Amandla! – XIITrailer · 2008. 3. 16. · locomotiva, isola del tesoro? e 313… macchina di...

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    Amandla! – XIITrailer

    © 2007 Marco Pagani Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi

    PRIMA PARTE

    LEVIATANO

    1. Quali sono le radici che si afferrano, quali i rami che crescono da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto un cumulo di immagini infrante, dove batte il sole, e l’albero morto non dà riparo, l’arida pietra nessun suono d’acque. T. S. Eliot, La sepoltura dei morti, in The waste land (1922) Se la visione fosse stata in bianco e nero invece che a colori non sarebbe cambiato

    molto, poiché in pratica era circondato solamente da diverse tonalità di grigio: grigio fer-ro erano gli edifici, grigio freddo il cielo che incombeva basso, grigio sporco la strada e i grossi autocarri che passavano ogni tanto, esalando nuvole di fumo nero dai loro vecchi motori diesel [diesel… adiabatiche e isocore, motori a combustione interna?]. In effetti ogni tanto l’occhio si fermava su qualche particolare colorato, ma era sempre

    un colore smorto, slavato, appena accennato, come il rosso stentato e rugginoso di un container, il marrone seppia di un cancello, il giallo malato dello scarico di una vecchia ciminiera di mattoni, il verde misero e intossicato di qualche pianta che osava spuntare tra le crepe del marciapiede sbrecciato su cui camminava. Su quel marciapiede David Stein camminava ormai da varie decine di minuti, in fret-

    ta, nervosamente: doveva ormai essere piuttosto in ritardo, anche se non avrebbe saputo dire di quanto, perché l’orologio gli si era fermato. Era comunque in ritardo e la cosa più allarmante era che non riusciva a trovare il luo-

    go dell’appuntamento: Stephenson 313 era chiaramente impresso nella sua mente e gli ave-vano assicurato che si trovava in quella squallida zona industriale, ma dopo aver girato a lungo non aveva trovato alcuna traccia di via Stephenson [Stephenson… macchina a vapore, locomotiva, isola del tesoro? e 313… macchina di Paperino oppure 3+1+3=7, il numero perfetto]. Un edificio di cemento alto, senza finestre, con un pesante cancello nero e graffiti stile naïve color ocra sulla parte bassa della facciata, gli avevano detto. Tuttavia non aveva ancora incontrato nulla di simile; scrutava con una certa appren-

    sione i grandi capannoni, i silos, le fonderie, i chilometri di impianti chimici pieni di tubi, serbatoi sferici, flange e cisterne, i lotti scoperti dove si ammucchiavano l’uno sull’altro centinaia di container fino a formare una muraglia, ma non riusciva a trovare nulla che corrispondesse a quella descrizione. Niente cancelli neri, niente edifici senza finestre, niente graffiti [graffiti… uomini preistorici, grotte… oppure Pollock, Basquiat? e perché poi naïve?].

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    David era sempre più preoccupato, perché sapeva che lo stavano aspettando e che dovevano dirgli qualcosa di importante, ma non trovava il bandolo in quel labirinto di strade e non c’era nessun passante a cui chiedere. Aveva cercato di attirare l’attenzione degli autisti delle betoniere e delle autocisterne di passaggio, ma tutti avevano i finestrini chiusi e non lo avevano sentito. Come fare? Non c’era neanche una cabina telefonica per avvertirli! In ogni caso, si

    rese conto che anche se l’avesse trovata non aveva nessun numero a cui chiamare. A questo punto era forse meglio rinunciare e tornare un’altra volta, piuttosto che girare a vuoto [ma tornare dove?]. Era così assorto nei suoi pensieri che non vide subito il bambino; se ne accorse tutto

    a un tratto all’ultimo momento, quando si trovava a pochi passi da lui, come se gli si fos-se materializzato davanti. Doveva avere quattro, cinque o al massimo sei anni. Portava una maglietta a maniche

    corte a strisce orizzontali bianche e rosse con un colletto alla marinara, salopette di jeans azzurro stinto e un cappellino a visiera con sopra il logo della Columbia University [lo-go… logos, verbum? Columbia… Colombo, Colon, Cristobal, America?]. Le guance e il mento portavano i segni di qualche merenda precedente, mentre le braccia e le mani erano tutte sporche, come se avesse giocato con la sabbia o con la terra fino a pochi minuti prima. Non piangeva, ma aveva un muso lungo così e due occhi neri, profondi, atterriti [gli

    occhi del ciclone? la quiete prima della tempesta?]. Era come il cielo prima del temporale, stava per scoppiare in una crisi di pianto pazzesca. «Cosa ci fai qui bambino? Come ti chiami?» Cosa ci faceva un bambino, da solo, in

    quel posto assurdo? Come ci era arrivato? Si era perso? Ma perso come, visto che per miglia e miglia lì intorno non c’era una casa, un parco giochi, una scuola? «Dove abiti? Chi sono i tuoi genitori?» David ripeté la domanda tre o quattro volte,

    ma il piccolo non rispondeva nulla. Ad un certo punto tirò su con il naso e indicò l’altra parte della strada. «Vuoi andare dall’altra parte?» Ma dall’altra parte non c’era nulla, solo una lunga rete

    metallica dietro a cui si intravedevano tonnellate di tondini di ferro ammucchiati l’uno sull’altro. Improvvisamente il bambino scattò, o comunque diede a David l’idea che volesse

    mettersi a correre per attraversare la strada. Raggiungerlo e fermarlo fu per David que-stione di un attimo. «Fermo! Non puoi andare così! Ci sono i TIR!» [TIR… Trattamenti Iterativamente Ricorsi-

    vi? che cos’erano?]. Fu a quel punto che il bambino scoppiò. Urla e lacrime, strattonava la mano destra

