e di

ispi

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del m

odel

lo ID

C

Letteratura Ospedali italianiOspedali esteri Tutte le precedenti

Per la maggior parte delle strutture (n=14), i rispondenti dichiarano che la principale fonte di ispirazione per l’implementazione del modello per intensità di cura è ricon-ducibile ad altre realtà ospedaliere italiane. A seguire troviamo le nove strutture che hanno dichiarato di non avere un'unica fonte di ispirazione ma di essersi ispirati sia agli ospedali italiani, alla letteratura di riferimento e agli ospedali esteri. La letteratura di riferimento risulta una importante fonte di ispirazione per sette strutture, mentre solo tre strutture hanno dichiarato di essersi ispirate a esperienze di altri ospedali esteri.

Durante la fase di somministrazione dei questionari, sono emerse ulteriori informa-zioni, utili ad arricchire le risposte appena commentate. In alcuni casi, i rispondenti hanno riferito che l’adozione del modello è stata promossa dai professionisti della direzione sanitaria e generale provenienti da altre realtà ospedaliere dove il modello era già stato implementato con successo; questo fenomeno si è verificato non solo all’interno della stessa regione, ma anche tra regioni diverse. Infine, alcuni intervistati hanno dichiarato che, preliminarmente all’adozione del modello, sono state effettuate più visite di studio presso altri ospedali italiani già organizzati per intensità di cure.

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Figura 14 – Distribuzione delle strutture secondo i livelli di intensità di cura previsti: frequenze assolute (n=35; casi mancanti = 2)

10

17

8

0 5 10 15 20

Num

ero

di li

velli

IDC

Due livelliTre livelliQuattro livelli

Passando ad un altro aspetto che abbiamo trattato in precedenza (cfr. par 5, prima parte), se guardiamo al numero di livelli previsti nella riorganizzazione per intensità in cui, come si nota dai dati riportati nella figura 14, emerge una forte preferenza per un riassetto organizzativo a tre livelli assistenziali. Infatti, 17 strutture sanitarie (pari al 46% del totale) adottano la divisione prevalente in tre livelli, mentre sono organizzate in quattro livelli 10 strutture (27%) e, solo otto strutture (22%) prevedono due livelli.

Come è stato già evidenziato alla luce della rassegna della letteratura di riferimento, in Italia non c’è omogeneità nella declinazione dei differenti livelli di cura, nonostante la letteratura riconduca genericamente il modello ai tre livelli comunemente conosciuti: il livello 1, ad alta complessità, che comprende la terapia intensiva e subintensiva; il livello 2, a intensità media, che comprende il ricovero ordinario e il ricovero a ciclo breve e che presuppone la permanenza di almeno una notte in ospedale (week sur-gery, one-day surgery); e il livello 3, a bassa intensità che è dedicato alla cura delle post-acuzie nella fase conclusiva del percorso di cura. Appare interessante notare che tale disomogeneità nella differenziazione per livelli di intensità di cura sia presente anche all’interno della stessa regione, avvalorando la tesi di un’assenza di un modello di organizzazione ospedaliera per IDC condiviso anche per quei contesti che più di altri hanno lavorato sul coinvolgimento a livello regionale.

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Figura 15 – Distribuzione dei criteri di assegnazione dei pazienti: frequenze assolute (n=37)

22

15

30

7

33

4

0 5 10 15 20 25 30 35

Durata degenza

Complessità assistenziale

Instabilità clinica

No Sì

Guardiamo ora ad uno degli aspetti caratterizzanti del modello organizzativo per intensità di cura, ossia i criteri di allocazione dei pazienti ad un determinato livello di intensità di cura. Tra i criteri, condivisi in letteratura, si possono trovare l’instabilità clinica, la complessità assistenziale e la durata della degenza. Nel rispondere alla domanda relativa al criterio di assegnazione è stata data la possibilità di risposta multipla per cui i rispondenti hanno indicato uno o più criteri. Se si osservano i dati riportati nella figura 15, si può notare che il criterio di allocazione del paziente più utilizzato è l’instabilità clinica (n=33) e, a seguire, troviamo la complessità assisten-ziale (n=30). La durata di degenza, invece, risulta essere il meno utilizzato. A livello regionale è riscontrabile una forte omogeneità di scelta nell’applicazione di tali criteri di allocazione per la Toscana e il Piemonte.

Per quanto riguarda gli elementi secondo i quali i livelli di intensità si differenziano, è stata data la possibilità ad ogni rispondente di selezionare più risposte e quella che ha registrato il massimo numero di risposte affermative, come è possibile vedere os-servando la figura 16, è la quantità del personale. Invece, la qualità e le competenze del personale insieme alle tecnologie disponibili hanno ottenuto un numero inferiore di risposte affermative ma comunque elevato (29 su 37).

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Figura 16 – Distribuzione dei criteri di differenziazione dei livelli di intensità: frequenze assolute (n=37)

30

7

29

8

29

8

0 5 10 15 20 25 30

Quantità del personale

Qualità del personale

Tecnologie

No Sì

Figura 17 – Distribuzione dei significati associati all’intensità di cura: frequenze assolute (n=37)

36

1

23

14

34

3

34

3

0 5 10 15 20 25 30 35

Organizzazione per complessità

Rafforzamento dipartimenti

Condivisione risorse

Superamento reparti

No Sì

Un altro aspetto che è stato indagato è il significato (o la definizione) che viene as-sociato all’intensità di cura. Anche in questo caso i rispondenti potevano dare la loro preferenza a più di una definizione. I risultati riportati nella figura 17 mostrano che

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la quasi totalità delle strutture (36 su 37) associano all’esperienza IDC un significato riconducibile all’organizzazione dell’attività secondo il livello di complessità assisten-ziale. Un numero minore, ma sempre elevato, di preferenze è stato dato alla condi-visione delle risorse tra diversi reparti e unità operative, così come al superamento dell’articolazione dell’ospedale per reparti e specialità cliniche. In ultima posizione, con solo 23 preferenze, troviamo il rafforzamento della struttura organizzativa dipar-timentale.

Figura 18 – Distribuzione dei casi secondo il momento di introduzione di strumenti e metodi Lean Management (n=27; casi mancanti = 10): Frequenze assolute.

8

14

5

0 5 10 15

Introduzione a strumenti e metodi del Lean Management

Dopo

Durante

Prima

Tra tutti gli intervistati, 27 hanno dichiarato di aver adottato strumenti e metodi di lean management mentre 10 hanno dichiarato di non averlo fatto. Guardando ai dati riportati nella figura 18, relativi alle strutture che hanno adottato strumenti e metodi di lean management osserviamo che più della metà ha adottato questa filosofia manage-riale in concomitanza al processo di organizzazione per intensità di cura, mentre cin-que strutture lo hanno fatto prima e otto prevedono di farlo in un momento successivo.

Questo dato porterebbe a confermare quanto descritto nella prima parte di questo lavoro, in particolare, potrebbe essere indicativo del fatto che l’introduzione di una lo-gica Lean (soprattutto nei casi in cui venga fatto prima o durante) sia parte integrante e fondante dei processi di riorganizzazione per intensità di cura.

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Figura 19 – Distribuzione congiunta riguardante a) l’introduzione di cambiamenti organizzativi formali; b) la previsione di introduzione di un infermiere tutor; c) la previsione di introduzione di un medico tutor. Frequenze assolute (n=37)

8

2

1

1

0 5 10 15

Introduzione infermiere tutor

Nessun infermiere tutor

Nessun cambiamento nell'organigramma

15

5

2

3

0 5 10 15

Introduzione infermiere tutor

Nessun infermiere tutor

Cambiamento nell'organigramma

Nessun medico tutor Introduzione medico tutor

Nella figura 19 sono rappresentati i risultati congiunti relativi a tre domande che riguardavano cambiamenti nell’organizzazione del personale. Nella maggior parte dei casi (25 su 37) si sono verificati cambiamenti formali nell’organigramma della struttura ospedaliera, mentre in dodici casi è stato dichiarato che non è avvenuto nes-sun cambiamento formale nell’organigramma. Inoltre, si può osservare che le strutture che hanno introdotto la figura dell’infermiere tutor superano quelle che introducono la figura del medico tutor e che non sempre le due cose vanno di pari passo, abbiamo casi in cui è stato introdotto l’uno ma non l’altro e viceversa, mentre in ben 15 casi è stato apportato un cambiamento formale nell’organigramma e sono state introdotte sia la figura dell’infermiere tutor sia quella del medico tutor.

