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EMANUELE OTTOLENGHI INSEGNA STORIA E ISTITUZIONI D’ISRAELE PRESSO L’UNIVERSITÀ DI OXFORD COLLABORA REGOLARMENTE CON IL FOGLIO E IL JERUSALEM POST America,EuropaeMedioOriente:qualefuturo? di Emanuele Ottolenghi America,EuropaeMedio Oriente:qualefuturo? di Emanuele Ottolenghi

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EMANUELE OTTOLENGHI INSEGNA STORIA E ISTITUZIONI D’ISRAELE PRESSO L’UNIVERSITÀ DI OXFORDCOLLABORA REGOLARMENTE CON IL FOGLIO E IL JERUSALEM POST

America,�Europa�e�Medio�Oriente:�quale�futuro?�d i E m a n u e l e O t t o l e n g h i

America,�Europa�e�MedioOriente:�quale�futuro?�

d i E m a n u e l e O t t o l e n g h i

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America,�Europa�e�Medio�Oriente:�quale�futuro?�d i E m a n u e l e O t t o l e n g h i

ILa crisi nei rapporti tra Europa e Stati Uniti, successivaall’11 settembre, non é destinata a svanire, poiché causa-ta da divisioni di natura normativa ed essenzialmentelegate a identità e visione del mondo che separanoEuropa e Stati Uniti

I rapporti tra Europa e Stati Uniti sono entrati in crisi dopo l’11 settembre. Il Medio

Oriente è la causa principale di questa crisi. Quanto profonde e durature sono le divergen-

ze? È possible un’inversione di tendenza? Cosa puó portare a una nuova convergenza tran-

satlantica su quali politiche perseguire in Medio Oriente?

Per Europa e Stati Uniti la regione ha un’enorme rilevanza geostrategica: per gli Stati

Uniti a causa dell’importanza che la regione riveste globalmente come produttore di idro-

carburi e fonte di radicalismo e terrorismo a matrice islamica, mentre per l’Europa sono la

vicinanza geografica e la maggior dipendenza energetica a preoccupare. Diversi interessi

strategici però da soli non bastano a spiegare la crisi in corso.

Centrale alla crisi è il conflitto tra Israele e palestinesi. Gli Stati Uniti sono l’alleato

principale d’Israele, che si appoggia agli americani nel suo confronto col mondo arabo,

piuttosto che all’Europa, tradizionalmente piú vicina alle posizioni arabe. L’Europa per con-

tro offre copiosi aiuti economici e politici alla causa palestinese; finanza l’Autorità

Palestinese attraverso una miriade di programmi multilaterali e aiuti diretti. Inoltre, l’Unione

è il principale partner commerciale d’Israele. L’Europa esige un ruolo maggiore nella risolu-

zione del conflitto, mal tollerando la centralità americana e la marcata differenza di vedute

sulla questione. Sostegno a causa palestinese e peso economico hanno aumentato l’in-

fluenza europea nel contesto israelo-

palestinese come in quello regionale.

L’abilità dell’Unione di coordinare le deci-

sioni politiche dei suoi 25 membri - pur

con le dovute eccezioni - ne fa un impor-

tante attore internazionale.

Spiegare questa crisi serve a

determinare se la distanza tra Europa e

Stati Uniti possa essere ridotta a benefi-

cio della regione o se tali differenze sono

destinate a crescere a suo scapito. Invece

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Gli�Stati�Uniti�sonol’alleato�principale�diIsraele�che�si�appoggiaagli�americani�nel�suoconfronto�col�mondoarabo�piuttosto�cheall’Europa

(

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che spiegare diversità di politiche come funzione di divergenze d’interessi, a loro volta

determinati da eredità storica del passato, geografia, demografia, politiche energetiche e

contatti commerciali, in quest’articolo verrà presentata una tesi diversa: la crisi nei rapporti

tra Europa e Stati Uniti, successiva all’11 settembre, non é destinata a svanire, poiché cau-

sata da divisioni di natura normativa ed essenzialmente legate a identità e visione del

mondo che separano Europa e Stati Uniti. Sono quindi più profonde, durevoli e potenzial-

mente più distruttive che mere divergenze di priorità, tattiche o interessi diversi. Questo

articolo spiega le cause di questa spaccatura e del suo effetto sui rapporti transatlantici,

capendo in primo luogo la visione europea del Medio Oriente.

Divisi�sul�Medio�Oriente:�da�ora�o�da�sempre?

L’11 settembre ha fondamentalmente modificato la politica mediorientale ameri-

cana. Di fronte alla minaccia terroristica di al-Qa’ida, l’Amministrazione del Presidente

George W. Bush ha abbandonato il ruolo tradizionale americano di nume tutelare dello

status quo regionale, per promuovere un’agenda politica di cambiamento radicale.

L’Europa rimane invece dedita allo status quo regionale, ponendo la soluzione del con-

flitto israelo-palestinese come sua principale priorità. Non che l’armonia regnasse in pas-

sato. Negli anni Cinquanta l’alleanza strategica tra Israele e Stati Uniti era lungi dall’es-

sersi formata e prima del 1967 fu la Francia, non l’America, il principale alleato d’Israele.

Solo dopo il 1967 l’alleanza tra Israele e America si rafforzò mentre l’Europa si allineò alle

posizioni arabe, specie sul tema palestinese. La crisi petrolifera del 1973 accentuò questa

tendenza, che rimase in luce anche dopo la Dichiarazione di Venezia (1980), la prima

Intifadah palestinese (1987-1993) e anche la Prima Guerra del Golfo (1990-91).

Tuttavia, prima dell’11 settembre esistevano più somiglianze che differenze.

