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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea Magistrale in Lingua, Società e Comunicazione Aspetti della mediazione linguistico-culturale. Il caso del Centro di Identificazione ed Espulsione (C.I.E.) di Bologna Tesi di laurea in Mediazione Inglese Relatore: Presentata da: Prof.ssa METTE RUDVIN Francesca Pesare Correlatore: Dott. FRANCO PILATI Seconda sessione Anno accademico 2011-2012

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di Laurea Magistrale in Lingua, Società e Comunicazione

Aspetti della mediazione linguistico-culturale. Il caso del Centro di

Identificazione ed Espulsione (C.I.E.) di Bologna

Tesi di laurea in Mediazione Inglese

Relatore: Presentata da:

Prof.ssa METTE RUDVIN Francesca Pesare

Correlatore:

Dott. FRANCO PILATI

Seconda sessione

Anno accademico 2011-2012

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INDICE

INTRODUZIONE ............................................................................................ 1

CAPITOLO 1

IMMIGRAZIONE: LEGISLAZIONE E DATI STATISTICI ................... 7

1.1 Immigrazione e normativa di riferimento ...................................................................... 7

1.2 Alcuni dati sull’immigrazione in Italia ......................................................................... 12

CAPITOLO 2

CAPIRE LA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE ................. 16

2.1 Considerazioni preliminari ........................................................................................... 16

2.2 La medizione linguistico-culturale: le coordinate ....................................................... 19 2.3 La pratica della mediazione .......................................................................................... 27

2.4 Problematicità della comunicazione interculturale ...................................................... 32

2.5 Ambiti di esercizio della mediazione linguistico-culturale .......................................... 36

2.6 Profilo professionale del mediatore linguistico-culturale: le competenze.................... 40

2.7 La professione del mediatore: tra precarietà e territorio. Il caso di Bologna ............... 44

CAPITOLO 3

L’ESPERIENZA SUL CAMPO: PER UN’ANALISI EMPIRICA DELLA

MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE. IL C.I.E. DI BOLOGNA

.......................................................................................................................... 53

3.1 Note metodologiche della ricerca ................................................................................. 53

3.2 Il contesto di riferimento .............................................................................................. 59

3.3 Prima fase della ricerca: colloqui e interviste ............................................................... 68

3.4 Seconda fase della ricerca: l’osservazione partecipante .............................................. 72 3.4.1 Lingua e traduzione: riformulazione e registro. Compiti del mediatore e attività di assistenza .............................................................................................................. 83 3.4.2 Tensioni e richieste al di là del ruolo del mediatore ............................................. 86

3.5 Mediazione e conflitti etnici: il caso della Nigeria ....................................................... 91

3.6 Riflessioni sulla lingua, chiave d’accesso al disagio dei trattenuti............................. 103

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CONCLUSIONI ........................................................................................... 106

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ............................................................ 112

Rapporti di ricerca ............................................................................................... 114

Tesi di laurea ....................................................................................................... 116

Leggi di riferimento e delibere ............................................................................ 117

Sitografia ............................................................................................................. 120

ALLEGATI:

Questionari sottoposti alle dott.sse Iaboni e Rosolini Mappa dei C.I.E. presenti in Italia Scheda anamnestica Diario di bordo

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INTRODUZIONE

Il volto sempre più multiculturale che l’Italia sta assumendo sollecita il dibattito sulle

tematiche legate alla nuova cittadinanza, al fine di individuare il ruolo e la posizione degli

stranieri nella scena sociale italiana.

L’aumento del divario economico e sociale, acuito dalla crisi mondiale, il permanere di

aree di grande instabilità dovuto al proliferare di conflitti bellici e a situazioni fortemente

carenziali sul piano dei diritti umani e civili, ha portato ad un intensificarsi negli ultimi

vent’anni dei flussi migratori. L’Europa, per il suo elevato livello di sviluppo economico,

costituisce uno dei maggiori poli di attrazione del mondo, e l’Italia, per la sua posizione

geografica è diventata una “porta d’ingresso” per tutto il continente.1

L’Italia è divenuta Paese di immigrazione solo recentemente, e nel fronteggiare questo

fenomeno, si è mostrata incline ad una gestione abbastanza improvvisata e improntata

principalmente alla regolarizzazione “a tutti i costi”, e all’esclusione, giuridica e fisica dei

migranti irregolari. (cfr. Dal Lago: 1999, 222)

L’interesse dei media in merito all’immigrazione è esponenzialmente cresciuto, dirigendo

l’attenzione dell’opinione pubblica sull’aspetto securitario e la sua messa in discussione in

seguito alle “ondate migratorie”, creando, in questo modo, un clima di allerta. A questo

proposito, si può indicare come il rapporto “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei

media italiani” dell’Università La Sapienza di Roma rilevi che “per oltre i tre quarti delle

volte (76,2%), persone straniere sono presenti nei telegiornali come autori o vittime di

reati” e ancora che “le persone straniere compaiono nei news media, quando protagoniste di

fatti criminali, con maggiore probabilità di quelle italiane (59,7% contro il 46,3% nei tg,

42,9% vs. 35,7% nella stampa) (Morcellini: 2009, 2). Emerge chiaramente come una grossa

fetta della popolazione associ gli stranieri all’immagine di pericolosi criminali che

minacciano il territorio e i confini nazionali. Questo atteggiamento pregiudiziale

contribuisce a corroborare quel processo di spersonalizzazione e privazione dell’identità

1Gruppo di Lavoro Istituzionale per la promozione della Mediazione Interculturale, Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura professionale del mediatore interculturale, 2009, p.1.

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attuato dalla società moderna nei confronti degli stranieri, descritti da Dal Lago (1999)

come “non-persone”:

sono vivi, conducono un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali (gli italiani che li circondano), ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come “irregolari” o clandestini”, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta. (Dal Lago: 1999, 207)

Nella condizione di limbo “di chi può essere rimosso dal territorio italiano perché

irregolare, clandestino, illegittimo, abusivo” (Ivi, 206) il passo tra la condizione di persona

e di non-persona appare veramente stupefacente. Lo straniero risulta schiavo della sua

nazionalità; sono quindi “le norme relative alla cittadinanza che fanno di qualcuno una

persona, e non viceversa”. (Ivi, 207)

Il sociologo Sayad (2002), sottolinea come le migrazioni vengano osservate da un punto di

vista sostanzialmente etnocentrico, perché si focalizzano sui problemi che le ondate

migratorie provocano nel paese di arrivo, senza tenere conto del fatto che l’immigrazione

sconvolge anche i paesi di partenza. Decidere di abbandonare il proprio paese è sempre un

evento traumatico che coinvolge chi resta e chi parte: un’intera comunità investe tutto

quello che possiede e carica di un mandato economico-familiare il membro della famiglia

più adatto a tale compito. Le migrazioni, afferma Sayad (2002), sono un “fatto sociale

totale”: in esse ogni aspetto dell’assetto economico, sociale, politico, culturale e religioso è

coinvolto.

I paesi che diventano terre d’accoglienza, nel normare la disciplina degli ingressi, però,

continuano a considerare per lo più l’aspetto lavorativo e quello securitario, alimentando di

fatto quell’etnocentrismo di cui sopra.

Ben Jelloun, scrittore marocchino emigrato in Francia, afferma:

L’immigrato, effettivamente è sempre stato percepito come una forza-lavoro, talvolta come un parassita per le società sviluppate. Raramente è stato considerato come un uomo, cioè come un essere con un’anima, con uno spirito, un cuore, delle emozioni, dei desideri e, perché no, anche ricco di fantasia e di senso dell’umorismo. (1999, 7)

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Il presente contributo, nello specifico, vuole affrontare, attraverso il punto di vista della

mediazione linguistico-culturale, il tema della difficoltà per gli stranieri di essere parte di

una nuova cittadinanza.

Si è scelto di focalizzare l’attenzione sulla mediazione linguistico-culturale come strategia

di accoglienza e integrazione, necessarie alla costruzione di un efficiente dialogo tra

culture. Nel suo complesso definirsi per via teorica, la mediazione linguistico-culturale è

più che altro legata, soprattutto nel preciso contesto applicativo prescelto, il Centro

d’Identificazione ed Espulsione di Bologna, all’esperienza maturata dal mediatore e da

alcune competenze quali l’attitudine all’ascolto e ottime capacità relazionali.

In particolare nel primo capitolo, si stenderà un resoconto delle caratteristiche

dell’immigrazione in Italia, rilevando la peculiarità delle risorse legislative elaborate dal

governo italiano in rapporto alle dinamiche della nuova cittadinanza attiva, con un focus

particolare sulla disciplina dei respingimenti e delle espulsioni, di cui figlio è il Centro

d’Identificazione ed Espulsione (d’ora in poi C.I.E.).

Si affronterà, nel secondo capitolo, la questione della polemica definitoria attorno alla

professione di mediatore/mediatrice, professione ancora molto precaria e poco delineata.

Si osserverà tuttavia, come la regione Emilia-Romagna, in cui il presente lavoro trova la

sua collocazione fisica, e il suo riferimento ideale (in relazione all’esperienza di

volontariato svoltasi presso il C.I.E. di Bologna), sia una delle regioni più avanzate nella

legislazione e messa a punto dei servizi per l’integrazione dei cittadini extra-europei sul

proprio territorio. Grazie ai due rapporti di ricerca che hanno verificato lo stato dei servizi

di mediazione sul territorio regionale e che nel secondo capitolo verranno considerati, si

farà riferimento all’atteggiamento e all’approccio regionali nei confronti dell’immigrazione

e dei servizi per stranieri.

Come suggerito dal rapporto “La mediazione interculturale nei servizi. Il caso della

provincia di Bologna” dell’Osservatorio provinciale delle Immigrazioni (2006, 2):

la mediazione interculturale si inserisce a pieno titolo nel dibattito sulle politiche di integrazione degli immigrati, che ha visto tradizionalmente prevalere in Europa due prospettive contrapposte: • quella assimilazionista alla francese, che si contraddistingue per l’orientamento di tipo universalista, diretto a favorire l’accesso individuale ai diritti di cittadinanza;

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• quella di stampo più multiculturale, propria dei paesi del nord, Olanda e Svezia in testa ma anche Germania e Gran Bretagna, dove le politiche dei servizi cercano di tenere conto, in misura variabile a seconda dei casi, delle specificità culturali dei gruppi immigrati.

Si proporrà, grazie alla testimonianza della dott.ssa Cinzia Iaboni, interprete presso il

Ministero dell’Interno, e della dott.ssa Paola Rosolini, interprete presso la Prefettura di

Trieste, e del responsabile di AMISS (associazione mediatrici interculturali socio-sanitarie)

una definizione di mediazione in antitesi con l’idea dell’interpretariato.

Si rifletterà dal punto di vista della mediazione linguistico-culturale, su quanto previsto dal

“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla

condizione dello straniero” (decreto legislativo luglio 1998, n. 286 e successive

modifiche): i C.I.E. o Centri di Identificazione ed Espulsione (così denominati a partire dal

2008, prima indicati come C.P.T. – Centri Permanenza Temporanea).

Proprio questa tipologia di struttura, atta alla detenzione amministrativa degli stranieri

sprovvisti dei requisiti per soggiornare legalmente sul territorio nazionale, ha costituito il

punto di osservazione delle dinamiche e dei meccanismi della mediazione linguistico-

culturale in un settore di emergenza.

Nel terzo capitolo, quindi, l’attenzione si focalizzerà sull’attività di sostegno che il

mediatore presta al C.I.E., attraverso specifiche competenze che consentono a questa figura

professionale di accompagnare il trattenuto nell’universo politico, legislativo e sociale

italiano e di prenderlo in carico, assieme alle altre figure professionali operanti al Centro.

L’attività del mediatore e i riferimenti del suo operato presso il C.I.E. sono da ritenersi

strettamente legati alla struttura di Bologna, che come si avrà modo di esplicitare, si è

dotata negli anni di un Progetto Sociale per la riduzione del danno dei trattenuti.

L’esperienza di volontariato presso il C.I.E. di via Mattei a Bologna, costituisce il nodo

focale del presente contributo: a partire dall’attività svolta si è voluta verificare

l’applicabilità dell’impianto teorico che si è andato costruendo in Italia a proposito della

mediazione linguistico-culturale, esposto nel secondo capitolo del presente contributo.

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Nel corso della trattazione, si dimostrerà a livello empirico il singolare delinearsi e

discostarsi dell’attività di mediazione linguistico-culturale in un “nonluogo”2 come il C.I.E.

Si vedranno le caratteristiche che rendono questa struttura così peculiare e distinta rispetto

ad altre che sembrano partecipare al medesimo genus delle “istituzioni totali” cui

appartiene anche il carcere. (Pilati: 2010a, 1)

Alla luce di questa particolare conformazione relativamente all’organizzazione dei servizi

alla persona, il presente lavoro vuole chiarificare le dinamiche del lavoro multidisciplinare

svolto dal Progetto sociale, una importantissima risorsa per il migrante trattenuto.

Grazie al contributo degli operatori sociali del Progetto Sociale si valuterà inoltre l’impatto

psicosociale del lavoro al C.I.E. Si affronterà un’analisi delle problematiche e delle

strategie alle quali un mediatore linguistico-culturale deve fare riferimento nello

svolgimento del suo lavoro.

Partendo dal concetto “classico” di mediazione linguistico-culturale come facilitazione

della comunicazione, si esporrà nel corso del terzo capitolo, come nel contesto applicativo

di riferimento, i topic classici dell’attività di mediazione decadano e seguano logiche

diverse, in relazione a specifici fattori legati al contesto.

Grazie al confronto con tutte le figure professionali del Progetto Sociale, si vuole fornire

una descrizione completa del lavoro di presa in carico del migrante portato avanti

dall’équipe multidisciplinare di cui responsabile è il dott. Pilati, cercando di fornire proprio

grazie a questo costante confronto, un quadro che tenga conto per quanto possibile, delle

variabili psicosociali del contesto C.I.E., registrate direttamente durante i mesi di

volontariato.

Si noti, inoltre, che la particolare vicinanza, durante i mesi di volontariato, al gruppo delle

donne nigeriane trattenute (dovuto all’affiancamento alla mediatrice nigeriana) ha

consentito di esplorare le particolarità dell’universo di provenienza di queste donne, e di

addentrarsi nell’atrocità dei racconti sulla tratta, di cui la stragrande maggioranza di

nigeriane trattenute sono protagoniste, con riferimento alle particolari dinamiche di

mediazione che questa comunità richiede. 2Il concetto si riferisce ad Augé: 1992, trad.it 2009. L’ortografia “nonluogo” (dal francese “non-lieux”) rispecchia la scelta del traduttore dell’edizione italiana; egli spiega che l’utilizzo del termine senza trattino, risponde alla resistenza semantica della lingua italiana alle parole composte.

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Infine, a supporto del presente contributo, tra gli allegati si è pensato di inserire alcuni

documenti chiave rispetto agli argomenti trattati. Si troveranno infatti i questionari

sottoposti alle dott.sse Iaboni e Rosolini, utili nella stesura della prima parte del contributo,

per la riflessione sulle differenze tra mediazione linguistico-culturale e interpretariato. Si

troveranno inoltre una mappa dei C.I.E presenti sul territorio nazionale, un esemplare della

scheda anamnestica impiegata durante i colloqui con i trattenuti dal Progetto Sociale

(l’utilizzo della scheda anamnestica sarà approfondito e spiegato nel corso del terzo

capitolo), e infine si correda il presente contributo del diario di bordo, tenuto nel corso dei

mesi di volontariato, come strumento di ricerca, filtro e analisi personale3.

3Per ragioni di tutela della privacy si fa presente che i nomi impiegati per riferirsi ai mediatori sono pseudonimi, e che per i trattenuti e le trattenute, si è preferito indicare l’iniziale appuntata del nome di battesimo.

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CAPITOLO 1

IMMIGRAZIONE: LEGISLAZIONE E DATI STATISTICI

“Ma voi davvero pensate che è possibile fermare una marea umana di questo tipo?

Pensate davvero che riuscirete a frenarci?” L’urlo gli uscì quasi soffocato,

un’imprecazione gridata dal fondo dei polmoni. […] Si chiamava Dauda ed era appena

stato rimpatriato dalla Spagna. Era di nuovo qui, a Mbour, nel luogo in cui era partito (Liberti: 2011, 15)

1.1 IMMIGRAZIONE E NORMATIVA DI RIFERIMENTO4

L’Italia è stata significativamente toccata dal fenomeno migratorio a partire dagli anni

ottanta, ma solo nel 1998 si sono compiuti tentativi legislativi adeguati in materia di

immigrazione.

L’Italia e l’Europa hanno sempre concepito il fenomeno dell’immigrazione come

emergenza e come problema per la tutela dell’ordine pubblico.

Centrale è stato l’accordo Schengen, stipulato il 14 giugno 1985 tra Germania, Francia,

Belgio, Olanda e Lussemburgo, con il quale i cinque Stati contraenti si sono impegnati a

“eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne” (art.

17).

L’accordo ha disciplinato la materia dei visti con l'istituzione di un visto uniforme che

consente, per una durata massima di 90 giorni, l'accesso nei territori di tutti i paesi

contraenti. Tale visto viene rilasciato allo straniero che si presenti alle frontiere di uno degli

Stati coinvolti nell’accordo, con un passaporto valido o un documento di viaggio

equipollente e con disponibilità di mezzi finanziari sufficienti per il periodo di soggiorno e

4Per la stesura di questo paragrafo si fa riferimento a O. Di Mauro, “I centri di permanenza temporanea per immigrati. Aspetti legali e funzionali” in “L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”, Università di Firenze. Consultabile su: http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/migranti/dimauro/index.htm

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il ritorno in patria. Per i visti di lunga durata invece, i paesi Schengen conservano la

sovranità, in base ai rispettivi ordinamenti.

Una novità importante prevista dall’accordo, ai fini della sicurezza, è quella che vede i

contraenti impegnarsi a realizzare uno schedario informatizzato, istituito e disciplinato dal

IV Titolo della Convenzione di Applicazione di Schengen, denominato “Sistema di

Informazione Schengen” (SIS), destinato a facilitare i controlli alle frontiere esterne e le

nuove forme di cooperazione interna. All’art. 92 Titolo IV si legge:

1. Le Parti contraenti istituiscono e gestiscono un sistema comune d`informazione in appresso denominato Sistema d' Informazione Schengen, costituito da una sezione nazionale presso ciascuna Parte contraente e da un'unità di supporto tecnico. Il Sistema d'Informazione Schengen consente alle autorità designate dalle Parti contraenti, per mezzo di una procedura d'interrogazione automatizzata, di disporre di segnalazioni di persone e di oggetti, in occasione di controlli alle frontiere, di verifiche e di altri controlli di polizia e doganali effettuati all'interno del paese conformemente alla diritto nazionale nonché, per la sola categoria di segnalazioni di cui all'articolo 96, ai fini della procedura di rilascio di visti, del rilascio dei documenti di soggiorno e dell'amministrazione degli stranieri in applicazione delle disposizioni contenute nella presente Convenzione in materia di circolazione delle persone.

Nelle banche dati del SIS possono essere altresì contenute segnalazioni di persone ricercate

nel quadro di procedimenti giudiziari, dal momento che la presenza di uno straniero può

costituire “una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale” (art. 96).

Nonostante il sistema Schengen, la prima vera e propria legge italiana ad occuparsi di

immigrazione, risale solo al 1986 (legge n.943). Prima di allora la normativa vigente si

occupava degli stranieri in modo generico con l’obiettivo precipuo di tutelare l'ordine

pubblico, dunque in maniera complessivamente insufficiente rispetto ai nuovi flussi.

Successivamente, nel 1990, venne approvata la legge n.39, cosiddetta legge Martelli con lo

scopo di regolare più organicamente l’immigrazione e ridefinire lo status di rifugiato.

Conformemente agli Accordi di Schengen che impongono maggiori controlli alle frontiere

esterne e adeguate misure per contrastare l'immigrazione irregolare, nel 1998, invece, con il

T.U. (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 o Testo unico delle disposizioni concernenti

la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) in cui confluisce la

precedente legge Turco-Napolitano (la legge 6 marzo 1998 n. 40 che ha istituito i Centri di

Permanenza Temporanea in seguito Centri d’Identificazione ed Espulsione con il decreto

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legge n. 92 del 23 maggio 2008 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi

convertita in legge 125/20085) si sanciscono misure per prevenire l'ingresso irregolare e per

reprimere la presenza ed il lavoro irregolari, ridisegnando tutta la materia delle espulsioni e

del respingimento.

In breve, nel 1998, quando viene approvata la Turco-Napolitano, lanciata dal governo Prodi

come il primo provvedimento concernente gli aspetti fondamentali della questione

immigrazione, si interviene soprattutto per colmare le lacune della precedente legislazione.

La legge Turco-Napolitano regola e modifica tutto l’assetto della politica sull’immigrazione

e tra i punti principali se ne elencano di seguito:

la regolazione dei flussi sulla base di quote programmate annualmente;

il contrasto dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento criminale di essa

oltre che alla previsione di maggiori controlli alle frontiere;

la definizione dei diritti e dei doveri dello straniero (vengono inoltre pensati percorsi

di integrazione per gli immigrati regolarmente soggiornanti in Italia);

la regolamentazione del permesso di soggiorno in base al contratto di lavoro

stagionale, subordinato (a tempo determinato o indeterminato) o autonomo;

la disciplina delle espulsioni e del respingimento alle frontiere con l’istituzione del

fermo amministrativo per i casi non immediatamente espellibili, e l’attenzione alla

costruzione di rapporti con i Paesi di origine e di transito per scoraggiare le

emigrazioni e facilitare i rimpatri.

L’urgenza con cui l’Italia e l’Europa affrontano il tema dell’immigrazione e la scelta della

politica del respingimento come unica risposta ai nuovi flussi migratori emerge

chiaramente dall’art. 3 del T.U. dove si fa riferimento specifico alla predisposizione ogni

tre anni “salva la necessità di un termine più breve [di] un documento programmatico

5Nel decreto-legge del 23 maggio 2008, n. 92, all’art. 9 si legge: “Le parole: “centro di permanenza temporanea” ovvero: “centro di permanenza temporanea ed assistenza” sono sostituite, in generale, in tutte le disposizioni di legge o di regolamento, dalle seguenti: “centro di identificazione ed espulsione” quale nuova denominazione delle medesime strutture”.

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relativo alla politica dell'immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, che è

approvato dal Governo e trasmesso al Parlamento”.

Come accennato, il terzo capitolo del presente lavoro tratterà la realtà del C.I.E., a tal

proposito sembra dunque opportuno descrivere i punti salienti del funzionamento della

politica delle espulsioni e dei respingimenti in Italia.

Oggi si può procedere nei confronti di un immigrato irregolare in due modi: con il

respingimento o con l’espulsione. Il respingimento viene eseguito direttamente alla

frontiera impedendo l’ingresso dello straniero che non è in possesso degli adeguati requisiti

previsti dalla legge e che si è sottratto ai controlli di frontiera o che è stato

temporaneamente ammesso nel territorio nazionale per necessità di pubblico soccorso.

L’espulsione riguarda invece chi viene trovato sul territorio nazionale senza i suddetti

requisiti.

Con il termine espulsione si indicano provvedimenti diversi per presupposti e per natura. In

particolare il T.U. prevede tre diversi tipi di espulsione, di cui il primo di competenza

dell'autorità amministrativa (Ministro dell'Interno o prefetto) e gli altri dell'autorità

giudiziaria:

1. l'espulsione amministrativa (disciplinata dall’art. 11 della legge 40/1998, dall’art. 13

del T.U., e dall’art. 12 della legge 189/2002). In questo caso viene prevista, per lo

straniero che entri illegalmente nel territorio nazionale o vi soggiorni illegalmente,

l’espulsione amministrativa (per i reati di clandestinità e di soggiorno illegale).

L'espulsione è disposta dal prefetto con un decreto comunicato all'interessato

insieme all'indicazione delle modalità di impugnazione e a una traduzione in una

lingua da lui conosciuta o, laddove non sia possibile, in lingua francese, inglese o

spagnola. Il decreto di espulsione, inoltre, deve sempre riportare le motivazioni;

2. l'espulsione a titolo di misura di sicurezza (disciplinata dall’ art. 13 della legge

40/1998, dall’art. 15 del T.U., e dall’art. 14 della legge 189/2002). Viene prevista la

possibilità che il giudice, in casi di pericolosità sociale dello straniero, nel caso in cui

per esempio abbia commesso un omicidio o reati con fini terroristici, decreti

l’espulsione dello straniero al termine della pena;

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3. l'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione (disciplinata dall’art. 14

della legge 40/1998, dall’art. 16 del T.U. e dall’art. 15 della legge 189/2002). Si

tratta della possibilità che un giudice possa sostituire la pena con l’espulsione dal

territorio nazionale, con esplicito divieto per lo straniero di farvi ritorno prima dello

scadere di cinque anni.

In questa sede, considerato l’interesse per la realtà dei Centri di Identificazione ed

Espulsione, si focalizzerà l’attenzione sulla prima modalità, per la quale lo straniero viene

accolto nel C.I.E. L'art. 13 del T.U. prevede quattro diverse ipotesi di espulsione

amministrativa:

1. espulsione amministrativa nei confronti dello straniero per motivi di ordine

pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, c.1);

2. espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero

“clandestino” che, entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di

frontiera, non è stato respinto (art. 13 c. 2a);

3. espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero che si

trova sul territorio privo del permesso di soggiorno (espulsione per soggiorno

irregolare, art. 13 c. 2b)6;

4. espulsione amministrativa disposta dal prefetto, per sospetta pericolosità sociale

dello straniero (art.13, c. 2c).

È molto importante in questa fase preliminare inquadrare la tematica della

regolamentazione delle espulsioni amministrative e le modifiche che ripetutamente hanno

interessato i tempi di trattenimento nei C.I.E., poiché la questione del tempo, o periodo di

trattenimento, sono risultati fatti chiave all’interno dei percorsi del singolo trattenuto. Tali

fattori hanno una ricaduta profondamente negativa sull’individuo innanzitutto, e

relativamente all’obiettivo del presente contributo, ricadono in maniera sostanziale sulle

dinamiche della mediazione linguistico-culturale, che proprio in determinate condizioni di

6Si rileva da quanto emerso dai racconti degli stranieri trattenuti presso il C.I.E. di Bologna, come questa ipotesi di espulsione sia la più diffusa.

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allungamento dei tempi e di casualità diventa, in sinergia con altre figure professionali (cfr.

assistente sociale e psicologi) un’importantissima ancora di salvezza, al di là del mero

supporto linguistico.

Come si mostrerà nel terzo capitolo, la tematica del tempo è certamente un’aggravante nelle

condizioni complessivamente alienanti che lo straniero trattenuto in una struttura come il

C.I.E. sperimenta.

Si è infatti passati, da venti giorni, rinnovabili al massimo per altri dieci (art. 12 c. 5 legge

Turco-Napolitano, poi art. 14 T.U.) per il trattenimento nel centro di permanenza

temporanea:

Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. (art. 14 T.U. c. 1)

Alla successiva legge Bossi Fini (189/2002) che con la modifica del c. 5 dell’articolo 14 del

T.U ha previsto tempi di trattenimento pari a trenta giorni rinnovabili per altri trenta.

In seguito nel 2009, la legge 94 del 15 luglio, “Disposizioni in materia di sicurezza

pubblica”, conosciuta anche sotto il nome di “pacchetto sicurezza” (legge che tra l’altro

introduce il reato di immigrazione clandestina), estende il trattenimento a centottanta giorni

complessivi.

Infine, il decreto legislativo n. 89 del 23 giugno 2011 porta a diciotto mesi il periodo di

trattenimento massimo per lo straniero (capo II, art. 3).

1.2 ALCUNI DATI SULL’IMMAGRAZIONE IN ITALIA

Sebbene sia opinione comune tra la popolazione italiana che siano i migranti che accedono

via mare7 a rappresentare l’ammontare più significativo della popolazione straniera

7Il rapporto del Ministero dell’Interno sulla criminalità in Italia riporta che i migranti giunti via mare sono non più del 15% del totale della presenza straniera in Italia. Il rapporto suggerisce che le ragioni di questa

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irregolare presente sul territorio italiano, sono invece gli overstayers8 a essere più numerosi,

vittime soprattutto al sud del Paese, dei meccanismi illegali del caporalato9.

All’inizio del 2011, i cittadini stranieri residenti in Italia erano 4.570.317, pari a 330.000 in

più rispetto al 2010, incidendo sul totale della popolazione italiana per il 7,5%. Oltre la

metà dell’intera presenza straniera era rappresentata dai gruppi nazionali romeno (21,2%),

albanese (10,6%), marocchino (9,9%), cinese (4,6%) e ucraino (4,4%)10

Il numero di persone approdate sulle coste italiane (migrant smuggling11) è salito da 4.406

nel 2010 a 42.807 nel mese di agosto 201112. Le motivazioni che inducono le persone ad

adottare canali illegali per uscire dal proprio paese sono svariate: grave instabilità politico-

sociale, conflitti armati, violazione dei diritti umani, spiccata disparità economica tra le

classi sociali, ritardi nel processo di sviluppo economico-sociale, disoccupazione, estrema

povertà, difficoltà nell’ottenimento del visto.

Una persona che decide di emigrare, lo fa con un preciso progetto migratorio, che se

disatteso comporta il senso di tradimento del singolo rispetto alla famiglia d’origine, che ha

investito soldi, affetti e speranze. È questo il dramma che sperimenta ogni migrante nel

nostro Paese che per ragioni troppo spesso casuali e fuori controllo diventa irregolare e

quindi, secondo la logica della “penalizzazione dello straniero” (Dal Lago: 1999, 33)

poiché clandestino, un delinquente.

Per effetto di una legislazione sull’immigrazione molto restrittiva, gli stranieri vengono

frequentemente trattati come degli invisibili o non-persone (Dal Lago: 1999, 207) nel senso

popolarità risiedono nella maggiore visibilità che la modalità d’ingresso via mare detiene. (Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, Prevenzione, Contrasto, p. 334). Consultabile su: http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf 8Coloro che entrano in Italia con visto turistico e che continuano a permanere sul territorio anche dopo la sua scadenza. 9Con il termine “caporalato” si intende “un fenomeno che intreccia le fila della criminalità organizzata con quelle dello sfruttamento dell'attività lavorativa e che si annida soprattutto nel settore agricolo ed edilizio. Sono moltissime le vittime del ricatto dei “caporali”, intermediari illegali che in cambio di una percentuale sul compenso pattuito offrono un lavoro irregolare, sottopagato, insicuro, degradante e privo di qualsiasi forma di tutela”. (“Il caporalato diverrà reato in Italia”, portale Lavoro dignitoso. Consultabile su: http://www.lavorodignitoso.org/acm-on-line/Home/News/articolo18012595.html). 10Dati Caritas/migrantes (2011) in Mirisola: 2011, 20. 11Si intende il contrabbando di migranti che avviene per mezzo di organizzazioni che, direttamente o indirettamente, ne traggono un beneficio finanziario o materiale. 12Dati Caritas/migrantes (2011) in Mirisola: 2011, 24.

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che per decisioni che non dipendono da loro stessi, all’improvviso restano impigliati nella

rete dello stato diventando individui invisibili senza dignità.

In questo scenario globale, la regione Emilia-Romagna si classifica al primo posto per

incidenza di stranieri sul territorio regionale. Dal 4% del 2003 si è passati all’11,3% del

201113.

Ambrosini (2005, 48) individua alcuni fattori chiave nella descrizione del fenomeno

immigrazione in Italia: la netta contrapposizione che si è andata inasprendo tra cittadini

comunitari e cittadini non comunitari; l’incremento dei flussi per ricongiungimenti familiari

o per asilo politico; il carattere via via più stanziale delle migrazioni; l’aggravarsi

dell’immigrazione irregolare. I provvedimenti di sanatoria hanno poi infuso nei migranti

irregolari la speranza di essere regolarizzati.

Si prendano ad esempio i modelli di inclusione della popolazione immigrata (2005, 206-

213):

temporaneo: esemplificato dalla Germania, vede l’immigrazione come “fenomeno

contingente”. Riguarda per lo più lavoratori chiamati a rispondere a specifiche

esigenze di mercato. Non ci si aspetta che essi avviino processi stanziali, perché

saranno sostituiti da altri. Si parla infatti di Gastarbaiter (lavoratori ospiti), questo

modello è riconducibile ad una concezione chiusa, etnica che vede la difficoltà dei

migranti di ottenere la cittadinanza, anche dopo molti anni di permanenza;

assimilativo: esemplificato dal modello americano del passato, ma anche quello

francese. L’orientamento di questo modello si indirizza verso l’omologazione, i

nuovi arrivati quindi sono accettati purché aderiscano alla cultura e alle regole dello

Stato. Questo modello guarda ai migranti come individui sprovvisti di radici

proprie, e per poter averne devono accettare quelle dello Stato in cui hanno scelto

di migrare;

pluralista: può essere distinto in due varianti, la prima, del laissez-faire,

riconducibile all’esperienza degli Stati Uniti degli ultimi decenni, ove le differenze

culturali sono tollerate ma non favorite da un impegno diretto dello stato. La

13Dati consultabili su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/news/immigrazione-in-emilia-romagna-un-fenomeno-in-stabilizzazione-2.

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seconda variante invece è attenta a politiche multiculturali esplicite, e vede i

componenti del gruppo di maggioranza disposti ad accettare le differenze (cfr. caso

Canada, Svezia, Olanda). Quest’ultima variante propone un’idea della cittadinanza

in senso multiculturale e si oppone al rigido etnocentrismo del modello

assimilativo. Non mancano, nemmeno in questo modello però, elementi discutibili:

l’enfasi sulla cultura d’origine attraverso programmi educativi a favore del

mantenimento della lingua e della cultura del paese d’origine, rischia di ghettizzare

le minoranze e non di integrarle.

Alla luce della legislazione elaborata in questi anni, vissuti a livello mediatico in stato di

costante “emergenza sbarchi”14, il modello italiano, come indicato da Ambrosini (2005,

212) è un modello “implicito” di inclusione, caratterizzato da una scarsa regolazione

normativa. Gli interventi dello Stato si rimarcano per lo più attraverso sanatorie anziché

regolamentazioni ad hoc; vi è una ricezione contrastata da parte della società ospitante, con

aperture per ragioni umanitarie e chiusure per i problemi legati alla sicurezza pubblica;

un’influenza rilevante degli attori locali nelle iniziative di accoglienza, e nascita di reti di

mutuo aiuto tra connazionali.

Da questo si desume che il legislatore italiano sia riluttante all’ammissione di nuovi

immigrati ma al contempo i meccanismi delle sanatorie grazie alla quale gli irregolari

hanno trovato lavoro, rendono ambiguo l’atteggiamento delle istituzioni.

14Si fa riferimento a due tipi di immigrazione, una costruita a livello mediatico che trasmette al cittadino e allo spettatore una situazione emergenziale e di pericolo costante riguardo all’emergenza sbarchi (cfr Dal Lago: 1999, 29). Tale condizione viene in realtà smentita dai dati, che in questa sede sono stati forniti, riferiti ad un secondo tipo di immigrazione, quella reale, “fatta” dai cosiddetti overstayers e come si avrà modo di mostrare nel terzo capitolo, “fatta” di persone che arrivano regolarmente e poi spesso in maniera assolutamente casuale perdono il loro diritto di essere persone giuridiche nello Stato. (cfr. Dal Lago: 1999, 207 e abstract della tesi di laurea di F.G.Farina, “Un giornale interculturale. Il caso de “Il Tamburo” di Bologna” a.a. 2006/2007. Relatore: prof.ssa P.Lalli. consultabile su: http://www2.compass.unibo.it/Materiali/Osservatorio/Tesi/Tesi_Farina.pdf)

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CAPITOLO 2

CAPIRE LA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE

I cittadini europei e tutti coloro che vivono nell’UE in modo temporaneo o permanente dovrebbero avere l’opportunità di

partecipare al dialogo interculturale e realizzarsi pienamente in una società diversa, pluralista, solidale e dinamica, non soltanto in

Europa, ma in tutto il mondo. Decisione n. 1983/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006

relativa all'anno europeo del dialogo interculturale (2008).

