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ALVERSPIR

POCHI PASSI ANCORA…

Monte BIANCO

LUGLIO 1982

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Ci sono mille modi per andare in montagna ma uno solo per conoscerla… con la fatica

Cammina, corri, suda, vivi e se per un momento tutto questo ti sembra sofferenza… pensa quando un giorno non potrai più farlo e rimpiangerai un’altra vita

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E’ facile scrivere di quello che è andato bene, tanto più se facciamo qualcosa di inusuale o poco comune. Per chi è amante dell’andar pei monti, riuscire a bagnare col proprio sudore le rocce di qualche via e superare ostacoli magari impensati, è appagante tenere e conservare un racconto intimo delle proprie emozioni. Non necessariamente scritte sulle carta e magari divulgate, quasi a soddisfare un legittimo ed inconscio ego, ma anche conservate quasi gelosamente nel proprio animo per anni… Magari riportate a piccoli spezzoni in particolari occasioni. In rifugio, ad una cena con altri compagni di camminata, sotto una parete, lungo un sentiero. Ma mai espresse come un racconto, un diario tanto timido quanto personalmente cicatrizzato dentro il proprio io. Magari rivedendo una vecchia foto o solo ricordando chi c’era con te tutto ritorna a galla come fosse accaduto pochi anni o mesi prima, anche se di anni ne sono passati ormai parecchi. Facile quindi pensare, leggere, scrivere, sognare di quello che è andato bene. Il contrario vorremmo rimuoverlo, inconsciamente o volutamente. Il ricordo di quanto non è andato bene, anche solo in parte, solitamente ci lascia una smorfia nelle pieghe della memoria, negli anfratti dei ricordi disseminati nel passato. Eppure… Mi scopro, a distanza di anni, conscio di averlo vissuto, assorbito, ricordato e fattone tesoro. Un amico scrive: “C'è solo un modo nella vita per non cadere mai,... strisciare.“. Certo, per chi non vuole rischiare di cadere, mai, è comodo. Chi accetta il fatto di poter cadere è già ad un primo passo verso se stesso e gli altri. Chi non lo accetta non farà mai parte di se stesso e degli altri. Riconoscerci nei propri limiti ci spinge ad affrontarli, a superali. Il contrario porta solo ad un senso unico senza punto di ritorno… e da soli. Questi ricordi sono stesi a distanza di trent’anni. Come dicevo sembra ancora ieri. Da molto tempo oramai li rivivo senza rimpianto alcuno, anzi. Con la consapevolezza che tutto allora fosse un passo essenziale per una piccola, modesta e semplice maturazione nel mio avvicinarmi alla montagna. Siamo nel 1982. Ricordo l’anno essenzialmente per due cose: questa esperienza ed i mondiali di calcio in Spagna. Due esiti tanto opposti quanto vicini da come si sono incrociati…

Michele

Marzo 2013

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L’idea

Primavera 1982

Stefano chiama e chiede se mi va un giro in montagna. Mi deve parlare

una nuova uscita da organizzare ma, forse troppo preso dall’idea, non esita a proporre di vederci in giornata per parlarmene subito.

Abita poco lontano e non vedo motivo per non soddisfare la mia curiosità. In breve, mi parla del monte Bianco. Buttata lì, così, su due parole: monte Bianco.

Io sono crudo di ambienti extra dolomitici. Camminate, ferrate, qualche piccola e modesta arrampicata, ma di niente extra… triveneto.

Non mi rendo da subito complice della sua proposta solo per assoluta ignoranza. E’ pur vero che era uno dei miei sogni nel cassetto ma… di un mobile ancora da costruire probabilmente.

Un po’ tramortito dalla reputazione del Bianco, un po’ insemenio1, mi faccio coinvolgere dalla sua idea.

Si è informato e documentato in giro. Dal versante francese partendo dal rifugio Gouter è la via più semplice e meno impegnativa. Me la descrive e mi assicura – lui che ne sa e ne fa ben più di me – che non ci sono problemi se ci prepariamo per bene.

Bene. Non serve altro.

Ho un bel ricordo di Stefano. Una di quelle persone che istintivamente ti tranquillizzano camminando in montagna. Un’entusiasta quanto generoso nel dispensare la sua maggiore confidenza sulla roccia e pronto a trasmetterti positività se il tuo incedere sembra meno sicuro.

Strana a volta la vita. Ho conosciuto Stefano in occasione di un campeggio sotto il Pelmo nel 1979, subito a coinvolgermi sulla Costantini ed altri giri in zona. Strano perché conosci una persona che ama la montagna come te piuttosto lontano da casa per scoprire, dopo poche parole, di abitarci vicino… nello stesso quartiere.

Quando la sintonia con una nuova conoscenza è immediatamente on-line non ti serve altro. La lunghezza d’onda è ideale per condividere ulteriori esperienze e con Stefano sono stati pochi anni ma direi intensi.

Quando, qualche anno dopo, mi comunica che intende defilarsi dalla montagna classica per lo sci alpinismo mi dispiace ma… si accetta, serenamente.

D’altronde nei decenni successivi avrò modo di conoscere altri malati di montagna e di condividere con loro altre soddisfazioni e sofferenze… ma queste sono state, sono e saranno altre storie.