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Passando al tema delle altre figure che possono essere introdotte nei processi di rior-ganizzazione per intensità di cura, abbiamo chiesto espressamente agli intervistati se avessero introdotto altre figure ad hoc oltre a quelle dell’infermiere tutor e del medico tutor. Sono ben 22 le strutture che hanno risposto in modo affermativo dichiarando di aver introdotto altre nuove figure. Nella figura 20 sono riportati i risultati delle risposte alla domanda: “Indicare quali figure sono state inserite”.

Figura 20 – Distribuzione delle risposte alla domanda sull’introduzione di nuove figure ad hoc: Frequenze assolute (n=21)

2

3

1

15

0 5 10 15

Nuo

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gure

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Bed manager Flow managerOperations manager Tutte le precedenti

Dalla figura 20, si può osservare che alcune strutture (21) hanno introdotto specifiche figure professionali e la figura introdotta più di frequente è quella del bed manager – ruolo introdotto in 15 strutture – seguito dall’operations manager – ruolo introdotto in 3 strutture – e, infine, dal flow manager, introdotto solo in un caso. Infine, due strutture tra quelle presenti nel campione hanno introdotto tutte le figura fin qui citate.

Il tasso di realizzazione di corsi di formazione rivolti al personale interno, ai fini di facilitare la conoscenza e la condivisione delle caratteristiche del modello IDC nella struttura interessata, è pari all’89%. In tutti i casi, le attività sono state rivolte al per-sonale sanitario, e in particolare ai medici e agli infermieri, mentre nel 57% dei casi sono stati coinvolti anche altri profili professionali, come il personale amministrativo.

Nonostante siano stati riscontrati questi sforzi verso il cambiamento è stato riscontrato anche un certo grado di resistenza interna nei confronti dell’implementazione del modello per intensità di cura. Nello specifico, è stato registrato che in più dell’80% dei casi (31 strutture) c’è stata una forte resistenza al cambiamento. A manifestare questo tipo di opposizione al cambiamento, principalmente, è stato il personale me-dico (n=25), seguito dal personale infermieristico (n=10) e solo in 2 casi i rispondenti hanno segnalato la presenza di resistenze da parte dei pazienti rispetto a questo tipo di organizzazione delle attività.

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4. RISULTATI DELL’ANALISI PER GRUPPI (CLUSTER)

Per raggruppare e classificare le unità ospedaliere del campione in gruppi omogenei sono stati costruiti - grazie al corpus di dati raccolti - appositi indici. Nello specifico, sono stati individuati tre indicatori (seconda parte, cfr. par. 7) che hanno permesso di ottenere misurazioni su specifiche dimensioni di interesse relative al grado di aderen-za al modello di ospedale per intensità di cura delle strutture considerate (IPM), alla propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’IDC (IPP), alla propen-sione a introdurre cambiamenti nell’organizzazione interna (IPC).

Figura 21 – Distribuzione dei tre indici di propensione al modello IDC: propensione all’aderenza al modello (IPM), propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’IDC (IPP), propensione a introdurre cambiamenti nell’organizzazione interna (IPC)

La distribuzione dei tre indici di propensione all’IDC (IPM, IPP, IPC) è sintetizzata graficamente nella figura 21 nella quale sono raffigurati i boxplot (detti anche box and whiskers plot, ovvero diagrammi a scatole e baffi) che riassumono visivamente le caratteristiche della distribuzione degli indici. Gli estremi di ciascun boxplot rappre-sentano i valori minimi e massimi della distribuzione di ogni indice. I lati della scatola indicano rispettivamente il primo quartile e il terzo quartile, la riga centrale che taglia la scatola indica la mediana, indicatore del valore centrale, che risulta diversa per tutti e tre gli indici. In tutte e tre le distribuzioni la media e la mediana non coincidono. Nello specifico, nel primo caso (IPM) la media supera la mediana, mostrando una distribuzione asimmetrica positiva (o distribuzione obliqua a destra). Nel secondo e terzo caso (IPP, IPC), invece, la media è minore della mediana perché gran parte delle osservazioni si posizionano su valori bassi, presentando così una distribuzione asimmetrica negativa (o distribuzione obliqua a sinistra). Inoltre, se si osserva la lunghezza delle scatole, che corrisponde alla differenza tra primo e terzo quartile (misura che quanto più è ampia tanto più i dati sono dispersi rispetto alla mediana), si nota che il terzo indice (IPC) presenta un ampio campo di variazione (1,9). Infine, si evidenzia la presenza di valori anomali nel primo indice di propensione, che cor-rispondono ai pallini verdi posizionati all’estremità del baffo del boxplot. Si tratta di

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valori estremi della distribuzione che si caratterizzano per essere estremamente bassi e che rappresentano casi isolati rispetto alla distribuzione.

A partire dagli indici sopradescritti (seconda parte, cfr. par. 8), sono stati individuati, attraverso l’analisi dei gruppi (o cluster analysis), 3 gruppi (o cluster) mutualmente esclusivi e tendenzialmente omogenei al loro interno. Il risultato di questo procedimen-to può essere visualizzato graficamente nella figura 22. I punti che rappresentano le strutture ospedaliere sono stati colorati in base all’appartenenza ai tre gruppi, inoltre, tutti i punti sono stati collegati con delle linee al centroide del proprio gruppo.

Tabella 8 – Coordinate dei centroidi e numerosità delle osservazioni (N), secondo il cluster di appartenenza

Cluster 1 Cluster 2 Cluster 3

Z-score: IPM 0,28 0,06 -2,61

Z- score: IPP 0,50 -1,21 -1,13

Z- score: IPC 0,33 -0,50 -1,53

N 26 8 3

Dai dati riportati nella tabella 8, in cui sono riportate le coordinate dei centroidi e la numerosità dei casi di ogni cluster, è possibile ottenere un quadro riassuntivo delle caratteristiche dei tre gruppi individuati. Trattandosi di indici standardizzati, il segno positivo indica valori sopra la media e quello negativo valori sotto la media.

Figura 22 – Distribuzione delle osservazioni nello spazio a tre dimensioni definito dai tre indici: la propensione all’aderenza al modello (IPM), ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura (IPP), e ad adottare cambiamenti nell’organizzazione interna (IPC), secondo il gruppo (cluster) di appartenenza

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Il primo cluster individuato è quello più popolato e conta 26 strutture sanitarie (70% del campione). Le strutture incluse in questo gruppo, nel processo di riorganizzazio-ne per intensità di cura, sono caratterizzate da valori positivi e superiori alla media rispetto a tutte e tre le scale. In particolare, presentano una forte propensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura (0,50); una propensione abbastanza elevata al cambiamento (0,33); e una discreta aderenza al modello (0,28). Dunque, le strutture sanitarie appartenenti a questo grup-po sembrano propense a mettersi in gioco dimostrando un’apertura al cambiamento organizzativo, con una spiccata voglia di rinnovare le prassi consolidate e una volon-tà marcata a spostare il baricentro assistenziale dalle esigenze dell’organizzazione (e degli operatori) a quelle dei pazienti. Per questi motivi abbiamo definito gli ospedali di questo primo gruppo come quello degli “innovatori”.

Nel secondo cluster sono comprese 8 strutture (22% del campione). Le strutture incluse in questo gruppo sono caratterizzate da valori positivi in un solo caso e negativi negli atri due. Infatti, questo gruppo presenta una propensione all’aderenza al modello intorno alla media (0,06); una bassa propensione al cambiamento (-0,50); e una pro-pensione ad adottare strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensi-tà di cura decisamente più bassa della media (-1,21). In questo caso, la propensione ad aderire al modello non si accompagna a un’effettiva propensione al cambiamento organizzativo in termini di strumenti e processi adottati. Questo gruppo sembra ridur-si a una dichiarazione d’intenti retorica che si allontana dalla reale introduzione e formalizzazione di possibili azioni atte al cambiamento organizzativo per intensità di cure. Questa distanza tra “dichiarazione di intenti” e “azioni concrete” ci permette di definire questo gruppo come quello dei “retorici”.

