Storia di un Perché

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Mystery, Davide Raimondi

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DAVIDE RAIMONDI DAB RAY

STORIA DI UN PERCHÉ

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STORIA DI UN PERCHÉ Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-431-4 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Ma! Donna ACQUA Corpo fine e sinuoso come un Rivolo Ma forte e impetuoso come una Cascata Con due Seni duri come il Ghiaccio Ma fatta di vapore per insinuarsi E scaldare il Cuore Fresca e limpida come una Fontana di Montagna Sporca e inquinata ma solo di Amore Bianca e candida come la Neve Ma calda da scaldare il Sangue nelle Vene Presa a piccole Gocce come Pioggia di Primavera O come Acquazzone di una Foresta Tropicale Se l’Acqua è Vita in un Corpo Fa che il tuo Corpo sia la mia Vita

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Nascosto da qualche parte, c’è sempre un buon INIZIO di una bella STORIA.

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Il granello di sabbia, guardandosi intorno, attendeva il suo destino. Il granello che gli stava sotto era già caduto, così come avevano già fatto gli altri prima di lui in un ciclo infinito. Lui era l’ultimo questa volta: aspettava di cadere sopra ai suoi compagni da un momento all’altro. Ancora un istante ed ecco: ora era il suo momento e con lui un altro secondo se ne sarebbe andato in questa clessidra. Il granello si era trasformato in tempo e, durante la sua caduta verso il basso, guardava il cambiamento che stava avvenendo intorno a lui. La sabbia della clessi-dra era ora diventata una distesa circolare e, sopra di essa, era spuntato un bastone che proiettava un’ombra corta sul terreno. Un altro secondo era passato e un altro tempo era finito. L’ombra era diventata più lunga. Poggiava ora su un numero romano inciso nel marmo e il bastone era diventato il triangolo di una meridia-na. Un altro secondo era passato e un altro tempo era finito. Subito dopo il triangolo aveva preso la forma di una freccia che si stava spo-stando su di un numero cardinale, un altro secondo era passato e un altro tempo era finito... Qui si nascondeva Kronos, colui che governa il tempo; era il suo modo per scappare da chiunque. Viveva in ogni dove ci fosse tempo e soprat-tutto viveva in ogni tempo. Ma questo non era bastato per fuggire da Sheol che, spinto dall’ira, era entrato nella sua bolla temporale. Lo aveva trovato nell’esatto momento in cui Kronos tradiva il loro patto. Se ne stava là, seduto su un trono fatto di sabbia soffiata dal vento e di sicuro non si aspettava il suo ingresso. Nessuno avrebbe mai potuto

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trovarlo nel suo regno fatto di orologi che si sciolgono, di canne di bambù riempite d’acqua, di clessidre di fuoco, di sole e di luna, di tutto e di niente, come niente è il tempo. Ma Sheol lo conosceva troppo bene: eterni rivali, eterni amici, ma soprattutto eternamente fratelli. Kronos guardava in una bolla. L’alba di un nuovo domani attende il destino di un nuovo giorno... L’alba di questo domani potrebbe essere l’ultima... Aaaah. Dolore. Rabbia. Mi strappano da dove sono, non voglio, non voglio, una luce accecante paralizza il mondo che mi appartiene... Il rumore... E poi il nulla... «Kronos.» mille voci risuonavano in coro. «Questi non erano i patti! Zac ha ancora del tempo a sua disposizione! Restituiscigli la notte! » «Sheol... Cosa vuoi che sia una notte? È solo un umano... E sia! Tanto sarà mio lo stesso, è solo questione di tempo... Ah, ah, ah, ah... Il mio tempo! Ah, ah, ah, ah!»

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Capitolo 1 Lunedì ore 7:42 L’alba di un nuovo domani attende il destino di un nuovo giorno... L’alba di questo domani potrebbe essere l’ultima... Rumore. Colpi. Urla. Armi e scudi che cozzano fragorosamente tra loro. L’aria è zuppa dell’odore acre del sangue fresco. Tutto intorno parla di morte. Basta! Sono esausto! Ho visto sorgere il sole e l’ho visto muoversi nel cielo secondo il suo rituale percorso. Ho visto uomini cadere sotto ai miei colpi e ho visto amici cadere sotto i colpi dei miei nemici. Ho visto i colpi diventare sempre più lenti e imprecisi. Piano piano, la terra morta ha iniziato a concimarsi con il nostro sangue. Piano piano, la terra si è tinta di rosso. Piano piano, la terra ha iniziato a vivere. Piano piano, noi abbiamo iniziato a cadere su questa terra. La terra! Questa terra che è appartenuta agli avi dei miei avi. La stessa terra che ora difendiamo dall’invasore. Per quanto tempo ancora dovrò combattere? Per quanto tempo ancora? Ogni minuto in cui ancora combatto, è un minuto in più che sono vivo. Sono vivo! Voglio restare vivo! Sono passate ore, forse minuti, forse giorni, mesi o anni, non lo so e non voglio scoprirlo. Quello che so è che l’energumeno biondo dinanzi a me non mi dà tregua... Fortuna! Forse solo fortuna, tanta fortuna, ma a volte la fortuna va anche aiutata. Tra un fendente e l’altro ho intravisto Wal il Guerriero, il mio amico Wal. È ancora vivo! Non ne avevo alcun dubbio!

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Insieme siamo nati e cresciuti. Insieme abbiamo mosso le prime spade di legno, emuli dei nostri padri. Insieme abbiamo studiato molte batta-glie e insieme le abbiamo vinte! Insieme vinceremo anche questa... La battaglia va studiata, non c’è spazio di errore: non deve essere combattuta solo con le armi e con la forza bruta. Il luogo, il tipo di terreno, il vento, la pioggia o il sole, tanti i giorni di preparativi e tanti i giorni passati in esplorazione! I Padri dei Padri dei nostri Padri ci hanno insegnato l’arte di come combattere la guerra. Noi abbiamo imparato a vincerla! Questa volta, la battaglia è più cruenta delle altre perché anche i nostri avversari hanno studiato un loro piano. Costretti dagli eventi, vedo alcuni dei miei compagni d’arme aiutarsi con pale e vanghe. Indossano semplici abiti color marrone. Sono esausti ma combattono al nostro fianco per proteggere la loro patria e le loro origini. Nella terra intrisa di sangue vedo molti dei loro corpi. Purtrop-po i loro abiti non sono armature e non li proteggono dai colpi mortali e nemmeno dai colpi di striscio che fanno perdere molto sangue e con esso le forze. È grazie al color marrone dei loro abiti così teneri alle lame che traggono il loro soprannome: ‘le Marmotte’. Ora i loro abiti sporchi di sangue e di terra parlano solo di dolore. Loro non sono guerrieri e non sarebbero dovuti scendere in battaglia: loro sono le Marmotte, le nostre Marmotte. Poveracci! Per tutta la notte hanno preparato il terreno della prossima battaglia o per lo meno lo hanno ristretto notevolmente. La nostra posizione era troppo aperta nella vallata ma non a caso: così è stata proprio voluta, da me e da Wal. Loro hanno applicato la nostra strategi-a, scavando un cerchio nel terreno, aperto su tre punti, come i vertici di un triangolo interno. La buca, profonda meno di mezzo metro, è stata poi riempita di pece, poi ricoperta con rami secchi intrecciati tra loro, per costituire una sorta di tela, mimetizzata con terra e con zolle d’erba. Sono sfiniti, ecco perché, come gocce di pioggia, cadono uno a uno.

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L’alba, ore prima... I momenti prima della battaglia sono sempre i peggiori: la tensione è palpabile nell’aria. Gli amici si salutano... Forse questa sarà l’ultima volta che lo faranno. Le urla d’incitamento risuonano violente. Le parole Invincibili di Wal il Guerriero ci incoraggiano alla battaglia imminente... Eccoli, sul colle! Noi chiusi nel nostro cerchio invisibile e loro fuori in ogni dove. Tanti! Troppi! Superiori come numero al nostro, almeno per il doppio. Attaccano! Avanzano in un cerchio più grande rispetto a quello invisi-bile a terra e si avvicinano sempre più. La tromba suona, ecco la carica. I loro cavalli sono spronati al galoppo. Siamo spacciati! O almeno è quello che vogliamo far credere loro: infatti, ecco i primi cavalieri cadere nell’imboscata da noi preparata. I cavalli si accasciano, si azzoppano, alcuni disarcionano i fantini. La frenesia dell’attacco spinge quelli delle retrovie sopra ai caduti come pezzi di un domino. “Ancora un attimo! ...fermi, serrate le righe!” penso. “Ancora un attimo!” Ed ecco il nostro contrattacco: la vera bastardata. Dal cielo sopra di noi si sente il sibilo delle frecce infuocate che, lanciate dalla nostra retro-guardia, vanno a incendiare i rami secchi che nascondono la pece. L’effetto è una cascata di fuoco: rami che incendiano altri rami che incendiano la pece... In un attimo il cielo si tinge di rosso quasi fosse un presagio di morte. Panico! È puro panico quello che si vede nei visi dei nostri nemici. È fatta! In pochi istanti l’esito della battaglia è cambiato. I nostri avversari fino a ora hanno impugnato la spada dalla parte del manico, adesso il manico è in nostro pugno e il filo della lama scorre già sulle loro gole. Dalle nostre spalle parte una pioggia di frecce che oscura il cielo e adesso tocca a noi attaccare in modo fulmineo dalle brecce lasciate aperte nel cerchio immaginario. Come non vorrei trovarmi dal lato del mio nemico in questo istante! Ringrazio ancora la Dea Fortuna, per aver trovato dei barbari così stupidi da cadere nel nostro giochetto, forse fin troppo stupidi...

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Le sorti della lotta volgono al termine e sono notevolmente a nostro favore; fa eccezione qualche sporadico duello tra singoli contendenti. L’onore dei Padri dei nostri Padri ci ha insegnato di non interrompere un duello leale tra due cavalieri, non importa chi sia il vincitore: avrà in ogni caso salva la vita. Solo quando il lungo pianto di un corno giunge a noi, ci rendiamo conto di aver messo il carro davanti ai buoi. Non erano poi così stupidi! «Che cosa succede? È il segnale concordato ieri.» Tutti restiamo sbigottiti. Il segnale è di ripiego nel cerchio. Non ne capiamo il motivo! Con il senno del poi sono proprio contento di avere un amico come Wal! Lui è sempre un passo avanti a tutti e anche questa volta ha visto giusto! I nostri nemici non sono davvero così stupidi e lo aveva capito!” Non appena ripresa la formazione nel cerchio, ecco apparire, oltre le colline, un altro esercito di fanteria grande quanto il primo. Dove avranno trovato tutti questi uomini? Solo quando ci attaccano e come mosche iniziano a cadere, mi rendo conto che sono per lo più dei senza-barba, l’equivalente dei nostri soldati in addestramento, sicuramente tenuti come riserva dei veri guerrieri e strappati anticipatamente dai campi di patate e d’allenamento alla battaglia. Morte, ancora morte! Quando la battaglia sarà finita, che tu sia vinto o vincitore, questa terra apparterrà di diritto a Morrigan e alla sua Triade. Ma ora basta, ora non è tempo per il dolore né tempo per le lacrime. Ora è tempo di combattere. Adesso... È tardo pomeriggio ormai, appena qualche ora prima del tramonto. Il combattente quasi albino che mi sta di fronte non è un ottimo spadac-cino. In condizioni normali ci avrei impiegato poco tempo a disarmarlo ma ora sono stanco, troppo stanco. Dalla sua ha due vantaggi: una notevole forza derivata dalla sua mole, probabilmente maturata da lotte contro i maiali selvatici, e la freschezza

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di non aver vissuto la battaglia dall’inizio. Il terreno sotto di noi è viscido per il sangue e impervio per via dei corpi esamini. I suoi fen-denti cadono con tale forza che il mio scudo non può resistere ancora a lungo. Forse mi resta un’unica possibilità. Getto quel che resta dello scudo che mi ha protetto finora e, roteando su me stesso, estraggo lo stiletto nascosto dietro la schiena. Con una serie di colpi veloci e preci-si, mirati alla spalla, riesco a far ripiegare sul lato sinistro di un paio di passi il mio avversario. Per un breve istante resto abbagliato dal riflesso del sole che si crea sull’elmetto di fronte a me. Proprio in quel momen-to so di avere vinto. Ho vinto perché se esiste un riflesso il ragazzone che mi sta di fronte è cieco per lo stesso sole che ha accecato me. Il mio piano ha funzionato. Gli insegnamenti di mio nonno hanno funzionato: “Usa sempre il terreno a tuo favore.” Come al solito, in battaglia, il mio istinto e i miei riflessi viaggiano più veloci dei miei pensieri, così, mentre il mio cervello mi dice che la lotta è ormai mia di diritto, il mio corpo ha già reagito. Mi abbasso e nel rialzarmi la mia spada è conficcata nel ventre del biondo... Finita! Adesso è proprio finita. La mia spada è conficcata nel terreno sporco del sangue dei miei fratel-li. Sento dei passi alle spalle e ancora una volta i miei riflessi parlano per me. Ora la lama dello stiletto punta alla gola del mio nemico... ma non è il mio nemico, è Wal. «Cad, Cadeyrn, sono io, sono Wal!» Un solo istante per riprendermi e nel farlo mi volto e vedo facce a me conosciute che sorridono. La battaglia è terminata! Il mio duello era l’ultimo rimasto. I miei amici mi sorridono, mi acclamano. Stringo in un forte abbraccio Wal... Gli sanguina visibilmente una spalla ma so che sarà solo un’altra delle tante ferite che fanno impazzire le donne. È tutto perfetto, ci avviciniamo, ci abbracciamo di nuovo e Sweet child on mine ci fa da sottofondo... Lunedì ore 7:48 Sweet child on mine? Ma cosa cazz... c’entrano i Gun’s and Rose’s con un’isola irlandese dopo una battaglia...