1 Insemenio (dialettale): sorpreso, stupefatto, incantato - oggi solitamente usato negativamente per rintronato, rimbambito…

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La preparazione

Maggio-Giugno 1982

La nostra giovane età e pure la nostra inconscia spavalderia ci

permettono di organizzare bene i due mesi che precedono il programma. Non decidiamo subito il momento in cui partire. Ci lasciamo la possibilità di farlo verso le ultime settimane.

Nel frattempo, considerata la non eccessiva difficoltà tecnica tanto piuttosto l’impegno fisico, ci buttiamo a divorare metri e metri sulle Dolomiti.

In particolare ricordo, fra le altre, due uscite spacca gambe. Il giro del Sorapis con pernotto al bivacco Slataper con un tentativo alla

cima principale abbandonata poco dopo il famoso masso incastrato per la pioggia.

Ben più probante il giro completo del Popera partendo dal rifugio Berti – ferrata Roghel – cengia Gabriella – Strada degli Alpini – passo Sentinella e rientro a dormire al Berti; la mattina dopo discesa e auto fino a Cortina per la ferrata Strobel a punta Fiames. Robe da pazzi scatenati!

Ricordo di aver sceso il ghiaione sotto il Pomagagnon con le gambe frullate e che ci vollero più giorni per recuperare.

Tutto ciò e anche altro nelle settimane di fine primavera. Dopo aver verificato e deciso cosa portare, decidiamo per un fine

settimana allargato da sabato 3 a lunedì 5 luglio con ulteriore giorno di riserva per martedì.

Caspita, ci sono i mondiali in Spagna. Sia io che Stefano, appassionati di calcio ma non fanatici, siamo poco allettati dall’ipotesi di perderci le partite. Ma pare che l’inizio della manifestazione non porti bene per la squadra italiana e Stefano ha qualche problema per altri periodi di ferie al lavoro.

Restiamo per qualche giorno in forse e poi prendiamo la decisione per

quei primi giorni di luglio. Una settimana prima Stefano mi fa sapere che altri due dello stesso quartiere, frequentatori montagneschi, vorrebbero aggregarsi: Vic e Cal. Ne conosco solo uno di vista con cui non ho mai peraltro condiviso alcuna uscita e chiedo solo se hanno idea di cosa vogliamo fare e… se sono preparati o meno...

Solitamente non sono propenso alle adesioni dell’ultimo momento quando non conosco le persone e soprattutto quando l’impegno è grande. Penso che se devo stare molto accorto per me stesso, dubitando della mia capacità, poi non abbia la possibilità di pensare anche agli altri.

Quando giri per i monti con qualcuno che conosci instauri un rapporto di reciproca complicità. Non solo emotiva ma anche pratica. Uno sguardo vale più di mille parole; la comprensione, l’affidabilità, il rispetto reciproco sono tutti componenti che ti rendono più tranquillo e sereno.

L’idea di affrontare qualcosa, che nemmeno io conosco e che temo, con qualcuno con cui non abbia già vagato per le montagne mi fa pensare…

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Negli anni a venire avrò modo di trovarmi in situazioni critiche per questi motivi e avrò modo quindi di esprimermi a riguardo ma in quel momento non ero veramente nelle condizioni di valutare…

Non sono molto convinto ma se Stefano, ben più esperto di me, non

solleva obiezioni mi adeguo. Condividiamo quindi con i nuovi il nostro programma e restiamo con accordi di risentirci qualche giorno prima di partire.

Fa caldo in questo periodo. Un caldo afoso. Le gambe sono allenate con

migliaia di metri in montagna e negli ultimi giorni pensiamo solo a farci delle corse per mantenere il fiato e la condizione.

Fa caldo, dicevo. Mi gusto le partite del mondiale e corro verso sera quando la temperatura è più mite.

Chi si prende l’influenza a fine giugno in condizioni fisiche ottime deve essere proprio uno sfigato… Non posso pensare che sia vero!

Entriamo nella settimana prevista, lunedì sto già male ed il martedì pomeriggio sono davanti al televisore per Italia-Argentina con due coperte addosso e 39 di febbre…

Ricordo il pensiero terrificante di dover rinunciare a tutto nonostante le settimane di preparazione…

…non riesco neanche a gioire in maniera adeguata per la stecca sui denti rifilata all’Argentina… saturo di febbre e coi brividi… ma pensa te!

Ci davano per vittime predestinate ed invece… tiè! Li mandiamo a casa con la coda tra le gambe… ma io mi sento anche peggio…

Tanto repentina e forte è stata la febbre, tanto veloce se ne va ed il

giorno dopo mi riprendo. Forse è solo casualità ma credo che una buona dose di fortuna si sia accompagnata ad una mia forte convinzione di venirne assolutamente fuori e presto.

Due giorni dopo tranquillizzo Stefano. Sto abbastanza bene e non intendo fermarmi ora. Sono convinto sia stato solo un breve intervallo e sono convinto di avere ancora la condizione di prima…. non avevo idea…

Mercoledì, giovedì, venerdì. Alla sera mi sento con Stefano e decidiamo che il giorno dopo saremmo

partiti in mattinata per la Francia. Lui mi fa sapere che di prenotare posti letto al rifugio Gouter non se ne parla nemmeno in quanto esauriti da tempo ma ci garantiscono la possibilità di dormire per terra nella sala. Pazienza.

Sabato. Come accordato con Vic e Cal partiamo con due auto lasciando l’eventuale possibilità di rientro differito tra noi e loro. Meglio così.

Stefano non guida quindi mi digerisco tutta una tirata fino al traforo del Bianco dove, oltre alle formalità di frontiera, abbiamo occasione di ammirare la montagna.

