AM&D Edizioni: Mischinéddus

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Storia minuscola dei chicos della ruota. 1583-1652. Anteprima del romanzo storico di Anna Castellino

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INVITO ALLA LETTURA

Mischinéddus

di Anna Castellino

Collana: I Griot Tascabili [15]

Formato: 12 x 20 cm

Anno: 2006

Edizione: 1ª

Pagine: pp. 304

Prezzo: € 12,00

Peso: 326 g

ISBN: 88-86799-99-3

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Mi chiamo Antonio. Anzi, con ogni probabilità tra pocoverrò chiamato Antonio. Non è la prima volta. Con il bat-tesimo il nome mi sarà dato come dote, scudo, viatico peraffrontare il mondo di qua o per tornare in quello di là. Hofreddo, ma quel rito viene prima di tutto. Pensano che altri-menti non esisterei per gli uomini e neppure per il Cieloche mi ha mandato da… non so da quanto tempo. Sicura-mente da poco, ma è bastato a lasciarmi pelle e ossa, a esau-rire le carni accumulate nel ventre della madre.

Quel giorno è stato un urlo senza fine, il lamento di goladell’animale in agonia, poi il tonfo delle mie spalle viscidesul pavimento di terra. E una voce di vecchia ha detto: –Mascu.

Umido, freddo e sudore. Fetore e buio.Stavano in ascolto. Speravano mi dissolvessi nel silenzio.

E invece ho gridato. Mi hanno afferrato alle caviglie, perlevarmi in alto e osservarmi, pesarmi con gli occhi. E Voce-divecchia ha detto: – È vivo.

– Po s’amor’e Deus… – ha detto un’altra voce, roca disforzo e di rancore.

– Vivo e grasso… bello da non credere, – ha detto Voce-divecchia, poggiandomi ancora unto sul petto dell’Altra-voce. Ma quella ansava forte, si dimenava, e ha lasciato chedi nuovo scivolassi in terra. Tremavo, e vagivo stizzoso.Chiedevo la madre, perché tutti, bestie o bastardi come me,dopo il tonfo trovano una madre che almeno con la lingua

Lasciami e vai con Dio

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li lava dal peccato, o li sbrana subito, ancora caldi di utero,carichi di nutrimento. E la fa finita. Per me, invece, un teloruvido e sporco a detergere il miscuglio di sangue e liquidamerda nera che mi vestiva. Era la vecchia, che passandome-lo addosso prendeva atto della mia vita e così ripulito miavvolgeva in un panno lacero come il suo volto e tentavaancora di avvicinarmi al seno dell’Altra.

– Non tormentarla. È la febbre… e non ha latte. Lamaledizione e questo qua ormai le hanno succhiato l’ani-ma… – ha detto in sardo una terza voce, colpevole e rasse-gnata, una voce di uomo senza speranza.

Questoqua ero io, considerato alla stregua di un cancroche rode dall’interno. La maledizione era la malaria, forse.O forse la sifilide, o un altro morbo di questi tempi infami,impestati di mali mai visti: come se non bastasse la carestia,ti cadono addosso e non sai da dove vengano, né chi li porti,e a sconfiggerli non sono più capaci nemmeno i santi. Nientene capiscono i medici, figurarsi Terzavoce, un povero cri-sto. Sapeva solo che il futuro dell’Altra finiva lì. E anchequello di Questoqua.

Sbranami, madre, davvero falla finita, ho pensato. Pre-mi un cuscino su questa faccia che non conosci, toglimi ilfiato, come tante hanno fatto prima di te.

Non temere il castigo degli uomini, ho pensato. Ai loroocchi la morte di tuo figlio sarà pari a quella del figlio di unacagna. Per loro sarò vittima del male che ti consuma. Nes-suno saprà della forza che mi esplode nei polmoni, che illu-de la bocca sdentata di placare la fame ingoiando le mani.Nessuno saprà del bisogno di vivere che spinge le fragiliunghie a graffiare, quando tento di scacciare la morte strap-pandomela di dosso assieme ai capelli.

Falla finita qui, madre, ho pensato. E non temere il ca-stigo di Dio. Per le tue croste, per i tuoi cenci ti assolveràcome assolve la coniglia che si disseta col sangue dei suoipiccoli.

E non temere me. Io non posso vendetta.

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Spirito che cerca un corpo, subisco e osservo, aspetto e tiperdono.

Ma tu deliri, e la vecchia non si arrende, ho pensato. Nonsi illuda. Non basterà lo straccio che mi ha infilato tra lelabbra, bagnato nel latte dell’animale che bela in un angolodella stanza. Ha placato i morsi dello stomaco, ma nonbasterà. Ti ho succhiato l’anima, non ti porterò via altro.Uccidimi, ho pensato.