2. 1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Le sempre più frequenti migrazioni verso il Nord del mondo, hanno portato ad un

riassestamento dei volti delle città europee in senso fortemente multiculturale. Ciò ha reso

urgente il dibattito sulla convivenza tra culture differenti, alla luce di spiacevoli ma

purtroppo frequenti episodi di intolleranza e xenofobia.

Nel caso dell’Italia la forte presenza di stranieri sul territorio nazionale è una novità legata

alla giovane esperienza italiana come meta di immigrazione (prima paese di esclusiva

emigrazione), secondo le dinamiche precedentemente esposte.

Il discorso sulla mediazione linguistico-culturale, che da vent’anni anima il dibattito sulle

nuove professioni nel sociale in Italia, è un discorso purtroppo ancora dalle tinte fosche per

tanti aspetti: l’esercizio della professione di mediatore linguistico-culturale è ad oggi, salvo

alcuni virtuosi casi (cfr. lo sforzo normativo in tal senso della regione Emilia-Romagna)

privo di tutele e garanzie certe. La precarietà della professione si unisce alla difficoltà del

lavoro stesso, soprattutto qualora venga assimilato ad una pura attività di traduzione e per

questo indegno di avere una propria autonomia. La mediazione linguistico-culturale è, al

contrario, una complessa attività dai fitti rimandi alla multiculturalità e alla risoluzione del

conflitto che la diversità culturale può creare.

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In primo luogo, è opportuno spendere alcune parole sull’eterogeneità delle definizioni di

questa professione. Come suggerisce Favaro (Favaro e Fumagalli: 2004, 37), a seconda

delle funzioni e dallo spazio accreditati al mediatore, dal punto di vista linguistico si

possono registrare focus differenti a partire dal nome con il quale si designa questa figura

professionale, o meglio dall’aggettivazione che accompagna il termine. Per le funzioni di

ponte si utilizzano spesso i termini di “mediatore linguistico-culturale”, “mediatore

culturale”, “mediatore interculturale”; per quelle difensive e di portavoce dei gruppi

minoritari si usano: “ mediatore di comunità”, “mediatore etnico” ecc.; per le funzioni di

facilitazione linguistica e di traduzione si parla di: “mediatore linguistico”, “interprete

sociale”. Le diverse funzioni sono spesso compresenti (Ivi, 38), ed è per questo che è

difficile distinguere in maniera netta i momenti di traduzione linguistica, di “difesa”

dell’utente, o di interpretazione culturale. Soprattutto in realtà piccole, è molto facile che

alla fine il mediatore diventi un operatore “tuttofare”. (Ibidem)

Si considereranno ora le definizioni di mediatore culturale e mediatore linguistico-culturale,

che rispetto alla funzione di ponte, che entrambe le diciture realizzano, si riflettono negli

impieghi che si sono osservati da vicino, attraverso il volontariato svolto al C.I.E. di

Bologna.

Ceccatelli Guerrieri (2003) sottolinea che sebbene nella pratica non vi siano differenze

evidenti tra la dicitura “mediazione linguistico-culturale” e “mediazione culturale”, “è

casomai nel dibattito che afferisce alla definizione che possiamo trovare qualche

sostanziale divergenza di opinione sul significato dell’attributo semplice o doppio unito al

sostantivo” (Ivi, 55). Come afferma Ceccatelli Gurrieri (Ibidem), gli operatori e gli studiosi

che preferiscono la definizione di “mediatore linguistico-culturale” privilegiano una

delimitazione chiara e circoscritta delle funzioni; questa prima definizione girerebbe intono

alla dimensione comunicativa, considerata prioritaria, in un significato di comprensione

reciproca chiara e immediata tra istituzioni e migranti. La seconda definizione, più breve,

vedrebbe l’accorpamento dell’aspetto linguistico entro quello culturale, e presenterebbe un

focus sulla necessità di lavorare sulla diversità culturale.

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Si aggiunge inoltre il punto di vista della regione Emilia-Romagna che insiste sulla

definizione di “mediazione interculturale”, per sottolineare l’ipotesi di scambio e

reciprocità che il confronto tra culture implica. (Osservatorio delle migrazioni: 2006, 2)

Inoltre le definizione di mediazione culturale e interculturale suggerisce un immediato

rimando al fatto culturale, tenendo in conto la questione linguistica in un’accezione

nettamente diversa dalle funzioni del traduttore/interprete. (Ceccatelli Gurrieri: 2003, 55)

Alla luce di quanto osservato nei mesi di volontariato presso il C.I.E., si ritiene opportuno

privilegiare la definizione di mediazione linguistico-culturale proposta da Ceccatelli

Gurrieri (2003) relativa alla dimensione comunicativa, senza escludere ovviamente, il

comparto culturale. L’esigenza comunicativa dei trattenuti, e delle istituzioni italiane,

richiede inesorabilmente ai mediatori una buona comunicazione, alla quale si unisce la

necessità di veicolare la complessità dei codici culturali dei trattenuti, e renderli meno

collusivi con le istituzioni italiane.

Nel corso della trattazione si mostreranno alcuni lineamenti della mediazione e la difficoltà

di elaborarli in una “teoria della mediazione”. Piuttosto che una teoria, possono, infatti,

esistere temi da discutere, secondo quanto elaborato in questi anni di “sperimentazione” del

dispositivo di mediazione.

Ed effettivamente, come sostengono le mediatrici e i mediatori del Progetto Sociale (da

tempo impegnati nella mediazione linguistico-culturale e nei servizi sociali del territorio),

conosciuti al C.I.E., la mediazione linguistico-culturale è un’attività così fortemente legata

alla pratica, che per esercitarla correttamente occorre fare tanta esperienza sul campo.

Dato l’ambito fortemente pratico che si andrà a sviluppare, orientato verso i temi della

salute, sicurezza, criminalità, giustizia, si ritiene che la mediazione linguistico-culturale

riguardi per lo più modelli di intervento, talvolta soggettivi (visto il vago inquadramento

professionale dei mediatori) su cui occorre ragionare in termini di efficacia.

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2.2 LA MEDIZIONE LINGUISTICO-CULTURALE: LE COORDINATE

La mediazione linguistico-culturale si fonda sui concetti di cultura e diversità, e sulla

necessità della comunicazione tra cultura ospite e cultura ospitante in un’ottica di scambio

costruttivo che tuteli entrambe le parti.

A livello antropologico, il primo concetto organico di cultura si deve a Tylor (1871;

trad.it.1983, in Villano e Riccio: 2006, 20) che afferma: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo

ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze,

l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita

dall’uomo come membro di una società”. Inoltre, il concetto di cultura deve essere

necessariamente stratificato (Garzone e Rudvin: 2004, 55)

Si parla infatti, di un “sistema” di cultura a cerchi concentrici (Hall: in Garzone e Rudvin:

2004, 55) comprendente un outer layer, contenente il livello di cultura esplicita (cibo, casa,

vestiti, comportamenti); un middle layer che comprende le norme e i valori che una

comunità detiene, e un inner layer, contenente la cultura implicita, fatta di basic

assumptions, approcci automatici ai quali non si pensa. È proprio il livello contenente la

cultura implicita ad essere il più complesso da comprendere e allo stesso tempo la chiave

vincente per accedere ad un interazione interculturale. (Ibidem)

Le differenze culturali “non esistono in vitro” (Quassoli in Villano e Riccio: 2006, 11), ma

si disvelano nelle relazioni interpersonali, e l’inserimento in una società “altra” rispetto alla

propria, racchiude in sé la problematicità dello scontro tra un Sé e un Altro che

appartengono a due universi di provenienza molto distanti.

Ricorrere ad un mediatore culturale, che conosca come attivare la conoscenza e la

condivisione di codici culturali estranei al paese d’arrivo e che sappia come esplicitarli,

senza reificarli o semplificarli è di fondamentale importanza in contesti difficili e delicati

come la salute, la giustizia, l’educazione e in generale nell’attività di mediazione.

Secondo il rapporto Cospe (in Villano e Riccio: 2008, 12): “La mediazione è […]

finalizzata a facilitare la comunicazione e la comprensione, sia linguistica che culturale, fra

l’utente di etnia minoritaria (e, per estensione, una comunità di etnia minoritaria) e

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l’operatore di un servizio pubblico, in contesto di poteri impari, rispettando i diritti di tutte

e due le parti”.

Con questa definizione si vuole sottolineare soprattutto la funzione della mediazione, che

facilita la comunicazione in un contesto che viene descritto asimmetrico. Il mancato

padroneggiamento della lingua e dei codici culturali del paese d’arrivo significa, infatti, per

lo straniero che si trova davanti ad un servizio o in un qualsiasi ambito della sua nuova vita

all’estero, essere escluso e vivere l’interscambio comunicativo come un rapporto di potere a

favore del rappresentante della cultura del Paese ospitante.

Sembra interessante la prospettiva di Alessandrini, già consigliere del CNEL (Consiglio

Nazionale Economia e Lavoro) e vicepresidente della Consulta nazionale per

l'immigrazione e dell'organismo nazionale di coordinamento delle politiche d'integrazione,

esposta in un rapporto dedicato all’indagine sulla mediazione culturale in Italia.

Alessandrini afferma:

Il mediatore culturale non ha un ruolo di rappresentanza degli stranieri, non si sostituisce né a chi deve erogare un servizio, né a chi ne deve fruire, non è un semplice traduttore o interprete. È, invece, un operatore culturale che favorisce con l'autorevolezza della competenza e dell'imparzialità la reciproca conoscenza e comprensione, una relazione positiva tra soggetti di culture diverse per evitare conflitti e discriminazioni, e nello stesso tempo è un agente di cambiamento. (CISP-UNIMED: 2004, 54)

Dunque, facilitare la comunicazione non significa tradurre o interpretare e nemmeno

rappresentare o prendere le parti di uno degli attori della comunicazione, si tratta di agire

come operatori culturali per favorire relazioni proficue e antidiscriminatorie.

L’attività di mediazione resta comunque un ambito fortemente precario e scarsamente

tutelato: con la legge 286/98 o Testo unico sull’immigrazione, all’art. 42 in termini di

“Disposizioni sull'integrazione sociale, sulle discriminazioni e istituzione del fondo per le

politiche migratorie” viene proposta la possibilità e l’utilità della mediazione linguistico-

culturale:

la realizzazione di convenzioni con associazioni […] per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi.

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Nel T.U. sull’immigrazione, si citano, senza specificarne i profili ed eventuali differenze,

sia figure di “mediatori culturali” che di “mediatori interculturali”. In particolare si parla di

mediatori culturali all’articolo 38, c. 7, con riferimento all’integrazione scolastica degli

alunni stranieri e alla facilitazione della comunicazione con le famiglie. I mediatori

interculturali figurano all’art. 42, tra le misure di integrazione sociale.

Anche il Decreto del Presidente della Repubblica n. 394/99 “Regolamento recante norme di

attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e

norme sulla condizione dello straniero” adotta la denominazione “mediatore culturale

qualificato” e ne indica come compiti, l'accoglienza, la comunicazione con le famiglie e le

azioni a tutela dalla lingua di origine (art. 45 c. 5 e 6): “Il collegio docenti formula proposte

in ordine ai criteri e alle modalità per la comunicazione tra scuola e famiglia degli alunni

stranieri. Ove necessario, anche attraverso intese con l'ente locale, l'istituzione scolastica si

avvale dell'opera di mediatori culturali qualificati”.

È comunque evidente, come un mediatore, possa assurgere al ruolo di livellatore delle

differenze, ponte tra sponde lontane: in sostanza una figura professionale indispensabile nei

nuovi ambienti multiculturali.

Come inoltre sostenuto da Belpiede (2002, 24), nell’incontro tra popolazioni di lingua e

costumi diversi, la mediazione culturale serve a facilitare la comunicazione, ma anche a

sostenere il medesimo livello di accessibilità ai servizi tra autoctoni e stranieri, sostenere il

processo di integrazione e a favorire lo scambio.

Perché ci sia attività di mediazione, continua Belpiede (Ivi, 25) è opportuna la presenza del

“terzo” che sia imparziale e assicuri la livellazione e lo smussamento dell’asimmetria del

potere nel dialogo interculturale. In quest’ottica la mediazione è un’attività utile non solo

alla persona straniera, ma anche a chi lavora nelle istituzioni perché possa avviare il

riconoscimento dell’ Altro positivamente.

Le funzioni maggiormente richieste, come ricorda Belpiede (Ivi, 29-31) riguardano

l’interpretariato linguistico-culturale, intendendo questa funzione nella sua accezione più

ampia (traduzione, decodifica culturale, facilitazione della comunicazione e della relazione)

e, inoltre, funzioni d’informazione (diritti e doveri, normative di riferimento, confronto su

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tematiche della differenza tra culture) all’utente straniero, favorendo la conoscenza

reciproca tra nativi e migranti.

Queste funzioni, come si verificherà in seguito, sono fondamentali per promuovere

interventi sociali ad hoc per la popolazione immigrata.

L’attività di mediazione in Italia, a livello generale, si è sviluppata secondo alcune fasi che

come enumera Balsamo (in Luatti: 2006, 71) riguardano: un uso molto locale in linea con le

esigenze del territorio di queste figure, soprattutto per quanto concerne controversie a

livello istituzionale e incomunicabilità negli ambiti sanitari (prima fase d’esistenza della

mediazione), successivamente si è cominciato a pensare alla strutturazione di corsi di

formazione, per garantire uno standard di competenze più completo e competitivo. In una

terza fase, d’isolamento, i mediatori si troverebbero “abbandonati” nei servizi senza un

progetto specifico, risentendo dello scarso associazionismo. Al contrario, la riunificazione

in associazioni sembra essere la possibilità più plausibile e “vincente” per i mediatori.

In quanto facilitatore della comunicazione, il mediatore attiva e incanala la domanda di

integrazione della popolazione straniera nella società ospitante e spesso nel farlo oltrepassa

i suoi compiti primari per diventare un operatore sociale, cosa che si è potuta osservare

diffusamente nell’esperienza presso il C.I.E. di Bologna. In questi casi, infatti è quasi

spontaneo per il mediatore rispondere ad un’esigenza di costruzione, ascolto, comprensione

che parta dalla condivisione di un codice culturale e della lingua, per spostarsi sul piano più

squisitamente umano.

Secondo quanto affermato da Renzetti (in Luatti: 2006, 267), l’attività di mediazione

culturale, sulla base della tipologia del servizio e dell’utenza, si può classificare in:

mediazione linguistico culturale programmata;

mediazione di emergenza;

mediazione a presenza fissa

La prima tipologia viene indicata di solito in ambito educativo o socio-sanitario, per

l’azione di risoluzione di un problema mirato. Nel secondo caso, si tratta di un servizio che

richiede una risposta rapida, ad esempio ricoveri d’urgenza in Pronto Soccorso (cfr.

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AMISS15). Nel terzo caso (che si riferisce per esempio al contesto del C.I.E.) si ha una

presenza secondo determinati turni di lavoro della figura del mediatore che mira a

instaurare una collaborazione tra operatori del servizio e mediatori.

La proposta (Ceccatelli Gurrieri in Luatti: 2006, 45) estremamente interessante e in questa

sede condivisa, è la possibilità di prospettare l’affiancamento di giovani italiani formati

all’interno di corsi universitari ad hoc, ai mediatori, perché rassicurino lo straniero e

costruiscano con lui un rapporto di fiducia16. In questo modo, suggerisce Ceccatelli

Gurrieri:

attraverso percorsi sostenuti da stage adeguati, e da progetti locali e nazionali di inserimento in programmi di mediazione culturale e sociale, adeguati a prevenire, gestire e trasformare in modo costruttivo, i conflitti, espliciti e latenti, determinati in generale dall’adattamento, progressivo ma non scontato, alla convivenza dei gruppi e delle culture, in particolare dal disagio personale, dalla ricomposizione familiare, dal rapporto contraddittorio e talvolta condizionante con le comunità etniche, nel paese di origine come in quello di arrivo (Ibidem)

è auspicabile che accanto agli interventi spesso emergenziali, di traduzione e

accompagnamento spesso per le frange più deboli di immigrati, si sostituisca un lavoro di

mediazione integrato a più livelli, da quello linguistico-culturale di primo impatto, a quello

di animazione e confronto, di ascolto e sostegno in situazioni di disagio e di empowerment

nel lavoro. Prima di arrivare a tale svolta nelle concrete condizioni di vita dei migranti,

sarebbe opportuno, continua Ceccatelli Gurrieri (Ibidem), impiegare la mediazione come un

profondo mezzo per la facilitazione linguistica, che favorisca lo scambio e favorisca

contatti duraturi ed efficaci tra culture.

Il mediatore appare cosi la figura alla quale l’istituzione affida l’importanza e la difficoltà

della comunicazione interculturale, con l’obiettivo della creazione di una strategia d’intesa.

Il mediatore porta alla luce “il magma complesso del metalinguaggio, dove più facilmente

15Durante un’intervista effettuata al dott. A.Cusatelli (responsabile per AMISS) riguardo alle tematiche dell’emergenza in mediazione linguistico-culturale, egli ha esposto il funzionamento delle chiamate in emergenza: filtrate da un “contact center” le richieste si sviluppano a seconda di diversi gradi di urgenza, entro un’ora, due ore, tre ore. 16Il Vice-questore aggiunto della Polizia di Stato, dott.ssa Fiorenza Maffei, durante l’incontro con gli studenti del 5 aprile 2011 all’interno della programmazione del corso di Mediazione Inglese (Università di Bologna, facoltà di Lingue e Letterature Straniere), ha auspicato una positiva comunicazione tra Università di Bologna e Questura ai fini dell’impiego di giovani laureati consapevoli e preparati alle tematiche della comunicazione interculturale nelle questure. (cfr. http://amsacta.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf, pp. 117-130).

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si annidano le opacità reciproche che è difficile trattare” e che è bene non si trasformino in

incomprensioni. (Ducoli in Belpiede: 2002, 7)

In questa prospettiva il rischio è di strumentalizzare e semplificare la cultura che finisce con

l’essere banalmente etichettata come un ostacolo per la comprensione e la successiva

adempienza dei doveri del cittadino straniero nel “suo nuovo stato” (Ceccatelli Gurrieri in

Luatti: 2006, 44).

In virtù di quanto finora esposto si evince come l’attività di mediazione vada al di là di

quella di interpretariato/ traduzione:

il mediatore si caratterizzerebbe come vero e proprio operatore culturale, a cui spetta una funzione specifica di facilitazione della comunicazione e della comprensione tra persone appartenenti a culture diverse. In termini più precisi, l’elemento cruciale su cui ruota la funzione del mediatore interculturale consisterebbe in un’attività di decentramento dei punti di vista e di decostruzione dei presupposti culturali dati per scontati da ciascun interlocutore. Ad esempio: se in una certa cultura avere un disturbo mentale o una determinata malattia è considerato un tabù e un fattore di stigmatizzazione sociale, il mediatore interculturale che opera presso un servizio sanitario si sforzerà di comprendere se dietro richieste generiche di informazioni da parte di persone appartenenti a quella cultura non si nascondano in realtà problemi più seri (Osservatorio sulle Immigrazioni: 2006, 4)

La mediazione infatti si concentra sulla necessità di esplicitare e negoziare le differenze

culturali oltre che comunicative, ed interviene in situazioni di asimmetria sociale. Quanto

detto emerge anche a fronte di un questionario17 (cfr. Allegati) sottoposto alla dott.ssa

Cinzia Iaboni e alla dott.ssa Paola Rosolini. Il questionario ha svelato interessanti spunti di

riflessione a proposito dell’attività di interprete e la sua differenziazione rispetto all’attività

di mediazione linguistico-culturale. In merito a ciò, la dott.ssa Iaboni ha rimarcato da un

lato le divergenze tra le due attività, dall’altro ha formulato l’ipotesi, che l’interprete, con

l’esperienza, possa acquisire le specifiche competenze del mediatore. In aggiunta la dott.ssa

Rosolini, ha affermato:

Quando frequentavo l’università (a TS) il termine “mediatore culturale” non si usava e l’interprete per eccellenza (di simultanea) era chi si era diplomato alla scuola superiore per interpreti a Trieste, relegando al termine “traduzione” tutto quello che riguardava il rendere in una lingua un concetto, un’idea o un termine espressi in un’altra. Nella mia attività professionale

17Si è pensato alla strutturazione di un questionario come metodo più veloce e riflessivo per arrivare a comprendere le specificità dell’attività di interprete per le Istituzioni (le interpreti a cui si è sottoposto il questionario lavorano per il Ministero degli Interni) e differenziare tale attività dalla mediazione linguistico-culturale. Sono state previste domande specifiche per comprendere il grado di percezione delle interpreti a proposito delle differenze tra le due attività.

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negli anni ho visto cambiare il significato del termine (ma non so quanto tutto ciò sia soggettivo): il mediatore culturale era lo straniero che conosceva la lingua, gli usi e costumi di chi di solito era un suo connazionale e che non parlava la nostra lingua. I mediatori culturali avevano la caratteristica di non avere magari un titolo di studio elevato, ma erano in grado di interagire con lo straniero proprio perché non solo parlavano la sua lingua, ma anche potevano spiegare certe espressioni o certe situazioni proprio in quanto ne conoscevano la cultura. (Es i mediatori che sono stati indispensabili nell’attività della Questura e dei vari uffici di polizia di frontiera, molto attivi in questa zona di confine). (cfr. Allegati)

Come indicato poi dal rapporto CIES (2010, 75):

la differenza tra l'attività mediazione e quella dell'interpretariato non implica che dalla mediazione si debba escludere l’interpretariato e che l’interpretariato sia l’unica ragione della mediazione. Non si esclude neppure che tali funzioni, spesso complementari, ma talvolta separabili, siano svolte dalla stessa persona (il mediatore), ma la distinzione fra le due funzioni è necessaria per far funzionare meglio il dispositivo. 18

Infatti secondo tale rapporto di ricerca, vi sono casi in cui si preferisce la scelta

dell’interprete (come ad esempio in situazioni circoscritte al mero bisogno informativo, in

cui non sia quindi necessaria la traduzione delle matrici culturali del comportamento o in

cui non siano presenti elementi di conflitto). Parimenti non si può prescindere dalle

competenze specifiche della mediazione, qualora il messaggio e le parti coinvolte siano

culturalmente connotate. In questo caso la traduzione non deve necessariamente essere

letterale ma deve interessarsi ad esplicitare il sommerso, legato ai codici culturali.

All’esercizio dell’attività di mediazione è assai ricorrente associare il tema della rilevanza

della nazionalità del mediatore. Le opinioni della letteratura di riferimento, come rilevato

dal rapporto CIES (2010, 41) rispecchiano due distinte visioni:

- se il mediatore è debitamente formato e ha esperienza nel settore è irrilevante che sia

italiano o straniero;

- è preferibile che il mediatore sia straniero o addirittura della stessa cultura del

beneficiario.

Anche rispetto all’esperienza presso il C.I.E., si può affermare (CIES: 2010, 7) che la

condivisione dell’esperienza migratoria, possa facilitare il lavoro del mediatore, ma ciò non

deve prescindere dalla posizione di terzietà del mediatore rispetto ai due poli comunicanti:

“La terzietà è il punto di partenza da cui scaturiscono gran parte dei pilastri etici e

18Cfr. quanto detto in precedenza dalla dott.ssa Iaboni a proposito della possibilità che interprete e mediatore convergano nella stessa persona.

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funzionali del codice di comportamento necessario ad un mediatore, come la neutralità,

l’autonomia, il rispetto del segreto professionale ecc.” (Ibidem)

Non è comunque da escludere che un mediatore italiano, per caratteristiche legate al

proprio vissuto e alle proprie esperienze, possa esercitare efficacemente la professione,

previo accertamento e consolidamento delle competenze linguistiche dovute (come

effettivamente si dimostrerà nel contesto applicativo di riferimento).

Inoltre, è spesso richiesta al mediatore la conoscenza di lingue veicolari per permettergli di

intervenire anche in caso di coinvolgimento di lingue diverse dalla propria. In questo caso il

mediatore ha il plus, rispetto ad uno di nazionalità italiana, del già citato vissuto migratorio.

Si noti, inoltre, che se si focalizza l’attenzione sulla dimensione strettamente comunicativa,

escludendo l’aspetto culturale, si rischia di equiparare la mediazione con l’ interpretariato,

funzione diversa ove la nazionalità dell’interprete è scarsamente rilevante in quanto non

incide sulla prestazione linguistica del suo operato. (CIES: 2010, 42)

Come sottolineato nel colloquio con Andrea Cusatelli, responsabile per AMISS

(Associazione Mediatrici Interculturali Sociali Sanitari), è importantissimo che qualora il

migrante sia il mediatore, non rappresenti un gruppo specifico, perché potrebbe facilmente

assumere un ruolo di advocacy invece che di terzo neutrale. Non necessariamente infatti,

condividere la stessa etnia, per il mediatore e il migrante rappresenta un punto positivo, al

contrario potrebbe creare situazioni di pericolosa immedesimazione, che farebbero fallire il

dispositivo della mediazione, in quanto dispositivo neutrale. A questo proposito, per

ovviare il problema occorrerebbe una buona formazione che aiuti il mediatore a fare fronte

alle situazioni che potrebbero prospettarglisi. Cusatelli sottolinea anche la lunghezza di

un’attività di mediazione, in genere un’ora, cosa che distingue nettamente questa attività

dall’interpretariato.

In generale, come sostiene Balsamo (in Luatti: 2006, 73), il mediatore inteso come

traduttore è stato il modello più comunemente diffuso, soprattutto negli uffici del Comune,

nelle questure e negli ospedali, dove la situazione emergenziale, diventa anche fortemente

caotica. Successivamente, si è privilegiata la visione del mediatore culturale come

informatore e traduttore di regole, una funzione insomma, esplicativa inserita in una logica

di inclusione sociale assimilatoria.

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Le funzioni psicosociali di aiuto e sostegno, hanno interessato e interessano tutt’ora le

donne, di gran lunga protagoniste di quest’orizzonte professionale.

Il senso più forte, continua Balsamo, resta (Ivi, 73): “l’interpretariato culturale dei bisogni”;

e ancora “il/ la mediatrice culturale reinterpreta sostanzialmente i bisogni, ne evidenzia e

sostiene la legittimità (non riconosciuta in contesti culturali diversi), alla luce dei codici

culturali e comportamentali entro cui si generano e mette in evidenza anche attraverso la

decodifica culturale delle risorse che gli immigrati esprimono, non sempre visibile agli

operatori”. Si afferma dunque un idea di mediazione come promozione sostanziale dei

diritti, e un’idea del mediatore come “operatore di metissages, un produttore e riproduttore

di incroci interculturali nuovi”. (Ivi, 74)

2.3 LA PRATICA DELLA MEDIAZIONE

La decodifica dei codici culturali è la premessa per lo sviluppo della pratica della

mediazione: in una relazione interculturale gli attori della comunicazione sono portatori

oltre che di una lingua diversa, di una cultura e di un apparato prossemico e gestuale

profondamente pertinente al proprio universo culturale di appartenenza.

Il mediatore linguistico-culturale si incarica di assumere il ruolo di ponte tra le due culture

e di cooperare affinché lo scambio comunicativo sia efficacemente portato a termine.

Inoltre si noti come il mediatore assuma differenti ruoli a seconda dell’ambito in cui opera.

Ciò significa che in alcuni ambiti operativi l’attività di mediazione assume risvolti

differenti, che si aggiungono alla funzione primaria della mediazione stessa, la facilitazione

della comunicazione (cfr. capitolo terzo).

In situazioni di potenziale conflitto quali le relazioni interculturali, è bene, come indica

Belpiede (in Luatti: 2006, 248), tracciare alcune linee d’intervento e costruire spazi di

mediazione per facilitare la comunicazione e prevenire il conflitto. In questi spazi, il

migrante può (soprattutto alla luce di quanto osservato nel C.I.E di Bologna) riferire le

proprie esperienze e il mediatore può recuperare facilmente le informazioni necessarie

derivanti da esitazioni e silenzi per esempio, in questo modo è possibile aggiungere un

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nuovo tassello al mosaico variegato delle funzioni del mediatore: il ruolo di resa degli

impliciti, del sommerso nella cultura.

La mediazione come meccanismo livellatore delle differenze ha un impatto forte sulla

società e per questo la visione (ambiziosa) di mediazione proposta da Jabbar sembra

particolarmente pregnante. Jabbar parla di mediazione socio-culturale, come:

una strategia di pianificazione di opportunità con lo scopo di ricostruire reti sociali, creare nuove competenze e ripristinare l’autostima dei cittadini immigrati riconoscendo anche quegli aspetti legati ai vissuti culturali e religiosi. La mediazione socio-culturale (che) mira a lavorare insieme a questo nuovo segmento della società perché possa partecipare attivamente contribuendo a ricostruire una prospettiva condivisa. Qui non ci sono in gioco solo i servizi sociali perché si tratta di una strategia complessiva del territorio (…) La posta in gioco è rivitalizzare la democrazia attraverso una cittadinanza attiva che coinvolga tutti gli attori sociali del territorio. (Jabbar in Luatti: 2006, 79)

La mediazione così come emerge nell’idea di Jabbar viene ad assumere un risvolto politico

e sociale, di supporto alla partecipazione alla nuova cittadinanza.19 Tuttavia, questa

definizione di mediazione induce a trasformare le domande e i bisogni sociali in

problematiche “etniche”, rischiando di contribuire all’etnicizzazione dei conflitti, e di

omologare tutti gli stranieri ad un unico modello, nel quale magari le seconde generazioni

non si identificano più. Nello stesso tempo, è vero che i nuovi cittadini hanno bisogno di

“essere riconosciuti” ed inclusi nei paesi in cui vivono. È proprio seguendo questo

orientamento che il mediatore culturale acquisisce importanza e rilevanza nella costruzione

di una società democratica e partecipata da parte di tutti. (Luatti: 2006, 80)

Come indicato da Villano e Riccio (2008, 50-52), si tiene conto che la mediazione

linguistico-culturale in quanto attenuatrice delle asimmetrie di potere, si muove in un’ottica

di empowerment, promuove quindi l’autonomia nella comunicazione tra operatori e utenti

stranieri. Inoltre, come sostengono gli autori summenzionati (Ibidem) per sviluppare una

vera e propria attività di mediazione è necessario che il piano della traduzione e quello della

condivisione dei significati co-occorrenti in una relazione interculturale (mentalità,

abitudini, comportamenti) siano intrecciati. Le informazioni culturali che il mediatore può

esplicitare sono vitali nelle relazioni d’aiuto con gli stranieri. Ad esempio possono essere

19Si osserverà che nel contesto del C.I.E. il cammino verso l’accompagnamento per la piena fruizione dei diritti si concreta in specifici interventi di assistenza da parte del mediatore in sinergia con altri operatori sociali, ad esempio nell’assistenza alle vittime di tratta.

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fornite spiegazioni di atteggiamenti e di credenze da parte del migrante, facilmente

contestualizzabili dall’operatore all’interno di uno specifico universo culturale. Al contrario

concepire la mediazione come attività traduttiva, non porta ad uno scambio ma ad un

irrigidimento dei ruoli e delle identità culturali. (Ibidem)

Bisogna ricordare l’importanza del valore della neutralità da accordare alla figura del

mediatore. È importante che il mediatore non faccia riferimento ad un suo parere personale,

ma è bene che resti neutrale e si ponga in maniera equidistante tra le parti. É altresì

importante che il mediatore non sviluppi alcuna forma di affiliazione etnica con le parti,

perché il prodotto della comunicazione mediato non ne risulti falsato.

Tuttavia come si legge nel rapporto CISP-UNIMED (2004, 58): “Nessun soggetto può

essere mai ritenuto in nessuna condizione culturale, sociale e politica esso si trovi,

propriamente neutrale rispetto ad una situazione di conflitto o di tensione sociale.” Vi sono

ripetutamente elementi linguistici, culturali, di genere, di estrazione sociale, che portano il

mediatore ad essere più vicino ad una delle due parti coinvolte. La proposta formulata nel

rapporto summenzionato, e dunque relativa alla capacità per il mediatore di “collocarsi in

una condizione tendenzialmente mediana tra le parti, dichiarando con chiarezza i propri

margini di preferenza o rischio di sbilanciamento ad entrambe. La relazione di mediazione,

infatti, si basa in primo luogo sulla chiarezza, spesso preclusa ad altri tipi di relazione

conflittuale, e mira a stabilire rapporti non più falsati tra le parti.” (Ibidem)

Proprio per la delicatezza e il facile coinvolgimento che l’esercizio della professione

implica, il ruolo del mediatore rischia di sconfinare spesso in professionalità differenti (cfr.

Belpiede: 2002, 34-35). Come infatti nota Belpiede (Ibidem) nei servizi pubblici la

responsabilità dell’intervento ricade sull’operatore nativo, con riferimento a quelle

situazioni in cui l’operatore ha dirette responsabilità penali (cfr. campo medico). In tali

situazioni il mediatore, per il grado fortemente limitato della propria autonomia

professionale, deve sviluppare un certo affiatamento con l’operatore nativo, ed evitare

situazioni di tensione dovute alla sovrapposizione dei ruoli. Proprio perché il ruolo del

mediatore culturale si trova in una tappa ancora nascente, è esposto a questi rischi. (Ibidem)

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La mediazione appare una negoziazione fondata sulla diversità culturale e proprio in quanto

tale va vista in un’ottica di aspettative e benefici in rapporto alle parti che la richiedono, e

in rapporto alle diversità di cui le parti sono portatrici.

Si può affermare che l’intervento di mediazione si situa su piani differenti (Favaro e

Fumagalli: 2004, 32-33):

piano orientativo e informativo;

piano linguistico e comunicativo;

piano culturale e interculturale;

piano psicosociale e relazionale.

Nel primo ambito il mediatore fa riferimento al gruppo di appartenenza e agli operatori di

servizio. Il mediatore dunque agisce per rendere il servizio fruibile comunicando eventuali

barriere linguistico-culturali. Quando la mediazione si sofferma sul secondo ambito,

linguistico e comunicativo, si sviluppa soprattutto come attività di traduzione.

Il mediatore si può infine porre come accompagnatore e sostenitore dei bisogni della

comunità straniera nel difficile percorso di traghettamento e integrazione nella nuova realtà

sociale.

Andolfi (2003: 110) afferma che in un rapporto di mediazione sono coinvolti un ingroup

costituito dal gruppo di appartenenza, percepito come il gruppo migliore possibile e un

outgroup, gli altri, i membri non appartenenti al proprio gruppo, i diversi, spesso

stereotipati. La relazione iniziale si pone come una non-relazione, un non equilibrio basato

sulla differenza, e di solito sulla forte autorappresentazione del primo gruppo.

L’ingresso di un terzo, il mediatore, in questa relazione può essere indirizzato verso

l’intervento risolutivo del conflitto, o verso il controllo del conflitto, oppure può essere

indirizzato verso il non intervento. Nel caso di un conflitto, il mediatore può decidere di

intervenire per migliorare la qualità della comunicazione, o per correggere eventuali

distorsioni della comunicazione dovute a posizioni eccessivamente etnocentriche.

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Mediare e conciliare dialogicamente e attivamente culture significa soprattutto essere

consapevoli della diversità culturale.

Lo scarso inquadramento professionale di cui gode la mediazione linguistico-culturale,

rende l’attività di molto sottovalutata e assimilata a interventi traduttivi “arrangiati”.

In questi casi le competenze linguistiche e culturali relative al paese ospitante nulle e

l’inesperienza nel corretto impiego di strategie adeguate ad un intervento di mediazione

linguistico-culturale rendono questo tipo di interventi di mediazione assolutamente

fallimentari.

