Perché il destino di Socrate è un destino tragico · (Platone, Apologia di Socrate) Perché il...

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Antologia socratica Socrate è un tafano “Ché se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale - non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafano. Così appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città; né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque”. (Platone, Apologia di Socrate) Perché il destino di Socrate è un destino tragico “La sua biografia concerne da un lato le vicende della vita privata, dall’altro la sua filosofia. Quest’ultima è intrecciata indissolubilmente con la sua vita. Il suo destino fa tutt’uno con i suoi princìpi ed è davvero assai tragico. È tragico non nel senso superficiale della parola, come quando si definisce tragica una qualche disgrazia, ad esempio se uno muore o viene giustiziato; queste sono cose tristi, ma non tragiche; talora si parla di tragico se una disgrazia, la morte violenta, colpisce un uomo dabbene, cosicché egli soffra seppur incolpevole e si consumi un’ingiustizia a suo danno; allo stesso modo, di Socrate si dice che egli sarebbe stato condannato a morte senza colpa e che questo sarebbe tragico. Ma se un individuo soffre senza colpa, questo non è un male razionale. Il male è razionale solo se è il frutto della volontà del soggetto, solo se deriva dalla sua libertà. Solo così il soggetto è libero. Dunque non solo debbono essere giustificati e morali il suo agire ed il suo volere, ed in tal modo dev’essere l’uomo stesso ad avere la colpa delle sue disgrazie, ma anche la forza che opprime il soggetto dev’essere assolutamente giustificata e non va considerata meramente naturale, non dev’esser la forza d’una volontà tirannica; ogni uomo è mortale; è il diritto che la natura esercita su di esso. Se si parla del tragico in senso stretto, debbono esservi forze giustificate sul piano morale da entrambi i lati che entrano in conflitto; ecco perché il destino di Socrate è davvero tragico. Con Socrate diventa evidente e viene rappresentata la tragedia della Grecia intera e non solo la sua personale. Vi sono qui due forze che si fronteggiano. Una è il diritto divino, la morale vissuta, il diritto della patria, la religione: cose tutte che s’identificano con la volontà, con la libertà obiettiva, la moralità, la religiosità, l’essenza caratteristica dell’uomo, che è poi ciò che è in sé e per sé, ciò che è autentico, e l’uomo resta entro quest’unità con la sua essenza e con la sua soggettività. L’altra forza è il diritto, altrettanto divino, della coscienza, il diritto del sapere, della libertà soggettiva; è il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male che si sa come ragione. Nella vita e nella filosofia di Socrate vediamo entrare in contrasto questi due princìpi”. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia) La predizione “Ma a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione, e dire quello che succederà dopo. Io sono ormai su quel limite in cui più facilmente gli uomini fanno predizioni, quando stanno per morire. Io dico, o cittadini che mi avete ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predico. Non più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino a oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Che se pensate, uccidendo uomini, di impedire ad alcuno che vi faccia onta del vostro vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c’è un altro modo, bellissimo e facilissimo, non tagliare altrui la parola, ma piuttosto adoprarsi per essere sempre più virtuosi e migliori. Questo è il mio vaticinio a voi che mi avete condannato; e con voi ho finito”. (Platone, Apologia di Socrate)

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Antologia socratica

Socrate è un tafano “Ché se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale - non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafano. Così appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città; né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque”. (Platone, Apologia di Socrate)

Perché il destino di Socrate è un destino tragico “La sua biografia concerne da un lato le vicende della vita privata, dall’altro la sua filosofia. Quest’ultima è intrecciata indissolubilmente con la sua vita. Il suo destino fa tutt’uno con i suoi princìpi ed è davvero assai tragico. È tragico non nel senso superficiale della parola, come quando si definisce tragica una qualche disgrazia, ad esempio se uno muore o viene giustiziato; queste sono cose tristi, ma non tragiche; talora si parla di tragico se una disgrazia, la morte violenta, colpisce un uomo dabbene, cosicché egli soffra seppur incolpevole e si consumi un’ingiustizia a suo danno; allo stesso modo, di Socrate si dice che egli sarebbe stato condannato a morte senza colpa e che questo sarebbe tragico. Ma se un individuo soffre senza colpa, questo non è un male razionale. Il male è razionale solo se è il frutto della volontà del soggetto, solo se deriva dalla sua libertà. Solo così il soggetto è libero. Dunque non solo debbono essere giustificati e morali il suo agire ed il suo volere, ed in tal modo dev’essere l’uomo stesso ad avere la colpa delle sue disgrazie, ma anche la forza che opprime il soggetto dev’essere assolutamente giustificata e non va considerata meramente naturale, non dev’esser la forza d’una volontà tirannica; ogni uomo è mortale; è il diritto che la natura esercita su di esso. Se si parla del tragico in senso stretto, debbono esservi forze giustificate sul piano morale da entrambi i lati che entrano in conflitto; ecco perché il destino di Socrate è davvero tragico. Con Socrate diventa evidente e viene rappresentata la tragedia della Grecia intera e non solo la sua personale. Vi sono qui due forze che si fronteggiano. Una è il diritto divino, la morale vissuta, il diritto della patria, la religione: cose tutte che s’identificano con la volontà, con la libertà obiettiva, la moralità, la religiosità, l’essenza caratteristica dell’uomo, che è poi ciò che è in sé e per sé, ciò che è autentico, e l’uomo resta entro quest’unità con la sua essenza e con la sua soggettività. L’altra forza è il diritto, altrettanto divino, della coscienza, il diritto del sapere, della libertà soggettiva; è il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male che si sa come ragione. Nella vita e nella filosofia di Socrate vediamo entrare in contrasto questi due princìpi”. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia)