Il terzo ed ultimo cluster raggruppa solo 3 strutture (8% del campione). Le strutture di questo gruppo sembrano le più avverse al processo di riorganizzazione per intensità di cura. Infatti, questo gruppo presenta valori negativi, e al di sotto della media, per tutti gli indici, IPM, IPC e IPP rispettivamente (-2,61; -1,53; -1,13). In questo gruppo le strutture sembrano mantenere atteggiamenti “tradizionalistici” nel loro modello di azione, rivelando una forte debolezza di fondo in termini di cambiamento culturale, necessario ad orientare l’organizzazione ospedaliera al riconoscimento e all’introdu-zione di un nuovo modello. Emerge quindi una tendenza alla resistenza a superare le tradizionali modalità di assistenza incentrate sui ruoli e su una gestione monospe-cialistica (verticale) del paziente. Questa mancanza di apertura al cambiamento ci permette di definire questo terzo gruppo come quello dei “conservatori”.

In sintesi, l’analisi fin qui condotta fa emergere profili distinti. I cluster 1 e 3 sembrano caratterizzati da un orientamento preciso anche se in direzione opposte: positivo in un caso e negativo nell’altro per tutte e tre le dimensioni. Il cluster degli “innovatori” presenta un’elevata capacità di attivare un processo di cambiamento organizzativo utilizzando tutti gli strumenti necessari. Il cluster dei “conservatori”, invece, sembra compromettere ogni tipo di riorganizzazione per intensità di cure. Infine, nel cluster dei “retorici” si osserva un atteggiamento più indefinito, caratterizzato da una certa propensione – almeno in linea di principio – all’aderenza al modello accompagnata da una scarsa propensione in termini di adozione di strumenti e processi e introduzio-ne di cambiamenti organizzativi.

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5. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Come già precisato nel corso del lavoro, il mondo dell’intensità di cura in Italia è caratterizzato dall’assenza di un’effettiva e comune “modellizzazione”. L’analisi con-dotta delinea un quadro variegato che frutto di una forte personalizzazione dei criteri, degli strumenti e delle metodologie a supporto dello sviluppo dell’IDC che ritroviamo anche in quei contesti nei quali si rileva una maggiore partecipazione a livello re-gionale. Dall’analisi dei dati raccolti emergono soluzioni operative e organizzative “ibride” se confrontate con quanto riportato nella letteratura (sia essa nazionale che internazionale). È interessante notare come per più della metà del campione la fonte di ispirazione per progettare e implementare il modello è da rintracciarsi nell’osserva-zione diretta di casi e pratiche già sperimentate in altre realtà ospedaliere, per lo più a livello nazionale. Tale atteggiamento sembra confermare che in Italia l’assenza di li-nee guida comuni abbia lasciato ampia libertà di interpretazione e scelta nello svilup-po di tale modello organizzativo, generando quindi soluzioni “ibride” che appaiono un mix di diverse pratiche, ognuna delle quali mutuata e ragionata in relazione ad un opportuno processo di organizzazione. Sebbene dall’analisi della letteratura appaia comunemente riconosciuto un modello IDC italiano basato su tre livelli di intensità per la collocazione del paziente, i dati raccolti fanno emergere anche in questo caso una forte disomogeneità di applicazione. Sono presenti, infatti, differenti articolazioni e declinazione degli stessi che vanno da 2 a 4 livelli, contrariamente a quanto generi-camente riconosciuto come “il modello Italiano” che si attesta su tre livelli.

Dall’osservazione dei dati rilevati emerge, inoltre, che la distribuzione dei livelli di intensità non solo è differente tra ospedali di regioni diverse ma anche all’interno della stessa regione. Elemento che avvalora l’assenza di rigide indicazioni regionali, confermando la forte contestualizzazione ed eliminando anche nel caso del “modello Toscano” un’effettiva e totale omogeneità. Oltre ai livelli di intensità censiti per singolo ospedale tra i principali caratteri del modello IDC ritroviamo i criteri di collocazione del singolo paziente all’interno di un determinato livello, generalmente riconducibili, come confermato dalla maggioranza dei casi analizzati, all’instabilità clinica, alla complessità assistenziale ai quali si aggiunge in alcuni casi anche la durata della degenza. L’implementazione di soluzioni organizzative richiede la progettazione e lo sviluppo di interventi, metodi, strumenti atti a rendere effettivamente operativo un semplice modello teorico. La durata di implementazione degli interventi IDC è eviden-temente influenzata da interventi di grande portata che portano alla ristrutturazione di spazi per soddisfare uno dei requisiti dei modelli IDC, ossia il superamento della frammentazione del processo assistenziale a favore di una continuità dettata dal fat-tore di risposta ai bisogno di assistenza, nonché l’effettivo superamento dei reparti e l’effettiva condivisione delle risorse.

Spingendosi verso una prima modellizzazione dell’esperienza italiana è possibile os-servare che a livello pressoché omogeneo, lo sviluppo di soluzioni organizzative IDC (nelle diversi fasi di vita, dalla progettazione all’effettiva realizzazione) che rilevano per oltre il 91% dei casi il rispetto di tre condizioni fondamentali per l’aderenza al modello IDC, ossia la presenza di interventi strutturali, il superamento della suddivi-sione dei reparti nonché l’effettiva condivisione delle risorse. La mancata presenza di tali elementi nei 3 casi restanti (3 rispetto ai 37) è, evidentemente, un fattore di scarsa aderenza al modello di riferimento. Qualsiasi cambiamento organizzativo richiede il coinvolgimento di variabili materiali ed immateriali, tra queste prima fra tutte le risor-se umane soprattutto nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un’azienda operante nel mondo dei servizi. Le trasformazioni organizzative non possono garantire il raggiun-gimento degli obiettivi prefissati se non accompagnate da adeguati percorsi di cresci-

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ta, valorizzazione, formazione delle risorse umane. Si tratta di definizione di figure professionali ad hoc in grado di supportare i processi di trasformazione oppure di formazione ed accrescimento delle competenze necessarie a far funzionare al meglio la nuova organizzazione. Il coinvolgimento delle risorse umane, oltre ad essere fonte di efficacia di tali processi può aiutare a combattere le resistenze fisiologiche ai cam-biamenti, sebbene dall’analisi emerga che nonostante la diffusa e capillare attività formativa, le resistenza interne permangono verso l’introduzione di modelli innovativi come l’IDC che scardina dalla radice i tradizionali principi di assistenza ospedaliera. L’integrazione è garantita anche dal differente impiego e qualifica delle risorse uma-ne. Tra queste, elementi fondamentali del modello IDC, come confermato dall’analisi dei dati, c'è la figura dell’infermiere tutor che si presenta come il punto di riferimento dell’attività assistenziale con una naturale evoluzione del suo ruolo in azienda insieme al medico tutor, colui che dopo aver preso in carico il paziente ne diventa il responsa-bile dell’intero percorso clinico, con tutte le conseguenze del casi, anche in relazione al rapporto con la famiglia. Ad essi si aggiunge il bed manager che diviene di fatto il centro di coordinamento dell’intero flusso dei pazienti in entrata ed uscita dai percorsi di ricovero, si presenta, difatti, come il punto al quale convergono tutte le richieste di posti letto di ricovero. Queste figure professionali si presentano, in sostanza, come elementi che favoriscono l’integrazione e che accompagnano l’effettivo superamento della frammentazione tra i diversi reparti. Dall’analisi dei casi emerge che un’organiz-zazione che si basa sul superamento della divisione tra i reparti prevede l’adozione di tali figure che, evidentemente, garantiscono lo sviluppo di processi IDC.