Già entrare solo in Val d’Aosta per la prima volta è una cosa che ti colpisce. Queste montagne sono così differenti dalle nostre. Immense, scure, fredde. Il versante sud del monte Bianco fa paura. Le lingue di ghiaccio che precipitano, la roccia scura e le dimensioni così lontane da quello che i nostri occhi erano abituati a vedere ci lasciano senza parole.

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Le nostre Dolomiti sono isole di roccia in un mare di verdi vallate. Le sue cime sono così vicine che ti sembrano tante fermate intermedie di un percorso naturale. Quello che poi le rende uniche sono i vari colori che assumono in ogni fase del giorno e anche della notte sotto la luna. Sono vive. Sono a dimensione… umana.

Solo loro sono così… le montagne più belle del mondo.

Dopo la sosta alla frontiera, il tunnel che ricordo lunghissimo, la discesa

verso Chamonix e prima del paese a sinistra a contornare il massiccio del Bianco verso il simpatico paesino di St. Gervais-Les-Bains dove parcheggiamo e troviamo da dormire per la notte.

Dopo cena due passi con Stefano per una birra. Io non conosco una parola di francese ma lui mi assicura che coi suoi studi riusciremo a bere qualcosa.

Entriamo in un bar e già subito… Che snob ‘sti francesi! Con la puzza sotto il naso subito a farti notare che sei un intruso. Stefano ordina due birre e ‘sta stronza dietro il banco che fa finta di non capire… come a farti intendere che non stai parlando bene. Vaffanculo! Vorrei chiederle se la capisce questa parola detta col cuore ma faccio il bravo e me ne sto zitto. Alla terza richiesta ci serve le due birre con un sorriso ebete e mentecatto. Vorrei vederti dalle mie parti un giorno…

Ho vissuto all’estero per lunghi periodi in precedenza ma non mi ero mai sentito così… mal accolto. Ho vissuto a Londra a lungo. Gli inglesi non sono certo “farina da far ostie2” ma non avevo ricordi di tali atteggiamenti di superiorità, arroganza… o meglio povera e ridicola ignoranza!

2 farina da far ostie (dialettale): la qualità migliore, il massimo

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Le Nid d’Aigle

Le Tete Rousse

Aiguille du Gouter

Domenica. Ci alziamo con calma e parcheggiamo alla stazioncina del paese dove prendiamo il trenino a cremagliera che ci porterà a fine corsa al rifugio-belvedere Le Nid d’Aigle.

Il tratto è piacevole. I panorami del massiccio si avvicinano lasciando intravvedere spazi per noi nuovi. Rocce scure e tanto ghiaccio. Scivoli immensi, distese bianche, seracchi e crepacci.

Fa impressione, indubbiamente. Scesi dal trenino assieme ad un nutrito gruppo di gitanti giornalieri e

dopo aver contemplato le grandi pareti di ghiaccio poco distanti, carichiamo gli zaini e ci incamminiamo sul comodo e brullo sentiero che comincia da subito a salire verso la sosta intermedia: il rifugio Le Tete Rousse.

Lo zaino è carico ma non importa. Ora c’è dentro di tutto: maglie, giacca a vento, ramponi, acqua, piccozza, cibo. Spero quasi che diventi più freddo e di trovare il ghiaccio così parte della roba me la metto addosso ma durante la preparazione avevamo già previsto di usarlo pesante per abituarci.

Non avevamo l’esperienza di ottimizzare il carico, le cose da portare. Questa, se nessuno te lo insegna per bene, è una cosa che ti viene con gli anni… e non per tutti.

Il sentiero scivola via con tranquillità. Non siamo gli unici e di gente che sale al Gouter, o quanto meno fino al rifugio intermedio Le Tete Rousse, ce n’è.

Il tratto fino al rifugio è su un terreno grigio-rossastro, dicono tipico della zona. Arriviamo presto nei pressi del rifugio che scegliamo di non visitare. Tanta gente dentro e fuori, un bordajo3.

Continuiamo e calpestiamo le prime tracce di neve, solo un assaggio. Dove la bassa paretina alla nostra sinistra termina tocchiamo il punto

più pericoloso dell’ascesa della giornata. Un canale neve-ghiaccio da attraversare lungo una ventina di metri dall’aspetto quasi innocuo.

Il problema del passaggio non sta nella difficoltà ma nella facilità con cui da centinaia di metri più in alto arrivano proiettili di sassi che il naturale movimento del ghiaccio e lo stesso scioglimento liberano.

In questo punto, ed anche qualche metro prima dove ci si rampona, sono stati numerosi negli anni gli incidenti anche tragici.

I sassi arrivano senza farsi sentire o preannunciare e quando pare a loro. Non puoi contare sulla tua osservazione perché sono talmente veloci che non te ne accorgi.

3 bordajo (slang personale): casino, confusione, caos, caciara ma dove non ci dovrebbe stare proprio

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In verità, pur con la convinzione di attraversare veloci e spediti, non ne abbiamo avvertito alcuno e forse era il momento meno adatto per una scarica.

Oltre il canale ci si inerpica per un lungo tratto diritto di misto. Niente di

particolare. Qualche breve passaggio di I ma sporco di neve o ghiaccio. Riusciamo a farlo quasi tutto discretamente veloci e senza ramponi e

solo a ridosso del rifugio alcune placche ci consigliano di non rischiare. In rifugio qualcosa di caldo e due parole veloci ma cordiali con uno dei

ragazzi francesi che ci lavorano e che parla italiano, tanto per renderci conto che non ci sono solo stronzi da quelle parti.