La predizione “Ma a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione, e dire quello che succederà dopo. Io sono ormai su quel limite in cui più facilmente gli uomini fanno predizioni, quando stanno per morire. Io dico, o cittadini che mi avete ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predico. Non più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino a oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Che se pensate, uccidendo uomini, di impedire ad alcuno che vi faccia onta del vostro vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c’è un altro modo, bellissimo e facilissimo, non tagliare altrui la parola, ma piuttosto adoprarsi per essere sempre più virtuosi e migliori. Questo è il mio vaticinio a voi che mi avete condannato; e con voi ho finito”. (Platone, Apologia di Socrate)

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La scelta di morire e le sue vere ragioni “Ma ecco che un giorno io sentii un tizio che leggeva un libro di Anassagora, almeno così mi diceva, dove c’era scritto che esiste una Mente ordinatrice, causa di tutte le cose. Io mi rallegrai al pensiero che ci fosse una Mente, causa di tutto e lo trovai giusto: se è così, pensai, questa Mente ordinatrice, deve effettivamente presiedere all’ordine universale e disporre nel modo migliore possibile ogni cosa. Se uno, dunque, volesse trovare la causa di ciascuna cosa, come essa, cioè, nasca, perisca o esista, costui deve scoprire, di ciascuna cosa, il suo modo migliore di essere, di subire o di fare alcunché. Partendo da questa premessa, io ritenni che un uomo, se avesse voluto indagare su se stesso o sulle altre cose, non avrebbe dovuto far altro che scoprire ciò che è perfetto ed eccellente; questo lo avrebbe necessariamente portato a conoscere anche il pessimo, perché unica è la scienza in proposito. E, così ragionando, io mi rallegravo di aver trovato chi avrebbe potuto insegnarmi, nel modo a me più confacente, le cause di ciò che è, Anassagora, che mi avrebbe detto se la terra è piatta o è rotonda e poi me ne avrebbe spiegato la causa e la necessità, persuadendomi del perché è meglio che sia così; e se avesse affermato che la terra è il centro dell’universo, mi avrebbe certamente anche spiegato perché è meglio che essa stia al centro. Oh, se mi avesse spiegato tutto questo io ero pronto ad abbandonare ogni altra ricerca sulla causalità delle cose. Naturalmente ero disposto a ricevere un simile insegnamento, anche per ciò che riguarda il sole, la luna e gli altri astri, la loro reciproca velocità, le loro orbite, le altre loro vicende e sentirmi dire perché è meglio che ciascuno di essi produca o subisca simili fenomeni. In effetti io non avrei mai pensato che egli, dichiarando che tutte queste cose erano state ordinate da una Mente, poi attribuisse loro una causa diversa da questa, che cioè il meglio per esse è di essere come sono; quindi, ritenevo che egli, dopo aver attribuito a ciascuna di esse e a tutte insieme questa causa, avrebbe chiarito quale fosse il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. Ah, a nessun costo avrei ceduto queste speranze e così, con grande entusiasmo, mi gettai sui suoi libri e li lessi di furia per sapere, il più presto possibile, il meglio o il peggio delle cose. Ah, ma a questa meravigliosa speranza, amico mio, subentrò la delusione, perché, via via che procedevo nella lettura, mi vedevo davanti un uomo che non si serviva affatto della Mente e che a essa non assegnava alcuna causalità nell’ordine delle cose ma indicava come causa, l’aria, l’etere, l’acqua e altri assurdi principi del genere. Mi pareva che egli facesse precisamente come uno che, mentre dice, per esempio, che Socrate, tutto quel che fa, lo fa con la mente, quando poi si tratta di spiegare le cause di ogni mio gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto di ossa e di muscoli e che le ossa sono rigide e hanno le articolazioni che le separano le une dalle altre, mentre i muscoli sono fatti in modo che si possono tendere e allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto racchiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli che si tendono e si allentano, io ho la possibilità di piegare le membra e che, quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate. E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo un sacco di cause simili, la voce, per esempio, l’aria, l’udito e altre del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che, siccome gli ateniesi hanno pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho ritenuto che fosse più opportuno restarmene seduto qui e più giusto subire la pena che essi hanno decretato. Ah, vi assicuro, perdinci, che queste ossa e questi muscoli sarebbero, a quest’ora, già a Megara o in Beozia, sicure che lì sarebbero state certo assai meglio, se io non avessi, invece, ritenuto più giusto e più bello, anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena essa mi avesse inflitto. Chiamare cause tutte queste cose, mi sembra proprio un’assurdità: al massimo uno può dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei fare ciò che voglio, e avrebbe ragione, ma affermare che di tutto ciò che faccio – che è pure il frutto di un mio pensiero –, la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una scelta del meglio, è proprio un voler deformare il senso delle parole. Perché questo, infatti, significa non capire che una cosa è la causa vera e propria e un’altra è la condizione senza la quale la causa non potrà mai essere tale”. (Platone, Fedone).

Il responso dell’oracolo di Delfi

[...] Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che natura, io chiamerò a testimone davanti a voi

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il dio di Delfi. Avete conosciuto certo Cherefonte. Egli fu mio [21 a] compagno fino dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e con voi fu esule nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto a qualunque cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare all’oracolo questa domanda: – ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiate – domandò se c’era nessuno piú sapiente di me. E la Pizia rispose che piú sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto.

Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in questo modo: “Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma? Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch’io sono il piú sapiente degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire”. – E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente, sebbene assai contro voglia, mi misi a farne ricerca, in questo modo. Andai da uno di [c] quelli che hanno fama di essere sapienti; pensando che solamente cosí avrei potuto smentire l’oracolo e rispondere al vaticinio: “Ecco, questo qui è piú sapiente di me, e tu dicevi che ero io”. – Mentre dunque io stavo esaminando costui, – il nome non c’è bisogno ve lo dica, o Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici questo tale con cui, esaminandolo e ragionandoci insieme, feci l’esperimento che sono per dirvi; – ebbene, questo brav’uomo mi parve, sí, che avesse l’aria, agli occhi di molti altri e particolarmente di se medesimo, di essere sapiente, ma in realtà non fosse; e allora mi provai a farglielo capire, che [d] credeva essere sapiente, ma non era. E cosí, da quel momento, non solo venni in odio a colui, ma a molti anche di coloro che erano quivi presenti. E, andandomene via, dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero piú sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi piú sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo. E quindi me ne andai da un altro, fra coloro che avevano fama di essere piú sapienti di quello; [e] e mi accadde precisamente lo stesso; e anche qui mi tirai addosso l’odio di costui e di molti altri.

Ciò nonostante io seguitai, ordinatamente, nella mia ricerca; pur accorgendomi, con dolore e anche con spavento, che venivo in odio a tutti: e, d’altra parte, non mi pareva possibile ch’io non facessi il piú grande conto della parola del dio. – “Se vuoi conoscere che cosa vuole dire l’oracolo, dicevo tra me, bisogna tu vada da tutti coloro che hanno fama di essere sapienti”. – Ebbene, o cittadini [22 a] ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ricerca secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente da poco, migliori di quelli e piú saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregrinazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo.

Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sí da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli [b] altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché cosí avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E cosí anche dei poeti in breve conobbi questo, [c] che

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non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i piú sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da piú di loro per la stessa ragione per cui ero da piú degli uomini politici.

Alla fine mi rivolsi agli artisti: tanto piú che dell’arte loro sapevo benissimo di non intendermi affatto, [d] e quelli sapevo che li avrei trovati esperti di molte e belle cose. E non m’ingannai: ché essi sapevano cose che io non sapevo, e in questo erano piú sapienti di me. Se non che, o cittadini di Atene, anche i bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti: per ciò solo che sapevano esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presumeva di essere sapientissimo anche in altre cose assai piú importanti e difficili; e questo difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza. Sicché io, in nome dell’oracolo, [e] domandai a me stesso se avrei accettato di restare cosí come ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o di essere l’una cosa e l’altra, com’essi erano: e risposi a me e all’oracolo che mi tornava meglio restar cosí come io ero.

Or appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, [23 a] molte inimicizie sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire cosí: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”. – Ecco perché ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la parola del dio se ci sia alcuno fra i cittadini e fra gli stranieri che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami non ci sia nessuno, io vengo cosí in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto piú tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema [c] miseria per questo mio servigio del dio. [...] (Platone, Apologia, 20 e-23 c)

La ricerca del concetto e della definizione universale

a) Aristotele, Metafisica, 987b

D’altra parte Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella propria totalità, ma nell’ambito di quella ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni.

b) Platone, Eutifrone, 6 c-e

[6 c] [...] [Socrate] – Ora vedi di dirmi piú chiaro [d] quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora, accusando d’omicidio tuo padre. Eutifrone – E dicevo la verità, o Socrate. Socrate – Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. Eutifrone – Molte altre, senza dubbio. Socrate – Ebbene,

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tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensí di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un’idea unica le azioni [e] non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi? Eutifrone – Sí, mi ricordo. Socrate – E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell’azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è.

c) Platone, Menone, 70a-74a.

SOCR. E io stesso, o Menone, mi trovo in queste condizioni: anch’io, come i miei concittadini, sono privo di questo, e mi rimprovero di non saper nulla circa la virtù: e, di ciò di cui non conosco l’essenza, come potrei conoscere la qualità? O ti pare che ci possa essere uno che, non conoscendo affatto chi è Menone, possa tuttavia sapere se è bello, ricco e nobile, o se abbia le qualità opposte a queste? Ti pare che sia possibile?

MEN. A me no. Ma tu, o Socrate veramente non sai che cosa sia la virtù; proprio questo di te dovremo riferire anche a casa? SOCR. E non solo questo, o amico, ma anche che non ho mai trovato alcun altro che lo sapesse, almeno mi pare. MEN. Ma come, non ti sei mai incontrato con Gorgia, quando era qui? SOCR. Io sì. MEN. E allora non ti pare che lo sapesse? SOCR. Non ho troppa memoria, o Menone, cosicché non so dirti, adesso, come mi sia sembrato allora. Ma forse lo sapeva e tu sai quello che egli diceva: fammi dunque ricordare come diceva. O, se vuoi, di’ tu personalmente: infatti tu sei sicuramente del suo stesso parere. MEN. Io sì. SOCR. Lasciamo dunque stare lui, dal momento che è assente. Ma tu personalmente, per gli Dei, o Menone, che cosa dici che è la virtù? Dillo e non rifiutarti, in modo che io mi trovi ad aver detto la più felice menzogna, se mostrerai che tu e Gorgia lo sapete, mentre io ho detto di non essermi mai incontrato con alcuna persona che lo sapesse. MEN. Ma non è difficile dirlo, o Socrate. In primo luogo, se vuoi la virtù dell’uomo, è facile dirti che è questa: essere idonei a trattare le cose della città; e, facendo questo, far del bene agli amici e del male ai nemici, e cautelarsi per non subire a propria volta nulla di simile. E se vuoi la virtù della donna, non è difficile rispondere che ella deve amministrare bene la casa, curando le faccende interne ed essendo ubbidiente al marito. Ed altra è la virtù del fanciullo, e della femmina e del maschio e altra quella dell’uomo anziano, vuoi del libero, vuoi dello schiavo. E vi sono molte altre virtù, così che non sussiste difficoltà a dire che cosa sia la virtù: c’è una virtù relativa a ciascuna azione e a ciascuna età, e per ciascuna opera per ognuno di noi. E così, o Socrate, ritengo pure del vizio. SOCR. Sembra che io abbia avuto molta fortuna, o Menone, se, essendo alla ricerca di una sola virtù, ne ho scoperto uno sciame che si trova presso di te. Ma, o Menone, per stare a quest’immagine dello sciame, se io ti domandassi quale è l’essenza dell’ape, e se tu mi dicessi che le api sono molte e di diverso genere, che cosa mi risponderesti, se io ulteriormente ti chiedessi: «Forse in questo dici che sono molte e di diverso genere e differenti fra loro, cioè nell’essere api? Oppure in questo non differiscono per nulla, ma in qualcos’altro, come: per la bellezza, o per la grandezza, o per qualche altra cosa di questo genere?». Dimmi, che cosa risponderesti se fossi così interrogato?