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Luce bianca! La bocca impastata! Sono quasi paralizzato ma la musica va avanti, anzi, il volume aumenta... Maledetta sveglia, maledetta stronza... Tre sono le persone a cui darei il premio Nobel: l’inventore della Nutel-la, l’inventore della pizza e l’inventore del tasto snooze della radiosve-glia... Quello, per intenderci, che ci concede ancora nove minuti di finto sonno, se si riesce a premerlo senza cadere dal letto. In ogni caso, la sveglia rimane una maledetta stronza. Quanto manca? Ma che importa, tanto ho messo l’ora avanti di tredici minuti apposta per rosicchiare qualche minuto in più... Ho ancora tempo per dormire... ho ancora tempo per dorm... Lunedì ore 7:52 Aaah. Dolore. Rabbia. Mi strappano da dove sono. Non voglio, non voglio, una luce accecante paralizza il mondo che mi appartiene... Il rumore... E poi il nulla... L’incubo: ancora quell’incubo che mi tormenta. I miei nove minuti non sono ancora passati ma ormai è inutile. Non li voglio più, almeno per questa mattina. Perché? Perché? Perché? Perché tutte le mattine mi devo alzare? Perché tutte le mattine devo andare a lavorare? Perché tutti i giorni devo vivere questa vita non mia? Beh! Forse tutte le mattine le persone che conosco e che non conosco pensano le stesse cose ma per me è diverso. Chi sono? Che cosa sono? E perché sono qui? Perché, perché, perché? Perché? Ancora una volta mi ritrovo a chiedermi il perché di tante cose. Perché tutti questi perché mi risuonano nella mente? Perché ogni volta lo stesso incubo? La parola incubo non rappresenta realmente il mio stato d’animo: forse sofferenza, forse odio, forse solo perché. A volte mi chiedo perché devo soffrire così tanto al risveglio dai miei sogni.

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I sogni fanno parte di me, del mio vivere. Un modo per riempire il vuoto che ho in testa. Sarei rimasto volentieri nei panni di Cadeyrn, a godermi i festeggia-menti della vittoria, a dividere le mie ferite con Wal e con le ragazze del villaggio. Sarei rimasto anche per i funerali dei miei amici, giusto per affermare d’essere vivo, ma questo non mi è possibile: i miei sogni svaniscono al mattino lasciandomi solo. Solo con i miei perché! Nei miei sogni o incubi o quello che sono vago per infiniti posti e per infinite epoche a me sconosciuti, ma è come se fossero familiari. Lì mi sento bene! Lì posso vivere una vita mia anche solo per qualche attimo, per qualche ora. Quei luoghi così estranei ma così familiari sono tutto quello che ho, almeno per una notte. Nei miei sogni conosco persone, sono amico di tanta gente... Una specie di vita parallela ma con vita propria. Una Second Life, una vita alternativa. A volte ho persino la netta sensazione che siano più reali i posti e le persone che mi fanno visita la notte, rispetto alla mia vera vita. Chi sono? Semplice: Zaccaria o Zac per gli amici. Questo almeno è il nome che uso. Questo è quello che conosco di me al mio risveglio. Un nome che è tutto un programma ma non lo porto perché i miei genitori sono, o erano, particolarmente religiosi. Nemmeno io lo sono molto, a dire il vero. Per dirla tutta, mi porto questo nome perché il destino, o meglio, un signore di nome Gigetto, travestito da destino, ha voluto così... Io ho voluto così. Io l’ho scelto! Avrei potuto scegliere Mauro, Emil o Matthew. Eh sì, in effetti, avrei potuto chiamarmi anche in questo modo o forse il caso ha scelto al mio posto. Questa però è un’altra storia. In ogni caso il mio nome mi piace e non lo cambierei nemmeno se conoscessi quello vero: mi lega troppo a tante cose, a tanti gesti, a tanti (che parolona!) ricordi ed è mio da poco più di un anno. Pazzo schizofrenico? No, ho semplicemente perso la memoria. E, adesso, sono semplicemente in ritardo. Accidenti a me e a quanto mi piace divagare con la mia mente.

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Lunedì ore 8:11 Ancora una volta mi sono lasciato trasportare dai miei pensieri. Però mi piace così tanto parlare con me stesso e ricordarmi certe cose. Cose banali per altri, che possono contare su anni di vita alle proprie spalle. Io, dietro di me, ho solo delle piccole certezze, piccole gioie, piccoli dolori, dei piccoli stralci di vita che mi trascino appresso da poco più un anno. Per il momento credo che sia utile parlare a me stesso e dirmi che oggi è lunedì mattina! Le 8 e 12 di lunedì mattina! Sono in ritardo come al solito! Nell’alzarmi dal letto, mi rendo conto di avere ancora i postumi della serata precedente. La cena è stata un po’ pesantuccia. Il cibo era ottimo e il vino rosso fruttato non lasciava certo trasparire poca qualità. A lasciare il segno non è stata di sicuro la qualità indiscussa di questo nettare ma la quantità. D’altro canto, in una cena improvvisata a lume di candela con Jo, due bottiglie erano inevitabili. A proposito di Joel, credo di ricordare che dopo aver fatto l’amore, quella diavoletta mi abbia detto qualcosa su... Su? Vago nella mia mente, ancora un po’ brilla, nel tentativo di ricordare. Tentativo alquan-to vano. Ci proverò dopo una doccia bella calda. Lunedì ore 8:20 Mi ci voleva una sana doccia bollente ma, ahimè, le parole di Jo sono scivolate via dal mio corpo insieme con l’acqua calda. Non riuscirò mai a ricordare! La cosa peggiore è che sarà lei a ricordarmelo in continua-zione. Uff! Mi darà dell’anonimo alcolista e dello smemorello per almeno tre giorni. Posso sempre dire che ho perso la memoria anche di questo. Tanto, una cosa in più o in meno! D'altronde se capita a un hard disk un po’ bacato, perché non può succedere anche a me? Ok, mi prenderà in giro per una settimana!

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Lunedì ore 8:30 Sono sempre più in ritardo... Uff! La faccina sul frigo è passata da rossa a quasi blu, abbiamo fatto pace! E quello cos’è? Ciao piccola bomba di sesso al vino, volevo solo ricordarti di non fare colazione. Te lo sei dimenticato vero? Vieni da me al bar, te la offro io... Ps... Grazie x la serata, Smemorello. Jo Ecco! Ecco cos’era! Eh, eh. Mi conosce troppo bene. Grazie a questo biglietto che Jo mi ha lasciato sul tavolo, sotto a un geranio, adesso mi ricordo quello che mi aveva detto: la colazione... Cazz... Bello il geranio, però! La vicina si chiederà per tutto il giorno che fine ha fatto uno dei suoi tanto amati fiori e, soprattutto, come ha fatto a sparire dal terzo piano. M’immagino Joel, vestita alla Matrix, che scavalca il balcone passando dalla porta delle scale di servizio... Ma che ore sono? Uff! Sono in ritardo! Sono sempre in ritardo! E... se... e se facessi finta di non conoscerla? Magari potrei sviarla dal chiamarmi Smemorello! Mah, tentar non nuoce!

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Capitolo 2 Sempre lunedì, ma un po’ più tardi Sono ormai tredici mesi che percorro questo viale. Le stagioni non hanno modificato la sua maestosità e nemmeno la sua bellezza, poiché, via via che il freddo si è fatto più pungente o il caldo più intollerabile, questo ne ha percepito i naturali cambiamenti, raccogliendo tutti i colori che il sole ha lasciato stanco sui suoi passi. L’infinità dell’orizzonte, creata per effetto ottico o forse per la reale lunghezza del viale stesso, è infranta dalla prorompente cattedrale gotica che si erge da ormai cin-quecento anni e forse più. Barbaro: questo stile era definito in passato come Barbaro. Eppure, lo trovo così magnifico! Ogni volta ne rimango estasiato. Il trionfo dell’uomo sul Cielo! Quest’ammasso di pietre, unite con la fatica di molte persone, ha visto passare sotto i suoi due occhi circolari troppe cose. Occhi che osserva-no, che implacabili scrutano il mondo. Occhi composti da immense vetrate di tutti i colori. Questi due grandi occhi, posti sopra alla porta d’ingresso, hanno visto guerre e carestie. Quanto tempo è passato sotto questi occhi vigili? Mesi, anni, secoli. Io non posso dire altrettanto dei miei ricordi! Perché, perché, perché? Quante vite, quante storie? Migliaia di migliaia di persone! Forse un giorno, attraverso i miei sogni, potrò dire di averne conosciute altrettan-te. Di fronte a quest’immensa costruzione un uomo non si può sentire che piccolo. Eppure uomini, come uomo sono io, l’hanno eretta. Ricordo ancora la prima volta che vi ho incontrato Gigetto o, meglio, il nuovo me stesso lo ha incontrato. In quell’attimo, la mia memoria era appena scappata da me, abbandonandomi al mio destino d’immemore. Ero confuso e lo sono tuttora. Vagavo nella più assoluta disperazione,

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senza sapere dove sarei andato, né tanto meno da dove ero venuto. Era una calda giornata di una tardiva e spensierata estate che ancora non voleva lasciar posto al tiepido autunno. Poetico. Solo con me stesso e senza una meta. Chi ero? Che cosa facevo? Poi una voce ha distolto i miei pensieri vuoti e sciacqui dalla dispera-zione e, ridestato dal torpore, ho ripreso coscienza di me per ritrovarmi su questo stesso viale, ma molto più avanti: esattamente sotto a quelle colonne tanto esili che forse per magia, ergendosi verso il Signore, sorreggono quegli enormi archi, pesanti in apparenza ma eleganti e leggiadri allo stesso tempo. Ho ancora impresso nella memoria la magia dell’incanto di quell’uomo. Lui, così minuto, che coinvolge, in un crescendo di curio-sità e di emozioni, una cinquantina di persone con la sua voce da sopra-no o mezzo soprano, non ci ho mai capito tanto, volutamente abbassata di un tono per renderla ancora più affascinante. Resistergli sarebbe stato impossibile. Sarebbe stato come essere sordi dinanzi al canto delle sirene di Ulisse e ciechi dinanzi alla bellezza della maga Circe. Epico. La spiegazione era già iniziata e la frase che in particolare mi ha ripor-tato sulla terra è stata: «L’uomo ha costruito questa immensa opera d’arte con delle semplici pietre... Pietre uguali a tante altre, le stesse pietre che ora state calpestando... Beh! In realtà, queste pietre sono state volute da coloro che hanno costruito questo tempio di magnificenza, perché la pietra sta a simboleggiare il corridoio di collegamento tra l’anima, lo spirito e la materia.» Tutto quello che ne è seguito, è stato un bla bla bla di arco a sesto acuto, pianta a croce latina, bla bla bla, grandi vetrate, capitelli, signifi-cati nascosti conosciuti solo dai costruttori e tramandati ai figli tramite gerghi segreti, bla bla bla. Cose tanto stupide che a pensarci possono anche risultare vere: tipo che il collegamento tra lo spirito e il corpo è l’anima, vista come una via di mezzo tra i due. Nella cattedrale si associa un simbolismo analogo, spiegava quell’uomo: «La cupola è intesa come spirito ed è circolare. La base, su cui poggia lo spirito, è il corpo ed è un quadrato, mentre l’anello di congiunzione tra i due, l’anima, è un ottagono.» Bla bla bla. Una delle poche cose che mi è rimasta nella testa è la caratteristica principale della cattedrale: la sua altezza.