Gente tanta. Ma non tanta per dire molta: tanta tanta! Ci rendiamo conto che mangiare qualcosa questa sera sarà un’impresa

ma dormire almeno qualche ora… quasi impossibile.

Stiamo tutti abbastanza bene, almeno in apparenza. Non posso dire di essere stanco anche se i metri fatti oggi sono parecchi. Ma mi sento bene, non ottimamente, ma sufficientemente bene. E’ il mio primo approccio ad un rifugio d’alta quota, il mio primo approccio del genere… in tutto.

I 3800 e passa metri del rifugio non mi stanno creando alcun problema. Era una scoperta anche per me verificare la mia reazione a queste altezze.

Non ero mai salito oltre i 3300 della Marmolada e per il momento la situazione mi da ottimismo.

Dopo la febbre di pochi giorni prima e l’incognita del nuovo ambiente avevo messo in preventivo, obiettivamente, anche una defezione. Quindi arrivare comunque al rifugio era già qualcosa. Inconsciamente tutto quello che sarebbe venuto in più sarebbe stato quasi insperato… inconsciamente perché a quel punto ci contavo, proprio.

Mi guardo attorno e scruto glia altri. Vic e Cal li ho visti rallentare sul misto fino al rifugio ma con buona e costante progressione anche se non conoscendoli non riesco ad interpretare le loro espressioni. Chiedo a Stefano come va e mi rassicura anche se dice di sentire la testa un po’ pesante e di aver paura di non riuscire a dormire in quel casino. Certo, chi avrà la fortuna stasera di avere una branda sotto la schiena patirà meno…

La cena, buona e veloce, anticipa di poco il coprifuoco. Chi ha le brande ci va subito, chi dorme per terra deve attendere che la sala sia libera.

Fortunatamente i ragazzi del rifugio sono ben preparati e con pochi e imperativi comandi fanno sgombrare e spostare i tavoli per lasciar posto a dei ridotti materassini e stuoie dove una nutrito numero di persone spera di poter riposare almeno qualche ora.

Non riesco a dormire facilmente in queste situazioni. A volte mi è già difficile in una branda normale, pensa per terra. Passare da un letto ad un pavimento…. La giornata è stata intensa, vorrei essere un po’ più stanco per trovare stimolo per il sonno quasi quasi… Ma forse solo ora l’altitudine si fa almeno sentire un poco. Scoprirò poi negli anni che stanco o no l’altezza mi toglie la facilità di prendere sonno. Oltre all’ansia, alla tensione, naturalmente.

Ora sono solo, per modo di dire, coi miei pensieri. Mi rendo conto che, per ignoranza della situazione, non sto vivendo la cosa

con particolare ansia. Ci avevano detto che la parte più impegnativa era fino al rifugio. Domani sarebbe stata una lunga camminata mai troppo ripida su pistoni di neve tra le varie cordate… ecco forse era quella la rogna maggiore.

Ripenso ai grandi giri degli anni precedenti e quelli dei mesi prima.

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Penso al casino di gente che ho attorno… non mi trovo a mio agio. Quasi quattromila metri sul monte Bianco tra il ghiaccio e la neve e mi

sembra di essere al mercato di centro Mestre. Se un giorno volessi tornarci, salirei per un’altra via; magari più faticosa, lunga, difficile ma… meno affollata.

Porca miseria, il tempo passa e non riesco a chiudere occhio.

Sento muoversi qualcuno, qualcun altro tira ‘na saraca4 in una lingua strana, sembra di essere ad una stazione della metropolitana di Londra… No! Sono in rifugio e ho gli occhi che bruciano…

L’odore attorno a me non è di bosco, ma di sudore e altro… Non sono in grado di dire quanto e come sia riuscito a dormire ma

osservo l’orologio e direi che… grosso modo… è circa l’una… l’una e qualcosa…

Mi giro e osservo gli altri. I due compagni si stanno alzando cercando di muoversi nel casino. Io guardo Stefano e senza che ci diciamo niente ci ristendiamo per qualche altro minuto aspettando che sfolli un po’ di gente.

Noi abbiamo l’aria rimbambita, penso, ma anche tutti gli altri attorno non sono certo dei fighetti da piassa5!

Partono le veloci colazioni… colazioni all’una di notte?!? Ce la prendiamo calma. Stefano ha un’aria mica buona. Dice di sentirsi

poco bene e mi prende male. L’idea di partire senza di lui non mi gira ma mi dice che vuole comunque provare.

Mangiamo qualcosa, usciamo quando ormai la maggior parte è partita e con calma ramponiamo, prepariamo la corda e la piccozza.

4 tira ‘na saraca (lett. Tirare un sarago): in questo contesto lanciare un’imprecazione, una bestemmia 5 fighetti da piassa (lett. Fighi da piazza): soggetti ben vestiti, curati, alla moda a passeggio inconcludente ed ostentato in centro piazza

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Dome du Gouter

Capanna Vallot

Monte Bianco

Lunedì. A lato del rifugio, sulla prima chiazza di neve, un ultimo controllo

a ghette, ramponi, corda e quindi in quattro legati saliamo i primi metri che, sormontata una piccola duna ghiacciata, ci portano all’inizio del largo pistone verso il Dome du Gouter.

