Amore nel sangue

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di Fabiana Andreozzi e Vanessa Vescera, thriller

Transcript of Amore nel sangue

Fabiana Andreozzi Vanessa Vescera

AMORE NEL SANGUE  

 

 

 

 

 

 

 

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AMORE NEL SANGUE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Andreozzi Vescera ISBN: 978-88-6307-364-5

In copertina: Immagine proposta dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Giugno 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

A Vany, che mi ha accompagnato, negli ultimi anni in questo fantastico viaggio nel mondo di carta

e di inchiostro e senza la quale non sarei mai riuscita a mettere la parola “ fine” alle storie

A Licio, con cui condivido progetti, sogni, speranze

e un intero universo di fantasia. Grazie perché rendi la scrittura non solo un piacere ma un lungo viaggio pieno di meravigliose sorprese.

"Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

Giovanni Falcone

NOTE Questo libro è un’opera di fantasia. Fatti, luoghi e personaggi narrati in quell’ormai lontano 1989 sono inventati dalle due autrici e hanno lo sco-po di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone è assolutamente casuale. Ci siamo soltanto liberamente ispirate ad alcuni accadimenti reali della vita dell’eroico magistrato Giovanni Falcone, l’attentato all’Addaura del 21 giugno del 1989 e la strage di Capaci del 23 maggio 1992. Ci sarebbe piaciuto rispettare maggiormente i dettagli e le tempistiche temporali ma per rendere la trama scorrevole e il testo fluido senza troppi salti temporali, la strage di Capaci è stata spostata indietro di qualche anno. Vi lasciamo ora a questo tuffo nel passato di venti lunghi anni, anni in cui la maggior parte delle persone non aveva un cellulare e i primi che gira-vano erano dei citofoni della motorola, niente tecnologia Hi-tech in casa, niente fotocamere digitali… un tempo in cui le monovolumi erano dei brutti furgoncini, in cui negli archivi si era sommersi da un mare di scar-toffie polverose… un tempo in cui per uscire dall’Italia serviva il passa-porto… Insomma buon viaggio.

∼ PROLOGO ∼ Le scarpe risuonano sul pavimento bianco della grande sala. Il ristorante è vuoto, oscurato dalle tende tirate sulle grandi finestre che danno sulla stra-da. Qualche macchina sfreccia sull’asfalto producendo gli unici rumori in quel primo pomeriggio caldo e silenzioso. Il ragazzo continua a girare nervoso intorno ai due inginocchiati. La pistola, una Beretta, stretta nella mano inerte su un fianco. L’orologio continua il suo incessante ticchettio smorzato solo dall’affannare dell’uomo che in ginocchio osserva quello che potrebbe essere suo figlio. «Non farlo ti prego!» La donna al suo fianco gli stringe maggiormente la mano, non un fiato dalla sua bocca, solo lacrime silenziose. Era cosciente che, prima o poi, sarebbe successo, erano stati sciocchi a credere di poterla far franca con gente come quella. «Lasciate andare almeno mia moglie, lei non c’entra in tutto questo, vi scongiuro, pagherò io.» «Dai muoviamoci!» esordisce l’uomo seduto su una delle sedie del risto-rante. Una gamba accavallata sull’altra, il braccio che penzola verso il pa-vimento con stretta tra le mani una pistola con cui gioca tranquillamente. «Dai fallo e andiamocene!» «Ti prego, lascia andare almeno mia moglie!» Le lacrime dell’uomo sono incessanti. Stringe convulsamente la mano del-la moglie che con coraggio non abbassa lo sguardo ma osserva gli occhi del ragazzino che stringe un’arma tra le mani. Lo guarda con stupore e di-sprezzo per questa sua patria che piega i più deboli al volere dei più forti, che li fa divenire assassini senza scrupoli sin da tenera età, che li prende per mano e li conduce a uccidere come se fosse un’azione come tante. Il cuore di una madre certi dolori li sente, li legge negli occhi di chi è stato catapultato in una vita che mai sarà tale. La mano si alza tremante verso la testa della donna che osserva intrappo-lata gli occhi del ragazzo. La canna si poggia contro la fronte bianca e im-perlata di sudore, proprio in mezzo a quegli occhi che paiono condannar-lo. Sono occhi verdi, chiari e limpidi, di una donna che ha lavorato dura-mente con suo marito per creare dal nulla un’attività che ora la conduce alla morte.

«Dai muoviti!» lo incita ancora l’uomo seduto in fondo alla sala. Non ha neanche il coraggio di parlare, di rispondere a questi continui inci-tamenti. Non riesce a premere il grilletto contro la donna e si volta indi-spettito da questa debolezza atroce. Non possono esserci debolezze, sposta la canna da lei a lui e un colpo secco parte rompendo il silenzio. Il sangue schizza ovunque, anche su quell’orologio che continua a ticchettare. Le orecchie fischiano per il dolore dello sparo. Il corpo si affloscia lentamen-te su se stesso come se stesse cadendo in un lungo sonno. La donna si volta a osservare il viso ormai irriconoscibile del marito, Re-sta in silenzio di fronte alla scena, una sola lacrima le riga la guancia, non può disperarsi perché sa che non vi è tempo per piangere la sua perdita, lo raggiungerà a breve. Scuote il capo e si volta verso il ragazzo, per la prima volta le sue labbra proferiscono parola. «Quanti anni hai? Quindici, sedici? Da oggi non sei più un ragazzino!» Appoggia la fronte sulla canna, calda e sporca di sangue, mentre i suoi oc-chi lo incitano a premere il grilletto, a farla finita. È un attimo e un altro colpo rimbomba nella grande sala vuota del risto-rante. La donna resta in ginocchio per alcuni istanti che paiono infiniti e poi ricade sul corpo del marito. Gli occhi verdi spalancati eppure danna-tamente sereni, sicuri. L’assassino si blocca a osservare quello sguardo, lo scruta in silenzio, il braccio scivola verso il basso mentre con rabbia strin-ge la mano intorno al calcio della pistola. «Dobbiamo andarcene, qualcuno potrebbe aver sentito.» L’uomo si alza dalla sedia, si avvicina al ragazzo e gli dà un colpetto sulla spalla come a elogiarlo. «Bel lavoro.» Si allontana dirigendosi verso la porta sul retro mentre lui si ferma a os-servare i corpi a terra, a tuffarsi in quell’immagine sanguinaria, in quegli occhi che nonostante privi di vita paiono scrutarlo. Indietreggia da quella pozza di sangue che continua ad allargarsi come se volesse lambirgli i piedi e piegarlo al volere della morte. È un istante, sen-te la serratura scattare una… due… tre volte, sente le voci spensierate che stanno per far capolino nella sala. Corre verso la porta sul retro, corre pieno di vergogna per il suo gesto, sporco di sangue innocente. Corre per non farsi vedere, per non esser co-stretto a uccidere altra gente, semplici testimoni di un reato. Nella corsa un vaso cade a terra frantumandosi in mille pezzi mentre le voci dall’altra parte del ristorante cessano di colpo. Esce dalla porta spalancata e viene colpito dal sole mentre lo sportello del-la monovolume nera si apre davanti a lui. Si lascia cadere dentro, esausto

e mentalmente provato e finalmente la pistola gli scivola dalla mano ca-dendo sul tappetino della macchina mentre lo stridio delle ruote risuona nel silenzio di una Palermo dormiente.

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∼ CAPITOLO 1 ∼

ADDIO PALERMO Le onde sbattono sullo scafo del traghetto che procede lentamente per u-scire dal porto, schivando le numerose imbarcazioni ormeggiate. Una ragazzina se ne sta appoggiata mollemente al parapetto con la testa china sulle braccia conserte. Man mano che la nave aumenta la sua veloci-tà, il vento smuove i suoi capelli ricci e scuri come la notte che pesante-mente sta calando. Le svolazzano scomposti davanti al viso giocando a nascondere le luci della città che pian piano divengono un punto indistinto all’orizzonte. La ragazzina ispira l’aria carica di salsedine come se volesse divorare l’odore, farlo suo per sempre. Sporge il viso alla ricerca della ca-rezza di quell’alito di vento che le fredda la pelle, recandole un senso di nostalgia. Gli occhi verdi, lucidi per un pianto a fatica represso, fissano con rimpianto la terra natale. Si stringe rabbrividendo nel golfino consunto dagli anni. Non è il freddo a farla tremare, bensì la paura dell’ignoto che l’attende. È rimasta sola sul ponte della nave nonostante il vento pungente. Si solleva dritta spingendo le mani sul parapetto reso scivoloso dall’umidità della notte, sporge il pe-so del corpo in avanti verso la sua terra, la sua casa. Le mancherà tutto questo. In un giorno ha perso tutto quello che le era familiare, ma confida che giungerà un tempo in cui quello che le è stato tolto sarà di nuovo suo, per sempre. Chiude gli occhi con un sospiro. Ha tredici anni ma non è certo sciocca, sa che certe cose torneranno sue, la terra, la casa… deve solo avere pazienza e diventare grande. “La pazienza è la virtù dei forti” le diceva sempre suo nonno quando lottava contro la malattia che se lo stava portando via. Per altre invece servirebbe solo un incantesimo che riavvolga il tempo e can-celli tutti i tristi ricordi. Il traghetto, che la porta via da Palermo, dalla sua Sicilia, le sta strappando via le radici, il passato. Si appresta verso il conti-nente piena di dubbi, di paure. L’unica certezza è che il passato tornerà a tormentarla nei suoi sogni. Il futuro è un tetro punto interrogativo ed è inutile nasconderlo, le crea un senso d’ansia diffusa.

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«Maria Lucia!» una voce piena d’angoscia s’insinua nel silenzio rotto solo dallo sciabordio delle onde «veni intra, ti si ghiaccia u sangu'nte vini!» È una donna non più giovane, profonde rughe, dettate dal tempo e dal so-le, segnano il contorno dei suoi occhi e delle labbra. La stanchezza e il pe-so degli anni si fanno sentire negli occhi spenti. I capelli bianchi legati in una crocchia severa, sfuggono al nastro, vecchio e sbiadito, ricadendo in sottili fili scomposti sulle spalle. La ragazzina sbuffa e ciondola ancora un po’ in avanti. «Pazza chi fa? Mi vo fari veniri nfarto?» Dita nodose le artigliano il braccio esile strattonandola indietro. «Vogghiu tunnari a casa» piagnucola la ragazzina, tredici anni non sono abbastanza per imparare a essere fredda e cinica, non è nemmeno giusto chiederglielo. Non può negarsi le emozioni. «Chi dici figghia me!» la donna gracchia con voce stridula mentre scuote la testa confusa. Alza persino gli occhi al cielo quasi a trarne ispirazione «u sa chi nn putemu chiù tunnari. Non avemu chiù na casa. Non avemu chiù nenti chi ni tratteni.» Gli occhi chiari della donna brillano pieni di sconforto, anche lei abban-dona su quella terra arida un pezzo di cuore, tutta la sua vita, i suoi ricordi, consapevole che per lei sarà un addio definitivo. È vecchia ormai, vecchia e stanca. Quando potrà tornare a Palermo? Quanto le resta da vivere? Si-curamente non abbastanza… «Turnremu a casa, nonna» singhiozza, ma nella voce si legge la sicurezza di una certezza «turnremu a Palemmu un ghionnu!» La nonna la avviluppa in un tenero abbraccio mentre le scompiglia con tenerezza quella matassa di capelli annodati dal vento. «Nun pinsarci tesoro, u distinu scigghiu pi nui… n'autra vota.» La ragazzina lancia un ultimo sguardo carico di rimpianto verso le tremo-lanti luci della città che a stento s’intravede. Sfumano i contorni nella not-te priva di stelle. Il destino non può scegliere per lei. Non vuole un’altra vita, vuole quella che sta lasciando, ci si aggrapperebbe con le unghie e con i denti se potes-se. Non vuole un’altra vita, vuole solo questa perché è la sola che conosce.