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«Va’ a mungere formiche.» mi direbbe il mio amico, Gigetto. Quella mole è sempre lì a ricordarci le enormi fatiche che gli uomini di allora hanno compiuto per sfidare il cielo in un’ascesa, al fine di avvicinarsi a Dio, anche solo di un pochino. Anche un’altra cosa aveva attratto la mia attenzione. Una cosa forse fin troppo teatrale e molto intrigante: tra le infinite decorazioni spicca un’unica statua. Un Gargoyle unico, imponente, sinistro! È posto tra la cupola e la base ed è un mistico incrocio tra due razze, un... non saprei come definirlo un... Un Dubbio del Destino, forse! Siede sopra un immenso trono di pietra grezza non lavorata dall’uomo. Come ho poi saputo fa parte di un unico pezzo trovato in una grotta adesso chiusa in seguito a uno smottamento. Un antro che in antichità era chiamato la Grotta del Gigante. Curiosità: la fantasia della gente di allora aveva chiamato la grotta con quel nome perché riteneva davvero che un’enorme entità si fosse costruita un trono nella naturale pietra nera. La figura funesta della statua si presenta come un Angelo di una bellez-za sconvolgente e, a tratti, o forse dipende dai punti di vista, sembra donna o uomo. D’altro canto, è la natura stessa degli angeli a essere ambigua. La bellezza del viso appartiene però alla sola parte destra, perché la parte sinistra è coperta da un velo nero, scolpito nella stessa pietra del trono. Il velo, che ricopre anche tutto il corpo, è perennemente gonfiato dal vento che soffia in direzione opposta allo splendido viso e a tratti si apre mostrando sotto di sé la parte sinistra del volto: quello deforme e scarnificato di un demone. Delle rughe scolpite solcano con disgusto questo volto corrucciato e pensieroso, i cui tratti sono interrotti dall’assenza di pelle e carne, che lascia scoperto l’osso. Nell’elegante mano destra reca una spada di fuoco, sulla sinistra invece è appoggiato il mento in tono meditativo. Il gomito è poggiato sul ginocchio. Le ali sono chiuse ma imponenti; la parte angelica è soffice e leggiadra, mentre la sua rivale e opposta sembra ricordare quella di un enorme pipistrello, con la differenza di uno spuntone acuminato che fuoriesce dalla punta estrema.

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L’Angelo della Vita e della Morte. Cutty Quando sono in macchina adoro pensare e muovermi lungo un filo invisibile che porta chissà dove mentre le gomme della mia auto mor-dono metri su metri di quest’asfalto sudaticcio per il caldo. La vita è davvero meravigliosa! Quante cose ci sono da imparare e da ammirare. Dopo un anno ci sto proprio provando gusto, a vivere. Ogni giorno è come vivere una nuova grande sfida. La mente poi è una magia di vita. Quanto sarà lungo questo viale? Poco più di una decina di chilometri. In auto quanto ci s’impiega? Dieci, dodici minuti? Il rombo della mia vettura da corsa mi suggerisce qualcosa. «Ok! Per essere una Due cavalli, sei permalosa... Geraldina, tu e io ci impieghiamo qualcosa in più, ma a me piaci così come sei.» Poco più di una decina di minuti. In questo tempo, il mio corpo è co-stretto in quest’abitacolo ma la mia mente è libera da confini fisici, libera di percorrere ogni strada voluta, ogni ricordo, ogni sogno. Libera di alzarsi in volo e percorrere la città dall’alto e di spostarsi a proprio piacimento lungo ogni sapere. Il viale è ancora lungo e un altro ricordo tocca delicatamente la mia mente: il mio primo ricordo legato al primo sogno... o, meglio, il primo sogno della mia nuova vita. Quel sogno mi lega a un amico, il primo amico dei miei sogni. Ora, quando sogno, mi stacco dal mondo che conosco, mi ritrovo nei luoghi che ho già visitato e parlo con amici che vivono in quei luoghi immaginari. Quella volta però, l’abitudine ai miei sogni non mi appar-teneva ancora di diritto e la paura era dietro l’angolo pronta a saltarmi in groppa. Nella notte, il cui giorno ho preso coscienza di essere vivo ma imme-more e ho conosciuto Gigetto, sono stato protagonista della vita di Ivad. E per le due notti seguenti.

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Ivad «Ivad, sveglia! È domenica, muoviti dormiglione, oggi vuoi proprio fare il pigrone! Dai, su, la campana ha già dato otto rintocchi, sveglia-ti.» «Dai Anya! Lasciami ancora dieci minuti, ti prego, questa notte ho dormito poco. Ero talmente preso dal lavoro che devo consegnare tra una settimana, che non mi sono accorto del tempo passato e ho fatto veramente tardi.» «La mamma dice che ti devi muovere, perché oggi c’è l’assemblea del paese per discutere quella cosa importantissimissima e vuole che né tu né Ytia facciate tardi.» «Ah, già! Mannaggia è vero. Oggi è il grande giorno, me ne ero com-pletamente scordato e sì che da cinque mesi non si parla d’altro per il borgo.» «Ivad, sveglia, sveglia! Dai, dai ! Non smetto fino a che non ti alzi, me l’ha detto mamma, sveglia!» «Anya, ti prego, hai vinto. Dieci minuti, non ti chiedo altro. Se mi fai questo regalo, ti prometto che quando ritorno dalla città, ti porto un leccoso, grande come una mela.» «Davvero mi porti un leccoso grande grande? Me lo prometti con il dito del giuramento?» «Sì, prometto.» «Allora va bene, dai, dai!» «Ok, piccola, dammi il dito mignolo.» «Trik Trak e Tiritatto ecco fatto il patto.» «Anya, ti aspetto, tra un po’ vieni a svegliarmi.» Sapevo di non fallire, Anya adora i lecca lecca. E chissà che magari, dopo molte generazioni, uno dei discendenti di Anya non abbia proprio inventato il tasto snoose. Il Clero del nostro villaggio esigeva una nuova chiesa, grande abba-stanza da ospitare tutte le pecorelle del gregge e maestosa per dare importanza a Dio. Come anime pie, avrebbero concesso uno dei vari terreni di loro proprietà, la cui provenienza era frutto di svariati lasciti. In altre parole avuti gratis. Poiché loro già fornivano la terra, chiara-mente pretendevano che i costi della costruzione spettassero a noi e al nostro signore.

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Il fronte opposto non aveva i terreni ma la forza lavoro e i materiali. I commercianti, che portavano avanti il controllo e la fioritura del villag-gio, volevano un luogo molto grande e possibilmente asciutto per i loro baratti. Negli anni addietro, le fiere mensili di scambio avvenivano all’aperto o in questa cascina diventata ormai troppo piccola e malanda-ta, anche solo per le riunioni del villaggio. In tempo di pioggia persistente, le fiere potevano anche saltare per quindici giorni abbondanti, lasciando di conseguenza il villaggio privo di materie prime come zucchero o farina. Fornendo la forza lavoro e i materiali, gli artigiani chiedevano di poter costruire un casale enorme e, naturalmente, pretendevano che fosse costruito su uno dei tanti terreni del Clero, dalle ottime posizioni dominanti e gentilmente offerto dalla Chiesa per una giusta causa cristiana... I preti sono pur sempre uomini e in quell’occasione lo stavano dimo-strando: il Monsignore Arnaldo era quasi arrivato alle mani con il sindaco, rivangando screzi del passato. Ore e ore d’estenuanti tira e molla. Botte piena e moglie ubriaca sono inconcepibili. La soluzione era lì, a un tiro di sputo, ma come sempre, quando una cosa è sotto al naso non si vede. Sul più bello, una voce tra tante ha spezzato il momento. «Una cattedrale!» La voce fin troppo riconoscibile, proveniente dal fondo della sala, era di Momperron, antico filibustiere dedito ai vizi della carne e del gioco, nonché alla lussuria, poi convertitosi nel più mite e credente pretino di provincia, dopo un incidente nel quale era rimasto miracolosamente illeso e soprattutto vivo. Silenzio. Facce incredule. Sgomento. Il monsignore si era immobilizzato come in un dipinto, ma la sua posa non nascondeva le sue intenzioni: stava per tirare un pugno al sindaco. «Una cattedrale. Penso sia la cosa migliore, se mi è concesso dire, Monsignore.» Le facce si stavano facendo attente. «Vedete, si potrebbe edificare una chiesa tanto grande che possa ospitare tutti i credenti attuali e futuri. Inoltre, se mi è permesso dire, Monsignore, la cattedrale potrebbe ospitare anche le fiere, le nostre riunioni e tutto quello che ci occorre. Si potrebbe edificare sui terreni della Chiesa, con l’aiuto dei commercianti... È un’idea, se mi è lecito dire, Monsignore.» Nella sala regnava un attento silenzio. «Eh chissà, magari Il nostro Signore Prin-

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cipe potrebbe perfino venirci incontro con le tasse, basterebbe fargli capire quanti vantaggi avrebbe dal sicuro ritorno dei commerci con gli estranei... E... e... e poi, se mi è concesso dire, Monsignore, nostro Signore Iddio avrebbe molte più anime di sotto alle sue cure. Vedete Monsignore, la chiesa potrebbe anche ospitare temporaneamente coloro che rimangono senza tetto.» Si era voltato per guardare le reazioni e sul viso gli era comparso il chiaro segnale di chi aveva osato troppo: già si vedeva trasferito su di un monte a fare l’eremita. Silenzio! Sulle facce si andava delineando ancor più incredulità. Eppure mai, in tutta la mia vita, avevo sentito un discorso così semplice ed efficace. L’idea era piaciuta a tutti, anche se nessuno osava esporsi. Poi, dal fondo, una voce schietta, in quel cumulo d’ipocrisia aveva preso corpo: «E chi la disegna? I buoi di Crag?» Buon vecchio Pearl! Nel frattempo, tra le risate generali, Momperron si era portato davanti a tutti. «Potrei, potrei se mi è concesso, Monsignore, potrei sempre farlo io.» aveva ribadito. «Se mi è concesso dire, Monsignore, il mio avo provie-ne dalla Francia. Fu trovatello e in seguito adottato da uno dei più grandi mastri d’opera di tutti i tempi... Tuttora, la sua opera più grande è a Parigi. È una cattedrale1 splendida! I segreti delle progettazioni sono stati tramandati di padre in figlio e, se mi è consentito dire, Monsigno-re, sono giunti fino a me, sempre che, visto il mio passato, voi mi diate ancora fiducia, Monsignore, Sindaco e Signori tutti. La progettazione sarebbe lunghissima, credo un anno almeno, ma con l’aiuto del Signore Iddio, le mie conoscenze e lavorandoci tutti i giorni, affiancato dall’aiuto dei mastri del nostro villaggio, potrei riuscirci in cinque mesi, se mi è permesso dire, Monsignore.» I giorni sono stati lunghi, come lunghe sono state le settimane, con estenuanti trattative tra il comitato, composto per l’occasione da noi artigiani, dai commercianti, dal Clero e, dulcis in fundo, dal nostro Principe reggente. L’accordo, infine raggiunto, ha tutto dell’incredibile. Forse è davvero andato a buon fine grazie a un intervento divino. In breve, la cattedrale sarebbe stata eretta su un terreno della Chiesa, situato a monte della piccola vallata che nasce dall’incontro di due

1 Notre Dame

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colline. Il Vaticano di Roma ne avrebbe chiaramente mantenuto il diritto di proprietà nei secoli a venire, con la condizione di usi partico-lari da parte della popolazione e del Principe stesso con tutta la sua discendenza. Il Principe Edgardo il Folle avrebbe finanziato l’intera opera, rivalen-dosi dell’appoggio di Duchi, Marchesi, Conti feudatari e, strano ma vero, senza gravare di tasse esose il nostro villaggio e, ancora più strano, avrebbe concesso degli sgravi fiscali agli artigiani che avrebbero preso parte all’opera, promettendo inoltre dei premi in natura quali cibo, vacche e cavalli, se i lavori si fossero susseguiti con tappe molto rapide. Ancora non ci era ben chiaro cosa volesse realmente il Principe in cambio, a parte naturalmente gli introiti ricavati dal movimento di merci che ci sarebbe stato nel suo regno. Chi ha molti soldi e vive nell’agio, di solito, vuole ancora più soldi, per passare dall’agio al lusso sfrenato, ma chi ha tanti soldi da poterselo già permettere, cosa può volere? Semplice. Onore e magnificenza. Il gioco si era presto svelato: la targa che sarebbe stata posta all’ingresso della chiesa, richiesta dal Principe, avrebbe dovuto riconoscere la paternità di tutta l’opera a lui, così tutte le generazioni a seguire lo avrebbero osannato come un vero mecenate, un santo, quasi. Un modo come un altro per diventare im-mortali. Come uno splendido esemplare di pavone, che apre la sua coda per mettersi in mostra. E questo non era tutto. Un’ultima richiesta, la più lecita: nel suo inter-no, la chiesa avrebbe ospitato una cappella (o meglio un’intera ala della cattedrale) di diritto esclusivo di tutte le discendenze blu della sua famiglia e avrebbe dovuto prevedere delle tombe, nei sotterranei, adite a ospitare le salme reali. Alla fine, era solo un po’ come chiudere un occhio ma tutti avrebbero ottenuto quello che volevano: il Principe aveva i soldi e voleva una targa, noi non avevamo i soldi e non ce ne importava nulla della sua targa... Il sudore e la nostra fatica di artigiani avrebbero contribuito alla realiz-zazione della struttura, dietro un compenso non principesco ma sicuro e di lunga durata. I commercianti, dal canto loro, ci avrebbero rifornito di tutti i materiali utili alla realizzazione, garantendosi guadagni protratti nel tempo. E Il Clero avrebbe avuto più anime da spennare con l’elemosina.

