AM&D_Senza un perché

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Incipit del romanzo di Michele Columbu, AM&D Edizioni. Nuvole, vento e cieli mediterranei su una montagna sconfinata e fantastica…

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PROMOZIONE

Senza un perché

di Michele Columbu

Collana: I Griot [1]

Anno: 1992

Edizione: 1ª

Pagine: pp. 238

Prezzo: € 20,00

ISBN: 88-86799-66-7

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Molti affermavano che il mondo finiva sull’orlo delburrone, a non più di tre ore dal paese. Alcuni altri,un’esigua minoranza, avanzavano l’ipotesi che finisse piùlontano. Restava però il fatto che i sentieri a sud-ovestnon portavano da nessuna parte.

Con la stessa logica avrebbero potuto dire che ilmondo cominciava lì e cammin facendo si sviluppavaverso nord-est. Senonché, tutta la storia del villaggioinduceva al pessimismo, e la maggior parte della gente eradi intelletto così pigro da rifiutare persino l’idea ditrovarsi all’inizio di qualcosa che poteva crescere, non sisa mai, e produrre sconosciuti rivolgimenti. Meglio incoda a tutti, quieti e tranquilli, in una posizione stabile,quantomeno, e al riparo da sorprese.

Ma ai tempi d’oggi nessun angolo remoto della terrapuò sfuggire alla forza del progresso. Il governo infatti,volendo aiutare certi contadini che si ostinavano a semi-nare cereali in una pianura pietrosa, deliberò di costruirequattordici chilometri di strada, dal paese al burrone. Icontadini, tuttavia, erano troppo furbi per credere a unanotizia così strana. Perciò fingevano di rallegrarsi, comeper stare a uno scherzo; si scambiavano sorrisi maliziosie a modo loro facevano dell’ironia.

Primo capitolo del romanzo “Senza un perché”di Michele Columbu, AM&D Edizioni

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Ecco però, in autunno, proprio quando si era cessatodi parlarne, vennero dei geometri statali e di buona lenacominciarono a misurare seriamente la pianura (altro cheironia!) e a scrivere sulle pietre. Spiegarono che avrebberocostruito una strada di penetrazione agraria per favorireuna moderna coltivazione della campagna e il suo ripopo-lamento. I contadini furono profondamente scossi dal-l’idea di modernità e, come investiti da una febbre diavventura, con allegra risolutezza vendettero i buoi daaratro. Ventisei di essi furono assunti nell’impresa; uno siimprovvisò barbiere e altri due, padre e figlio, aprironouna macelleria. Secoli di buio e di proverbi immobilifurono spazzati via in pochi giorni.

L’attività dell’impresa subì qualche interruzione per ilmaltempo. Per il resto procedeva secondo le regole,quando un lunedì i contadini lasciarono cadere i badili,le zappe, i picconi e abbandonarono il lavoro. Ciò succe-deva perché Andrea Galòn, detto Metà-di-nulla per la suamitezza remissiva, aveva sputato in faccia a un caposqua-dra e la polizia lo aveva arrestato. Seguirono giornate dimanifestazioni in piazza, quasi epiche, alle quali parteci-pò l’intera popolazione con uno strano senso di fierezzae di appassionamento, come se lottassero per dilatare iconfini del mondo e per la redenzione dell’umanità.

“Noi siamo noi”, gridò una sera il barbiere ottenendoun vasto consenso. E’ vero, noi siamo noi! ripetevanosorpresi e soddisfatti come bambini che hanno inventatoun nuovo gioco.

Un fervido uomo politico, comparso all’improvvisocome un uccello raro e di passaggio, quella sera stessacommentò in toni travolgenti che l’espressione popolare

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“noi siamo noi” suggellava una matura presa di coscienza:la coscienza dell’identità. E d’altra parte, concludeva,l’onesto sputo di un operaio segna forse la fine di una lungaera di silenzio e ne apre un’altra di libertà e di crescita civile.