È invece molto importante, avere mediatori adeguatamente formati, e in grado di costruire

una relazione di fiducia che in caso di situazioni particolarmente delicate (cfr.

salute/ricostruzioni di biografie piene di traumi), è un fatto ancora più complesso (Ciola e

Rosenbaum in Andolfi: 2003, 129-146). In questi contesti delicati, è altresì importante per

il mediatore elaborare un distacco dalla situazione, per evitare il “rischio di burn-out20 a

causa dell’esposizione protratta alle situazioni difficili rappresentate dagli utenti. In questo

caso essi possono con facilità passare dalla fruttuosa empatia a forme d’immedesimazione

eccessiva che possono ragionevolmente essere ricondotte proprio ad una mancanza di

formazione specifica.” (CIES: 2010, 77)

Purtroppo, l’opinione pubblica mantiene troppo spesso rappresentazioni errate a proposito

della mediazione linguistico-culturale. Come afferma Favaro (in Favaro e Fumagalli: 2004)

il rischio nell’ambito della mediazione linguistico-culturale è che l’istituzione richiedente

del servizio di mediazione si deresponsabilizzi per caricare di responsabilità il mediatore.

Come se fosse una sorta di “operatore tutto fare”. Per esempio, per il caso della mediazione

nella scuola, Favaro (Ivi, 178) racconta di alcuni casi di impiego del mediatore come

“pronto soccorso”, nell’ansia del non saper gestire una conversazione efficacemente.

Accade inoltre che si pensi erroneamente al mediatore come informatore di cultura,

20“Il burnout è generalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate (possiamo considerarlo come un tipo di stress lavorativo). Generalmente nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite”. In Psicologia del Lavoro. Consultabile su: http://www.psicologiadellavoro.org/?q=burnout.

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intendendo a questo punto la cultura come fortemente statica e omogenea e ritenendo il

mediatore come un contenitore di codici.

2.4 PROBLEMATICITÀ DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE

Il discorso sulla mediazione linguistico-culturale implica una riflessione sulla

comunicazione interculturale, strumento prezioso nelle mani del mediatore.

I punti di convergenza o di divergenza all’interno delle situazioni comunicative, dipendono

dalla cultura di appartenenza che condiziona il modo in cui le persone si esprimono. È

importante quindi definire i concetti di competenza comunicativa.

La competenza comunicativa rende possibile la comunicazione e la decodifica del

messaggio. In contrapposizione alla nozione di competenza linguistica di Chomsky (intesa

come la conoscenza di un parlante della propria lingua materna), quella di competenza

comunicativa si riferisce “al padroneggiamento del repertorio linguistico da parte di un

singolo parlante” (Berruto: 2003, 67) e dunque è “la competenza riguardo a quanto parlare

e quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove, in qual modo.” (Hymes in

Berruto: 2003, 67)

Vivere contesti pluriculturali, può portare l’individuo a sviluppare una competenza

comunicativa interculturale. Tuttavia accanto allo sforzo del singolo si deve accostare,

come suggerito da Mucchi Faina (Mucchi Faina in Villano e Riccio: 2008, 66) un attento

lavoro delle politiche sociali che:

cerchino di contrastare gli effetti negativi di pregiudizi e stereotipi […] solo attraverso questa doppia strada (ovvero le determinanti individuali unite a quelle sociali) è possibile che la comunicazione interculturale diventi non solo un mezzo per scambiarsi informazioni, ma anche un efficace strumento di conoscenza reciproca, di collaborazione e di mediazione dei conflitti.

Per stabilire una comunicazione adeguata “sono necessari curiosità e interesse nei confronti

di altri mondi, di altre esperienze di vita, di altri modi di sentire.” (Ivi, 68)

Nello specifico, “la competenza comunicativa interculturale implica possedere la

sensibilità, le conoscenze e le capacità necessarie per interagire efficacemente e in modo

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appropriato con persone di culture differenti” (Ibidem), si tratta dunque di abilità, facoltà

generali e aspetti affettivi che si intrecciano con le conoscenze specifiche della lingua.

Come sostiene Hofstede (1991) il compito della comunicazione interculturale è quello di

permettere l’acquisizione di:

“consapevolezza, conoscenza e abilità. Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale. […] Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti […] L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale.”21

Hofstede elabora un concetto di cultura come programma mentale che “distingue i membri

di un gruppo o una categoria di persone da un altro gruppo o categoria” (Hofstede in

Garzone e Rudvin: 2004, 55-56).

Lo studioso si è occupato di costruire un modello con cui descrivere le dimensioni culturali

che si sviluppa intorno ad una struttura bipolare (Ivi, 57-58):

individualismo e collettivismo: questa dimensione si focalizza sul rapporto tra

l’individuo e il gruppo. In base a questa classificazione, vi saranno culture

individualiste che si basano sull’autonomia dell’individuo e sugli obiettivi del

singolo, oppure culture collettiviste, che tendono ad evitare il conflitto e si basano

sugli sforzi del leader;

mascolinità e femminismo: una cultura viene giudicata mascolina quando ha una

preferenza per il successo materiale e l’eroismo, al contrario una cultura femminile

predilige le relazioni e la cura dei più deboli;

il rischio di incertezza (alto e basso livello), si riferisce alla capacità di adattamento

all’incertezza e al rischio. Un alto livello di Uncertainity Avoidance caratterizza

una cultura con alto livello di ansia e stress lavorativo, un basso livello di

Uncertainity Avoidance invece riguarda una società dotata di poche regole;

power distance (alta e bassa): in culture con un forte Power Distance index si

riflette un’accettazione dell’ineguaglianza e relazioni generalmente asimmetriche

21Cfr. URP, Comunicazione pubblica in rete. Consultabile su: http://www.urp.it/Sezione.jsp?idSezione=924&idSezioneRif=38.

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(ad es. culture asiatiche, africane e “latine”). Un low Power Distance index si

riferisce al grado di uguaglianza tra i membri del gruppo sociale (ad es. paesi

germanici).

Considerate queste variabili è insomma facilmente comprensibile come sia frequente che

questo tipo di comunicazione finisca nell’ambito del malinteso.

Si consideri anche l’aspetto della comunicazione non-verbale, dove i gesti sono molto più

sensibili delle parole, di essere culturospecifici. Silenzi, ritmi e sorrisi, rischiano di essere

fraintesi se non si è consapevoli del valore differente che essi rivestono in una cultura

“altra” dalla nostra. Se ad esempio il bianco in occidente è il colore della nascita, è

necessario sapere che in Cina è il colore del lutto. Oppure, se ad esempio alzare la voce in

Africa occidentale è segno positivo di vivacità, altrove può essere percepito come simbolo

di maleducazione.

Gli immigrati sono portatori di valori, di modelli di organizzazione sociale, statuale, e

familiare, frequentemente molto differenti da quelli che appartengono alla comunità

autoctona, del Paese ospitante. Ad esempio, nelle aree delle relazioni familiari e sociali,

occorre dire che ogni società sviluppa il suo modo di strutturare la famiglia. Tali strutture,

in Occidente cambiano in maniera accelerata, tanto che sempre più spesso si rileva il

passaggio ad un’organizzazione plurinucleare, con padri e madri separati, i rispettivi

conviventi e i figli acquisiti. Se invece osserviamo le società del sud del mondo, si nota

come questo tipo di organizzazione non è assolutamente contemplabile. In diverse realtà

del mondo africano, la famiglia è una struttura complessa fondata sul lignaggio22 e può

infatti raggiungere anche le duecento persone. Ne risulta una persona che si definisce in

base alla comunità familiare, ove la genitorialità risulta il nodo centrale nella gestione del

nucleo familiare.

Le migrazioni, se considerate come “fatto sociale totale” (Sayad: 2002) costituiscono un

profondo elemento di rottura di questo equilibrio: “Il nucleo familiare, in migrazione, è

22“Lignaggi sono […] quelle linee di discendenza la cui genealogia può essere ricostruita con certezza a partire da un comune antenato ed è nota ai suoi membri.” (Marazzi A., “Discendenza, sistemi di parentela e gruppi domestici”, in Famiglie e forme di convivenza. Consultabile su: http://www.loescher.it/librionline/risorse_capirelasocieta/download/2712_Percorso7.pdf. p.102)

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[quindi] sottoposto, obbligatoriamente e dall’esterno, a dinamiche di cambiamento

accelerate.” (Belpiede in Luatti: 2006, 64)

Insistendo sul tema dei rapporti all’interno del nucleo familiare, il problema

dell’adattamento ai cambiamenti di ruolo e di potere che la migrazione mette alla prova,

sono molto ricorrenti se si osserva una qualsiasi famiglia immigrata in territorio straniero.

Spesso si assiste all’impossibile interazione positiva dei codici interiorizzati con la cultura

del Paese ospitante. Si tratta dell’incapacità che i codici interiorizzati interagiscano

positivamente con la cultura del paese ospitante.

La centralità delle relazioni familiari nelle famiglie dei migranti, spinge alla costruzione di

un progetto migratorio di tipo collettivo, di cui attore è colui che viene giudicato più forte

fisicamente e psicologicamente e i beneficiari tutti i componenti della comunità familiare.

Ad esempio, sembra particolarmente pregnante a questo proposito la storia di un uomo

senegalese, apparsa sul sito del blog “PassaparoleMilano”:

credevo che in Italia avrei trovato una vita migliore, ma non è questo il caso: da quando sono arrivato ho lavorato solo due mesi. Sono rimasto sei mesi senza fare niente, solo vendere. Da una parte ho sbagliato, adesso sono qua e non posso andare via, non posso ritornare giù perché ho già lasciato tutto dietro. E se vado via devo almeno partire con qualcosa.

[…]

Noi non viviamo cosi, noi viviamo per la famiglia, per aiutare nostro padre, nostra mamma, nostro cugino, tutti. In Africa non ci sono due persone, tre persone, una persona, noi viviamo in famiglia. Io non sono qua per vivere solo per me, sono in Italia per aiutare mia mamma. Lei mi ha detto “tu sei il mio figlio più serio, sei tu che devi andare per primo.” E ha preso tutti i suoi soldi, il braccialetto, ha preso tutto, ha venduto tutto, per mandarmi qua, per darmi dei soldi per fare il viaggio per partire, per fare, per trovare lavoro, per aiutare.

Fino ad ora si è inteso il confronto interculturale in termini di conflitto, ed effettivamente se

si introduce il tema della mediazione, il concetto di conflitto o si è già sviluppato oppure si

rischia che si prospetti. Tuttavia, è necessario dire, con U. Melchionda (in Andolfi: 2003,

119) che il conflitto non implica necessariamente violenza, e negatività, e che invece è il

quasi normale rovescio della medaglia qualora due individui appartenenti ad universi socio-

culturali differenti si trovino a confrontarsi. Nel caso di intervento a cui si fa riferimento in

questo contributo, spetta al mediatore, qualificato e ferrato al fine di gestire queste

sfumature di diversità, essere prima di tutto consapevole delle possibili divergenze culturali

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e cooperare con le parti coinvolte affinché questo conflitto non trovi applicazioni delle più

violente. È quanto emerge dal colloquio con Amina, mediatrice tunisina presso il C.I.E. di

Bologna, che in modo esplicito riferisce come in un colloquio tra istituzione italiana e

straniero, la strategia dell’ammorbidimento dei toni, è vincente, perché si rifà

all’importanza in contesti così tesi e accessi, della calma e talvolta dell’edulcorazione.

Sembrerebbe, dunque, che la “scomodità” della differenza culturale costringa l’operatore

autoctono a richiedere l’intervento dispendioso, in termini di tempi e costi, di un operatore

esterno. Ma la diversità culturale non è un fatto di svantaggio. In un epoca di omologazione

e globalizzazione, diversità è sinonimo di ricchezza, e vi sono svariati motivi, quelli che

con Hannerz (1996; trad. it 2001, 89-102) vengono definiti “ipotesi sulla diversità” che ci

portano a vedere la differenza in termini positivi.

Per Hannerz infatti la cultura mondiale è l’organizzazione della diversità, ove la diversità

culturale risulta quasi un “monumento alla creatività dell’umanità.” (Ivi, 91).

2. 5 AMBITI DI ESERCIZIO DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE

È bene tracciare una mappa dei possibili contesti in cui il mediatore opera, anche in

rapporto alla definizione del ruolo del mediatore all’interno del C.I.E.

Dalla scuola agli ambienti familiari, ai contesti sanitari, giudiziari e della pubblica sicurezza

la mediazione linguistico-culturale agisce in diversi ambiti. In ognuno di questi l’attività del

mediatore si indirizza verso un obiettivo specifico, che rende la funzione e l’azione del

mediatore, ogni volta differenti.

Si fornirà in questa sezione una breve panoramica delle forme di intervento del mediatore

negli ambiti che risultano funzionali alla trattazione successiva.

L’ambito in cui da tempo si sperimenta il valore aggiunto di una relazione interculturale

mediata da un terzo neutrale, è quello sanitario. Nel contesto sanitario, il mediatore si pone

come terzo partecipante del dialogo medico-paziente, e proprio alla luce di questa veste, è

importante che il suo ruolo sia ben compreso sia dall’operatore sanitario che dal paziente:

entrambi devono stabilire con il mediatore una relazione di fiducia.

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Il tema della salute è molto delicato da gestire, soprattutto perché legato al vissuto

dell’individuo e alla sua sfera più intima. Stare bene e stare male, sono tra l’altro concetti

soggettivi, che dipendono dall’apparato culturale di cui è dotato lo straniero stesso. Il

mediatore deve dunque lavorare ad impedire malintesi tra medico e paziente a causa delle

differenti concezioni di salute e malattia. (Castiglioni: 1997)

In contesti giudiziari e di pubblica sicurezza, invece, i mediatori spesso vengono impiegati

come fossero interpreti. Sicuramente in questo ambito, la traduzione è il primissimo punto

di partenza per stabilire una relazione interculturale, ma occorrerebbe maggiore

informazione per coloro che richiedono i servizi linguistici (avvocati, giudici e clienti)

perché il ruolo del mediatore sia tenuto distinto da quello dell’interprete.

Secondo quanto afferma il Vice Questore aggiunto di Bologna, dott.ssa F. Maffei,

all’interno del dossier “La geografia della mediazione linguistico-culturale” (Miller et al.:

2009, 117-130), i mediatori sono utili soprattutto nella fase della costruzione di una

relazione di fiducia. Al contrario degli interpreti che si pongono di fronte allo straniero in

termini esclusivamente linguistici, la mediazione nell’ambito della sicurezza, si indirizza

verso il supporto e l’assistenza nelle indagini ai fini dell’identificazione. La dott.ssa Maffei

aggiunge che i mediatori sono altrettanto importanti per

facilitare la comprensione dei bisogni degli “ospiti” nei centri di accoglienza, nel tentativo

di risolvere eventuali conflitti, sono pronti ad informare ed orientare gli stranieri verso i

servizi erogati nei sistemi di accoglienza (assistenza medica, psicologica e legale).

All’interno di una Questura, la dott.ssa Maffei ricorda l’importanza del mediatore

nell’avvio delle procedure per il diritto d’asilo e della protezione umanitaria.

Soprattutto in temi delicati come la tratta di esseri umani, lo sfruttamento della

prostituzione, l’impiego del mediatore linguistico-culturale durante le indagini, e come

primo approccio con le vittime, risulta, secondo quanto affermato dal Vice Questore

aggiunto, un punto molto utile per la risoluzione positiva del reato.

In questa direzione, si è mosso il progetto della regione Emilia-Romagna “Oltre la strada”,

in grado di offrire supporto alle vittime della prostituzione, il progetto impiega mediatori

nell’avvicinamento e accompagnamento delle vittime in progetti più sicuri all’interno di

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strutture quali la Casa delle Donne23 insieme ad un altro punto fermo dell’anti tratta

internazionale, l’associazione “Papa Giovanni XXIII”.24

Facendo riferimento a Fumagalli (in Favaro e Fumagalli: 2004) si affronta ora il tema della

mediazione nell’ambito del disagio sociale. Un primo fattore di complessità deriva dalla

centralità delle dinamiche familiari all’interno delle migrazioni. Il migrante, decide spesso

di migrare per portare avanti un progetto di miglioramento economico di una vasta gamma

di individui che si aspettano determinati successi. Inoltre le famiglie di migranti vivono una

forte fragilità economica e una situazione di costante precarietà derivante dalle

modificazioni che i ruoli dei singoli assumono in relazione all’adattamento al nuovo

ambiente sociale.

In questi casi, queste persone, si aspettano dal mediatore determinati aiuti, che man mano si

stanno definendo sempre di più nel verso della presa in carico totale dello straniero.

La domanda di mediazione in ambito sociale si concentra sulle fasi dell’accoglienza e

dell’informazione oltre che sul supporto psicologico, cosa che rende necessario per il

mediatore che si approccia a questo ambito operativo, acquisire competenze specifiche. Si

tratta quindi di una funzione quasi esclusivamente dell’accompagnamento e del supporto,

che fa del mediatore, un operatore sociale.

In relazione a quanto sostenuto da Fumagalli (Ivi, 110) la mediazione in ambito sociale è

caratterizzata da interventi compiuti per lo più da donne che hanno vissuto sulla propria

pelle l’esperienza della migrazione, nell’ambito dei servizi sociali comunali o di strutture

associate alla tutela dei minori25. Si tratta dunque di una mediazione che si prefigge

l’obiettivo primario dell’aiuto e del miglioramento delle condizioni degli stranieri. Vista la

vastità del campo del sociale, sarebbe bene, come suggerito da Fumagalli (Ivi, 128-129)

definire un quadro della normativa di riferimento ai servizi, un attento ascolto delle storie e

dei punti traumatici di cui esse sono portatrici. È fondamentale poi, che il mediatore si

23La Casa delle Donne per non subire violenza, istituita nel 1990 è una struttura assolutamente segreta ove donne vittima di violenza possono rifugiarsi godendo del completo anonimato. 24L’associazione ha attivo un servizio di antitratta dal 1990 con un numero verde e la possibilità di aiuto concreto delle vittime attraverso la sistemazione in case famiglia. 25Si osserverà nel capitolo terzo, come la mediazione sociale, per il fatto di conformarsi come attività di presa in carico e supporto è ampiamente utilizzata nel C.I.E., ove la presa in carico diventa estremamente significativa e utile per la possibilità che essa porti a progetti di riduzione del danno in favore del trattenuto.

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inserisca proficuamente nell’équipe di lavoro e si premunisca di una forte dose di

flessibilità. Il lavoro d’équipe deve essere studiato in maniera congiunta tra operatori e

mediatori perché risorse professionali come colloqui e riunioni siano efficacemente sfruttati

nell’interesse del migrante.

Tenendo conto, come indicato da Fumagalli (Ivi, 128) che la mediazione oggi è una

modalità operativa “per trovare terreni possibili e condivisi di intesa e di lavoro” tra utenti

stranieri e autoctoni, l’autrice offre l’interessante prospettiva di un Protocollo di mediazione

nei servizi sociali (descritto in Favaro e Fumagalli: 2004, 129-131). In tale Protocollo

vengono specificate le competenze del mediatore, in un’ottica di acquisizione delle stesse

in formazione continua. In seguito vengono elencate le funzioni e i compiti del mediatore in

ambito sociale. Vengono inoltre specificate le attività in ambito di interpretariato durante i

colloqui e di traduzione, la facilitazione nelle relazioni interculturali e la funzione di

accompagnamento. Quella che risulta essere un’interessante indicazione, in questa sede

caldamente auspicabile, è lo sviluppo di un glossario della terminologia specifica del

settore sociale che aiuti il mediatore a familiarizzare con concetti specifici e riflettere sulla

loro riproducibilità linguistica.

La prospettiva sociale è affrontata nel lavoro di Ceccatelli Gurrieri (2003) in termini di

supporto nello “svantaggio sociale”. L’autrice sottolinea la condizione svantaggiata dello

straniero, nella sua precarietà giuridica e nella condizione di bisogno. Afferma:

la mediazione sociale diventa infatti una metodologia sostitutiva e compensativa da parte del mediatore, che si relaziona con l’immigrato in quanto soggetto debole e in difficoltà, riducendo la propria funzione a quella di interpretariato, a sua volta concentrata su una corretta traduzione “tecnica” dei termini e dei codici delle strutture di servizio e delle istituzioni, senza arrivare veramente a una esplicitazione e interpretazione dei bisogni soggettivi e collettivi dell’immigrato. (Ceccatelli Gurrieri: 2003, 76)

Infine, proiettando questa trattazione al focus del presente lavoro, si afferma che il caso del

C.I.E., come si avrà modo di dimostrare, si presenta, per la sua peculiarità, come un

contesto che abbisogna di interventi di mediazione diversificati. Quanto si è osservato nel

Centro di Bologna riguardo alla mediazione si contestualizza all’interno di attività

giudiziarie e richieste d’aiuto in ambito familiare e sanitario; a fronte di ciò il mediatore si

trasforma in operatore sociale che si fa carico delle richieste d’aiuto del trattenuto,

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canalizzando tali richieste verso le figure professionali più adeguate tra quelle dell’équipe

multidisciplinare.26

2.6 PROFILO PROFESSIONALE DEL MEDIATORE LINGUISTICO-CULTURALE :

LE COMPETENZE

Per sostenere la relazione con le diversità occorre approfondire capacità e competenze che

si situano sia sul piano cognitivo (maggiori informazioni, apertura, intellegibilità,

sospensione del giudizio) sia sul piano affettivo (decentramento, empatia, capacità di

ascolto, analisi delle emozioni in gioco…) (Favaro e Fumagalli: 2004, 25).

Ciò che deve sempre essere tenuto in conto per la formazione di un mediatore culturale è

una buona dose di qualità relazionali che possano permettere al mediatore di entrare in

contatto in maniera misurata con l’“Altro”, senza cadere nell’errore della sovra-

identificazione. Visto che il mediatore è sovente un migrante, o per lo meno lo è stato, è

molto facile che le esperienze si sovrappongano. È bene quindi che nella formazione di un

mediatore oltre a competenze teoriche ve ne siano di pratiche che consentano di sviluppare

una certa dimestichezza nell’adottare strategie del decentramento culturale (cfr. Belpiede:

2002, 38) e del distacco, atte a tenere il focus sempre e soltanto sugli attori reali della

comunicazione interculturale.

Tuttavia il mediatore è una persona, e nonostante lo sviluppo di un codice etico, che spesso

si è strutturato nel corso dell’esercizio della professione, non può essere sempre e

comunque un terzo neutrale: “il mediatore culturale ha un compito difficile, un compito

d’intermediazioni, di facilitatore della relazione tra i nativi e i migranti. È pertanto soggetto

sia alle pressioni del migrante e soprattutto all’identificazione con questi, sia alle pressioni

dell’operatore, o delle logiche organizzative e burocratiche del servizio, che spesso

comprimono l’agire del mediatore impedendogli un ruolo neutrale.” (Ivi, 44)

La neutralità è un requisito importante, per il quale il mediatore mantiene l’equidistanza

dalle parti coinvolte nella comunicazione. In un ambiente come quello che ci troveremo ad

26I dettagli del lavoro del mediatore al C.I.E. di Bologna verranno più diffusamente esposti nel terzo capitolo, nel paragrafo relativo all’osservazione partecipante.

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analizzare più tardi, è fondamentale gestire le emozioni e controllare le reazioni, a volte

spontanee di fronte alla sofferenza. Attivare un procedimento di distacco, è per il mediatore

una vera e propria difesa. Eppure l’emozione è una parte imprescindibile all’interno di

colloqui delicati e privati, dove piuttosto sarebbe il discorso empatico a dover essere

favorito, lasciar intendere di comprendere gli stati d’animo e cercare di trasmetterli a

parole, senza tradirli, senza sciuparli.

Belpiede (2002, 37-38) individua alcuni nuclei di competenze di base che il mediatore deve

possedere al fine di sviluppare un’attività di mediazione efficace. Tra cui: competenze

nell’interpretariato, includendovi un’ottima conoscenza orale e scritta della lingua d’origine

e di quella d’arrivo, con particolare riferimento al linguaggio settoriale relativo all’ambito

del servizio in cui si opera nel caso di quella d’arrivo. Si tratta inoltre di essere capaci di

ascoltare e comunicare, decodificare i bisogni, le incomprensioni, essere capaci di essere

neutrali e lavorare in équipe. Nell’ambito delle competenze informative, occorre che il

mediatore conosca e sappia veicolare le informazioni riguardo al funzionamento dei servizi

e alla legislazione sull’immigrazione. Occorre una conoscenza delle dinamiche migratorie,

delle tradizioni e degli usi dei luoghi d’origine degli stranieri. Oltre ad una conoscenza

profonda dell’ambiente d’origine che possa permettere di disvelare codici e pratiche di

primo acchito “strane”, bisogna avere una conoscenza altrettanto profonda delle pratiche e

dei costumi italiani, perché si possa avviare la macchina burocratica e perché si possano

incentivare percorsi di integrazione e autonomia degli utenti.

A questa elencazione, si aggiunge quanto evidenziato dal rapporto CNEL “Mediazione e

mediatori interculturali: indicazioni operative” ove i requisiti demandati al mediatore

afferiscono a capacità relazionali di cui sopra si è già accennato, ma anche a capacità

relative ad un buon esercizio dell’interpretariato sociale. In particolare si specifica (in

aggiunta a quanto prima esposto):

- motivazione e disposizione al lavoro relazionale e sociale, capacità personali di empatia e

riservatezza;

- ottima conoscenza della lingua italiana parlata e scritta (corrispondente al livello avanzato

C di comprensione e al livello B di produzione del QCERL-Quadro Comune Europeo di

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Riferimento delle Lingue del Consiglio d’Europa);

- buona conoscenza della cultura, delle principali istituzioni e della realtà socioeconomica

italiana, a livello locale e nazionale, nonché delle specifiche situazioni in cui il mediatore

opera.

Il rapporto citato ci offre un interessante insight sulle diverse scelte formative funzionali a

questo mestiere: prevede infatti una diversificazione tra formazione di base, specialistica e

continua (CNEL: 2009, 4-5). Si parte da un monte di 600 ore, di cui 100 tassativamente in

ambito pratico, per sviluppare le competenze nell’area della comunicazione e delle

relazioni interculturali, prevedendo una formazione in psicologia, antropologia, tecnica

della mediazione interculturale, deontologia e conoscenza dei fenomeni migratori. Bisogna

inoltre prevedere una formazione per l’area normativa, a proposito della Costituzione

italiana, i diritti umani e le istituzioni dell’Unione Europea, dell’organizzazione dei servizi

sociali, e della legislazione nazionale, regionale e internazionale in merito all’immigrazione

e alle politiche dell’integrazione. Da ultimo è importante offrire una formazione per l’area

dell’organizzazione dei servizi perché i futuri mediatori conoscano e padroneggino le

strutture locali e siano in possesso di modelli per l’intervento e la valutazione del lavoro

sociale. Una fase successiva, detta specialistica, vedrà i mediatori alle prese con uno

specifico settore della mediazione. In una fase poi, detta di formazione continua, è

opportuno che i mediatori siano assistiti al fine di evitare un logoramento psico-fisico e

quindi per prevenire meccanismi di eccessiva identificazione e presa in carico di soggetti

particolarmente disagiati.

Si tenga presente che la durata media dei corsi è in genere di 300 ore, distribuite nell’arco

di almeno sei mesi e divise circa a metà tra lezioni e tirocinio.

Anche Ceccatelli Gurrieri (2003, 60-61) insiste sull’importanza che la fase della

formazione si concentri sulla normativa vigente a proposito d’immigrazione, sulle differenti

tipologie di utenza a cui l’intervento di mediazione si può indirizzare, e sui servizi che il

sistema del welfare garantisce agli stranieri. Tutto ciò si deve conciliare con una solida

competenza comunicativa che porti il mediatore a soppesare parole e significati, gesti e

linguaggi non verbali, e ad ascoltare le storie, spesso di grande sofferenza che lo straniero

ha alle spalle.

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Uno degli aspetti più discussi resta la necessità per il mediatore di sviluppare una certa

equidistanza tra le parti: il problema del decentramento culturale è da definire come una

necessità primaria, perché non si sviluppino scomodi meccanismi di affiliazione etnica e

processi identificatori con il singolo immigrato.

Tuttavia il problema della deontologia professionale mal si accorda alla sostanziale

precarietà della professione stessa (Belpiede: 2002, 39). L’etica del mediatore deve

comunque propendere alla neutralità, non si può, infatti, parlare di advocacy in favore

dell’immigrato ma di equidistanza dalle parti interessate. Bisogna ad ogni modo

considerare però che data la posizione nettamente superiore in quanto a potere del

rappresentante della cultura italiana, perché parte del gruppo dominante, il ruolo del

mediatore si deve indirizzare verso l’empowerment della persona immigrata. (Ibidem)

Il ruolo del mediatore resta comunque difficile, e senza un quadro normativo

d’orientamento è ancora più arduo trovare una metodologia univoca per l’esercizio della

mediazione.

Castelli (in Belpiede: 2002) propone, all’interno del progetto del “Centre national de la

médiation” di Parigi, un abbozzo di codice deontologico. Si discutono, infatti,

l’indipendenza, la neutralità, il segreto professionale, e gli obblighi del mediatore. Il

mediatore svolge un lavoro indipendente, dove il rapporto con il datore d lavoro si esegue

nelle condizioni materiali; il lavoro deve essere esercitato nel pieno interesse delle parti.

Tra gli obblighi del mediatore vi è il segreto professionale, infatti, egli è spesso costretto a

trattare documenti privati e delicati che è opportuno custodire gelosamente, è comunque

richiesta una chiarificazione dei suoi compiti prima dell’intervento di mediazione.

Il “problema” sulle competenze e conoscenze preliminari del mediatore linguistico-

culturale si può dunque riassumere attraverso il punto di vista di Ceccatelli Gurrieri (2003:

59):

mediare significa nel senso più ampio avvicinare, facilitare il contatto, includere, incoraggiare e sostenere l’interazione e lo scambio, in estrema sintesi il compito del mediatore è perciò, da un lato quello di agevolare l’accesso e l’uso, da parte degli immigrati, di servizi, luoghi e risorse comuni a tutti i cittadini, dall’altro quello di favorire il riconoscimento, da parte del paese di accoglienza, dei bisogni, delle specificità e delle differenze culturali, linguistiche e religiose di cui sono portatori i singoli e i gruppi immigrati.

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2.7 LA PROFESSIONE DEL MEDIATORE: TRA PRECARIETÀ E TERRITORIO. IL

CASO DI BOLOGNA

In questa sezione si vuole fornire una descrizione dell’impegno della regione Emilia-

Romagna nel normare la professione di mediatore linguistico-culturale.

Facchini e Martelli (in Luatti: 2006, 235-245) sottolineano infatti il vivo interesse della

regione per le dinamiche della mediazione e l’impegno per la tutela della professione. La

regione tra l’altro è stata la prima regione italiana a legiferare in materia di politiche per

l'integrazione dei cittadini immigrati dopo la riforma del Titolo V della Costituzione27 e

dopo la modifica della normativa nazionale (approvazione del decreto legislativo 286/98 o

"Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla

condizione dello straniero") e delle sue successive modifiche previste dalla legge 189/2002.

In particolare nel 2001 la regione ha promosso insieme ad alcuni enti locali un Protocollo

d’intesa in materia di immigrazione straniera, in cui si è impegnata in cinque aree di

intervento:

governo dei flussi migratori;

lavoro e formazione professionale;

politiche abitative;

integrazione sociale;

nuova legislazione regionale

In particolare, nel protocollo si afferma:

la relazione tra culture differenti richiede che sia dedicata particolare attenzione alle azioni e ai progetti di mediazione culturale volti al superamento delle incomprensioni, diffidenze e conflitti che inevitabilmente si creano. La realizzazione efficace di interventi di mediazione culturale necessita però dell'attivazione di percorsi volti alla definizione del profilo professionale, all'individuazione di percorsi formativi specifici, alla differenziazione fra ambiti e modalità

27“Con la legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 viene riformata la parte della Costituzione riguardante il sistema delle Autonomie Locali e dei rapporti con lo Stato. Sono da mettere in evidenza: la nuova struttura istituzionale, la ripartizione della potestà legislativa e amministrativa, lo schema di finanziamento e i rapporti finanziari tra enti, la possibilità di forme di autonomia differenziata per le Regioni a Statuto Ordinario, l’abrogazione dei controlli preventivi sugli atti delle Regioni” (Espa e Felici: 2003, 29) Si specifica all’art. 117 c. 3 “E’ competenza esclusiva dello Stato l’insieme delle politiche dell’immigrazione; sono di competenza delle Regioni le politiche di integrazione e, tra queste, anche quelle della mediazione interculturale, che giuridicamente si configurano a titolo concorrente od esclusivo, secondo un’articolazione basata su un duplice livello che garantisce al livello regionale un intervento di tipo programmatorio e riserva al livello locale le attività propriamente di erogazione e gestione dei servizi”.

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d'intervento, alle modalità organizzative per la gestione di progetti e servizi, alla destinazione di risorse economiche specifiche. La progettazione di iniziative in tal senso non possono e non devono non disporre della ricca esperienza realizzata in questa regione dall'associazionismo, dal volontariato e dalla cooperazione sociale. (Protocollo d'intesa in materia di immigrazione straniera, 2001 in Luatti: 2006, 236)

Successivamente a queste affermazioni, con la legge n. 5 del 24 marzo 2004 “Norme per

l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati. Modifiche alle leggi regionali 21

febbraio 1990, n. 14 e 12 marzo 2003, n. 2”, la Regione Emilia-Romagna si propone di

normare l’integrazione dei cittadini extra-europei nel territorio. La regione Emilia-

Romagna, infatti, ai sensi del Testo unico sull’immigrazione e ispirandosi ai principi di

garanzia dei diritti fondamentali della persona che più volte sono stati ribaditi all’interno

dell’Unione Europea, si impegna a garantire i diritti fondamentali ai cittadini dei paesi extra

europei e apolidi presenti sul territorio regionale.28

La legge 5/2004 quindi, va ricondotta all’interno di uno sforzo migliorativo della

legislazione previgente, che affrontava il fenomeno dell’immigrazione in maniera del tutto

emergenziale, e si pone l’obiettivo di assicurare una maggiore coesione sociale tra vecchi e

nuovi residenti alla luce del nuovo carattere stanziale dell’immigrazione nella regione.

L’impegno della regione a favore della rimozione degli ostacoli al pieno inserimento

sociale, si legge chiaramente al c. 4 dell’art. 1 (legge 5/2004):

4. In conformità ai principi del Testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 e della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) ed in raccordo con le disposizioni della legge regionale 12 marzo 2003, n. 2 (Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema

28All’art. 1 capo 1 della legge 5/2002 si legge: 1. La Regione Emilia-Romagna, nell'esercizio delle proprie competenze ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione e del Testo unico emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 concernente la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (di seguito denominato "Testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998"), ispirandosi ai principi ed ai valori della "Dichiarazione fondamentale dei diritti dell'uomo" del 10 dicembre 1948, della "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea", proclamata a Nizza il 7dicembre 2000 (di seguito denominata "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea"), agli impegni assunti con la Carta europea dei diritti dell'uomo nella città, sottoscritta a Saint-Denis il 18 maggio 2000 ed alla Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale adottata dal Consiglio d'Europa e ratificata con legge 8 marzo 1994, n. 203 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992, limitatamente ai capitoli A e B), concorre alla tutela dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e degli apolidi, presenti nel proprio territorio, riconoscendo loro i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.

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integrato di interventi e servizi sociali), le politiche della Regione e degli Enti locali sono finalizzate: a) alla rimozione degli ostacoli al pieno inserimento sociale, culturale e politico; b) al reciproco riconoscimento ed alla valorizzazione delle identità culturali, religiose e linguistiche, ispirandosi ai principi di uguaglianza e libertà religiosa secondo gli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione; c) alla valorizzazione della consapevolezza dei diritti e dei doveri connessi alla condizione di cittadino straniero immigrato, come disciplinata dalle convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo, dall'ordinamento europeo ed italiano.

Attraverso i successivi artt. 12 e 13, la regione si impegna chiaramente alla protezione di

vittime di situazioni di violenza o di grave sfruttamento e all’assistenza sanitaria.