Stefano ci ferma subito. E’ sofferente ed ora, nel buio appena rotto delle

lampade, si vede bene. Male… sto male per lui. Mi dispiace un casino. Penso che abbia voluto almeno partire per… invogliarci ad andare, come

per rendersi almeno complice dell’avvio. Ma si vede e si avverte la sua sofferenza e la sua delusione. Dice di sentirsi la febbre, gli rispondo solo di rientrare, di riposarsi e di

stare tranquillo che noi proviamo ad andare avanti. Non sono tranquillo, per niente. Con lui sapevo di poter contare

soprattutto mentalmente oltre che condividere qualcosa di preparato, studiato, sognato.

Con Vic e Cal… non so… non so cosa ci porterà la cosa.

Ho fatto, in passato, delle cazzate. Come uscire in montagna da solo nonostante sia sempre stato convinto sia una cosa da non fare mai.

Pochissime volte in verità, magari dettate da particolarissime situazioni, ma – esclusa una ferrata in solitaria – ho sempre scelto percorsi ben frequentati dove in caso di bisogno ci fosse gente di passaggio. Ma in quel momento, in quella situazione nuova per me, in quell’ambiente, mi sentivo un po’ orfano. Forse in quel primo momento ho constatato la mancanza di condivisione. La stessa condivisione che col passare degli anni ho sempre cercato di non farmi mancare.

Stefano si slega e ritorna al vicino rifugio. Lo seguo solo un attimo con lo

sguardo che poi rivolgo agli altri. Sembrano indecisi al che istintivamente prendo in mano la cosa e dico semplicemente: “’ndemo và.6”

Mi guardo avanti. La salita sembra una pista di sci battuta dal gatto, appena punteggiata da cordate disseminate con le loro luci lungo un pendio modestamente ripido e quasi banale.

Sto bene. L’aria fredda, ma non eccessivamente, mi ha risvegliato dagli olezzi del rifugio e mi sento lucido… molto lucido.

Ora conto sul fatto di impostare davanti a Vic e Cal un buon passo senza esagerare e la cosa riesce piuttosto bene. Non mi piacciono le andature disomogenee, i cambiamenti di ritmo, i singhiozzi, meglio un passo regolare, tranquillo. Maciniamo metri e metri arrivando alle code delle cordate che ci precedono…

6 ‘ndemo và (dialettale): andiamo su!

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Cordate… che stronzate. Nella mia ignorante inesperienza sapevo però che non ci si lega in numero eccessivo sulla stessa corda creando quindi problemi, oltre che a se stessi, anche alle altre cordate.

Passare comitive di ghiacciaioli7 molto numerose si stava rivelando alquanto difficoltoso; anche sui tratti larghi la pista veniva occupata da lunghe file parallele. Ma la cosa che non sopportavo erano i loro rimbrotti quando loro stessi ci ostacolavano con le loro corde, pure stese a terra…

Col tempo le cose non sono cambiate. I lunghi gruppi-vacanze-legati-assieme li trovi dappertutto, su ferrate, ghiacciai e peggio ancora, accompagnati da pseudo-guide-di-gruppi-vacanze-legati-assieme…

Sopra il primo colle, quando la traccia spiana in un lungo falsopiano, Vic

ci comunica che rientra. E’ stufo e non ce la fa più. Ci guardiamo io e Cal e senza perder tempo riadattiamo lo spezzone di

corda e dopo aver salutato Vic riprendiamo a salire. Accostiamo sulla sinistra il Dome du Gouter ed intanto i primi chiarori

tolgono l’oscurità sul profilo del monte Bianco. Il cielo non è dei migliori, ci sono nuvole anche se non dall’aspetto preoccupante.

Ora, ben visibili anche in lontananza, le molteplici cordate disseminate lungo l’evidente traccia disegnano fili di minuscole luci, come spirali di lucciole sul freddo profilo di ghiaccio.

Sebbene il percorso sia discretamente facile e poco ripido non sento

parlare nessuno nei vari gruppetti di persone che accostiamo. Mi renderò poi conto in altre future occasioni che in un rifugio posto molto in alto, se discretamente accessibile, ci arriva di tutto.

Guide, clienti, turisti, camminatori improvvisati, escursionisti bravi o meno, fungaioli, curiosi, esperti, venditori ambulanti…

Una buona parte neanche minimamente preparata… tanto c’è un rifugio. Ricordo, in occasione della salita dal rifugio Gonella, di aver visto la traccia

disseminata di vomito peggio che un sabato sera fuori l’Osteria dei Beoni. Anche sul Rosa osservavo vagonate di improvvisati che salivano in funivia direttamente da Alagna e poi la prima notte al rifugio Gnifetti sputavano anche l’anima colorando il ghiacciaio con la loro incoscienza.

Comincio a sentire la fatica. La salita del pomeriggio prima si fa sentire

e, anche se ancora non voglio pensarci, la febbre di pochi giorni prima… Cal sembra a posto ma sta respirando con più difficoltà ed anche il suo

passo sta rallentando. Siamo ora al Col du Dome, un tratto quasi riposante e aperto. Il tempo

passa e ci siamo pian piano inseriti oltre le ultime cordate. E’ bello attorno, verso le vallate, è bello in maniera terrificante. Ma non riesco a godermi appieno qualcosa che non avevo mai visto.

Il chiarore del giorno rende inutile la lampada che viene rimessa in zaino e ne approfittiamo per un’altra breve sosta.