    che David gli stava tenendo e lo tempestava di piccoli pugni con la sinistra. «Lasciami! Lasciaaamiii! Nooon ti conoscooo! Vai viiiaaa!» La voce era acuta, ma for-

    te. A parte i brevi intervalli in cui riprendeva fiato, non la smetteva più. «Calmati, stai calmo, non ti faccio niente, ti voglio aiutare, stai buono, dai!» David si sentiva ridicolo. Come si parla ai bambini? Con che parole, con che voce,

    con che tono? Ma lui poi aveva mai parlato con dei bambini? [bambini… Homo Sapiens in sviluppo? un mondo di sogni e bisogni? che fare?]. David cercava di calmarlo accarezzandogli la testa; nel frattempo il cappellino era vo-

    lato via ed erano apparsi dei capelli a caschetto nerissimi. Il bambino gridava sempre più forte: «Non mi toccare! Non mi toccaaareee!»

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    David non li vide arrivare, non sentì l’automobile, le moto oppure l’hovercraft. Av-vertì solo il colpo netto sulla spalla sinistra e nell’incavo del ginocchio destro. In un atti-mo era a terra contorto nel dolore. «Non ti muovere, bastardo, o ti ammazzo! Ti ammazzo, hai capito?!» Voce nasale, un

    po’ tremolante con qualche armonica alta di troppo, pulsazioni rapide. Sentì una pres-sione tondeggiante sulla schiena (un ginocchio?) e un contatto freddo alla nuca (una pi-stola?). «Metti le mani dietro la schiena, bastardo di un pedofilo! Stronzo, ci volevi provare,

    eh? Ma stavolta non la passi liscia, no… e non ti muovere! Porta le mani dietro la schiena!» Voce più profonda e baritonale [baritono… Figaro o il Conte di Almaviva… grande lunghezza d’onda delle note emesse… diffrazione del suono intorno alla testa?], decisa, quasi con un riverbero di divertimento. Continuando a dolorare, David cercò di disincastrare il braccio sinistro da sotto il

    corpo, mentre sentiva che sassolini [o pezzi di vetro?], gli graffiavano la guancia nella stessa metà del corpo [metà sinistra… emisfero destro… lobi? percezioni?]. Il braccio sembrava bloccato sotto una montagna e non ne voleva sapere di muover-

    si. David in quel momento non poteva saperlo, ma un medico avrebbe detto che a causa del colpo di manganello l’articolazione della spalla era sublussata. «Vuoi muovere questo cazzo d’un braccio, pezzo di merda?!» Il poliziotto infilò la

    mano sotto al suo corpo, individuò l’avambraccio e tirò con forza. Stack! Lussazione completa! Frustata di dolore accecante, fuoco nella spalla, nelle ossa [omero… scapola?] e nei muscoli [tricipite… bicipite… deltoide?]. Braccio girato indietro come una bambola rotta, voglia di mordere l’asfalto, fuoco d’artificio che riempie la notte, supernova esplosa, stra-ti di gas a milioni di gradi kelvin che si espandono nello spazio raffreddandosi adiabati-camente, fissione plutonica. «Cazzo, non puoi fare un po’ più piano? Al comando lo vogliono intero!» La voce na-

    sale di prima, più acuta, pulsazioni ancora in accelerazione. «E dai, non fare la mammola!» Di nuovo la voce baritonale, ma più incazzata (o più

    divertita?). «Hanno detto vivo, non intero, e questi bastardi figli di puttana non meritano altro!» Lo sputo lo colpì sulla guancia destra, appena sotto l’occhio. Una seconda supernova si accese quando lo sbirro lo colpì allo scroto con la punta dello stivale. David aprì la bocca per urlare e sentì il sapore della polvere sull’asfalto [ferro… zolfo… bauxite?]. «Spero proprio che friggerai presto!» Ancora la voce a bassa frequenza [friggere… mori-

    re sulla sedia elettrica? ma la pena di morte non era stata abolita?]. «Dai, chiama il servizio sociale per il bambino.» La voce ormai era decisamente da basso [Don Giovanni… oppure Sarastro?]. «Loro devono occuparsi di questo coso.» Chissà poi dov’era finito il bambino; perché non piangeva e non strillava più? «L’ho già chiamato…» voce acuta, quasi in falsetto [cantori evirati?], «ma adesso sbri-

    ghiamoci ad andare via di qui.» «Se mi dai una mano a chiudere queste manette, perché il braccio di questo stronzo

    non ne vuole sapere…» Stack! Clack! Manette chiuse, altra espulsione di materiale stellare dalla supernova, getti di plasma nel campo magnetico, tubi di flusso, sollevamento da terra ahahah, non toccare la spalla, nooo!, traslazione, rotazione [teorema di Chasles: ogni spo-stamento rigido si può scomporre in infiniti modi nel prodotto di una traslazione e una rotazione… ma questo non è rigido, mi stanno facendo a pezzi!]. Traslazione, atterraggio ahahah! Smalto polveroso, scocca di alluminio, portellone che si chiude, accensione, vibrazione [risonanza della scocca], accelerazione… e poi il buio… caddi come corpo morto cade.