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∼ CAPITOLO 2 ∼

SEI ANNI DOPO Il lungo tavolo apparecchiato sotto il Gazebo di legno è imbandito di lus-suosi piatti preparati da grandi chef. È una tradizione, la domenica si fe-steggia con tutta la famiglia, perché a Palermo la famiglia è importante. Le usanze in questa terra bagnata dal mare e scaldata dal sole non si di-menticano. Cugini, nipoti, zii, nonni sono tutti presenti. Ringraziano per ciò che hanno e non conta come l’hanno avuto, l’importante in questa vita è solo il potere. Con il potere puoi fare tutto, puoi comprare qualsiasi cosa, terreni, case, macchine e perché no, anche le donne. A volte l’amore è un mero compromesso, un semplice contratto per rafforzare il dominio su un territorio. Era così un tempo ed è così adesso. Il brusio delle voci si mescola nell’aria. Una leggera musica dal sapore mediterraneo aleggia nel grande giardino. Le donne passeggiano con disinvoltura, altre lanciano sguardi a qualche amico di famiglia, alcune sgridano i loro bambini che corrono come matti. «Rita lasciali stare i picciriddi, lo vedi come si divertono?» «Papà fosse per te gli faresti fare qualsiasi cosa!» L’uomo sorride alla figlia mentre con un gesto della mano liquida il di-scorso in maniera scherzosa. Si dirige verso il gruppo di uomini sorridenti che in disparte bevono e fumano come se stessero parlando di qualche partita di calcio. Appena Mimmo lo vede lo saluta con un sorriso appena accennato. «Alfonso, lo conosci il professore Martino? Viene dal nord, pensa si è lau-reato alla Sapienza di Roma.» Alfonso sorride al professore con fare sicuro e socievole, stringendogli la mano e squadrandolo dalla testa ai piedi. Afferra uno dei calici sul tavoli-no di fronte e poi si accomoda su una poltroncina in vimini. «Bene quindi lei è il famoso professore di mio figlio. Bene bene, volevo appunto venirla a trovare ma a quanto pare non ce ne sarà bisogno.» Il professore sorride tirato, ingurgita tutto il contenuto del bicchiere che gli hanno offerto sfoggiando una falsa disinvoltura. «Sa mio figlio ha qualche problema ultimamente, non so se è stato messo al corrente?»

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«Accennai già la situazione al nostro illustre ospite!» interviene Mimmo marcando la parola “situazione”. Il professore si limita ad annuire, non riesce a guardare l’uomo dritto negli occhi, gli incute reverenza, timore. «Allora sa già cosa deve fare. Vede è un ragazzo difficile, ha sempre stu-diato ma ora sa com’è la gioventù, si è invaghito per le macchine, ma lui vuole laurearsi, divenire un magistrato!» scruta nuovamente il professore cercando di capire se il nuovo arrivato abbia inteso qual è il reale proble-ma «non so se intende!» «Intendo alla perfezione signore!» Alfonso ammicca al professore con malcelato compiacimento. «Signore, signore, ma quale signore chiamami Alfonso, diamoci pure del tu, ormai sei uno di famiglia, noi siamo brava gente, i forestieri da noi si trovano tutti bene, siamo persone piene di calore.» Tutti sorridono, è chiaro il compito che ha in questa storia il caro profes-sore del nord e solo il Signore sa a cosa va incontro se non lo porta a ter-mine. «Brindiamo alla laurea del piccolo Pietro, mi ricordo come fosse ieri quando sgambettava in questo giardino e ora? Tra breve sarà magistrato.» Mimmo, seduto sulla sua poltrona alza il calice in alto attendendo di esser seguito dai presenti. I calici si svuotano velocemente, gli animi divengono leggeri mentre i discorsi s’infittiscono su alcuni problemi interni. «Sono già tre mesi che non pagano la quota, sta diventando un problema. Tutta la zona sul mare rischia di sfuggirci di mano, stanno tramando di ri-bellarsi» annuncia Alfonso preoccupato. «Eeee… che parolona, ribellarsi, addirittura!» Mimmo sbuffa contrariato, poi riprende con calma mentre con un cenno della mano chiama il came-riere. «Un altro gin e chiama mio figlio, stiamo parlando di questioni di fami-glia» il cameriere annuisce e si allontana. «Alfonso, Alfonso, quante volte te lo devo dire? Basta poco per ristabilire l’ordine, a volte bisogna dare degli esempi edificanti. Gino, chi è quello che non paga da più tempo?» Un ragazzo in piedi vicino al tavolino finisce di sorseggiare il suo brandy e osserva con aria pensosa il liquido. «I Russo, cinque mesi!» «Cosa aspettiamo quindi? Vai a fargli visita, fai in modo che capisca bene qual è il discorso, soprattutto la posta in gioco, a volte ci vogliono le ma-niere forti.»

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«Ma Mimmo lo sai, mo’ ci sta quel magistrato che fa tutte quelle indagini, ha fatto arrestare anche Calogero, bisogna stare attenti che mo’ anche i muri hanno le orecchie.» Mimmo lo scruta in silenzio, passa in rassegna i volti presenti con distac-co ma al contempo possesso. «Calogero avrà la sua vendetta e vedrai che entro la fine dell’anno, prima che inizi il nuovo, lo avremo di nuovo con noi. Parola di Mimmo Roma-no!» Il silenzio è generale, per la famiglia una promessa è una questione d’onore e l’onore vale più della vita stessa. Il cameriere si avvicina con il bicchiere di gin seguito da un ragazzo alto e magro vestito in giacca e cravatta, al suo fianco la compagna attuale ormai da mesi, l’unica ad aver avuto la fortuna di entrare a far parte di questa famiglia non come una qualunque ma come la sua fidanzata. In molti ca-piscono la ragione della scelta di Ciccio, di certo non è una che passa i-nosservata, anche le donne di famiglia la guardano ammirate e molte pie-ne d’invidia perché lo sanno che attira gli sguardi. Ciccio saluta i presenti con un gesto del capo, sfoggiando al suo fianco la sua bella compagna, che resta leggermente indietro e sorride con disinvol-tura. Mimmo saluta la giovane alzando appena il calice. «Unni tinni stavi? Abbiamo questioni importanti di cui parlare!» «Bene eccomi!» Ciccio s’inchina teatralmente mentre stringe la mano alla sua compagna. Ormai Mimmo ci ha fatto il callo a vedersela in giro per casa, le ha anche permesso di prendere una camera per gli ospiti al piano di sopra e cam-biarla secondo le sue esigenze e il suo gusto personale. «Bene, Marilù perché non ci lasci soli? Dobbiamo discutere di politica e si sa che a voi donne la politica non piace» scherza Mimmo, mentre i pre-senti lanciano alla giovane sguardi di malcelato compiacimento. È bella da togliere il fiato ed è impossibile non farle la radiografia. Marilù sorride a Mimmo e bacia sulla guancia Ciccio. «Vi lascio alle vostre questioni signori» si volta mentre la gonna leggera, di raso rosso, le svolazza intorno. «Ciccio te la trovasti bella la femmina!» Ciccio si volta a osservare il sedere ancheggiante di Marilù pieno di orgo-glio. Il suo corpo, slanciato e sodo, spicca tra le altre donne. Non sa nean-che lui realmente come ha fatto a conquistarla ma una cosa è certa, non se la lascerà sfuggire. Ormai è la sua donna e le donne di un Romano non si toccano.

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«Fortuna, semplice fortuna» spiega ai presenti e a suo cugino che, seduto a fianco a Mimmo, osserva il liquido nel suo bicchiere muoversi lenta-mente. «Bene signori, basta parlare di donne, abbiamo questioni più importanti, ritiriamoci nello studio» Mimmo si alza dalla poltrona e subito due guar-die del corpo lo scortano, al suo seguito il figlio, il nipote e poi tutto il re-sto della famiglia. Solo il professore se ne resta seduto in un angolo in si-lenzio, ha sentito fin troppo e se qualcuno gli avesse detto che ciò sarebbe accaduto proprio a lui, ebbene non ci avrebbe mai creduto.

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∼ CAPITOLO 3 ∼

LA DONNA DELLA MAFIA Palermo d’estate è una fornace che s’infiamma sotto i raggi cocenti del sole. La gente si rintana nell’ombra delle case fino a quando il caldo non si affievolisce. Neppure il mare riesce a mitigare la calura insopportabile. Nonostante il caldo feroce che ti divora, Palermo è sempre bella, risplende di luce propria sotto questo sole rovente. La macchina percorre a velocità sostenuta le strade di montagne. La guida dell’autista è sicura, sono anni che compie il tragitto da San Vito lo Capo a Palermo. Don Mimmo ha comprato quella villa bianca a strapiombo sul mare anni orsono. Un investimento, poche briciole di lire per acquistare una villa da sogno in quello che un tempo era un piccolo e tranquillo bor-go di pescatori. Come sempre ha visto lontano, e l’anonimo borgo dal ma-re limpido si sta lentamente trasformando in un’apprezzata località turisti-ca; sbocciano alberghi, i primi locali notturni e ristoranti. Presto diventerà una miniera di soldi solo con un pezzo di spiaggia bianca e un mare chia-ro. Ovviamente Don Mimmo non si è fermato solo alla villa, ma è suo an-che l’hotel che si affaccia sul mare, lo stabilimento adiacente e altro anco-ra. Marilù siede composta al fianco di Ciccio fissando il paesaggio che si sus-segue veloce. È stanca di San Vito, è troppo quieto e tranquillo. Il caldo è torrido nonostante i vetri oscurati della berlina. Ciccio parla al telefono con qualcuno di cui non ha afferrato il nome. È nervoso, si capisce da co-me parla velocemente, da come gesticola. Marilù rabbrividisce e si scosta un po’ di più verso il vetro, poggiando le dita sul finestrino. Un attimo do-po Ciccio allunga una mano per stringere quella di lei e se la tira accanto. La ragazza sobbalza e si volta a guardarlo. «Che hai che salti?» chiede lui interrompendo di botto la conversazione. Lei scuote la testa. «Non ho niente Francesco.» «Chiamami Ciccio» una smorfia di disappunto gli attraversa il viso «sia-mo troppo snob per abbracciare la nostra cultura?» «Ma no, che vai dicendo…» lo schernisce con voce atona «è solo questio-ne di abitudine…»

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Si volta di nuovo verso il finestrino cercando di mettere fine a un’inutile conversazione. Non ha voglia di indisporlo. «Che guardi fuori?» stavolta la voce si è fatta sospettosa e una mano deci-sa le afferra il viso per ruotarlo di nuovo verso di lui. «Guardo il mare, che debbo guardare?» Ciccio le si avvicina. Naso contro naso mentre con due dita le tiene solle-vato il viso incantevole. «Sei tanto bella quanto indisponente, sai?» ride «sì che lo sai. Lo sai be-nissimo. Ma imparerai a non dire le cose sbagliate…» Gli occhi scuri la fissano dritto nelle pupille. Marilù sa benissimo quello che deve rispondere, non perde tempo, lo dice: «Certo Ciccio… mi affido a te per imparare.» Lui le carezza i capelli e non resiste alla tentazione di portarsi le ciocche vicino al viso per odorarle. «Sai di buono, Marilù. Sei come un gelato che va gustato prima che si sciolga!» Marilù trattiene il respiro e chiude gli occhi. In certi casi è difficile perfino trovare le parole. Le dita affusolate si puntellano sul petto di lui, scostan-dolo di poco. Un sorriso si delinea sulle labbra. «Con questo caldo sarei già sciolta, Ciccio!» La berlina nera continua a salire e scendere tra le curve delle montagne prive di vegetazione. A vederla così la Sicilia sembra una terra maledetta da Dio, tra il caldo impossibile, l’agricoltura inesistente, le industrie fati-scenti. L’unico conforto è il mare. Quando ormai lo stomaco di Marilù è sottosopra si profila finalmente l’autostrada. «Papà sarà contento di rivederci a casa» pensa Ciccio a voce alta. «Sì, ti è affezionato. Sei un bravo figlio Ciccio» gli dà un buffetto sulla mano. Dopo qualche curva appare Palermo e il cuore di Marilù si gonfia di gioia. A stento riesce a trattenersi sul sedile. D’istinto vorrebbe abbassare il fine-strino, ma Ciccio la blocca. Palermo è grande, immensa, con quei palazzoni costruiti di fretta negli ul-timi anni. La berlina percorre un lungo stradone dritto che conduce diret-tamente nella città vecchia, dove le strade diventano più piccole e affolla-te. Un attimo dopo appare la cattedrale in tutta la sua maestosa imponen-za, poi è la volta del palazzo dei Normanni. Palermo trasuda storia, vec-chiaia. È stretta in una baia tra monti e mare, ed è affollata e brulicante di mercati. Marilù guarda dal finestrino il centro storico tagliato in due da via Maqueda.