L’analisi per cluster, infine, ha permesso un'efficace segmentazione dei casi che ha portato ad individuare gruppi di strutture sanitarie distinti in base al livello di propen-sione al modello. In particolare, sono stati individuati tre gruppi con profili distinti. Il gruppo più numeroso (il 70% del campione) è stato definito quello degli “innovatori” perché presenta un’elevata capacità di attivare un processo di cambiamento organiz-zativo utilizzando tutti gli strumenti necessari. Il secondo gruppo è quello dei “retorici” (il 22% del campione), dove si osserva un atteggiamento più indefinito, caratterizzato da una certa propensione – almeno in linea di principio - all’aderenza al modello ac-compagnata da una scarsa propensione in termini di adozione di strumenti e processi e introduzione di cambiamenti organizzativi. Per ultimo, il gruppo dei “conservatori”, il meno numeroso (l’8% del campione), invece, si distingue per una bassa propensio-ne al modello e una bassa propensione a mettere in atto le azioni di cambiamento che sarebbero richieste da un processo come l'IDC. Se si guarda a questi tre gruppi di strutture nel loro insieme, si può notare come il processo IDC in Italia sia ancora un fenomeno eterogeneo e poco diffuso - soprattutto se, congiuntamente, si considera che soltanto il 24% delle strutture del campione ha già portato a termine la propria riorganizzazione.

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CONCLUSIONIIn questa sezione conclusiva saranno evidenziati i principali risultati del percorso di ricer-ca – teorico ed empirico – presentati e discussi in questo lavoro, così come le questioni aperte che ancora richiedono un ulteriore approfondimento. Le riflessioni che seguiranno non pretendono, perciò, di fornire risultati esaustivi sul tema dell’ospedale per intensità di cura nel contesto italiano; si propongono, piuttosto, di contribuire ad ampliare gli oriz-zonti di ricerca rispetto a una questione sempre più discussa nel sistema sanitario italiano.

Come evidenziato nella prima sezione, la finalità generale che ha guidato il presente lavoro è stata quella di fornire un contributo in merito alla conoscenza del fenomeno dell’ospedale per intensità di cura in Italia, in un momento caratterizzato da esigenze di contenimento e razionalizzazione (e razionamento) della spesa sanitaria. L’obietti-vo della nostra ricerca nasce proprio alla luce di una riflessione sull’organizzazione complessiva dell’ospedale che, in questo contesto, si è resa sempre più necessaria e ha affrontato, nello specifico, il confronto tra il modello tradizionale di ospedale e il modello alternativo rappresentato dall’ospedale per intensità di cura, filosofia orga-nizzativa che riconosce la diversità del paziente in termini di complessità del quadro clinico e dell’assistenza necessaria. In questo tipo di organizzazione, come emerge dalla letteratura di riferimento, il bisogno di cura assume un ruolo centrale: ciò signifi-ca che i pazienti non vengono raggruppati per disciplina medica ma per intensità di bisogno, ossia che pazienti con bisogni assistenziali assimilabili sono allocati in aree omogene e non più in unità operative secondo la specialità. Si tratta, quindi, di un’or-ganizzazione che segue una logica dissimile da quella imperante nella preponderan-za degli ospedali italiani, al fine di organizzare l’attività ospedaliera, come descritto in letteratura, così da portare benefici e vantaggi che interessano tanto il personale sanitario quanto i pazienti, rimanendo in un’ottica di economicità.

In generale, il percorso di indagine intrapreso ha messo in luce come in Italia l’organiz-zazione per intensità di cura è di recente introduzione, a differenza di Paesi precursori come Stati Uniti e Regno Unito, nei quali questo tipo di processo è già in atto da decen-ni. Inoltre, nel nostro Paese sembra non esistere un vero e proprio modello di ospedale per intensità di cura condiviso e valido su tutto il territorio. Infatti, emerge un quadro di grande eterogeneità relativamente alle strutture italiane coinvolte nell’applicare i pro-cessi di riorganizzazione IDC. In particolare, emerge una forte personalizzazione degli strumenti adottati a supporto dell’IDC, tanto da rendere complicata l'identificazione di un minimo comune denominatore che consenta il confronto tra le varie realtà. Dall’a-nalisi dei dati emergono, infatti, soluzioni operative e organizzative poco omogenee se confrontate con le diverse esperienze internazionali. E’ interessante notare come, per più della metà del campione, la fonte d’ispirazione che orienta la riorganizza-zione per intensità di cura sia da rintracciarsi nell’osservazione diretta di pratiche già sperimentate in altre realtà ospedaliere, per lo più italiane anziché estere. Un altro aspetto importante emerso dall’indagine è il differente grado di coinvolgimento delle unità operative. In questo caso il campione si spacca in due gruppi di pari numerosità, quello degli ospedali nei quali sono state coinvolte tutte le unità operative e quello in cui sono state interessate solo alcune. In particolare è emerso che le specialità più coinvolte sono la medicina interna, la chirurgia generale, l’urologia e la cardiologia. Passando ai livelli di intensità, nonostante la letteratura di riferimento riconduca generalmente a un modello per intensità di cura italiano basato su tre livelli per la collocazione dei pazienti (livello 1: alta intensità; livello 2: media intensità; livello 3: bassa intensità) dai dati raccolti emerge una disomogeneità nell’implementazione. Difatti, sono presenti diverse articolazioni e declinazioni dei livelli cha vanno da 2 fino a 4, ma si mantiene

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comunque una forte preferenza per un riassetto organizzativo a 3 livelli. Inoltre, a conferma di tale disomogeneità, la distribuzione dei livelli di intensità di cura non solo è differente tra ospedali di regioni diverse, ma anche all’interno della stessa regione. Tale libertà di scelta e interpretazione da parte delle strutture nella messa in pratica di questo genere di riorganizzazione sembra anche inserirsi perfettamente nell’assenza di linee guida nazionali capaci di indirizzare le scelte delle strutture sanitarie in tema di intensità di cura. Per quanto riguarda uno degli aspetti più caratterizzanti del modello, ossia i criteri di allocazione dei pazienti ad un determinato livello di intensità di cura, dai dati emerge che tali criteri, condivisi dalla letteratura di riferimento, sono nella mag-gior parte dei casi riconducibili all’instabilità clinica e alla complessità assistenziale ai quali si aggiunge, talvolta, la durata della degenza.

Dai dati raccolti, è possibile osservare come le strutture del campione sembrino ab-bracciare pienamente gli elementi fondanti il modello concettuale per intensità di cura, ovverosia il superamento dell’articolazione dell’ospedale per reparti e specialità cliniche, l’organizzazione dell’attività secondo il livello di complessità assistenziale, nonché l’effettiva condivisione delle risorse. Tuttavia, non mancano casi (solo tre tra gli ospedali analizzati) in cui la presenza di tali elementi è totalmente assente, de-notando così una scarsa aderenza al modello teorico di riferimento. Inoltre, l’imple-mentazione di soluzioni organizzative per intensità di cura richiede anche la proget-tazione e l’esecuzione di interventi atti a rendere effettivamente operativo il modello teorico. In questa prospettiva, pressoché in tutte le strutture sanitarie analizzate, sono stati realizzati interventi strutturali che prevedono la ristrutturazione dell’edificio o cre-azioni ex novo, al fine di soddisfare le specifiche esigenze funzionali, organizzative e logistiche alla base del modello organizzativo per intensità di cura.