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    2. Cos’è un supplizio? È una pena corporale, dolorosa, più o meno atroce. È un feno-meno inesplicabile l’estensione dell’immaginazio-ne degli uomini in fatto di barbarie e crudeltà. Enciclopedia, voce Supplizio, 1772 Il dolore era una costellazione di supernovae, ammassi globulari di supergiganti azzurre,

    stelle di prima generazione che dopo appena dieci milioni di anni scoppiano una dopo l’altra. Non era facile capire quante fossero: il ginocchio destro, la spalla sinistra, lo scro-to, erano quelle esplose per prime, ma ora brillavano anche la testa, le dita del piede, il fianco sinistro, il naso, la mandibola… come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa… Tra le supernovae due pulsavano ritmicamente, come residuo dell’esplosione, come

    pulsar in rotazione rapidissima [conservazione del momento angolare… collasso del momento di inerzia…]. La prima, più rapida (periodo minore di 1 sec) era nell’occhio sinistro. Se è più rapida

    il raggio è più piccolo… ma l’occhio invece doveva essersi gonfiato oltre misura, un livi-do globo tumefatto, una sorta di disco di accrescimento protoplanetario. La pulsar oculare era fastidiosa, ma abbastanza sopportabile, perché rapida (integrale sul tempo quasi nul-lo). L’altra stella neutronica oscillava più lentamente (T ≈ 8 sec), aveva un diametro mag-

    giore ed era più luminosa e dolorosa; il dolore però fluttuava in modo asimmetrico, sali-va lentamente, come una lunga risacca, arrivava a un massimo al calor bianco, assoluta-mente insopportabile, e poi crollava di colpo, come quando si abbatte l’onda o si rompe una diga; forma d’onda a dente di sega, l’integrale sul tempo non è nullo [la funzione dolore è integrabile perché diventa infinita solo in un punto?]. La forma d’onda è sviluppabile in serie di Fourier, al ritmo del respiro… Ecco! Era una supernova polmonare, una fitta terribile al polmone destro, forse una

    costola rotta o una discontinuità nella pleura [alveoli in collasso… o pneumotorace per TBC?]. Quando inspirava, il dolore tendeva lentamente a più infinito per poi tendere di nuovo a zero nell’espirazione. Ma tendeva a zero sempre troppo lentamente, c’era insomma un effetto memoria che non gli lasciava un attimo di tregua. Variazione improvvisa di luminosità, una cefeide oltre la palpebra destra, stella varia-

    bile con relazione periodo-luminosità. Con cautela la palpebra si alza, il muscolo oculo-motore fa roteare il globo oculare, l’iride schizza a diaframma 32. La cefeide sfarfalleggia nel buio, qualcuno deve avere acceso la luce, fiat lux. La cefeide diventa poco per volta una lampadina a incandescenza stile Edison fine

    Ottocento. Effetto termoionico, torrente di elettroni strizzati nel filamento a 2700 gradi kelvin che vomitano un torrente di fotoni; i fotoni viaggiano un metro, due metri, evento del genere luce, e si impiantano nella retina, torrente di fotoattivazione chimica, blu, ver-de, rosso, blu, verde, rosso, fotoni in libertà, fotoni riflessi e riemessi, fotoni ovunque… … e un corpo su una superficie dura. L’occhio aperto fa implodere e collassare

    l’universo di dolore di David in una geografia più precisa, un corpo, un alto e un basso, una destra e una sinistra. Si trova su un tavolaccio di legno, che individua e tratteggia una

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    mappa di durezza sul malleolo, il ginocchio, l’anca, il gomito, tutte le costole, l’omero e l’osso parietale… posso contare tutte le mie ossa… È steso sul fianco destro. In posizione fetale. È nudo. Il braccio e la spalla sinistra in-

    combono ingabbiati nel gesso. Il torace è bendato. La pelle in molti punti è blu violacea e tumefatta, in altri è bianca e cadaverica [ma io sono forse di pelle bianca?]. Fa freddo, molto freddo, vasocostrizione superficiale. Un’intuizione improvvisa: il peso del corpo e la gabbia di gesso premono sulla pulsar

    polmonare. Stimolo, pensiero, reazione: girarsi, girarsi sulla schiena. Serve un punto d’appoggio, datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo [e chi era? Aristotele? Ar-chimede?]. La mano destra naviga fino al bordo del tavolo. Pensiero, azione. La mano stringe il bordo. Pensiero, azione: la mano si contrae, la gamba destra accompagna len-tamente il movimento. Reazione: muscoli nel frullatore, carne che passa attraverso un bazar di lame di Tole-

    do e poi in mezzo a un infinito sciame di api bellicose, ahahah!… ma ora ce l’ha fatta! È sulla schiena. Il legno grattugia un bel po’ di ematomi ed ecchimosi dorsali, ma la pulsar polmonare ha cambiato intensità! Ora non tende a più infinito, ma si assesta su un mas-simo respirabile; ora è una successione di gaussiane di dolore, ma sono pur sempre a va-riazione limitata, senza più punti di accumulazione. La mano destra è libera ora di esplorare il volto e il corpo. L’occhio sinistro, o quello

    che ne resta, è imprigionato in uno scafandro di bende e plastica, il naso è così storto che sembra indicare la direzione della Mecca [Mecca? sono forse musulmano? bi smi l-lahi rrahmani rrahimi? nel nome di Dio, clemente e misericordioso? in ogni caso, Dio non stare lontano!]. Un rumore, nell’aria onde adiabatiche di pressione fanno vibrare i suoi timpani. Una

    porta si apre. Passi. Due figure incombono su di lui, dietro alla sua testa. Non riesce a distinguerle bene. «Oddio, ma che gli avete fatto?» Voce squillante e un po’ ansiosa. «Questo stronzo ha avuto quello che si meritava, dottore» [dottore… doctor at law… me-

    dical doctor… Ph. D.… doctor subtilis… oppure doctor angelicus?]. Voce roca e cavernosa, al-meno due pacchetti al giorno. «I ragazzi giù l’hanno già medicato e aggiustato, come vede», ancora la voce roca, «ma

    i capoccia di sopra vogliono che lei gli dia un’occhiata per vedere se ha qualcosa di rotto dentro», rapida espirazione (accenno di risata?). «Sono veramente senza parole!» Di nuovo la voce squillante. «Lo hanno conciato