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In un mondo bacato d’ideali, questo era un buon compromesso. La capra mangiava parte dei cavoli e produceva parte del latte, così come la moglie non era proprio ubriaca ma allegra e la botte non era proprio vuota. Cinque mesi dopo... Sono ormai passati cinque mesi dalla nostra ultima riunione. Le donne da quel momento non hanno fatto altro che acquistare cappel-lini nuovi, pizzi e merletti per ridare nuova vita a vecchi abiti e ram-mendare i vestiti buoni della domenica di mariti e figli. Voci di popolo dicono persino che il vecchio Crag abbia fatto lucidare le corna del suo bue con olio di paraffina e fatto dei finimenti nuovi per il suo carro con del legno intarsiato e dei piccoli riccioli di ferro battuto. Non esistono confini nel mettersi in mostra a ogni costo! In città mi sembrano davvero tutti dei pavoni che, per conquistare una femmina, gonfiano la loro splendida ruota colorata. Sono curioso, lo ammetto, ma sarà la solita trovata per spillarci soldi. I cinque mesi scadono oggi. Rieccoci! Tutti qui riuniti ancora una volta in questa stalla cadente. Cadente ma calda, confortevole e soprattutto capiente, o almeno lo è stata fino a ora. Certo, sarà difficile abbandonare questo casone che ci ha accolto tutti, dalla nostra nascita a oggi: noi, i nostri padri, i nostri nonni, i nostri avi. Ora però non ci basta più. In questi ultimi dieci anni, l’abbondanza dei raccolti e la fine delle pestilenze ha dato i suoi frutti. La nostra popola-zione si è triplicata e il benessere diffuso ci ha portati a essere ormai quasi sedicimila persone, gallina più, gallina meno. L’ultima volta che siamo stati qui, cinque mesi fa per l’appunto, la situazione era delicata e in quel fatidico giorno, in cui Anya mi ha letteralmente buttato giù dal letto, si era poi discusso su di un tema che a lungo era stato dibattuto tra la gente ma che mai si era avuto il corag-gio di affrontare: una chiesa nuova o un cascinale più capiente per i commerci? Come unire le convinzioni di un comodo Clero e quelle rampanti dei commercianti?

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Manca solo il progetto. Questa assemblea nasce solo a questo scopo e tutti gli altri problemi possono aspettare. Adesso, la curiosità mi solleti-ca la mente. Tutti aspettiamo con ansia Momperron con il suo seguito, ma tarda ad arrivare. L’ansia e l’agitazione sono più evidenti sui visi delle persone che mi stanno attorno. Nel trono allestito per l’occasione, siede il Principe. Al suo fianco, in abiti fin troppo sgargianti, siedono la moglie, il primogenito e la piccola di casa, che sembra molto irrequieta e annoiata; dietro a lui, i parenti. Davanti al lato sinistro di Edgardo siedono i nobili e il Clero con i loro rappresentanti, dalla parte opposta abbiamo la fortuna di sedere io e mio fratello Ytia, con gli artigiani e i commercianti. Dietro a queste falangi c’è il popolo, un vero esercito di curiosi. Tanti, ma così tanti, che più della metà della popolazione occupa i prati intorno alla stalla. L’onore che ho nello stare seduto qui in prima fila deriva dal fatto che, sia io sia mio fratello, siamo artigiani. Lui ha ereditato da mio padre l’antico uso del fuoco per manipolare il vetro e io quello di far vivere delle emozioni nelle persone tramite disegni: sono un pittore, scultore e chi più ne ha più ne metta. Ed ecco finalmente un boato di voci rompere l’attesa. Un applauso tanto forte da sembrare pioggia che scende. Momperron ha fatto il suo ingresso. Dopo un riverente inchino al sangue reale e una breve introduzione, gli sono portate le tavole, avvol-te in pergamene con un sigillo di ceralacca rosso. Lui, senza levarsi i guanti di seta da disegnatore, di fronte a tutta questa folla esita un attimo. Il particolare dei guanti penso di averlo colto soltanto io, in quanto artista: l’emozione fa sudare le mani e lui non vuole certo rovi-nare i disegni, poverino. Esita nuovamente. Un profondo respiro. Un tempo breve, ma lunghis-simo, solca le nostre vene e infine eccola, ecco la cattedrale. Bellissima! Anche se dalla mia distanza non riesco a cogliere tutti i particolari, cosa che avrei poi fatto in seguito, la trovo bellissima. Non ho parole e credo che nessuno qui ne abbia poi molte, infatti l’unica cosa che urla, intorno a me, è il silenzio... Poi c’era stato il risveglio, un risveglio che ha lasciato incompiuto il mio sogno ed è arrivato un incubo, che mi perseguita da quel momento:

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luce bianca, terrore, impossibilità di muoversi e voglia di urlare senza riuscirci... Il mondo vacuo mi era intorno, ma io non potevo vederlo e non potevo sentirlo. Perché, perché, perché? Erano stati i miei primi Perché e, naturalmente, quella era stata la mia prima volta e forse, viste tutte le mie nuove emozioni, non ci avevo fatto quasi caso. Ancora non sapevo che sarebbero diventate parole ricorrenti nella mia vita e che quello sarebbe diventato il mio incubo con il passare del tempo. La notte successiva... Un nuovo sogno mi aveva riportato da Ivad. Mattino, è di nuovo mattino, uno di tanti. Mentre mi rado vedo la mia faccia nello specchio, non più fresca come quella di un tempo, ma solcata da alcune rughe che, indiscrete, rivelano al mondo le lune che sono passate per me. Dodici anni sono passati dall’inizio dei lavori della cattedrale. Vivo sempre nella casa lasciatami dai miei genitori ma con la famiglia che io ho creato. La mia amata Gyuliet è in cucina tra i fornelli a sfor-nare pane fresco per la nostra colazione: ne sento il profumo, che attraverso le mie narici mi apre lo stomaco. Veronique, la mia piccolina, si culla dolcemente sulla stessa altalena che un tempo era stata di mia sorella Anya, che una mattina di dodici anni fa voleva svegliarmi e che, con il senno di poi, ringrazio che ci sia riuscita. Ormai è sposata da un anno e presto mi renderà zio. Non sono più il ragazzo squattrinato di allora. Oggi, grazie alla catte-drale, sono un uomo in grado di mantenere in modo dignitoso la mia famiglia e, perché no, togliermi anche qualche sfizio in più. Tutto questo grazie forse a un’idea e di certo al mio carattere istintivo. Quella stessa mattina di dodici anni fa, dopo l’esposizione dettagliata di tutto il progetto, mio fratello aveva solo un dubbio: non era tanto pro-penso a offrire il proprio lavoro a una cifra tanto bassa da andarci quasi in pari. Questo, purtroppo, perché l’altro vetraio della città era fratello di uno dei commercianti più importanti di materie prime che, pur di

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avere l’appalto, gli avrebbe ceduto a prezzi di costo: un’infamata bella e buona alla concorrenza. La mia insistenza non aveva sortito effetti positivi su di lui. Certo, per me era differente. Io avevo pochi soldi: l’arte non paga molto e qualsia-si impiego mi sarebbe bastato. Ma a lui no. Molto più concreto di me, era pronto a rifiutare l’offerta, quando la famosa idea mi giunse al galoppo. Le parole che dissi a mio fratello rimarranno indelebili nella mia mente: «Tu sei un vetraio, certo migliore del tuo concorrente e io sono un artista, se così si può dire. Perché non uniamo i nostri sforzi e diamo a questa gente qualcosa in più di semplici disegni o di vetrate colorate? Pensaci, la maggior parte di loro sono contadini, gente semplice, ma molti non sanno leggere. Certo, vanno in chiesa, ascoltano i salmi e li raccontano ai figli, per come li hanno sentiti e per come li ricordano... Ytia, diamo loro la possibilità di averli sempre sottomano e di poterli raccontare senza che i buchi di memoria li disperdano... Mi spiego. Io potrei, con l’aiuto dei sacerdoti, disegnare le storie dei santi e di Gesù e tu potresti dar loro vita con i tuoi vetri. Possiamo raccontare la storia a tutti tramite le nostre opere... Pensaci! Poi, credo che il ritorno del lato economico non tarderà a venire. Pensaci bene, ogni volta che qualcuno guarderà in alto, vedrà il nostro lavoro e, non importa quale lingua parli o da dove venga, penserà a noi. Questa cattedrale sarà la nostra miglior pubblicità.» Posso dire che mio fratello è magari un po’ tradizionale ma di certo non è uno stupido, così il giorno dopo il lavoro fu nostro. Ora Ytia ha operai che svolgono egregiamente il lavoro per lui ed è sempre in viaggio con la moglie e i suoi due bambini, soprattutto nella parte orientale del mondo, per conoscere tecniche nuove e trovare materiali pregiati da inserire nelle sue creazioni. E ora eccomi qua, tutto messo a nuovo per l’inaugurazione della parte più grande di Cutty, come a noi operai piace chiamare la cattedrale. Di sicuro ci sarà ancora tanto lavoro e il lavoro già fatto, con il passare del tempo, sarà rifatto, riadattato alle nuove esigenze. Chissà, magari i capitelli lisci, che in questi anni sono costati duri sforzi per essere piallati e innalzati, un giorno verranno riscolpiti con nuove incisioni. Magari, proprio su questi fiorirà dell’edera di pietra o, magari prenden-do spunto dalle vetrate mie e di mio fratello, su queste stesse colonne

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vivranno per sempre dei momenti di vita di persone tanto buone, da diventare poi santi. Spero solo che un giorno, quando né noi né i figli dei miei figli calpe-steremo questa nostra mutabile terra, qualcuno, non importa chi, uomo, donna, maestro o allievo, guardando la cattedrale finita, sempre se esisterà ancora, si ricorderà la storia di questa Maestria d’altri tempi. Chissà se, nel profondo, questa persona riuscirà a cogliere le differenze di stili, il sudore e persino la morte dei tre uomini che hanno dato la propria vita per questa causa. Che sia ancora maledetta quell’impalcatura, malamente fissata alla facciata con una corda ormai troppo lacera. Le loro spoglie ora riposano in una delle cappelle riserva-te ai vescovi gestori della chiesa. La loro morte non è passata tanto inosservata: le nostre menti e i nostri cuori non possono dimenticare. Una cosa è certa: un futuro osservatore, seppur ignaro, conoscerà i nostri e i loro volti. Questo è un mio segreto e allo stesso tempo un regalo per tutti noi. L’idea mi è venuta durante il funerale dei miei tre amici operai. Inutile dire che, in quel triste e nebbioso giorno di un insano autunno, tutta la città era presente, io compreso. Mentre il mio corpo e le mie lacrime erano legate a questo mondo terreno, la mia licenza artistica cercava un qualcosa in più, un... Ma sì, certo! Un piccolo gesto, qualco-sa per ricordare per sempre i miei amici. Perché non disegnare i loro volti in quello dei santi, che in ogni caso mi sarei dovuto inventare? L’idea è stata subito accolta nella riunione dei mastri e messa in opera. Ora, i loro volti figurano tra le schiere dei tre discepoli più devoti a Gesù nel suo tempo. Però, un’altra cosa mi girava per la testa. Un ago mi stuzzicava. Ci sarebbe voluto un po’ di coraggio, devo ammetterlo ma, si sa, gli artisti sono dei pazzi in libertà e, presa forza, decisi di fare un regalo postumo a tutti noi. Adesso quasi tutte le persone che hanno partecipato alla costruzione, tranne quelle occasionali o i rimpiazzi temporanei, hanno un posto in un volto di qualche santo così, fin tanto che la chiesa vivrà, noi vivremo con lei o, meglio, in lei. Pavone im-mortale! Ho commesso anche una cattiveria in questo mio progetto. Con tutto il bene che ha compiuto con il suo gesto spontaneo, compare anche il viso del nostro amato Principe. Un Principe che ha ritenuto giusto comunicare al mondo che sarà, tramite una targa a honorem, la propria paternità su questa chiesa. Così mi son detto: possibile che un