Durante la Guerra Fredda, il Medio Oriente era un teatro di scontro tra superpotenze

dove le divergenze tra Europa e Stati Uniti erano offuscate dalla necessità di contenere

l’espansionismo sovietico nella regione. Quando il crollo del Muro di Berlino avrebbe

potuto mettere a nudo potenziali differenze politiche tra Stati Uniti ed Europa, l’invasio-

ne del Kuwait da parte dell’Iraq e successivamente il processo di Oslo impedirono a tali

differenze di causare una crisi. Nonostante occasionali divergenze d’opinione non si sono

mai verificate tensioni tali da mettere a nudo le profonde divisioni poi emerse dopo l’11

settembre. Se non fosse stato per l’11 settembre, Europa e Stati Uniti avrebbero conti-

nuato ad avere delle significative ma facilmente gestibili differenze d’opinione sulla natu-

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ra del conflitto arabo-israeliano e su come risolverlo, differenze che hanno tenuto occu-

pata l’Alleanza Atlantica - ma soprattutto l’Amministrazione Clinton - per tutti gli anni

Novanta.

Ora che il Medio Oriente è al centro dell’attenzione globale e priorità e lettura

dei problemi regionali divergono qualitativamente, le divisioni transatlantiche divente-

ranno sempre più critiche e il loro impatto sarà sempre più significativo. La prima crepa

visibile è avvenuta nell’autunno del 2000. Nel dibattito sulle cause del fallimento di

Oslo che ne seguí il collasso, i dissidi riguardavano le cause del conflitto in corso, le

condizioni accettabili per la sua risoluzione, e i mezzi per riportare le parti in causa al

tavolo negoziale. Su tutti questi elementi l’Europa ha preso le parti dei palestinesi, sot-

tolineando l’urgenza del problema e sostenendo che tocca a Israele fare ulteriori con-

cessioni perché ci possa essere una svolta in quello che in Europa, a dispetto di cinque

anni di conflitto, ci si ostina a chiamare processo di pace. In questa presa di posizione

si trova l’essenza del disaccordo tra Europa e Stati Uniti. Tale disaccordo si può riassu-

mere in due categorie: la questione palestinese è o no il nodo centrale da risolvere

nella regione? E chi ha maggior responsabilità e quindi deve fare maggiori concessio-

ni per risolvere quel conflitto?

Muro del pianto a Gerusalemme

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Il�conflitto�israelo-palestineseL’Europa considera il conflitto israelo-palestinese come il nodo centrale del Medio

Oriente e l’ostacolo alla risoluzione dei suoi problemi. Anche la terminologia usata indica

come in Europa il Medio Oriente sia sinonimo di conflitto arabo-israeliano. Per gli Stati Uniti

invece il conflitto israelo - palestinese è una delle tante crisi regionali, ma, dopo l’11 set-

tembre, non necessariamente il problema più urgente. L’Europa ritiene che la stabilitá

regionale - l’equivalente della tutela dello status quo - e la risoluzione del conflitto israelo-

palestinese abbiano la precedenza e crede che la pace tra Israele e palestinesi possa aiu-

tare ad affrontare le altre sfide regionali, la cui soluzione è in qualche modo ostacolata dal

perdurare del conflitto. Gli Stati Uniti hanno invece stabilito come loro priorità la democra-

tizzazione, il progresso della libertà e il cambio di regimi nell’intera regione, ritenendo che

la correlazione causale tra conflitto arabo-israeliano e le altre sfide regionali sia molto più

debole e spuria di quanto comunemente creduto. Semmai, è il progresso delle riforme

democratiche nella regione che può facilitare la causa della pace, non il contrario. Insomma,

per l’Europa la pace a Gerusalemme e a Ramallah riverbererà in maniera benefica in tutta

la regione. Per gli Stati Uniti invece, nella misura in cui la libertà riverbererà nella regione, la

pace avrà finalmente la possibilità di affermarsi a Gerusalemme e Ramallah. Si tratta quindi

di due visioni normative profondamente differenti, non solo di disaccordo su priorità, tatti-

che o interessi nazionali. Il che spiega il motivo di crescente frustrazione europea verso gli

Stati Uniti. Per l’Europa, la presa di distanze degli Stati Uniti nei confronti di Arafat e il rele-

gare la questione palestinese in secondo piano scaturisce da una lettura della mappa

mediorientale distorta e pericolo-

sa. Ma solo gli Stati Uniti dispongo-

no dell’influenza per riavviare il pro-

cesso diplomatico. Dal che ne

discende un risentimento europeo

per l’America, la cui politica viene

vista come ostaggio di gruppi di

pressione filo-israeliani, se non

addirittura, nelle estrapolazioni piú

sinistre, come formulata diretta-

mente a Gerusalemme. Diversa,

come ovvio, la visione americana.

Gli europei non capiscono che

dopo otto anni di diplomazia inten-

Per�l’Europa�la�pace�aGerusalemme�e�aRamallah�riverbererà�inmaniera�benefica�in�tuttala�regione.�Per�gli�StatiUniti�invece,�nella�misurain�cui�la�libertàriverbererà�nella�regione,la�pace�avrà�finalmente�lapossibilitá�di�affermarsi�aGerusalemme�e�Ramallah.

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sa ma fallimentare e dopo quasi cinque di violenza largamente contenuta è difficile ripor-

tare i due contendenti a un negoziato, non essendovi alcuna garanzia che quanto non fu

possibile raggiungere nell’autunno 2000 sia ora, come per magia, a portata di mano.