    come un vaso di coccio lasciato cadere dal terzo piano! E poi hanno fatto il lavoro male; questa benda è troppo stretta!» Armeggia sul fianco destro di David. «… Ecco, così va meglio.» Le gaussiane polmonari si riducono di un ordine di grandezza, la pulsar non è quasi più misurabile, te deum laudamus! Un gelido disco volante atterra sul plesso solare. Decolla e atterra qua e là. È sempre

    freddo. David mette a fuoco meglio. L’UFO ha un lungo tubo che si diparte verso l’alto. È uno stetoscopio. «Bene, il cuore è OK, il polmone anche, ha sopportato un bel trauma, ma la pleura

    non è perforata. Gli somministrerò un sedativo.» «Questo cane meriterebbe di soffrire per intero, altroché! Alle sue vittime non dava

    mica il sedativo! Cazzo!» La voce di due-pacchetti è stridula per la rabbia. «Io devo fare solo il mio lavoro.» La voce squillante è scesa almeno di un’ottava, ma-

    nifesta dissenso.

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    Scoppio sonoro – snap! –, fialetta di vetro rotta. Depressione nel pistone, liquido aspi-rato, risucchio d’aria alla fine. Goccia di liquido sull’avambraccio, la bolla d’aria è stata espulsa (embolo?). Sussulto impercettibile. Ago nel bicipite. Pompaggio di alcaloidi. Molecole aromati-

    che alla ricerca di canali sanguigni. «Chiamatemi per ogni evenienza.» «Fosse per me, lo lascerei strillare dal male almeno per tre ore prima di chiamarla,

    dottore.» «Per fortuna lei adesso non è più in turno, mi sembra.» La voce squillante è un po’ i-

    ronica e divertita. Grugnito di risposta. Ultime onde sonore. Passi. Porta chiusa. Silenzio. La cefeide si spegne. Dissolvenza.

    Buio… caddi come l’uom che il sonno piglia. Il dolore andava e veniva a ondate, ma con una pulsazione più lenta, molto più lenta

    delle stelle di neutroni, sia quella oculare, tuttora piuttosto attiva, sia quella polmonare, ridotta di magnitudine, ma mai sopita del tutto. Queste nuove ondate di dolore avevano invece un ritmo circadiano, come una lenta

    modulazione di ampiezza delle più rapide oscillazioni dell’occhio e dei tubercoli [modula-zione… sovrapposizione sinusoidale di onde… formule di prostaferesi…]. La modulazione seguiva un ritmo preciso: dolore diffuso in tutto il corpo, come gas interstellare, implosione e aumento della temperatura di sofferenza, poi onde sonore, di nuovo il doctor subtilis e le guardie ringhianti, ancora fiale, iniezioni, torpore morfinoide, incoscienza, buio, sonno… to die to sleep, perchance to dream. Anche il dolore era cambiato: non più supernovae, non più dolore punteggiato, ma

    nebulosa, residuo dell’esplosione, sofferenza che si espande radialmente [nebulosa… crab nebula… esplosione del 1054? la stella cometa dello scisma di oriente?]. La tranquillità analgesica era di durata indefinita, ma fatta soprattutto di notte, buio,

    vuoto intergalattico, sogni, perchance to dream. Sogni confusi, spezzettati, ma a colori, lumi-nosi, molto luminosi. Coste rocciose, spiagge, valli di montagna, villaggi di pescatori, cit-tà rinascimentali arroccate sulle colline, affollati suk mediorientali; tutto era immerso in una grande luce, calda, meridiana, estiva. Sogni come brevi spot, come diapositive su cui non c’era il tempo di fermarsi, passa-

    vano luminosi e splendidi, ma senza memoria, come fiches sfogliate rapidamente in uno schedario. La notte era lunga, ma, come nei giorni successivi al solstizio di inverno, diventava

    via via più corta. Quando la marea si abbassa le onde vanno e vengono, ma lasciano sco-perta una porzione di spiaggia sempre maggiore; allo stesso modo il dolore andava e ve-niva, ma poco per volta scopriva una porzione sempre maggiore della coscienza di Da-vid. Nome: David. Cognome: Stein. Professione: docente universitario. Ricordava vecchie aule a gradinate, grandi lavagne,

    corridoi affollati di giovani, sedute di laurea. Ma cosa insegnava? in quale città? Cosa gli era successo? Un incidente automobilistico? Flash: una volta era alla guida di una Ford rossa, ma

    quando? E dove?

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    Una caduta in alta montagna? Flash: salita sulla cresta di una montagna ricoperta di ghiaccio, con piccozza, corda e ramponi (ma lui c’era mai stato davvero?). Il dolore risale, luce, onde sonore, passi, ago, tranquillità narcotica, buio, sonno. E fu

    sera e fu mattina, un altro giorno. Ricominciamo. Nome: David. Cognome: Stein. Professione: docente universitario [direzione già esplorata, binario morto; procediamo oltre]. Cosa gli è successo? Incidente? Trauma? Più che probabile. Questo spiega il dolore e

    la fatica della memoria. Pensiero razionale: i feriti di solito vengono curati negli ospedali, nelle cliniche, negli

    ambulatori. Ci sono letti morbidi e non assi di legno, infermieri (abbastanza) cortesi e non guardie roche e ringhiose. E poi pigiami, lenzuola, ampie finestre, comodini con la bottiglia dell’acqua, il barattolo dello zucchero, i fiori e le parole incrociate. Cosa ci face-va invece in una stanza buia, senza finestre, nudo su un tavolo di legno? Cosa ci faceva lì come un prigioniero? Prigioniero, ecco cos’era! Forse prigioniero di guerra, in una specie di sanatorio di un

    campo di prigionia? Ma le sue erano forse ferite di guerra? Aveva pallottole di vario cali-bro in corpo, schrapnel nella schiena e nell’occhio… strano, non gli sembrava… Il pendolo del dolore mareale torna a risalire, ancora luce, onde sonore, passi, fiala,