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MEN. Questo, io risponderei: che esse non differiscono in nulla, in quanto sono api, l’una dall’altra. SOCR. E se io allora ti chiedessi: «Proprio questo, dunque, dimmi, o Menone: ciò in cui esse per nulla differiscono, ma sono tutte una medesima cosa; che cosa dici che sia questo?». Sapresti rispondermi qualcosa? MEN. Io sì? SOCR. E così è anche per le virtù: ancorché siano molteplici e di diverso genere, tutte hanno una unica e identica forma, a causa della quale esse sono virtù, e verso la quale è bene che guardi colui che deve rispondere a chi domanda di spiegare che cosa mai sia la virtù. O non comprendi quello che dico? […] SOCR. Considera ancora questo. Essere capaci, dici, di comandare. Non vi dovremo aggiungere anche il "giustamente", e invece non "ingiustamente"? MEN. Penso di sì: infatti, la giustizia, o Socrate, è virtù. SOCR. È forse la virtù, o Menone, oppure una virtù? MEN. Come dici? SOCR. Come di qualsiasi altra cosa. Del circolo, poniamo, io direi che è una figura, e non senz’altro che è la figura. E per questo motivo direi così, perché ci sono anche altre figure. MEN. E dici giustamente, perché anch’io dico che non c’è solo la giustizia, ma che ci sono anche altre virtù. SOCR. E quali sono queste virtù? Dille. Come io ti potrei dire le altre figure, se tu me lo domandassi, così anche tu, dunque, dimmi le altre virtù. MEN. La fortezza mi sembra che sia virtù, e così la temperanza e la sapienza e la magnanimità e moltissime altre. SOCR. Ci troviamo, o Menone, nello stesso caso di prima: abbiamo di nuovo trovato molte virtù, mentre eravamo in cerca di una sola, ma in modo diverso da prima; e non siamo capaci di trovare quell’unica che è in tutte queste.

La maieutica

“SOCRATE. Tu hai le doglie, caro Teeteto: segno che non sei vuoto, ma pieno. TEETETO. Non lo so, o Socrate: io ti dico solo quello che provo. SOCR. Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto brava e vigorosa levatrice,F enàrete. TEET. Questo sì, l’ho sentito dire. SOCR. E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire? TEET. No, mai! SOCR. Sappi dunque che è così. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì ch’io sono il più stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo l’avrai sentito dire, è vero? TEET. Sì. SOCR. E vuoi che te ne dica la ragione? TEET. Volentieri. SOCR. Vedi di intendere bene che cosa è questo mestiere della levatrice, e capirai più facilmente che cosa voglio dire. Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in istato di concepire e di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle soltanto che generare non possono più.

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TEET. Sta bene. SOCR. La causa di ciò dicono sia stata Artèmide, che ebbe in sorte di presiedere ai parti benché vergine. Ella dunque a donne sterili non concedette di fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque acquistare un’arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto ufficio a quelle donne che per l’età loro non potevano più generare, onorando in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. TEET. Naturale. SOCR. E non è anche naturale e anzi necessario che siano le levatrici a riconoscere meglio d’ogni altro se una donna è incinta oppure no? TEET. Certamente. SOCR. E non sono le levatrici che, somministrando farmachi e facendo incantesimi, possono svegliare i dolori o renderli più miti se vogliono; e facilitare il parto a quelle che stentano; e anche far abortire, se credon di fare abortire, quando il feto è ancora immaturo? TEET. È vero. [...] SOCR. Questo dunque è l’ufficio delle levatrici, ed è grande; ma pur minore di quello che fo io. Difatti alle donne non accade di partorire ora fantasmi e ora esseri reali, e che ciò sia difficile a distinguere: ché se codesto accadesse, grandissimo e bellissimo ufficio sarebbe per le levatrici distinguere il vero e il non vero; non ti pare? TEET. Sì, mi pare. SOCR. Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile [...] di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a far da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur di principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me. Ed eccone la prova. Molti che non conoscevano ciò, e ritenevano che il merito fosse tutto loro, e me riguardavano con certo disprezzo, un giorno, più presto che non bisognasse, si allontanarono da me, o di loro propria volontà o perché istigati da altri; e, una volta allontanatisi, non solo il restante tempo non fecero che abortire, per mali accoppiamenti in cui capitarono, ma anche tutto ciò che con l’aiuto mio avean potuto partorire, per difetto di allevamento lo guastarono, tenendo in maggior conto menzogne e fantasmi che la verità; e finirono con l’apparire ignorantissimi a se stessi ed altrui. [...] Ce n’è poi che tornano a impetrare la mia compagnia e fanno per riaverla cose stranissime; e se con alcuni di loro il dèmone che in me è sempre presente mi impedisce di congiungermi, con altri invece lo permette, e quelli ne ricavano profitto tuttavia. Ora, quelli che si congiungono meco, anche in questo patiscono le stesse pene delle donne partorienti: ché hanno le doglie, e giorno e notte sono pieni di inquietudine assai più delle donne. E la mia arte ha il potere appunto di suscitare e al tempo stesso di calmare i loro dolori. Così è dunque di costoro. Ce n’è poi altri, o Teeteto, che non mi sembrano gravidi; e allora codesti, conoscendo che di me non hanno bisogno, mi do premura di collocarli altrove; e, diciamo pure, con l’aiuto di dio, riesco assai facilmente a trovare con chi possano congiungersi e trovar giovamento. [...] Ebbene, mio eccellente amico, tutta