Mi guardo attorno e provo ad ascoltarmi. La stanchezza sta arrivando veloce. Altre volte ho sofferto in montagna ma mi stancavo progressivamente, quasi mi accorgevo del calo costante ma lento.

7 ghiacciaioli (licenza personale): termine ad indicare chi cammina sul ghiaccio senza la minima preparazione, fisica e tecnica, come se passeggiasse in centro paese

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Ora la parabola sembra accentuarsi in maniera drastica ma… sono lucido, molto lucido. Se riesco a rendermi conto di queste sensazioni fisiche in questa maniera non posso che essere lucido.

E’ questa considerazione che mi fa pensare di poter andare avanti, meno col fisico ma più con la testa.

Capanna Vallot. Un altro punto di sosta, pochi istanti per riprendere fiato

per Cal ma non per me. Stranamente non mi manca il fiato anzi, mi rendo conto di respirare piuttosto bene, piuttosto… sono le gambe che sono strane.

Dopo capanna Vallot un altro ripido pendio dove la pista si fa più stretta. In questo punto la selezione naturale ha già fatto una prima opera di

scrematura. Le cordate per niente preparate hanno già girato, altre si sono ridimensionate, altre ancora hanno rallentato sparpagliando lungo la via gli assembramenti iniziali.

Ora siamo più… soli. L’ambiente ti ammanta con il silenzio, il rumore del

vento, i colori del giorno che iniziano a disseminare luce nei vari punti del cielo.

Mi guardo indietro e vedo che il pendio appena superato è breve. Mi rendo conto che è costato fatica superarlo eppure è così breve.

Chiedo a Cal come sta e mi risponde di essere stanco. Gli propongo di proseguire, con calma, ma di proseguire comunque.

E’ la mia testa a dirlo, me ne rendo conto, non il fisico. In verità non sono molto stanco, non brillantissimo certo ma non sfinito. C’è una strana sensazione, strana perché mai sentita prima, ma che mi lascia sorpreso.

Cal mi dice semplicemente che basta così. Non dà evidenti o palesi segni

di stanchezza ma è convinto di quello che dice. Gli rispondo che provo a fare un pezzo da solo… provo… ma non sono sicuro.

Riprendo verso la cima. Ora si intravvede, se non la vetta principale, l’ultima cresta verso l’apice e le sagome di chi la sta già percorrendo.

Non così poi così lontano. Se riesco a distinguere quei punti in movimento non sono poi così lontano… Duecento, duecentocinquanta metri… non di più.

Su Les Bosses, un pendio non ripidissimo, non breve ma fattibile. Sono sulla linea di confine riandando con la mente alla carta...

…mi piacciono le cartine, le mappe, la geografia tutta insomma. Ricordo di non aver mai studiato a scuola una riga di geografia. Mi bastava seguire la lezione dell’insegnante e poi a casa osservare, leggere la cartina dell’atlante, interpretarla con quanto spiegatomi e farci tutti i miei ragionamenti e pensieri.

Non aprivo un libro insomma ed ero sempre (solo in quello comunque) il primo di ogni classe frequentata.

Parimenti, sin dalle prime uscite con le cartine di montagna, mi sono sempre trovato a mio agio nella loro consultazione. Forse per questo, cosa istintiva e naturale presumo, a volte faccio fatica a capire le difficoltà di qualcun altro nella lettura o interpretazione di una mappa di montagna.

Il tratto su Les Bosses ci avvicina ancor di più agli ultimi pendii poco

sotto la vetta. Ora mi rendo perfettamente conto che lungo vie del genere il tempo scorre, scorre, per ore e ore…

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E stanno scorrendo via anche le mie forze… Avevo detto a Cal di aspettarmi a capanna Vallot eventualmente, ma che

valutasse lui se invece fosse il caso di rientrare direttamente al rifugio Gouter.

Ora il tratto appena più tranquillo termina e la pendenza si accentua. Niente di eccezionale, sia ben chiaro, sentieri con quella pendenza ne facciamo centinaia sulle nostre Dolomiti quasi saltando ma siamo intorno ai quattromilasettecento metri.

Le gambe… non ci sono più. E’ la testa che le muove non i muscoli. In questa occasione la testa sta funzionando meglio di ogni altra cosa. Strano per l’altitudine ma è così…

Non sento sfinimento fisico, non mi manca il respiro, è semplicemente finita tutta la benzina. Sarò anche rimbambito nel non rendermi conto del tutto della situazione ma… non è la stanchezza che mi sta fermando… è la mancanza di carburante.

Butto uno sguardo in su e vedo almeno la parte iniziale della calotta sommitale. Saranno cento, centocinquanta metri, non di più.

Un altro passo, ancora per illudermi di farcela…

La delusione, quando pensi di averla quasi evitata, è ancora più bruciante. Non ho mai vissuto la montagna come competizione. Scherzo ancora coi

compagni di salite a volte sui tempi impiegati, ma dentro di noi sappiamo bene come esorcizzare gli anni che passano e la nostra… una-volta-verde-età.

In quel momento non mi fregava niente dei metri del monte Bianco, non sapevo neanche quanto ci stavo mettendo.

Stavo invece vivendo una delusione così cruda perché non era dipeso da me. Se avessi vissuto in Val d’Aosta o poco lontano la cosa non mi avrebbe preso più di tanto. Avrei solo rinviato di poco il mio appuntamento. Ma in quei periodi l’idea di attraversare da est ad ovest l’Italia per una uscita sul Bianco non era cosa semplice.