Poiché considera il Medio Oriente la sua principale priorità in politica estera e vede

il conflitto israelo-palestinese come la questione più critica da affrontare, l’Europa ha la ten-

denza a interpretare la regione e le sue sfide attraverso il prisma del conflitto. Si veda ad

esempio la posizione europea sul programma nucleare iraniano - sul quale Europa e

America condividono gli stessi obiettivi. Nonostante la preoccupazione europea per le

ambizioni nucleari iraniane, la questione in Europa viene discussa principalmente in rela-

zione a Israele. Gli europei temono che Israele attacchi i siti nucleari iraniani - come fece nel

caso dell’Iraq nel 1981. Si chiedono se in fondo non sia comprensibile che Teheran si doti

di un ombrello nucleare difensivo come deterrente contro Israele. Sostengono che, se si

chiede all’Iran di abbandonare le proprie ambizioni nucleari, si dovrebbero mettere simili

pressioni su Israele, come se bastasse indebolire Israele per dissuadere gli iraniani. E utiliz-

zando Israele come chiave di lettura delle ambizioni nucleari iraniane, qualcosa di impor-

tante va perduto: le ambizioni egemoniche dell’Iran e la preoccupazione che il suo proget-

to nucleare genera nelle capitali arabe del Golfo, al Cairo e in altre parti della regione ven-

gono raramente citate, così come il rischio di una corsa agli armamenti nucleari in risposta

al successo iraniano. Quel che si trova in questa spiegazione è invece un’ossessione per

Israele che accomuna leader europei di destra e sinistra. È come se tutto quel che succede

in Medio Oriente fosse in qualche modo correlato a Israele e il suo conflitto coi palestinesi

e passibile di soluzione se il conflitto venisse a sua volta risolto attraverso concessioni che

Israele avrebbe già da tempo dovuto fare, rifiuta di fare, ma farà eventualmente per il suo

bene quando verrà finalmente convinto o costretto.

Nonostante tutto, quanto veramente ha messo in crisi la relazione transatlantica è

che oltre al dissidio sul conflitto arabo-israeliano, gli Stati Uniti ora hanno deciso che lo sta-

tus quo regionale è insostenibile. Due principi univano Europa e Stati Uniti prima dell’11

settembre: l’impegno a tutelare lo status quo arabo e quindi a collaborare coi regimi al

potere nella regione per risolvere il conflitto arabo-israeliano sulla base del principio di un

compromesso territoriale fondato sullo status quo precedente la Guerra dei Sei Giorni del

giugno 1967, seppur con possibili aggiustamenti territoriali minori. Le differenze dunque,

prima dell’11 settembre, potevano essere ignorate in quanto di natura tattica, non strategi-

ca e normativa. Le differenze di diagnosi dei problemi - che nel caso di Israele e palestine-

si erano chiaramente evidenti - non influivano sul consenso di fondo: un Medio Oriente sta-

bile richiedeva una soluzione del conflitto sulla base delle risoluzioni ONU 242 e 338.

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L’attenzione si concentrava quindi sul conflitto, ma non su quanto, sotto la coltre visibile del-

l’ordine arabo regionale, stava invece emergendo come sfida ai regimi e agli interessi occi-

dentali.

La fine dell’Amministrazione Clinton ha aperto le porte a un nuovo scenario, dove un

presidente repubblicano con un’agenda di politica estera meno interventista nell’arena

israelo-palestinese si è lentamente allineato ad Ariel Sharon, un premier israeliano di destra

particolarmente inviso agli europei. Se inizialmente gli europei non avevano preso bene le

misure del neo eletto presidente americano e di quale direzione avrebbe preso, l’Europa

conosceva bene Sharon e non se ne fidava affatto. Sharon è tuttora oggetto privilegiato di

disprezzo in Europa. E se la sua elezione non fosse bastata, l’Europa si è trovata ulterior-

mente delusa dalla nuova Amministrazione Bush, che ci si aspettava prendesse una dire-

zione simile a quella del padre dieci anni prima quando Bush senior aveva messo enormi

pressioni sul premier israeliano Yitzhak Shamir. Gli europei speravano in più concessioni

israeliane e più pressione americana su Israele per ottenerle. Bush invece evitò deliberata-

mente di assumere lo stesso attivismo di Clinton che tanto prestigio era costato all’America

senza produrre alcun risultato. Gli europei pensavano ci fosse spazio per ulteriori negoziati

anche dopo il collasso di Oslo, l’avvio della seconda Intifadah e il fallimento dei negoziati

di Taba e che l’unico vero ostacolo fosse stata l’elezione di Sharon e le politiche da lui per-

seguite. Gli americani erano invece convinti del contrario: la “finestra d’opportunità” crea-

ta dalla Prima Guerra del Golfo si era ora chiusa e Sharon stava conducendo una guerra a

difesa della sicurezza dei suoi cittadini. Per gli europei erano gli israeliani i principali respon-

sabili dello stallo, ed era la loro relazione privilegiata con Washington a impedire agli ame-

ricani di riconoscere la necessità di metter pressione su Gerusalemme. Maggior responsa-

bilità su Israele significava quindi anche un atteggiamento più critico verso Israele nella sua

risposta all’Intifadah. Washington vede le cose diversamente: il fallimento del processo di

pace è principalmente imputabile ai palestinesi; il radicalismo che alimenta l’Intifadah è

espressione di un fenomeno più ampio nella regione contro il quale occorre correre ai ripa-

ri. L’onere delle concessioni e dei cambiamenti di rotta è quindi principalmente dei palesti-

nesi.

Settembre 2001 si è aperto con i peggiori auspici: alla conferenza dell’ONU sul raz-

zismo a Durban, in Sud Africa, il festival d’odio antisemita scatenato a bella posta dalle dele-

gazioni palestinesi, arabe e dalle ONG a loro vicine provocò rapidamente l’abbandono

della conferenza da parte di Israele e Stati Uniti, ma non degli europei, sottolineando anco-

ra una volta le crescenti divergenze tra Europa e Stati Uniti sul come leggere, e quindi gesti-

re la crisi regionale in corso.