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questa storia io l’ho tirata in lungo proprio per questo, perché ho il sospetto che tu, e lo pensi tu stesso, sia gravido e abbia le doglie del parto. E dunque affidati a me, che sono figliuolo di levatrice e ostetrico io stesso; e a quel che ti domando vedi di rispondere nel miglior modo che sai. Che se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto via, tu non sdegnarti meco come fanno per i lor figliuoli le donne di primo parto. Già molti, amico mio, hanno verso di me questo malanimo, tanto che sono pronti addirittura a mordermi se io cerco strappar loro di dosso qualche scempiaggine; e non pensano che per benevolenza io faccio codesto, lontani come sono dal sapere che nessun dio è malevolo ad uomini; né in verità per malevolenza io faccio mai cosa simile, ma solo perché accettare il falso non mi reputo lecito, né oscurare la verità. (Platone, Teeteto, 149e-151d.)

L’intellettualismo etico «Ricordiamoci innanzi tutto ciò che è il sapere per Socrate: non un sapere obiettivo di una verità in sé posta (in questo caso, di ciò che sia il bene in generale); ma un sapere di non sapere e quindi inquietudine, ricerca, esame di sé e del costume, un loro rapportarli e risolvere la loro reciproca limitatezza; ricerca che non si conclude a una nozione generale, ma a una certezza dell’anima che, di fronte a una determinata situazione, ha trovato il suo bene, la propria ideale e universale sicurezza e coerenza con sé. Ora questo sapere tutto intimità, risveglio interiore dell’anima, è una cosa sola con l’elevarsi di questa al punto di vista della propria responsabilità morale, sopra l’obiettività estrinseca del costume. È qui, nel campo morale, scoperto da Socrate, la funzione essenziale del pensiero nella vita spirituale, la sua energia liberatrice, la sua potenza dialettica di risollevare i problemi dalle soluzioni parziali e introdurre quindi nelle persone la responsabilità. In questo senso virtù è sapere, ed in questo senso chi conosce il bene non può che volere e seguire il bene, giacché questo bene non è un’idea astratta del bene, ma è il bene che l’anima ha scoperto in sé e per se stessa, è l’anima come armonia e unità con sé, che non lascia nulla della persona fuori di lei come estraneità od ostacolo, perché nell’esame morale l’ha risolto nella propria posizione ideale». (Antonio Banfi, Socrate) “SOCR. Potete ancora cambiare opinione, se siete capaci di sostenere che il bene sia una cosa diversa dal piacere, o che il male sia una cosa diversa dal dolore; oppure a voi basta vivere felicemente la vita senza dolori? Se vi basta e se per voi bene e male non sono altro che ciò che conduce al piacere o al dolore, ascoltate cosa ne consegue. Infatti vi dico che, se le cose stanno così, il ragionamento diventa ridicolo. Voi affermate che spesso l’uomo, pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa, pur essendo possibile non farlo, trascinato e sconvolto dai piaceri; poi dite che l’uomo, pur conoscendo il bene, non vuole farlo, vinto dai piaceri del momento. Che tutto questo sia ridicolo, sarà evidente se non useremo molti nomi contemporaneamente, ‘piacere’, ‘dolore’, ‘bene’ e ‘male’: poiché sembra che si tratti di due cose, chiamiamole con due nomi, in primo luogo ‘bene’ e ‘male’ e poi ‘piacere’ e ‘dolore’. Stabilito questo, diciamo: l’uomo pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa. Se qualcuno ci chiedesse: «Perché?» «Perché è vinto» diremmo; «Da cosa?» quello ci domanderà; per noi non sarà più possibile dire «dal piacere», poiché adesso il piacere ha cambiato nome e si chiama ‘bene’. Allora gli risponderemo e diremo: «Perché è vinto»; «Da cosa?» dirà; «Dal bene, per Zeus!» diremo. Se il nostro interlocutore è un po' arrogante, riderà e dirà: «È davvero ridicolo quello che dite, se affermate che qualcuno fa il male, pur sapendo che è male e pur non essendo lecito farlo, perché è vinto dal bene. Per voi il bene può o non può vincere il male?». E’ evidente che dovremmo rispondere che non può, se che chi è vinto dai piaceri compie il male. «In che cosa - dirà forse - i beni sono inferiori ai mali e i mali ai beni? Forse in base al fatto che gli uni sono più grandi, gli altri più piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?» Non potremmo che essere d’accordo. «E’ evidente dunque - dirà - che per voi ‘essere vinti’ significa scegliere mali maggiori in cambio di beni minori». Su questo siamo d’accordo. Attribuiamo ancora una volta i nomi di ‘piacere’ e ‘dolore’ a queste stesse cose e diciamo: l’uomo fa cose dolorose - prima dicevamo ‘cose cattive’ - pur sapendo che sono dolorose, vinto dai piaceri, che evidentemente non sono in grado di prevalere. [356] E in cosa altro il piacere è inferiore rispetto al dolore,