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viso così nobile e disinteressato non debba comparire sul volto di un Re? E così è stato adesso e per sempre. Il volto del Principe ha dato vita al volto di un Re, il Re di tutti i traditori, il primo della storia della chiesa: Giuda. Naturalmente, anche io, Ytia e Anya abbiamo un nostro posticino lassù. Non potevamo che essere collocati al posto di... «Ivad, vecchio pigrone, non cambi mai. Aspettiamo tutti te, ci vuoi degnare della tua presenza? Abbiamo fame! Dai, pelandrone, muoviti.» Anya, Anya, cosa farei senza la mia sorellina non più ina. Sembra essere il mio angelo custode, ogni qual volta succede qualcosa d’importante legato a Cutty. Perso in uno specchio, mentre mi rado, avvolto in una nube fitta di ricordi, mi sono scordato di tutto: di radermi, che oggi è festa, che ho invitato Anya con mio cognato a colazione e perfino dell’inaugurazione... Di questo passo mi scorderò anche di respirare prima o poi. «Arrivo, arrivo.» Bugiardo: non sarei mai arrivato in tempo! Qualche ora dopo... Oggi è festa: il primo vero compleanno della cattedrale. Un po’ per caso o perché ci siamo solo mossi alla svelta o, forse, grazie a un aiuto che mi sa tanto di divino, siamo riusciti a finire i lavori ben quindici giorni prima del previsto e abbiamo terminato ogni compito in conco-mitanza con l’imminente fiera di primavera, la più attesa di tutto l’anno. Quale occasione migliore per un evento così importante? E, poiché l’inaugurazione risulta essere l’evento più significativo mai avvenuto in questo luogo, secondo gli anziani del posto, il Sindaco ha deciso di proclamare, nella data di oggi, la festa solenne del paese. Come per dodici anni fa, tutta la popolazione, il Principe e chi più ne ha più ne metta, si sono riuniti al cospetto solenne e imponente di Cutty. Dopo colazione, mentre ci incamminavamo, ci siamo incontrati per caso con il sempre più vecchio Crag e ho notato uno strano luccichio sulle corna dei suoi nuovi buoi... Vecchio pavone.

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Dopo il discorso del Principe, prolisso, inutilmente pomposo e rivolto a favore di se stesso, il fatidico momento è arrivato. Il reggente è dinanzi al nastro rosso con la spada dei giuramenti sguainata, il Clero davanti, a seguire i nobili e infine il popolo. Tutti in rigoroso silenzio. Un silenzio che, come dodici anni fa, urla di gioia. Con un gesto fluido, ecco il nostro Principe, che in questo momento mi suscita rispetto, roteare la spada sopra la testa e, con un preciso fenden-te, tagliare non solo il nastro ma anche la tensione presente nell’aria, diventata ormai insostenibile. Come quel tempo che fu, un rovescio di applausi è scrosciato dalle mani di tutti noi, tanto forte da sembrare la cascata del lago del gigante. Uno dei giorni che in me rimarrà indelebile, finché avrò fiato per vive-re. Tanta fatica, tante notti insonni a pensare, tanti problemi ma, infine, eccomi varcare la soglia non più come operaio ma come uomo. L’uomo più felice della terra conosciuta. Nel vedere le panche di legno di ulivo spostate su un lato per lasciar posto alle bancarelle, una lacrima cerca di prendere il sopravvento. A forza la costringo a retrocedere: gli uomini non piangono, solo i vecchi lo fanno. Giovane e illuso. Così, dopo la Prima Santa Messa, la fiera ha avuto inizio. La folla, le urla dei bambini, la gente felice, il sole che viene a farci visita attraverso le mie vetrate, attraverso di me, tutto trionfa. Ora posso finalmente dire: «Ce l’abbiamo fatta.» Dopo una notte calda e confortevole, piacevolmente trascorsa tra le coccole del calore della famiglia di Ivad, nonché della sua serena vita, un unico accecante lampo di luce fortissima ha lacerato il buio, giun-gendo dentro di me come un cavallo al galoppo. Avrei voluto gridare, piangere e fuggire ma la luce mi ha riportato il dolore. Un dolore tanto forte quanto indescrivibile. Anche quella mattina non un sol gemito è riuscito a scappare dalle mie labbra. Dopo la luce di nuovo il buio. Non quello piacevole e caliginoso del sogno ma un buio fatto di tenebre e terrore. Per un attimo ho creduto che il mio cuore avesse perso colpi, come incapace di trovare le energie per battere ancora.

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Dopo il buio, un attimo lungo come un ponte sospeso sullo Stretto di Messina e mi sono svegliato. Perché? Perché? Perché? Il dolore al petto era stato fortissimo: le costole sembravano rotte dall’interno per un’implosione del torace. Credo sia simile al dolore di un infarto, cosa che pensavo fosse successa, ma sono stato poi smentito dagli esami che, nei giorni seguenti, Gigetto mi ha costretto a fare. Già allora, senza neppur conoscermi, mi ha dimostrato di essere un grande amico. Il mio cuore però era risultato perfetto sotto tutti i punti di vista e non presentava il classico solco lasciato da un infarto. Ero sano come un pesce, anzi, le parole pronunciate dal medico erano state: «Il tuo cuore è perfetto, talmente bello che sembra quello dise-gnato da Leonardo nei suoi studi sul corpo umano.» Di quei lontani giorni ho solo un rimpianto: quello di non aver creduto, sin da subito, nell’amicizia di Gigetto. Non ero ancora pronto. Il mondo che mi girava intorno era nuovo, strano, triste e pauroso. Non conosce-vo nessuno tranne lui e lo conoscevo troppo poco per confessargli i miei sogni. Forse perché i miei sogni erano tutto quello che avevo in quel momento. La mia vita reale era diventata un lungo sogno, anzi, un lungo incubo e i miei sogni erano diventati la mia vita. Grazie Gigetto. Perché? Perché? Perché? Ivad e la terza notte Il giorno, pieno di paure, ha lasciato posto alla notte e le paure sono scomparse e hanno lasciato posto a Ivad. Una lacrima scorre lenta tra le rughe sempre più marcate, frutto di una vita o, meglio, da un ultimo periodo felice e spensierato, in cui la vita mi ha sorriso. Anni in cui sono diventato nuovamente padre di un bellissimo bimbo di nome Rapahel, che ora ha quindici anni e che per me resterà sempre un bimbo, almeno finché non lo vedrò baciare qual-

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che ragazza del villaggio. Anni in cui Veronique mi ha reso nonno di un paio di gemelli tremendamente belli, quanto tremendamente vivaci. Una lacrima... Il palcoscenico, sotto di me, si sta chiudendo per la fine del secondo atto di una storia bellissima. La ragazza che vi sta dietro piange ancora il suo amato disperso in battaglia e un’altra lacrima cade dai miei occhi. Lacrime. Una volta, molto tempo fa, ho avuto la presunzione di affer-mare che solo i vecchi, le donne e i bambini possono piangere per simili sciocchezze. E questo mi dice che, anche se mantengo dentro di me un fanciullo, all’esterno sono un vecchio che piange per una com-media. Adesso capisco perché i vecchietti piangono. O meglio, so perché piango io. Adesso piango perché non me ne frega niente di quello che la gente può pensare di me. Sono felicemente sposato con Gyuliet, sono contento e piangendo dimostro che sono una persona sensibile ai momenti piace-voli che il mondo mi offre. Ora metto da parte le lacrime. I tendoni stanno per riaprirsi: l’ultimo atto, decisivo, sta per iniziare sul palcoscenico. La donna piangerà a lungo il suo uomo e lo crederà morto ma in cuor suo lo attenderà per sempre. I ragazzi la corteggeranno per mesi, chie-dendo di rompere il lutto per il promesso sposo defunto ma lei rimarrà fedele all’unico uomo che abbia mai amato in tutta la sua vita. Dimagri-rà, odierà se stessa e tutto ciò che le sta intorno e che le ricorda il suo lui, finché un giorno, quando lei starà per cedere alla tentazione di buttarsi dalla torre più alta del castello, sarà afferrata dalla mano di un barbone dalla folta barba. La sera stessa lei sfamerà quel barbone nei cui occhi, così azzurri e intensi da non sfuggire al ricordo di un’innamorata, riconoscerà il suo uomo. Un uomo colpito da una brutta ferita alla testa e ora guarita. Un uomo ritornato a lei, con la paura di ritrovarla persa nello sguardo di un altro uomo. Il lieto fine è inevitabile e il sipario, chiudendosi, mi strapperà ancora una lacrima, nonostante abbia visto questa commedia altre tre volte. Cutty, sempre Cutty. Ho passato più tempo della mia vita in questa cattedrale che in casa mia! Non che la cosa mi spiaccia, anzi la trovo bellissima... Nel suo ventre ho lavorato, pensato, riflettuto! Vi ho fatto affari incre-dibili e ho amato. Qui, infatti, durante la fiera di un’estate che non scorderò mai, ho fatto l’affare migliore della mia vita: ho venduto il

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mio cuore a Gyuliet in cambio di uno sguardo. È qui che l’ho conosciu-ta o, meglio, rincontrata qualche mese dopo che era ritornata in questo paese con la sua famiglia, dopo un lungo viaggio durato dieci anni in Europa, dai nonni paterni. Cutty è una malattia buona per me. Un parassita che aiuta, anziché provocare danno. Questo luogo sacro mi ha ospitato e rincuorato nel corpo e nella mente ogni qualvolta ne ho sentito il bisogno e non parlo dell’opera di Dio. Credo, infatti, che questo posto serva sì ad avvicinar-ci al nostro Signore, ma serve innanzitutto ad avvicinarci a noi stessi. In fondo, Dio è sempre con noi in qualsiasi luogo. Anche adesso, nel momento in cui il sipario cala inesorabilmente e con esso la mia ultima lacrima, sono ospite di Cutty. L’ultima ala aggiunta è stata concepita per ospitare la Santa Messa per i fedeli, sempre più numerosi ma, grazie a qualche spostamento delle panche di legno massiccio, sa anche trasformarsi in teatro e, grazie alla sua struttura acusticamente perfetta, ideata da un genio nostro paesano, è anche un’ottima sala di ascolto dove le dolci note musicali dei concer-ti possono compiacere il nostro udito. Questa cosa è piaciuta molto a tutti noi, soprattutto al vecchio Monsi-gnore che ha riscoperto il piacere per l’arte, abbandonata anni fa per i voti. Ha così raccolto giovani e non più giovani e li ha istruiti, per farli diventare attori o musici. Non lo credevo capace di tanto amore per l’arte, soprattutto dopo la sfuriata avuta con il sindaco anni fa; invece mi devo ricredere: ha riscattato in pieno la sua persona. Rimboccatosi le maniche, colto forse da una nuova sfida contro se stesso, si è recato personalmente in tutte le biblioteche ecclesiastiche e private per scovare opere ormai dimenticate su qualche scaffale e riportarle alla luce e ha poi rielaborato quelle più famose, per dare un piacere sempre nuovo a noi tutti. Un modo come un altro per avvicinare sempre più persone alla chiesa. Cutty... Aaah, la luce. Ancora la luce. Il dolore. La sofferenza. Al mio risveglio ero di nuovo perso in un mondo che non mi apparte-neva e che non mi voleva come figlio. Perché, perché, perché?