All’art. 17, punto e), nell’ambito del Capo IV “Interventi in materia di accesso ai servizi

educativi per l'infanzia, diritto allo studio, istruzione e formazione professionale,

inserimento lavorativo, integrazione e comunicazione interculturale”, la legge prevede:

il consolidamento di competenze attinenti alla mediazione socio-culturale, secondo la normativa regionale in materia di formazione professionale, finalizzate alla individuazione ed alla valorizzazione di una specifica professionalità volta a garantire sia la ricognizione dei bisogni degli utenti, sia l'ottenimento di adeguate prestazioni da parte dei servizi.

La definizione di “mediatore”, nell’art. citato, indicato come socio-culturale, risulta

convergere nell’aiuto e nell’accoglienza degli utenti che richiedono specifici servizi. Resta

comunque abbastanza vago l’ambito di azione di queste figure professionali e nello

specifico restano vaghe le mansioni.

Con la delibera n.1576 del 30 luglio 2004 “Prime disposizioni inerenti la figura

professionale del mediatore interculturale” la Regione Emilia-Romagna ha definito gli

standard formativi essenziali per il riconoscimento della qualifica di mediatore

interculturale e ha fissato tale figura professionale con la delibera n. 2212 del 10 novembre

2004, “Approvazione repertorio delle qualifiche professionali regionali”. In queste delibere

vengono individuate le competenze del mediatore e i contenuti del percorso formativo, ma

non vengono indicati i requisiti d'accesso alla professione. Non vengono date informazioni

precise riguardo all’età, i gradi d’istruzione richiesti e le nazionalità.

Il 7 febbraio 2006, la Giunta regionale ha approvato il Programma Triennale 2006-2008

per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri sulla base dell'art. 3 della legge regionale

5/2004. In particolare al punto 14 del programma relativo alla “Comunicazione e

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mediazione interculturale”, si incoraggiano enti ed istituzioni a promuovere e sviluppare

interventi per l’integrazione e la comunicazione interculturale, attraverso una serie di

possibilità operative, tra le quali, le attività dei Centri interculturali, eventi per la

promozione dei valori delle culture d’origine dei migranti e il consolidamento di

competenze attinenti alla mediazione socio-culturale attraverso la presenza nei servizi delle

figure dei mediatori interculturali. In seguito, in data 16 dicembre 2008, la Giunta

Regionale ha decretato l'approvazione del Programma Triennale 2009-2011 per

l'integrazione sociale dei cittadini stranieri. Gli obiettivi strategici del programma sono:

- la promozione dell’apprendimento e dell’alfabetizzazione della lingua italiana per favorire

i processi di integrazione e consentire ai cittadini stranieri una piena cittadinanza sociale e

politica;

-la promozione di una piena coesione sociale attraverso processi di conoscenza, formazione

e mediazione da parte dei cittadini stranieri immigrati e italiani. Il Programma specifica

infatti (Programma Triennale 2009-2011, p.5) : “Anche a questo fine occorre potenziare le

competenze interculturali e di mediazione degli operatori pubblici necessarie per garantire

pari opportunità di accesso ai servizi; competenze che la Regione ha definito nell'ambito

delle qualifiche professionali regionali con deliberazioni della Giunta regionale n.

2212/2004 e n. 265/2005”;

-la promozione di attività di contrasto al razzismo e alle discriminazioni, lavorando su:

prevenzione ed educazione, sostegno a progetti e azioni per eliminare alla base le situazioni

di svantaggio, opportunità di orientamento, assistenza e consulenza legale, e un lavoro

costante di osservazione del fenomeno nel territorio regionale, con particolare attenzione al

ruolo dei mezzi di informazione.

Con la delibera di giunta n. 265/2005 la Regione Emilia-Romagna ha inoltre approvato gli

standard dell’Offerta Formativa. Nell’ambito degli standard formativi del Sistema regionale

delle qualifiche. Il mediatore interculturale si colloca nell'area professionale “Assistenza

sociale, sanitaria, socio-sanitaria” e il percorso formativo prevede:

corsi di 500 ore, con una quota di ore di stage pari almeno al 35-45% del monte ore

complessivo, rivolti a giovani non occupati, che hanno concluso un percorso di

istruzione e formazione con il conseguimento del relativo titolo finale;

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corsi di 300 ore per giovani-adulti occupati o disoccupati (con un periodo di stage

pari al 20-40% del monte ore totale) la cui durata può essere ridotta fino ad un

minimo di 200 ore, in funzione delle caratteristiche dei partecipanti.

Secondo quanto previsto dalla Regione, quindi (Delibera di Giunta regionale dell’Emilia-

Romagna n. 2212/2004) il mediatore interculturale deve essere in grado di “accompagnare

la relazione tra immigrati e contesto di riferimento, favorendo la rimozione delle barriere

linguistico-culturali, la conoscenza e la valorizzazione delle culture di appartenenza,

nonché l’accesso a servizi pubblici e privati. “[Il mediatore] assiste le strutture di servizio

nel processo di adeguamento delle prestazioni offerte all’utenza immigrata. Può operare

all’interno di servizi pubblici e privati (ufficio stranieri, Aziende USL, scuole, ecc.) e

strutture che promuovono l’integrazione socioculturale”. La delibera regionale 2212/2004

individua poi, quattro tipi di competenze necessarie affinché il mediatore possa svolgere

compiutamente la sua funzione, e cioè:

• la capacità di diagnosi dei bisogni e delle risorse dell’utente immigrato, che consiste

sostanzialmente nell’interpretare correttamente le esigenze dell’utente e nel tradurne

bisogni e risorse in azioni di accompagnamento e assistenza;

• la capacità di orientamento della relazione utente immigrato/servizi, per cui il mediatore

deve saper fornire ad entrambe le parti in gioco gli elementi conoscitivi necessari a

impostare una relazione corretta; l’intermediazione linguistica, di comprensione e

decodificazione delle lingue in uso nella relazione utente/servizio;

• la mediazione interculturale, che consiste invece nell’interpretare i codici culturali e nel

facilitare lo scambio tra le parti;

• l’intermediazione linguistica, che consiste nel comprendere ed interpretare linguaggio e

significati della comunicazione in lingua straniera e nel decodificare e trasmettere all’utente

straniero i codici verbali e non verbali espressi dall’operatore italiano, rimuovendo ogni

ostacolo ad una efficace relazione comunicativa.

Si consideri ora il rapporto di ricerca del 2010 della regione Emilia-Romagna, a proposito

della “Mediazione interculturale nei servizi alla persona”, che si propone attraverso

l’attività del Servizio Politiche per l’accoglienza e l’integrazione sociale di conoscere

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meglio coloro che nel territorio operano come mediatori/mediatrici interculturali (ma anche

linguistici e culturali) nei servizi alla persona (straniera) della regione (sportelli e centri

informativi per stranieri, Aziende USL, Ospedali, consultori, scuole, centri per l’impiego,

servizi per migranti).

Come segnalato dal rapporto, oggi, nel territorio regionale è possibile trovare sia servizi di

mediazione linguistico-culturale che punti informativi per stranieri in cui sono impiegati

operatori con elevati livelli di competenza in campo giuridico, linguistico e

dell’organizzazione dei servizi amministrativi, sociali e sanitari. Il rapporto parla di servizi

di mediazione diffusi negli ambiti dei servizi sanitari, sportelli informativi comunali,

scuole, servizi educativi, centri per le famiglie, carceri. Si registra un netta prevalenza del

settore sanitario (tutte le sedici aziende sanitarie della regione dispongono infatti di una

presenza, fissa e/o programmata o su chiamata, di mediatori/mediatrici interculturali, in

particolare nei servizi di ostetricia e ginecologia, e spazi dedicati alle donne immigrate in

generale).

La ricerca ha permesso di definire che sono 282 i mediatori “strutturati” operativi in

regione, a cui si aggiungono altri 567 mediatori occasionali29. Altre caratteristiche peculiari

dei servizi di mediazione in regione riguardano la forte femminilizzazione del campo, “la

componente femminile rappresenta infatti oltre il 90% delle figure di intermediazione

interculturale e, in alcune realtà, anche rilevanti e costituite da più aziende sanitarie, come

Bologna, Reggio-Emilia o Modena, è addirittura esclusiva.” (La mediazione interculturale

nei servizi alla persona della regione Emilia-Romagna: 2010, 21)

Spesso, i mediatori e le mediatrici, non si occupano solo ed esclusivamente di un’etnia, o

gruppo linguistico, ma praticano la loro attività anche a favore di più ambiti linguistico-

culturali. É stato inoltre largamente sottolineato che talora è addirittura più facile mediare in

presenza di mediatrici o mediatori che assumono posizioni culturalmente neutre. 30

29Con il termine “strutturato” si fa riferimento ad una condizione occupazionale che garantisce una certa continuità di impegno nel tempo; con il termine “occasionali” si intendono quei mediatori che abbiano svolto nell’ultimo anno, almeno una prestazione di mediazione, si riferisce quindi ad un’attività saltuaria e poco continuativa. (cfr. “La mediazione interculturale nei servizi alla persona della Regione Emilia-Romagna”, 2010, p. 20) 30Il rapporto di ricerca porta l’esempio di una donna pakistana di religione musulmana che ha preferito alla mediatrice bengalese, che pur parlava Urdu, una mediatrice europea che parlava inglese.

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L’offerta si concentra su lingue di ambito europeo (rumeno, moldavo, albanese, russo,

ecc.). La copertura maggiore dell’offerta di mediatori riguarda il mondo arabo, a cui

seguono i mediatori cinesi.

Il rapporto chiarisce inoltre le differenze esistenti tra mediazione interculturale, utilizzata in

una prospettiva che tende a enfatizzare le nozioni di scambio e reciprocità, e mediazione

linguistico-culturale, utilizzata quando è necessario assicurare una buona comprensione

delle richieste delle parti. Si entra poi nella specificità della mediazione culturale che

assume caratteristiche più specialistiche e riguarda i servizi sociali professionali, per

richiedenti asilo o per la protezione delle vittime di tratta o violenza.

Il rapporto predilige il termine “mediazione interculturale”, condividendo sostanzialmente

quella prospettiva che sottolinea l’aspetto dell’interazione e dello scambio, e guarda quindi

alla cultura in termini di flessibilità.

Permane un’incertezza di fondo rispetto a questa figura professionale sospesa tra

volontariato e professionalità, fra appartenenza alla comunità d’origine e identificazione

con quella d’accoglienza.

Nel tentativo di definire un profilo comune volto a colmare il vuoto legislativo, si inserisce

il documento approvato della conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome. Tale

documento ricorda come effettivamente la presenza di varie definizioni come “mediatore

culturale”, “mediatore linguistico-culturale”, “mediatore di madrelingua”, “tecnico esperto

in mediazione” sia una spia della frammentazione e disomogeneità delle diverse proposte di

profilo formulate da Enti territoriali ed Enti locali per la stessa figura professionale.

La questione del riconoscimento della figura professionale del mediatore interculturale è

cruciale nell’ambito delle politiche di integrazione sociale degli stranieri e solleva la

necessità di mettere in atto una collaborazione e quindi una strategia comune tra Stato,

Regioni e Province autonome ed Enti locali nell’ambito dell’immigrazione straniera.

Un altro rapporto importante che attesta l’impegno della regione nel campo della

mediazione è quello prodotto nel 2006 dall’Osservatorio delle Immigrazioni. Il rapporto si

concentra sulla descrizione del panorama bolognese rispetto ai servizi per gli utenti

stranieri. I servizi in cui i mediatori sembrano operare sono i servizi sanitari, in cui

esperienza pilota è quella del Centro per la salute delle donne straniere e dei loro bambini,

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che dal 1990 assicura accoglienza e informazioni sull’accesso alla sanità oltre che visite

mediche. Inoltre il rapporto attesta che i mediatori operano anche nell’ambito dei centri per

l’impiego, nelle carceri e nelle associazioni.

Si aggiunge inoltre nelle “Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura professionale

del mediatore interculturale”, del Gruppo di Lavoro istituzionale per la promozione della

Mediazione Interculturale, l’urgenza di conciliare l’esperienza pregressa con la

diversificazione necessaria degli impieghi e la chiarezza dei ruoli. Questo alla luce

dell’enorme portata che il fenomeno dell’immigrazione ha sul Paese.

In questo documento si ribadisce la necessità di evitare livelli di mediazione non

qualificata, l’attività di mediazione invece deve agire in termini di efficacia, affidabilità,

trasparenza, rigore e neutralità, oltre che attraverso sufficienti conoscenze del contesto di

riferimento. Viene ventilata la possibilità di creare registri nazionali, per la consultazione

rapida di mediatori con le stesse caratteristiche a livello nazionale. Sarebbe inoltre bene,

individuare garanzie anche in termini di contratti e di minimi garantiti, cosa che potrebbe

incentivare nuovi soggetti a intraprendere questa carriera professionale.

Secondo quanto affermato nelle “Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura

professionale del mediatore interculturale” dunque normare il dispositivo di “mediazione

interculturale” potrebbe essere molto utile al fine di rendere la formazione, i singoli corsi e

la legislazione regionale funzionale ad uno standard nazionale e quindi condiviso. Oggi

invece, nonostante la pratica della mediazione sia consolidata, per lo meno in settori come

quello sanitario e scolastico, non c’è un frame di riferimento e sebbene l’impegno della

regione Emilia-Romagna sia sicuramente lodevole31, bisogna comunque sottolineare come

la possibilità data ad ogni regione di legiferare in questa materia autonomamente, può

creare ulteriori ambiguità a livello nazionale. Si fa riferimento al fatto che ogni regione ha

stabilito profili e standard differenti, e in alcuni casi la figura professionale del mediatore

linguistico-culturale non è nemmeno prevista. Il rischio, pertanto, è quello di “formare un

31A proposito del lodevole impegno della regione Emilia-Romagna nella normazione della mediazione linguistico-culturale, si ricordi che in base all’indagine di CISP-UNIMED, l’Emilia-Romagna figura al secondo posto in termini di attività di mediazione promosse, con il 10% sul totale nazionale, dopo la Lombardia (14,3% del totale). Questi dati sono presenti all’interno del rapporto “La mediazione interculturale nei servizi: il caso della provincia di Bologna”, 2006, p. 5.

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mediatore con un corso di 300 ore in Emilia- Romagna che poi si trasferisce in un'altra

regione dove il suo certificato non ha alcun valore o perché in quella regione non esiste

affatto il profilo o perché è stato individuato un profilo per la professionalizzazione del

quale sono richieste più ore” (Piccinini in Luatti: 2006, 103).

Alla luce di queste considerazioni sarebbe sicuramente auspicabile la nazionalizzazione del

sistema delle qualifiche: in questo modo si potrebbe avere un riferimento in termini di

mediazione, su tutto il territorio nazionale, relativamente all’esercizio della professione e

agli aspetti ad esso connessi, evitando che questa nuova professionalità resti esclusivamente

una realtà locale.

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CAPITOLO 3

L’ESPERIENZA SUL CAMPO: PER UN’ANALISI EMPIRICA DELLA

MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE. IL CIE DI BOLOGNA32

“Ma Fatima adesso è diversa, giusto o non giusto è entrata nell’eternità, c’è una Legge

che lo stabilisce, si chiama Turco-Napolitano, o Legge 40, una Legge del 1998 che stabilisce che per alcuni, come Fatima, il tempo sia sospeso, che la loro vita cambi, che

entrino negli alberghi dell’eternità, che non si sentano altre persone, ma diverse sì, certo

diverse, non c’è davvero bisogno di chiederlo, è la Legge a stabilirlo, loro pensavano di

essere uguali, uguali agli altri e uguali a se stessi […] diversi rispetto a me, […] al

Presidente della Croce Rossa, alla Turco e a Napolitano, e diversi rispetto a se stessi, diversi, certo che sono diversi. È ovvio che Fatima sia diversa”

(Sossi: 2002, 70)33

3.1 NOTE METODOLOGICHE DELLA RICERCA

Come anticipato, in questo capitolo si esporrà quanto emerso in seguito all’attività di

volontariato presso il C.I.E. di Bologna. L’attività svolta, sotto la supervisione dell’équipe

del Progetto Sociale interno al C.I.E., si è indirizzata a scandagliare i meccanismi e le

forme della mediazione linguistico-culturale, in una struttura così peculiare.

Il presente contributo trova, per questo, il proprio centro focale all’interno dell’esperienza

di volontariato, che ha reso possibile sviluppare una ricerca pienamente aderente alla realtà

del contesto e alle sue caratteristiche. La particolare conformazione dell’équipe

multidisciplinare del Progetto Sociale e le esigenze del contesto hanno richiesto che

32In alcuni passaggi di questo capitolo, soprattutto nei paragrafi 3.4 e 3.5, si è reso necessario adottare la prima persona singolare. La scelta si deve al forte grado di coinvolgimento nella ricerca, in cui chi scrive è stato anche il diretto osservatore dei fatti narrati. 33F. Sossi si è occupata nel libro “Autobiografie negate”, da cui questo passaggio è stato estrapolato, di descrivere attraverso interviste ai trattenuti degli allora Centri di permanenza temporanea e assistenza (C.P.T.A.) di Milano, Agrigento e Torino, gli aspetti del trattenimento. In particolare, il passo riportato a cui la presente nota fa riferimento, condensa in poche righe quella sensazione di “diversità” rispetto agli altri avvertita dalle persone trattenute, dovuta alla privazione dell’identità e dei diritti che il trattenimento nel C.I.E. implica.

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l’attività di volontariato si sviluppasse in maniera piuttosto attiva al fianco dell’équipe,

divenendo un’attività formativa e un’occasione di ricerca uniche.

Prima di esporre i risultati derivanti da questa attività, sembra necessario, vista la

particolarità del contesto, a molti sconosciuto in termini di funzionamento, offrire una

premessa metodologica al lavoro, perché possa essere inquadrato nella complessità della

cornice di riferimento, a livello giuridico, burocratico e soprattutto umano.

Inoltre, la peculiare conformazione dell’équipe del Progetto sociale ha richiesto una

considerazione globale del C.I.E. di Bologna e dei servizi alla persona presenti, con

riferimenti a tutte le professionalità coinvolte che collaborano in favore della persona

trattenuta; si consideri che la complessa realtà psicologica e sociale di provenienza di

queste persone influenza fortemente la pianificazione delle attività di mediazione, la quale

non può proporsi mediante gli stessi schemi di altri contesti. Al contrario, come si

dimostrerà in seguito, la mediazione al C.I.E. si configura come un’attività di sostegno

attorno alla quale si costruisce la rete d’aiuto in favore del trattenuto.

L’idea del volontariato e successivamente del presente lavoro di tesi ha preso forma in

seguito alla partecipazione al workshop del 18 febbraio 2012 a Bologna, “C.I.E e C.A.R.A.

- Istruzioni per l’uso” a cura della campagna LasciateCIEntrare34 in collaborazione con la

Federazione nazionale della stampa italiana e l`Ordine nazionale dei Giornalisti. Il

workshop ha chiarificato la struttura e il funzionamento del C.I.E. e in particolare

l’intervento di Alessandra Ballerini (avvocato ASGI35), riferendosi alla normativa in tema

di espulsione e detenzione amministrativa, diritto di asilo, protezione e art. 18 e ai casi di

inespellibilità, ha fornito una spiegazione alla complessa realtà della politica italiana in

merito a immigrazione ed espulsioni.

In una fase successiva, l’incontro con l’assistente sociale del C.I.E. di Bologna, ha

permesso di costruire il network delle professionalità presenti all’interno della struttura;

quindi fatta la conoscenza del responsabile del Progetto Sociale, che si occupa

34La campagna “LasciateCIEntrare” è nata a seguito del divieto di ingresso nei CIE e nei CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) espresso nella circolare n.1305 del 01/04/2011 firmata dall’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni. La circolare è stata in seguito revocata nel dicembre dello stesso anno, dall’attuale Ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. 35Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione.

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dell’organizzazione del gruppo di lavoro e della progettazione di azioni di sostegno e

riduzione del danno per le persone immigrate trattenute nella struttura, si è arrivati ai

contatti di due mediatrici, Amina, tunisina e Mary mediatrice nigeriana36.

Con l’ausilio di uno strumento flessibile come l’intervista di tipo qualitativo37 è stato

possibile addentrarsi nella conoscenza del fenomeno della mediazione linguistico-culturale

all’interno del C.I.E. Nello specifico, attraverso l’intervista qualitativa di tipo semi

strutturato38, si è quindi posta alle persone intervistate (l’assistente sociale, il responsabile

del Progetto Sociale dott. Franco Pilati e la mediatrice tunisina) una serie di domande

simili, lasciando libero l’intervistato di rispondere come meglio credeva. L’intervista si è

sviluppata come un colloquio esplicativo sui temi della mediazione linguistico-culturale in

un “nonluogo” come il C.I.E.39, e più in generale sugli aspetti chiave del trattenimento in un

carcere amministrativo; non ha seguito uno schema fisso, ma, limitatamente alle esigenze e

ai temi che gli intervistati evidenziavano, le domande inizialmente previste si sono

susseguite come in un colloquio a partire dalla traccia primaria della mediazione, in

un’ottica di scambio di informazioni e delucidazioni.

L’asimmetria tra l’intervistato e l’intervistatore (me stessa) in termini di informazioni

possedute, ha richiesto una totale disposizione all’ascolto da parte dell’intervistatore e la

36Come anticipato nell’introduzione, mi riferirò spesso a queste due mediatrici utilizzando gli pseudonimi di Amina e Mary, per proteggerne la privacy. 37L’intervista qualitativa è “una conversazione provocata dall’intervistatore, rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione e in numero consistente, avente finalità di tipo conoscitivo, guidata dall’intervistatore, sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di interrogazione” (Corbetta: 1999 in E. Amaturo, “L’approccio qualitativo. L’intervista qualitativa”. Consultabile su: http://www.federica.unina.it/sociologia/metodologia-e-tecnica-della-ricerca-sociale/lapproccio-qualitativo-lintervista-qualitativa/.) 38All’interno della tipologia dell’intervista qualitativa, le sottocategorie si pongono in un continuum a seconda della maggiore o minore flessibilità: all’estremo di minore flessibilità vi è l’intervista strutturata, a quello opposto, l’intervista non strutturata. “L’intervista semi strutturata prevede una traccia che riporta gli argomenti che necessariamente devono essere affrontati durante l’intervista; essa può essere costituita da un elenco di argomenti o da una serie di domande a carattere generale. […] La conduzione dell’intervista può variare sulla base delle risposte date dall’intervistato e sulla base della singola situazione. L’intervistatore, infatti, non può affrontare tematiche non previste dalla traccia ma, a differenza di quanto accade nell’intervista strutturata, può sviluppare alcuni argomenti che nascono spontaneamente nel corso dell’intervista qualora ritenga che tali argomenti siano utili alla comprensione del soggetto intervistato. Può accadere, ad esempio, che l’intervistato anticipi alcune risposte e quindi l’intervistatore può dover modificare l’ordine delle domande. In pratica, la traccia stabilisce una sorta di perimetro entro il quale l’intervistato e l’intervistatore hanno libertà di movimento consentendo a quest’ultimo di trattare tutti gli argomenti necessari ai fini conoscitivi.” (Ibidem) 39L’accostamento del C.I.E. ad un nonluogo verrà sviluppata nel paragrafo successivo.

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capacità di mettere in discussione i piani precedentemente sviluppati a proposito dello

svolgimento dell’intervista. Con l’ausilio di un blocco per appunti, e dopo aver illustrato gli

scopi dell’intervista si è proceduto con domande che andavano dal generico al particolare.

L’intervista di tipo qualitativo si è insomma configurata come un valido supporto

conoscitivo iniziale.

L’intento di osservare in fieri le pratiche di mediazione linguistico-culturale e il lavoro

svolto dall’équipe di Progetto Sociale in loco, sono stati supportati dalla scelta di tenere un

diario per ogni ingresso nel C.I.E. (cfr. Allegati). Lo strumento si è rivelato estremamente

operativo: ha concesso, durante i mesi di volontariato, l’esplorazione e la registrazione

degli aspetti caratterizzanti l’attività di mediazione e più in generale degli aspetti

psicosociali del trattenimento di cui occorre tenere conto nella pianificazione delle strategie

di sostegno ai trattenuti. Il diario di bordo non si è configurato come un monologo a tema

libero sul volontariato al C.I.E., piuttosto attraverso la sistemazione per iscritto degli eventi

e delle esperienze vissute al C.I.E. si è rivelato una preziosa risorsa per fissare tematiche ed

emozioni che altrimenti sarebbero rimaste solo pensieri; è stato altresì importante per la mia

personale gestione psicologica dell’esperienza, a impatto emotivo altissimo. Il diario ha

sicuramente costituito il tramite tra attività di volontariato e ricerca perché ha permesso di

fissare quanto osservato e di canalizzarlo nelle tematiche che si è scelto di approfondire e

trattare nel presente contributo. Tuttavia, in quanto supporto emotivo dell’esperienza

include comunque una forte dose di soggettività. Si è pensato di organizzare il diario a

partire da ciascun ingresso nel C.I.E., riportando data e ore complessive di presenza. Molto

spesso si sono riportate solo parole chiave ad alto potere evocativo, che anche a distanza di

tempo riaccendono momenti, esperienze ed insegnamenti. Non si è infatti curato lo stile del

diario, quanto invece si è voluto verbalizzare fatti, racconti e strategie di lavoro.

La strategia di ricerca chiave è stata l’osservazione partecipante40: nonostante il forte grado

di soggettività che essa implica, si è rivelata molto utile per approfondire i temi della

40L’osservazione partecipante è una strategia di ricerca nella quale il ricercatore si inserisce in maniera diretta e per un periodo di tempo relativamente lungo in un determinato gruppo sociale preso nel suo ambiente naturale, istaurando un rapporto di interazione personale con i suoi membri allo scopo di descriverne le azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le motivazioni (Corbetta, 1999 in E.Amaturo). La tecnica, nata in ambito antropologico fra il XIX e il XX secolo, fu definita esplicitamente per la prima volta da B. Malinowski nell’introduzione del suo libro “Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922).

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mediazione linguistico-culturale nel Centro di Bologna. Il contatto diretto previsto da

questa tecnica, unitamente alla (mia) posizione di volontaria, hanno permesso di sviluppare

contatti diretti con gli attori del contesto e quindi una visione “dal di dentro” del fenomeno,

che fosse la base della comprensione dello stesso.

Si è scelto di sviluppare con le persone trattenute una relazione umana fondata sulla

comprensione dei bisogni primari di ascolto e attenzione delle problematiche personali, e

per questo si è adottata una modalità di ricerca covert41, per non rischiare di compromettere

la relazione poco a poco costruita e non inibire le persone trattenute nell’espressione dei

loro bisogni.42 È comunque evidente che questa modalità d’indagine implichi problemi

deontologici per il ricercatore, non è infatti trasparente, ma permette di entrare più in

sintonia con il gruppo. Al contrario, adottando una modalità overt, ho manifestato nel corso

del periodo di volontariato ai membri dell’équipe del Progetto Sociale, il mio interesse

all’approfondimento delle tematiche della mediazione linguistico-culturale.

La pianificazione e lo svolgimento della ricerca hanno seguito alcune fasi43:

la decisione sugli obiettivi dell'indagine;

la decisione sul gruppo di soggetti da studiare;

l'accesso al gruppo;

l'instaurazione di un rapporto con i soggetti da studiare;

la realizzazione dell'indagine mediante osservazione e registrazione44

41In relazione al fatto che i membri del gruppo sociale considerato possono essere a conoscenza oppure no dell'identità del ricercatore, si parla di ricerca covert (nell’ipotesi della segretezza dell’identità del ricercatore) e di ricerca overt (nel caso in cui l’identità e il ruolo del ricercatore siano riconosciuti e la ricerca venga quindi condotta in totale trasparenza). La prima soluzione ha lo scopo di non produrre alterazioni di sorta nell'ambiente, la seconda è più consona a situazioni nelle quali il ricercatore abbia lo scopo di introdurre (anche con la sua presenza) stimoli. Cfr. M. Niero, Paradigmi e metodi di ricerca sociale, Coop. Nuovo Progetto, 190-195, “Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 2. Consultabile su: http://vettorato.unisal.it/Animazione/OsservazionePartecipante.pdf). 42Ad esempio con trattenuti come E. vivace donna moldava, l’utilizzo della modalità overt, avrebbe rappresentato il fallimento della ricerca stessa. Quando un gruppo di giornalisti, ad esempio, alla fine di maggio 2012 sono entrati al C.I.E. per realizzare un servizio informativo, la donna, scocciata dalle domande e dalla presenza dei giornalisti, urlò loro da lontano: “Principessa, la prossima volta che torni portami un paio di ciabatte nuove” (in “Voci da una terra di nessuno chiamata C.I.E.” di A. Testa, Il Manifesto [online], 26 maggio 2012. Consultabile su: http://www.ilmanifestobologna.it/wp/2012/05/voci-da-una-terra-di-nessuno-chiamata-cie/). 43Si fa riferimento a Niero, “Alcune note sull’osservazione partecipante” p.3. 44Si tenga presente che per ragioni di privacy e a causa dell’eccessiva delicatezza dei temi trattati, non è stato possibile registrare i colloqui in nessun caso.

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l'analisi dei dati;

la redazione del rapporto di ricerca.

È stato importante il ruolo di gatekeeper45 del dott. Pilati, che ha facilitato attraverso

spiegazioni e consigli, il lavoro nel contesto, fornendone le chiavi d’accesso interpretative,

rispetto a quelle peculiarità che verranno descritte nel paragrafo successivo.

Si è ritenuto importante filtrare prima dal punto di vista emotivo l’esperienza per poi, una

volta trascorso un tempo di “assimilazione e di assestamento” (di più o meno due

settimane), procedere alla stesura del presente contributo.46

Attraverso le interviste destrutturate47, si è inoltre avuto modo di confrontarsi con i

mediatori, casualmente o su esplicita richiesta, su temi ed eventi accaduti durante i mesi di

volontariato. È risultato di fondamentale importanza, confrontare quanto rimarcato

soggettivamente, con le opinioni e gli atteggiamenti dei mediatori e dei membri dell’équipe

che hanno fornito di volta in volta chiarimenti riguardo al trattamento di casi specifici. Tali

chiarimenti hanno quindi fornito nell’immediato gli strumenti per procedere con l’attività di

volontariato, ma hanno anche permesso di comprendere il perché di determinate azioni,

alimentando l’interesse per il tema del presente contributo.

Da ultimo, bisogna considerare la difficoltà dovuta alla fase di uscita dal contesto48. La

chiusura dell’esperienza ha rispecchiato i meccanismi covert e overt precedentemente

esposti: si è voluto quindi annunciare la fine dell’attività al Progetto Sociale; con le persone

trattenute, si è proceduto ad una chiusura tacita, spiegare le ragioni della fine del periodo di

45“Il gatekeeper (letteralmente "portiere") è una persona che fornisce l'accesso per introdurre il ricercatore nel campo di indagine. Egli costituisce la prima interfaccia con il campo di analisi, e da lui il ricercatore trarrà le informazioni di prima mano sulle caratteristiche dell'ambiente in modo da conoscerne la struttura fondamentale (chi sono le persone, che ruoli hanno, ecc). Il gatekeeper è anche la persona che fornisce le chiavi per potere fare l'indagine in quell'ambiente (autorizzazioni formali, sostanziali, ecc.). In Niero, “Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 3. 46In questo senso, è stato di fondamentale aiuto il diario di bordo, perché ha favorito la fase di ricostruzione e di analisi dei dati raccolti. 47Si tratta di una tecnica di ricerca qualitativa che si riferisce a interviste che spesso si svolgono casualmente, senza che l'osservatore ne abbia provocato l'occasione. Le interviste prendono la forma di conversazioni su fenomeni specifici ai quali hanno assistito. In questo senso, il ricercatore dovrebbe essere pronto ad approfittare dell’opportunità di integrare l'osservazione con l’interazione. Altre volte, invece, le interviste sono appositamente programmate dall'osservatore desideroso di sviluppare temi specifici potenzialmente interessanti per la comprensione del contesto. (Cfr. Niero,“Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 5) 48La difficoltà si riferisce anche al fatto che il periodo di volontariato nella struttura ha corrisposto ad un periodo di crescita formativa e di costruzione di relazioni.

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collaborazione a persone psicologicamente e comprensibilmente instabili che affrontano il

tempo e le tematiche ad esso connesso (cfr. paragrafo successivo) con tanta angoscia,

sarebbe stato considerevolmente destabilizzante. Si è preferito dunque lasciare la chiusura

un fatto casuale.49

3.2 IL CONTESTO DI RIFERIMENTO

I Centri d’Identificazione ed Espulsione sono strutture per migranti istituite in ottemperanza

all’art. 12 della legge 40/1998 (Legge Turco Napolitano):

Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell'Interno, di concerto con i ministri per la Solidarietà sociale e del Tesoro.

Vengono chiamati C.I.E. in seguito al decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008 "Misure

urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi convertito in legge (legge 125/2008).

Vengono istituiti in una situazione emergenziale, legata al peculiare atteggiamento del

legislatore italiano di fronte al fenomeno dell’immigrazione; sono gestiti dalla Croce Rossa,

o dalle Misericordie d’Italia, o ancora da associazioni appositamente create.

Il C.I.E. cui si fa riferimento si trova a Bologna, in via Mattei 60, alla periferia della città, in

una ex-caserma ed è gestito dalla Misericordia di Modena. Entrandovi si ha subito

l’impressione di fare ingresso in un “nonluogo”. Secondo quanto affermato da Augé:

“Il nonluogo è il contrario dell’utopia: esso non esiste e non accoglie alcuna società

organica”. (Augé: 1992, trad.it. 2009, 99)

Augé etichetta come nonluoghi i risultati della surmodernità50, spazi come aeroporti e

49Per ovvie questioni di privacy nell’esposizione dei casi esemplificativi, si è scelto di riportare la sola iniziale appuntata del nome di battesimo della persona trattenuta e la nazionalità. 50Una trattazione della surmodernità si ha in Augé: 1992, trad.it 2009, pp. 44-49. In maniera sintetica riportiamo cosa Augé intenda con questo termine: “Nell’estensione degli spazi virtuali c’è il segno di un rapido progresso della surmodernità, intesa come la combinazione di tre fenomeni: il restringimento dello

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supermercati che hanno a che fare con individui (clienti, passeggeri, utenti) identificati,

socializzati e localizzati solo all’entrata e all’uscita. Afferma Augé:

se i nonluoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità. Appena gli individui si accostano, fanno del sociale e organizzano dei luoghi. Lo spazio della surmodernità è invece segnato da questa contraddizione, esso ha a che fare solo con individui (clienti, passeggeri, utenti, ascoltatori), ma questi sono identificati, socializzati e localizzati (nome, professione, luogo di nascita, indirizzo) solo all’entrata o all’uscita. […] È dunque come in una immensa parentesi che i non luoghi accolgono individui ogni giorno più numerosi. (1992, trad.it. 2009, 98-99)

In seguito all’esperienza diretta presso il C.I.E. di Bologna, si ritiene opportuno definire

anche il C.I.E. come un nonluogo. Effettivamente, il periodo di trattenimento, scandito dai

ritmi delle entrate e delle uscite51, e da un forte sentimento di angoscia, si configura proprio

come una grossa parentesi nella vita dell’individuo trattenuto, in attesa di risposte riguardo

al proprio destino oltre il C.I.E.