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se non per l’eccesso o per il difetto dell’uno rispetto all’altro? Piaceri e dolori possono essere reciprocamente più grandi o più piccoli e più o meno numerosi, in maggiore e in minore intensità. Se poi qualcuno dicesse: «C’è però molta differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il dolore o il piacere futuri!" «E questa differenza consiste in qualcos’altro se non nel piacere e nel dolore? No di certo. Tu, come un bravo pesatore, dopo aver raccolto il piacere e il dolore e aver aggiunto sul piatto della bilancia la vicinanza e la lontananza nel tempo, dimmi quale dei due piatti è più pesante. Se infatti poni a confronto i piaceri con i piaceri, devi sempre scegliere i più grandi e i più numerosi; se invece poni a confronto i dolori con i dolori, devi scegliere i meno numerosi e i più piccoli. Se poi poni a confronto piaceri e dolori, nel caso in cui i dolori siano superati dai piaceri, e se i dolori vicini sono superati dai piaceri lontani e i dolori lontani sono superati dai piaceri vicini, devi orientare la scelta laddove c’è l’eccedenza; qualora invece i piaceri siano superati dai dolori, bisogna rinunciarvi. Le cose stanno così o in un altro modo?». So che non potrebbero rispondere diversamente. […] Poiché le cose stanno così, rispondetemi a questa domanda: una stessa grandezza vi appare maggiore da vicino e minore da lontano, o no? E lo stesso accade per il volume e la quantità? E voci di uguale intensità non sono forse più forti da vicino, più deboli da lontano? Se dunque per noi questo fosse l’agire bene, fare e scegliere le cose grandi, fuggire e non fare le cose piccole, quale vi sembrerebbe la salvezza della vita? L’arte della misura o il potere dell’apparenza? L’apparenza forse ci ingannerebbe e ci farebbe spesso prendere e lasciare senza criterio le stesse cose e pentirci, sia quando agiamo, sia quando scegliamo le cose grandi e piccole. L’arte della misura, invece, renderebbe vana l’illusione dell’apparenza e, dopo aver mostrato la verità, farebbe in modo che l’anima, accanto alla verità, fosse tranquilla e ci salverebbe la vita. Gli uomini sarebbero d’accordo sul fatto che l’arte della misura ci potrebbe salvare oppure affermerebbero che è un’altra arte a salvarci? "Cosa accadrebbe se la salvezza della vita per noi dipendesse dalla scelta tra il pari e il dispari (che consiste poi nel capire quando sia giusto scegliere il più e quando il meno, o preso per sé o in relazione ad altro, sia che sia vicino, sia che sia lontano)? Che cosa ci salverebbe la vita? Non sarebbe forse la scienza? [357] E non sarebbe proprio la scienza della misura, poiché è un’arte che riguarda l’eccesso e il difetto? E la scienza del pari e del dispari non è forse l’aritmetica? Tutti sarebbero d’accordo con noi, o no? […] Bene; poiché ci è sembrato che la salvezza della vita risieda nella giusta scelta fra piacere e dolore - fra il più numeroso e il meno numeroso, fra il più grande e il più piccolo, fra il più lontano e il più vicino - questa non è forse una forma di misura, poiché è una ricerca dell’eccesso e del difetto e della reciproca uguaglianza fra piaceri e dolori? E poiché è una misura, deve essere anche un’arte e una scienza. Esamineremo in un secondo momento di quale arte e di quale scienza si tratti; per la risposta mia e di Protagora alla vostra domanda basta sapere che è una scienza. Se ricordate, avete iniziato a farci domande quando io e Protagora abbiamo concordato che nulla è più forte della scienza e che questa domina tutto, dovunque sia, il piacere e tutte le altre cose; voi, invece, affermavate che spesso il piacere ha in suo potere anche l’uomo sapiente. Poiché noi non eravamo d’accordo con voi, ci avete chiesto: ‘Protagora e Socrate, se ciò che accade in questi casi non è essere vinti dal piacere, che cosa è mai e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!’. Se subito vi avessimo risposto ‘l’ignoranza’ avreste riso di noi; ora invece, se rideste di noi, ridereste anche di voi stessi. Infatti voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta fra i piaceri e i dolori - cioè fra il bene e il male - sbaglia per mancanza di scienza, e non solo di scienza in generale, ma anche di quella che abbiamo chiamato arte della misura: un’azione sbagliata per mancanza di scienza sapete forse anche voi che avviene per ignoranza. Dunque ‘essere vinti dal piacere’ non è altro che la più grande ignoranza.