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All’indomani dell’11 settembre alcuni commentatori europei sostennero come alle

sue origini vi fosse il fallimento di Oslo, quasi a dire che l’America l’11 settembre se l’era

cercato con il suo sostegno a Israele e la sua mancanza di un approccio “equidistante” nei

confronti della causa palestinese. Implicita in questa critica era l’argomentazione che inve-

ce l’Europa avesse un atteggiamento più equilibrato e quindi più credibile e che fosse ora

che gli Stati Uniti si adeguassero alla linea politica caldeggiata dagli europei. Il terrorismo

era insomma, per certi europei promotori di una sua spiegazione socio economica, la rispo-

sta estrema a ingiustizie ignorate dall’America. Ma ora che l’America era stata colpita era

semplicemente folle aspettarsi che il suo presidente si piegasse a un ricatto terroristico, cioè

che cambiasse politica sotto minaccia di ulteriori attacchi. Eppure molte voci si sono levate

in Europa in quel senso: l’America sarebbe stata colpita da un male di cui lei stessa era

causa e soltanto cambiando le sue politiche avrebbe evitato futuri ricorsi.

L’11 settembre ha quindi cambiato l’intera equazione regionale, ma non nel senso

auspicato da chi in Europa ha correlato l’assalto di al-Qa’ida alla questione palestinese. Non

ci sarebbero piú state la microgestione del processo di pace e la diplomazia intensiva di

stile clintoniano, ma piuttosto un un radicale cambio di direzione della politica americana in

Medio Oriente, guidato da due principi: primo, il conflitto israelo-palestinese non è né cen-

trale né urgente rispetto ai problemi della regione. L’attacco di al-Qa’ida prescinde dalla

questione palestinese e dal ruolo americano nel cercare di risolverla. Le condizioni per risol-

vere quel conflitto non esistevano, specialmente se si considerano le cause del fallimento

di Oslo, che gli americani hanno

compreso correttamente. Mentre gli

europei si ostinano invece ad accusa-

re Israele d’intransigenza, per gli

americani l’ostacolo è l’abisso incol-

mabile tra le due parti causato dal-

l’incapacità palestinese di mostrare

pragmatismo e realismo sulle que-

stioni più spinose da risolvere,

Gerusalemme e i profughi palestine-

si. Il problema più urgente della

regione è invece l’assenza di demo-

crazia, questa la causa dell’onda di

radicalismo che la attraversa e che

crea un serio ostacolo alla pace e alla

La�conferenza�dell’ONUsul�razzismo�a�Durban,�ilfestival�d’odio�antisemitascatenato�dalledelegazioni�palestinesi,arabe�e�dalle�ONG�lorovicine�provocòl’abbandono�dellaconferenza�da�parte�diIsraele �e �Stati�Uniti,�manon�degli�europei

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stabilità. Il secondo principio guida della politica americana dopo l’11 settembre quindi

afferma la necessità di sconfiggere il radicalismo islamico affrontando i problemi che lo

generano e su cui si alimenta: non la guerra tra Israele e palestinesi, bensì la mancanza di

democrazia e i suoi effetti collaterali. Per l’America del dopo 11 settembre la Palestina è un

simbolo, sfruttato da regimi e loro oppositori per promuovere agende politiche locali che

poco o nulla hanno a che fare con il conflitto arabo-israeliano, e che poco trarrebbero dalla

sua risoluzione. Ma è anche una scusa, che non può, dopo l’11 settembre, tenere in ostag-

gio il necessario cambiamento che la regione deve attraversare.

Si capisce dunque che il rifiuto dell’Amministrazione Bush di trattare il conflitto israe-

lo-palestinese come una urgente priorità da un lato e di promuovere il cambiamento nella

regione dall’altro, lasci gli europei costernati. Le differenze non si limitano più a quanto

Israele deve concedere, a quali condizioni e con chi negoziarle. I due principali perni della

politica estera mediorientale europea sono ora diametralmente opposti a quelli statuniten-

si. Il che spiega l’opinione, condivisa in Europa, secondo cui la presidenza Bush fosse un’a-

berrazione, che presto, molti hanno auspicato, sarebbe stata rimediata dalle elezioni del

novembre 2004. La solida vittoria di Bush mostra come le aspettative europee fossero pie

illusioni. Vista in Europa come una momentanea follia, la dottrina Bush guiderà la politica

Moschea

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estera statunitense fino almeno al gennaio 2009. Ma difficilmente l’Europa vi si adeguerà.

Ne consegue che, a meno di un’improvvisa schiarita tra Israele e i palestinesi, il dissidio tran-

satlantico è destinato a crescere.

La crisi irachena ne è stata lo specchio più limpido. L’opposizione alla guerra si diffu-

se velocemente in tutta l’Europa, con le opinioni pubbliche persino di quei Paesi, come

Spagna, Italia e Gran Bretagna i cui governi si erano schierati con il presidente Bush, forte-

mente ostili al conflitto. Il motivo è chiaro. Per l’opinione pubblica europea il terrorismo era

causato dagli irrisolti motivi di rimostranza araba nei confronti dell’Occidente, prima di tutto

la questione palestinese. Per l’Amministrazione Bush invece il terrorismo deriva da un cock-

tail esplosivo di crescita demografica incontrollata, ingiustizia politica, ineguaglianza e man-

canza di mobilità sociale, e il loro sfruttamento da parte di un’ideologia assassina che si

pone come alternativa all’attuale ordine costituito. Nessuno di questi fattori ha a che fare

con la questione palestinese.