Andrea Galòn fu rilasciato dopo tre giorni e tornò nelcuore della notte, quando una folla insonne di paesaniindugiava ancora nella piazzetta, attorno a una pattugliadella polizia che radiotelefonava ai superiori preoccupati.Pronto pronto pronto. Tutto veniva ripetuto tre volte, equesto era nuovo e divertente. Parla Veloce 18, dimmi semi senti (tre volte), passo. Una cassetta grigia, munita di tremanopole, gracchiava la risposta: Pronto pronto pronto,qui Garanzia 31, ti sento benissimo. Passo. Il graduatorispondeva: Siamo circondati da migliaia di donne minac-ciose e ostili. La situazione è grave. Passo. Balenavanocapricciosamente le fiamme di due fuochi illuminandobarbe di vecchi intenti e occhi stupiti di donne. Sembravadi assistere alle ultime ore di un valoroso avamposto diguerra. La cassetta gracchiò faticosamente: Resistete. Man-diamo squadra di soccorso. Chiudo.

A quel punto entrò nella piazza Andrea Galòn che futirato giù dalla carretta e issato sulle spalle di uominivigorosi fra clamori di entusiasmo. Anche i poliziotti,stranamente rinfrancati, gli strinsero la mano, bravo,bravo. Si mescolarono alla folla e parteciparono a unastorica bevuta fino a dimenticare la severità emblematicadell’uniforme. Si videro infatti dei bambini con berrettimilitari inseguirsi intorno ai fuochi e gridarsi prontopronto pronto, siamo circondati, dimmi se mi senti, erisate e piccole baruffe in cui il più arrogante insegnava:tu devi dire se mi senti, io rispondo pronto, poi tu dici

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passo, capito? Solo Andrea, in mezzo a tanta festa, do-mandava con aria smarrita: cos’è successo?

Il giorno dopo ripresero il lavoro. Ma quando si diffusela voce che lo sputo, sebbene emesso con un “puh” diestremo disprezzo, non aveva raggiunto la faccia delcaposquadra, ci fu un po’ di delusione. Ehi, tu, non sainemmeno sputare? Non importa, anche Andrea Galònera un uomo, e da allora, per una sorta di promozionesociale, fu chiamato Nulla.

Arrivò una ruspa nuova con un manovratore taciturnoche portava occhiali neri, da sole, anche se pioveva. Fa-ceva quasi paura, ma il lavoro procedeva più speditamen-te. Con una macchina come quella, si vantava qualcuno,mi metto gli occhiali neri e in un solo giorno ti rivolto laterra di un campo intero. Nel linguaggio degli uomini piùimmaginosi trionfò allora il termine meccanizzazione; el’impeto di imprecisate speranze cresceva.

Verso il tramonto era esaltante assistere al rientro delbaldanzoso drappello dei lavoratori che riempivano diallegria le strade del paese, i bar e i negozi. Anche nella ma-celleria, padre e figlio, un po’ ingrassati, sorridevano atutti e sembravano contenti di scoiare, di segare ossa ecorna di bue, di sminuzzare visceri e carne, non tanto peril guadagno quanto per cancellare dal villaggio l’ingratamemoria del passato.

Poi la strada si affacciò sul burrone, quasi all’improv-viso, e i lavori si fermarono dove terminava il mondo. Mal’ingegnere non volle registrare quel concetto e su un’asseorizzontale fece scolpire la semplice scritta FINE DELLASTRADA, con lettere maiuscole. Nient’altro.

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Era tornato l’autunno e sarebbe stato il tempo di se-minare. Gli aratri e le zappe arrugginivano sotto la piog-gia nei cortili aperti. Qualche anziano andava per legnacon un asino; gli altri, a piccoli gruppi, si ritrovavano neibar, parlavano e giocavano a carte. Ma senza allegria.All’approssimarsi dell’alba, a volte, nel buio e nel vento siudiva un muggito familiare assieme all’odore antico dellastalla. Ma ormai ascoltavano soltanto voci di altri pianeti,rumori urbani, macchine e luci, felicità, abbondanza diogni cosa.

Prima che il villaggio uscisse dall’inverno, quasi tuttierano partiti nella direzione opposta alla nuova strada. Lasmania dell’emigrazione si diffuse come un’epidemia etravolse altri contadini che lavoravano a nord-est nelleterre buone, alcuni artigiani disoccupati e certi studenti,ormai diciottenni e disamorati dallo studio.

Fra circa ottanta emigranti si contavano anche undiciragazze. In segno di lutto e di stizza undici focolari permolti mesi restarono spenti.

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