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«Ciccio andiamo a prenderci un gelato. Ti va?» lo dice di getto, sembra una bambina per quel tono fanciullesco e spensierato, per gli occhi che sorridono luminosi. Ha voglia d’aria, di fresco. Ha voglia di una giornata tranquilla, di una normale giornata. «Fermati, Antonio» ordina bruscamente Ciccio. Non sa resistere al sorri-so, alla genuina gioia che le inonda gli occhi. «Ma don Mimmo ha detto…» «Don Mimmo! C’è forse don Mimmo qui? Sono io che do gli ordini» scatta arrabbiato. Suo padre dà ordini pure a distanza come se pensasse che il figlio non sia in grado di darli da sé. Antonio sa quando è il caso di tacere. Ferma la macchina e scendono; due guardie e poi Ciccio seguito a ruota da un’impaziente Marilù. S’inoltrano per le stradine tutte uguali che sembrano labirinti, dove basta sbagliare tra-versa per trovarsi nella terra di nessuno, con edifici fatiscenti dai singolari profili e strade piene di sporcizia. La Vucciria, Ballarò, il Capo, l’Albergheria, sono i quartieri del centro storico che se di giorno sono un susseguirsi di bancarelle, la sera sono talmente spettrali e inospitali da ren-dere impossibile l’ingresso persino alla polizia. Intere aree sono ancora distrutte dai bombardamenti dell’ultima grande guerra mondiale e nono-stante siano passati quasi cinquanta anni sono sempre ridotte a macerie. È una grande città provata, disfatta. La gente che si muove tra le vie della Vucciria non ha facce raccomandabili, tutti sembrano assorti nei loro im-pegni e allo stesso tempo ti senti squadrato da cima a fondo, soprattutto se non fai parte di questo mondo. Marilù stringe la mano di Ciccio con forza, non è abituata a un simile spettacolo. O meglio, Londra, da dove arriva, è caotica, multietnica, ma la gente che ci vive ti passa accanto senza neppure sfiorarti. A Londra c’è la vera indifferenza. Qui invece fa paura sentirsi segretamente gli occhi ad-dosso mentre tutti fingono di guardare altrove. Il tempo si è fermato a un’epoca ormai andata, dalle finestre le vecchie tirano giù le carrucole per farsi mettere il pane. Palermo non ha eguali nelle altre città del meridione, perché sotto sotto si attiva un’intera folla silenziosa e muta nel terrore. Qui la gente ha seria-mente paura di parlare. Sa che il silenzio è d’oro. È come se Palermo sia rimasta confinata in un angolo ad aspettare semplicemente di finire i suoi giorni in una pigra monotonia. Nulla muta. Ciccio le cammina a fianco, le passa possessivo un braccio intorno alle spalle. Marilù è sua e non vuole che nessuno la guardi. «Mi sono persa…» ammette all’improvviso mentre la scorta si guarda in-torno furtiva e sospettosa «volevo passare in via Roma.»

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Ciccio ride. «Senso dell’orientamento zero! Ti porto io.» «Sarebbe meglio allontanarci…» borbotta Antonio che non ha più il co-raggio di aggiungere altro. «Ancora con questa storia? Avete sentito la signora? Vuole andare in via Roma e così sia!» Si appresta a prendere una stradina quando le imposte delle finestre si chiudono man mano tutte. La gente si chiude in casa al solo passar di Cic-cio, ma non è solo quello. «Signore torniamo in macchina.» Ciccio si volta a osservarsi intorno e qualcosa lo fa indietreggiare. «Marilù dobbiamo tornare indietro.» Le due guardie del corpo tirano indietro Ciccio e Marilù e al contempo e-straggono le pistole da sotto le giacche nere. Antonio si sposta di lato e spinge in mezzo alla strada un cassettone dell’immondizia. «Forza muoviamoci!» «Cosa succede?» balbetta Marilù mentre vede Ciccio estrarre la pistola con poca maestria. Inizia a tremare senza accorgersene, mentre gli occhi roteano da una parte all’altra alla ricerca di un indizio. «Forza, forza, torniamo alla macchina.» Un colpo assordante risuona nell’aria e il cassonetto trema all’impatto. Ne susseguono altri e altri ancora, mentre il cassonetto viene spostato dalla forza dell’impatto con i proiettili, slittando sulle ruote. «Un’imboscata! torniamo in macchina!» Ciccio corre tirandosi dietro una Marilù terrorizzata. Rieseguono il tragitto precedente mentre i colpi di pistola si fanno insistenti. Marilù si porta una mano sulla testa, come se quel gesto potesse salvarla da ogni male. «Correte!» urla Antonio seguito a ruota da Mario che continua a sparare colpi indietro verso gli assalitori. Si appiattiscono contro i muri mentre cercano di mirare nel miglior modo possibile. Da dietro al cassonetto un uomo alto si sporge per sparare un colpo secco contro Ciccio. Il proiettile lo manca e Ciccio continua a corre-re. Antonio si ferma appena svolta l’angolo, prende la mira e attende. «Forza andate in macchina, io vi raggiungo.» Marilù si blocca a osservare Antonio, mentre Ciccio continua a tirarla. La paura non la esenta dal preoccuparsi per una persona come Antonio, che di gente ne ha uccisa tanta. «Marì muoviti!» la strattona Ciccio mentre Mario copre loro le spalle.

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«Ma cosa vuole fare da solo? Sono almeno quattro, non ce la può fare» piagnucola tremante girandosi indietro. «Statti muta e cammina!» le urla Ciccio spingendola con tale forza da far-la cadere. Antonio prende la mira e inizia a far fuoco. I colpi divengono insistenti. Non c’è tempo per ucciderli l’unica cosa da fare è rallentarli, Antonio mi-ra alle gambe, lo sa che altrimenti non ce la faranno a raggiungere la mac-china. Un ragazzo cade a terra urlando e contorcendosi mentre si tiene la gamba insanguinata. I colpi cessano, il silenzio ora è irreale e Antonio inizia a correre veloce-mente indietro continuando a tenere di mira l’angolo da cui si sta allonta-nando. La macchina scura per Marilù è quasi un posto sicuro ma nonostante ciò si volta ancora a cercare Antonio mentre Mario tenta inutilmente di farla en-trare sino a quando perde la pazienza e si sposta in avanti pronto a prende-re il posto di guida. Ciccio se la strattona. «Avanti Marilù entra in sta cazzo di macchina» le urla irato. Antonio corre verso di loro mentre Mario gli grida di muoversi. È un attimo e dagli angoli delle strade sbucano uomini armati di mitra-gliette. Antonio spinge dentro Marilù con la forza e Mario si tuffa al posto di guida. Una batteria di colpi inizia il suo diabolico canto e le strade s’inondano di suoni, forti e decisi, mentre le pallottole volano contro la berlina nera. Mario parte sgommando, la testa china sotto lo sterzo per ti-more che il vetro non regga ancora molto. Sono pochi istanti e si trovano fuori da quella strada, sul parabrezza il sangue dell’uomo che ha investito e lasciato sull’asfalto. I colpi continuano a seguirli, ma si spengono lenta-mente in suoni lontani sino a che tutto tace. Antonio sdraiato sul sedile posteriore addosso a Marilù respira a fatica. La spalla perde sangue come fosse semplice acqua. Si alza barcollando per poggiarsi contro il sedile. Ciccio bianco e muto, osserva Antonio e poi Marilù. Antonio se ne sta fermo nella sua posizione e Marilù si stringe con una mano il braccio. «Marilù cos’hai?» chiede Ciccio. Marilù sposta la mano dal braccio e il sangue scorre velocemente sulla sua pelle candida paralizzandola. Osserva la ferita e il bruciore diviene insop-portabile e poi il nulla.

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∼ CAPITOLO 4 ∼

LA VENDETTA DEL BOSS Don Mimmo, dietro alla scrivania del suo ufficio, non riesce a credere a ciò che è successo. Antonio ferito alla spalla, Marilù a un braccio e per poco, se non c’erano loro due a far da scudo, Francesco se la prendeva dritto nel petto la pallottola. Dannati Rizzo, questa volta la pagano cara, non possono attentare alla vita di suo figlio e sperare che non scoppi una faida, queste faccende vanno risolte con il sangue. È una questione d’onore, di rispetto, lo sanno i Rizzo ma a loro piace ri-schiare. Vogliono fottergli il territorio, non sanno cosa succede quando ci si mette contro i Romano, ancora non l’hanno capito. Attentare alla vita di suo figlio? Che pessima idea. «Chiamatemi Angelo, ora!» Dopo aver fatto un resoconto di ciò che è accaduto, Mario esce a grandi passi dallo studio. Per poco don Mimmo non gli sparava una pallottola dritta nelle tempie per aver lasciato che accadesse tutto quel casino. Don Mimmo lo sa che suo figlio è un pessimo elemento quando si tratta di se-guire le regole, ma la colpa va sempre a loro che non sanno fare bene il lavoro per cui vengono pagati. «Una tale sfida a un Romano? Non sanno in che pasticcio si sono messi» tuona don Mimmo. Si alza, passeggia nel grande studio. Qualche volta lancia sguardi assassini fuori dalla finestra, come se ci fosse qualcuno da fulminare solo con la mente. Si avvicina al mobile di mogano antico e afferra un sigaro da den-tro alla scatoletta in argento, poi sprofonda nella sua poltrona. Sa come affrontare queste situazioni, il sangue si ripaga con il sangue, goccia per goccia. «Avanti» risponde don Mimmo. Angelo entra tranquillo nell’ufficio, saluta con un bacio suo zio che gli in-dica la sedia con fare freddo e staccato. «Nipote mio, ho un compito per te.» Angelo si limita ad annuire. Il portamento fiero ed eretto e lo sguardo scu-ro sicuro. «Ci hanno lanciato una sfida, e i Romano, tu che sei di famiglia lo sai be-nissimo, non si tirano mai indietro quando di mezzo vi è l’onore.»