La maggior parte degli europei non vedono nessun collegamento tra la lotta contro

il terrorismo e la guerra in Iraq e hanno a più riprese deriso il teorema del “cambio di regi-

me”. Alcuni si sono spinti a sostenere che la guerra fosse un’avventura imperialista motiva-

ta dal petrolio o un sinistro complotto di falchi consiglieri filoisraeliani. La questione pale-

stinese, non l’Iraq doveva essere al centro dell’attenzione americana dopo la campagna in

Afghanistan.

E maggiori pressioni americane su Israele, non sostegno per Israele, era quanto

l’Europa si aspettava - anzi, suggeriva - per vincere la guerra al terrorismo. Convinti com’e-

rano gli europei che la questione palestinese fosse il nodo centrale della regione e che essa

più di ogni altra cosa fosse la causa principale del terrorismo islamico, non potevano non

rispondere con ostilità e rabbiosa impotenza a un presidente americano intento a chiedere

a gran voce la democratizzazione del Medio Oriente, il cambio di regime in Iraq e altrove

come mezzo di lotta contro il terrorismo, ma poco dedito - almeno secondo gli europei - a

risolvere la questione palestinese e fermare Sharon e la sua risposta militare all’Intifadah.

Conflitto�e�terrorismo

Ancor più dirompente della questione irachena e delle differenze di priorità tra

Europa e Stati Uniti sul tema palestinese, è l’attribuzione di responsabilità del fallimento del

processo di pace. Europei e americani divergono non solo in termini di priorità; il loro dis-

sidio è sulla sostanza della soluzione ormai, e non a cagione di interessi diversi o di una

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Strada Gerusalemme

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diversa immagine del conflitto. Entrambe le sponde dell’Atlantico ricevono le stesse noti-

zie, vedono le stesse immagini e leggono le stesse analisi. Ma divergono nelle conclusioni

che traggono da tale materiale. Europa e Stati Uniti si stanno rapidamente allontanando e

la crescente centralità del Medio Oriente a livello globale, il suo impatto in Europa e in tutto

l’Occidente, le implicazioni che la regione ha per la sicurezza e la stabilità globali, tutto que-

sto rende le differenze d’opinione tra Europa e America molto più marcate. La guerra al ter-

rorismo ha reso il dissidio transatlantico ancor più profondo. Le elezioni spagnole del marzo

2004, condizionate come furono dagli attacchi terroristici a Madrid tre giorni prima del voto,

hanno prodotto un risultato che secondo alcuni sarebbe il contrario di quanto avrebbe pro-

dotto l’elettorato americano in simili circostanze. Le reazioni europee alla politica israeliana

delle uccisioni mirate di leader di Hamas sono diametralmente opposte alle reazioni ame-

ricane. Persino il linguaggio utilizzato per descrivere lo stesso evento indica come esso sia

più il prodotto di differenze di fondo che di dissidi causati da diversi interessi nazionali. Tutto

questo nasconde una verità difficile da digerire in Europa: il fallimento di Oslo (avvenuto

prima che repubblicani e Likud andassero al potere in America e Israele) è dovuto a irre-

conciliabili dissidi di fondo. Camp David e i successivi negoziati hanno rivelato che l’abisso

che ancora divide le parti riguarda questioni troppo centrali alla loro identità e potenti sim-

Il muro del pianto a Gerusalemme

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boli che la esprimono, perché i mediatori possano ignorarle. Camp David ha messo a nudo

una verità indigesta per l’Europa. Non esiste una soluzione per porre fine una volta per tutte

al conflitto, soltanto misure parziali per gestirlo e contenerlo. I ripetuti fallimenti della diplo-

mazia avrebbero dovuto dettare una riduzione drastica delle ambizioni sul fronte diploma-

tico e una ricerca di soluzioni meno grandiose ma più realistiche. Invece, l’Europa ha conti-

nuamente fatto pressioni per un ritorno al negoziato nella speranza di maggiori concessio-

ni israeliane, sostenendo la necessità di ricominciare laddove israeliani e palestinesi aveva-

no apparentemente interrotto il dialogo, cioè da quelle concessioni fatte da Barak, premier

ormai dimissionario e di lì a poco sconfitto elettoralmente in maniera umiliante, che per il

pubblico israeliano erano comunque già eccessive ma che per i palestinesi non erano anco-

ra sufficienti.

La versione convenzionale dei fatti in Europa è che a Camp David Israele non fece

un’offerta che Arafat non potesse rifiutare. In parte, questa interpretazione deriva dalla pro-

pensione europea a credere alla narrativa palestinese, che va oltre il litigio semantico sul

significato della “generosità” israeliana sbandierata da Barak dopo Camp David. In parte,

essa deriva dall’incapacità di capire appieno le dinamiche del summit. Le offerte israeliane

potrebbero anche non esser state generose - almeno dal punto di vista palestinese - ma

erano certamente serie e non hanno ottenuto un riscontro serio da parte palestinese: né

una controproposta né la volontà di negoziare in buona fede. Ma in parte, la posizione

europea deriva dall’incapacità di contemplare la possibilità che un problema ritenuto così

centrale alla stabilità della regione possa in qualche modo risultare irrisolvibile. Più facile

quindi sostenere che Israele non aveva offerto abbastanza, causando quindi la “compren-

sibile” violenza palestinese. Questa lettura degli eventi significa non solo che tocca a Israele

concedere ancora per rimediare al danno causato a Oslo, ma anche che la soluzione rima-

ne a portata di mano. Con l’intensificarsi dell’offensiva terroristica e della risposta militare

israeliana, le critiche e le condanne europee aumentarono, chiarendo come in Europa il col-

pevole della storia fosse Israele: Israele doveva cedere di più, pretender di meno, e lamen-

tarsi poco o punto delle circostanze. La guerra non era una soluzione. E piuttosto che incol-

pare i palestinesi per il fallimento di Oslo e per il loro rifiuto di prendersi la loro parte di

responsabilità; piuttosto che sottolineare come la rinuncia alla violenza fosse un passo bila-

terale e non unidirezionale; piuttosto che mettere pressioni su Arafat perché adottasse le

misure necessarie per sedare la violenza; piuttosto che riconoscere la vera natura del terro-

rismo come tattica scelta deliberatamente, l’Europa preferì aggirare la questione terrorismo

come se fosse una querelle semantica, sminuendolo come conseguenza di “ingiustizia”,