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Semplicemente Jo Bang! Uno sparo, è stato il mio primo pensiero. Ma no, imbecille che non sono altro! Ho rischiato un vero infarto dallo spavento per una banalità: la marmitta della due cavalli si è fatta senti-re, come ogni volta che sbaglio marcia. Oggi però è stata provvidenziale. Tempestiva come Anya, mi ha risve-gliato dal mio torpore giusto in tempo per ricordarmi di girare alla mia sinistra. La strada che porta al Santarello, il bar di Jo, vicino alla catte-drale, dove lei mi aspetta con la colazione. In effetti, adesso che ci penso, non so se è stato il rumore della marmitta o un verso della mia pancia: ho una fame che mangerei anche il tavolo. D’altronde, con tutte le energie che ho speso ieri notte... Pavone da monta che non sono altro. Una curva, manca solo una curva, poi potrò riempire il vuoto del mio stomaco. Ah, già! Quasi mi scordavo di far finta di non conoscerla. Altroché smemorello, adesso gliela faccio pagare. Speriamo solo che mi serva la colazione lo stesso. Nel parcheggiare, la intravedo dalle vetrine mentre sta servendo o, meglio, riconosco il grembiule giamaicano gremito di colori che la rappresenta. Non la vedo in viso, però noto che oggi ha raccolto i capelli in due code laterali, stile Pocahontas. Ogni volta che è stata bene con me, ogni volta che i nostri corpi si sono uniti in uno unico, ogni volta che... Ogni volta che è stata... Si fa quelle code sbarazzine, che mi rincretiniscono. È troppo bella. Ancora sono indeciso se schioccarle un grosso bacio sulla bocca o provare con il mio dispetto. La mia farsa richiede cinque minuti o forse anche meno. Ieri sono stato troppo bene e ho troppa voglia di baciarla... Però devo essere forte. Ma non ce la faccio! No, forte. Ad accogliermi, c’è una sua smorfia con la lingua di fuori, con quello strano luccichio di quella adorabile sferetta del piercing. «Ciao, smemo.» “Ciao, piccola!” le vorrei dire, ma come faccio? È troppo bella! I pensieri non sono coerenti con la naturalezza delle parole e mi esce un distaccato: «Buongiorno, signorina, vorrei fare colazione.» Non è poi così difficile! «Prego, si accomodi pure a quel tavolo.» risponde lei in tono ancor più freddo.

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Ha vinto ancora lei! Ha capito il mio gioco e si diverte anche. Stronzet-ta! Come fa? Le donne sono delle streghe scacciate da stregolandia per ammaliare noi uomini. Già. «Signore, mi scusi, non ho tutta la mattina. Ci sono altri clienti che aspettano.» Vabbè, il gioco non è riuscito, non per me, almeno... però non è ancora detta l’ultima: qualche trucco nascosto in una tasca a doppio fondo come un prestigiatore lo conosco pure io. «Signorina mi scusi, penso di aver deciso. Vorrei un croissant ripieno di tanto amore con una spolverata di coccole, un cappuccio ai sorrisi, niente zucchero, ma miele al bacio d’ape sulla bocca... Cosa più impor-tante è che non c’è fretta, questa colazione va assaporata a fondo.» Capisco di aver colto nel segno e, dopo un attimo di silenzio, ecco il mio premio: un tenero ma intrigante bacio sulla bocca e un piccolo morso sulle labbra in segno di affetto. Inutile, le donne saranno anche streghe, ma sono sempre donne e non sanno resistere alle tre C: coccole, cioccolata, caldo. Ci sarebbe poi la quarta C, ma lasciamo perdere. Adesso siamo uno pari. Intanto che mi perdo nei pensieri, atroci tormenti mi attorcigliano lo stomaco: è l’ora della pappa. Comincio davvero a pensare che Jo riesca a fare magie. Riesce sempre a stupirmi. Giusto il tempo del bacio, ed ecco che il mio olfatto è stuz-zicato dal soave profumo di un croissant alla marmellata appena sforna-to. Anlyse, la studentessa dagli occhi profondi e neri come la pece che aiuta Jo come cameriera, appare alle mie spalle e con lei la mia cola-zione: cappuccio, brioche con confettura di arance e spremuta di agru-mi. Viziato. Non sono stupito tanto dal fatto che Joel ci ha preso in pieno con le cose che avrei ordinato per colazione, giacché conosce i miei gusti anche meglio di me, quanto dalla tempistica con cui è arrivata la cola-zione stessa. Incredibile, ha calcolato anche il mio ritardo. Le donne, che mondo affascinante. L’unico sfortunato è stato il primo uomo: Adamo. La sua donna si è venduta non per pellicce o per un yacht ma per una mela, poveraccio! Ma ahimè, il tempo è tiranno. È già ora di cominciare a dedicarmi al mio lavoro alla biblioteca. Gigetto, non potrebbero bastarmi tre vite per ringraziarti di tutto quello che fai e che hai fatto per me.

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È giunta l’ora di andarmene. Ancora una volta il buon vecchio Einstein aveva ragione con la sua teoria della relatività. Lui la spiegava così: «Provate a immaginare di tenere il palmo della mano per dieci minuti su una stufa accesa. Questi dieci minuti vi sembreranno un’abominevole eternità, il tempo sarà fermo e la vostra tortura non avrà mai fine... Immaginate ora di essere usciti con la vostra ragazza e di scambiarvi un bacio passionale lungo dieci minuti: trascorreranno fin troppo in fretta e vi sembreranno pochi secondi.» In altre parole, quando ti diverti, il tempo fugge via come la criniera di seta di un unicorno in una brezza mattutina. Quando invece ti annoi, il tempo è fermo. Uff! Sarà tutta colpa di Einstein? Anche del mio ritar-do? Il malconcio motorino di avviamento della due cavalli sta aggravando il mio ritardo, quand’ecco che dalla porta del Santerello una sferzata di colori mi abbaglia e, chiaramente, il grembiule è seguito da Jo. Che cosa avevo dimenticato, ancora? Escluso tutta la mia vita, naturalmen-te! Nulla, questa volta, per fortuna. Sarei stato lo zimbello di Joel per tutto il giorno. La mia fata-strega mi ha fatto presente di non prendere impegni per giovedì sera, perché Gigetto è lieto di averci come graditi ospiti, per una delle sue superbe cene. Come adoro i momenti che quel piccolo ometto ci regala! Come adoro le sue cene! Di Jo mi piace tutto, tutto quello che vedo, che sento, che respiro, di lei mi piace tutto. Ha una personalità molto forte e agli occhi di un estra-neo può risultare superba e antipatica, come del resto è capitato a me quando l’ho conosciuta, ma Jo attacca per difendersi... In realtà è la persona più dolce che io conosca. Mi piace quel suo modo arrogante di camminare, mi piace quanto sa essere bastarda e altrettanto dolce al momento giusto, a volte tanto ingenua da sembrare una bambina. Potrebbe essere, tanto per rendere l’idea, una versione grezza di Cappuccetto Rosso: una bambina spersa in un bosco che con la sua mantellina rossa affronta il lupo o il caccia-tore guardone, solo per andare dalla nonnina e, in cambio di amore e coccole, ricevere da essa una mancetta per uscire il sabato sera con le amiche e andare a ballare nella discoteca Cappuccetto Rosso e lì pren-dersi una sbronza. Se Jo fosse questa fiaba, probabilmente sarebbe stata raccontata così.

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Di Jo o Avril, come la chiamo io delle volte per prenderla in giro, riferendomi a quella strafottuta somiglianza con Avril Lavigne, la cantante canadese, si potrebbe parlare per ore senza esserne mai stan-chi. Poeti, bardi e pittori d’altri tempi troverebbero in lei una musa ispiratri-ce degna delle migliori opere. Occhi innamorati. La somiglianza tra lei e la cantante è incredibile. Non sono belle da provocare invidia ma il loro fascino è trasgressivamente dolce e rappresentano quello che si può definire un tipo. Sono entrambe molto belle: viso fine, labbra sottili ma carnose, capelli di seta tra il biondo cenere e il ramato, lunghi fino alla vita con quella punta alleggerita dai chirurghi del capello nella parte diretta verso il sedere che armonizza il corpo e tende a divenire boccolo nelle giornate umide. Negli occhi la somiglianza sfuma un po’: azzurro-grigio per Avril, verde chiaro per Jo. Limpidi come un ruscello di montagna, sono un faro su un viso affusolato e sveglio. Il tutto è esaltato da efelidi sul naso, dritto e ben definito di Jo. Altra piccola sfumatura tra le due. Lentiggini che riflettono tutto il loro splendore con le belle giornate di sole, tanto quanto le stelle del firmamento risplendono nelle calde nottate estive. Gli occhi di Jo comunicano altro: sofferenza, tanta sofferenza. Gli occhi di Jo sfidano tutto il mondo e ne hanno paura allo stesso tempo. Attac-cano per difendere la proprietaria e a volte sono tristi. Dall’aspetto, potrebbe sembrare una metallara e sicuramente i tre piercing su lingua, sopracciglio e ombelico con il tribale celtico tra le reni non ne danno un’idea differente. Penso che la gente rimarrebbe alquanto stranita nel sapere che oltre al rock e al pop, Jo adora la musi-ca classica. Non quella pallosa e monotona ma quella vigorosa e forte, quella che riesce comunque a comunicare sensazioni: la settima di Beethoven potrebbe essere un ottimo esempio! Jo è il mio angelo.

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Per gli amici... Gigetto Anche se siamo in autunno, il sole entra caldo nell’abitacolo della macchina. Dinanzi al mio parabrezza due ragazzini giocano a rincorrer-si nel piazzale di Cutty. Ho fatto mio questo nomignolo, ormai. Altri, poco più grandi, fanno acrobazie degne di circensi con lo skate. Il mondo va avanti come sempre. L’ingresso del parcheggio della biblioteca è alla mia destra. Solo qual-che minuto dopo le nove... Non sono poi così in ritardo! L’orario al pubblico inizia alle nove e trenta, meno male. A rendere omaggio al mio ingresso trovo il sorriso di Gigetto, intento nel suo hobby preferito: coltivare rose. Le sue rose sono da sempre le più belle e longeve di tutta la zona e questo crea non poche invidie in quelle perpetue zitelle, assidue frequentatrici di tre messe al giorno. Secondo loro, il suo modo di coltivarle è un segreto da svelare, anche se lui mi ha confessato che non esiste nessuna alchimia, tranne forse parlare con i fiori. E io gli credo: Gigetto è un cantastorie eccezionale... Se tutti i giorni riesce a ipnotizzare fino a trecento persone con le sue storie della cattedrale, perché non dovrebbe riuscirci anche con le rose? «Buongiorno, Smemorello!» mi fa con un sorriso che sa d’ironico. Cara Jo, questa me la paghi! «Zac, mi ha chiamato Frollo. Passa di qua verso le undici. Ci vuole vedere entrambi.» «Ci sarò, mio generale. Tanto oggi non devo andare in nessuna cantina o solaio abbandonato a recuperare libri. Oggi ho l’inventario di quelli che abbiamo recuperato il mese scorso. Jo mi ha detto di giovedì, cosa ci prepari di buono?» Anche la cucina di Gigetto è straordinaria. Non sono ancora riuscito a beccarlo ma ho il dubbio che riesca a incantare anche il cibo, con le parole. «Non so, pensavo a qualcosa con i semi di soia, i fiori di zucca e della pasta fresca... Ma ancora è presto, seguirò l’ispirazione del momento.» Che persona straordinaria! Chi potrebbe dire che, in un suo ormai dimenticato passato, l’hobby di Luigi Brendoni, in arte e per gli amici Gigetto, sia stato le donne. Chissà se anche allora coltivava rose? Magari le coltivava per far cadere le donne ai suoi piedi. La curiosità è

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la mia debolezza più grande. Curiosity Killed the Cat2. Mai nome fu più azzeccato. Penso che un giorno glielo chiederò. Immagino le donne riversarsi su di lui come sciami di api sul miele d’acacia, vuoi per il carisma o per il suo modo intrigante di parlare e, sopra ogni cosa, grazie a quei due pezzi d’iceberg illuminati da un’aurora boreale che si ritrova al posto degli occhi. Latin lover. Almeno fino a quando l’amore non ha avuto il sopravvento su di lui. La volta in cui me ne ha parlato è stata l’unica volta che ho visto il color ghiaccio dei suoi occhi incupirsi come il cielo prima di una tem-pesta. Quel giorno fu come se il ghiaccio si fosse sciolto e l’acqua formatasi avesse formato delle lacrime. Gigetto, sempre sorridente, quel giorno, nel raccontarmi di Erica, aveva pianto. Erica Morriconi. Quella Erica che adesso è solo un nome inciso su una lapide ornata di rose, rose stupende, nel cimitero retrostante la chiesa. L’unica persona al mondo capace di far perdere la parola a un oratore come Gigetto. Mi ha sempre raccontato di aver balbettato dinanzi al suo cospetto, non solo al loro primo incontro, ma per tutto il mese successi-vo. Anni prima, l’incontro casuale in una balera; lei, bellissima con quel vestito fottutamente sfrontato per quei tempi e i capelli neri corvino sulle spalle scoperte, corteggiatissima e imprendibile; lui alle prese nell’altra sala con l’una o l’altra, corteggiatissimo e alquanto disponibi-le. Poi uno sguardo, una bibita, un non so che e il suo cuore era già perso, non nella scollatura del vestito, come suo solito, ma nella donna della sua vita... Avrebbe potuto avere chiunque ma lui voleva Erica... Il suo nome era l’unica concessione che le aveva strappato in due ore passate sul terraz-zo e tra balli sfrenati. Inutile: il suo fascino era ridotto ai minimi termini quando stava con lei. Erica era impenetrabile! Dopo due mesi d’inviti a cena andati male, il destino aveva voluto che lei si trovasse a passare in un vicolo in compagnia di una sua amica. Lo stesso vicolo in cui due ragazzi si stavano picchiando. Il primo era

2 Curiosity killed the cat: “La curiosità ha ucciso il gatto”, gruppo musicale degli anni

’80.