Il Centro di Bologna nel corso del tempo si è strutturato in modo unico in Italia, dotandosi

di un Progetto Sociale che, in accordo con l’Ufficio del Garante e con l’intervento degli enti

locali e di alcune associazioni, cooperative sociali, sindacati e volontari, autorizzati dalla

Prefettura di Bologna, assicura maggiore attenzione alle persone, in una prospettiva di

riduzione del danno derivante dal fallimento del progetto migratorio e dalla difficile

accettazione del ritorno al paese di origine, nonché di intervento a tutela dei diritti

fondamentali della persona, fornendo numerosi servizi, dai mediatori culturali, allo

psicologo, ai gruppi di mutuo-auto-aiuto, agli sportelli informativi, compreso quello per le

donne che provengono da situazioni di sfruttamento sessuale. E’ presente una biblioteca

che ha ricevuto libri da molte realtà cittadine, compresa l’Università di Bologna, che

consente anche lo svolgimento di tirocini agli studenti presso il Centro (cfr. “Quinta

Relazione sull’attività dell’ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà

personale, maggio 2008 - aprile 2009”, p. 55).

spazio, l'accelerazione del tempo e l'individualizzazione dei destini.” In M Garofalo., “Non luoghi e “surmodernità” - incontro con Marc Augé”, Il Sole 24 ore [online], 17 luglio 2008. Consultabile su: http://maurogarofalo.nova100.ilsole24ore.com/2008/07/i-nonluoghi-e-i.html. 51È sicuramente interessante far presente che l’uscita dal C.I.E., sia essa per rimpatrio, che per l’ottenimento del permesso di soggiorno per salute o per protezione internazionale, viene vissuta come una festa, da parte di tutti i trattenuti. Si ricorda il caso di una ragazza nigeriana, richiedente asilo, che dopo tre mesi di permanenza presso il C.I.E., finalmente ottiene il rilascio per permesso di soggiorno secondo l’art. 18 T.U.: la sua uscita dal C.I.E. diventa un susseguirsi di canti e balli della tradizione yoruba (l’etnia nigeriana della ragazza).

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Come afferma Pilati nella sua relazione “La condizione dello straniero nel C.I.E.”

presentata in occasione del seminario che si è svolto il 14 maggio 2010 a Bologna, sul tema

“La condizione dello straniero nel carcere”52, la struttura sembra partecipare al medesimo

genus delle “istituzioni totali” cui appartiene anche il carcere. La vocazione delle due

istituzioni potrebbe apparire comune, tuttavia, la natura relativamente recente dei C.I.E., si

rivela un elemento di “sfavore” per questi ultimi, che appaiono meno “normati” e meno

strutturati rispetto all’istituzione carceraria e, pertanto, anche meno in grado di fronteggiare

necessità e bisogni della popolazione trattenuta. Pilati inoltre afferma che non di rado lo

straniero proveniente dal carcere sostiene di preferire la condizione di detenuto perché

meno mortificante, rispetto al trattenimento al C.I.E. L’esperienza carceraria infatti rientra

in una dimensione culturale, essendo la punizione che quel paese infligge a chi ha infranto

la legge. Invece la condizione di forte casualità legata al C.I.E., fa perdere di vista i motivi

del trattenimento e fa crescere nel trattenuto rabbia e angoscia.

A caratterizzare la struttura, “in maniera pervasiva”, come afferma Pilati nella relazione già

citata, vi è la forte dose di casualità. La presenza del migrante irregolare nella struttura è

condizionata infatti da una serie di fattori come l’indisponibilità del vettore per il rimpatrio

immediato, e la disponibilità di posti nella struttura stessa. Spesso, sottolinea Pilati nella

sua relazione, la mancanza di risorse adeguate fa sì che la maggior parte dei provvedimenti

di espulsione sia eseguita con una “semplice” intimazione a lasciare il territorio dello Stato

(salvo i casi con conseguenze penali). Ecco che, il concreto dipanarsi della vicenda del

migrante - afferma Pilati - può dipendere da un errore burocratico nell’esecuzione del

provvedimento di convalida o dalla collaborazione dei paesi di provenienza dei migranti (se

si tratta di paesi che hanno stretto accordi di cooperazione con l’Italia impegnandosi a

collaborare per le procedure di identificazione).

Inoltre, osserva Pilati, il ruolo determinante della casualità è in grado di produrre un

acutizzarsi del disagio e del senso di afflizione dello straniero, che dopo essersi interrogato

sulle “ragioni” della detenzione, finisce anche per chiedersi il “perché” di un trattamento

52La relazione, alla quale in questa sezione si farà sovente riferimento, consente soprattutto ai non addetti ai lavori, di avere un quadro globale della struttura C.I.E.

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differenziato rispetto ad altri53, non possedendo gli strumenti conoscitivi per comprenderne

a pieno le cause. Il tempo trascorso al C.I.E. rafforza la paura delle conseguenze del

fallimento del progetto migratorio, la paura di essere rimpatriati in una nazione alle volte

sconosciuta (è il caso di A. giovanissima donna serba nata in Italia e da sempre residente in

un campo rom alla periferia della città, portata al C.I.E. perché per la legge italiana vige il

principio dello ius sanguinis54).

Si consideri la preoccupazione dei migranti di non poter più essere, per i mesi di

trattenimento e forse per sempre (nel caso di un rimpatrio), il punto di riferimento per il

sostentamento della famiglia. Come nota Pilati, infatti, sulle spalle del migrante, grava una

responsabilità che va ben oltre la dimensione puramente individuale, essendo egli

affidatario di un mandato collettivo che lo vede implicato nei confronti del suo gruppo di

riferimento, in quanto forma di investimento psicologico ed economico per tutti coloro che

restano nel Paese d’origine del migrante.

L’aspetto temporale e di indeterminatezza che in seguito al cosiddetto pacchetto sicurezza

(legge 23 giugno 2011 n.89) ha prolungato i tempi di trattenimento fino ad un massimo di

diciotto mesi, rappresenta un ulteriore fattore di destabilizzazione per la salute psichica del

trattenuto. La stessa modifica del nome della struttura da “C.P.T.A., Centro Permanenza

Temporanea e di Assistenza a C.I.E., Centro d’Identificazione ed Espulsione, è indicativo

rispetto alla questione della temporaneità: venendo meno infatti l’indicazione sul tempo, il

C.I.E. preannuncia il mutamento strutturale dei centri per migranti, destinanti all’effettività

delle espulsioni, diventando luoghi detentivi a tutti gli effetti. (Quinta relazione svolta

53Una ragazza nigeriana il giorno del rilascio di una donna moldava dopo “soli” due mesi al C.I.E., per l’ottenimento di un permesso di soggiorno per salute, lamenta, riferendosi ai mediatori e agli operatori dell’ente gestore: “Voi non fate uscire mai le nigeriane, voi ce l’avete con noi perché siamo nere. Voi ci volete solo qui dentro!”. 54Il diritto italiano (a differenza di quello francese) non accorda ai nati sul suolo italiano automatica cittadinanza. “La legge 91 del 1992 indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori.” (cfr. Ministero dell’Interno, “Ius soli e Ius sanguinis”. Consultabile su: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/cittadinanza/Ius_soli.html). Nel caso specifico di A. si fa riferimento alla situazione dei cittadini provenienti dall’ex-Jugoslavia, di etnia rom, che arrivano in Italia in tenera età, per questo senza documenti. Ciò rende la loro condizione particolarmente delicata perché non potendo essere identificati sono rilasciati dal C.I.E. solo alla scadenza dei termini previsti dalla legislazione di riferimento.

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dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Maggio

2008-aprile 2009, p. 55)

L’attesa, il senso di incertezza rispetto al proprio futuro, l’insofferenza e la rabbia portano i

migranti trattenuti ad assumente comportamenti autolesionisti, violenti, oltre che forme di

auto-abbandono e protesta, come ripetuti scioperi della fame; ogni persona trattenuta si

rapporta al proprio dramma secondo modalità che sono come afferma Pilati nella sua

relazione: “il frutto eterogeneo di un amalgama di vissuti caratterizzati da solitudine,

povertà, alienazione e sfruttamento”. (Pilati: 2010a, 4)

Per l’obbligo al successo che la migrazione impone, nonché per poter disporre di una

piccola cifra per l’acquisto di un biglietto di autobus o di treno, che consenta allo straniero

di raggiungere il paese di provenienza una volta rimpatriato, una piccola azione, come

l’ottenimento della mercede55 dal carcere, assume in un contesto di privazione della libertà,

un significato assai simbolico.

Si nota, inoltre, che la condizione del trattenimento sottopone il trattenuto ad un forte

livello di stress. Nel passare per esempio da un piccolo villaggio ad un grosso centro

occidentale, si costruisce nel migrante un forte senso di smarrimento. Lasciare il proprio

Paese è sempre all’origine di crisi individuali, familiari e sociali, si tratta di cambiamenti

che implicano un forte sconvolgimento dell’Io. L’individuo è costretto a rivisitare le

proprie rappresentazioni culturali per adattarle al nuovo contesto ospite. Come sostiene più

chiaramente Losi: “Per consentire ai […] migranti di elaborare il lutto del mondo che hanno

lasciato, dobbiamo abbandonare le nostre certezze, i nostri assoluti; dobbiamo confrontare

le nostre modalità di pensiero con le loro, le nostre pratiche con le loro pratiche.” (Losi:

2000, 172)

In questo contesto:

Nell’intento di lenire parzialmente il senso di abbandono a se stessi nonché di garantire un sostegno alle persone trattenute, in un momento così difficile della loro vita, che nasce nell’aprile 2005, all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione, il Progetto Sociale, un gruppo di lavoro composto da mediatori culturali, psicologi-psicoterapeuti, avvocati, operatori sociali di vario genere e volontari, che cerca di mettere in atto azioni in una prospettiva di riduzione del danno. (Pilati: 2010a, 6)

55Le mercedi sono compensi maturati dai detenuti in seguito ad attività lavorative svolte all’interno del carcere. Si noterà con i dati statistici esposti in seguito che molti trattenuti hanno già scontato una pena prima di arrivare al C.I.E.

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Il Progetto Sociale vede il coinvolgimento con l’Ufficio del Garante, di enti locali e di

alcune associazioni, autorizzati dalla Prefettura di Bologna. Considerati i numeri ridotti

rispetto al carcere, il Progetto Sociale riesce ad effettuare una presa in carico quasi totale

dei migranti presenti, al punto che una struttura come il C.I.E., può paradossalmente

divenire un’opportunità da cogliere per i trattenuti.

Sembra opportuno, nella descrizione del contesto di riferimento, esporre un resoconto del

Rapporto 2011 “Piani di assistenza individualizzati” che il Progetto Sociale, sulla base della

collaborazione con l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale, ha

redatto. Nel rapporto si legge che nel 2011 sono passati dal C.I.E. di Bologna 665 persone,

per la maggior parte provenienti dal Nord-Africa (249 tunisini, 91 marocchini). Si registra

inoltre la presenza di numerosi nigeriani (90). Il più alto numero di espulsi secondo il

rapporto si registra tra i tunisini (143), in seguito marocchini (56), albanesi (31), cinesi (13),

ucraini (12), moldavi (11) e nigeriani (10). Un altro parametro descritto nel rapporto è il

numero di trattenuti che richiede protezione internazionale56: i richiedenti sono tunisini

(89), nigeriani (51) e marocchini (21).

Il rapporto riscontra nel C.I.E. bolognese una caratterizzazione alquanto eterogenea della

popolazione femminile. Si parla di cinque macro-aree di provenienza:

la Nigeria: le donne nigeriane hanno frequenti vissuti legati alla prostituzione e

violenze;

l’Est-Europa: le donne di quest’area sono vittime di tratta, oppure ex-badanti con

trascorsi di violenze da parte di mariti, conviventi o datori di lavoro;

il Maghreb: la presenza di donne originarie di quest’area può dirsi relativamente

recente, si tratta di donne che per vari motivi sono sole in Italia, spesso fuggono dai

mariti in seguito a reiterate violenze;

il Sud America: le donne sud-americane in genere hanno alle spalle una lunga

permanenza in Italia e hanno frequentemente un passato di prostituzione;

la Cina: le donne cinesi sono oggetto di sfruttamento per tratta o per lavoro.

56La questione della protezione internazionale può dilatare i tempi del trattenimento, nell’attesa di una risposta da parte della commissione preposta, così che alle volte accade di passare un anno al C.I.E., aspettando l’esito del colloquio con la Commissione territoriale.

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Gli uomini, si raggruppano intorno alle seguenti aree di provenienza:

il Maghreb: gli uomini di quest’area sono la maggioranza, si tratta di ex-detenuti,

tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti con precedenti penali da molti anni in

Italia, oppure giunti recentemente in Italia in seguito della forte instabilità politica

che ha colpito le zone di provenienza; ad esempio le 43 persone di provenienza

tunisina sono arrivate in Italia in seguito all’acuirsi dell’instabilità politica del loro

Paese e sono giovani uomini, con scarsa conoscenza della lingua italiana;

il Pakistan: questi uomini hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi

lavorativi, successivamente revocato per problemi con la giustizia;

l’Est-Europa: anche in questo caso si tratta spesso di ex-detenuti o

tossicodipendenti.

Il rapporto sottolinea inoltre come 107 persone su 665 transitate abbiano usufruito di

progetti individualizzati di assistenza. Per quanto riguarda in generale i progetti avviati, si

riferiscono, si legge nel rapporto, a persone che hanno sofferto violenze e spesso lunghi

periodi di vita di strada.

Ciò che si riscontra nel rapporto (che è stato molto importante acquisire come conoscenza

base per identificare subito il più corretto approccio per costruire la relazione con le

persone trattenute) è la presenza di alcune macro-categorie di persone. Il rapporto parla di:

persone poco integrabili, da tanti anni in Italia e note ai servizi sociali e sanitari,

hanno esperienze di vita di strada molto traumatiche e una condizione psichiatrica

molto precaria;

ex-detenuti, uomini non identificati nel periodo di carcerazione, che vengono

trattenuti nel C.I.E. subito dopo aver scontato la pena;

tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti, alcuni di essi seguiti dal SERT (Servizi

pubblici per le tossicodipendenze) per la somministrazione di metadone; sono

persone che hanno bisogno di contenimento e che spesso si sono rese protagoniste

di episodi di autolesionismo;

ex-minori non accompagnati, persone provenienti soprattutto dal Maghreb che una

volta maggiorenni hanno commesso anche piccoli reati e quindi hanno perso il

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diritto al permesso di soggiorno. In questi casi il legame con il paese d’origine è

pressoché nullo;

persone cosiddette “smarrite”, sono persone con un livello di disagio psichico che

impedisce la ricostruzione della loro storia sanitaria e psicosociale. Si rende

necessario a volte un accompagnamento al rimpatrio assistito.

Si è potuto notare che la conoscenza di questi dati di scenario relativi alla caratterizzazione

delle nazionalità è una risorsa molto importante da impiegare nella delicata fase iniziale

rappresentata dai colloqui preliminari svolti di prassi dai mediatori.

È importante ora inquadrare alcuni meccanismi, quali la convalida da parte del giudice di

pace e la notifica del decreto di espulsione, che il trattenuto affronta con fortissimo stress

emotivo e che il mediatore prima e gli operatori in seguito si trovano a fronteggiare, come

passaggi obbligati del percorso di trattenimento.

Il provvedimento di trattenimento disposto dal questore deve essere convalidato dal

Giudice di pace, con udienza da tenersi all’interno del C.I.E. Il provvedimento è quindi una

negazione della libertà personale (sancita dall’art. 13 della Cost. it). Basta un intoppo

burocratico, come ad esempio la mancata presenza di un interprete che traduca nella lingua

della persona in questione il provvedimento, che la convalida diventa non eseguibile; in

questo caso si procede con un foglio di via che intima al migrante di lasciare il territorio

nazionale entro sette giorni. Tale procedura deve essere svolta alla presenza dello straniero

trattenuto, di un suo avvocato (di fiducia se ne fa esplicita richiesta, oppure d’ufficio), di un

interprete e di un funzionario della questura. Il Giudice di Pace è chiamato a esprimersi a

proposito della convalida del trattenimento entro e non oltre quarantotto ore da quando è

stato emesso, pena l’inefficacia del provvedimento di trattenimento. L’udienza di convalida

è un momento molto delicato, è per questo che è molto importante la presenza

dell’avvocato, è infatti l’unico momento in cui è possibile far decadere il trattenimento,

dato che anche se si opta per il ricorso, il migrante resta comunque trattenuto nella

struttura.57 È possibile che il migrante sia incompatibile con il trattenimento nel C.I.E, tra

gli individui incompatibili vi sono le categorie previste dall’art. 19 del T.U. (come

57Per questa parte riguardante gli aspetti burocratici del trattenimento si è consultata oltre alla diretta osservazione sul campo, la tesi di laurea di A. Nicolini.

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modificato dal cd. “pacchetto sicurezza” del 2009). Secondo l’articolo, minori di anni 18,

donne incinte e conviventi con parenti entro il secondo grado, sono inespellibili.

Attualmente i C.I.E. operativi sono 1358:

- Bari-Palese, area aeroportuale – 196 posti

- Bologna, Caserma Chiarini – 95 posti

- Brindisi, Loc. Restinco - 83 posti

- Caltanissetta, Contrada Pian del Lago – 96 posti

- Catanzaro, Lamezia Terme – 80 posti

- Crotone, S. Anna – 124 posti

- Gorizia, Gradisca d’Isonzo – 248 posti

- Milano, Via Corelli – 132 posti

- Modena, Località Sant’Anna – 60 posti

- Roma, Ponte Galeria – 360 posti

- Torino, Corso Brunelleschi – 180 posti

- Trapani, Serraino Vulpitta – 43 posti

- Trapani, loc Milo - 204 posti

La forte attenzione mediatica che recentemente ha coinvolto i C.I.E. di tutta Italia, con un

numero sempre maggiore di giornalisti interessati a documentare le condizioni delle

persone trattenute (cfr. campagna LasciateCIEntrare), ha reso queste strutture più visibili

all’opinione pubblica, spesso ignorante riguardo ai meccanismi di espulsione e

respingimento che l’Italia ha adottato nel corso degli ultimi decenni59. Questa attenzione, è

sicuramente auspicabile, perché le angosce e il disagio dei trattenimenti amministrativi

siano conosciuti ai più. È importante infatti essere consapevoli dello stato delle cose,

relativamente ai C.I.E, come sottolinea l’ On. R.M. Villecco Calipari, in un’interpellanza

urgente del 10 maggio 2012:

il rapporto di Medici senza frontiere sui centri per migranti – C.I.E., C.A.R.A. e C.D.A. - del 2010 denuncia come nei C.I.E. convivono persone con status giuridici differenti. Infatti, negli stessi ambienti si trovano vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come

58Dati Ministero degli Interni (cfr. Allegati). Consultabili su: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema006.html. 59Reperire informazioni sui C.I.E. resta comunque compito di organi di stampa indipendenti. Ad esempio di veda il blog di Gabriele del Grande “Fortress Europe”, consultabile su: http://fortresseurope.blogspot.it/

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individui in fuga dai conflitti e da condizioni degradanti. Altri sono affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure vi sono stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro non regolare, una casa e la famiglia, oppure gente appena arrivata. Come giustamente è stato rilevato, nel rapporto stilato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato (marzo 2012), la gestione dei centri di trattenimento degli stranieri sembra, quindi, essere ancora del tutto orientata verso un approccio emergenziale. (Interpellanza urgente n. 2-01434 dell’On. Villecco Calipari, p.3)

3.3 PRIMA FASE DELLA RICERCA: COLLOQUI E INTERVISTE

Entrare in un C.I.E. non è cosa semplice, soprattutto se si è a digiuno di legislazione di

riferimento e non si immagina fino a quanto possa essere duro il lavoro di ascolto e di

supporto delle persone trattenute.

In questo paragrafo si espone come è avvenuta la pianificazione della prima fase della

ricerca: con incontri informativi, nella forma di interviste semi-strutturate, si è cercato di

comprendere la complessa attività di mediazione linguistico-culturale nella struttura di

riferimento, oltre che alle dinamiche ad essa connesse.

Il primo incontro, con l’assistente sociale del C.I.E. si è svolto quasi come un colloquio

libero su temi poco specifici. Si è subito compreso, con la prima domanda (“potrebbe

spiegare in cosa consiste l’attività di mediazione linguistico-culturale presso il C.I.E.?”) che

il tema non era facilmente circoscrivibile entro tematiche della lingua e della cultura, ma

che sarebbe stato importante inquadrare la questione da un punto di vista strutturale (il

funzionamento del centro e l’attività del Progetto Sociale) e sociale (le tematiche della

sofferenza, gli aspetti psicosociali del trattenimento). Il colloquio con l’assistente sociale,

ha insomma svelato che parlare di mediazione linguistico-culturale in un luogo come il

C.I.E. avrebbe richiesto uno svincolamento da un’eccessiva enfasi su etichette e sistemi

classificatori, utilizzabili in altri ambiti della mediazione più circoscritti (scuola, ospedali

etc.).

L’assistente sociale ha spiegato il lavoro sinergico dell’équipe, e nello specifico il suo

ruolo. Il colloquio è stato molto utile anche perché ha permesso un incontro successivo con

il dott. Pilati, il quale ha chiarito le difficoltà e le peculiarità del luogo, inquadrando il

discorso in una prospettiva organizzativa. Il colloquio con il dott. Pilati ha permesso di

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chiarire il funzionamento della struttura e dei servizi alla persona di cui è responsabile. Ciò

che si è potuto estrapolare dall’incontro, riscontrato nella relazione “La condizione dello

straniero nel C.I.E.” precedentemente citata, è che il numero relativamente poco consistente

di trattenuti (95, di cui 50 uomini e 45 donne) porta gli operatori del Progetto Sociale ad

effettuare una presa in carico individuale e quasi complessiva delle persone trattenute.

Il dott. Pilati in relazione alle mie domande sulla figura del mediatore, spiega che

all’interno dell’équipe di lavoro, il mediatore si inserisce in maniera centrale e trasversale

rispetto alle attività del Progetto Sociale. Sottolineando gli aspetti linguistici e culturali

comuni alla persona trattenuta, il mediatore instaura una relazione di fiducia di grande

importanza: infatti trascorrendo gran parte del tempo negli spazi comuni e negli alloggi, il

mediatore raccoglie i bisogni e le richieste dei trattenuti, tentando di assicurare loro

un’adeguata comunicazione verso l’esterno, con familiari, legale di fiducia ecc. e verso

l’interno, facendo presente bisogni e richieste ai diversi servizi del Progetto Sociale

(assistente sociale, psicologi-psicoterapeuti, sportello SOS donna60 per vittime di tratta e

sportello di informazione legale). (Pilati: 2010a, 7)

Nella stessa occasione del colloquio conoscitivo, il dott. Pilati mi fornisce e mi presenta una

scheda anamnestica, di cui aveva parlato già l’assistente sociale (cfr. Allegati). La scheda si

presenta come un prezioso strumento conoscitivo, un insieme di linee guida per dirigere i

colloqui con il migrante, dal primissimo incontro per poi proseguire con quelli in itinere,

verso l’approfondimento della storia personale, perché possano emergere i punti su cui

lavorare in maniera efficace.

Un incontro altrettanto interessante, è stato sviluppato con una delle mediatrici che

lavorano nel C.I.E. di Bologna: Amina, di nazionalità tunisina, con la quale si è potuto

chiarire almeno in una fase preliminare, il ruolo del mediatore e i topic con cui viene a

contatto, con le relative difficoltà di gestione degli stessi.

60Dal Novembre 2006, alcune volontarie dell’associazione “SOS donna”, che si occupa dal 1990 di sostenere le donne che vivono e/o hanno vissuto situazioni di violenza, o che sono minacciate o esposte a maltrattamenti fisici, psicologici, sessuali ed economici all’interno o all’esterno dell’ambito familiare, sono presenti all’interno del C.I.E. di via Mattei allo Sportello di aiuto psicologico per le donne vittime del traffico a scopo di sfruttamento sessuale che fornisce sostegno psicologico e informazioni necessarie ad assicurare la difesa dei loro diritti e l’inserimento nel programma di protezione previsto dall’art.18 D.Lgs 286/1998. (cfr. http://lareteeilcambiamento.wordpress.com/sos-donna/)

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La mediatrice, inizialmente spaventata dalle domande, per timore di non essere capace a

rispondere (“lavoro al C.I.E. da nemmeno un anno” si scusa) ha in seguito compreso la

bontà del progetto e ha vivacemente preso in mano il colloquio raccontando la sua

esperienza migratoria e lavorativa con vivacità e trasporto. Parla subito di fortuna Amina,

giunta in Italia dopo aver avviato le pratiche per il ricongiungimento familiare61 (suo marito

viveva in Italia da alcuni anni). Fortunatamente nessun viaggio rocambolesco o tragiche

esperienze di frontiera per lei. In seguito racconta il difficile inserimento dal punto di vista

lavorativo, e a poco a poco le prime soddisfazioni del suo mestiere. In possesso di una

laurea in comunicazione, è tra i primi a partecipare al servizio civile per cittadini stranieri62.

In seguito a questa esperienza comincerà a lavorare come mediatrice in alcuni ospedali

emiliani.

La mediatrice è entrata nel merito delle pratiche di mediazione linguistico-culturale,

parlando specificamente dell’area arabofona con cui lavora. Racconta di un maschilismo

imperante e della difficoltà legata alla varietà dei dialetti arabi, che spesso pregiudicano la

riuscita stessa del colloquio. Il grande incremento di giovani uomini soprattutto, ma anche

di donne, dal Nord Africa, in seguito alle vicende a cui brevemente si è accennato nelle

pagine precedenti, si è tradotto come anticipato, in una presenza sovrabbondante di uomini

e donne (in maggioranza uomini) trattenuti provenienti da quelle zone. La mediatrice ha

inoltre spiegato le difficoltà di interazione con uomini tossicodipendenti (come si è esposto

precedentemente i problemi maggiori dei trattenuti nord africani riguardano la dipendenza

da sostanze stupefacenti), non di rado violenti ed autolesionisti, che difficilmente si

approcciano in maniera tranquilla ai colloqui, nonostante si tratti di instaurare una relazione

finalizzata all’aiuto.

A livello linguistico l’incontro ha introdotto un tema che è emerso più chiaramente durante

i mesi di volontariato: la mediatrice ha fatto riferimento alla difficoltà di comunicare con

61Il ricongiungimento familiare è previsto dall’art. 29 del T.U. 62Il Servizio civile regionale per i ragazzi stranieri e comunitari è stato introdotto in Emilia-Romagna con la legge regionale n. 20 del 2003 che da un lato mira a sostenere la proposta del Servizio civile nazionale nel territorio regionale, dall’altro lo integra con un’ulteriore opportunità rivolta esplicitamente ai giovani cittadini non italiani presenti sul territorio, che altrimenti sarebbero esclusi da questa esperienza di cittadinanza attiva, partecipazione e integrazione, fino ad allora accessibile solo ai giovani con cittadinanza italiana. (cfr. “Servizio civile per stranieri, 79 i giovani già avviati”. Consultabile su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/brevi/servizio-civile-regionale-per-stranieri-79-i-giovani-gia-avviati)

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persone scarsamente scolarizzate o provenienti da aree linguistiche e sociali

particolarmente lontane dalla propria e ha accennato alla vastità dell’arabo e alla micro

suddivisione dello standard. Come afferma Rudvin:

Interpreters for clients from the large international language groups such as English, Spanish, French and Arabic will often not be from the client's own country; apart from the fact that the vast variety of “englishes”, “frenches”, “spanishes”, etc., have different semantic and grammatical features from the “standard models” of the world languages, they clearly do not share their culture referents – so not only do the communication models differ (directness, distance, politeness, semantic overlap, etc.) - even if they are speaking the same language (indeed many interpreters find it difficult to even understand varieties of a particular language), but their real-world referents do not overlap. Varieties of standard languages (especially colonial languages) are sometimes described as “cross-cultural”, or “nativized” - that is, the language has been adapted -semantically, grammatically- to its new terrain and culture (for example, English in the Indian subcontinent or East or Central Africa), and reflects that reality and world-vision, rather than, say, the UK or the US. (Rudvin in Londei et al.: 2006, 67)

Un altro tema importante, sollevato dalla mediatrice e poi riscontrato sul campo è relativo

alla questione del genere del mediatore. In particolare, Amina spiega che essere mediatrice

donna crea con gli uomini provenienti dal Nord Africa alcuni problemi nella costruzione di

relazioni, che su suggerimento di Amina vanno affrontati sin dal primissimo incontro.

Amina afferma: “O sei troppo giovane, o sei solo una femmina per loro” riferendosi a quel

maschilismo imperante di cui sopra. È importante per il mediatore costruire una relazione a

partire dalla spiegazione del proprio ruolo, una relazione di fiducia in cui il mediatore è un

ponte tra due universi. Esigere rispetto per il proprio ruolo è sicuramente il primo step

perché tale relazione prenda avvio nel modo giusto. I consigli di Amina nel come

rapportarsi agli uomini trattenuti (la mediatrice ha sconsigliato qualora si fosse riusciti ad

entrare nel braccio maschile, a interagire eccessivamente con gli uomini, attirando la loro

attenzione e soprattutto tentando di stabilire una relazione che non tenesse conto delle

specificità culturali) sono risultati estremamente efficaci con tutti gli uomini, non solo

nordafricani63.

La mediatrice ha poi parlato del suo primo giorno di lavoro, lo stesso giorno in cui è stato

varato il decreto che portava a diciotto mesi il tempo massimo per il trattenimento. Ha

63Cfr. esperienza del gruppo di auto-mutuo aiuto maschile di cui si discorrerà nel paragrafo successivo.

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prontamente spiegato quanto fosse stato difficile per lei l’adattamento al contesto C.I.E.,

definendolo senza eguali, rispetto al più circoscritto lavoro in ospedale al quale era abituata.

3.4 SECONDA FASE DELLA RICERCA: L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE

Successivamente alla fase appena descritta, ho avviato un’attività di volontariato nel C.I.E.

di Bologna, sulla base di interessi personali che i colloqui e le interviste hanno rafforzato. È

quindi in seguito a questa scelta e alla diretta osservazione dei primi ingressi che decido di

sviluppare un’attività di ricerca e approfondimento della mediazione linguistico-culturale.

Il 3 maggio, giorno del primo ingresso al C.I.E., ho fatto la conoscenza della mediatrice

nigeriana. La figura di questa mediatrice è stata fondamentale perché attraverso un

crescente rapporto di fiducia reciproco, mi ha consentito di fare del volontariato

un’opportunità di crescita formativa e personale, spingendomi all’azione e alla

partecipazione alle attività da lei stessa presiedute (con la comunità delle donne nigeriane

trattenute e nella gestione dei colloqui).

Grazie a Mary si è potuta fare la conoscenza degli altri membri dell’équipe del Progetto

Sociale, degli operatori della Misericordia, oltre che dei trattenuti e si è potuto conoscere la

struttura nel suo funzionamento quotidiano. La scelta di affiancare la mediatrice nigeriana

si basa sulla possibilità di condivisione della lingua inglese, con conseguente facilità di

comprensione dei colloqui e delle attività di mediazione gestiti dalla mediatrice.

L’équipe multidisciplinare del Progetto Sociale risulta formata da:

il responsabile del Progetto Sociale (dott. Pilati, psicologo);

quattro mediatori (una mediatrice nigeriana, un mediatore tunisino, un mediatore

marocchino, una mediatrice moldava);

un operatore sociale con competenze antropologiche (di nazionalità italiana);

una psicologa psicoterapeuta e un tirocinante in psicologia post-lauream;

un assistente sociale.

In particolare, si fa presente che l’attività di mediazione, presente tutti i giorni dal lunedì al

venerdì, ricopre complessivamente un servizio di 110 ore settimanali. La mediatrice

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nigeriana risulta avere il monte ore più consistente, assieme ai mediatori marocchino e

tunisino (25 ore ciascuno) per turni lavorativi di quattro o cinque ore giornaliere.

È stato molto importante entrare da subito in confidenza con il luogo, per comprenderne le

peculiarità e comprendere in che modo inserirsi nella realtà della struttura senza interferire

con la gestione delle attività lavorative dei mediatori e con la vita dei trattenuti; il punto di

forza è stato il grado di fiducia e disponibilità dell’équipe nei miei confronti che ha

permesso un inserimento rapido nella struttura.64

Attraverso i primi dialoghi informativi con la mediatrice Mary, ho cominciato a conoscere

le prime storie di trattenuti, soprattutto di donne, con le quali ho trascorso la maggior parte

del tempo.65 La mediatrice Mary, nel tentativo di inserirmi a pieno titolo nella schedule

delle proprie giornate lavorative, ha sin da subito adottato l’abitudine, di informarmi, prima

dell’inizio del colloquio, della storia del trattenuto, per lo meno a grandi linee, perché

potessi partecipare attivamente alla seduta.66 L’abitudine al briefing è stata assai vincente

soprattutto in casi emotivamente e oggettivamente complessi, per i quali, occorreva

informarsi in anticipo sulle problematiche rilevanti, visto che averne conoscenza avrebbe

giovato all’incontro: in questo modo tutti i partecipanti al colloquio avrebbero avuto le

stesse informazioni riguardo al caso.

Sin dai primissimi minuti di “osservazione” ho compreso che le caratteristiche del luogo e

la particolare conformazione dell’équipe, avrebbero richiesto flessibilità e adattabilità

soprattutto in relazione alla delicatezza delle storie coinvolte. È stato importante insomma

un certo grado di coinvolgimento per svolgere l’attività. È stato opportuno quindi investire

il tempo dell’osservazione partecipante come in un lavoro in cui imparare a gestire

professionalmente ed emotivamente l’attività di mediazione. 64Durante i mesi al C.I.E., una grande conquista per me è stata guadagnarmi l’appellativo di “piccolo mediatore”. Ho interpretato tale nomignolo, più che in un senso dispregiativo di inadeguatezza per via della miaetà anagrafica rispetto alla delicatezza del “lavoro”, come un riconoscimento concreto della mia presenza e del mio ruolo all’interno dell’équipe di lavoro. L’appellativo è stato coniato da una ragazza nigeriana mia coetanea, e poi accolto positivamente dalle altre donne trattenute, che preferivano comunque attirare la mia attenzione con il mio nome di battesimo. 65Le persone nigeriane trattenute sono di rado uomini, si tratta al contrario per la maggior parte di donne, vittime di tratta e violenze, come si avrà modo di approfondire nel paragrafo successivo. L’affiancamento a Mary ha quindi favorito la vicinanza e la conoscenza di storie legate alla Nigeria, oltre che dei topic connessi all’area. 66Questo comportamento è stato adottato dalla mediatrice soprattutto nella fase iniziale dell’inserimento nella struttura, quando avevo una conoscenza assai scarsa dei trattenuti.

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L’équipe del Progetto Sociale, ha sin da subito e continuativamente, soprattutto nella

delicata fase iniziale dell’inserimento in qualità di volontaria, menzionato la necessità di

pianificare strategie del distacco emotivo, per non incappare in un procedimento di burn out

(cfr. paragrafo 2.3, nota n.20). Proprio per controllare il flusso incontrollato di sensazioni, e

cogestire l’andamento della ricerca, a conclusione di ogni ingresso, il dott. Pilati ha ritenuto

opportuno prevedere uno spazio di dialogo successivo alle attività “pratiche”, in cui i

sentimenti e i pensieri relativamente a quanto osservato venissero opportunamente calibrati

e assimilati, e che relativamente alla mediazione linguistico-culturale e agli aspetti rimarcati

durante la giornata, potessi trovare una spiegazione e potessi contestualizzarla.

La ricerca ha quindi preso avvio, nel tentativo di collocare e osservare il ruolo del

mediatore nella gestione quotidiana delle attività lavorative. Ne è emersa subito una forte

centralità: persino a livello visivo, il mediatore è un’entità ben distinta dagli operatori della

Misericordia, per questo indossa una casacca catarifrangente; è importante che sia chiaro al

trattenuto la differenza tra le mansioni degli operatori dell’ente gestore e quelle dell’équipe

del Progetto Sociale.

Anche nei singoli colloqui, i trattenuti sono stati puntualmente informati della mia presenza

durante il corso del colloquio stesso. È stato tuttavia necessario ribadirlo nei momenti di

visita negli alloggi, perché i trattenuti potessero essere veramente coscienti della mia

disposizione all’aiuto e all’ascolto nei loro confronti. La particolarità del luogo e dei suoi

protagonisti richiede una partecipazione continuativa perché se ne comprendano le

sfumature e i significati profondi. Le sfaccettature del mestiere del mediatore nel C.I.E. si

sono svelate poco a poco, con cautela e al crescere del rapporto di fiducia con l’équipe e i

trattenuti.