“disperazione”, e “umiliazione” ma continuando a condannare le tattiche israeliane come

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eccessive, intollerabili e ingiustificabili. La diplomazia e le concessioni (israeliane) erano l’u-

nica strada da seguire, non la forza.

Mentre l’Europa dava più responsabilità a Israele e gli americani prendevano la posi-

zione opposta, uno poteva aspettarsi che il terrorismo avrebbe sollecitato una reazione più

solidale da parte degli europei, data la loro esperienza in proposito. Ma anche in tema di

terrorismo le condanne europee sono state più che altro di circostanza. L’impazienza euro-

pea con Israele, già latente nell’autunno del 2000 ed emersa con l’11 settembre, è divenu-

ta più marcata quando Israele decise di reagire all’ondata di attacchi terroristici del marzo

2002 - 17 attentati riusciti in meno di un mese con centinaia di israliani morti e feriti - lan-

ciando l’Operazione Muro Difensivo. A quel punto gli Stati Uniti avevano l’11 settembre alle

spalle e Arafat era screditato alla Casa Bianca: era ovvio che nessun accordo potesse esser

negoziato e firmato nelle circostanze create dal terrrorismo palestinese. La condizione mini-

ma richiesta da Israele, la fine del terrorismo, apparve quindi ragionevole in America, insi-

diosa in Europa. Seguendo standard completamente contradditori rispetto a quelli adotta-

Giovani ebrei chassidici a Gerusalemme

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ti nei confronti del terrorismo europeo,

l’Europa dichiarò che non si poteva

lasciare il processo di pace ostaggio

degli estremisti: la Gran Bretagna aveva

fatto del disarmo dell’IRA la precondizio-

ne per la continuazione del processo di

pace in Irlanda del Nord, ma ora Israele

doveva negoziare sotto il fuoco. Gli Stati

Uniti per contro accettarono che Israele

non negoziasse finché il terrorismo non

fosse stato sconfitto e che non potesse

fare concessioni di alcun tipo, fintantoché

perdurasse il ricatto terrorista. In questo

caso, la similitudine di esperienze sollecitò maggior comprensione. Nel caso dell’Europa

invece, l’incapacità di apprezzare l’impatto del terrorismo sulla possibilità di ritornare al

tavolo negoziale portò a interpretare le azioni militari israeliane e il loro sostegno america-

no come una tattica diversiva e dilazionaria nel miglior dei casi, e come un avventurismo

folle e sanguinario nel peggiore.

Di conseguenza, le reazioni americane alle azioni militari israeliane sono state spes-

so limitate e prudenti, e hanno sempre riconosciuto la difficile situazione israeliana, con-

dannato duramente il terrorismo palestinese e raramente negato a Israele la pazienza e la

simpatia americana. L’Europa invece, come nel caso di Jenin o l’assedio israeliano della

Chiesa della Nativitá a Betlemme nell’aprile 2002, reagisce in maniera isterica chiarendo

come l’Europa condanni il terrorismo ma non sia disposta ad accettare i mezzi necessari per

combatterlo. Per l’Europa, ci si trovava di fronte all’intransigenza israeliana pura e semplice,

espressione di un nazionalismo ebraico che l’Europa fortemente osteggiava. In più, il soste-

gno americano di Israele insieme alle politiche americane nei confronti dell’Iraq e del resto

della regione sembravano offrire ulteriori scuse a Sharon per non fare delle concessioni che

l’Europa considerava ragionevoli e indispensabili per la pace.

Questo atteggiamento europeo riflette l’adesione europea a un nuovo ethos pacifi-

sta a tutti costi riassunto nello slogan “Mai piú la guerra”. Tale atteggiamento spiega

meglio di ogni altra cosa la crescente distanza di vedute tra Europa e Stati Uniti sul Medio

Oriente. Si tratta di un’ossessione, più che di una dottrina politica, composta essenzial-

mente da due fattori. Il primo è il rapporto schizofrenico tra Europa ed ebrei, che rappre-

senta una sorta di specchio nel quale l’Europa si vede e si giudica costantemente, in rela-

A�quel�punto�gli �StatiUniti�avevano�l’11settembre�alle�spalle�eArafat�era�screditatoalla�Casa�Bianca:�eraovvio�che�nessunaccordo�potesse�essernegoziato�e�firmatonelle�circostanzecreate�dal�terrrorismopalestinese

(

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zione all’uso della forza come strumento legittimo di diplomazia, all’ideologia nazionalista,

al suo passato tragico e al suo speranzoso futuro, alle sue minoranze e alla sua identità. Si

tratta di una relazione sclerotica, guidata da passione, sensi di colpa, risentimento e pre-

giudizi repressi. Il secondo elemento è il fatto che per l’Europa il Medio Oriente ricorda

costantemente il suo passato coloniale. La politica estera europea è quindi un riflesso del-

l’immagine che l’Europa ha di sé, a cagione della sua storia non meno che delle sue future

ambizioni.