Relativamente alle risorse immateriali messe in campo, le risorse umane e la formazio-ne assumono un ruolo centrale all’interno dei processi di cambiamento organizzativo e nell’orientare la cultura aziendale prevalente, permettendo l’integrazione delle pro-fessionalità esistenti in modo da consentire l’adozione di un modello condiviso. Dalle evidenze a nostra disposizione, emerge che nella maggior parte dei casi è avvenuto un cambiamento formale nell’organigramma delle aziende ospedaliere considerate e che, insieme a questo cambiamento formale, c'è stato anche un cambiamento so-stanziale: sono state introdotte le due figure tipiche del modello per intensità di cura, rappresentate dal medico tutor – che viene assegnato al paziente al momento dell’ac-cettazione e per tutta la durata della degenza – e dall’infermiere tutor – responsabile dell’assistenza infermieristica del paziente affidatogli in base alle sue competenze specifiche. In particolare, si osserva che le aziende sanitarie che hanno introdotto la figura dell’infermiere tutor superano quelle che hanno introdotto la figura del medico tutor e che non sempre, paradossalmente, vanno di pari passo, in quanto sono pre-senti casi in cui è stato introdotto l’uno ma non l’altro e viceversa; la maggior parte delle strutture ha comunque introdotto entrambe le figure garantendo così una presa in carico del paziente integrata nel rispetto delle singole e specifiche competenze. Questo cambiamento deve essere sicuramente accompagnato anche da adeguati percorsi di formazione delle risorse umane. Alla luce dei dati analizzati, infatti, la formazione sembra ricoprire un ruolo chiave per l’avviamento di strategie di cam-biamento organizzativo per IDC: la quasi totalità delle strutture ha realizzato corsi di formazione ad hoc rivolti al personale interno e, specificatamente, in tutti i casi le attività di formazione sono state rivolte al personale medico e infermieristico; per più della metà dei casi è stato coinvolto anche il personale amministrativo. Per contro è emersa anche la presenza di difficoltà e criticità attuative manifestate principalmente dal personale medico, prima fra tutte, la resistenza e la paura dei professionisti dovu-

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ta allo spaesamento nella perdita della propria routine.

Inoltre, dalla cluster analysis è emersa in modo chiaro la presenza di tre gruppi di strutture sanitarie distinti in base al livello di propensione al modello organizzativo per intensità di cura. Nello specifico, i tre gruppi sono caratterizzati da profili distinti. Il gruppo più numeroso, definito degli “innovatori”, ha presentato un’elevata capacità di attivare un processo di cambiamento organizzativo utilizzando tutti gli strumenti necessari. Il secondo gruppo, quello dei “retorici”, dove si osserva un atteggiamento più indefinito, è contrassegnato da una certa propensione all’aderenza al modello accompagnata però da una scarsa propensione in termini di adozione di strumenti e processi e introduzione di cambiamenti organizzativi. Per ultimo, il gruppo dei “conservatori”, quello meno numeroso, che si è distinto per essere il meno incline sia all’aderenza al modello, sia all’introduzione di cambiamenti organizzativi, sia all’a-dozione di strumenti e processi a supporto dell’organizzazione per intensità di cura.

Ciò che è emerso dal nostro percorso di indagine rappresenta una fotografia della real-tà italiana. Restano però molte questioni aperte che sarebbe utile verificare in futuro con approfondimenti e ulteriori ricerche volte a indagare se nel corso del tempo vi siano stati cambiamenti e come l’assistenza all’interno degli ospedali considerati si stia evolvendo. In particolare, l’organizzazione per intensità di cura si costituisce quale importante banco di prova per il sistema sanitario nazionale e per i professionisti sanitari spesso inseriti in contesti nei quali operano in modo isolato. Il nodo cruciale è dato dal proces-so di gestione di questa transizione e dal modo in cui essa verrà applicata nei singoli ospedali. Tale transizione impone di abbandonare l’organizzazione tradizionale per affidarsi a una cultura della condivisione professionale. In linea generale, potremmo dire che ciò che viene richiesto dalla riorganizzazione IDC è un utilizzo innovativo delle competenze già in essere con strumenti atti ad aumentare la capacità di integrarsi e di lavorare in equipe multi-professionali per migliorare la capacità di presidiare il percorso del paziente. Le diverse esperienze per intensità di cura prese in analisi nel corso della ricerca fanno emergere un modello di intensità di cura adattato alla specificità della struttura ospedaliera nella quale è stato applicato e, quindi, la sua realizzazione dipen-de dal contesto e non si sviluppa in modo lineare o predefinito.

In secondo luogo, viste le dimensioni non marginali del fenomeno oggetto di studio, sarebbe auspicabile un maggiore interessamento da parte delle istituzioni, comprese quelle centrali, per questo tipo di cambiamento in modo da poter disporre quanto prima di strumenti che consentano una valutazione sistematica sull’IDC in Italia ba-sandosi sulle evidenze a disposizione. Infatti, se da un lato è innegabile il carattere innovativo di questo tipo di riorganizzazione, dall’altro l'impressione è che manchino ancora gli strumenti atti a valutare gli outcome, a individuare eventuali difficoltà da affrontare, così come a riconoscere le best practice, e una regia complessiva che gui-di il cambiamento. I principali punti di forza e di debolezza dell’IDC schematizzati in questo documento, sono interpretabili come pregi e difetti che mantengono un valore soltanto meramente concettuale fino a che non vengono valutati attraverso appositi in-dicatori. Mancano inoltre informazioni circa la reale esperienza dei pazienti nonché i dati riguardo al grado di adattamento dei professionisti interessati. Raccogliendo in modo sistematico questo tipo di informazioni si getterebbero le basi per un vero e proprio piano di valutazione dell’IDC che consentirebbe di ridurre al minimo l’aleato-rietà dei risultati di una tale riorganizzazione e guiderebbe le strutture che vogliono affrontare questo tipo di cambiamento con specifiche “linee guida”. Non va dimenti-cato che l’organizzazione per intensità di cura è un approccio che può richiedere un cospicuo investimento di risorse per la formazione di figure professionali ad hoc e, tal-volta, per i cambiamenti strutturali all’interno degli ospedali. Strumenti di valutazione

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adeguati potrebbero essere utili anche a indirizzare nel modo più appropriato questo genere di investimenti. Dallo stesso Ministero della Salute, nel quadro della valutazio-ne complessiva delle strutture ospedaliere in Italia, emerge l’indicazione a muoversi verso il superamento delle unità operative attraverso attività assistenziali organizzate per intensità di cura. Infatti, con riferimento alla validità e qualità delle informazioni dei sistemi informativi, il Direttore Scientifico del Programma Nazionale Esiti (PNE) di Agenas, Marina Davoli, ha sottolineato l’importanza dei risultati delle valutazioni degli ospedali, affermando che “si rende necessaria ed urgente l’adozione dei prov-vedimenti già previsti di integrazione delle informazioni […] di carattere clinico ed organizzativo (tra cui l’identificativo dell’operatore) e l’interconnessione dei flussi in-formativi disponibili. Urge inoltre un adeguamento dei sistemi informativi esistenti alle modifiche organizzative dei sistemi sanitari (attivazione di case della salute, reparti di osservazione a breve intensità, superamento delle unità operative con attività assi-stenziali per intensità di cura, ecc.)”12. Anche se, dal punto di vista normativo, non è stato ancora dato seguito a queste dichiarazioni, l’intenzione delle istituzioni sembra essere chiara. Alla luce dei risultati delle nostre analisi, sembra però che alcune unità operative siano state coinvolte più di altre nella riorganizzazione per IDC. Da qui nasce l’esigenza di un approfondimento di questa indagine che, una volta individuati gli ambiti specialistici più interessati dall’IDC, ne valuti l’implementazione per singola specialità in collaborazione con le società scientifiche maggiormente interessate.

Infine, è importante indicare alcuni limiti dei quali è opportuno tenere conto per una migliore valutazione dei risultati di ricerca illustrati e discussi nelle sezioni prece-denti di questo lavoro. Il primo limite riguarda i dati raccolti che, sebbene siano i più esaustivi a disposizione sull’argomento oggetto di studio, potrebbero essere indubbiamente raccolti con tecniche di rilevazione più accurate e con un campione statisticamente rappresentativo13. Infatti potrebbe essere migliorato anche il grado di effettiva eleggibilità delle strutture sanitarie che ha determinato l’inclusione delle unità della popolazione di riferimento. Per tutte le caratteristiche prese in esame la popo-lazione delle strutture che hanno dichiarato “sulla carta” di aver progettato, avviato o concluso una riorganizzazione per intensità di cura può essere molto eterogenea. Tuttavia è plausibile ritenere che la disponibilità di dati rilevati con un metodo rigoroso non avrebbe portato a conclusioni molto diverse da quelle ottenute analizzando quelli a nostra disposizione. Sarebbe sicuramente interessante verificare con una seconda rilevazione se, in un periodo di forte cambiamento come quello che stiamo vivendo, l’intensità del fenomeno abbia subito qualche variazione sostanzialmente rilevante. Un secondo limite di questo studio riguarda le analisi effettuate che si sono concen-trate prevalentemente – ad esclusione della cluster analysis – su frequenze assolute e frequenze percentuali tracciando un quadro generale del fenomeno, delle sue princi-

12. Dichiarazione di Marina Davoli in occasione della Presentazione del Piano Nazionale Esiti (PNE) 2014, che si è svolta a Roma, presso l'Auditorium Lungotevere Ripa, il 20 ottobre 2014.