    annebbiamento oppiaceo, buio, sonno. E fu sera e fu mattina. Ancora un giorno. Nuova sessione alla ricerca della memoria perduta: cosa gli era successo? Un momen-

    to di confusione, poi un’idea guida: prigioniero. Ma non di guerra? In guerra non si viene spogliati e chiusi in una cella buia… altrimenti dove sarebbe andata a finire la conven-zione di Ginevra? [Ginevra… Calvino… Croce Rossa? e cosa c’è di così convenzionale?] La consapevolezza si faceva strada lentamente nella sua testa: era come trangugiare

    un boccone troppo grande che con fatica si faceva strada nell’esofago. Era un carcerato. Oppure un sequestrato. Con pestaggio violento prima e dopo l’arresto/sequestro. Un pestaggio scientifico con manganelli, stivali, pugni e colpi di taglio. Poliziotti brutali. O terroristi. Mercenari. Bande di criminali. Narcotrafficanti. In ogni caso non poteva fare nulla se non aspettare. La bassa marea sarebbe arrivata e qualcosa sarebbe affiorato. Qualcosa avrebbe scoperto. Il dolore tornava ad avanzare. Prima del solito ciclo luce-suono-sedazione-buio una

    domanda si aggirava come un debole spettro nella sua mente: perché? perché? PERCHÉ? E fu sera e fu mattina. Un altro giorno.

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    3. ATTO DI ACCUSA.

    Imputato: De La Pierre David (vedere allegato A - rico-

    noscimento retinico DGPP).

    Età: 45 anni (vedere allegato B - analisi telomerica).

    Professione: non definita.

    Precedenti penali: truffa, ricettazione, estorsione,

    sequestro, lesioni personali aggravate a scopo di rapina

    (vedere allegato C - da DGPP).

    *** ATTENZIONE! Il file riguardante il soggetto è in-

    completo o è stato alterato. Ricostruzione del file ten-

    tata. Ricostruzione parziale riuscita. Ricostruzione com-

    pleta impossibile. ***

    Imputazione corrente: sequestro di persona minore fina-

    lizzato ad atti di libidine e violenza sessuale, maltrat-

    tamenti aggravati, resistenza a pubblico ufficiale, ten-

    tativo di fuga.

    Ricostruzione dei fatti: il giorno 190-25 alle ore

    14:57:32 l’imputato avanzava lungo via Carnot, zona indu-

    striale sud. All’altezza degli impianti chimici Leverham

    veniva sorpreso da una pattuglia della polizia cittadina

    mentre tentava il sequestro del minore Niccolò Bianchi,

    di mesi 63 di età (si veda sequenza video, allegato D al

    presente atto). Il predetto minore si trovava in evidente

    stato di shock e tentava di liberarsi dalla stretta

    dell’imputato, che lo strattonava e maltrattava. Il mino-

    re fu udito pronunciare le parole: “Lasciami! Lasciami!

    Non ti conosco! Vai via!”.

    Successivamente l’imputato si avvicinava maggiormente

    al minore con l’evidente intento di toccargli le parti

    intime con la mano destra (si veda sequenza video allega-

    ta). Il minore fu allora udito pronunciare le parole “non

    mi toccare!” per due volte.

    Solo il pronto intervento della pattuglia di pubblica

    sicurezza impediva quindi la consumazione della violenza

    sul minore. L’imputato tentava allora di sottrarsi

    all’arresto dandosi alla fuga. Raggiunto dagli agenti op-

    poneva resistenza con metodi violenti. Nella colluttazio-

    ne un agente veniva ferito e un altro contuso. L’imputato

    stesso subiva una contusione all’occhio sinistro causata

    dalla gomitata accidentale di un poliziotto e una sublus-

    sazione della spalla destra causata dal suo maldestro

    tentativo di colpire uno degli agenti.

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    Intervento proposto: mesi 1 di isolamento e rieducazio-

    ne elettroindotta, mesi 24 di rieducazione neuropsichia-

    trica, mesi 30 di rieducazione cognitivo-ambientale in

    struttura protetta, mesi 45 di rieducazione socio-

    lavorativa in ambiente controllato per un totale di mesi

    100. Tale durata è proposta solo in caso di piena ammis-

    sione di colpa da parte del reo. In caso contrario può

    essere aumentata fino al doppio a giudizio del giudican-

    te.

    IL RESPONSABILE IL RESPONSABILE

    DGPP SICUREZZA

    G Valdez A Suckoy

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    4. La sola via per cui la procedura perda tutto ciò ch’essa ha di autorità univoca e diven-ga una vittoria effettivamente riportata sull’accu-sato è che il criminale prenda su di sé il proprio delitto, e dichiari lui stesso ciò che è stato sapientemente e oscuramente co-struito dall’istruttoria. M. Foucault, Sorvegliare e punire, 1975 La luce proveniva da un sistema binario di stelle, classe spettrale G, orbitanti attorno

    al comune centro di massa… strano un sistema binario con due stelle della stessa tempe-ratura e luminosità… migliorando la risoluzione le stelle non apparivano più puntiformi, ma piuttosto come filamenti incandescenti allungati… non stelle, ma lampadine! David costrinse la sua mente, che aveva ormai appreso a vagare sempre più libera-

    mente, nei binari di una minima lucidità. Non stava osservando il cielo al telescopio, ma soltanto due vecchie lampadine a incandescenza (ancora Edison!) che penzolando dal soffitto dai loro cavi di alimentazione, oscillavano lentamente intorno alla loro posizione di equilibrio [pendolo… isocronismo… Galileo… Duomo di Pisa? oppure Huygens? o Foucault?]. Le lampadine disegnavano una doppia luce e una doppia ombra sulla malridotta scri-