Non era dipeso da me. Ero stato male solo pochi giorni prima e la cosa mi aveva tagliato settimane e settimane di allenamento. Non mentale, a quello potevo cercare di sopperire in qualche modo. Non era colpa mia…

La cima è lì, quasi qui. Muovo lenti passi ma i ramponi non aggrediscono la neve, si appoggiano

soltanto quasi strascicati. Non riesco a trovare una spinta ulteriore. Le nuvole stanno intensificando e sono solo. Solo con me stesso e la mia

delusione. Perché non esaurirmi prima, almeno non sarei mai arrivato a quel punto. Non avrei pagato un prezzo emotivo così grande, almeno in quel momento.

Cerco un alibi nel tempo che sta cambiando e mi esce una imprecazione verso la montagna che pure mi stava aspettando. E’ un’imprecazione che dalle gambe sale ai polmoni e arriva alla testa ma, nell’intimo la montagna voglio pensare sappia capirlo, comprenderlo, ed anche accettarlo.

Negli anni poi la montagna stessa saprà regalarmi molto di più ripagandomi in maniera esagerata di quello che in questo momento io le sto manifestando.

Mi piego sulla piccozza con scoramento ma, seppur conscio di poter proseguire in qualche modo, realizzo che in questo momento la cosa giusta da fare sia fermarmi. Sono ancora lucido e riesco ad elaborare un pensiero sufficientemente logico da prendere una decisione del genere.

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L’istinto probabilmente mi avrebbe portato a continuare, con tanta fatica, vista la vicinanza della cima. Ma quel momento, col senno di poi, mi avrebbe reso più forte.

Mi manca Stefano. Con lui sarei probabilmente salito, aiutato dalla sua presenza, dalla sua condivisione della fatica. Ma solo e impotente, senza la possibilità di recepire una complicità sofferta ma comunque elaborata in compagnia...

Mi giro e torno sui miei passi. Non mi giro più ad osservare la cima come fatto centinaia di volte durante la salita. Forse sarebbe crudele farlo… forse non mi voglio semplicemente fare del male, nel mio io.

Ridiscendo con buon passo i successivi pendii incrociando le cordate silenziose che stanno ancora salendo. Qualcuno mi chiede com’è, quanto manca, se scendo dalla cima. Rispondo velocemente che è come si vede: faticosa ma vicina, molto vicina… no… non ho fatto la cima… per questa volta è bastato così…

Passo capanna Vallot senza fermarmi, ripercorro i passi di qualche ora prima con calma ma agile andatura, come a dimostrarmi che non sono proprio distrutto.

In discesa la fatica c’è ancora ma è tutta diversa. Se resti in piedi sulle gambe devi solo controllare il tuo corpo, il resto viene da solo.

La traccia sui pendii più o meno ripidi è, in ogni caso, talmente ben tracciata e senza ostacoli che si tratta solo di trovare un giusto ritmo di avanzamento.

Lascio il Dome du Gouter alla mia sinistra e dopo una spianata momentanea sono sul limite superiore dell’ultimo pendio da dove è ora ben visibile il rifugio.

Il tempo non è il massimo e le nuvole mi accompagnano oscurando la cima anche se in costante movimento. Arrivo al rifugio, ripongo ramponi e piccozza ed entro trovando ad un tavolo gli altri con sguardi interrogativi verso di me.

No. Non ci sono arrivato in cima. Non ne avevo più o meglio, le gambe non ne volevano più sapere.

Qualcun altro mi avrebbe fatto osservare che arrivare così vicino… che ormai era quasi fatta… ma non Stefano. Lui ha provato poche ore prima cosa vuol dire e il suo sguardo dice solo che va bene così. C’è un tempo ed un momento per tutto.

Avrei potuto raccontare di aver calcato la cima. Nessuno avrebbe potuto dire il contrario o smentirmi. Cento, centocinquanta metri sotto… ma non è da me. Non lo è mai stato e non lo sarà mai.

Preferisco manifestare le mie delusioni, le mie paure, le mie debolezze piuttosto di conquistare falsi plausi o immeritate gratificazioni dagli altri. Non potrei vivere un falso ricordo con me stesso con serenità, con la serenità con cui ho sempre cercato di calpestare ogni sentiero in tanti anni di montagna.

Si può mancare nei confronti degli altri, sbagliando e involontariamente, ma mancare nell’onesta con noi stessi è talmente avvilente e triste che non ci sarebbe spazio per una serena soddisfazione.

Una rinuncia in montagna non è mai una sconfitta, anzi. E’ una piccola vittoria contro le nostre paure, timori, ansie…

Se oggi ripenso e confido, ai compari attuali, di essere salito sul Sorapis per tre volte senza arrivare in cima, mi metto a ridere e mi piace pensare che questo lo devo – se non in tutto ma almeno in parte – a questa prima particolare esperienza.

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Rientro

Siamo indecisi sul da farsi, siamo tutti stanchi e scendere sul misto dal

rifugio non ci attira molto. Decidiamo di pranzare e di fermarci a dormire per la notte, oggi non c’è

praticamente anima viva in rifugio ed un’agognata branda non ce la toglie nessuno. Voglio vedere il primo a cui viene l’idea di volerci sfrattare!.

Il resto della giornata ed un buon sonno ci aiuteranno a recuperare.