13. Non si tratta tanto del numero di strutture necessario per ottenere un campione rappre-sentativo quanto dell’appropriato metodo di campionamento utilizzato perché, quan-do applicato il metodo corretto, il margine di errore dovuto al campionamento sarà sempre inferiore al 3% circa. Il calcolo della dimensione del campione è complesso e, soprattutto, richiede la conoscenza di informazioni quali la varianza e l'ampiezza desiderata dell'intervallo di confidenza. Nel nostro caso non solo non è stato possibile conoscere queste informazioni ma è stato necessario procedere con un campionamento per quote che è approssimativamente assimilabile al disegno probabilistico stratificato, solo se si accetta l'assunto che dentro ogni quota le strutture rappresentino un campione casuale dell'intera popolazione di riferimento.

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pali caratteristiche e della sua intensità. Il livello analitico descrittivo ha così permesso di indagare puntualmente l’intensità di cura in Italia, fenomeno del quale, fino ad oggi, non si conosceva la reale diffusione e implementazione nelle strutture sanitarie italiane. Tuttavia, con un campione rappresentativo e con una maggiore numerosità di strutture rispondenti, sarebbe stato possibile approfondire ulteriormente le analisi per ottenere un grado maggiore di dettaglio e risultati più esaustivi.

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APPENDICE

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IL QUESTIONARIO

SEZIONE 1 –ASPETTI GENERALI (1-13)

1 Il processo di OIC presso la sua struttura risulta:

F in fase progettuale F in fase di realizzazione F concluso

2. Anno di avvio FFFF

3. Anno di conclusione FFFF

4. L’OIC è riconducibile ad un’iniziativa:

F aziendale (ASL/AO) F regionale

5. Per l’OIC è previsto un finanziamento ad hoc?

F SI (proseguire con la domanda n. 6) F NO (proseguire con la domanda n. 7)

6. Indicare la fonte del finanziamento:

F aziendale F regionale

7. La sua struttura fa capo a più presidi?

F SI (procedere con la domanda n.8) F NO (procedere con la domanda n.9)

8. Tutti i presidi della sua struttura sono stati coinvolti dall’OIC?

F SI F NO

9. L’OIC ha interessato tutte le aree e le UU.OO.?

F SI (proseguire con la domanda 12) F NO (proseguire con la domanda 10)

10. Indicare le aree coinvolte (risposta multipla):

F Medicina F Chirurgia F Emergenza e urgenza F Riabilitazione e lungodegenza

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11. Indicare le specialità / UU.OO. coinvolte (risposta multipla):

F Allergologia F Angiologia F Astanteria F Cardiochirurgia F Cardiochirurgia pediatrica F Cardiologia F Chirurgia generale F Chirurgia maxillo facciale F Chirurgia pediatrica F Chirurgia plastica F Chirurgia toracica F Chirurgia vascolare F Cure palliative/hospice F Dermatologia F Ematologia F Gastroenterologia F Geriatria F Grandi Ustioni F Immunologia F Malattie endocrine F Malattie infettive e tropicali F Medicina del lavoro F Medicina generale F Medicina nucleare F Nefrologia F Nefrologia (abil. trapianto) F Neonatologia F Neuro-riabilitazione F Neurochirurgia F Neurochirurgia pediatrica F Neurologia F Neuropsichiatria Infantile F Oculistica F Odontoiatria e stomatologia F Oncoematologia pediatrica F Oncologia F Ortopedia e traumatologia F Ostetricia e ginecologia F Otorinolaringoiatria F Pediatria

F Pensionanti F Pneumologia F Psichiatria F Radioterapia F Recupero e riabilitazione F Reumatologia F Terapia intensiva F Ter.intensiva neonatale F Tossicologia F Unità coronarica F Unità spinale F Urologia F Allergologia F Angiologia F Astanteria F Cardiochirurgia F Cardiochirurgia pediatrica F Cardiologia F Chirurgia generale F Chirurgia maxillo facciale F Chirurgia pediatrica F Chirurgia plastica F Chirurgia toracica F Chirurgia vascolare F Cure palliative/hospice F Dermatologia F Ematologia F Gastroenterologia F Geriatria F Grandi Ustioni F Immunologia F Malattie endocrine F Malattie infettive e tropicali F Medicina del lavoro F Medicina generale F Medicina nucleare F Nefrologia F Nefrologia (abil. trapianto) F Neonatologia F Neuro-riabilitazione F Neurochirurgia F Neurochirurgia pediatrica

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12. L’OIC ha previsto interventi strutturali?

F SI (Proseguire con la domanda 13) F NO (Proseguire con la domanda 14)

13. Gli interventi strutturali prevedono o hanno previsto:

F la costruzione di un nuovo presidio F la costruzione di nuove parti di un presidio esistente F la ristrutturazione del presidio esistente

SEZIONE 2 – IL MODELLO IMPLEMENTATO (14-24)

14. Cosa intende per OIC alla luce dell’esperienza della sua struttura (risposta multi-pla):

F superamento dell’articolazione dell’ospedale per reparti e specialità cliniche F condivisione delle risorse tra diversi reparti e unità operative F rafforzamento della struttura organizzativa dipartimentale F organizzazione dell’attività secondo il livello di complessità assistenziale

15. La riorganizzazione per intensità di cura si ispira ad un modello:

F presente in letteratura F adottato in altri ospedali italiani F adottato in ospedali esteri F tutte le precedenti

16. Quante aree/livelli differenziate/i di degenza sono previsti?

F 2 livelli F 3 livelli F 4 livelli

F Neurologia F Neuropsichiatria Infantile F Oculistica F Odontoiatria e stomatologia F Oncoematologia pediatrica F Oncologia F Ortopedia e traumatologia F Ostetricia e ginecologia F Otorinolaringoiatria F Pediatria F Pensionanti

F Pneumologia F Psichiatria F Radioterapia F Recupero e riabilitazione F Reumatologia F Terapia intensiva F Ter.intensiva neonatale F Tossicologia F Unità coronarica F Unità spinale F Urologia

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17. Il paziente è assegnato a un diverso livello in funzione di(risposta multipla):

F livello di instabilità clinica (associata a determinati parametri fisiologici) F livello di complessità assistenziale (medica ed infermieristica) F durata della degenza

18. Il livello a cui è assegnato il paziente è differenziato in funzione di (risposta multipla):

F tecnologie disponibili F qualità e competenze del personale F quantità del personale

19. Chi ricopre il ruolo di “filtro” gestendo l’ingresso del paziente e decidendo la sua allocazione nel livello?

F il medico del Pronto Soccorso F un medico dedicato F il tutor medico all’interno del Pronto Soccorso F il tutor infermiere all’interno del Pronto Soccorso

20. Il medico di reparto partecipa alla fase di accettazione?

F SI F NO

21. Con l’OIC, sono stati introdotti nuovi protocolli e linee guida condivise?

F SI F NO

22. Il modello per intensità di cura prevede/ha previsto (risposta multipla):

F la condivisione cartella clinica F un adattamento dei sistemi informativi F un adattamento dei sistemi di audit

23. La sua struttura ha adottato / prevede di adottare strumenti e metodi di Lean Strategy o Lean Management o Lean-Six Sigma?