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«Hanno minato all’incolumità di un nostro parente, questo oltraggio non può passare impunito» risponde secco Angelo, come se questa storia or-mai la conoscesse a memoria. «Angelo, lo sai che per me sei come un figlio. In tutti questi anni ti ho cre-sciuto senza fare alcuna differenza tra te e Ciccio, per cui è come se aves-sero cercato di uccidere non tuo cugino ma tuo fratello!» «Lo so zio, lo so.» «Allora non c’è bisogno di dire altro.» Angelo si alza dalla sua postazione, si avvicina alla finestra e scruta il giardino sottostante. Conosce bene ogni frase, ogni gesto, sa capire qual è il suo compito. Si avvicina alla poltrona per baciare suo zio poi si dirige verso la porta e prima di uscire si volta nuovamente: «Entro stasera porterò la testa del colpevole, è una questione d’onore.» Il dottore esce dalla stanza di Marilù. Ormai è abituato a queste chiamate urgenti e alla famiglia Romano non si può dire di no. Ciccio seduto fuori dalla stanza si tiene la testa tra le mani. Suo padre gli ha fatto una bella lavata di testa, gli aveva chiesto di fare quello che gli aveva ordinato ma ancora una volta si è lasciato trasportare dall’impulsività, dall’innata ca-pacità di trasgredire che si porta dietro sin da bambino. Questa volta però ha rischiato grosso, non solo ha messo a repentaglio la sua vita ma anche quella di Marilù. Si alza come una molla e stringe il braccio del dottore con forza. «Come sta?» «L’hanno presa di striscio, nulla di grave, col tempo non si noterà un granché sulla pelle. Quello che mi preoccupa è lo stato di shock. È lette-ralmente terrorizzata, l’ho dovuta sedare, non smetteva di piangere.» Ciccio lascia andare il dottore mentre ricade nuovamente sulla sedia. Si passa una mano tra i capelli totalmente scombinati e pare volerseli strap-pare per come li afferra con rabbia. È stato sciocco. Oggi ha rischiato grosso. Non sa neanche come ha fatto a restare illeso. Una donna esce dalla stanza di Marilù portando via i panni sporchi. Ciccio solleva appena lo sguardo su quel mucchio di stracci cosparsi di sangue. Domani gliene ricompra altri di vestiti. Vuole vederla sorridere, perché quando sorride sembra una bambina senza preoccupazioni. Gliela farà di-menticare questa brutta giornata. «Teresa» la chiama con voce alterata tirandosi in piedi «portami un bic-chiere di cognac.» Ha voglia di dimenticare.

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«Sì, signore. Glielo porto subito.» China il capo ossequiosa come le è stato insegnato dalle altre che l’hanno preceduta in quel lavoro. È meglio non attirare mai l’attenzione. «Marilù sta dormendo?» la blocca di nuovo mentre sta scivolando indi-sturbata giù per le scale. «No, la signora è ancora sveglia. È spaventata, ma il calmante farà effetto presto.» «Buttali quegli abiti» le ordina. Non vuole che li lavi, Marilù non deve più indossarli. Teresa annuisce con gesti affrettati. «Portamelo qui il cognac» afferra la maniglia della porta con l’intenzione di dare almeno un saluto alla sua donna. Marilù sobbalza nel letto a baldacchino, tanto grande da farla apparire mi-nuscola. «Sei tu! Mi hai spaventata!» Si porta la mano al petto per calmare il respiro affrettato. Il braccio offeso è fasciato e rilasciato mollemente sopra le coperte. «Che è stato, Ciccio?» Gli occhi verdi brillano intensi di paura e smarrimento. Lui si siede sul materasso carezzandole delicatamente la mano. Marilù rabbrividisce e di-stoglie appena lo sguardo posandolo su quelle dita sottili che le sfiorano la pelle. «È tutto apposto Marì…» le scosta qualche ciocca di capelli dal viso. È così bianca da sembrare un fantasma. Le scorge gli occhi che a stento si tengono aperti «passerà presto…» «Che volevano quelli?» gli occhi si chiudono pesantemente, la voce è im-pastata ma la paura la tiene ancora aggrappata alla realtà. «Niente, non pensarci. Riposa!» le poggia le labbra sulla fronte per rassi-curarla. «Sei ferito?» chiede con la voce smaniosa e gli occhi verdi si spalancano di colpo con un grande sforzo. «Sto bene, sto bene» le sussurra con le labbra ancora premute sulla sua fronte «riposa Marì. Qui a casa nessuno può farti male.» Lei annuisce mentre gli occhi le si chiudono. «Niente più gelati e passeggiate in via Roma…» ripete come una litania per se stesso, per lei. Marilù ancora ha la forza di annuire e lentamente il respiro si rilassa. Cic-cio le carezza i capelli e la guarda con bramosia e senso di possesso. Nes-suno può toccargli Marilù.

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Teresa entra silenziosa con passo felpato e gli allunga il cognac. Lui lo butta giù tutto d’un fiato e gliene chiede un altro. La donna annuisce e si defila di nuovo. Ciccio guarda Marilù sdraiata nel letto, piccola e fragile fra quelle lenzuo-la. Ha rischiato di perderla oggi, ma quegli uomini la pagheranno cara. Non si alzano le armi contro i Romano restando impuniti. Mai!

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∼CAPITOLO 5∼

I ROMANO Antonio non è voluto stare a riposo, non ha permesso a nessuno di dirgli cosa fare, si è messo in macchina a fianco ad Angelo con la pistola stretta nella mano e con un brutto muso che vuole dire: “provate solo a spostar-mi di qui”. Angelo seduto al posto di guida, non l’ha fatto sentire per nessuna ragione un peso, mentre Gianni e Mario, dai sedili posteriori, non hanno fatto altro che sbuffare e sgridarlo. Antonio non ha risposto a nessuna provocazione lasciando cadere ogni loro tentativo di persuasione nel nulla. Da troppo tempo fa parte del giro e non saranno certo due giovani promettenti, con circa dieci anni in meno d’esperienza, a dirgli cosa deve o non deve fare. La vendetta è fondamentale quando fai parte di certi giri e lui non vuole assolutamente mancare quando quei maledetti figli di puttana dei Rizzo urleranno pietà. La berlina nera di Angelo sfila per le vie di Palermo con sicurezza. Mario e Antonio hanno riconosciuto i loro aggressori e con le conoscenze e so-prattutto con i metodi giusti le informazioni corrono veloci. I Romano sono conosciuti a Palermo proprio per la loro rete di informato-ri, ma non solo; le persone che si sono messe contro di loro non sono vis-sute abbastanza per poterlo raccontare. È inutile nasconderlo, l’aggettivo con cui sono chiamati è mafiosi ma in realtà loro si definiscono semplicemente un’organizzazione di potere atta all’espansione. Il potere nella vita è fondamentale, tutto si basa su esso, la stessa sopravvivenza si basa sul potere, solo i deboli negano tale verità. Angelo ormai sa bene come girano le politiche familiari, conosce i mec-canismi e i loro ingranaggi. Tutti, dai politici ai magistrati, cercano di sgo-minare le organizzazioni come le loro ma alla fine spesso loro stessi go-dono della loro esistenza. È assurdo come la gente sia ipocrita e incoeren-te. Quanti favori hanno elargito a personaggi di rilievo pur di riuscire a ot-tenere un accordo non solo monetario ma anche territoriale. Non si può né uccidere né espandersi o farsi rispettare se non c’è gente che lavora per te dall’interno. Li chiamano i corrotti e a Palermo ce ne so-no dannatamente tanti.

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La berlina si blocca di colpo in un vecchio casolare poco fuori il centro, dalla parte opposta di Palermo. Angelo esce dalla macchina con sicurezza e lo stesso fanno gli altri. Si dirigono verso il casolare sfoderando le pisto-le dalle fondine. Angelo si porta l’indice e il medio verso gli occhi facen-do capire di stare allerta, poi indica con i gesti le direzioni da seguire per ognuno. Gianni si sposta di fianco al casolare sul lato ovest mentre Mario su quello est scomparendo nel buio della notte. Angelo seguito da Antonio si prepara al suo ingresso trionfale dal portone principale. Le voci di alcu-ne donne si mescolano con quelle degli uomini che allegri ridono e scher-zano ignari delle visite. L’anta vecchia scricchiola sui cardini arrugginiti mentre Angelo entra nel casolare. Le candele emanano una luce soft in perfetta armonia con ciò che stava accadendo sino a pochi minuti prima. Un attimo d’incertezza, i tre uomini fissano Angelo sbigottiti e poi uno dei tre si getta verso l’unico tavolo presente per afferrare la sua arma da fuoco e senza alcun preavviso, senza neanche lasciar parlare Angelo, preme il grilletto del revolver. Il grilletto scatta a vuoto senza far partire il colpo, nessuna reazione nono-stante continui a sparare, l’arma è semplicemente scarica. «Chi fa? Vo' sparari a un cristianu disammatu?» chiede Angelo avvici-nandosi al gruppo. Le tre donne si fanno da parte allontanandosi il più possibile. Angelo scostando un lembo della giacca estrae dai pantaloni un fascio di banconote da centomila lire, mostrando ai presenti l’arma nella fondina. Con nonchalance getta i soldi nell’angolo in cui si trovano le prostitute. «Andatevene prima che cambi idee, una sola parola e so dove venirvi a cercare.» Le ragazze afferrano i soldi con bramosia e corrono verso la porta uscendo senza neanche girarsi. Dal retro del casolare fanno il loro ingresso Gianni e Mario tenendo sotto tiro i tre uomini. «Vi piace divertirvi eh?!» afferma Angelo con un sorriso sghembo. Nes-suno dei tre ha il coraggio di proferire alcunché se non guardarsi intorno confusi e agitati. «Dov’eravate oggi pomeriggio?» continua Angelo. Ancora nessuna risposta. «Picchi non parrati? Vi cumputtastu mali oggi pomeriggiu?» Silenzio assoluto. Angelo fa un gesto con la testa e Gianni fa fuoco senza tante cerimonie. Tra urla lancinanti uno dei tre cade a terra tenendosi la gamba ferita. «Faci mali?» chiede Angelo osservandolo contorcersi.

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«Vi ripetu a dumanda, unni eravati oggi pomeriggiu?» Uno trova il coraggio di aprire la bocca «nei pressi della Vucciria» am-mette cercando di spostarsi leggermente per tenere sotto controllo tutti e quattro gli assalitori. «Vucciria e… stranu succidiu na cosa pocu piacevole a me cucinu e a so cumpagna, sapiti?» L’uomo osserva attentamente gli scagnozzi di don Mimmo Romano, tutti li conoscono, indietreggia di un passo e scuote il capo con fare disinvolto. «Noi non ne sapemu nenti!» Un altro gesto e questa volta è Mario a far fuoco all’altra gamba del mal-capitato che se ne sta a terra bianco e sanguinante. «Non aiu caputu?» riprende Angelo sicuro. «È facile prendersela con chi è disarmato, vero?» ha il coraggio di rispon-dere il ragazzino accanto. I corti capelli scuri e gli occhi marroni vispi, le pupille dilatate dall’alcool e dagli stupefacenti. «Mica ti abbiamo sparato, dovrebbe lamentarsi il tuo compagno!» L’uomo a terra continua a urlare agitandosi e piangendo. «Ditegli tutto, ditegli tutto» urla al culmine del terrore. «Aviti sintutu u vostru amicu? Aviti cacchi cosa i diri?» «Avemu solu esicutu l’ordini!» ammette sempre lo stesso. «Viautri sapiti cu sugnu?» Gli uomini annuiscono. «E sapiti cosa fannu i Romano a cu attenda a loro vita?» Questa volta non annuiscono, gli occhi lucidi per i vari intrugli ingeriti non riescono a offuscare la paura che si affaccia in quegli sguardi. I Rizzo non sono mai stati capaci di grandi gesti, scelgono gente di bassi natali, persone che si spaccano la schiena tutte le mattine per compiere i lavori più sporchi e subdoli solo per qualche bella bustarella di soldi, ma la maggior parte delle volte i risultati, fortunatamente, sono pessimi, que-sta è una delle tante dimostrazione. Figurarsi se don Carmelo mandava i suoi due figli a beccarsi qualche pos-sibile pallottola vagante… e sua figlia poi, non si può neanche guardarla, l’ultimo che l’ha fatto non è mai stato trovato. «Avete seguito gli ordini, ora però pagate.» Un gesto e Gianni e Mario fanno fuoco con freddezza assoluta come se non si trattasse di persone ma semplici manichini, uno contro l’uomo feri-to a terra e l’altro contro l’uomo che sino all’ultimo aveva preferito menti-re piuttosto che svelare la verità. Il sangue si allarga sul terreno a macchia d’olio mentre il ragazzo, l’unico ancora vivo si getta a terra chiedendo

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pietà. Le mani strette intorno alla nuca dai corti capelli neri come a volersi proteggere. «Alzati in piedi» lo riprende Angelo avvicinandosi mentre sfodera final-mente la pistola, come se fino a quel momento non ce ne fosse stato biso-gno. Il ragazzo barcollando sulle gambe si alza da terra, gli abiti sporchi del sangue dei suoi amici ormai riversi al suolo come carne da macello. «Guardami negli occhi quando ti parlo» lo ammonisce Angelo cercando l’attenzione dell’unico superstite. «Ascoltami bene, ora tu vai da quei figli di puttana dei tuo mandanti e gli dici questo: i Romano ti mandano i loro ossequi. Loro le questioni d’onore le risolvono mettendoci la faccia e questa volta l’affronto ricevuto non passerà impunito, che prepari pure la tomba per suo figlio. Verrà trattato con la stessa moneta, gli mandiamo un miserabile del suo calibro a farlo fuori!» Angelo volge lo sguardo ai due cadaveri che continuano a perdere sangue e poi riprende con calma: «Sparisci dalla mia vista prima che cambio idea.» Il ragazzo non se lo fa ripetere due volte e corre via da quel luogo. Appena Angelo è sicuro di esser rimasto solo con i suoi compagni aggiunge: «Domani lo andate a prendere. Ora bruciate questo posto, non lasciamo tracce inutili.» Così dicendo esce dal casale seguito da Antonio che ha osservato soddi-sfatto la vendetta compiersi. Una cosa è certa, l’indomani andrà lui a prendere anche l’ultimo testimone, solo il tempo di fargli riferire il mes-saggio. Il fuoco in un attimo divampa, il tetto si sgretola mentre la berlina nera scivola lontano dal casolare.