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Luigi, l’altro uno scansafatiche. Luigi stava difendendo un randagio dalle botte inutili del ragazzo di strada. La sera stessa il primo bacio tra i due. Un primo bacio molto doloroso, ricorda Gigetto, perché il suo labbro superiore era spaccato dalle botte prese. Da lì e per i successivi quarant’anni, una vita piena d’amore. L’amore dà e l’amore toglie. La bellezza, insieme alla vita di lei, è sfiorita come una rosa aggredita da un parassita, da una malattia che le ha straziato le carni dall’interno. Nonostante il tumore lavorasse, divorandola, aveva preferito passare gli ultimi sei mesi di vita in giro per il mondo con Gigetto, piuttosto che lasciarsi morire in una fredda stanza d’ospedale. Il sorriso e la voglia di vivere non l’avevano mai abbandonata e, nel loro vagabondare, avevano raccolto i semi di tutte le specie di rose che il loro cammino aveva offerto. Così, per Gigi ogni nuovo bocciolo che nasce è come se riportasse in vita il sorriso di Erica. La biblioteca Sto per varcare la soglia del mio luogo preferito: la biblioteca. La mia biblioteca. Eccomi ancora una volta dinanzi a questa porta d’ingresso secondaria che io chiamo affettuosamente David, rifacendomi al mito di Davide e Golia. Golia naturalmente è la biblioteca. È una cosa così strana, come se i due nemici leggendari tutto a un tratto fossero diventati amici e quello più piccolo, che in teoria è quello più debole, ma che come sappiamo è stato il più furbo, proteggesse dietro alle sue minute spalle il gigante. Quante mani avranno aperto questa porta? Questa piccola porta in noce finemente intarsiata, restaurata e ormai blindata che, in un tempo passa-to, era l’ingresso di una vecchia casa. Circa centoquarant’anni or sono, secondo quello che dice Gigetto, proprio sulle ceneri di quella casetta, è sorta questa biblioteca esattamente come un’Araba Fenice.

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Come per tutte le cose del creato ha avuto una sua evoluzione. È cre-sciuta esattamente come un bambino che, appena nato, si muove in braccio ai genitori. Centoquarant’anni sono un’età relativamente giovane per una bibliote-ca, ma il periodo è riferito solo alla nuova costruzione. Prima ancora, i libri erano conservati nei vecchi sotterranei, i cui muri erano stati isolati con lana di pecora coperta da perline di legno. Con il passare del tempo però la lana veniva meno al suo compito d’isolante e laddove il legno marciva i topi facevano il nido: topi e umidità non sono il massimo del confort per i libri. I facoltosi di allora decisero così di regalare loro una nuova sede. Per non rovinare l’estetica della catte-drale fu aggiunta alla struttura a croce, tipica delle chiese cristiane, un semicerchio nella parte posteriore, nell’incrocio dei due assi perpendi-colari. Il semicerchio si innalza per tre piani in aria e per due piani nel sotto-suolo, dove i muri, in tempi più recenti, sono stati completamente isolati da tutti i fattori distruttivi per la carta. Le due mezze lune sono unite tra loro per tre corridoi paralleli passanti dai sotterranei. Accultu-rato! Gialli, verdi, rossi, preziosi, alternativi, vecchi, New Age... I libri! L’odore acre che sa di legno selvatico! La conoscenza! Adoro i libri. Quando tutto intorno a me era vuoto, a parte quella sago-ma di Gigi, loro mi sono stati fratelli. Loro mi hanno spiegato, loro mi hanno insegnato e a volte scoraggiato. Loro sono tutto quello che conosco nel mondo. Il mio mondo naturalmente, in cui ovunque ti giri tutto ti è sconosciuto. Tutti siamo stati stranieri nella vita, prima o poi. Tutto da scoprire: gente, abitudini, atteggiamenti da modificare, la lingua diversa. Ecco, la mia situazione, a quel tempo, era simile all’essere straniero ma con una piccola differenza: intorno a me conoscevo solo la lingua, tutto il resto era un susseguirsi di fagioli e cotiche. In questa mia nuova vita ho letto tanto e di tutto. Sono velocissimo e, fatto ancor più strano, tutto quello che leggo rimane impresso a caratteri indelebili nella mia mente, in cui i miei ricordi, andati, hanno lasciato spazio per trattenere altre nozioni. Quando i miei ricordi hanno preso il traghetto, guidato da Caronte e con esso sono morti definitivamente, la mia mente sembra aver acquisito

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doti speciali. Sembra la solita tiritera sul paranormale, eppure credo di aver amato i libri ancor prima di nascere dal grembo materno. Già! Il grembo materno! Gli unici ricordi che fanno eco nella mia mente, cosa di cui non parlerò mai a nessuno, risalgono a un posto caldo e confortevole, in cui tutto è pace, e a una voce, la voce più bella di tutto il mio mondo. La voce che ogni sera mi leggeva una favola... E questo quando ancora non ero nato. La voce dell’amore materno, della mia mamma... Ho pensato molte volte a questa situazione che rasenta il limite della schizofrenia, giungendo sempre alla stessa spiegazione che il cervello mi indica come la più razionale. Una teoria afferma che un uomo potrebbe impazzire se alla nascita non abbandonasse insieme al cordone ombelicale anche i ricordi della vita precedente al parto. Ed è proprio per volere divino che al momento della nascita questi sono cancellati dalla memoria. In me credo sia avvenuta una cosa inversa o, meglio, credo che al momento della dipartita dei miei ricordi di uomo, mi siano ricomparsi quelli della gestazione. Ancora una volta mi trovo a divagare nei miei pensieri. Il lavoro nobilita l’uomo ma lo rende simile alle bestie. Nel mio caso il lavoro mi ha fatto uomo. Che dire, mi piacciono i libri. Come non potrebbe piacermi il lavoro legato a loro? Leggo, accatasto, catalogo, vado a scovarne di nuovi, come un pirata che accumula tesori inestimabili. A volte rendo loro il favore che mi hanno concesso, ridandogli una nuova vita esattamente come loro hanno fatto con me. E, ancora una volta, devo ringraziare il mio amico Gigetto per il lavoro che mi ha assegnato, ma questa è un’altra storia. Gigi è il custode della cattedrale, anche se custode è un termine troppo restrittivo. Gigetto infatti è il cuore della cattedrale stessa. Mi ha dato questo lavoro, con tutte le libertà e responsabilità che ne derivano e legate a esso. Ci sono a volte situazioni particolari; Frollo è una di queste. La piacevole distrazione da una routine.

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ARTURO FROLLINI, FROLLO Nonostante il profondo amore che provo per questo lavoro, non mi identifico con un topo di biblioteca, anche se, come un piccolo topolino di campagna, rosicchio pagine su pagine. Eppure, ogni tanto evado e mi butto nella mischia. Frollo ne è l’esempio evidente. Attenzione però a non nominare quel nomignolo in sua presenza: questo soprannome è una cosa tra me e Gigetto, ufficialmente all’anagrafe è Arturo Frollini. Arty per gli amici. Stamani verrà a farci visita e sebbene Arty sia una persona molto pia-cevole, la sua non sarà una visita di piacere... Posso immaginare la scena che si svolgerà al suo arrivo. Ora sono le 10:28. Tra le 10:45 e 10:50, in base alla durata della prima visita guidata, Gigetto farà il suo ingresso in questa stanza, che dicono essere il mio studio e che per me rimane un sottoscala. Con sé avrà, amico inseparabile, il suo sorriso. Si avvicinerà a me e, con fare sornio-ne, mi farà mille raccomandazioni sul non farmi scappare il sopranno-me. Gigi è il mio miglior amico ma è anche amico di vecchia data di Froll... ops! Arty. All’approssimarsi delle 11, ecco il nostro amico comune entrare in scena dalla porta principale, costituita da un’enorme vetrata che fa da cornice alla recentissima discesa per invalidi e alla sua compagna: la signora scala di granito, una signora attempata ma molto bella nono-stante l’età. Al di là della vetrata, spegnerà la sigaretta nel posacenere, si scollerà i residui di cenere di dosso, poi le porte automatiche si apriranno e voilà, ecco un ispettore in abiti da scrittore di gialli, cioè con giacca in tweed e dolcevita bianca a costine. Ma non avrà caldo? Ci siamo sempre chiesti. Arty è un ispettore, la cui pensione slitta di anno in anno da ormai nove anni e questa volta non per volere dello stato tiranno, ma per volontà sua. È un uomo troppo ligio al dovere e troppo capace di fare il suo lavoro per abbandonarlo così presto. Un uomo tanto abile e sveglio nei panni di investigatore, quanto inge-nuo e un po’... Frollo in tanti altri momenti... Alzerà la sua mano destra in segno di saluto, un po’ a mo’ del fascismo italiano negli anni della guerra, citerà a memoria un detto, un aneddoto o una frase storica e, così facendo, inciamperà nel tappeto o urterà qualche oggetto.

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Potrei sbagliare su qualche dettaglio, tipo il colore della dolcevita o il fatto che inciamperà. Non sempre capita. Ma per tutto il resto, posso anche scommettere una birra con me stesso. Anzi, scommessa fatta! Mi piace giocare anche con me stesso, oltre che parlarmi... Mi sa che la pazzia galoppa. Eh, eh, me le faccio e me le rido da solo! Ma non bisogna sottovalutare Frollo. È un artista nell’immaginare l’impossibile e nel decifrare l’ignoto. Il suo campo: omicidi, anche se, fortunatamente, qui non siamo in America e il tasso di Serial Killer è molto basso. Truffe, raggiri e tutto quello con cui avevano a che fare Starsky e Hutch nella serie televisiva, insomma di tutto un po’ e niente in particolare. Frollo, in altre parole, con la sua stempiatura pronunciata, con i suoi capelli grigi ma che ancora sanno dare qualche sfumatura di un castano scuro, con quel suo fisico ancora asciutto ma arrotondato leggermente nel girovita e con quel suo baffo curato è, a tutti gli effetti, il Baffetto della legge della nostra città, anche se, in molti casi, la sua astuzia è stata richiesta in altri luoghi. Colui che vigila, colui a cui nulla sfugge, tranne il tappeto d’ingresso naturalmente! Una persona che conosce i limiti di un’istruzione ormai datata, che però è in grado di superarli con la lettura; una persona quindi che sa dimo-strarsi umile e chiedere l’aiuto di chi, magari, ne sa più di lui. Credo che il motivo della sua visita oggi sia proprio dovuto a qualche punto di non ritorno, riguardante un’indagine in corso. Ore 10:48... Ed eccola, puntuale come un orologio svizzero, una mano che, innal-zandosi al cielo, accompagna sulla porta d’ingresso un dolcevita color mogano. «Ehilà signori! Buongiorno a voi! Ma lo sapete che se incontrate un musulmano potete scoprire delle cose importanti dalla sua stretta di mano?» «Ciao Arty, vieni accomodati... dicevi della mano?» «Vedi Luigi, me l’ha insegnato un ragazzo marocchino stamattina. Quando stringi la mano a un musulmano, fai caso a dove porta la sua: se la porta al cuore, porta anche rispetto per te, se invece questo non avviene, significa che il musulmano in questione non ti ritiene degno... in altre parole, gli fai dispiacere e il tuo saluto viene buttato via...