F SI (Proseguire con la domanda 24) F NO (Fine dell’intervista)

24. L’adozione di strumenti e metodi Lean è avvenuta o si prevede che avverrà:

F prima della riorganizzazione per intensità di cura F in concomitanza con l’OIC F dopo l’OIC

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SEZIONE 3 – ASPETTI ORGANIZZATIVI (25 – 33)

25. L’OIC ha previsto corsi di formazione ad hoc

F SI (proseguire con la domanda n. 26) F NO (proseguire con la domanda n. 27)

26. I corsi di formazione hanno interessato personale (risposta multipla):

F medico F infermieristico F amministrativo

27. L’OIC ha introdotto cambiamenti organizzativi a livello formale

F SI F NO

28. L’OIC prevede l’introduzione di un infermiere responsabile del percorso del paziente (es. Infermiere Tutor)?

F SI F NO

29. L’OIC prevede o prevederà la presenza di un medico responsabile del percorso del paziente (es. Medico Tutor)?

F SI F NO

30. L’OIC ha determinato l’inserimento di altre figure ad hoc:

F SI (Proseguire con la n. 31) F NO (Proseguire con la n. 32)

31. Indicare quali figure sono state inserite:

F Bed manager F Flow manager F Operations manager

32. L’OIC incontra o ha incontrato resistenze:

F SI (Proseguire con la domanda 33) F NO (Fine questionario)

33. Se SI, da parte di chi (risposta multipla):

F Personale medico F Personale infermieristico F Pazienti

Contatto invio risultati

F E-mail

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

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PROGRESSIVE PATIENT CARE

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HEALTH LITERACY

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CHRONIC CARE MODEL

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Gorden, S. and DuMoulin J.P. (2004), Patient-Centered, Physician-Guided Care for the Chronically Ill: The American College of Physicians Prescription for Change, A Policy Paper of the American College of Physicians.

KAISER PERMANENTE

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COMPREHENSIVE CRITICAL CARE

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Robson, W. P. (2002). An evaluation of the evidence base related to critical care outreach teams—2 years on from comprehensive critical care. Intensive and Critical Care Nursing, 18(4), 211-218.

OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA IN ITALIA

Alesani D., Barbieri M., Lega F., Villa S. (2006), Gli impatti delle innovazioni dei modelli logistico-organizzativi in ospedale: spunti da tre esperienze aziendali pilota. Rapporto OASI 2006, Egea, Milano.

Baragatti, L., Messina, G., Ceccarelli, F., Tonelli, L., Nante N. (2009). Organizzazione ospedaliera per intensità di cure e di assistenza: proposta di un metodo per la stima del fabbisogno di unità di assistenza nelle aree di degenza e correlazione con la complessità assistenziale, Organizzazione Sanitaria, n.1/2009

Bartoli, S., Ferro, S., e De Palma, R. (2012). Le cure intermedie come soluzione per affrontare le malattie croniche: il programma Stroke Care. Italian Journal of Medicine, 6(2), 139-143.

Nardi, R., Arienti, V., Nozzoli, C., e Mazzone, A. (2012). Organizzazione dell’ospedale per intensità di cure: gli errori da evitare. Italian Journal of Medicine, 6(1), 1-13.

Pignatto A., Regazzo C., Tiberi P. (2010). Intensità di cure e complessità dell’assistenza: i due nuovi paradigmi dell’organizzazione ospedaliera, Agorà, 44, 13-15.

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Simonet, D. (2006). Le riforme europee dei sistemi di cura: il caso della Germania, della Gran Bretagna, della Svizzera, dell'Italia e della Francia, Mecosan, 15 (59)

ESPERIENZE REGIONALI

Alessandri M., Bartolomei C., Bernardini M., Landini G., Laureano R., Lombardo G., Nozzoli C. (2007). Medicina Interna e organizzazione ospedaliera per intensità di cure: la posizione di FADOI Toscana, Italian Journal of Medicine, 1(1), 65-69

Bonfanti, M., Porazzi, E., Collo, G., Schirru, M.A., Faenzi, C., De Angelis, R., Bocco, S., Fontan, F., Casartelli, L., Montonati, S., Zelaschi, E., Falco, S., Massazza, G. (2012). Nuovi modelli di organizzazioni ospedaliere: l'esperienza vincente del week hospital dell'azienda ospedaliera città della salute e della scienza di Torino - P.O. CTO- Maria Adelaide, Sanità pubblica e privata, 6.

Croce, D. (2007). Le innovazioni organizzative in ambito ospedaliero: i meccanismi operativi del S. Gerardo di Monza, Sanità pubblica e privata, 4.

De Pietro C., Benvenuti C., Sartirana M. (2011). Gli ospedali per intensità di cura in Toscana: un’esperienza in corso, L’aziendalizzazione della sanità in Italia, Milano: Rapporto Oasi.

Moroni, P., Moroni, P., Colnaghi, E., Bonfanti, M., Casartelli, L., Croce, D., Foglia, E., Porazzi, E. (2011). Nuovi “modelli modulari di cura”: l'intensità di cura a dimensione variabile. il caso dell'azienda ospedaliera di Vimercate, Sanità pubblica e privata, 3.

Nicosia, F., Tramalloni, R., e Lagostena, A. (2008). Ospedale “lean” per intensità di cure. Management della sanità, 12, 36-40.

Orlandi, W., Duca, E., e Pioppo, M. (2006). L’ospedale per aree di intensità di cura omogenee e di assistenza multi specialistica: l’esperienza dell’Azienda USL n. 3 dell’Umbria. Organizzazione Sanitaria, 4, 35-40.

Zoppini, L., Lombardo, M., Cordone, A. (2010). “L’organizzazione dell’ospedale moderno. Studio di riorganizzazione dell’attività chirurgica dell’A.O. Ospedale civile di Legnano secondo il modello hub e spoke e per intensità di cura”, Organizzazione Sanitaria,3.

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PUBBLICAZIONI DEL CENTRO STUDI ASSOBIOMEDICA

ANALISI

N. 0 Lo stato di attuazione della Riforma del SSN - Luglio 1995

N. 1 La manovra finanziaria 1997 - Febbraio 1997

N. 2 Lo stato di attuazione della Riforma del SSN - Primo aggiornamento - Maggio 1997

N. 3 Appalti pubblici di forniture al SSN - Dicembre 1997

N. 4 La manovra finanziaria 1998 - Febbraio 1998

N. 5 Lo stato di attuazione della Riforma del SSN. Secondo aggiornamento - Settembre 2000

N. 6 La manovra finanziaria 2001. Legge di Bilancio di previsione 2001-2003, e avvio del Federalismo fiscale - Febbraio 2001

N. 7 Cosa attende la Sanità nel triennio 2002-2004 e negli anni successivi - Gennaio 2002

N. 8 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame della normativa nazionale e regionale in vigore - Settembre 2003

N. 9 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame della normativa nazionale e regionale in vigore. Primo aggiornamento - Aprile 2005

N. 10 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esa-me della normativa nazionale e regionale. Secondo aggiornamento - Giugno 2010

N. 11 La mobilità sanitaria per la sostituzione della valvola aortica e la neurosti-molazione cerebrale - Luglio 2011

N. 12 La disomogeneità nei livelli di assistenza specialistica ambulatoriale tra i servizi sanitari regionali - Dicembre 2011

N. 13 Il Federalismo sanitario: la gestione del SSN nel nuovo assetto di federali-smo fiscale - Aprile 2012

N. 14 L’impatto della manovra sanitaria 2012-2014 sul settore dei dispositivi medici - Settembre 2012

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N. 15 Prime considerazioni sui prezzi di riferimento pubblicati dall’Avcp in data 1 Luglio 2012 - Ottobre 2012

N. 16 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame del-la normativa nazionale e regionale. Terzo aggiornamento - Dicembre 2012

N. 17 L’impatto della manovra sanitaria 2012-2014 sul settore dei dispositivi me-dici. Testo aggiornato dopo l’approvazione della Legge di Stabilità 2013 - Gennaio 2013

N. 18 Primo aggiornamento dell’analisi sull’impatto della manovra sanita-ria 2012-2014 sul settore dei dispositivi medici. Testo aggiornato dopo l’approvazione della Legge di Stabilità 2013 - Aprile 2013

N.19 Analisi della normativa sull’accesso ai dispositivi per persone con diabete. Quantitativi, prescrizione e distribuzione di dispositivi medici per l’autocon-trollo e l’iniezione di insulina - Novembre 2013

N. 20 Le patologie valvolari. Analisi della mobilità, complessità e appropriatezza - Marzo 2014

N. 21 La remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera. Analisi della normativa nazionale e regionale - Marzo 2014