    vania che aveva di fronte e sui pochi oggetti che vi erano posati: fogli di carta sparsi, una penna, un ventilatore piccolo e ronzante [qui fa caldo? ma in cella non faceva freddo?], una bottiglia con un liquido incolore, una pistola automatica di medio calibro [armi a energia cinetica? scambio di quantità di moto tra proiettile e bersaglio?]. La luce illuminava anche parzialmente l’uomo che aveva di fronte; parzialmente, sia

    perché il nero dell’abito di indistinguibile fattura rifletteva pochissima luce (albedo < 0,05), sia perché l’uomo aveva la pelle del volto e delle mani molto scura (albedo = 0,2). I suoi occhi erano nascosti da lenti a specchio (albedo = 0,999). Gli occhiali a specchio riflettevano due immagini uguali di un corpo magro, un volto scavato con una benda sull’occhio, capelli rasati a zero, pelle molto chiara. Era il suo corpo. L’unico occhio visi-bile era nero e mobilissimo [sono io? sono proprio io quello?]. Le dita di una mano dell’uomo nero tenevano fermi alcuni fogli di carta per evitare di farli volare via al flusso del venti-latore. Le dita dell’altra tamburellavano sul tavolo con un ritmo due-tre [mambo… cal-ypso… samba…]. Per il resto era silenzioso e immobile. Dietro alle sue spalle si indovina-va una vecchia geometria sbrecciata di mattoni rossastri (albedo = 0,4). David abbassò gli occhi, anzi l’occhio, su di sé e vide che era vestito di un bianco ab-

    bagliante (albedo = 0,95), dagli zoccoli, ai pantaloni, alla giubba a girocollo. La manica e il lato sinistro della giubba erano stati tagliati e forse erano stati aggiunti dei bottoni per permettergli di indossarla con la fasciatura braccio-spalla. La mano destra e il braccio e-rano liberi. David li mosse un po’ per sgranchire i muscoli e vide con la coda dell’occhio un minimo movimento alle sue spalle. Chiaramente era controllato, e anche a distanza piuttosto ravvicinata. Non avrebbe saputo dire da quanto tempo era lì, né come ci era arrivato. Nei ritmi

    circadiani precedenti era sempre rimasto disteso sul tavolaccio di legno, senza apparen-temente mai ricevere cibo né eliminare le scorie metaboliche.

  • 12

    Forse era stato condotto fuori dalla cella nella fase REM di sonno e lasciato riprendere coscienza sulla sedia di plastica rossa, modello economico impilabile, riconoscibile dall’elasticità del sedile e dalla granulosità della plastica. Picco improvviso di onde sonore, forma d’onda sgraziata, voce gracchiante e disso-

    nante, come ferro su ferro. «Allora, vuole firmare? Se accetta questo atto di accusa, cioè confessa pienamente, a-

    vrà uno sconto di pe… cioè, un trattamento più favorevole di rieducazione. Ci pensi be-ne, perché io non ripeto l’offerta!» David aprì la bocca, inspirò, espirò e con suo grande stupore si accorse che le corde

    vocali erano in buono stato e funzionanti. Forma d’onda ben modulata, con armoniche superiori, voce profonda e piuttosto gradevole, suono familiare, appena incrinato dalla “rieducazione” dei giorni precedenti. «Cosa dovrei firmare?» «Gliel’ho già detto, l’atto di accusa!» Occhi-a-specchio si stava già irritando. «L’ho let-

    to prima, non ha sentito?» Letto prima? Sentito? Sì, aveva sentito qualcosa, su di lui, una sfilza di assurdità, pre-

    cedenti penali, sequestro, violenza, ma ne aveva un ricordo un po’ nebbioso. «Sì… ho sentito qualcosa… ma sono piuttosto stanco e confuso… ho passati giorni

    difficili e terribili, per cui non potrebbe…» «Rileggere?» Lo sbirro incurvò la bocca in una smorfia di disprezzo. «Guardi che qui

    non siamo all’asilo… sono rimasto indietro, signora maestra!» Il gracchiare divenne co-me uno stridulo falsetto e poi riprecipitò sulle normali frequenze medio-basse. «La pro-cedura non prevede rilettura! O firma alla prima lettura o devo passare all’interrogatorio step by step!» e sospirò come se la cosa gli costasse un’enorme fatica e avesse a che fare con un alunno particolarmente stupido. «No, non posso firmare», il puntiglio notarile era di certo fuori luogo, ma che cazzo,

    non avrebbe concesso nemmeno un Ångstrøm a quell’ombra sogghignante, «perché non ho capito bene tutto, Signor… posso conoscere il suo nome?» «Può chiamarmi Isaac» [chiamatemi Ismaele… Ismaele e Isacco? Agar e Sara?]. Il sospiro si

    fece ancora più profondo e rassegnato. «Va bene, allora passiamo all’interrogatorio. Campo numero uno. Ammette l’imputato di chiamarsi De La Pierre David?» [Pierre… pietra… stone? stein? pedra? petra? lythos?]. Dal tono della voce di Isaac-gracchio sembrava già che si trattasse di ammettere una colpa. «Io… io non so… io credo di chiamarmi Stein, David Stein» (ma era proprio così? Si

    chiamava davvero Stein? Si era sempre chiamato così?). Mirror-shades rimase per un attimo perplesso. Se non fossero stati nascosti dalle lenti

    ad alto albedo, si sarebbe detto che aveva spalancato gli occhi. «L’identificazione retinica parla chiaro, guardi qui!» Gli sventolò sotto al naso un fo-

    glio con la cartografia della sua retina venata da sottili vasi sanguigni, confrontata con i dati in archivio. «De La Pierre, David, identificazione al 99,9%. Allora, lo ammette?» «No, non posso, ammetterlo. È un nome che non ho mai sentito, né usato. Non so-

    no De La Pierre. Ci deve essere stato un errore!» [sono forse nello 0,1% di incertezza?]. «Non ci possono essere errori. Noi non facciamo mai errori.» La voce di Isaac si ab-

    bassò di una decina di gradi kelvin. Prese la penna (niente macchina da scrivere?) e com-pitò, mentre scriveva con la sinistra: «L’imputato rifiuta l’identificazione di archivio e ne-ga la sua identità.» Alzò gli occhi, cioè gli occhiali, dal foglio e aggiunse: «La negazione di