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∼ CAPITOLO 6 ∼

AMORE E ODIO

Marilù è sdraiata a godersi il sole sul terrazzo al piano di sopra. Dopo l’esperienza scioccante non ha osato metter la testa fuori di casa. Total-mente rintanata tra le quattro mura della villa, si limita a osservare dal ter-razzo il grande giardino e in lontananza il mare. Continua a rivivere il momento in cui ha sentito tutti quegli spari, la corsa verso la macchina e poi il dolore al braccio. Scuote il capo decisa a non pensare a quel pome-riggio, non vuole più provare tanta paura e terrore, tuttavia è cosciente che ancora per lungo tempo dovrà vivere in tali tormenti. Alcune guardie se ne stanno in giardino a gironzolare con fare serio e au-toritario e Marilù si sente stranamente protetta da quelle figure che sbarra-no l’ingresso al cancello principale. Ciccio con il suo bicchiere tra le mani fa il suo ingresso, sorride alla sua Marilù. È bella, fin troppo bella e un moto di rabbia gli attraversa lo sguardo vedendola sdraiata sotto l’ombrellone con un abitino corto che gli manda il sangue in ebollizione. Il suo sguardo si sposta da lei alle guardie, è sicuro come la morte che qualcuno lì sotto ha fatto più di un pensiero indecente su quel corpo. Si avvicina al lettino su cui Marilù tranquillamente è immersa nei suoi pen-sieri. «Forse è il caso che ti metti qualcosa di meno succinto» la riprende Cic-cio. Marilù sobbalza sentendo la voce del suo compagno ma poi sorride e ri-sponde tranquillamente: «Francesco fa caldo!» «Non mi pare il caso che mostri il tuo corpo in questo modo, sotto c’è gente.» «France…» «Ciccio!» la rimprovera prontamente. «Ciccio sono in terrazza, fa caldo e chi vuoi tiri su la testa per disturbarsi a guardarmi, suvvia è ridicolo.»

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Ciccio si avvicina e inginocchiandosi al suo fianco le prende il viso tra le mani e la bacia con tenerezza e poi sempre con maggior enfasi. La puzza di alcool la investe facendola rabbrividire all’istante. La mano di Ciccio va a posarsi sul suo ginocchio per poi salire lentamente con piccole carezze, creando cerchi di varie dimensioni sulla sua pelle bianca. Con le dita tasta il bordo della gonna. «Sei bellissima lo sai?» le chiede tornando a baciarla con insistenza. Mari-lù si sposta leggermente. «Fra… Ciccio per favore potrebbero vederci!» «Non guardano su no?!» le risponde di rimando insinuando la mano sotto l’abito. Marilù si scosta, cerca invano di scansarsi da quel contatto. È ubriaco, le fa venire il voltastomaco solo a sentire la puzza di cognac invaderle la bocca. «Ciccio per favore basta, non è il caso!» si mette a sedere tirandosi giù la gonna che con poca grazia Ciccio le ha alzato. «Non è il caso? Perché?» chiede alzandosi e afferrando il bicchiere lo riempie nuovamente. Marilù scuote il capo, non è possibile. «Non è il posto adatto!» Ciccio resta silenzioso per qualche istante, sorseggia il suo liquore e scruta il nulla. Marilù si rimette in ordine, vuole solo ritirarsi in stanza, non ha più voglia neanche di stare all’aria aperta. «Sono stanca vado a riposare.» Non accetta certi comportamenti, non riesce a tollerarli è più forte di lei. Il voler bene a una persona dovrebbe evitare tali umiliazioni. Ciccio scoppia in una risata fragorosa. Marilù lo guarda perplessa poi si volta e si dirige verso la sua stanza. A volte sa essere così cinico e spietato, la fa sentire stranamente inadatta e lei questo non lo sopporta. Alza il passo mentre i tacchi alti risuonano sul marmo. «Dove vai?» tuona seguendola. «Sono stanca» ripete mentre alza il passo, non vuole litigare con France-sco, non oggi, non sapendolo in quello stato pietoso. Lo sa, anche lui è sotto shock per tutto quello che è accaduto ma non può comportarsi così, non può. «Fermati!» Marilù non lo ascolta continua a percorrere l’ampio corridoio, vuole solo arrivare nella sua stanza e chiudere il mondo fuori.

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La presa al polso è forte e decisa. La gira con rabbia verso di lui e la sbatte contro il muro. «Ti dissi di firmarti!» «Francesco cosa stai facendo… lascia-mi» balbetta cercando di spingerlo via. Ciccio con rabbia le tira su l’abito mentre sprofonda il volto in quella ca-scata di capelli corvini. Le mordicchia il lobo dell’orecchio quasi con rab-bia. «Mi… mi stai facendo male» urla Marilù cercando di spingerlo nuova-mente via. Inizia a scalciare, non riconosce più il suo Francesco, non può comportarsi così, è un incubo. Francesco s’insinua in mezzo alle sue gambe con forza mentre le blocca le mani sopra la testa con rabbia disumana. La sua bocca copre quella di lei con un bacio famelico mentre l’unica mano libera le alza maggiormente la gonna. Marilù cerca di gettarsi a terra disperata mentre gli morde il labbro. «LASCIAMI!» urla disperata. Francesco la molla colpito dal morso, il labbro sanguina e se lo tocca con un dito mentre Marilù crolla a terra come una foglia. Striscia via da Fran-cesco cercando di alzarsi sulle gambe malferme. Ciccio l’afferra per la spallina dell’abito e la strattona, questa cede sfilacciandosi in mille pezzi. Marilù con forza inizia a calciare alla cieca per evitare che la tocchi. Cic-cio cade a terra colpito di striscio al basso ventre, con rabbia le sferra uno schiaffo sonoro colpendole le gambe, l’afferra per le caviglie e se la tira sotto di lui. «Ora basta sta ferma… tu sei mia!» «LASCIAMI!» urla ancora e ancora sino a quando non sente il ceffone colpirla in pieno viso e il sapore del sangue invaderle la bocca. La testa inizia a girare vorticosamente e resta immobile mentre sente le mani di Francesco sotto la gonna, mentre lo sente aprirsi la cerniera dei pantaloni. Le lacrime scivolano via dagli occhi verdi senza che se ne accorga. Vuole morire, sì, vuole morire. Chiude gli occhi, cerca ancora una volta di liberarsi, di scivolare via da sotto quel corpo che la schiaccia contro il freddo pavimento di marmo. «Sta ferma!» le sussurra iroso Ciccio a un passo dalle labbra gonfie. «Lasciami!» ormai è un sussurro. Non c’è scampo, non c’è alternativa. Una mano afferra Ciccio per un braccio e lo tira su con forza. Ciccio cerca di scuotersi di dosso l’intruso che pare non volerlo lasciare. Non capisce bene chi sia, butta a indovinare perché nel voltarsi non scorge bene i con-torni dei volti.

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«Antonio che cazzo fai?» chiede mentre cerca ancora di liberarsi. «Tu che minchia fai, da quando violenti le donne? E sono Angelo non An-tonio!» sbotta mentre cerca di farlo reggere in piedi. Ciccio continua a strattonarsi dalla presa del cugino. Antonio si avvicina per aiutare Angelo, tutto quel baccano l’hanno sentito dal giardino. Ha da-to spettacolo questa volta. «Cettu chi to' cucinu no reggi propri l'alcool» scherza Antonio con Ange-lo, ormai sono come fratelli, l’ha visto crescere e lo conosce fin troppo bene. «Dai portalo via, non si regge manco in piedi» intima Angelo ad Antonio. Ciccio cerca di liberarsi, ma più l’alcool entra in circolo più i riflessi si fanno lenti. I contorni della realtà paiono divenire sbiaditi e l’ultima cosa che vede è il volto terrorizzato della sua Marilù che se ne sta accucciata in un angolo. Antonio trascina via Ciccio che inerme se ne sta aggrappato alla sua spal-la. «Chi fici?» piagnucola tra un riso isterico e qualche frase sconnessa. Angelo rimane nel corridoio a osservare Marilù. Le lunghe gambe snelle sono totalmente scoperte, la spallina dell’abito le pende scoprendo la cop-pa del reggiseno color carne, mostrando quel corpo più del dovuto. Le al-lunga una mano avvicinandosi ma lei si scansa terrorizzata mentre si stringe le gambe contro il petto chiudendosi a riccio. Angelo sospira, si avvicina maggiormente e le s’inginocchia di fronte. La scruta attentamen-te per alcuni istanti, poi allunga una mano lentamente sfiorandole il labbro gonfio. «Ti ha picchiata!» Marilù rabbrividisce per il dolore, la paura e la vergogna e china il capo contro le ginocchia per nascondere il viso. Le lacrime iniziano a scendere silenziose. Con due dita Angelo afferra la spallina dell’abito e la sistema sulla spalla di Marilù senza ottenere il risultato sperato perché questa rica-de miseramente al suo posto. Angelo si avvicina ancora e ancora mentre lei lo scruta con occhi verdi gonfi di terrore. Le braccia di Angelo vanno a insinuarsi sotto il suo corpo e di colpo la tira su come se fosse priva di pe-so. Marilù sobbalza e cerca di divincolarsi ma sono gli occhi scuri di An-gelo a bloccarla. Non sono occhi diabolici, non sono occhi ingannatori, sono occhi di un ragazzo che ha visto tante cose. Sono occhi addensati da nubi oscure e solo in fondo c’è una luce misera e quasi insignificante a brillare. Marilù si divincola nuovamente ma questa volta è la voce di An-gelo a pietrificarla. «Faccio un sacco di cose io, ma non picchio le donne.»