N. 22 La remunerazione delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale - Analisi della normativa nazionale e regionale - Luglio 2014

N. 23 Il quadro economico e finanziario 2009−2018. Dal servizio sanitario na-zionale alla spesa pubblica in dispositivi medici - Dicembre 2014

N. 24 L'ospedale per intensità di cura. Quadro concettuale di riferimento e analisi della realtà italiana - Dicembre 2015

GUIDE PRATICHE

N. 1 Imposta di bollo. Regime degli atti e dei documenti nella fase di acquisizio-ne di beni e servizi da parte delle aziende sanitarie - Marzo 1998

N. 2 Linee guida per la gestione di consulenze, convegni, congressi degli opera-tori della Sanità pubblica - Dicembre 1998

N. 3 Linee guida per la gestione dei dispositivi medici in applicazione della Direttiva 93/42/CEE e della relativa legislazione nazionale di recepimento (D.Lgs. 46/97 e succ. modifiche) - Marzo 1999

N. 4 Direttiva europea 98/79/CE sui dispositivi medici per diagnostica in vitro - Aprile 1999

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N. 5 Semplificazione amministrativa. D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445: Testo unico in materia di documentazione amministrativa. (Dal documento carta-ceo, al documento informatico) - Maggio 2001

N. 6 Dalla Lira all’Euro. Linee guida F.A.R.E., Assobiomedica e Farmindustria - Settembre 2001

N. 7 Semplificazione amministrativa. D.P.R. 28 dicembre 2002 n. 4445 Testo unico in materia di documentazione amministrativa. Primo aggiornamento. E-procurement le gare elettroniche delle P.A. - Dicembre 2002

N. 8 Il sistema di vigilanza per i dispositivi medici - Marzo 2003

N. 9 La Direttiva 98/79/CE sui dispositivi medico diagnostici in vitro: domande e risposte - Aprile 2004

N.10 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento e del Consiglio relativa al coordina-mento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi - Luglio 2004

N.11 I rapporti dell’impresa con gli operatori della Sanità pubblica: convegni, congressi, consulenze, omaggi - Febbraio 2005

N.12 Rifiuti derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Schema di decreto attuativo 2002/96/CE e 2002/95 CE (RAEE & RoHS) - Maggio 2005

N.13 Il sistema di vigilanza per i dispositivi medici e i dispositivi medico-diagno-stici in vitro. Linee guida desunte dal documento della Commissione euro-pea MEDDEV 2.12-1 rev. 6 (Dicembre 2009) - Gennaio 2011

OSSERVATORIO TECNOLOGIE

N. 1 I dispositivi impiantabili per la Cardiostimolazione - Ottobre 2002

N. 2 La Chirurgia laparoscopica - Ottobre 2002

N. 3 Protesi ortopediche. Considerazioni sulla regolamentazione, biomeccanica e materiali - Febbraio 2003

N. 4 La prevenzione delle ferite accidentali da aghi e dispositivi taglienti - Aprile 2004

N. 5 Medicazioni e bendaggi - Marzo 2007

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N. 6 Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici - Dicembre 2011

STUDI

N. 1 La spesa sanitaria, la Diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnolo-gie - Settembre 1996

N. 2 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 1997 e anni precedenti - Marzo 1998

N. 3 Osservatorio Prezzi e politiche regionali di “acquisto al prezzo minimo” - Aprile 1998

N. 4 Dispositivi per Stomia - Febbraio 1999

N. 5 La spesa sanitaria, la Diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnolo-gie. Primo aggiornamento - Giugno 1999

N. 6 Ausili assorbenti per Incontinenza - Maggio 2000

N. 7 Medicazioni avanzate e medicazioni speciali - Ottobre 2000

N. 8 La spesa sanitaria, la Diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnologie. Secondo aggiornamento - Ottobre 2000

N. 9 Protesi mammarie esterne - Novembre 2000

N. 10 Dispositivi per Incontinenza e ritenzione - Maggio 2001

N. 11 La Brachiterapia - Maggio 2001

N. 12 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2000 e anni precedenti - Giugno 2001

N. 13 Protesi mammarie esterne - Primo aggiornamento - Giugno 2001

N. 14 Recepimento della direttiva 2000/35/CE e tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche - Novembre 2002

N. 15 Il Vaccino antiallergico - Gennaio 2003

N. 16 La Dialisi - Marzo 2003

N. 17 Medicazioni avanzate e medicazioni speciali. Primo aggiornamento - Marzo 2003

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N. 18 Il Vaccino antiallergico. Primo aggiornamento. L’immunoterapia allergene specifica - Settembre 2004

N. 19 La crisi finanziaria del Servizio sanitario e i tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche - Marzo 2005

N. 20 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2005 e anni precedenti - Giugno 2006

N. 21 Aghi e siringhe - Febbraio 2007

N. 22 Lancette pungi dito e aghi penna per insulina - Ottobre 2008

N. 23 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2010 e anni precedenti - Marzo 2011

N. 24 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2011 e anni precedenti - Aprile 2012

N. 25 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2012 e anni precedenti - Marzo 2013

N. 26 Le politiche pubbliche d’acquisto di dispositivi medici - Dicembre 2013

N. 27 Turchia - studio realizzato dall’ufficio di Istanbul dell’ICE-agenzia, su incarico e con la collaborazione di Assobiomedica - Marzo 2014

N. 28 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche e private - Aprile 2014

N. 29 Malattia allergica e immunoterapia specifica con allergeni (ait) - Ottobre 2014

N. 30 Le politiche pubbliche d’acquisto di dispositivi medici - Marzo 2015

N. 31 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche e private. Dati 2014 e anni precedenti - Maggio 2015

N. 32 Il parco installato delle apparecchiature di diagnostica per immagini in Ita-lia: lo stato dell’arte tra adeguatezza, obsolescenza e innovazione in un’ot-tica di sostenibilità del sistema - Novembre 2015

TEMI DI DISCUSSIONE

N. 1 Spesa sanitaria e mercato delle tecnologie: verso un modello previsionale - Dicembre 1996

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N. 2 Le proposte di Confindustria per una nuova Sanità - Settembre 1997

N. 3 Scenari e tendenze per il settore delle tecnologie biomediche e diagnostiche - Ottobre 1997

N. 4 Progetto Sanità Confindustria. Secondo rapporto - Gennaio 1999

N. 5 L’impatto economico dell’evoluzione tecnologica: aspetti di valutazione - Febbraio 1999

N. 6 E-business in Sanità - Marzo 2001

N. 7 Il mercato dei dispositivi medici: profilo e aspetti critici - Aprile 2001

N. 8 Il mercato dei dispositivi medici: profilo e aspetti critici. Primo aggiornamento - Ottobre 2002

N. 9 Health Technology Assessment in Europa - Giugno 2003

N. 10 Scenari per il settore della Diagnostica in vitro - Dicembre 2003

N. 11 La Telemedicina: prospettive ed aspetti critici - Marzo 2005

N. 12 Il mercato dei dispositivi medici. Profilo del settore ed aspetti critici. Secondo aggiornamento - Luglio 2006

N. 13 Mappatura dei meccanismi di HTA regionali in Italia - Novembre 2012

N. 14 Il governo dell’innovazione nel settore dei dispositivi medici - Marzo 2014

N. 15 Modelli organizzativi di trasferimento tecnologico - Aprile 2014

N. 16 I dispositivi per la persona con diabete: terapia insulinica con microinfusore e monitoraggio continuo della glicemia - Settembre 2015

N. 17 La diagnostica di laboratorio. Rassegna sistematica della letteratura - Dicembre 2015

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I dati e le informazioni di cui al presente documento possono essere trascritte da terzi alla condizione che venga citata la fonte:

Glorioso V., Guennouna Z., Massaro F., Tamborini V., Bacci A., Giovannoni E., Nar-diello A., L’ospedale per intensità di cura. Quadro concettuale di riferimento e analisi della realtà italiana. Centro studi Assobiomedica, Analisi 24, Dicembre 2015.

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ASSOBIOMEDICA CENTRO STUDI

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