Fra le impressioni scambiate da ognuno sulla notte in ghiacciaio, sulle sensazioni e le impressioni, ci ricordiamo che oggi pomeriggio c’è italia-Brasile.

Caspita, un’altra rogna dopo l’Argentina. Sarà dura quanto per noi o peggio? Con Stefano mi confido che forse a noi è andata ancora bene, che forse essere qui, anche se parzialmente delusi, è stato meglio che seguire una partita dalle poche illusioni.

Stefano si è ripreso abbastanza bene. Mi confessa che la notte prima non ne aveva proprio e di aver preso qualcosa dai ragazzi del rifugio per calmare la febbre.

Avverto il suo dispiacere nel non esserci stato nel momento ma questo non ha importanza. Qualcosa abbiamo visto, fatto, vissuto… e proviamo ad accettarlo.

E’ stata un’esperienza comunque. Un ambiente nuovo, diverso, spettacolare, vissuto in due giorni con fatica, delusione forse… ma vissuto comunque.

Non è il massimo… mi brucia ancora ma cerco e voglio farmene una ragione. D’altronde ho anni davanti per prendermi tante altre soddisfazioni e altre delusioni pure… perché no?

Martedì. In effetti non c’è altitudine che tenga: in queste condizioni

riusciamo a dormire parecchie ore e la mattina dopo è un’altra cosa. Facciamo colazione e ricaricato lo zaino scendiamo sul misto dal rifugio. Con buon passo ma con calma anche perché il primo tratto presenta

ghiaccio e vetrato. Oggi c’è il sole e si sta bene. Attraversiamo ancora il pericoloso canalone e passato il rifugio Tete Rousse ci caliamo in velocità alla stazioncina a monte del trenino che ci riporta a St. Gervais.

Riprendiamo le auto al parcheggio, qualche altro scambio di chiacchiere con Vic e Cal e ripartiamo.

In auto parlo con Stefano liberando le mie confidenze, raccontando più

profondamente quanto vissuto. Traspare da lui il desiderio che almeno per me potesse essere andata meglio. A lui avrei potuto regalare parte dell’emozione che avrei, in tal caso, vissuto.

Ma nel dubbio che la cosa avesse potuto invece abbatterlo ancor di più… meglio così.

Ben presto ci accorgiamo che stiamo parlando di altri progetti, di altri percorsi e anche di tornare un giorno sul Bianco. E non solo.

E’ questa la positività delle persone, fai tesoro di una delusione per darti altri stimoli. Prendi il buono del momento-no per crescere e capirti.

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Il mio dialogo col Bianco non si è esaurito in quell’occasione. Tornerò a parlare con lui trovandolo pronto ad aspettarmi come se la prima esperienza fosse stata solo una fugace stretta di mano… o d’anima.

Tornerò ancora a confrontarmi con lui, con altre persone, anche per altre vie ma… questa è un’altra storia.

Alla frontiera una breve sosta e decidiamo di mangiare qualcosa. Appena entrati mi cade l’occhio sul giornale rosa ben conosciuto sopra

un tavolo… lo prendo e per un attimo rimango a bocca aperta… Alzo il giornale davanti a Stefano e non dico nulla: Italia-Brasile 3-2.

Rossi. Rossi. Rossi! E non sarebbe non finita lì. Ma… anche questa è un’altra storia.

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Postfazione

Non ci sono numeri nelle pagine precedenti, né metri di dislivello, né quote. Tutto ciò non fa parte dei miei ricordi e non ha mai avuto troppa importanza. Probabilmente non occupandomi della programmazione dell’uscita non avevo, a quel tempo, dato troppa enfasi ai numeri che solitamente si considerano nel preventivo e nello sviluppo di una cosa del genere. Le parole, i pensieri, le istantanee sono uscite senza alcun riferimento puramente tecnico. E’ questo che ha lasciato traccia l’esperienza, le foto delle sensazioni ed i filmati di ogni istante, in un nuovo posto, lontano e così diverso dalla abitudinaria montagna nostrana. Dopo anni ed anni a camminare, con persone diverse ma con gli stessi sentimenti per questi ambienti, quando ripenso a quei giorni mi sento riconoscente per averli vissuti. Credo di aver imparato qualcosa che nessuno potesse insegnarmi senza provarlo personalmente. La montagna, come tutti gli ambienti naturali, non è mai crudele. E’ così in quanto tale. Ti dà tutta se stessa per quello che è senza alcuna mistificazione. Per lei ho sempre avvertito una immensa riverenza e soggezione. Da lei ho avuto molto e spero solo di averle restituito, almeno in piccola parte, il rispetto e l’educazione che le spettano. E’ quello che piacevolmente riscopro nelle persone con cui cammino, con cui condivido le immense ed appaganti visioni che ogni volta viviamo da prospettive sempre diverse. E’ quello che ho sempre cercato di trasmettere a chi, come me e con me, percorre i sentieri alti che si avvicinano al cielo. Con Stefano, in questa ed altre scoperte nei primi anni di intensa montagna. Con Armando, con il quale ho bruciato scarponi per gli anni a seguire e col quale sono ritornato sul Bianco. Con Gigi e Paolo, coi quali ho vissuto un’altra pagina diversa sulla stessa montagna. Con gli amici di oggi, i Somari, coi quali sposiamo appieno la stessa filosofia, lo stesso pensiero, lo stesso easy living con il quale viviamo la montagna.