Ma la madre ha continuato a delirare, e la vecchia non siè arresa.

Lasciami andare, le dicevo. Fai presto, vecchia. Un col-po secco contro il muro, o qualche istante sott’acqua, inun secchio, e mi avrete dimenticato. E invece, sorda, mise-ra e vigliacca, mi ha condannato al pianto della fame, aicrampi del latte di pecora che è veleno per le mie budella.Mi ha attaccato al suo seno avvizzito, persino; ha lasciatoche le mordessi con le gengive nude il mento peloso, e conla bocca ha passato la sua saliva nella mia bocca; mi ha in-tontito con una triste nenia senza note. Citi coru citi…diceva a mezza voce, notte e giorno, notte e giorno, mentreil mio vagito si faceva più fiacco. Notte e giorno, fino aqualche istante fa, quando ha smesso di sperare nei leni-menti e ha implorato nella sua lingua Terzavoce, che stavalì, accanto al giaciglio dell’Altra, a guardare impotente,muto.

– Vai, ti prego. Non c’è più tempo. Dobbiamo farlo.– Anche se adesso finalmente tace?– Proprio per questo, bestia. Prendilo e corri… muo-

re…– Rimani tu con lei?– Rimango io e Dio maledetto. Corri… Portamelo via…

maledette le viscere che l’hanno fatto, maledetto il mondoe maledetto maledetto Dio… – ha detto infine, sbattendo-mi tra le braccia dell’uomo. E mentre la sua bestemmia fi-niva in un sputo di catarro sulla mia culla di terra, le hodetto addio. Non sono riuscito a conoscerla, e incontran-

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dola un domani non la riconoscerò. Né lei mi riconoscerà,figlio dalla sua bava, figlio del suo amore.

Se riuscirò a crescere.Intanto ho freddo. Non sento nient’altro. Lui mi strin-

ge, ma il suo torace ossuto non dà tepore. Affanna nella salitasenza fine, svoltando di strada in strada, tra case povere ericche, buie nella città addormentata. Un asino raglia lon-tano, un cane vedendoci ringhia. Ha fiutato la nostra famee mostra i denti per difendere la fortuna trovata tra le im-mondizie. L’uomo lo caccia con un calcio. Dimentico dime che muoio, si china a raccogliere il pasto dell’animale e,animale lui pure, lo addenta avido, incurante dell’odorerancido che emana. Mi guarda, sapendo che non può divi-dere con me neppure quel vitto immondo, sapendo che certosarebbe stato meglio annegarmi subito. Meglio per tutti esoprattutto per me. Riprende a camminare sentendosi piùforte. Darebbe gli occhi per un sorso di vino, che gli tolgala sete e il pensiero di ciò che sta per fare e di ciò che dovràfare domani e domani ancora, finché un morbo stranieroprenderà anche lui.

La salita è finita. Si ferma e guarda intorno circospetto,perché non sa cosa farà domani, ma sa che oggi, adesso, nondev’essere visto.

Non c’è nessuno, e non si sente nulla, nemmeno il ven-to. Solo si leva un canto d’uccello, struggente, limpido comeimmagina sia la voce degli angeli, e gli pare un presagio, unrimprovero alla sua colpa. Proviene dai rami di un alberoche dalla cinta del Sant’Antonio si affacciano alla strada.

– Ma guardami… guardalo… – dice allora e mi esibisce,tendendomi a quel canto. Me, immagine della sua miseria.

È arrivato. È pronto a poggiarmi su quel piano che co-nosco bene. Non è la prima volta. Presto riceverò il battesi-mo e un nome. Scappa padre, gli dico, e dimenticami. Ilmio destino non è una vergogna tua, ma degli uomini tuttie di Dio, il Dio che adorate nonostante il dolore, il Dio chesi diverte, il maledetto Dio della tua vecchia.

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Preme forte il mio viso sul collo, in un addio, credo. E ioreagisco. Sulla spinta del suo fiato caldo i miei piccoli artiglicercano l’appiglio che trovavano nella testa della vecchia.Ma sotto i capelli folti dell’uomo non c’è carne che sporga,manca l’orecchio, mozzato di netto da una lama, chissàquando, chissà perché. Allora le unghie afferrano quei ricciuntuosi con la forza inconsapevole dell’agonia. A lui sem-bra si aggrappino alla vita che non può darmi, gli sembrache lo stringano per impedire l’inevitabile, e piange bruttelacrime scordate, il pianto di chi non ha pianto mai. E mistrappa da sé: – Lassamì e bai cun Deus.

Lasciami e vai con Dio, mi saluta il padre, l’uomo senzaorecchio. E attraverso la grata mi poggia sulla ruota.

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