L’attività del mediatore si è mostrata l’attività centrale attraverso la quale è possibile

mettere in moto gli altri servizi del Progetto Sociale. L’importanza della figura del

mediatore, come ricorda Pilati nella sua relazione, viene evidenziata anche nella Quinta

Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della

libertà personale (maggio 2008 – aprile 2009), dove si rileva che:

L’attento e quotidiano lavoro dei mediatori culturali, anche attraverso la compilazione di una scheda anamnestica di tipo sociale, ha infatti consentito di canalizzare l’attività dello sportello [legale] verso una più approfondita conoscenza delle realtà di ciascun migrante. (Quinta

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Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, p. 59)

Inoltre, nella Quarta Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle

persone provate della libertà personale (maggio 2007- aprile 2008) si legge:

La presenza e l’attività dei mediatori culturali sono stati di fondamentale importanza sia nell’indirizzare con sollecitudine allo sportello legale quei cittadini stranieri che prima facie apparivano meritevoli di un immediato colloquio in considerazione della peculiarità della loro condizione personale o giuridica che sembrava consentirne una possibilità di regolarizzazione, sia nell’abbattere quel “muro” di diffidenza che sovente caratterizza il comportamento degli stranieri vissuti in condizioni di clandestinità e che mostrano a volte un certa ritrosia nel raccontare la loro storia personale. Il valore dell’attività dei mediatori sotto questi profili ha posto sicuramente in secondo piano il pur importante lavoro di intermediazione linguistica che gli stessi operano con persone che sovente parlano solo la loro lingua nazionale. (Quarta Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale maggio 2007- aprile 2008, p. 86)

La partecipazione dei trattenuti ai vari sportelli è quindi mediata e promossa dai mediatori

culturali (che fanno capo al Progetto Sociale), avviando un’attività che ben oltrepassa quei

compiti di traduzione e facilitazione linguistica che si è tentato di descrivere nel capitolo

precedente, secondo la letteratura di riferimento.

E’ compito dei mediatori e degli altri operatori presenti nel Progetto Sociale (ad es.

l’antropologo), fare da filtro raccogliendo prenotazioni e iscrizioni per l’accesso allo

sportello informativo legale e allo sportello per donne vittime della tratta, sportello di

ascolto psicologico, oltre che ai colloqui con l’assistente sociale. È compito dei mediatori

compilare la scheda anamnestica, capire i bisogni dei trattenuti ed indirizzarli verso

l’offerta più adeguata.

Riguardo ai compiti preliminari del mediatore al C.I.E., egli si occupa di tenere aggiornato

un archivio, in cui vengono certificati tutti gli ingressi e le uscite dei trattenuti, e che

visivamente si pone come un repertorio assai immediato per il reperimento di nomi e storie.

Vi è inoltre un raccoglitore, uno per le donne e uno per gli uomini, in cui vengono raccolte

le schede provenienti direttamente dalla questura e che catalogate costituiscono la prova

della presenza del trattenuto nella struttura.

I diversi sportelli attivi nella struttura cooperano perché il caso della persona trattenuta

venga affrontato in una prospettiva olistica. L’attività, centrale, del mediatore si affianca a

quella di altre figure professionali; l’assistente sociale ha facoltà di costruire o ricostruire la

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storia della persona trattenuta, ripristinando attraverso informazioni verbali o scritte

presentate dal migrante, le tappe chiave del soggiorno in Italia, pensando ad un progetto

mirato di assistenza. Di grande rilevanza è la presenza dello Sportello di ascolto

psicologico. Come afferma il dott. Pilati in una relazione per l’Ufficio del Garante dei

diritti delle persone private della libertà personale:

E’ noto come, persone in condizione di privazione della libertà personale, siano sovente portate, nell’intento di alleviare la sofferenza, a fare richiesta di psicofarmaci o anche a dare vita, nei casi di frustrazione estrema, a manifestazioni di autolesionismo. Tali situazioni, si sono drasticamente ridotte in seguito all’azione del Progetto Sociale, ed in particolare dello Sportello di ascolto psicologico , che si propone come spazio di sostegno individuale offerto alla persona trattenuta. (Pilati: 2010b, 139)

Attraverso l’ascolto psicologico dunque, il Progetto Sociale si prefigge di prendere in

carico la persona che sta affrontando un momento drammatico della sua vita in cui

l’equilibrio psichico è fortemente minacciato. Lo sportello mira a mettere in atto veri e

propri percorsi psicoterapeutici utili per la persona anche oltre il periodo di trattenimento.

Altro elemento cardine dei servizi alla persona interni al C.I.E., previsti dal Progetto

Sociale, è lo sportello SOS donna: in un centro con una forte concentrazione femminile

proveniente dal mondo della prostituzione, si prefigge di informare e aiutare le donne

vittime di tratta e di violenze e di assicurare loro diritti e protezione secondo quanto

garantito dalla legge italiana ed europea.

Molto importante si rivela inoltre, lo sportello legale, che fornisce informazioni sulla

normativa vigente in tema di immigrazione.

Ma ritornando al mediatore e alla sua centralità, si è potuto riscontrare come egli sia la

prima figura che il neo trattenuto incontra, in seguito alla procedura di accettazione con

l’ente gestore, nel corso della quale il mediatore di norma non è presente67. L’iter

67L’assenza del mediatore nella fase d’accettazione risponde ad una precisa strategia da parte del Progetto Sociale: il mediatore è il primo appiglio per l’avvio di una relazione di aiuto e sostegno: in modo che ciò sia chiaro, è bene che il mediatore non presenzi alla serie di operazioni burocratiche per cui il migrante irregolare entra nel centro, perché il migrante non scambi il mediatore per un operatore complice del sistema detentivo. Vi è stato un caso però, in cui la persona in accettazione, di nazionalità nigeriana, non aveva neanche una rudimentale conoscenza dell’italiano, così l’operatore dell’ente gestore ha chiesto a Mary, di fornire supporto linguistico. Tuttavia, neanche in questo caso si può parlare di mediatore come interprete o mero facilitatore linguistico. L’incontro in questione al quale ho potuto presenziare, si è diretto verso la traduzione di alcune richieste da parte dell’operatore dell’ente gestore, arricchite costantemente da formule come “Don’t worry H., do what she is asking you, don’t be afraid, we will help you”, da parte della mediatrice. La mediatrice si è

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burocratico prevede poi che l’ente gestore informi gli operatori della presenza del migrante,

tramite le schede della questura che ha emesso il provvedimento di espulsione. Il mediatore

organizza così i colloqui (il primo deve svolgersi entro 24 ore dall’ingresso al C.I.E.) in

base all’affinità linguistico-culturale con il trattenuto.

I colloqui si sviluppano a partire della scheda anamnestica in cui vengono raccolte

informazioni dettagliate di tipo legale e sociosanitario sulle condizioni di vita della persona,

precedenti al trattenimento. È importante però che prima che si avvii il colloquio vero e

proprio, il mediatore spieghi al trattenuto il proprio ruolo con chiarezza e il luogo in cui si

trova. La maggior parte delle persone, appena entrate nel centro, chiedono infatti

abbastanza immediatamente: “Dove mi trovo?”, altre volte si tratta di persone che in

passato hanno già trascorso alcuni giorni o mesi al C.I.E. e quindi ne conoscono il

funzionamento. Non è facile spiegare al trattenuto, dove si trova e le opzioni che gli si

aprono davanti. Sicuramente nella fase antecedente all’udienza di convalida è bene che il

mediatore non spaventi il trattenuto, ma lo tranquillizzi circa il suo destino. È bene inoltre

avvertire la persona di quali sono le sue facoltà al momento e cosa prevede l’udienza.

Questa fase spesso richiede molto tempo, perché accade spesso che il trattenuto pensi di

poter far rilievo sulla disponibilità del mediatore e aspettarsi qualcosa, per poter essere

rilasciati. E dunque, la spiegazione del ruolo del mediatore, è indirizzata a far capire al

trattenuto che deve aspettarsi dal mediatore, solo ciò che effettivamente egli può dargli e

cioè ascolto, supporto linguistico e informativo.

Il mediatore a questo punto chiede al trattenuto se è disponibile a rispondere ad alcune

domande. In alcuni casi, di persone con particolari problemi o con situazioni che

preferirebbero nascondere, nel rispondere alle domande, si limitano ad annuire o dissentire,

oppure preferiscono non rispondere e sospendere il colloquio. In molti altri casi, invece, i

trattenuti si pongono in maniera propositiva e si aspettano dal colloquio una serie di

informazioni che possano lenire parzialmente il senso di angoscia e paura.

Per quanto riguarda i casi di persone reticenti, si tenga presente la vicenda di tre donne rom,

giunte insieme nella notte in via Mattei. Le donne costituivano un nucleo familiare che

informata sul nome della ragazza e sulle sue condizioni, in seguito si è soffermata sulla spiegazione delle procedure in fase di accettazione. L’incontro tra la mediatrice e la giovane donna nigeriana ha permesso sin da subito di costruire una relazione di fiducia tra la mediatrice e la donna.

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attraversava tre generazioni, nonna e nipote e amica di lunga data, nonché vicina di casa. Le

tre donne provenivano da un campo rom in corso di smantellamento, e subito si dimostrano

ostili alle domande della mediatrice. Quando quest’ultima però consapevole dell’ostilità

delle donne, imposta il colloquio in un senso meno formale, chiedendo: “Come siete

arrivate qui? Raccontatemi cosa vi è successo…” le donne si aprono, si sciolgono in un

lungo pianto collettivo e raccontano le loro tragiche esperienze. Il caso, il primo al quale si

è preso parte, ha rappresentato un importante banco di prova, dal punto di vista della

gestione a livello emotivo della situazione, purtroppo l’inesperienza e la novità di un

contesto tanto doloroso hanno fatto sì che la partecipazione e il livello di interazione

fossero nulli, tuttavia l’estrema comprensione e prontezza di Mary68, che ha tentato di

smorzare il livello di tensione e sofferenza e contemporaneamente di rassicurare gli animi,

hanno fatto rientrare la situazione. In questo caso, l’attività del mediatore si è sviluppata per

come effettivamente è il più delle volte in una struttura come il C.I.E.: un ascolto profondo

dei bisogni e del vissuto, purtroppo spesso, traumatico della persona. È importante annotare

quanto sembra rilevante del racconto, perché il resto dell’équipe di lavoro possa, qualora

fosse necessario, costruire un percorso individualizzato in favore della persona trattenuta.

Ascoltare i bisogni dell’altro, in questo caso delle donne rom, come in tanti altri casi,

significa per il mediatore, incontrare il dolore e cercare di gestirlo dentro di sé. Si è quindi

compreso che occorre autoregolamentarsi nella gestione dell’emotività per non inficiare il

ruolo di imparzialità cui il mediatore assurge. Il caso delle donne rom si è rivelato

interessante da più punti ai fini dell’osservazione delle dinamiche della mediazione

linguistico-culturale, ha infatti permesso di valutare l’utilità della figura di un madrelingua

italiana accanto a quella del mediatore straniero. Effettivamente, a livello linguistico,

l’incontro ha presentato alcuni problemi: le donne in parte per effetto di un forte senso di

disorientamento, in parte per una reale mancanza di competenza linguistica in italiano, sono

state scarsamente in grado di comunicare con la mediatrice nigeriana in italiano, fatta

eccezione per la più giovane delle tre donne (cosa che ha potuto fungere da punto di

riflessione per azzardare ipotesi sulla sua permanenza in Italia che la donna sosteneva 68A volte, la mancata disponibilità di un mediatore affine all’area linguistica del trattenuto implica che il colloquio venga portato avanti in italiano, da un mediatore estraneo all’universo linguistico-culturale del trattenuto.

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aggirarsi intorno ai tre mesi ma che non avrebbe giustificato la conoscenza così progredita

della lingua italiana). Proprio la più giovane delle donne ha espresso la necessità di scrivere

un messaggio per il proprio avvocato, in cui far presente di un particolare aspetto della sua

situazione giuridica in Italia, messaggio che la donna ha espresso di voler scrivere ella

stessa e poi inviare per fax. La giovane donna che come si è anticipato si esprimeva

correttamente in italiano, e aveva addirittura assimilato un singolare accento toscano,

possedeva un grado molto basso di competenza in italiano scritto (non avendo frequentato

nessuna scuola in Italia). Così ho deciso di accettare la richiesta della donna di aiutarla a

comporre la lettera, svolgendo una funzione di “consulenza linguistica”. La giovane donna,

a conoscenza della mia nazionalità, è stata insistente nel desiderare che fossi proprio io ad

aiutarla nella stesura del messaggio (probabilmente a causa dalla condivisione con me della

stessa età anagrafica). Questo tema è ricorso altre volte, in cui la competenza in italiano

madrelingua posseduta, si è rivelata un valore aggiunto nella cogestione dei colloqui

assieme alla mediatrice nigeriana Mary o all’assistente sociale. Ad esempio, nel caso di un

giovane georgiano che in ufficio colloqui continuava a chiedere una “carta della famiglia”,

senza però esprimere più chiaramente di cosa avesse bisogno, ho suggerito al trattenuto che

forse il documento a cui si riferiva e di cui aveva bisogno poteva essere uno “stato di

famiglia”. Ho dunque spiegato all’uomo cosa si intendesse in Italia per “stato di famiglia”,

e se il concetto corrispondesse alla sua idea iniziale, tradotta in italiano come “carta della

famiglia”. La strategia ha prodotto esito positivo, trattandosi effettivamente di uno “stato di

famiglia”.

Un altro punto ricorrente nei mesi di volontariato è stato il rapporto della mia età anagrafica

con quella dei trattenuti. Nel caso della giovane rom, di un anno più giovane di me, e in

tutti i casi di donne giovani, il fattore età non ha per nulla influenzato la gestione del

colloquio o il tentativo di una relazione senza l’intermediazione della mediatrice. Al

contrario questo elemento comune si è rivelato un punto favorevole all’accelerazione della

costruzione del rapporto di fiducia. Altre volte, la mia giovane età è stata percepita dai

trattenuti, come mancanza di competenze, e quindi come l’impossibilità a fare qualcosa per

aiutarli. In questo quadro globale, si è comunque rimarcata una forte chiusura da parte della

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comunità nigeriana, abbastanza consistente nel centro, che si è dimostrata, salvo alcune

eccezioni69, restia a fidarsi di me. Ma si parlerà approfonditamente delle dinamiche

relazionali e di mediazione con le donne nigeriane nel paragrafo successivo.

Ascoltare e stabilire una relazione empatica con le persone trattenute è quindi il primissimo

punto di partenza nell’esercizio della mediazione al C.I.E. La relazione si fonda sul forte

bisogno di comunicare ed esercitare la parola, anche solo per qualche minuto o in italiano

stentato; comunicare si rivela una forte esigenza di espressione della propria personalità,

che in un sistema detentivo, viene schiacciata. Sintomatico di questo parziale e graduale

annientamento è il numero identificativo affidato ad ogni trattenuto, con il quale gli

operatori dell’ente gestore sono soliti riferirsi alle persone trattenute. Gli operatori del

Progetto Sociale invece non conoscono affatto i numeri identificativi dei trattenuti, ma i

loro nomi.70

A proposito del bisogno di comunicare dei trattenuti, un’ampia fetta dei colloqui post-

convalida sono chiesti apertamente dal trattenuto per una incontenibile voglia di raccontare,

parlare, trovare soluzioni affinché si possa “uscire di lì”. Ad esempio E. una donna croata di

etnia rom, ha cercato sempre nei mesi in cui ho potuto conoscerla al C.I.E. un contatto con i

mediatori e con me, per parlare e per capire cosa le sarebbe potuto succedere. Un giorno,

davanti all’ennesima risposta negativa del consolato croato, al quale la donna aveva

richiesto personalmente che venisse ricercato il suo nome, negli archivi, per poter essere

dunque identificata e rimpatriata, la signora ha urlato “Io non posso più esistere qui. Io mi

ammazzo. Io bevo adesso detersivo”. Sembra che questa frase, semplice e tragica allo

stesso tempo, seppur fondata su una scarsa competenza dell’italiano, racchiuda il senso di

angoscia, di perdita di ogni speranza e di smarrimento, che provano le persone trattenute.

Questo groviglio di sentimenti, è emerso chiaramente in una interessante attività alla quale

ho preso parte, con il benestare dei trattenuti stessi: il gruppo di auto-mutuo-aiuto per

69Il riferimento è alla ragazza nigeriana di cui si parla nella nota precedente. La ragazza, visto l’incontro in fase di accettazione e il mio interessamento sincero alle sue condizioni di salute, ha sin da subito compreso la mia posizione cooperativa rispetto alla situazione. 70È inaspettatamente facile ricordare i nomi di battesimo dei trattenuti, perché associati alle loro storie, che restano scolpite nella mente e nel cuore. In ogni caso questa differenza tra ente gestore e Progetto Sociale, si riferisce al differente tipo di approccio adottato dai due gruppi di operatori in rapporto ai trattenuti e alle loro esigenze.

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uomini.71 Il gruppo è stato il primo reale contatto, prolungato e approfondito con gli

uomini, prima di allora limitato alla conoscenza di alcune storie o alla soddisfazione di

alcune banali richieste (alcuni fax o richieste di documentazione da me inviati su loro

richiesta, ai loro legali di fiducia). Nel caso del gruppo di auto-mutuo-aiuto, la richiesta di

ascolto è stata il leitmotiv di tutto l’incontro. Il gruppo risultava composto da persone di

sesso maschile72: due mediatori, uno psicologo conduttore della seduta e due assistenti. La

presenza di una figura femminile, non ha scoraggiato l’espressione dei bisogni e delle

sensazioni degli uomini, è stata pienamente accettata. La seduta si è rivelata importante

perché ha mostrato una reiterata presenza delle macro tematiche legate alla privazione della

libertà personale e al fallimento del progetto migratorio73, e una amplificazione delle stesse

dovute alla dimensione gruppale e alla condivisione della sofferenza. Inoltre è stato

interessante osservare l’atteggiamento del mediatore presente, che spesso è intervenuto in

seguito ad alcune esternazioni e riferimenti di trattenuti, poco chiare allo psicologo

conduttore, in parte a causa di un fatto puramente linguistico, in parte a causa di riferimenti

ad episodi specifici della vita nella struttura, sconosciuti allo psicologo. Il mediatore si è

occupato dunque di tradurre ed esplicitare i riferimenti alla quotidianità nella struttura dei

migranti trattenuti. Infatti, secondo quanto si legge nella “Quarta relazione sull’attività

dell’ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale” (p. 90), in un

gruppo di auto-mutuo-aiuto, il mediatore provvede alla traduzione e alla mediazione, intesa

come capacità di essere neutrale rispetto alle tematiche discusse, e alla capacità di tradurre

includendo le sensazioni, traducendo cioè parole e anima del trattenuto. L’incontro ha

seguito alcune regole, come l’alternanza del turno di parola e le presentazioni iniziali, oltre

71“Un gruppo di auto-mutuo-aiuto non è un gruppo terapeutico, è un gruppo composto da persone accomunate dal desiderio di superare lo stesso disagio psicologico, affrontando ed elaborando il disagio in prima persona attraverso la condivisione e lo scambio di informazioni, emozioni, esperienze e percorsi. Si ascolta e si è ascoltati in un setting in cui si scoprono e si potenziano le proprie risorse interiori. La formulazione di un gruppo di auto-mutuo-aiuto con i trattenuti del C.I.E. è volta alla creazione di uno spazio dinamico di condivisione e confronto, dove si abbia modo di esternare in un setting protetto le proprie emozioni, e i propri sfoghi, in seguito al forte senso di colpa dato dal fallimento del progetto migratorio. Inoltre, il gruppo di auto-muto-aiuto è volto alla prevenzione del disagio psichico, per quanto possibile in una situazione assai mutevole che vede l’alternarsi di persone sempre diverse nel gruppo.” In Quarta Relazione sull’attività svolta dall’ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (maggio 2007- aprile 2008), pp. 89-92. 72Quanto affermato si riferisce alla seduta a cui ho preso parte. 73Di queste tematiche si è parlato nel paragrafo 3.2.

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che il rispetto per le opinioni altrui. Nella seduta alla quale ho preso parte, il “protagonista”,

è stato un uomo tunisino, con una fortissima esigenza comunicativa (in seguito all’invito

dello psicologo a lasciare parlare anche gli altri, l’uomo risponde: “Io non parlo da tre

giorni, fatemi parlare”74). L’uomo si esprimeva in maniera quasi frenetica, verbalizzando

un estremo disagio rispetto alla vita nel centro. La caratteristica della sua esposizione è

stato un uso reiterato di calchi dal francese in italiano, spesso consapevolmente adottati, nel

tentativo spasmodico di parlare e farsi capire.

Questo particolare momento aggregativo, permette di riflettere ancora una volta sulla

politica della presa in carico attuata dal Progetto Sociale. Nella dimensione gruppale, si è

potuto osservare un riassunto delle dinamiche cooperativistiche e multidisciplinari

impiegate dall’équipe. Il mediatore che ad un primo livello di analisi, si è occupato della

decodifica verbale e culturale dei messaggi del trattenuto desideroso di parlare e di riferirsi

ad aspetti anche concreti della vita al C.I.E., ha poi offerto lo spunto interpretativo

necessario al resto del gruppo. In quest’ottica sinergica, nascono gran parte dei progetti

individualizzati del Progetto Sociale: a partire dalle indicazioni dei mediatori, primi e

indiscussi facilitatori della comunicazione, l’équipe multidisciplinare, in casi difficili e/o

vulnerabili, sviluppa il progetto individualizzato di assistenza, che si rivela essere il

risultato naturale della politica della presa in carico adottata dal Progetto Sociale. L’équipe

si fa carico del trattenuto nella sua totalità e anche successivamente al periodo di

trattenimento presso il C.I.E., cercando un percorso di reinserimento nel territorio, con

l’aiuto e l’affiancamento al mondo dell’associazionismo e dei servizi alla persona presenti

sul territorio. Spesso, si tratta di percorsi che mirano alla protezione internazionale o alla

concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per art. 18, per motivi di

salute, o per motivi familiari. Purtroppo quelle condizioni di casualità che si è tentato di

descrivere precedentemente, rendono lo svolgersi e il realizzarsi del progetto un fatto

complicato, non è raro che il migrante oggetto del progetto individualizzato venga

rimpatriato senza preavviso. È il caso di uomo senegalese malato di cataratta e per questo

74Una condizione ricorrente, sottolineata da Losi (2000) è la forte attitudine alla verbosità dei migranti, senza ragioni precise, che a volte diventa una forma di difesa preventiva da possibile domande, altre volte è una strategia per alleviare la solitudine. Nel caso descritto in questa sede, l’attitudine alla verbosità appare chiaramente un metodo contro la solitudine.

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bisognoso di cure continue. Il signore in un momento di forte smarrimento, mi riferisce che

se l’avessero rimpatriato sarebbe diventato completamente cieco, perché in Senegal

un’operazione di rimozione della cataratta sarebbe costata troppo e lui non avrebbe potuto

permettersela, in Italia aveva invece un’operazione prenotata per due mesi dopo il giorno

dell’ingresso al C.I.E. Il fallimento del suo progetto migratorio, unito alla sofferenza delle

proprie condizioni fisiche ha fatto del signore senegalese un uomo arrabbiato e disperato, il

cui unico appiglio restava il rilascio delle mercede per un lavoro svolto mentre era detenuto

in carcere. Lo straniero trattenuto infatti, attraverso il recupero di queste somme, trova un

flebile conforto al forte senso di colpa per il fallimento di un progetto di vita.

3.4.1 Lingua e traduzione: riformulazione e registro. Compiti del mediatore e attività di

assistenza

Spesso i progetti individualizzati riguardano donne vittime di tratta, a scopo di sfruttamento

sessuale. Uno specifico Protocollo contro la tratta di persone, in particolare donne e

bambini definisce la tratta come fenomeno comprendente:

Il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, mediante l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, di frode, di inganno, di abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, o tramite il dare ed il ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Quest’ultimo deve comprendere, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui e altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o le prestazioni forzate, la schiavitù o le pratiche ad essa analoghe, la servitù e l’espianto di organi.75

Le donne vittime di tratta possono recarsi, se lo desiderano, nel giorno prestabilito, allo

sportello di SOS donna.

A questo proposito è importante chiarire la posizione del mediatore rispetto all’attività dello

sportello SOS donna. Infatti proprio grazie al peculiare rapporto di fiducia che la mediatrice

(si fa soprattutto riferimento alla mediatrice nigeriana Mary), piano a piano costruisce con

la trattenuta, quest’ultima comincia ad avvertire un’atmosfera protettiva e a pensare alla

possibilità, attraverso lo sportello dell’associazione SOS donna, di intraprendere un

75United Nations Convention against Transnational Organized Crime, in M. Rossilli: 2009, 54. Consultabile su: http://www.fupress.net/index.php/sdd/article/view/8439/7917

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percorso di affrancamento dalla condizione di schiavitù. Trovando nella mediatrice

un’àncora di salvezza, un sostegno nel difficile e doloroso percorso della denuncia contro

gli sfruttatori e della preparazione della lunga e dettagliata documentazione per la richiesta

della protezione internazionale e la richiesta del permesso di soggiorno (procedura art. 18;

cfr. storia di M. paragrafo successivo), la ragazza vittima di tratta (e nel caso delle donne

nigeriane giunte al C.I.E. si tratta di quasi la totalità di esse) può pensare di intraprendere

questo tortuoso e doloroso percorso. Si è dunque avuto modo di osservare come la presenza

della mediatrice durante i colloqui tra trattenuta e volontarie di SOS donna, vada ben al di

là dei compiti di facilitazione linguistica, ma si configuri come la risultante di una relazione

di fiducia, come l’esito positivo di un lavoro di aiuto e sostegno che la mediatrice porta

avanti a partire dal dialogo e dall’ascolto costanti.

Gli incontri con SOS donna sono estremamente privati, per questo è stato quasi

impossibile, presenziare allo svolgimento della seduta. In un solo caso, con la complicità

della ragazza nigeriana che richiedeva il colloquio presso SOS donna si è potuto partecipare

all’incontro. In questo colloquio, l’attività della mediatrice non è stata solo un’attività

traduttiva, si è trattato innanzitutto di un’opera vasta di riformulazione di quanto le

volontarie di SOS donna stavano affermando (in relazione ad alcuni aspetti particolari della

domanda di protezione internazionale), e di un’opera di semplificazione del registro (le

volontarie dell’associazione si esprimevano in un registro mediamente formale). L’attività

della mediatrice ha sicuramente tenuto conto della bassa scolarizzazione della ragazza, che

non avrebbe compreso un discorso formale in maniera chiara, e tra l’altro una questione

così delicata come l’andamento della sua domanda di protezione internazionale, richiedeva

un tono di rassicurazione e un registro piano, non arzigogolante. La mediatrice nigeriana ha

quindi scelto semplicità e franchezza. In questo caso l’ambiente tutto al femminile, ha

sicuramente giovato, soprattutto alla giovane nigeriana, che esprimeva le sue profonde

inquietudini derivate dalla paura degli sfruttatori fuori dal centro.

La tecnica della riformulazione, in questo colloquio largamente impiegata è effettivamente

la tecnica maggiormente impiegata dai mediatori al C.I.E., si fonda nulla necessità di

indirizzare il colloquio vero l’efficacia e il controllo del registro. Il contenuto di molti

colloqui si sposta su temi densamente culturospecifici, quali la burocrazia e la disciplina

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dell’immigrazione in Italia, e si utilizzano spesso termini settoriali del linguaggio giuridico,

che sarebbe impossibile tradurre in maniera equivalente. È invece indispensabile, da parte

del mediatore, ridimensionare il registro, renderlo più fluido e comprensibile ai migranti,

molto spesso non scolarizzati, e in uno stato psicofisico precario, dovuto al trattenimento e

alla paura per l’incolumità propria e della propria famiglia e fornire delucidazioni al

migrante. I mediatori si assicurano, approfittando di fatismi, che il contenuto del messaggio

sia stato chiaramente recepito, soprattutto nel caso di colloqui delicati. (cfr. colloqui con la

polizia). In questo senso l’attività di mediazione agisce a livello interpretativo,

concentrandosi sul senso, più che sulla parola.

Il mediatore si adopera per sciogliere dubbi legati a problematiche transculturali, ed

esplicita il linguaggio non verbale, inoltre è molto importante che possegga una buona

conoscenza del linguaggio settoriale con cui lavora. È stato importante nella partecipazione

alle attività di mediazione al C.I.E., acquisire familiarità con la terminologia richiesta dal

luogo per spiegare e delucidare i migranti trattenuti. Si tratta di una terminologia giuridica,

legata alle domande di protezione internazionale e alla legislazione di riferimento per la

richiesta di permessi di soggiorno speciali. In questi casi, non avviene nessun tipo di

traduzione della terminologia, è compito del mediatore spiegare al trattenuto cosa voglia

dire ad esempio “redazione di una memoria per la domanda di protezione internazionale”

oppure “foglio di via entro sette giorni”. Il mediatore ha dunque il compito di snellire,

anche linguisticamente l’ostilità della materia burocratica italiana in merito alla legislazione

sull’immigrazione e spiegare al trattenuto le procedure.

Il supporto ai trattenuti molto spesso si tramuta in assistenza vera e propria: i fax da inviare

per gli avvocati di fiducia, la richiesta di scrittura di sms o di consulti per la redazione di

memorie, la presenza fisica durante attività potenzialmente autolesive come quelle che

richiedono l’impiego di forbici e oggetti pericolosi, ad esempio le tinture per capelli. Il

mediatore è tenuto a presenziare a tali attività perché non si verifichino situazioni

pericolose.

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3.4.2 Tensioni e richieste al di là del ruolo del mediatore

Esercitando una funzione di ponte, il mediatore si presenta quindi come un’entità neutrale,

avulsa dalle diatribe che possono insorgere nel centro. Nonostante ciò, non è infrequente

che la rabbia dei trattenuti davanti allo spezzarsi di una speranza, si scateni proprio con i

mediatori. È il caso di un uomo albanese, che arrabbiato per il continuo rinvio

dell’audizione presso la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale,

un giorno mi ha chiesto (per via della mia competenza in italiano) in maniera insistente di

telefonare all’ufficio di competenza per segnalare la sua situazione. Ho anticipato che

sarebbe stato difficile soddisfare la sua richiesta, poiché avevo già sentito dire dai mediatori

che la Commissione non discute l’andamento delle pratiche per telefono. Ho quindi chiesto

conferma al mediatore tunisino, che a sua volta ha tentato di dissuaderlo, perché la

telefonata avrebbe sicuramente avuto esito negativo, rispetto alle sue richieste. L’uomo ha

insistito, la telefonata ha avuto luogo, con esito negativo. Dopo aver sbraitato a lungo, è

ritornato velocemente nella sua stanza e ha continuato ad essere arrabbiato e deluso dal

comportamento del mediatore, che comunque gli ha ricordato che è al di là del suo ruolo

garantire l’efficienza della macchina burocratica italiana. Di fatto, il mediatore al C.I.E.

deve affrontare continui conflitti, e come una sorta di saggio super partes deve anche

tentare di arginarli senza inserirsi eccessivamente nelle vicende. Molto spesso i conflitti

nascono dal disagio della condizione di trattenuto e sfociano in comportamenti auto o etero

lesivi. Nei casi di comportamento come simbolo del disagio psicologico, si ritiene

opportuno non cedere alla prove di forza che i trattenuti a volte tendono, e conservare una

buona dose di nervi saldi.

Situazioni conflittuali possono emergere a partire dalla gestione di alcuni colloqui. In

generale essi si profilano come momenti privati per i trattenuti, e per questo, come si è già

ricordato è assai improbabile che questi incontri vengano registrati. Il quantitativo di

informazioni personali, spesso considerevolmente delicate, unito alla paura e al dolore del

ricordo delle esperienze vissute prima del C.I.E., porta in alcuni casi, la persona trattenuta a

fare addirittura esplicita richiesta di non scrivere nella scheda anamnestica. Ad esempio

nella gestione di un colloquio pre-convalida insieme alla mediatrice Mary, si propone sin da

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subito una situazione molto delicata. Mary poneva alcune domande ad una donna nigeriana,

io riportavo il contenuto delle risposte sulla scheda anamnestica. Il colloquio in inglese,

come in tutti gli altri casi, prevedeva un avviso alla persona dei ruoli dell’intervistatrice e in

aggiunta una spiegazione del mio ruolo di volontaria. La donna trattenuta e non ancora

convalidata, arrivata da qualche ora nella struttura, risultava molto agitata, ha però

acconsentito. Ma non appena si è resa conto del fatto che io stessi comprendendo e

riportando in italiano il contenuto del colloquio (la situazione in realtà si prospettava assai

normale: come d’abitudine, e come mi aveva mostrato Mary, ho riportato i contenuti più

rilevanti della storia raccontata durante il colloquio), la donna non solo ha bloccato subito

la conversazione chiedendo di cancellare tutto ciò che era stato scritto sulla scheda, ma ha

anche pesantemente inveito contro di me e contro la mediatrice. In quel caso si è realizzato

quanto sarebbe stato utile, chiedere in maniera più esplicita alla signora trattenuta se avesse

gradito che quanto veniva detto venisse scritto e che quelle informazioni sarebbero servite a

evidenziare eventuali criticità che avrebbero potuto sollevare una questione di non

compatibilità con il regime detentivo (visto che non era ancora stata celebrata l’udienza di

convalida).76

Considerato ciò, nel colloquio immediatamente successivo, sulla scorta di questa

esperienza, Mary e io abbiamo ritenuto opportuno specificare che il contenuto delle

domande, poste durante il colloquio, sarebbe stato riportato per iscritto, solo con il

consenso della donna trattenuta e per le ragioni di cui sopra.

Vi sono stati diversi casi, in cui in prima persona (incoraggiata da Mary) ho ritenuto

opportuno segnalare alcune criticità relative alle persone trattenute, ai diversi servizi attivati

dal Progetto Sociale. Il mediatore o l’assistente sociale, possono infatti compilare un

modulo di invio in cui marcando la casella corrispondente al servizio al quale intendono

segnalare la persona trattenuta, riportano alcune righe di motivazione della richiesta, con

l’intenzione che il servizio in questione sia informato su un qualche particolare aspetto. Si

riporta il caso di una ragazza brasiliana: ho partecipato al colloquio preliminare con

76La spiegazione all’atteggiamento della signora, risiede nello spavento e l’ansia della signora stessa che non voleva verbalizzare nulla circa gli aspetti più difficili del suo passato, con la particolare criticità della madre anch’ella priva di permesso di soggiorno e costretta a scappare, quando la notte prima, la Polizia aveva sorpreso durante un controllo, la donna senza documenti.

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l’assistente sociale. Nell’assenza di un operatore che conoscesse il portoghese, unica lingua

parlata dalla ragazza, e in seguito ai fallimentari tentativi dell’assistente sociale di condurre

il colloquio in spagnolo, si è optato per l’italiano, che la ragazza diceva di comprendere un

po’, se le si fosse parlato lentamente. L’assistente sociale ha dunque spiegato alla ragazza le

sue possibilità in seguito ad un’eventuale convalida del trattenimento il giorno seguente.

In seguito ad alcuni comportamenti e ad alcune affermazioni (la ragazza confondeva

ripetutamente il nome della sorella con quello di un amica, al punto di non essere più sicura

di chi fosse sua sorella e chi la sua amica) e dopo aver prestato attenzione ad alcuni

fenomeni paralinguistici durante il colloquio (la ragazza bisbigliava dopo aver pronunciato

i nomi dei genitori, la cui tossicodipendenza aveva causato la rovina della famiglia, come la

ragazza stessa aveva confessato) e dopo aver confrontato queste mie opinioni con quelle

dell’assistente sociale, ho infatti compreso come la ragazza nascondesse ferite profonde

dentro di sé che potevano essere esplorate e approfondite grazie all’aiuto della psicologa

del centro. La ragazza presentava alcuni problemi, esplosi nei giorni successivi77, di identità

di genere (alla domanda dell’assistente sociale: “Ti occupi tu di inviare i soldi a casa, in

Brasile, per la tua famiglia e tua sorella?” la ragazza risponde: “Sì, sono io l’uomo di casa”,

la ragazza inoltre indossava ripetutamente biancheria maschile) e un fortissima mancanza

di punti di riferimento dovuta al disfacimento del suo nucleo familiare di origine a causa

della tossicodipendenza dei suoi genitori.