L’Europa considera il nazionalismo e la religione le due forze oscure dietro le trage-

die del suo passato. Solo rinnegando quella doppia eredità si è giunti a un’Europa unita

post-nazionale e post-cristiana dove la guerra è stata per sempre bandita e il commercio e

la diplomazia sono divenuti gli unici strumenti per la promozione degli interessi europei nel

mondo. È questa ostilità al nazionalismo e alla religione - i due motori principali delle iden-

tità regionali in Medio Oriente - a guidare le politiche e gli atteggiamenti europei nei con-

fronti d’Israele e a spiegare l’incapacità europea di capire gli Stati Uniti, visto che in entram-

be le nazioni entrambe le forze sono centrali all’identità nazionale e non sono quindi rite-

nute così negative come in Europa.

Negli anni Novanta le speranze di Oslo mantennero sotto controllo le divergenze

L'arco dell'Ecce Homo, lungo la Via Dolorosadi Gerusalemme

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America,�Europa�e�Medio�Oriente:�quale�futuro?�d i E m a n u e l e O t t o l e n g h i

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transatlantiche che questa eredità storica e intellettuale inevitabilmente genera. In fondo,

Oslo era in qualche modo modellato erroneamente sul presupposto che quanto l’Europa

aveva potuto costruire - dai conflitti della prima parte del ventesimo secolo alla pace e la

prosperità della sua seconda parte - fosse ugualmente possibile per il Medio Oriente. La

visione del Nuovo Medio Oriente portava un ideale europeo in quella regione. Nulla di stra-

no dunque che l’Europa, vedendo i propri ideali proiettati in Medio Oriente attraverso Oslo,

lo sostenesse e lo finanziasse entusiasticamente.

Ma il crollo di Oslo ha esposto la spaccatura tra Europa e Stati Uniti, oltre che tra

Europa e Medio Oriente. A differenza dell’Europa, il Medio Oriente non poteva abbando-

nare né la religione né il nazionalismo. Ma l’Europa non riuscì a comprendere l’istinto pri-

mordiale della fede e dell’identità tribale, scatenato nella regione dalla minaccia di perdita

d’identità che i sogni assimilazionisti e le forze della globalizzazione ponevano ai popoli

della regione. L’Europa non poteva capire, che quel che appariva come una benedizione in

Europa - la perdita di fede e identità, la perdita di un senso primordiale di appartenenza a

favore di un pacifico e prospero consumismo - era una maledizione per ebrei e arabi.

Nonostante ciò, guidata da sensi di colpa post-coloniali e dalle sue preoccupazioni dome-

stiche legate alla crescente presenza mus-

sulmana, l’Europa continuó ad esigere che

Israele rinunciasse di piú di quanto non si

aspettasse dai suoi nemici. E non tanto in

beni tangibili - territori e sicurezza - quanto

invece in termini di identità. Priva ormai di

una identità, L’Europa non comprende l’in-

sistenza d’Israele a conservare la propria.

Tale identità, inestricabilmente legata alla

religione, viene vista con sospetto a

Bruxelles come la causa storica di conflitti e

violenza etnica. Se il processo di pace era

fallito sull’insistenza israeliana a non cedere

su simboli di identità nazionale, allora

Israele doveva esser costretto per il suo

bene a capire che la ragione imponeva l’ab-

bandono di quei simboli a favore del

modello europeo di società dove nazione e

religione sono state sostituite da ricchezzeStrada Gerusalemme

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materiali, benefici sociali e un pacifico

consumismo transfrontaliero.

Quel che l’Europa si aspettava da

Israele in altre parole era una conversione

sui generis: Israele doveva rinunciare alla

sua identità in nome della pace. Il rifiuto

israeliano ha portato l’Europa a riversare

la sua condanna su Israele. L’Europa

ancora insiste sul ritorno ai negoziati

interrotti a Taba nel gennaio del 2001,

senza comprendere che l’ora dei nego-

ziati era già passata da un pezzo a Taba e

che Taba era più di quanto Israele potes-

se e avesse dovuto concedere. Insiste nel

dileggiare Sharon, senza rendersi conto che Sharon sostituì Barak perché Israele era in guer-

ra e il suo pubblico voleva un leader che sapesse vincerla invece che un leader che sapes-

se arrendersi. Nella primavera del 2005 l’Europa non ha ancora capito la natura esistenzia-

le del conflitto e si ostina a riproporre versioni rivedute e corrette di Oslo come se Oslo non

fosse già accaduto, fallendo miseramente.

Conclusione:�stabilità�o�rivoluzione?

Dall’11 settembre Stati Uniti ed Europa sono sempre più distanti nelle loro posi-

zioni politiche sul Medio Oriente. Messe l’una accanto all’altra, le due posizioni mostra-

no un abisso normativo tra Europa e Stati Uniti. Una è pragmatica, senza sentimentali-

smi e conscia delle realtà di un mondo fatto di nazioni - dove la guerra è una possibi-

lità concreta e la politica riesce laddove le possibilità vengono preferite alle velleità.

L’altra è idealista, romantica e sentimentalista e guidata dall’utopia piuttosto che dalla

consapevolezza della realtà e dei suoi a volte severi limiti.