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È quella frase a lasciarla senza parole, senza forza. La testa cade sulla spalla di Angelo, “sono cugini ma sono diversi” si ripete mentalmente. Fa un sacco di cose, ma non picchia le donne. È la verità più sconvolgente che ha sentito, sa cosa fa la gente come lui, come Ciccio e come tutte le dannate guardie che circondano la villa, sono assassini ma mai nessuno l’ha fatto intendere così esplicitamente. La paura finalmente si scioglie in singhiozzi estenuanti. Si sente stanca, spossata e quando Angelo la depone sul letto lei sprofonda il viso nel cuscino disperata. Piange, piange, non riesce a fare altro che piangere. Come ha potuto Francesco trattarla in quel modo? Non sa rispondersi e forse è solo per quello che piange, non per il male, non per la vergogna, non per la paura. Angelo si siede sul bordo del letto. Sta in silenzio come se questa situa-zione sia normale. Tira il lenzuolo ripiegato con cura ai piedi del letto sul corpo di Marilù scosso dai singhiozzi. Dovrebbe andarsene ma non lo fa. Quello non è il suo posto e se Ciccio lo vedesse non sarebbe per nulla contento. Ha un senso del possesso forte e radicato che si estende a tutto ciò che lo circonda compresa la ragazza. A volte si è chiesto se suo cugino sia veramente interessato o se sia soltanto per la brama di possedere un nuovo gioiellino da sfoggiare. Lo sguardo gli scivola su quel corpo, nascosto dalla coperta, raggomitola-to su se stesso come un gattino. È bella c’è poco da dire. È normale che Ciccio straveda per lei e si arroghi ogni diritto. È normale che la guardi sempre con quegli occhi famelici e bramosi, che ogni tanto scatti su se qualcuno la osserva. Marilù è sua, sua come la casa, le terre, i soldi… un nuovo oggetto da aggiungere alla collezione. Ad Angelo fa male il solo pensarlo, ma è la verità e lui non ama certo cro-giolarsi nelle menzogne o nelle falsità. Preferisce la cruda realtà perché nella sua vita non c’è mai stato spazio per le mezze misure, per la tenerez-za, il conforto. Dovrebbe andarsene, ma quel gomitolino racchiuso sotto il lenzuolo gli crea un senso di doloroso dispiacere. Si odia per non essere capace di restarne immune. Non sono fatti suoi se suo cugino si comporta così, se la ragazza si lascia maltrattare. Eppure quel labbro gonfio e il mento incrostato di sangue gli fanno uno strano effetto. Si sfila dalla giac-ca un fazzoletto e si avvicina a quelle labbra. Lei se ne sta con gli occhi chiusi, stretti a forza dalla paura. Sobbalza appena sente il contatto con la stoffa e caccia un urlo. Ritrae la testa di lato spaventata e lo mette a fuoco. «Sssh! Non voglio farti del male…» riavvicina il fazzoletto al labbro per pulirla dal sangue «voglio solo pulirti il viso.»

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Lentamente si arrende e lo lascia fare. Angelo impreca sottovoce, quasi sperava che lei si ribellasse, facesse il diavolo a quattro e invece la scopre di nuovo arrendevole e fiduciosa. Lui sa che non le farà del male, ma lei non può esserne sicura al cento per cento… e invece si è fidata di lui, delle sue parole. Si prende quelle attenzioni come un gatto in cerca di fusa. An-gelo scuote il capo. Non va bene, non va bene. Marilù è pericolosa per se stessa. Come può non dirglielo quando la vede così indifesa nel letto? «Devi andartene ragazzina.» Gli occhi verdi le si spalancano sorpresi. «Torna a casa tua, sparisci da qui» continua imperterrito «non lo vedi co-me ti ha ridotta? Oggi sei stata fortunata, non ci sarò sempre io o qualcun altro a tirarti fuori dai guai…» «Non ho bisogno d’aiuto» replica con un filo di voce. Angelo a stento trattiene una risata dolce. Come può uno scricciolo simile mettere paura a qualcuno? Di suo ha solo un pregio o comunque un male, è bella. «Forse non ti è chiaro quello che ti sarebbe successo…» insiste Angelo, odia essere spietato, ma Marilù lo spinge a essere duro perché sembra non rendersi conto di nulla. Forse è più interessata alla posizione, ai soldi, piuttosto che alla sua incolumità. Forse è semplicemente l’amore a guidare ogni sua azione. Angelo si era aspettato di vederla andar via dopo la ferita sul braccio. E invece nono-stante la paura non ha fatto un passo indietro. Troppe donne con un insano spirito masochista ha conosciuto nella sua vita, a conti fatti Marilù potreb-be essere una delle tante. Forse sa troppo bene quello che l’aspetta perché Ciccio non è mai andato troppo per il sottile con nessuna e Angelo non crede che il cugino possa diventare santo tutto d’un botto. «Ti ha picchiato altre volte?» Le parole gli escono a fatica. Angelo non è uno che ha paura, ma stavolta teme che la risposta possa non piacergli. Ciccio è viziato, egoista come ogni figlio di papà che si rispetti, tutto gli è dovuto, ma come può alzare le mani su di lei? Dove trova il coraggio? Gli occhi di Marilù si adombrano appena. «Non sono fatti tuoi!» Fa per voltarsi dall’altra parte per fuggire lo sguardo indagatore di Angelo e un gemito le sale alle labbra appena sfiora il materasso con il braccio fe-rito.

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«Resterà un segreto per poco se ogni volta si sfoga sul tuo viso» le fa no-tare con voce atona e implacabile. Non può credere che sia così sciocca da volerlo difendere. «Era ubriaco!» mormora Marilù con voce tirata. Angelo si solleva con un unico fluido movimento dal letto. Il sorriso è ti-rato sul viso, una piega tra il divertito e l’amaro. Come può non ridere pensando alle parole così ingenue di Marilù? La ragazza non nega e non afferma, pensa spazientito. È come cavare san-gue da una rapa. È sciocca, andrà incontro al suo destino senza che lui possa far altro se non avvisarla. E com’è che si dice: uomo avvisato mez-zo salvato… non sa davvero se è il caso di Marilù. È proprio come se si ostinasse a non voler vedere la realtà, la rifiuta categoricamente. Angelo fa una nuova smorfia. È come una bambina che si aggrappa alla sua idea di principe azzurro e guai a chi gliela tocchi. Ciccio ormai è intoccabile, invincibile. «Se qualcuno alza le mani sulla tua persona non è il caso di cercargli le attenuanti.» Si avvia alla porta con passo deciso quando, con un filo di voce, Marilù lo ringrazia.

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∼ CAPITOLO 7 ∼

L’ORGANIZZAZIONE Quando don Mimmo si sposta da Villa Speranza, sita nella campagna di Palermo, per recarsi a Monreale è come se si stesse muovendo il re in per-sona. Un’intera processione di macchine nere con i vetri fumé s’inoltra per quelle strade di campagna secche e disadorne. È quasi come essere a un funerale, per i colori, l’incolonnamento delle macchine, l’aria pesante che si respira. Qui però la morte si cerca di schivarla e don Mimmo è sempre prudente, pensa sempre che le misure di sicurezza che ha preso possano non essere abbastanza. Non gli costa granché inserire una berlina in più, un uomo in più nella scorta. Vuole essere sicuro della sua incolu-mità, ma più che altro vuole passare per le strade ed essere osservato, ammirato. Vuole che tutti sappiano chi è don Mimmo Romano e che con-tinuino a ritenerlo insidioso e pericoloso. In cinquanta anni di vita parec-chie cose gli sono certe ma si riconducono tutte a pochi basilari principi: la gente ti rispetta solo quando ha paura e se ha paura; non ci si può mo-strare mai deboli neanche in seno alla propria famiglia; i sentimenti non hanno spazio, sono fuorvianti e rendono deboli. Lo sa Mimmo che ha de-ciso di gettarsi anima e corpo nel lavoro, l’unico che sa dargli immense soddisfazioni. Qui le leggi le conosce bene. Le ha fatte sue, tramandate da padre in figlio e mettendole in atto nel migliore dei modi. Dopo di lui sarà la volta di suo figlio, in un cerchio che non avrà mai fine fino a quando l’ultimo Romano avrà respiro. E suo figlio è proprio ora che impari a ge-stire le questioni di famiglia e che si dia da fare concretamente, mandando avanti il nome dei Romano. Purtroppo don Mimmo sa benissimo di non essere eterno e non solo perché i nemici sono tanti, ma proprio perché il tempo passa e non si arresta; ogni giorno si riscopre sempre più invecchia-to per gli anni, lo stress del lavoro, il fardello di questa famiglia che grava solo sulle sue spalle. Ovviamente oggi non è il momento di pensare con nostalgia al passato o immaginare chissà quale futuro. Ora è il tempo di riunirsi e decidere, una volta per tutte. Palermo è sua e non è intenzionato a perderla solo perché c’è qualche tirapiedi che non sa stare al suo posto.

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Don Mimmo deve avere mille occhi, e in questa giungla la linea che divi-de gli amici dai nemici si fa così esigua da dover sempre prestare atten-zione. Anche i muri hanno occhi e orecchie. Alfredo, il figlio maggiore di Alfonso, si accosta alla berlina che si è ap-pena fermata e senza aspettare le guardie apre direttamente lo sportello, accogliendo don Mimmo con un sorriso radioso. «Mimmo!» esclama «viaggiasti bene? Incontrasti problemi?» Alfredo è un torrente di domande, ma è sempre preoccupato che don Mimmo possa affaticarsi durante tutti quegli spostamenti o che peggio an-cora possa essere aggredito da qualche malintenzionato. «Tutto bene, Alfredo!» Don Mimmo sorride compiaciuto mentre Alfredo gli afferra la mano e vi posa un bacio. Farebbe a meno di certi convenevoli ma sa benissimo quanto Alfredo ci tenga e come lui moltissimi altri. È segno di rispetto verso chi, come lui, è potente politicamente ed economicamente. Impedir-lo sarebbe come venir meno al suo prestigio. Don Mimmo è uno di quelli che sa quando è il caso di restare aggrappati a vecchie tradizioni medieva-li. «Dov’è tuo padre? Fammi strada Alfredo.» «Attende in casa, non si è sentito bene ultimamente.» Le guardie diventano un tutt’uno con don Mimmo, non appena scende dalla macchina, per proteggerlo da eventuali attacchi a sorpresa. Con un gesto della mano li scaccia seccato. «Che fate? Sono a casa, qui.» Gli altri seduti sulle comode poltrone del salone si alzano appena vedono entrare don Mimmo, qualcuno si allunga per baciargli con rispetto la ma-no. Ma don Mimmo oggi ha veramente fretta di delineare la situazione e con un brusco gesto della mano fa zittire il nutrito gruppo, tra parenti stretti, amici di famiglia e collaboratori a stento stanno dentro a quella stanza. Il vecchio Turi si fa portavoce di un sentire comune: «Sta bene Ciccio? Sentii che giorni addietro subì un’imboscata.» «Sentisti bene, Turi!» è la stanca replica del boss. Ripensare a quel giorno lo rende nervoso e vulnerabile «ma Ciccio tiene sette vite come i gatti. Non fu neanche ferito!» Tutti gli astanti tirano un sospiro di sollievo e qualcuno butta lì una risata e qualche frase sul fatto che è un Romano doc. «Cu fu?» chiede Alfonso. «I Rizzo!» «Merda!» impreca Alfredo «hanno di nuovo sconfinato.»

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«Bisogna vendicarsi Mimmo» suggerisce subito Turi. «Ci pensò Angelo!» gli occhi gli brillano fieri. Angelo non dà nulla per scontato e prevede sempre le mosse dei nemici. È tattica, intelligenza, è per questo che lui è il capo e gli altri stanno dietro. «E che fece Angelo? Riuscì nell’intento?» «Li punì! E ne lasciò vivo uno il tempo di portare un messaggio.» «Lo scugnizzo sa il fatto suo» ridacchia Turi insieme a qualche altro vec-chio. Don Mimmo orgoglioso si schiarisce la voce. «Torniamo al motivo della riunione.» Si accomoda sulla poltrona dietro alla scrivania. Le mani s’intrecciano l’una all’altra pensieroso. «Alfredo chi ti disse che Calogero fu arrestato? Non ricordo il nome…» «Me lo disse Umberto, il nuovo appuntato della polizia. Lo conoscesti Umberto… te lo ricordi? Il figlio di compare Vincenzo.» Alfredo ama intessere dettagli, vuole far capire il quadro della situazione. Appena vede che don Mimmo annuisce con la testa prosegue. «Persone oneste e fidate. Ebbene il giovane mi disse che Calogero fu arre-stato non appena ebbe messo fuori di casa il naso. Mi disse che qualcuno tradì, Mimmo!» Gli occhi del boss si riducono a due fessure strette, le mani congiunte sfio-rano pensierose il labbro. «Cu tradì?» «Non sa cu fu, ma qualcuno sapeva dov’è che Calogero doveva incontrar-si per scambiare il pacco!» Mimmo trasale appena. «E il pacco che fine fece?» «Sequestrato Mimmo!» «Questo è un problema!» risponde serio «sono soldi che si perdono, affari che sfumano. Che si sta facendo in proposito?» «Umberto sta vedendo un po’ in giro… certo se gli si potesse far fare un po’ di carriera!» insiste Alfredo. Don Mimmo scuote la testa. «Turi non conoscemmo anni fa quel questore? Vedi se può fare qualco-sa… è giovane il ragazzo, volenteroso, va di sicuro premiato, di giovani così in Sicilia ce ne sono pochi.» «Sarà fatto Mimmo!» è la pronta risposta del vecchio «ricordi però che c’è quel giudice che dà fastidio…» «È proprio di lui che voglio parlare!»