In un altro caso si è invece ritenuto opportuno segnalare una donna nigeriana all’assistente

sociale, in seguito ad un racconto molto sofferto delle battaglie legali contro il suo ex-

compagno italiano, per l’affidamento dei figli.

In questi tristi e sofferti episodi, occorre che il mediatore, operi un distacco emotivo per

proteggersi e proteggere il trattenuto da comportamenti poco professionali. È importante,

conservare l’attenzione sempre sulla storia, e non farsi trasportare invece da fattori emotivi,

cosa che sarebbe del tutto controproducente. Potrebbe comunque essere utile interrompere

le domande, durare i colloqui finalizzati alla scheda anamnestica, perché troppo dolorosi

77È importante per un mediatore fare caso a comportamenti anomali e alle richieste più o meno tacite delle persone trattenute: il mediatore è la figura che passa più tempo con il trattenuto, è quindi nelle sue possibilità fare presente all’assistente sociale o alla psicologa eventuali anomalie che rendono necessari interventi specifici di presa in carico.

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per il trattenuto, ma non sarebbe utile trasformare il colloquio in un dialogo amicale, anche

se a volte si sarebbe portati a farlo.

Alcune attività di mediazione risultano più complesse di altre, poiché comprendono

riferimenti alla condizione clinica del trattenuto. È la storia per esempio di R., una signora

ucraina, con un vissuto molto tragico, una vita di strada in totale abbandono. Il primo

colloquio, effettuato con l’assistente sociale, ha subito mostrato le difficoltà espressive e la

bipolarità della signora, che alternava un’esposizione vivace e ricca di espressività con

momenti di caduta e di indisposizione al dialogo, con peggioramento della qualità di

italiano parlato, dal punto di vista grammaticale e lessicale. L’intervento della mediatrice

moldava ha sicuramente reso più fluido il colloquio, ma non ha migliorato la

segmentazione di informazioni che la donna trattenuta ha dispensato nel corso della sua

permanenza presso il C.I.E. La presenza di un quantitativo considerevole di elementi

paralinguistici, come sorrisi e risate fragorose nel mezzo del racconto di episodi tragici, ha

fatto comprendere come l’interferenza dei problemi psichici della signora mal si conciliasse

con l’attività di supporto e aiuto tentata dall’assistente sociale. Si è quindi optato per una

richiesta di ascolto psicologico, che la donna ha prontamente accettato.

L’episodio di R. testimonia come la condivisione della stessa lingua, di un passato

migratorio difficile, non è necessariamente un beneficio per il trattenuto. Sicuramente, si

può affermare che all’interno del C.I.E., la nazionalità sia semmai un valore aggiunto in una

fase esclusivamente preliminare, di “agganciamento” della persona. Successivamente, il

trattenuto stesso demanda consulti all’operatore madrelingua (oltre ai mediatori stranieri, è

presente nel Progetto Sociale anche un operatore sociale di nazionalità italiana con

competenze antropologiche). Per questo non si può escludere che un mediatore di

nazionalità italiana, ma con competenze linguistiche adeguate possa svolgere efficacemente

l’attività di mediazione.

Un altro aspetto importante, quello della neutralità, può essere visto attraverso il fenomeno

delle denunce di donne vittime di tratta nei confronti dei propri sfruttatori. Le ragazze

vittime di tratta, secondo la legge italiana, infatti, possono sporgere denuncia contro i loro

sfruttatori, fornendo adeguati riferimenti e dettagli perché essi vengano identificati,

localizzati e arrestati, in cambio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari

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(procedura di art.18) In questi casi, la mediazione viene richiesta dal questore. Quando si

tratta di convocare le ragazze per formalizzare la denuncia in questura (interna al C.I.E.), la

mediatrice nigeriana, la più coinvolta in questo fenomeno perché a fare queste richieste

sono per lo più donne nigeriane, non accetta mai di andare a chiamare personalmente le

ragazze negli alloggi (come invece richiede inconsapevolmente l’ente gestore). La

mediatrice ha infatti riferito che così facendo, le ragazze potrebbero confondere il suo

ruolo, neutro, di facilitazione linguistica (limitatamente alla mediazione con la polizia) con

un ruolo di supporto emotivo o di incitamento, altre volte necessario, in altri contesti della

vita nel C.I.E.

Secondo quanto detto finora e secondo quanto è stato possibile osservare direttamente nei

mesi di volontariato, l’idea di mediazione sviluppata nel C.I.E. di Bologna, risulta molto

fluida, concentrata sul core message del colloquio, un intervento privo di fronzoli, e ricco

di spiegazioni aggiuntive che fa della mediazione un intervento molto più lungo rispetto ad

una sessione di interpretazione. Si è voluto indicare la mediazione che si sviluppa

all’interno del C.I.E., come una mediazione linguistico-culturale, poiché alla luce di quanto

detto sino ad ora, emerge chiaramente che da un lato, il fattore della facilitazione linguistica

influenza molto lo svilupparsi dell’attività: soprattutto nella fase di ingresso del trattenuto,

il mediatore si comporta da facilitatore linguistico. Emerge dall’altro lato, come si evince

nei vari interventi di mediazione ai quali si è partecipato, un’attitudine alla costruzione di

un rapporto di fiducia, e a esplicitare il sommerso culturale, rendendolo visibile e

comprensibile, aspetti che complessivamente fanno propendere per una configurazione del

mediatore nel C.I.E. come operatore sociale. Rispetto a quanto detto precedentemente, la

mediazione nel C.I.E. si delinea in modo assai peculiare, perché vede il mediatore

impegnato su più fronti contemporaneamente, le funzioni di facilitazione linguistica, di

“difesa”, di smussamento e risoluzione del conflitto (Favaro e Fumagalli: 2004, 37-38)

vengono inglobate entro questa unica figura, che agisce sul campo come un filtro dei

bisogni, interpretandoli e contestualizzandoli, ma soprattutto esplicitandoli alle figure

competenti dell’équipe multidisciplinare.

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3.5 MEDIAZIONE E CONFLITTI ETNICI: IL CASO DELLA NIGERIA

Considerata la stretta vicinanza al lavoro della mediatrice nigeriana Mary e l’alta

concentrazione di donne nigeriane nel C.I.E., con le quali è stato possibile avere contatti

ravvicinati in lingua inglese, si è scelto di concentrarsi sui temi della mediazione

linguistico-culturale in rapporto alla comunità nigeriana del C.I.E., e di approfondire le

problematicità connesse all’universo di provenienza di questa comunità e come si

ripercuotono sull’individuo e sulla gestione delle attività di mediazione.

Dai dati presi in esame, nelle pagine precedenti, si evince come la popolazione nigeriana

nel C.I.E. sia molto consistente e al contempo tristemente legata al fenomeno della tratta di

esseri umani. In questo paragrafo, si affronterà dunque il problema della prostituzione

nigeriana, una vera e propria piaga sociale in Nigeria come in Italia, le cui vittime popolano

i centri per migranti di tutto il Paese.

Come sostengono Taliani e Vacchiano (2006, 195), la prostituzione nigeriana in Italia è un

fenomeno recente dalle dimensioni vaste e di grande visibilità. Dalla fine degli anni ottanta

si calcola che siano passate per l’Italia circa 15.000 donne nigeriane, in gran parte

provenienti dallo stato Edo. La Nigeria è uno stato federale composto da 31 stati con

capitale Abuja. Il paese, che conta 120 milioni di abitanti consta di 426 gruppi etnici

differenti (fra i più noti Yoruba e Ibo). La lingua ufficiale è l’inglese anche se la

popolazione predilige nell’uso quotidiano i dialetti locali. Quanto alle religioni, l’Islam è

diffuso prevalentemente al nord, la religione cristiana protestante nelle regioni sud

occidentali, e la religione cristiana cattolica nelle regioni sud orientali. Riguardo alle

religioni tradizionali, anche se interessano solo il 10% della popolazione, continuano ad

essere praticate in parallelo rispetto alle forme di religiosità più diffuse.

La Nigeria è un Paese fortemente contraddittorio, come riportato da Carrisi (2011, 173), in

questo Paese multiculturale, oltre il 70% dei 120 milioni di nigeriani vive con meno di un

dollaro al giorno; nonostante il Paese sia il sesto produttore mondiale di greggio e il primo

in Africa, i proventi dell’estrazione del greggio non producono effetti benefici sulla

popolazione a causa di una sproporzionata distribuzione della ricchezza che rimane nelle

mani dei funzionari governativi. Alla povertà estrema della stragrande maggioranza, si

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unisce la condizione subalterna della donna: si assiste ad una femminilizzazione della

povertà e alla violazione dei diritti sociali ed economici della donna. I trafficanti fanno leva

proprio su questo nell’adescare nuova “merce umana.” (Ivi, 177)

Come riscontrato in Taliani e Vacchiano (2006, 195-197), il fenomeno della grande

emigrazione nigeriana si sviluppa in fasi a partire dalla grave crisi economica che interessa

il Paese negli anni ottanta; i primi flussi di donne (per lo più adulte) si sono diretti

soprattutto verso l’Italia. Si tratta dunque di donne spesso sposate e con figli che per

migliorare le condizioni di vita delle proprie famiglie, hanno avviato il commercio di

prodotti da e per l’Africa. Alcune però hanno colto le potenzialità del mercato italiano della

prostituzione e hanno iniziato ad attirare connazionali (si tratta delle prime madame) con

finte promesse di guadagni esorbitanti. Solo una minoranza di queste donne attirate in Italia

è veramente a conoscenza di ciò che le attende, costrette a risarcire i debiti di viaggio,

vengono avviate alla prostituzione per saldarli. Il tutto viene suggellato nel patto voodoo,

prima di partire. In caso di mancato rispetto del patto, le “forze soprannaturali” potrebbero

scatenare morte, distruzioni e in generale forti ritorsioni nei confronti della donna

contraente e della sua famiglia.78

Successivamente, nei primi anni novanta una seconda ondata di migranti dalla Nigeria si

dirige in Italia, in particolare verso Torino, che diventerà negli anni a venire, il centro delle

organizzazioni della tratta e della malavita nigeriana. Si tenga presente che questa seconda

ondata migratoria, ha interessato donne più giovani, tra i 20 e i 30 anni, di condizioni molto

modeste, attratte dai facili guadagni prospettati loro dagli organizzatori dei viaggi. In questa

fase si sono consolidati i meccanismi illegali di transito in Africa e nei Paesi europei.

In una terza fase dell’emigrazione nigeriana verso l’Italia, si osserva il triste inserimento di

ragazze ancora più giovani nel mercato della prostituzione. Queste ragazze, minorenni

78Comune a molte donne è il fortissimo legame con il culto di alcune divinità naturali, unitamente alla forte religiosità cristiana (molte donne nigeriane al centro indossavano vistosi rosari). In particolare si nota il legame con Mami Wata (the Queen of the Water), una divinità femminile donatrice di fertilità e ricchezza. Si tratta di una figura femminile metà donna e metà pesce ha tratti indo-europei e una carnagione bianca. La madre delle acque governa bellezza, ricchezza e amore. Attraverso un rituale di sacrificio, offre soldi e successo, ma se le promesse alla dea non vengono mantenute, allora si scatena la sua vendetta. (cfr. Taliani e Vacchiano: 2006, 110 e 207).

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senza prospettive nei loro villaggi natii, spesso vengono spinte al viaggio dalla loro stessa

famiglia che investe economicamente e psicologicamente nel viaggio.

Queste donne, sono obbligate a versare alla madame “un debito di viaggio” che si aggira

sempre intorno alle 40/50.000 euro oltre all’affitto dell’appartamento che condividono con

numerose connazionali, il cibo e il “joint”, il posto che occupano sul marciapiede. (Ibidem)

La sofferenza di queste donne si perpetra già a partire dal durissimo viaggio cui sono

costrette. Come riferisce Liberti (2011), immense carovane umane convogliano ad Agadez

(Niger), in pieno deserto del Sahara e spesso in condizioni climatiche molto precarie. Da

Agadez (Niger) partono alla volta della Libia. I racconti del viaggio sono intrisi di episodi

legati alla corruzione della polizia locale e di sofferenze fisiche. Gran parte delle donne

nigeriane trattenute al C.I.E. conferma, durante i colloqui, quanto anzidetto, raccontano

infatti, come le sofferenze fisiche patite durante la traversata del deserto e la drammaticità

delle condizioni cui sono costrette dagli accompagnatori del viaggio una volta giunti in

Libia, facciano svanire presto l’entusiasmo della partenza verso una vita migliore nella

“fortezza Europa”. Arrivate in Libia, queste donne iniziano a “pagare” il debito del viaggio

prostituendosi, vivendo in condizioni di prostrazione psicologica e fisica che le porta a

giungere in Italia, già distrutte e psicologicamente pressoché annientate.

Come si legge in Liberti (2011, 32), inoltre, è assai frequente che gli sfortunati exodants,

una volta giunti in Libia, vengano rimpatriati79 e vivano tutto il fallimento e la sconfitta, del

ritorno forzato a casa, che si condensa in queste parole: “Come faccio a tornare dalla mia

famiglia a mani vuote?” (Ivi, 33).

La ricostruzione delle tappe del viaggio e di come esso si svolge, è un elemento doloroso

per chi l’ha vissuto, ma diventa un valido supporto per i reparti della Polizia che si

occupano di sventare le rotte della tratta. Ecco che nella stesura delle memorie per la

richiesta d’asilo politico, e nella formulazione delle denunce contro i propri sfruttatori, oltre

79Nell’agosto del 2008, l’ex premier Berlusconi e Gheddafi hanno siglato un trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione”. Secondo tale accordo, a fronte degli indennizzi per cinque miliardi di dollari che l’Italia avrebbe stanziato per “voltare pagina” rispetto al periodo dell’occupazione coloniale, la Libia avrebbe dovuto collaborare con Roma nel contrasto all’immigrazione clandestina e l’attuazione dell’accordo già firmato nel dicembre 2007 per il pattugliamento congiunto delle coste libiche dalle quali salpano fiumi di migranti verso Lampedusa. (cfr. Corriere della Sera [online], 30 agosto 2008, “Berlusconi da Gheddafi, siglato l'accordo: Uniti sull'immigrazione”)

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che nei quesiti previsti dalla scheda anamnestica del Progetto Sociale, le ragazze vengono

invitate a ricostruire nel dettaglio le tappe del viaggio.

Tuttavia, è da considerare la difficoltà con cui queste ragazze arrivano alla decisione di

denunciare gli sfruttatori e le madame. La forza della sudditanza psicologica e fisica di

queste donne nei confronti dei malfattori è da scriversi nella forza esercitata dall’apparato

magico, spirituale e religioso nigeriani, di cui si è accennato sopra. Le pratiche di

stregoneria prima del viaggio, diventano le procedure operative attraverso le quali le

madame esercitano il controllo sulle donne sfruttate. Capelli, unghie, peli, sangue

mestruale, indumenti intimi vengono raccolti e conservati dalla madame fino all’estinzione

del debito, come:

oggetti attivi attraverso i quali si può agire sul corpo della donna inviandole dolore, malattia o morte. L’azione coercitiva sul corpo, che si struttura per metonimia attraverso il possesso delle sue parti, è spesso affiancata da un’operazione che utilizza evocativamente le metafore della morte e della consumazione attraverso l’uccisione di un animale (solitamente un pollo), il suo dissanguamento e il consumo cerimoniale delle sue interiora. (Taliani e Vacchiano: 2006, 198)

Questi aspetti rendono la schiavitù delle donne nigeriane tra le più feroci. Alla base del

patto magico-religioso vi è la figura del babalawo o native doctor. Si tratta di un sacerdote

voodoo, temuto da tutti per i suoi grandi poteri. Considerato come un intermediario con le

divinità, diventa il protagonista dei riti che subiscono le nigeriane in procinto di partire per

l’Italia. Il rito diventa il simbolo del sodalizio, fortissimo e indissolubile, con

l’organizzazione criminale. (Carrisi: 2011, 90)

Come suggerisce Carrisi (Ivi, 186) il termine “voodoo” deriva dalla lingua fon, parlata nel

sud del Benin e significa “spirito protettore”. Dal 1992 tale pratica è stata riconosciuta

come una delle religioni ufficiali del Benin (esso è professato da circa 60 milioni di persone

nel mondo). Si consideri che l’uso che attualmente ne viene fatto, per assoggettare le

ragazze nigeriane avviate alla prostituzione, assume un significato senza riferimenti alla

natura religiosa del culto, ma, al contrario, ha assunto i toni di un rituale magico-

stregonesco, a cui è molto difficile smettere di credere. (Ivi, 187)

Il potente impatto psicologico del rito, e la pericolosità della posta in gioco, fanno sì che la

ragazza si senta legata alla sua madame, e raramente tenti di fuggire.

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La donna che tradisce l’accordo, uscendo dal circuito della prostituzione prima del pagamento del riscatto, lo fa sfidando la consapevolezza delle conseguenze che ne potrebbero derivare, sul piano della salute propria o di quella dei familiari o su quello della fortuna e del successo. È una sfida che, almeno parzialmente, si compie in buona parte in solitudine: è significativa l’importanza dell’appoggio sociale e morale di operatori o amici [i clienti abituali o i “fidanzati” della strada], ma di fronte alla paura della sanzione mistica le risorse da mobilitare sono innanzitutto di natura spirituale. (Taliani e Vacchiano: 2006, 201-202)

Quando la donna, per motivi svariati (la fuga grazie all’aiuto di un cliente-amico, per

esempio), abbandona il marciapiede, è assai comune, la somatizzazione di un pesante senso

di angoscia e paura; attraverso il corpo queste donne testimoniano l’esistenza di un dolore

assillante. Infatti:

Il sintomo è allora pregno di senso poiché un certo messaggio è già stato scritto in esso dal soggetto, e non in quanto segno universalmente dato di una patologia […] il sintomo può essere letto allora come tentativo di articolare un vero e proprio linguaggio della sofferenza, la cui rilevanza investe il complesso delle vicissitudini esistenziali del singolo all’interno del mondo relazionale che abita: è un lessico che può essere utilizzato per comunicare il proprio stato psicofisico attraverso una sorta di narrazione corporea dalle formule comuni e, almeno parzialmente condivise. (Ivi, 224)

Non è corretto guardare alle particolari manifestazioni cliniche di donne che in passato

hanno contratto un patto voodoo, come significati specifici di una dimensione culturale.

Dire: “è voodoo”, non rende comunque sufficiente l’analisi (Taliani e Vacchiano: 2006,

109), perché poco rivela a proposito della persona, della biografia e della società a cui

appartiene: “Il rischio è qui quello di cadere nell’illusione di comprendere, attraverso un

tratto o un riferimento che percepiamo come culturale, allusivo di una differenza che

sarebbe sotto gli occhi di tutti…”(Ibidem)

A proposito dell’embodiment della sofferenza nei migranti, il Progetto Sociale si è

impegnato in una ricerca, tutt’ora in corso, denominata “La salute delle donne immigrate

che vivono o hanno vissuto episodi di maltrattamento o violenza: indagine

quali/quantitativa presso il C.I.E. di Bologna”, la ricerca ha lo scopo di conoscere le

condizioni di vita e lo stato di salute dei migranti, in particolare riferendosi ai sintomi

sentinella riguardo alla violenza di genere. La ricerca prevede l’approfondimento della

realtà psicologica e di salute delle donne trattenute, nell’intento di individuare una possibile

correlazione tra “sintomi sentinella” ed eventuali trascorsi episodi di violenza, al fine di

garantire alle trattenute un sostegno ed un’assistenza più mirati. La ricerca, sviluppandosi

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su un piano quantitativo, legato alla raccolta delle storie significative, si è poi affinata dal

punto di vista qualitativo, con uno studio caso per caso sulla correlazione tra salute e

sintomi con vissuti di violenze e maltrattamenti. Anche in questa ricerca, ritorna il discorso

sulla centralità del mediatore all’interno dell’équipe del Progetto Sociale: proprio attraverso

i mediatori, l’équipe si è impegnata a rintracciare i cosiddetti sintomi sentinella, per poi

operare una complessa analisi della salute psicofisica dei migranti. Si ha in questo modo, un

ulteriore rimando a quel concetto di mediazione come attività olistica di cui si è parlato in

precedenza, e su cui si voluto insistere nel corso della trattazione.

Tutti questi fattori, gravitanti intorno alla ferocia della schiavitù, sono alla base dei dati

oggettivi, raccolti dalla regione Emilia-Romagna80, a proposito della forte impennata di

richieste d’asilo da parte di persone di nazionalità nigeriana. Secondo i dati regionali sono

proprio i nigeriani la maggiore nazionalità presente in regione, e secondo i dati diffusi dal

progetto SPRAR81 la Nigeria è il principale paese di provenienza dei richiedenti asilo in

Italia, con più di 5000 domande.82

Queste nuove forme di schiavitù come sottolinea Carrisi (2011, 14) “rispetto alla schiavitù

cosiddetta storica, presentano caratteristiche radicalmente differenti: principalmente la

schiavitù di oggi è illegale, mentre un tempo era lecita e tollerata.” I gruppi criminali, come

i negrieri dell’antichità, approfittano delle condizioni di estrema necessità in cui versano

queste giovani donne, sempre più spesso nemmeno maggiorenni.83

A questo punto converrebbe interrogarsi sulle motivazioni di questo massiccio sfruttamento

e traffico di esseri umani, che a livello globale ha assunto proporzioni drammatiche84.

80Si fa riferimento ai dati raccolti nel report di monitoraggio della regione Emilia-Romagna (“Emilia-Romagna terra d’asilo, Richiedenti e titolari di protezione internazionale in Emilia-Romagna. Monitoraggio, giugno 2012”. Consultabile su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/news/Monitoraggio2012.pdf ) 81I dati sono consultabili nel già citato rapporto CIES, 2010. 82I dati del rapporto CIES fanno riferimento ai dati dell’UNHCR, Asylum Levels and Trends in Industrialized Country, 2008. Dati sostanzialmente confermati dal rapporto della prima metà del 2011 (cfr. UNHCR, Asylum Levels and Trends in Industrialized Country, 2011, p. 30. Consultabile su: http://www.unhcr.it/news/dir/91/view/1081/domande-di-asilo-nei-paesi-industrializzati-primo-semestre-2011-108100.html ) 83È la storia di F. al C.I.E. da cinque mesi, originaria di Benin City a causa di condizioni di vita particolarmente avverse, decide di viaggiare alla volta dell’Italia all’età di 17 anni, con qualche spicciolo in tasca e la promessa di un lavoro da parrucchiera. 84Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), sono 12 milioni e 300.000 le persone sottoposte a sfruttamento lavorativo e sessuale. L’80% delle vittime sono donne e bambine, le più vulnerabili, in più del 50% dei casi minorenni. (I dati sono stati estrapolati da Carrisi: 2011, 10)

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Come sottolinea il Sostituto Procuratore di Teramo, Mancini, in un articolo apparso il

16/02/2006 sul sito di informazione giuridica “altalex”85, tra i push factors (fattori di

espulsione) che spingono sempre più consistenti masse di persone ad abbandonare il

proprio Paese, è da collocarsi la situazione economica di povertà, in particolare nei paesi

del Terzo Mondo le condizioni di vita sono bassissime. Ciò, unitamente al boom

demografico, ha fatto crescere senza controllo il mercato dei potenziali schiavi. I pull

factors (fattori di attrazione) risultano essere invece l’assistenza sociale, sistemi di governo

democratici, stabilità di vita che i paesi occidentali sembrano garantire.

Inoltre, come afferma Rossilli:

nei Paesi di destinazione, al fattore di attrazione costituito dalla domanda di lavoro e servizi sessuali, si aggiungono gli ostacoli dell’emigrazione legale, in particolare nell’Europa di Schengen. Un ulteriore fattore risiede, infine, negli enormi guadagni che ne provengono per le reti di criminalità, dal momento che la tratta di persone è meno rischiosa del traffico di armi e droga e non richiede grandi investimenti, essendo la merce umana utilizzabile molte volte e facilmente sostituibile. (Rossilli in Storia delle Donne 5/2009, 59)

Mancini (cfr. articolo precedentemente citato) inoltre chiarifica la complessità della

struttura organizzativa dei gruppi criminali: si occupano di trafficare queste donne sono

capillarmente diffuse in Italia a diversi livelli con:

organizzazioni tecniche al primo livello: pianificano e gestiscono lo spostamento dai

Paesi d’origine ai paesi di destinazione;

gruppi operanti in zone di confine;

organizzazioni nelle aree di transito;

passeurs (o smugglers in inglese) che conducono i migranti lungo percorsi difficili

per chi non è pratico del posto.

La catena dello sfruttamento delle nuove schiave, riferisce Carrisi (2011, 218), non si

interrompe nemmeno quando le ragazze vengono portate nei C.I.E.. Vengono infatti

controllate attraverso cellulari, le donne già trattenute, o con uomini che le prendono in

consegna direttamente all’uscita dai Centri affidandole alle madame.86

85L’articolo (“Traffico di esseri umani e tratta di persone: le azioni di contrasto integrate”) è consultabile su: http://www.altalex.com/index.php?idnot=4217 86Cfr. Il dossier della Cooperativa Sociale “BE FREE”, circa i dati raccolti da alcune volontarie all’interno del C.I.E. di Ponte Galeria, in bibliografia.

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Considerate queste tragiche condizioni di vita precedenti e contemporanee alla migrazione,

che è stato opportuno tenere bene in mente nella gestione del dialogo con le donne

nigeriane, si farà ora riferimento ad alcuni casi pratici di gestione dell’attività di mediazione

all’interno del C.I.E. La condizione di detenzione, la paura del mondo esterno e la necessità

di essere protette, sfocia in liti furiose tra le donne stesse, a partire da diversità etniche o

pretesti futili dati dal nervosismo e dai ripetuti digiuni di protesta. Si consideri che molte

situazioni conflittuali prendono avvio a causa del forte temperamento delle donne nigeriane

e nonostante siano, in moltissimi casi, poco più che bambine, possiedono gli sguardi di chi

ha vissuto tutte le atrocità che l’uomo può creare. Per questi motivi, anche futili cose, come

i prodotti per la cosmesi, che parenti o fidanzati portano durante le visite, e le sigarette da

acquistare allo spaccio (organizzato ogni giorno dopo il pranzo dall’ente gestore, ove con la

quota giornaliera assegnata ad ogni trattenuto - 2,50 euro - a mo’ di argent de poche, è

possibile acquistare generi alimentari o sigarette), diventano, per le donne, un palliativo

della sofferenza, un flebile sfogo per supplire le mancanze che una vita normale e libera

può dare. Privarle di questi palliativi, equivarrebbe a distruggere gli ultimi rimasugli di

libero arbitrio in loro possesso.

Tenendo conto di quanto detto fino ad ora, vorrei riferire alcuni episodi che sembrano

particolarmente pregnanti per la riflessione sull’atipicità della mediazione

linguistico-culturale in una struttura come il C.I.E. Il caso di un colloquio con una ragazza

nigeriana (F.), e la sua gestione in assenza della mediatrice nigeriana, si inserisce

pienamene in questo tipo di riflessione. Avevo già avuto modo di conoscere F., una ragazza

molto impulsiva e anche un po’ aggressiva. Un giorno mi chiede di poter parlare con Mary

e quando le rispondo che Mary era assente, la ragazza si rivolge a me per esprimere la sua

richiesta: mi chiede che le venisse consegnata assolutamente la sua crema e tutto il

contenuto della busta che il suo fidanzato le aveva portato poco prima e che gli operatori

dell’ente gestore, a suo parere, non le volevano consegnare. In questo caso, più che una

richiesta, la ragazza ha voluto rivendicare un diritto, ricevere i suoi prodotti per la cosmesi.

In una situazione normale la richiesta della ragazza potrebbe sembrare banale, ma

all’interno di una struttura come il C.I.E., per tutti quei fattori legati alla negazione della

libertà personale (descritti nel secondo paragrafo del presente capitolo) acquisisce un valore

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simbolico importante. La richiesta, con tono piuttosto aggressivo, viene formulata in

italiano, la ragazza infatti non aveva chiaro il mio ruolo all’interno del centro e soprattutto

credeva che non comprendessi la lingua inglese. Proprio per questo, le ho risposto in

inglese e le ho spiegato di essere una volontaria e che se aveva voglia, in assenza di Mary

poteva raccontarmi l’accaduto e spiegarmi il suo punto di vista. In seguito a questa mia

risposta, la ragazza si è calmata, ma ha ripreso con toni secchi e perentori: “I want you to

go catch my cream, right now!”. Ho quindi tentato di spiegarle che purtroppo non c’era

nessuna irregolarità, la sua crema, come già avevo sentito dire dai mediatori in altre

occasioni, e altri prodotti liquidi non possono entrare negli alloggi perché potrebbero

costituire elementi pericolosi e, nella fattispecie, potrebbero essere ingeriti.

Alimenterebbero dunque il pericolo di atti di autolesionismo molto frequentemente

commessi tra i trattenuti. L’operatore dell’ente gestore, che la ragazza mi indica essere il

responsabile del mancato recapito della crema, conferma la mia ipotesi. Tuttavia,

considerato che la ragazza dava in escandescenza, chiedo all’operatore se fosse stato

possibile, in sua presenza, visionare i prodotti. L’operatore acconsente. Si ottiene che la

ragazza esamini i prodotti sotto la supervisione dell’operatore in ufficio colloqui. In

seguito, l’operatore insiste sulla quantità eccessiva di prodotti. Spiego quindi il problema

alla ragazza, con una traduzione simultanea. Inoltre cerco di verbalizzare gli aspetti

paralinguistici dell’inquietudine della ragazza, da un lato, e della necessità di rispetto del

regolamento del centro, dall’altro. Mi rendo conto che nonostante gli sforzi, le due

posizioni continuano ad essere intransigenti. In questa particolare condizione di non

negoziabilità delle posizioni, e nel pericolo della degenerazione della situazione (per

esempio, una crisi isterica della ragazza, tra l’altro nota al centro per le sue reazioni

spropositate), ho ritenuto necessario intervenire. Ho quindi chiesto all’operatore se fosse

stato possibile versare poco a poco, e sotto la supervisione di un mediatore (per tutta la

durata del processo87), in contenitori più piccoli il contenuto dei grandi barattoli di unguenti

e prodotti per la cosmesi. L’episodio si conclude con la mia spiegazione alla ragazza della

mia proposta e la sua approvazione da parte dell’operatore dell’ente gestore.

87Del resto come si è già accennato, tutte le operazioni “pericolose” come l’uso delle forbici, vengono svolte dal trattenuto sotto la supervisione del mediatore (tinture per capelli comprese!).

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In questo episodio, si può osservare come l’ascolto e l’imparzialità nei confronti delle parti

coinvolte nel “conflitto” siano state le chiavi alla risoluzione positiva dell’episodio. E allo

stesso tempo, come l’inserimento di un terzo nello scambio comunicativo, si sia configurato

non solo come intervento di facilitazione linguistica, ma soprattutto come un intervento che

con una funzione di ponte potesse “avvicinare” le posizioni.

Un altro momento che mi sembra particolarmente interessante, dal punto di vista delle

peculiarità della mediazione linguistico-culturale al C.I.E., si è sviluppato attorno

all’osservazione del comportamento della mediatrice nigeriana in una situazione piuttosto

delicata, e potenzialmente esplosiva: riguarda infatti alcuni difficili giorni, in cui i trattenuti

di via Mattei avevano, per protesta, deciso di portare avanti uno sciopero della fame, per via

della qualità troppo scadente del cibo. Il digiuno prolungato insieme ai “consueti” problemi

del contesto, hanno reso la situazione di un giorno di fine maggio, particolarmente

incandescente. In questo caso, la mediatrice nigeriana ha svolto un dialogo approfondito

con le donne nigeriane (pare che l’iniziativa dello sciopero della fame fosse partita da loro).

In questo maxi colloquio, la mediatrice ha interrogato le donne sui problemi

dell’alimentazione e del servizio mensa. Infatti, come mi ha poi detto, Mary ha ritenuto di

primaria importanza comprendere la situazione dal punto di vista degli attori principali (le

donne nigeriane che avevano iniziato lo sciopero) piuttosto che intervenire per recapitare i

messaggi offensivi delle trattenute all’ente gestore. Solo in seguito al confronto con le

trattenute e la comprensione dei bisogni e della condizione reale, la mediatrice ha riferito

all’ente gestore la situazione dal punto di vista delle trattenute, facendosi tramite con l’ente

gestore, nell’esporre le richieste delle donne a proposito della necessità di lavorare ad una

soluzione migliorativa della qualità del cibo.

Mary in questo episodio non ha semplicemente ottenuto che la situazione rientrasse e che il

caos e le urla venissero rimpiazzate da un dialogo civile. Non ha semplicemente funto da

“pacificatrice” come in un qualsiasi conflitto. Mary ha assicurato alle trattenute il diritto

all’ascolto di un bisogno, lo ha accolto e ha fatto in modo che venisse rispettato e ascoltato

dall’ente gestore.

In un’altra occasione, e in assenza della mediatrice nigeriana, si è sviluppata un’altra

situazione problematica all’interno degli alloggi femminili, dai quali improvvisamente

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provenivano urla. Gli operatori dell’ente gestore, e la polizia scelgono di temporeggiare

l’intervento, perché si ipotizzava inizialmente una lite tra trattenute per la quale niente

avrebbero potuto fare. Tuttavia, mi accorgo che la più giovane delle trattenute, F. chiede

insistentemente di poter vedere il dottore, presenta numerosi graffi sul volto ed è in stato di

forte agitazione. Trovandomi nei pressi dell’infermeria, chiedo a F. cosa fosse successo,

non risponde e se la prende con un’anziana trattenuta ucraina “colpevole” di averle chiesto

di non urlare più così tanto. Per ridimensionare la situazione, chiedo alla donna ucraina di

non dare retta a F. Si sente poi una nuova serie di urla. Un poliziotto e un operatore della

Misericordia, decidono dunque di intervenire. Entro anche io, la situazione era di questo

tipo: due ragazze nigeriane, la giovanissima F. e J., più grande, litigano violentemente e si

picchiano, circondate dalle altre trattenute che tentano di dividerle. Con l’intervento del

poliziotto gli animi sembrano placarsi un po’, e per comprendere cosa sta veramente

accadendo, chiedo informazioni a H. con la quale ho instaurato un rapporto maggiore di

fiducia. H. afferma: “Everything is normal, J. is crazy and want to fight all costs”.

Effettivamente sono a conoscenza della forte irascibilità di J. che non esita a venire alle

mani con le altre trattenute, sue connazionali, anche per futili motivi. Tento di calmare la

più piccola, che mi sembrava più ragionevole; a questo punto il poliziotto e l’operatore mi

chiedono di tradurre per loro il contenuto dei dialoghi tra le ragazze, per comprendere il

problema sopraggiunto. Tuttavia, a causa dell’uso di espressioni fortemente dialettali e del

grado di esagitazione degli animi, lo scambio comunicativo è quasi incomprensibile.

Spiego quindi solo grosso modo la situazione, che gravitava attorno ad alcuni insulti che J.

aveva rivolto a F. In una fase successiva, ho scoperto che all’origine del litigio vi erano stati

insulti a proposito del patto voodoo che la ragazza nigeriana più giovane aveva rivelato di

aver stretto, prima di arrivare in Italia, ad alcune compagne. Successivamente vengo a

conoscenza che tra le due donne intercorreva comunque una situazione di conflittualità

pregressa, perché appartenenti a due gruppi etnici nigeriani differenti.

Anche in questo caso, benché l’attività del mediatore dovesse partire dal compito della

facilitazione linguistica, doveva comunque comprendere l’ascolto delle istanze delle

ragazze. Il mediatore è dunque neutrale nel senso che non potrebbe mai prendere posizioni

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e parti di nessuno, ma a partire da situazioni di conflitto interviene perché vengano risolte,

assicurando i diritti di espressione dell’identità e dei bisogni del trattenuto.