L’Europa ha una serie di priorità diverse. Le sue politiche sono guidate da inte-

ressi diversi e non sempre allineati a quelli americani. Tra Medio Oriente e Stati Uniti c’è

l’Atlantico, tra l’Europa e il Medio Oriente c’è solo Gibilterra e poche miglia marine. E

se la Turchia entrasse a far parte dell’Unione Europea, il Medio Oriente entrerebbe in

Europa. La vicinanza geografica ha importanti conseguenze domestiche per l’Europa:

Quel�che�l’Europa�siaspettava � da � Israele�inaltre�parole�era�unaconversione�suigeneris:�Israele�dovevarinunciare�alla�suaidentità�in�nome�dellapace.�Il �rifiutoisraeliano�ha�portatol’Europa�a�riversare�lasua�condanna�su�Israele

(

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con i lunghi litorali mediterranei, l’Europa meridionale è oggetto di una costante e cre-

scente ondata d’immigrazione clandestina in fuga dalla povertà e della repressione

politica del mondo arabo. L’età dell’Europa impone una politica d’immigrazione aper-

ta, il che ha contribuito a fare delle comunità mussulmane una presenza significativa e

politicamente sempre più influente. Questo nuovo fenomeno continuerà a crescere,

facendo dei legami emotivi, culturali, linguistici, religiosi e personali di queste comunitá

con il Medio Oriente un motivo in piú per cui il Medio Oriente diverrá sempre piú una

questione di politica interna per l’Europa. La dipendenza da petrolio e gas naturale

mediorientali ha un ulteriore impatto sulle politiche europee. L’eredità del colonialismo

definisce gli interessi europei così come la sua lettura differente della regione. Infine,

Europa e Stati Uniti vedono la minaccia terroristica in maniera molto diversa, senten-

dola anche in maniera diversa sulla propria pelle, e offrono quindi diverse spiegazioni

di causalità e di soluzioni politiche e militari al problema.

Per gli USA, promuovere la libertà in Medio Oriente è un interesse vitale che deri-

va dal cambio di paradigma seguito all’11 settembre. La libertà, sostiene il nuovo para-

digma politico, è il miglior antidote contro il radicalismo. La libertà eliminerà le condi-

zioni che favoriscono la nascita delle ideologie a cui si ispirano i terroristi, favorendo la

Giovani ebrei chassidici a Gerusalemme

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moderazione in tutta la regione, inclusi israeliani e palestinesi. La libertà diventa un

mezzo per proteggere gli Stati Uniti da minaccie esterne, e non é soltanto un ideale fine

a sé stesso. Lo stesso non si può dire per l’Europa. Ma la promozione della libertà in

Medio Oriente dovrebbe essere ancor più urgente: per l’Europa, la libertà è meno un

antidoto contro nemici esterni, e più uno strumento per promuovere l’integrazione

degli immigrati e la riduzione della pressione migratoria dal Medio Oriente. Con una

minoranza mussulmana di circa 20 milioni oggi, e destinata a diventare di 40-50 milioni

nei prossimi vent’anni all’attuale ritmo di entrata e di tasso di natalità, è un supremo

interesse europeo che i mussulmani europei adottino una versione liberale dell’Islam

che promuova invece che ostacolare l’integrazione. L’assassinio del regista olandese

Theo Van Gogh da parte di un olandese figlio di immigrati marocchini perfettamente

integrato e con accesso a istruzione e opportunità di lavoro indica quanto sia pericolo-

sa l’influenza dell’Islam radicale per il futuro dell’Europa. In Francia, almeno il 50% dei

detenuti sono musulmani, un chiaro segno del fallimento dell’integrazione. È quindi

nell’interesse dell’Europa di promuovere una variante moderata dell’Islam ma non si

può prescindere dal fatto che l’Islam europeo, come quello indonesiano o pakistano,

vedrá l’Islam mediorientale come l’autorità principale da seguire. E quindi per pro-

muovere un Islam liberale in Europa, l’Europa deve incoraggiare la liberalizzazione

dell’Islam in Medio Oriente, cosa che non si può sperare di ottenere se non si promuo-

ve la causa della libertà.

Ma l’Europa non sembra agire in questa direzione. Si prenda la decisione francese

di bandire al-Manar, la televisione di Hizbullah, dai suoi satelliti. L’oscuramento serve a

impedire di trasmettere un messaggio estremista ai musulmani di Francia. Ma la Francia

tratta Hizbullah in Libano come una legittima organizzazione politica e non intende met-

ter pressioni su Iran e Siria per farla disarmare. Come si può sperare che il messaggio in

Francia sia di moderazione quando in Libano la Francia tratta gli estremisti come legitti-

mi interlocutori? Tra l’altro, Hizbullah è attualmente uno dei principali agenti sabotatori

del processo di pace tra israeliani e palestinesi. Costringere l’organizzazione a rinunciare

alla violenza e a moderare le sue posizioni politiche avrebbe anche un effetto benefico su

quello che la Francia - e l’Europa - definisce una sua priorità urgente. Eppure è l’Europa

che resiste maggiormente all’idea della promozione della libertà in Medio Oriente e che

rifiuta di includere Hizbullah tra i gruppi terroristici.

Eventi recenti, come la morte di Arafat, le elezioni in Iraq e nei territori palesti-

nesi, una convergenza di vedute sul Libano tra Francia e USA, il ritiro siriano dal Libano

e una comunanza di interessi sulle ambizioni nucleari iraniane hanno momentanea-

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mente creato l’impressione che tra Europa e Stati Uniti sia tornato il sereno. Ma alla

prima avvisaglia di perturbazioni, i dissidi torneranno a galla. Il Medio Oriente riflette

un disaccordo profondo di natura normativa ed esistenziale tra Stati Uniti ed Europa.

Sono il conflitto israelo-palestinese e la lotta contro il terrorismo dopo l’11 settembre -

e non più la guerra fredda - i due prismi attraverso i quali Europa e America leggono la

regione oggi. I due prismi offrono immagini molto diverse, diagnosi molto differenti, e

cure molto distanti a Europa e Stati Uniti. Il Medio Oriente continuerá a essere al cen-

tro dell’attenzione politica globale nel prossimo decennio e con esso l’abisso che sepa-

ra Europa e Stati Uniti continuerà a crescere.

La Moschea di Omar a Gerusalemme