Socrate è come una torpedine O Socrate, io stesso sentivo dire, anche prima di frequentarti, che tu non fai altro che dubitare o far dubitare gli altri; ed ora, a parer mio, mi affascini, mi meravigli, m'incanti senza alcun artificio magico, cosicché io sia sempre colmo di incertezza. E mi sembri - se mi è consentito scherzare in qualche modo - molto simile, tanto nell'aspetto quanto nelle altre caratteristiche, ad una piatta torpedine di mare; difatti costei di volta in volta fa diventare torpido chi le si avvicini e la tocchi, e

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mi pare che tu abbia provocato un effetto del genere sulla mia persona; tant'è che io stesso, sinceramente, mi sento intorpidito nella mente e nella parola, e non so che cosa risponderti. Purtuttavia, ho ripetuto diecimila volte numerosi discorsi riguardo alla virtù, peraltro rivolti a molti, e ben recitati, almeno così mi pareva; ora, proprio non riesco a dir nulla con certezza. E mi sembri decidere bene, non navigando via di qui nè allontanandoti dalla patria; se, difatti, agissi in tal modo da straniero in un'altra città, verresti immediatamente trascinato in giudizio in quanto stregone. (Platone, Menone)

L’ironia e la confutazione

Prologo

IV. SOCR. Dunque, O Eutifrone, che causa è questa che hai? di altri contro te o di te contro altri? EUT. Di me [4a] contro altri. SOCR. E contro chi? EUT. Contro uno che a dargli addosso mi pigliano per matto. SOCR. O come, dài addosso a uno che vola? EUT. Altro che volare! A farlo apposta, ha parecchi anni su le spalle costui! SOCR. E chi è? EUT. Mio padre. SOCR. Tuo padre? Oh, brav’uomo! EUT. Proprio così. SOCR. E qual è la sua colpa? di che lo accusi? EUT. Di omicidio, o Socrate. SOCR. Per Eracle! Certo, o Eutifrone, difficilmente i più riconosceranno come possa mai codesto essere giusto; né credo che proprio il primo venuto potrebbe intraprendere [b] con giustizia una causa simile, bensì persona che nel sapere sia già avanti parecchio. EUT. Molto avanti sicuramente, o Socrate. SOCR. Ed è uno di casa quello che è stato ucciso da tuo padre, non è vero? Già, si capisce; ché per uno di fuori non accuseresti d’omicidio proprio lui. EUT. E’ curioso, Socrate, che tu creda ci sia differenza se l’ucciso è di fuori o di casa; e non pensi invece che a questo solo s’ha da badare, se chi uccise era nel suo diritto di uccidere oppure no; e, se era nel suo diritto, lasciarlo andare; se non era, fargli causa, quand’anche l’uccisore viva [c] sotto il tuo tetto e mangi alla tua tavola. Perché la contaminazione c’è lo stesso: basta che tu viva insieme col colpevole avendo conoscenza della sua colpa, e non purifichi te medesimo e costui trascinandolo davanti al tribunale. Qui il morto era un mio contadino che lavorava a opra da noi quando avevamo terreni a Násso. Un giorno costui, che avea bevuto troppo, in un impeto d’ira s’azzuffa con uno dei nostri familiari, e lo ammazza. Allora mio padre lo fa legare piedi e mani, e lo butta giù in una fossa; e manda qui uno per sapere dall’esegèta che cosa deve fare. [d] Per tutto questo tempo di quel poveretto incatenato non si dà pensiero, e addirittura lo abbandona a sé: tanto, pensa, era omicida, e non metteva conto preoccuparsene se anche moriva. Che è quello appunto che accadde: perché dalla fame dal freddo e dalle catene, costui morì prima che il messo fosse ritornato dall’esegèta. Ora dunque mio padre e gli altri di casa si lagnano di questo, che per un omicida io accusi di omicidio mio padre, il quale poi, dicono costoro, nemmeno ha ucciso; e se anche, nel peggior caso, avesse ucciso, considerando che l’ucciso era omicida, non bisognava darsi di codest’uomo nessun pensiero. E [e] dicono che per un figliolo accusar d’omicidio il padre è cosa empia. Caro Socrate, costoro non sanno niente di cose di religione, e non distinguono affatto che cosa è il santo e che cosa il non santo.

Ironia e inquadramento del problema

SOCR. E tu, o Eutifrone, credi proprio di conoscere così esattamente come sono ordinate le leggi divine; e ciò che è santo e ciò che non è santo; che, pur ammesso il fatto come lo racconti, non hai nessun timore, chiamando in giudizio tuo padre, di commettere anche tu, per combinazione, cosa empia? EUT. Ma no, Socrate: perché altrimenti nessun utile avrebbe [5a] la gente da me; né in alcuna cosa Eutifrone si distinguerebbe dal volgo degli uomini, se tutte queste cose non le conoscessi profondamente.

V. SOCR. O meraviglioso Eutifrone! Dunque per me il partito migliore è diventare tuo scolaro; e, prima che si discuta la causa che ho con Melèto, fare a costui appunto questa proposta, e dirgli così: che io, come già nel passato feci sempre gran conto di conoscere le cose divine, così ora, poiché egli sostiene che in queste cose divine mi sono reso colpevole di introdurre con tanta leggerezza delle novità, ecco che ho voluto essere tuo scolaro; e gli direi: "Se tu, [b] o Melèto, sei d’accordo con me che Eutifrone in questa