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Quell’uomo di legge non è facile alla corruzione. Anzi sembra che né sol-di, né terre, né promozioni possono farlo desistere dai suoi nobili ideali. «È tornato, Mimmo!» «Non sarà facile far uscire Calogero!» si aggiunge qualcuno al coro di vo-ci. «Facciamo in modo di farlo spostare in un’altra città, a Ragusa c’è Carme-lo Caruso che non esita ad aiutare gli amici!» insiste un altro. «Silenzio!» invita don Mimmo che non ama la confusione. «Calogero va tirato fuori!» stavolta è Francesco, il nipote, che si fa senti-re. «E fuori lo tireremo» replica Mimmo seccato da tutte quelle frasi che non portano a nulla. «Non vorrei che parlasse» insiste il nipote. Mimmo non ha dubbi sul fatto che Calogero se ne starà zitto. Non tradi-rebbe mai la famiglia, ha più dubbi sul nipote che sembra troppo delicato anche per tenere in mano un’arma. «Cantano tutti lì dentro da quando arrivò quello!» fa notare Turi. «Quanti ne processò?» chiede il vecchio Alfonso. «Con quel maxiprocesso arrivò a trecentosessanta condanne…» Turi sa tutto perché si tiene informato. «Silenzio!» chiede nuovamente Mimmo «lasciatemi pensare!» Tutti tacciono all’istante, ma si vede chiaramente che sono agitati perché qualcuno ha fatto la spia e un giorno o l’altro potrebbero essere loro a fini-re in galera. «Alfredo tu occupati di capire dove è finito il pacco, Turi penserà ad avvi-sare il questore di Catania. Voglio sapere cu ci tradì!» «E poi?» suo nipote è ancora scontento, soprattutto per non essere stato incluso nell’operazione «se non funziona?» «Non funziona!» borbotta qualcuno parecchio scettico in fondo alla stan-za. «Ci vuole troppu a seguire la legge, ziu…» «Silenzio!» Stavolta Mimmo urla per riportare l’ordine. «Dov’è che abita il paladino della giustizia?» chiede all’improvviso. «All’Addaura, ha una villa» risponde solerte Alfonso. «Ebbene a cu ‘spttamu a fargli visita?» domanda Mimmo e un attimo do-po tutti scoppiano a ridere portandosi sulla medesima lunghezza d’onda. «Avemu bisogno dell’invito?» insiste di nuovo Mimmo che stavolta ha chiaro in testa il da farsi. Di nuovo tutti ridono scuotendo la testa.

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«Glielo mando io l’invito! L’invito d’un Romano…» «Antonio ci pinsati tu e Angelo?» Si gira e si rivolge al suo fidato collaboratore. L’uomo alle sue spalle an-nuisce. «Riferirò ad Angelo!» «E io ziu? Che pozzu fari?» domanda Francesco «pozzu andare anch’io!» «Non c’è bisognu d’una fudda a puttari un invito, Ciccio. Quand’è che lo capirai!» replica suo zio seccato. L’altro sbuffa indispettito per essere stato messo a tacere e per essere stato criticato. Ora tutti scoppiano a ridere preceduti da suo zio, che in un atti-mo l’ha reso lo zimbello di tutta la stanza. «E ora beviamo alla salute nostra e di Calogero che presto sarà fuori» in-vita tutti ad alzarsi e dirigersi verso l’altra stanza dove sa che di sicuro Al-fonso avrà fatto preparare un lauto buffet. Un cameriere versa velocemente il vino dolce e rosso nei calici. Turi alza il calice e dice: «Brindiamo a Mimmo!» «A Mimmo!» dicono tutti gli altri in coro, buttando giù il vino in un unico sorso. «Brindiamu alla famiglia!» è la volta di Mimmo a proporre il brindisi giu-sto. Lui senza la famiglia non sarebbe lì «che sia prospera sempre.» «Alla famiglia!» lo seguono di nuovo tutti.

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∼ CAPITOLO 8 ∼

SOSPETTO Ciccio non si è fatto vedere. È una delle tante azioni che solitamente mette in atto dopo averla picchiata. Non è sempre stato così, eppure, da quando tre mesi fa le ha chiesto di trasferirsi tutto è cambiato, totalmente degene-rato. La situazione ha preso contorni strani e indefiniti. Sospira, non sa bene quello che vuole fare, Ciccio colto dalla vergogna del suo atteggiamento non si è più fatto vedere ormai da due giorni buoni ma non solo, esce la mattina presto e torna la sera tarda, e la cosa triste che proprio una di queste notti ha bussato con insistenza alla sua porta. Scuote il capo, sporge la testa verso l’esterno di quella camera che non ha lasciato per giorni interi. Non ha davvero nessuna voglia di stare a guardare, non vuole ancora una volta aspettare che tutto cambi, deve occuparsi di questa faccenda da sola. Ricorda come fosse ieri quando è scesa da quel traghetto e ha visitato Pa-lermo. Dopo aver vissuto a Londra, Palermo pare proprio un altro mondo. La gente vive nelle sue tradizioni che sono saldamente radicate nel loro essere. Ricorda anche la prima volta che incontrò Ciccio, sorridente e spensierato, un ragazzo come tanti altri eppure con problemi enormi. Lo sa di aver percorso troppo velocemente le tappe, si è trasferita a Paler-mo, si è messa con un uomo di ventinove anni contro i suoi miseri diciot-to, eppure non si pente di nessuna di queste scelte, le rifarebbe tutte. Scivola fuori dalla stanza cautamente, sono tutti fuori, don Mimmo è an-dato da Alfredo, Ciccio ancora una volta si è rifugiato fuori da quelle mu-ra, chissà dove. Solo alcune guardie se ne stanno fuori a sorvegliare la vil-la. È sola per la prima volta dopo mesi. Quando da bambina guardava i film di mafia non credeva a quanto vedeva, ora che si trova catapultata in que-sto mondo si è resa conto che è anche peggio. La domanda che l’assilla é come possa don Mimmo fare una vita del ge-nere, come può vivere sapendo che suo figlio rischia la vita continuamen-te. Si sporge oltre la balaustra del piano di sopra per vedere se c’è qualcu-no di sotto, qualche volta le guardie controllano la casa e lei non vuole davvero dare nell’occhio.

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Scivola giù per le scale lentamente, i piedi scalzi per non fare rumore inu-tilmente. Arriva di sotto e con fare cauto segue il corridoio principale sino a trovarsi innanzi alla grande porta di legno. Lancia altre occhiate a destra e a sinistra poi afferra la maniglia e la spinge in basso. Nel silenzio la por-ta pare produrre un rumore tremendo aprendosi ma è solo l’impressione. In punta di piedi entra nell’ufficio chiudendosi la porta alle spalle. Tira un sospiro di sollievo, guardandosi intorno indecisa da dove iniziare. Non dovrebbe trovarsi lì ma lo fa solo per lei e per Ciccio, tutto questo sangue, queste vendette e questioni d’onore inizia a non sopportarle e so-no solo pochi mesi che le vede passare davanti agli occhi come se fosse tutto normale. È certa che se Ciccio lasciasse perdere tutto sarebbe diver-so, ogni cosa cambierebbe ma fino a quando si trova a contatto con suo padre e le sue abitudini non cambierà mai. Scruta un grande mobile antico con cassetti e ante, poi si volta verso la scrivania e con passo deciso si avvicina. Non ha tempo per i tentennamen-ti deve fare presto. Le mani si muovono velocemente, aprono cassettini e frugano all’interno con meticoloso ordine per timore di lasciare qualcosa fuori posto. Inizia ad andare più veloce, continua a cercare, a frugare di-speratamente. Se solo uscisse qualcosa allora potrebbe lasciar perdere tut-to, portare via Ciccio e chiudere per sempre con questa vita. Lui la segui-rebbe, né è certa. Passa in rassegna tutti i documenti sulla scrivania, alcuni fogli paiono quasi scritti in codice, alcune sono filastrocche, altri solo liste di nomi. Li legge uno per volta, li passa in rassegna, sono disposti in ordi-ne alfabetico, a fianco delle cifre che vanno dai mille agli ottanta milioni di lire. Debiti, ecco cosa sono, una marea di debiti contratti con la mafia. Ripone la lista al suo posto indignata e sconvolta per tutti quei nomi che si rifu-giano tra le braccia sanguinarie di questa organizzazione di assassini. Ci deve pur essere qualcosa di significativo. Si dirige verso il mobile e apre alcune ante. Registri contabili, lettere dell’avvocato di famiglia, il signor Giulio Bruni, altre lettere del commercialista e poi un raccoglitore. Lo sfi-la da dentro all’armadio chiude tutto e va a sedersi alla scrivania. Osserva per breve tempo la porta mentre aguzza l’udito. Niente, solo silenzio. Apre il raccoglitore e inizia a sfogliare pagina per pagina velocemente. Altre liste, altri conti, indirizzi e codici bancari, codi-ci IBAN con a fianco nomi di banche estere. E tutto troppo confusionale, non si riesce a capire bene, neanche i conti paiono esser chiari, non ci so-no nominativi significativi, come se qualcuno sapesse tutto a memoria. Sospira mentre le mani scosse da tremori continuano la loro opera. Nulla, nulla, non riesce a capire, non trova nulla che possa dar fine a tutto. Chiu-

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de il raccoglitore e lo sistema al suo posto. Si abbassa e apre l’altra anta in basso. Ormai presa dalla ricerca non bada neanche ai rumori, vuole solo sapere, capire, vuole portar via Ciccio con sé, vuole aprirgli gli occhi. Al-tri raccoglitori tutti classificati dalla A alla Z. La porta scricchiola leggermente e Marilù chiude l’anta alzandosi imme-diatamente e osservando la porta. La salivazione pare essersi seccata, os-serva l’uomo che ha fatto il suo ingresso nell’ufficio e non sa davvero co-sa dire. Angelo la osserva perplesso mentre gli occhi scrutano tutto l’ambiente. «Salve!» «Salve!» risponde Marilù con un filo di voce. Angelo chiude la porta alle sue spalle e continua a guardarsi in giro come se volesse scorgere un indizio, qualcosa che gli possa giustificare la pre-senza di Marilù all’interno dell’ufficio di don Mimmo. «Posso sapere cosa ci fai qui?» Marilù si sposta lentamente verso la scrivania mentre Angelo pare seguir-la, tanti passi mette lei così ne fa lui. Si sente alle strette e non sa cosa dire, ogni parola le pare banale e sciocca e Angelo non pare proprio uno stupido qualunque. «Io, cercavo dei fogli… Ciccio viene a prenderli sempre qui da quello che mi ha detto.» «Umh…» mugugna Angelo poco convinto mentre con un movimento del capo indica una risma, ben disposta, proprio dietro alla scrivania. Marilù osserva il mobile ricolmo di foto che mette in mostra un bel pacco di fogli bianchi. «Ah… non li avevo visti!» sorride indifferente mentre fa il giro della scri-vania e ne acciuffa un paio. Angelo la segue, le blocca la mano e Marilù sussulta. «Ti serve anche la penna?» chiede incuriosito. Questa volta come risposta vi è solo il movimento del capo, un annuire poco convinto eppure deciso. Angelo non sa cosa pensare, ma questa si-tuazione non gli piace. Afferra una penna dalla scrivania di fianco e gliela porge. «Non è il caso che tu ti aggiri in quest’ufficio, qualcuno potrebbe frain-tendere i tuoi buoni propositi, perché sono buoni immagino!» «Ovviamente, mi serviva solo della carta» sventola i fogli stretti tra le lun-ghe dita curate e poi sorridente alza anche l’altra mano con la stilografica. «E la penna!» Angelo le blocca la mano prendendola per il polso.