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Meditate, medit... ahi ...ate. Ops! Scusate, stavo per vedere da vicino il pavimento, prima o poi dovete cambiare questo tappeto, fa difetto in un punto...» Sento già il fresco della birra scendermi in gola...Eh, eh! Frollo, Frollo! Buon vecchio Frollo! Il nostro incontro è stato casuale. In quella settimana Gigetto era da qualche parte nella contea a disputare una gara di rose. Io ero qui da pochi mesi ma ero già ambientato, come se questo posto fosse mio da sempre. Ho conosciuto il signor Frollini nei tre giorni successivi alla partenza di Luigi. Dopo essere entrato, mi aveva presentato regolarmente la sua tessera particolare della biblioteca, una sorta di tessera VIP che gli conferiva un potere di lettura diverso da ogni altro comune lettore. Nel caso specifico consentiva al signor Arturo Frollini di poter visionare, sotto controllo del personale specializzato, quasi tutti i libri della biblio-teca, fatta naturalmente eccezione per quelli molto rari tipo la Bibbia, testi tra l’altro inaccessibili a chiunque, tranne che a persone molto particolari come il Papa in persona e a me naturalmente. Eh, eh! In quei giorni ho avuto molto tempo per osservarlo. Lo vedevo muover-si tra gli scaffali con una notevole disinvoltura. Eccolo, di tanto in tanto, sbucare dalla sala di medicina per poi sparire nuovamente in altre sale... ora in quella di botanica, ora in numismatica, collezioni, strego-neria... Il fatto che sapesse muoversi con un notevole agio in questi enormi androni mi dava da intendere che era di casa, in questa bibliote-ca. Osservavo la sua metodologia: dopo aver trovato qualcosa d’interessante, lo appuntava, con una sorta di segni indecifrabili, sul suo inseparabile taccuino. Ricordo che in quei giorni non una fotocopia è uscita dalla mia fotocopiatrice per la sua ricerca. Scriveva, annotava, si fermava a riflettere e a fissare immagini anche per delle mezz’ore, ma mai una fotocopia. Alla fine della giornata, era solito compiere un piccolo rito: dopo aver portato a termine il suo lavoro da certosino, portava il pollice e l’indice destro in corrispondenza del punto d’incontro degli occhi con il naso, poco sopra le ghiandole lacrimali, seguiva un sospiro profondo e inizia-va a meditare.

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L’idea che mi dava era quella di una macchina fotografica che, per memorizzare l’immagine sulla pellicola, apre il suo obiettivo e lascia che la luce modifichi le sostanze acide del rullino. Frollo in quel momento era una macchina fotografica che immagazzi-nava dati, per poi rielaborarli al momento giusto. A volte mi chiedeva di seguirlo in talune zone, diciamo proibite ai più ma non lasciava mai trasparire nulla di quello che cercava. Una persona molto discreta. Solo un piccolo dettaglio mi ha fatto veramente capire chi fosse in realtà Arturo. Ogni giorno, dopo la sua normale routine e dopo l’attimo fotografico di riflessione, Frollo spendeva ancora qualche minuto della sua giornata, lunga come la fame, per leggere gli articoli delle prime pagine dei quotidiani. D’altro canto, come ho poi saputo, a casa, a parte un adorabile persiano grigio di nome Dory e qualche piatto pronto da scaldare in cinque minuti, ad attenderlo non c’era nessuno. A quel tempo, le testate dei giornali erano interamente dedicate al recente rapimento di Andrew Minelli, il figlio dodicenne di un pezzo da novanta americano, Ambasciatore o Console di non so cosa. I rapitori non avevano ancora rivendicato il fatto in nessun modo e tanto meno avevano parlato di riscatto. L’Ambasciatore o Vattelappesca che fosse, aveva smobilitato un intero esercito alla ricerca del pargolo. Ogni persona, dal vigile urbano al lottatore di sumo, era stata attivata. Il cavallo di Troia Le prime pagine di tutti i giornali, fino a qualche ora prima, avevano riportato come notizia stratosferica l’imminente mostra di numismatica, che aveva come protagonista un francobollo molto raro la cui effige, che rappresentava la Regina Elisabetta d’Inghilterra, era stata impressa al negativo. Questa cosa era capitata a un numero di francobolli che si poteva contare, in origine, sulle dita di cinque palmi di mano. Dopo la grande guerra però, il numero si era di molto assottigliato e una sola mano era sufficiente a contare i superstiti.

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Ora quelle stesse pagine mostravano con molta disinvoltura il ragazzi-no-rampollo in mille posizioni differenti. Nelle foto più piccole, poste a lato, risaltava il volto della tata tumefatto dalle botte ricevute durante il rapimento. La mostra aveva lasciato, non molto volentieri, il posto al rapimento, cosa facilitata sicuramente dalla sfiziosa ricompensa di 100.000 dollari americani, promessa a chi avesse fornito un qualsiasi indizio utile al ritrovamento. Qui entrava in gioco il commissario Frollini, ma ai tempi per me era il Baffetto. Ho saputo il vero nome in seguito, da Gigetto. La pressione su quest’uomo doveva aver raggiunto il massimo della forza, tanto quanto portarsi a spasso un rinoceronte incazzato sulle spalle. “C’è chi dice no, io sono un uomo.” cantava Vasco Rossi in una canzone: anche Frollini era, ed è tuttora, l’unico uomo capace, grazie al suo intuito, di trovare Andrew. Eppure, anche un uomo in gamba come lui, ogni tanto, non sa dove sbattere la testa. Il nulla circondava il povero Frollo. Un nulla che, di giorno in giorno, assumeva sempre più peso: nessun indizio, nemmeno uno straccio di prova. Il tutto si era svolto in un parco mentre il bambino giocava, accompagnato dalla sua tata, al servizio da Minelli da un anno. I rapito-ri erano arrivati, avevano tirato qualche ceffone ben assestato alla donna e si erano presi Andrew. Il classico vicolo cieco e Frollini era immerso in un letamaio fino al collo. Forse, quella volta, gli abbiamo fatto un grosso favore. Gigetto, reduce da una nuova vittoria fiorita, era di ritorno dal posto che lo aveva tenuto lontano dal misfatto, ma pur sempre al corrente degli avvenimenti. La sera del rientro aveva appuntamento con Arturo e, fortuna o no, sta di fatto che all’incontro ero stato invitato pure io. Dopo essere stato presentato come una persona di estrema fiducia, grazie Gigetto!, il commissario ci ha raccontato tutta la storia, con tutte le sfumature nascoste ai media. Luigi, che di fatto è un buon oratore, ma anche un grande ascoltatore, dopo qualche riflessione era saltato su con un: «E... se fosse solo una copertura?» Silenzio e facce attonite. «Un cavallo di troia!» avevo risposto io. L’idea non era male, ma cosa volevano coprire i rapitori? Cosa? Volevano! Coprire?

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Un furto? Di cosa? Qualcosa di importante? No, non importante ma costoso e facilmente rivendibile senza lasciare traccia, visto il casino che si era creato. Un quadro? Un’opera d’arte? Ma certo! Un’opera d’arte in miniatura! Come un francobollo! Tutto quello che leggo assimilo, per mia fortuna. Un francobollo raro a una mostra, un reperto facilmente smerciabile a un collezionista che avrebbe pagato bene per poi farlo scomparire in qualche casa privata. Molto astuto! Una falsa pista per dare, in qualche modo, qualcos’altro da fare alle forze dell’ordine. La cosa poteva anche reggere e il gioco aveva preso una forma: era quello di un abile prestigiatore che, mentre parla, gesticola molto con la mano sinistra, così l’interlocutore è distrat-to dalla mano destra con cui compie il malfatto... e voilà, il trucco è fatto. Il buon Frollo aveva così deciso di provarci. Alla fine non aveva nulla da perdere, tanto due persone in più o in meno non potevano fare la differenza nella ricerca del rampollo... La mostra sarebbe stata la sera stessa e due o tre agenti particolari vi avrebbero partecipato. Il doppio cavallo di Troia Un doppio cavallo di Troia era in agguato. Grazie al potere conferitogli dallo Stato, Arturo era riuscito a infiltrare tre teste di cuoio all’interno del museo, dove si sarebbe svolta la mo-stra: poliziotti in borghese, con il particolare che avrebbero indossato dei veri travestimenti. L’idea era stata di Frollo: statue, vere e proprie statue come quelle che si vedono alla Rambla di Barcellona; persone, cioè, che si sarebbero finte statue. Il buio della notte avrebbe fatto il resto. Inutile creare la suspense in un finale ormai certo: i rapitori-ladri erano stati catturati e, sotto un torchio da Gestapo, avevano confessato. An-drew era tornato in libertà il giorno seguente, grazie agli agenti speciali. Era stato trattato come un Principe!

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Si è poi scoperto che la tata era l’amante di uno dei ladri ma la cosa più sorprendente è saltata fuori sei mesi dopo l’arresto della banda: colui che aveva ideato il piano, il compratore, altri non era che il direttore del museo. A lavoro ultimato, avrebbe avuto il francobollo e, visto la sua alta carica con il relativo accesso al conto del museo, avrebbe truffato anche l’assicurazione. Encomi, premi ed elogi si sono sprecati per Arturo Frollini. Ufficialmente la ricompensa non gli è stata consegnata, in quanto rappresentate delle forze dell’ordine. In realtà, Frollo ha ricevuto un contante pari a 100.000 dollari, cinquanta dei quali sono stati devoluti a favore dei bambini poveri dell’Africa, quaranta sono andati su un fondo pensionistico e i restanti dieci sono stati devoluti alla biblioteca, al fine di migliorare i servizi offerti. Una bella storia, un bel cuore, un bel gesto... tutto questo è Arturo Frollini, in arte -ma non ditelo a nessuno!- Frollo. Lo stesso Frollo che, secoli prima, era intervenuto in una rissa di strada tra Gigetto e un tizio che stava maltrattando un cane... un comune agente di polizia dal cuore d’oro, divenuto poi un insuperabile commis-sario di polizia...

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Capitolo 3 Giovedì ore 7:29 Morfeo mi chiama, vuole giocare con me ancora per quei venti minuti che mi restano prima di alzarmi... Anche se non potrei... Non posso, sono sveglio adesso, mi faccio una bella doccia tonific... «Ciao Morfeo, vieni che ti lancio la palla, dai, come prima.» Inutile dire che, anche stamattina, sarei arrivato tardi... uff! In questi tre giorni sono successe un sacco di cose, tra queste: siamo partiti con Frollo che aveva in corso una nuova indagine perché una ragazza era sparita da casa per più di 48; il gran premio di formula uno a Montecarlo è stato sospeso per scorrettezze; io e Jo siamo andati al cinema; dopo il film siamo entrati di soppiatto nel parco di notte per farci bagnare dagli spruzzi dell’impianto d’irrigazione e, tra le risate, abbiamo parlato di nuovo di spostarci in un unico appartamento; Giget-to si è preso una raucedine che gli ha impedito di parlare per un giorno e, visto che non poteva lavorare come cicerone, le sue rose ne hanno tratto un enorme profitto: ha lucidato le foglie delle piante una a una. Pazzo da legare! Cose così! Tutte cose senza troppo senso, ma così belle, così normali e proprio così belle perché normali. Ieri la ragazza scomparsa di Frollo è rientrata a casa. È ricomparsa così com’era sparita, esattamente come fa un illusionista, stavolta senza applausi. O meglio tutti sperano che, a quindici anni compiuti, le siano arrivati tanti applausi sul sedere. Eh sì, perché questa tipina è letteral-mente sparita per alcuni giorni. Ha fatto una gita in Italia per vedere un concerto insieme al suo ragazzo e, visto che ormai erano in tenda soli soletti, hanno deciso di prolungare la loro vacanza di qualche giorno... Siamo stati tutti giovani in fondo... Io, però non me lo ricordo, chissà perché?

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Ad allietare la nostra giornata, con questa buona novella, è stato Frollo che, ieri sul tardi, ci ha fatto visita in biblioteca e ci ha accolti con un: «Mi piacerebbe elemosinare ogni minuto sprecato della vita di ogni persona, ogni minuto passato in fila a una coda davanti a uno sportello, ogni minuto passato così, tanto per passare. Mi piacerebbe recuperare questi minuti e farli miei, così da riuscire a vivere la vita appieno...» Ho riconosciuto questa citazione: era di un uomo molto in vista nell’Ottocento, un uomo così legato alla vita da non volersene staccare. Frollo ha adattato la frase su di sé e io ho fatto finta di apprezzarla come se fosse stata sua; se lo merita, caro ometto. Così, un’altra indagi-ne è andata a buon fine... Credo che la sua pensione slitterà ancora per molto tempo. È troppo in gamba. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA... Se ti diletti a scrivere recensioni, puoi leggere questo e-book gratuitamente con l'iniziativa CORREVOCE. Vai su www.0111edizioni.com e leggi come fare.