  • 13

    identità è passibile di un periodo di rieducazione da cinque a dieci mesi. Questo, solo per sua informazione.» David annuì un po’ a disagio. «Capisco, ma non posso dire di essere quello che non

    sono.» Isaac-specchio agitò una mano generando una doppia ombra sulla scrivania, co-me per dire: lasciamo perdere e passiamo oltre. «Campo numero due. Ammette di avere quarantacinque anni? Ho qui l’analisi dei te-

    lomeri delle sue cellule a dimostrarlo.» Isaac sventagliò un altro tabulato davanti a David, pieno di sigle, tabelle e grafici che per lui non avevano alcun senso. Quarantacinque an-ni… Gli sembrava di essere un po’ più giovane! [non ho appena compiuto… quanti: 37, 38, 39 anni? oh, be’! un numero vale l’altro]. «Lo ammetto», rilassamento muscolare dell’inquisitore, «però se mi è permessa una

    domanda», nuovo irrigidimento. «Perché fare un costoso test telomerico, quando la mia età è sicuramente nei vostri database?» (come faceva a sapere che era costoso?). Isaac incassò il colpo. Vasocostrizione superficiale (invisibile su pelle scura, tranne

    che per riduzione di irraggiamento IR). Sul momento David pensò di aver fatto una tre-menda cazzata: non si fanno domande all’inquisitore! e si preparò alle inevitabili botte delle guardie… ma si era sbagliato. «Questa è la procedura standard» ringhiò Isaac attraverso i denti, ma suonò come una

    risposta falsa, buttata lì per tamponare una falla nel sistema.

  • 14

    LA RECENSIONE DI INCIQUID

    Abbiamo letto “Amandla!” con estremo piacere, e tutto in un fiato: fresco, originale ne-gli sviluppi e nell'intreccio, interessante nella “visione politica”. Il romanzo ha un’impostazione classica proiettato in un futuro non troppo lontano in cui vengono amplificati alcuni aspetti della vita attuale sia da un punto di vista sociale che tecnologico. La sua originalità sta nella relativa prossimità sociale degli eventi e la fu-ga tecnologica poste accanto a una interessante visione delle genti che vivono nelle aree più povere del nostro povero pianeta immaginate, non con la funzione del pericolo e sorgente di distruzione e povertà, ma come riferimento di valori e tradizioni fondanti e fonte della rigenerazione futura. Un’altra cosa che abbiamo trovato importante è che all’esasperazione della tecnologia la risposta non sia il luddismo, ma la solidarietà umana, la consapevolezza di appartenere tutti ad una medesima specie, la compassione, la capacità di accogliere l’altro: l’ubuntu, appunto, quello che si potrebbe chiamare un apprendimento di terzo livello, il chiamarsi fuori dal circolo vizioso della vendetta che chiama vendetta. Il tutto, beninteso, è scritto senza una goccia di miele ma con una forza espositiva note-vole, con personaggi ben delineati e una storia emozionante e ricca di pathos. Il romanzo ha come ispirazione la storia del superamento dell’apartheid in Sudafrica ma anche padri letterari e filmici primi fra tutti Matrix e il suo diretto ispiratore Ubik, di PK Dick, ci sono inoltre mille altri richiami: quelli di una cultura comune ad una generazione che nutre la speranza in un futuro di pace e solidarietà, la dove i bisogni essenziali siano soddisfatti a tutti e che quelli da soddisfare sono una spinta al miglioramento e all’armonia.

    L’AUTORE

    Marco Pagani è nato nel 1960 ed è un docente di Fisica, con grandi passio-ni per le scienze, la scrittura, l’ecologia e la pace. Ama la montagna, le cartine geografiche, la buona compagnia e la buona musica. Dal giugno 2006 ha avviato il blog di informazione e coscienza ambientale

    Ecoalfabeta. Ha pubblicato i saggi La vita oltre il muro e Il diario della Terra 2006. Ha partecipato alla raccolta di racconti XII nel 2007, e ha pubblicato recentemente con Edizioni XII il romanzo di fantascienza Amandla!.

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    INTERVISTA CON MARCO PAGANI a cura di Luigi Milani, da False Percezioni