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«Bene, ma ora vai via di qui e la prossima volta chiedila a qualcuno la car-ta e la penna!» Marilù rabbrividisce, il sangue le pulsa nelle tempie e il polso pare brucia-re sotto la presa di Angelo. «Se mi lasci tolgo il disturbo» lo riprende in maniera sfacciata, non vuole mostrarsi colpevole di nessun reato, la paura è uno di quei sentimenti che mostra a chi hai di fronte che sei in fallo, è una cattiva consigliera in que-sti casi e lei ormai lo sa perfettamente. La presa si affievolisce e finalmente è libera di muoversi. «Non disturbi mai Marilù» le risponde sarcastico Angelo. Si siede sulla grande sedia di pelle di don Mimmo e la osserva allontanarsi scalza, in punta di piedi come una ladruncola qualunque. Sorride a quell’immagine mentre Marilù si volta per lanciargli un ultimo sguardo timoroso ma al contempo sfacciato, quella sfacciataggine un po’ ingenua e un po’ dannata perché incanta, e poi quei cristalli verdi per un istante si tuffano nei suoi occhi, aleggiano nella sua mente. Sono verdi, proprio co-me la speranza.

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∼ CAPITOLO 9 ∼

ADDAURA Marilù aveva pensato di non scendere per il pranzo, nonostante gli scon-giuri di Ciccio al di là della porta. Lei non è una merce da mostrare a suo piacimento per farsi bello e grande agli occhi degli altri. Vale di più di un semplice bel viso e di un corpo sodo e procace. Vuole e pretende di più e sicuramente quella porta chiusa che la divide da Ciccio le infonde un co-raggio smisurato. Deve finirla di fare il despota e il pentito a fasi alterne… ne è stufa e anche se è soltanto una donna con pochi mezzi a disposizioni non sopporterà ancora per molto questa situazione. Prima non era così e questo gioco non la diverte per niente, anzi la rende più spaesata e confu-sa. Non si sente più a casa da mesi ormai ed è triste ammetterlo non è quello che da anni sognava intensamente. «Marilù, ti prego…» sconsolato Ciccio appoggia la testa alla porta «che figura mi fai fare se non scendi?» Ciccio ha uno strano modo di pentirsi e scusarsi, prima implora e poi batte la porta con forza come a volerla scardinare. A ogni botta, Marilù si strin-ge nelle spalle impaurita. Sa che deve scendere, non si può esimere da questo pranzo, altrimenti Ciccio gliela farà pagare. «Marilù, ti dissi di aprire, fallo per la miseria.» Lei si scuote da quel torpore in cui è caduta, tra i cupi pensieri che vorti-cano come una nera nebulosa. Va tutto di fretta e non ha tempo per pensa-re. Apre l’armadio con le mani tremanti e si aggiusta alla bene e meglio un vestitino di un impalpabile colore verde che riprende con delicatezza le screziature dei suoi occhi. L’ha comprato a Camden Town per poche ster-line prima di partire. A casa hanno storto il naso, non è l’indumento adatto per una terra che vive anni indietro rispetto al resto del mondo. Ma è solo una ragazza che non ama seguire la corrente e le regole, soprattutto quan-do non ne capisce il senso. Fa caldo a Palermo, così caldo che ti stacche-resti persino la pelle di dosso per rinfrescarti. Lascia sciolti i capelli, neri come le ali di un corvo, che le ricadono in tan-te sinuose onde sulle spalle. Si appunta una mollettina dorata di lato tanto per dare una nota di colore a tutto quel manto scuro. Non ha tempo per di-pingere il suo viso di qualche tono caldo. Storce il naso con disappunto

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non appena Ciccio batte con più forza sulla porta e lei per lo spavento si lascia cadere dalle mani la boccetta del profumo. «Che è stato?» alza la voce Ciccio, ma Marilù ci legge una nota di preoc-cupazione nella voce. Si accosta alla porta mentre con mosse decise calza le sue solite scarpe dai tacchi alti e sottili. La fanno sembrare più grande, più donna, meno ragaz-zina. Le indossa come fossero una seconda pelle e solo quando le porta si sente sicura che quella patina di decisione non le scivolerà via come una maschera troppo stretta. Spalanca la porta e con un sorriso incerto, gli dice: «Mi è caduto il profumo.» «Te lo ricompro il profumo» le dice Ciccio perdendosi in quegli occhi di giada «te ne ricompro mille!» Sorride soddisfatto costatando che alla fine ha aperto la porta. «Mi hai perdonato» non è una domanda è quasi una certezza. «Andiamo a tavola» replica lei che non vuole dargli soddisfazione anche se sa che non può tirare la corda troppo. Ciccio le solleva il viso con due dita stringendolo con una delicatezza e-strema che gli è inconsueta. Si perde di nuovo in quegli occhi che gli an-nebbiano il cervello, gli intenti. «Sei troppo bella, Marilù. Mi togli il fiato.» È così bella che rischia di perderci la testa, la ragione. Rischia di diventare pure un fesso dietro a questa ragazzina che non ha ancora capito qual è il posto di una donna. «Ciccio, è tardi, scendiamo» scosta il viso infastidita perché sa che se non si fa forza gli perdona anche questa «tuo padre starà già a tavola!» «Che vuoi che sia, le donne belle si fanno aspettare, lo sanno tutti!» le strizza l’occhio mentre con la mano libera le sfiora una guancia, il labbro che dopo giorni è finalmente tornato sano. Come accidenti ha potuto darle quello schiaffo? Se lo domanda ora da lucido, una bellezza come quella deve restare incontaminata. «Devi perdonarmi Marilù…» Sprofonda il viso nell’incavo di quel collo da cigno che profuma di pulito, le braccia solide si stringono intorno a quella vita sottile che mette in risal-to due fianchi dolci e sinuosi. Marilù s’irrigidisce all’istante, trattenendo persino il fiato, mentre quelle mani le accarezzano con troppa familiarità i fianchi. «Scendiamo Ciccio» torna a ripetere. «Ne parliamo dopo…» aggiunge mesta.

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Non sa più come arginare quell’insistenza, ma se pensa che il perdono venga così facile e addirittura senza rinunce si sbaglia di grosso. Più tardi rivendicherà qualche diritto. Ciccio si scosta da lei tenendole le mani fra le sue. Le apre le braccia scostandola. «Fatti ammirare Marì.» La osserva con occhi indiscreti, pieni di cupidigia mal celata. Dio l’ha resa così bella per fargli un torto, metterlo in tentazione ogni giorno. «Ti facesti bella, Marì… tanto bella che tengo fastidio a portarti giù.» Gli occhi avidi percorrono le curve delineate dal tessuto leggero che lascia scoperte le lunghe gambe e le braccia sottili. Ciccio le allaccia gli ultimi bottoncini del corpetto che lasciano in bella mostra un po’ troppo della generosa scollatura. «Così è meglio» sussurra con voce roca. La devono guardare sì, ma non spogliare con gli occhi. Le stringe la mano e lei docile lo segue da basso. Per l’occasione don Mimmo ha fatto apparecchiare nel salone che dà sul giardino, quello che ha la tavolata più grande, perché oggi è un giorno speciale. Marilù non ha capito cosa volesse dire don Mimmo con quella frase, non sa cosa si festeggia, sa solo che si sono riuniti in molti tra pa-renti e amici. «Finalmente scendeste!» esclama don Mimmo sedendosi a capotavola mentre i presenti piombano nel più completo silenzio. «Ci scusi don Mimmo» la voce le esce strascicata, si avvicina all’uomo per baciargli la mano. L’ha visto fare più volte in quei mesi e si è abituata senza protestare. «Questi giovani» comincia don Mimmo «non riescono a star lontani nean-che per un secondo.» «E chi ci riuscirebbe con una donna simile…» borbotta Alfredo prenden-dosi un’occhiataccia da parte della moglie. «Hai capito Ciccio!» esclama Turi divertito «ora mi spiego perché lo si vede meno in giro… ha trovato nuovi passatempi.» «Brindiamo alle donne» Alfredo alza il calice prendendo la mano della moglie «se non ci fossero toccherebbe inventarle!» «Brindiamo alla mia donna» corregge Ciccio che è in vena di galanterie. Qualcuno si affretta a prendere parte al brindisi, mentre Marilù arrossisce di tutte quelle attenzioni indesiderate. «Le donne portano guai…» dice serafico don Mimmo «se sono belle poi che dire!» «Lì vorrei di questi guai» il vecchio Turi continua a scherzare «ma ormai non ci siamo con gli anni.»

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Marilù si siede al tavolo stufa di tutti quegli sguardi addosso. Gli uomini sembrano lupi affamati che non hanno mai visto un po’ di carne. Le donne sono peggio, con loro ha scoperto ben presto di avere ben poco a che fare. La guardano con sospetto e con invidia, come se temessero che potrebbe rubar loro il marito. Non potrebbero essere più lontane dal vero. Vorrebbe semplicemente avere qualcuna con cui poter fare amicizia, ma l’unica che le rivolge la parola è la zia di Ciccio e non è per niente amorevole. Senza contare che è troppo matura per considerarla un’amica. «Chi ti mittisti i supra?» le chiede a bassa voce guardandola di traverso «ti sembra un abbigliamento adeguato? Ti fissanu tutti…» Marilù si guarda intorno confusa. Che male c’è a indossare un vestito che le piace e che le sta bene? Poi lei è la ragazza di Ciccio quindi si sente al sicuro da qualsiasi occhiata. Sa che nessuno oserà tanto da infastidirla. Se solo potesse essere al sicuro da Ciccio… «Si ‘na malafimmina!» biascica e si fa il segno della croce «porterai solo guai n’ta sta casa!» La voce è sommessa perché vuole farsi sentire solo dalla straniera che per tutta risposta accavalla le gambe facendo sollevare ancor di più la veste. «E tu smettila di guardarla» intima al figlio. Non la vede bene questa si-tuazione «che è, non hai mai visto una femmina?!» Ciccio si volta con quel sorriso soddisfatto, afferra la mano delicata di Marilù e se la porta alle labbra. «Non è bella zia? Un bijou, anche la povera mamma sarebbe contenta del-la mia scelta.» La zia fa una smorfia in risposta e accenna appena con il capo. «Tutta Palermo me la invidia, non è vero?» Gli altri seduti al tavolo annuiscono portandosi il vino alle labbra mentre Marilù arrossisce. «Ma che dico tutta la Sicilia!» Don Mimmo ride compiaciuto di vedere suo figlio così allegro e spensie-rato. Di solito Ciccio ha degli sbalzi d’umore pazzeschi. Se la ragazza ve-nuta da oltremare gli porta serenità e pace, lui è il primo a benedire quell’unione. Vuole che suo figlio metta la testa apposto, che si renda con-to di essere un Romano non solo di nome. C’è troppa gente che aspira al titolo e don Mimmo lo sa che non camperà in eterno, la morte gli cammi-na attorno come una fidata amica. Vuole solo morire tranquillo, sapendo che il suo nome e la sua famiglia resteranno in buone mani. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...

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