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materia è uomo sapiente, ebbene, devi giudicare che anch’io penso rettamente e non mi devi far causa; se invece non è così, allora, prima che a me, il processo lo devi fare a lui che è mio maestro, come a quello che corrompe [non i giovani, ma] i vecchi, me e il padre suo: me, in quanto m’istruisce, suo padre, in quanto pretende correggerlo e vuole che sia punito"; e se non mi darà retta e non desisterà dall’accusa, o non quereli te invece di me, allora questa stessa proposta che gli avevo fatto prima gliela ripeterò in tribunale. EUT. Davvero, o Socrate, che se venisse voglia a colui di sostenere una lite contro di me, [c] saprei ben io, credo, trovare il suo punto debole, e tra noi due il conto da saldare in tribunale ricadrebbe molto prima sopra di lui che sopra di me. SOCR. Anch’io lo credo, caro amico; e appunto per questo ho gran desiderio di diventare tuo scolaro: sapendo bene che mentre di te persino questo Melèto, non che un altro qualunque, nemmeno pare si avveda, di me invece s’è avvisto sùbito, e mi ha sùbito conosciuto così a fondo che mi accusa di empietà. Ora dunque dimmi che cos’è quello che or ora affermavi di conoscere così sicuramente: che cosa è che chiami il pio e che cosa l’empio, sia riguardo all’omicidio sia riguardo ad altre azioni. Non è il santo, come tale, [d] identico sempre a se stesso in tutte le azioni? e non è a sua volta il non santo il contrario di tutto ciò che è santo, ma identico sempre anche questo, come tale, a se stesso; cosicché viene ad avere - tutto ciò, dico, che è per essere non santo - una sua forma unica relativamente alla stia non santità? EUT. Senza dubbio, o Socrate […]

Seconda risposta di Eutifrone [per la prima cfr brano sopra]

EUT. Se vuoi così, o Socrate, sta bene, ti risponderò così. SOCR. Bravo, proprio così voglio. EUT. Ecco qua dunque: ciò che è caro agli dèi è santo, ciò che non è caro non è santo. SOCR. Benissimo, o Eutifrone: proprio com’io volevo tu mi rispondessi, così ora mi hai risposto. Se poi con verità, questo non so ancora; ma certissimamente saprai bene dimostrarmi tu che è vero quello che dici. EUT. Senza dubbio.

Confutazione

VIII. SOCR. O via, esaminiamo quello che stiamo dicendo.

PREMESSA (1) (la tesi di Eutifrone): La cosa cara agli dèi è santa, l’uomo caro agli dèi è santo; la cosa in odio agli dèi non è santa, l’uomo in odio agli dèi non è santo. Non sono la stessa cosa il santo e il non santo, ma anzi, tutto l’opposto l’uno dell’altro: non è così? EUT. Proprio così. SOCR. Ed è stato detto [b] bene, ti pare? EUT. Mi pare, o Socrate.

PREMESSA (2) (una tesi ammessa poco sopra da Eutifrone): SOCR. E che gli dèi sono in lite fra loro, e che ci sono tra loro dissensi e inimicizie degli uni contro gli altri, non è stato detto anche questo, o Eutifrone? EUT. Sì, è stato detto.

PREMESSA (3): SOCR. E dimmi, brav’uomo, su quali cose può essere il dissenso quando produce inimicizia e collere? Vediamo bene questo punto. Se ci fosse dissenso fra me e te intorno a un numero, per esempio, quale di due serie di oggetti è più numerosa, che forse questo dissenso ci farebbe nemici e irosi l’uno contro l’altro; oppure, fatto il conto, almeno [c] su codesta questione, ci troveremmo sùbito d’accordo? EUT. Certamente. SOCR. E se il dissenso fosse quale di due oggetti è più grande e quale più piccolo, non cadrebbe sùbito anche questo dissenso, appena prese le misure? EUT. E’ così. SOCR. E anche, dopo averli pesati, sapremmo pur decidere, credo, quale di due oggetti è più pesante, quale più leggero: o no? EUT. E come no? SOCR. E allora, quali sono i punti e quali i giudizi per cui, essendoci dissenso fra noi e non potendo giungere a un accordo, diventeremmo irosi e nemici gli uni contro gli altri? Forse [d] non ti vengono a mente ora, ma te li dirò io: considera se non siano il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono questi i punti per i quali, quando ci sia dissenso e non si possa venire a un giudizio soddisfacente, accade talora che diventiamo nemici gli uni degli altri, e io e tu e tutti gli uomini in generale? EUT. Sì, o Socrate, questo è il dissenso, e su questi punti.

PRIMA CONCLUSIONE (che consegue da (2) e (3))

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SOCR. Orbene, Eutifrone, gli dèi, se è vero che hanno tra loro qualche dissenso, non l’avranno appunto su questioni di questo genere? EUT. Necessariamente. SOCR. E dunque, [e] mio bravo Eutifrone, secondo il tuo ragionamento, chi degli dèi giudica giusta una cosa e chi un’altra, e chi bella e chi brutta, e chi buona e chi cattiva: ché di certo non avrebbero liti fra loro se non dissentissero su questi giudizi. Non è così? EUT.

PREMESSA (4): Dici bene. SOCR. Dimmi ora, quelle azioni che ognuno degli dèi reputi belle e buone e giuste, codeste azioni non le amano essi anche, e le contrarie le odiano? EUT. Precisamente. SOCR. Ma le medesime cose, lo dici tu, alcuni reputano giuste, altri ingiuste; e [8a] appunto perché disputano intorno a queste, sono in lite e in guerra fra loro. Non è così? EUT. Sì.

SECONDA CONCLUSIONE: SOCR. E dunque, è evidente, le stesse cose gli dèi odiano e amano; che quanto dire odiose agli dèi e care agli dèi saranno le stesse cose. EUT. E’ chiaro.

REDUCTIO AD ABSURDUM/CONFUTAZIONE: SOCR. E cioè le stesse cose saranno sante e non sante, o Eutifrone, secondo il tuo ragionamento. EUT. Pare. SOCR. Ma allora tu non rispondi, ammirevole amico, a quello che t’ho domandato: perché io non ti domandavo che cosa può essere al tempo stesso e santo e non santo; mentre, a quanto pare, quello stesso che sia caro agli dèi può anch’essere odioso agli dèi.