    Marco Pagani: docente di Fisica, appassionato di scienza, ecologia, musica, nonché fervente sostenitore della pace. Come riesci a conciliare tutto questo con l’altra tua grande passione, la scrittura? Infatti queste passioni non si conciliano molto. Scrivere è piacevole ma non è affatto facile; per farlo bene occorre tempo e felicità d’animo. Ho avuto la fortuna di poter scrivere Amandla! quando disponevo in abbondanza di entrambe le cose. Da quando ho iniziato il blog ambienta-le Ecoalfabeta, il tempo disponibile mi si è piuttosto ristretto, mentre si sa che alla felicità non si può sempre comandare… Per questo negli ultimi tempi ho lavorato solo ad alcuni racconti bre-vi, che sono apparsi o appariranno in alcuni libri di XII. Poi si vedrà. “Amandla!” può vantare, a mio avviso, illustri parentele letterarie, primo fra tutti il grande P.K. Dick… Ho letto e apprezzato le visioni di futuro di Dick da molti anni; paradossalmente, non avevo però mai letto Ubik, a cui Amandla! viene spesso (non so quanto degnamente) accostato. D’altra parte, quando si assorbe qualcosa di uno scrittore, si finisce un po’ con il somigliargli anche nelle opere che non si sono mai lette! Leggo fantascienza dall’età di 11 anni, cioè preci-samente dal 1971; nei trenta e passa anni successivi il campo dei miei interessi e delle mie letture si è dilatato in modo consistente, ma non ho mai abbandonato questo “primo amore”. Ricordo ancora oggi come il mio primo libro di SF, La civiltà dei Solari di Norman Spinrad, fu per me una vera e propria rivelazione. Non l’ho più riletto, e non saprei dire se è davvero quel capola-voro che allora mi era sembrato, ma una cosa è certa: mi ha spalancato davanti orizzonti infiniti di pensieri, meraviglie, possibilità e non fosse che per questo, devo la mia riconoscenza al suo autore. In seguito ho imparato ad apprezzare molti di autori diversi. Oltre a Dick, ricordo qui solo la forza narrativa di Farmer, l’inventiva di Silverberg, l’ironia di Sheckley, la precisione di Niven e soprattutto il sense of wonder di Ray Bradbury. Sono grato anche a tutti loro per come hanno saputo nutrire il mio inconscio di sogni e come ne hanno esorcizzato le paure. In A-mandla! C’è un po’ di ognuno di loro, oltre naturalmente a tutto quello che ho letto, dal Corso di Fisica Teorica di Landau alle Fonti Francescane, da Gödel, Escher, Bach di Hofstadter ai libri di De-smond Tutu. Tutto ben centrifugato e amalgamato, naturalmente… “Amandla!” è un romanzo che affronta temi impegnativi, di grande attualità. Come na-sce il vasto affresco narrativo alla base del tuo romanzo? È naturale che prima o poi si tenti di scrivere fantascienza, oltre che leggerla. Storie, personaggi, idee, situazioni fluttuano libere nella mente alla ricerca di qualcuno che le metta sulla carta per essere raccontate. Il piacere creativo si deve però coniugare con la fatica e la tecnica dello scri-vere. Credo di aver rimandato a lungo il momento in cui sottoporre le mie idee alla prova della pagina bianca, ma ad un certo punto è arrivato il momento in cui era impossibile rimandare. Quando ho iniziato a scrivere, avevo soprattutto in mente il tema del potere assoluto e del con-trollo sulle menti e la vita degli uomini. Solo in seguito il romanzo è cresciuto passando attra-verso l’esperienza dei mondi virtuali ed ha iniziato ad assumere una “tinta” africana. Credo che per me sia impossibile scrivere a prescindere dalle mie passioni; da un lato quindi la scienza, che non solo definisce i temi, i personaggi e molti ambiti del romanzo, ma ne orienta anche forte-mente il linguaggio; dall’altra, l’esigenza di pace e di giustizia che dagli anni ’70 non mi ha mai abbandonato. Anche quando si scrive un’opera di fantasia, non ci si può dimenticare le ingiusti-

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    zie del mondo, che nella scrittura possono trovare almeno un riscatto e un risarcimento simbo-lico. Sono anni che sentiamo intonare il De Profundis della Fantascienza, caro Marco. Del resto, persino autori del calibro di William Gibson e Bruce Sterling sembrano voler prendere le distanze dalla s.f., in favore della letteratura mainstream. Quale pensi possa essere il ruolo della s.f. oggi? Fa un po’ dispiacere vedere nelle librerie gli scaffali della SF invasi da orchi, draghi e maghetti. Si dice che un tempo la gente avesse più fiducia nella scienza, e questo è sicuramente vero: oggi la overdose di gadget ipertecnologici si accompagna alle più strane credenze irrazionalistiche. Ma credo ci sia anche dell’altro. La SF non è solo celebrazione della scienza, dal momento che molte opere e molti autori hanno poco o nulla di scientifico; è soprattutto la capacità e il corag-gio di immaginare il futuro, o, il che poi è lo stesso, un passato o un presente alternativi rispetto al nostro. L’occidente e (l’Europa in particolare) si è ripiegato su se stesso e non sa più pensate al futuro; dunque nessuno ama più molto leggere i libri di chi si ostina a parlare di futuro. La SF non può ripiegarsi sul presente e parlare degli amori adolescenziali o della noia della vita bor-ghese, come fanno alcuni acclamatissimi scrittori di oggi; non può perdere la sua capacità di scrutare nel futuro o nei presenti alternativi. Non è necessario che lo faccia attraverso i temi e il linguaggio della SF classica. Di per sé non vedo male una SF più calata nel presente, cioè più realistica, che però non manchi di mostrarci “spiragli” di futuri e/o di mondi altri. Potresti descrivere per sommi capi la trama del tuo romanzo? Senza dare troppi spoiler, il romanzo tratta di un uomo che è stato privato della sua memoria e del suo passato e si trova a vivere un presente doloroso e allucinatorio. Il cammino per scoprire chi è si trasforma poco per volta nel lungo cammino verso la libertà. Oltre non posso dire: bi-sogna leggerlo! A cosa stai lavorando in questo periodo? Oltre a svolgere le mie consuete ricerche per il blog, ho scritto diversi racconti, che devono an-cora trovare uno spazio preciso in cui abitare. Progetti futuri? Completare una raccolta di racconti legati al futuro che ci aspetta, scrivere la storia dei miei “anni settanta”, cimentarmi con altri generi letterari, provare a inventare un teatro per l’ambiente. Si tratta di progetti confusi, velleitari, a volte un po’ pazzi, come d’altra parte sono tutti i pensieri che ci turbinano in mente. Forse qualcuno tra questi riuscirà ad approdare a riva.

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