Al rientro di Mary, dopo una settimana di assenza, mi sono confrontata con lei circa gli

avvenimenti più importanti accaduti, in particolare le ho riferito della lite di cui sopra. La

mediatrice ha voluto quindi convocare l’intera comunità nigeriana e discutere insieme dei

fatti, chiedendo ad ognuna di esprimersi a riguardo. La mediatrice è stata molto attenta al

fine che ognuno esprimesse la sua opinione e che tutte le donne fornissero il proprio

apporto alla questione, perché fosse risolta come un fatto sociale interno alla comunità,

chiarendo come le divergenze etniche e religiose, non dovessero più influire così

bruscamente all’interno della struttura, e come fosse più opportuno condividere la

sofferenza del trattenimento in un altro modo, per esempio attraverso il rispetto e l’aiuto

reciproci. Ancora una volta si è affermata la neutralità della mediatrice, che ha esordito nel

colloquio affermando di non voler difendere nessuno, ma di voler conoscere la realtà dei

fatti e i motivi dell’accaduto. Nel corso di tutto il colloquio ha evitato che il ricordo

dell’avvenimento potesse scatenare nuovamente una lite e ha ridimensionato i fatti,

contestualizzandoli alla vita nella struttura.

Un ultimo episodio che si inserisce in questa trattazione di momenti chiave per la

riflessione sulle peculiarità della mediazione linguistico-culturale nel C.I.E. riguarda il

difficile compito del mediatore, che molto spesso è posto davanti alla necessità di

comunicare al trattenuto notizie spiacevoli, come nel caso delle risposte negative della

Commissione territoriale, rispetto alla richiesta di protezione internazionale. In un giorno di

assenza di Mary, ho consegnato un plico a M., con la quale fortunatamente avevo già stretto

un rapporto umano cordiale e sulla quale avevo già accumulato sufficienti informazioni

riguardo la sua storia personale che potessero aiutarmi ad interagire con lei, a partire da

alcune conversazioni che la donna spontaneamente aveva voluto avviare con me. La donna,

analfabeta, mi chiede di cosa si trattasse. Le dico che per scoprirlo avrei dovuto aprire il

plico, mi autorizza quindi ad aprirlo. Leggo subito che si trattava dell’esito negativo della

richiesta di protezione internazionale e penso a come riferirlo. Nelle motivazioni si leggeva

infatti, in maniera sufficientemente chiara, che per la Commissione Territoriale quanto

affermato da M. nel corso del colloquio, era troppo contraddittorio. Con calma le ho

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spiegato che la Commissione aveva giudicato non sufficiente la documentazione fornita, e

che il racconto presentava delle incongruenze per cui non era stato possibile accertare la

veridicità delle informazioni. Vista la reazione, prevedibile, della donna, ho poi cercato di

rassicurarla. La ragazza mi ha anche chiesto di dialogare in italiano, per rendere la

conversazione non decifrabile alle compagne. Le ho spiegato quali fossero stati gli errori,

secondo la Commissione, parlando in italiano e molto lentamente.88 Le ho fatto presente

che parlare con la psicologa l’avrebbe potuta aiutare a elaborare il difficile momento e le

conseguenze derivanti da questa risposta rispetto al proprio destino oltre il C.I.E.

In questo caso, e in altri analoghi che implicano la gestione di situazioni dolorose legate a

notizie che così violentemente si ripercuotono sulla vita del trattenuto, è quanto mai

necessario che il mediatore sviluppi strategie di distacco emotivo per conservare un

atteggiamento composto e professionale.

Questi episodi appena esposti testimoniano quanto l’attività di mediazione presso il C.I.E.,

sia oltremodo un’attività di assistenza emergenziale, che deve fronteggiare scontri

culturospecifici, e generali situazioni di gestione del conflitto, oltre che forti emozioni.

3.6 RIFLESSIONI SULLA LINGUA, CHIAVE D’ACCESSO AL DISAGIO DEI

TRATTENUTI

È evidente come il mediatore, sulla base della condivisione di un codice linguistico, sia il

punto di contatto, tra quelli della rete d’aiuto del Progetto Sociale, più immediato con i

88M. come la maggior parte delle donne nigeriane trattenute al C.I.E., è vittima di tratta: è possibile per queste donne ottenere un “permesso di soggiorno per le vittime della tratta – Art. 18 Dlgs. 286/1998”. L’art. 18 può essere considerato come una tra le norme più avanzate in Europa sulla tutela delle vittime di sfruttamento; prevede la partecipazione delle richiedenti ad un programma di assistenza e integrazione sociale. Al capo III del T.U. “Disposizioni di carattere umanitario” si legge: 1.Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all'articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un'associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell'organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.

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trattenuti, ed è altrettanto evidente come questo fatto faccia del mediatore la figura chiave

del Progetto Sociale. Tuttavia, non è sempre scontato per un mediatore entrare in contatto

con i trattenuti. Spesso la provenienza da aree linguistiche molto particolari, e ristrette

rende l’incontro con il mediatore della stessa nazionalità molto arduo. È il caso, ad

esempio, degli arabofoni (cfr. intervista con Amina, par. 3.3). Inoltre, l’utilizzo di una

lingua franca, l’inglese standard ad esempio, ha sovente costituito nei casi specifici

affrontati, un ostacolo alla comunicazione reale. In generale, e molto spesso si è avuto a che

fare con persone trattenute scarsamente scolarizzate, con evidenti problemi di

comprensione della lingua standard, e che si sentivano più a loro agio nei loro dialetti, cosa

che, in un contesto globale di negazione della libertà personale, assume il significato

dell’esercizio di una libertà apparente.89

Effettivamente, l’utilizzo dell’inglese standard e di una lingua standard in generale,

equivale ad utilizzare una varietà di prestigio; una varietà standard è parlata da una

minoranza di persone in seno ad una società, e si tratta di persone che occupano una

posizione di potere. Come afferma Milroy: “Queste varietà acquisiscono prestigio quando i

loro parlanti hanno un alto prestigio.” (Milroy in Jenkins: 2009, 33)

L’utilizzo dell’inglese standard come forma di agganciamento iniziale con la popolazione

nigeriana del C.I.E. ha sortito risultati ambigui e talvolta fallimentari per quanto riguarda la

comprensione reciproca. Ma in alcuni casi, come quello di H. (che a differenza di altre

trattenute nigeriane risultava scolarizzata e quindi maggiormente in grado di interagire in

inglese standard), la possibilità di condurre un dialogo in inglese ha veramente consentito di

instaurare un rapporto di fiducia e rispetto reciproci, oltre che a costituire un’occasione di

approfondimento della storia della ragazza, la lingua insomma si è fatta chiave di accesso

ad una storia, un racconto e un universo lontano, e doloroso.

Per questo, soprattutto durante i primi giorni di volontariato, è stato molto importante

avvicinare le ragazze nigeriane attraverso la figura della mediatrice nigeriana, che potesse

garantire la mia buona fede rispetto alle trattenute. Attraverso la fiducia, già accordata alla

mediatrice, si è lavorato al riconoscimento della mia presenza al C.I.E. e col passare del

89Si veda ad esempio il caso delle nigeriane.

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tempo le donne hanno compreso che il mio utilizzo dell’inglese standard rispondeva ad

un’esigenza di praticità e non di autorità.

Inoltre, al C.I.E. l’inglese viene in generale utilizzato come lingua franca in assenza di

mediatori della medesima lingua, cosa che spesso giova a chi non conoscendo le lingue

principali, o lingue di lavoro dell’Unione Europea (inglese, francese, italiano, tedesco,

spagnolo) non comprende, in sede di convalida del trattenimento, le parole del Giudice di

Pace, il quale si trova dunque obbligato a procedere con il rilascio dell’individuo. È una

condizione che accomuna spesso i cinesi. Da qualche mese il C.I.E. di via Mattei risulta

sprovvisto di un mediatore cinese, e il dialogo con la popolazione cinese del centro è

diventato quasi impossibile. La situazione è particolarmente spiacevole, perché un’intera

comunità perde il contatto con l’istituzione e con i servizi e si chiude inesorabilmente. La

comunità dei mediatori ha deciso, per ovviare a questa situazione, di sfruttare le capacità

linguistiche in italiano dei trattenuti cinesi, che seppur minime, possono garantire

l’interfaccia con l’équipe di lavoro. Oppure a volte, in caso di donne cinesi totalmente

incapaci di comunicare in italiano, si sceglie di impiegare altre trattenute della medesima

nazionalità, per avere un minimo di conversazione. In genere le donne cinesi impiegate

come “interpreti” non hanno comunque una competenza d’italiano in grado di rendere il

colloquio fluido e totalmente comprensibile. Di norma i dialoghi si concentrano su poche

parole chiave, attorno alle quali il mediatore che conduce il colloquio, sviluppa un discorso

più articolato, verificando se ha compreso il messaggio del trattenuto e del suo interprete

improvvisato.

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CONCLUSIONI

Considerato lo scenario multiculturale delle società contemporanee, gli incontri

transculturali si sono moltiplicati e problematizzati. Tale assetto multiculturale impone un

riferimento all’Alterità e al rapporto che il singolo individuo costruisce con essa e un

riferimento alla costruzione di strumenti per rapportarsi all’Altro in maniera efficace e

proficua. In questo panorama multidentitario, in cui realtà culturali diverse si trovano a

convivere negli stessi spazi della socialità e della comunicazione, la mediazione linguistico-

culturale si inserisce in una prospettiva del tutto integrazionista.

Storicamente si è abituati ad affrontare il discorso sull’Alterità come un discorso

dicotomico tra bianco e non bianco, intorno ad un Altro descritto come esotico,

ontologicamente diverso, ed oggi identificato spesso tout court con “l’immigrato”. (Taliani

e Vacchiano: 2006, 56). In questo modo si rischia di operare una stereotipizzazione

dell’Altro come primitivo, ignorante, superstizioso, deficitario, si rischia “di adottare

approcci che fanno della naturalizzazione della diversità culturale l’unica chiave di lettura

possibile (“è così perché è africano”, “si comporta così perché è di nazionalità xxx?”, “sono

ben strani, ma si sa, sono africani…”)”. (Ivi, 85)

La mediazione linguistico-culturale non può assolutamente partire da questo equivoco

interpretativo riguardo l’Alterità. Non può infatti proporsi come un’attività che

strumentalizza la differenza culturale, al contrario deve proporsi come strumento attivo,

nelle mani delle nuove società multiculturali, volto a traghettare universi culturali da una

sponda all’altra del fiume.

In particolare, nel presente lavoro, contestualizzato e cresciuto in seguito all’osservazione

diretta del C.I.E. di Bologna si è voluto sottolineare che la mediazione “è assai più

complessa di una mediazione di conflitti o di una pura traduzione linguistica”. (Ivi, 84)

Nonostante la delicatezza e la particolare difficoltà insita alla gestione di un rapporto

comunicativo interculturale, la figura professionale del mediatore linguistico-culturale,

resta poco normata e in generale, salvo alcuni virtuosi esempi (cfr. l’esperienza della

regione Emilia-Romagna descritta nel secondo capitolo del presente contributo), poco

conosciuta e impiegata. Se si considerano le proporzioni del fenomeno migratorio che

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recentemente ha interessato il Paese, si osserva che un dialogo interculturale efficacemente

ponderato, sarebbe al contrario quando di più auspicabile nella gestione dei “nuovi arrivi”.

Sebbene l’Italia si sia da tempo approcciata alle nuove migrazioni in via del tutto

emergenziale, adottando più spesso lo strumento delle sanatorie, invece che di leggi chiare,

l’immigrazione in Italia conta numeri consistenti.

Nel presente lavoro, a partire dalle considerazioni riguardo alle forme e ai numeri

dell’immigrazione in Italia, si è potuto valutare come nel farraginoso scenario italiano della

mediazione, l’intervento del mediatore si sia inserito negli ultimi anni come un intervento

diretto alla facilitazione linguistica e al ponte tra culture differenti. Soprattutto in questa

fase di assestamento delle migrazioni, la mediazione linguistico-culturale si configura come

un’attività volta al supporto dei migranti nel delicato processo di ingresso in un nuovo

contesto sociale e culturale, ospite. Tuttavia, si consideri che il -purtroppo- prevalente

atteggiamento italiano, che colloca il fenomeno migratorio entro la dimensione securitaria e

lo contestualizza nella paura dell’invasione del proprio territorio, non agevola affatto il

dialogo proficuo tra culture, e di conseguenza non agevola nemmeno una più positiva

considerazione (e utilizzo) della mediazione linguistico-culturale. Inoltre, vi è una scarsa

conoscenza da parte delle istituzioni e dei servizi dell’effettiva utilità di questa attività, che

spesso, viene associata ad una sorta di attività di pronto soccorso, quando l’Altro sembra

troppo diverso e per questo incomprensibile.

Nel presente contributo si è scelto di inserire il discorso sulla mediazione linguistico-

culturale entro un contesto emergenziale, frutto della legislazione italiana riguardo

all’immigrazione: il C.I.E. La descrizione delle caratteristiche specifiche della struttura

hanno sollevato una serie di tematiche che influenzano l’attività della mediazione, la

determinano, forgiandola come snodo centrale all’interno di una complessa attività di

sostegno e riduzione del danno portata avanti dal Progetto Sociale. Si consideri, che i dati

in questa sede esposti, circa il periodo di volontariato presso il C.I.E. di via Mattei,

risentono della particolare conformazione del centro, che nel corso degli anni si è dotato di

una serie di servizi per la persona trattenuta, al contrario di altri C.I.E. nazionali. Proprio a

partire dalla particolare conformazione del C.I.E. di Bologna, rispetto alla presenza di

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servizi alla persona, l’attività di volontariato si è potuta sviluppare come un’attività di

ricerca, occasione di una più profonda esperienza di vita.

L’obiettivo di osservare le pratiche di mediazione linguistico-culturale in loco, ha reso

necessaria una partecipazione attiva alle attività dell’équipe multidisciplinare del Progetto

Sociale, e a tal proposito si è pensato alla strategia dell’osservazione partecipante, che

grazie alla vicinanza e al supporto della mediatrice nigeriana, ha potuto assumere molto

spesso i toni di un vera e propria attività formativa.

In un contesto peculiare come quello del C.I.E., caratterizzato da variabili quali il dolore e

la sofferenza per il fallimento di un progetto di vita, il mediatore deve mettere in atto

strategie specifiche, che gravitano intorno al bisogno primario dell’ascolto e del supporto.

La centralità del mediatore, poi, fa sì che sia proprio questa figura a mettere in contatto il

trattenuto con la rete di sostegno del Progetto Sociale. Rete, che “servendosi” del mediatore

attua, qualora necessario, specifici progetti individualizzati, facendosi carico del trattenuto

per un periodo che va persino oltre il trattenimento, e rendendo paradossalmente

l’esperienza del C.I.E., per alcuni trattenuti, un’opportunità da cogliere. Il Progetto Sociale

infatti garantisce al trattenuto, soprattutto nella fase immediatamente successiva al rilascio,

una continuità di riferimenti, attraverso l’affiancamento degli operatori del Progetto Sociale

al mondo dell’associazionismo e al mondo istituzionale del territorio.

È per questo, che l’attività di mediazione nel C.I.E. di via Mattei, è in netta

contrapposizione rispetto alle altre tipologie impiegate sul territorio. A differenza di queste

ultime, non è segmentata, non si interrompe (ad esempio) al livello linguistico, ma lo

oltrepassa trasformandosi in attività di sostegno.

La conformazione peculiare della struttura di Bologna e le caratteristiche proprie del C.I.E.,

hanno richiesto che l’indagine sulle forme della mediazione linguistico-culturale

considerasse da vicino le storie dei migranti, e le prendesse come simboli ed elementi

attraverso i quali aprire un discorso più approfondito, sulle macro tematiche presenti.

L’elemento biografico si è rivelato un imprescindibile punto di partenza per la

considerazione del fenomeno da studiare.

Nel generale caos definitorio rispetto all’attività di mediazione, si è dunque rimarcato, nel

corso dell’attività di ricerca, come l’etichetta “mediazione linguistico-culturale” sia la più

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appropriata per il contesto del C.I.E. Oltre al prezioso elemento di facilitazione linguistica,

si deve considerare infatti anche il riferimento alla cultura e al lavoro del mediatore

all’esplicitazione del sommerso culturale. Soprattutto in contesti istituzionali e burocratici,

come quelli che talvolta il C.I.E. ingloba (relativamente, per esempio, ai colloqui con le

forze dell’ordine e con i servizi del territorio), è compito del mediatore lavorare alla

“spiegazione” di comportamenti e codici verbali.

Si consideri inoltre, che l’attività di mediazione si colloca ad un primo e centrale livello di

supporto per il trattenuto. I C.I.E., in quanto luoghi di privazione della libertà e dell’identità

(che deve essere accertata in collaborazione con le ambasciate dei paesi di origine e che

spesso non viene accertata, nel caso per esempio di Paesi che non hanno stretto accordi con

l’Italia) producono forti scompensi psicologici di cui il mediatore e l’operatore devono

tenere conto nella gestione delle attività. In tal senso, proprio l’attività di volontaria ha

stimolato e alimentato l’interesse ad osservare “dal di dentro” le variabili dell’azione

dell’équipe.

La vicinanza all’operato giornaliero dei mediatori e degli altri membri dell’équipe del

Progetto Sociale e la fiducia costruita con i vari attori del contesto, hanno favorito

l’inserimento e la possibilità di costruire relazioni e dialoghi di approfondimento con i

trattenuti e i membri dell’équipe.

È stato molto importante prevedere debriefing sessions con i membri dell’équipe, in seguito

ai colloqui con i trattenuti, perché ogni professionalità coinvolta, potesse come in puzzle,

mettere assieme tutti i tasselli, tutti gli aspetti cioè della storia del migrante trattenuto. La

storia e le criticità del migrante, vengono, infatti, sezionati pezzo per pezzo e ricostruiti,

nell’ottica di un piano individualizzato in cui il mediatore funge da aggancio, primario e

imprescindibile della relazione di cura e presa in carico.

Il periodo di distacco dal contesto, necessario per filtrare i dati e ricostruirli all’interno del

presente contributo, è servito inoltre alla categorizzazione mentale di una serie di episodi,

che hanno permesso di riflettere sul valore delle rappresentazioni culturali e sui metodi di

interazione di codici comportamentali differenti. Il confronto quotidiano con i trattenuti ha

infatti dimostrato che lavorare con gli stranieri implichi la messa in discussione dei propri

modelli di categorizzazione. È stato interessante imparare a guardare alla mediazione come

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ad una grande occasione di negoziazione di significati culturali e di arricchimento

personale.

Un punto su cui, soprattutto la mediatrice nigeriana ha insistito, e adoperato come forma di

autoregolamentazione personale, è stato il forte grado di imparzialità. In un contesto in cui

ogni situazione, diventa per il trattenuto angosciato e sfiduciato, l’occasione per pensare ad

una disparità di trattamento rispetto agli altri, è bene che il mediatore sappia far

comprendere a tutti il proprio ruolo. È sembrato molto interessante il rapporto costruito

dalla mediatrice nigeriana con la comunità delle sue connazionali. Sin dai primissimi

incontri, il suo messaggio si è sempre indirizzato all’importanza della neutralità e

all’impegno costante affinché tutti i trattenuti fossero egualmente seguiti e tutelati, alla

stessa maniera. Tale atteggiamento ha di sicuro spezzato i dubbi iniziali circa la possibilità

di una pericolosa affiliazione etnica o sovraidentificazione tra mediatore e trattenuto. Si è

infatti verificato in loco, che la condivisione della nazionalità non corrisponde in nessun

caso alla condivisione di un rapporto amicale, o che va al di là della relazione necessaria

allo svolgimento dell’attività di mediazione. Per questo, come suggerito dalla mediatrice, è

opportuno mettere in atto personali strategie di distacco emotivo, perché è difficile in casi

drammatici, come quelli presenti al C.I.E., restare negli schemi di una relazione predefinita

e conservare un ruolo neutrale. Si è inoltre rimarcato come i migranti trattenuti si rivolgano

ai mediatori non già per un’affinità etnica o linguistica, ma per una necessità verbale, per

l’ascolto, per sentirsi vivi. Il che spiega il desiderio di molti trattenuti a parlare con

qualsiasi mediatore (verbosità), non necessariamente della propria lingua. Infatti, a tal

proposito si è osservato, che la mediazione diventa l’occasione dell’ esercizio del diritto

all’identità, alla parola, alla diversità e all’ascolto, che in un contesto di privazione della

libertà personale come il C.I.E., diventa una considerevole risorsa.

Dunque, la condivisione di un medesimo progetto migratorio, può essere solo un valore

aggiunto e mai una conditio sine qua non. La presenza dell’operatore sociale italiano, con

competenze linguistiche adeguate, ha infatti dimostrato di poter brillantemente coadiuvare e

completare il lavoro del mediatore straniero. La competenza linguistica in italiano, viene

percepita dai trattenuti (una volta sicuri di potersi fidare) un ottimo requisito nelle mani del

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mediatore, anzi spesso, come si è narrato nelle pagine di questo contributo, è addirittura una

“componente” da ricercare.

L’ “italianità”, a relazione di fiducia costruita e avviata, diventa un punto di forza nelle

mani del mediatore-tipo, che può in questo modo rassicurare i timori del trattenuto e

svolgere un dialogo efficace con le istituzioni italiane, dalle quali il trattenuto si attende

risposte rispetto alle proprie richieste (cfr. i casi di domande di asilo politico e richieste di

ritorno mercedi, oppure dialoghi con enti e strutture italiane dalle quali ci si attende

documentazione in grado di fornire prove e costruire percorsi individualizzati finalizzati

all’uscita dalla struttura con permesso di soggiorno).

L’attività effettuata sul campo ha quindi dapprima voluto chiarire il contesto e le sue

caratteristiche, per poi approfondire dall’interno, l’attività di mediazione e i suoi

meccanismi, che sono risultati così totalmente contestualizzati e ancorati alla specificità del

luogo.

Il C.I.E ha paradossalmente offerto uno spunto riflessivo sul modo di pensare l’Altro e su

come questo rapporto dovrebbe essere. È stato soprattutto grazie ai mediatori, e all’équipe

del Progetto Sociale che un periodo di volontariato è potuto divenire un’irripetibile

occasione di ricerca partecipata e quindi (e soprattutto) un’ottima occasione di formazione.

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ALLEGATI

Questionario sottoposto alla dott.ssa C.Iaboni, interprete per il Ministero dell’Interno

1. In cosa si distingue l’interpretariato rispetto alla mediazione linguistica e culturale?

A mio parere, si può parlare di interpretariato quando gli interlocutori, anche se parlano

lingue diverse e fanno riferimento a culture diverse, hanno uno status e livelli di istruzioni

simili oppure parlano di argomenti che conoscono molto bene (penso, in questo caso,

all’interpretazione cd. “di conferenza”). Quando invece due interlocutori sono molto

distanti tra loro, non solo perché parlano lingue diverse, ma soprattutto perché la

comunicazione tra di loro non può avvenire se non vengono colmate le differenze culturali,

l’interprete esplica un ruolo diverso, per cui deve anche fornire spiegazioni e assicurarsi che

il dialogo si svolga senza ostacoli (di qualunque tipo). In questo caso si può parlare di

mediazione linguistico-culturale.

2. Come definirebbe il suo ruolo nella comunicazione interculturale e in rapporto alla

figura del mediatore/mediatrice linguistico-culturale? Le è capitato di lavorare

sinergicamente con questa figura?

Premesso che lavoro come traduttrice e interprete in un ambito istituzionale, mi capita

spesso di trovarmi di fronte a stranieri che non conoscono il funzionamento delle istituzioni

italiane o fanno fatica a capire alcune procedure, quindi devo spiegare o riformulare quanto

detto dall’operatore per assicurare il passaggio di tutte le informazioni.

3. Pensa che in comunicazione interculturale le due figure, l’interprete e il mediatore,

possano essere riassunte in una sola persona oppure che esse debbano essere scisse ma al

contempo lavorare insieme ?

Penso che l’interprete, con l’esperienza, possa sviluppare le competenze necessarie per

diventare anche mediatore.

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4. Come definirebbe il suo lavoro in termini di adattabilità alle parti coinvolte nella

comunicazione?

Nel mio lavoro è essenziale adattare la comunicazione alle parti coinvolte, per far sì che gli

interlocutori collaborino allo sforzo comunicativo e la comunicazione possa fluire senza

interruzioni o ostacoli.

5. Nel suo lavoro di interprete di quale settore si occupa e quali situazioni si trova a

dover fronteggiare più frequentemente?

Lavoro in una Questura e mi occupo di immigrazione e asilo (rapporti con utenti stranieri

che richiedono un titolo di soggiorno o la protezione internazionale) e violazioni di legge,

soprattutto in campo penale, ma non solo (interrogatori; ricezione di denunce; contestazioni

di violazioni al codice della strada; accertamenti su documenti, cittadini, società o beni

stranieri; restituzione di beni rubati ai legittimi proprietari stranieri; contatti e scambi di

informazioni con polizie estere; intercettazioni telefoniche).

6. Viene convocata per sessioni programmate o il suo lavoro segue la linea

dell’emergenza?

Entrambe le situazioni.

7. Nella fase di interpretazione utilizza un codice etico per gestire situazioni di emergenza o

di forte complessità ?

Cerco di essere imparziale, neutrale, professionale e cerco di tradurre tutto quello che viene

detto, senza omissioni e commenti.

8. Prima dell’inizio della comunicazione è abituata a spiegare il suo ruolo alle parti

coinvolte?

Sì, sempre.

9. Un interprete è attento al linguaggio del corpo e alle sfumature di significato?

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Sì, e ritengo opportuno segnalare i segnali che vengono dal corpo (sofferenza, paura,

diffidenza, ecc.) a chi conduce la conversazione per permettergli di relazionarsi in modo

diverso con la persona straniera.

10. Che tipo di strategie impiega più frequentemente ?

Se mi accorgo che la persona straniera fa fatica a seguire un discorso molto “tecnico”, cerco

di andarle incontro utilizzando un lessico più comprensibile, frasi brevi e semplici.

11. In casi di forte conflittualità e complessità culturale come si comporta?

Cerco di far presente ai due interlocutori che si sta compromettendo la comunicazione.

12. Come crede si possa esplicitare la complessità di un codice culturale?

Non so rispondere a questa domanda, forse perché non la capisco bene.

13. Nel caso in cui la persona straniera provenga da una micro-area linguistico-culturale, si

tende ad utilizzare comunque una lingua franca (es. l’inglese per la Nigeria)?

No, viene utilizzata la lingua franca solo se la persona straniera acconsente e se risulta

conoscere effettivamente tale lingua in modo adeguato alla situazione comunicativa,

altrimenti si cerca di reperire un interprete/mediatore che parla lo stesso dialetto della

persona straniera e si rinvia il colloquio.

14. Le è capitato di dover controllare l’impatto emotivo delle informazioni sulla persona

straniera, nel caso in cui si tratti di notizie particolarmente spiacevoli?

Sì. In un caso si trattava della madre di una ragazza deceduta in un incidente stradale

(riconoscimento della salma). In un altro caso ho lavorato con minori. Altre volte ho

tradotto esperienze terribili raccontate da vittime di reato o richiedenti asilo.

Fortunatamente non mi è accaduto spesso. Mi sono resa conto che, per gestire queste

situazioni – sia durante che dopo l’attività di interpretariato – all’interprete servono

competenze particolari che esulano dalla formazione accademica tradizionale. Non va

sottovalutato l’impatto emotivo che questo tipo di interpretariato lasciano sull’interprete.

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15. La persona straniera cerca di capire dall’interprete cosa sta accadendo, in casi di lavoro

in emergenza, o cerca di reperire informazioni sulla struttura e il funzionamento delle

istituzioni e della burocrazia italiana?

Dipende molto dalle situazioni e dal livello di istruzione dello straniero. In alcuni casi è

difficile mantenere la capacità di ragionare lucidamente e si è in balia degli eventi.

16. Può capitare che sia la parte italiana che quella straniera si rivolgano a Lei in modo

diretto, chiedendo opinioni o chiarimenti, con il tentativo di eludere l’altro? In questo caso,

come si comporta?

Sì, a volte succede. In questo caso rispondo che quanto richiesto esula dal mio compito e

ristabilisco il contatto con la controparte girando a lei l’eventuale richiesta.

17. In quali casi considera utili le briefing sessions?

Nel mio specifico ambito istituzionale, le briefing sessions sono utili nei casi in cui si deve

affrontare una situazione che richiede la conoscenza di informazioni non necessariamente

note all’interprete/mediatore. Maggiori sono le informazioni note all’interprete, minore sarà

lo sforzo richiesto per seguire il dipanarsi della comunicazione (penso, ad esempio, ad

un’indagine che va avanti da tempo e nella quale sono emersi vari collegamenti tra le

persone oppure ad un colloquio in cui è essenziale conoscere la situazione politica nel paese

di provenienza della persona straniera da sentire). Oltre alle briefing sessions è senz’altro

utile l’esame del fascicolo per “prevedere” la terminologia che verrà utilizzata durante il

colloquio tra le parti per prepararsi linguisticamente al lavoro di interpretazione. Non

sempre, ahimé, è data la possibilità di consultare il fascicolo, nonostante l’interprete abbia

un dovere deontologico di riservatezza.

18. Infine, mi piacerebbe sapere se apporterebbe modifiche o migliorie al sistema

dell’interpretariato e della mediazione del suo settore.

Bisognerebbe istruire gli operatori istituzionali su come lavorare al meglio con un interprete

e sui modi in cui possono contribuire a migliorarne la prestazione.

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Questionario sottoposto alla dott.ssa P.Rosolini, Interprete per la Commissione Territoriale

Richiedenti Asilo

1. In cosa si distingue l’interpretariato rispetto alla mediazione linguistica e culturale?

Penso dipenda da come viene vissuta l’attività professionale ed anche dal tipo di

prestazione richiesta. Quando frequentavo l’università (a TS) il termine “mediatore

culturale” non si usava e l’interprete per eccellenza (di simultanea) era chi si era diplomato

alla scuola superiore per interpreti a Trieste, relegando al termine “traduzione” tutto quello

che riguardava il rendere in una lingua un concetto, un’idea o un termine espressi in

un’altra. Nella mia attività professionale negli anni ho visto cambiare il significato del

termine (ma non so quanto tutto ciò sia soggettivo): il mediatore culturale era lo straniero

che conosceva la lingua, gli usi e costumi di chi di solito era un suo connazionale e che non

parlava la nostra lingua. I mediatori culturali avevano la caratteristica di non avere magari

un titolo di studio elevato, ma erano in grado di interagire con lo straniero proprio perché

non solo parlavano la sua lingua, ma anche potevano spiegare certe espressioni o certe

situazioni proprio in quanto ne conoscevano la cultura. (Es i mediatori che sono stati

indispensabili nell’attività della Questura e dei vari uffici di polizia di frontiera, molto attivi

in questa zona di confine.)

2. Come definirebbe il suo ruolo nella comunicazione interculturale e in rapporto alla

figura del mediatore/mediatrice linguistico-culturale? Le è capitato di lavorare

sinergicamente con questa figura?

[Vedi risposta 3]

3. Pensa che in comunicazione interculturale le due figure, l’interprete e il mediatore,

possano essere riassunte in una sola persona oppure che esse debbano essere scisse ma al

contempo lavorare insieme ?

Penso che dipenda non solo dal tipo di attività, ma anche nell’ambito di una caratteristica

specifica (come quella di cui ho più esperienza, cioè l’interpretariato per la Commissione

territoriale) dipenda molto dalle singole situazioni, perché, a seconda della persona di cui

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dobbiamo tradurre le dichiarazioni, la sua estrazione sociale, la sua cultura, per non parlare

dell’argomento oggetto di conversazione, l’intervento del mediatore culturale può essere

alle volte determinante come altre volte superfluo. Penso che comunque una preparazione

approfondita degli usi, della cultura, ma anche della storia e della geografia del luogo di

provenienza della persona siano oltremodo utili perché non lo si dirà mai troppo, la

traduzione non è un meccanico scambio di caselle linguistiche….

4. Come definirebbe il suo lavoro in termini di adattabilità alle parti coinvolte nella

comunicazione?

Lo interpreterei come une adeguamento di registro e terminologia della propria espressione

verbale con l’interlocutore, che spesso richiede una semplificazione notevole del discorso

da tradurre, per giungere più vicino possibile al livello di espressione di chi si ha di fronte,

sempre che questo livello permetta i risultati richiesti. (Mi è capitato di far presente

all’intervistatore come all’intervistato –dei quali io dovevo tradurre le dichiarazioni- che il

livello di comprensione fosse così modesto da proporre di reperire piuttosto un interprete

della lingua madre dell’interessato a tutela tanto dell’interessato, quanto dell’intervistatore.)

5. Nel suo lavoro di interprete di quale settore si occupa e quali situazioni si trova a

dover fronteggiare più frequentemente?

Nella mia attività di dipendente di una Prefettura che ospita in sede anche la “Commissione

territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale” mi trovo a tradurre sia le

memorie che gli interessati consegnano insieme alla loro istanza, sia le dichiarazioni dei

richiedenti asilo in sede di audizione. Gli argomenti sono i più disparati, i problemi addotti

infatti sono talvolta di natura religiosa, altre volte politica, ma anche personale, come

conflitti insanabili tra famiglie, pratiche debilitanti nei confronti delle donne, etc.

Per le esigenze della Prefettura, invece, traduco le ordinanze dell’Ufficio Illeciti

Amministrativi e qualche volta qualche decreto dell’Ufficio Patenti. In questo caso,

ovviamente la terminologia è specifica, spesso criptica anche in italiano (i decreti hanno

allegato il verbale delle forze dell’ordine e spesso devo “interpretare” il cattivo

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burocratichese del poliziotto o finanziere che ha contestato la violazione), la corrispondenza

tra termini è minima, e, ancora di più, tra procedure del diritto italiano e quello

anglosassone, ed il registro, dunque, cambia completamente rispetto al vocabolario minimo

dei colloqui. (La stragrande maggioranza dei richiedenti asilo attuali ha scarsa scolarità ed

il vocabolario è limitato, la sintassi talvolta addirittura inesistente.

6. Viene convocata per sessioni programmate o il suo lavoro segue la linea

dell’emergenza?

Per le traduzioni dei decreti, in genere, mi viene consegnata una copia, o tutto il fascicolo, e

mi comunicano se c’è urgenza o se posso tradurre senza fretta, magari procedendo alle

richieste urgenti. Queste possono riguardare la richiesta orale di informazioni di uno

straniero che non parla l’italiano, o l’esigenza improvvisa di un interprete in più della

Commissione che di norma già organizza le proprie esigenze riguardo agli interpreti con

largo anticipo. Anticipo con il quale vengo avvertita se la Commissione vuole “prenotarmi”

per la giornata ed in quel caso vedo di organizzare anche la mia vita famigliare in modo da

garantire una disponibilità più ampia rispetto a quanto richiesto dal nostro contratto di

lavoro (ad esempio, grazie alla flessibilità prevista e fatto salvo, ovviamente, il

completamento dell’orario previsto, come impiegati della Prefettura possiamo andare in

pausa alle 13.30 per poi rientrare il pomeriggio, invece la Commissione spesso non

interrompe la propria attività all’ora di pranzo e dunque i colloqui possono anche protrarsi

fino al pomeriggio, con magari solo una brevissima pausa per recupero zuccheri.)

7. Nella fase di interpretazione utilizza un codice etico per gestire situazioni di

emergenza o di forte complessità ?

Non so bene cosa si vuole intendere per codice etico, io lo vedrei come, sia il mantenimento

della riservatezza sulle informazioni che vengo a conoscere, sia il rispetto da dimostrare

agli interlocutori, tanto nel linguaggio verbale e non verbale, compreso l’abbigliamento

indossato; non deve essere solo dignitoso, ma deve tener conto anche di realtà e mentalità

diverse dalla nostra, in modo, ad esempio, da non imbarazzare od offendere un musulmano,

etc (ho vissuto per breve tempo in un paese arabo e ricordarsi di coprire la propria pelle con

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indumenti molto di più di quanto noi oggigiorno siamo abituati a fare, soprattutto d’estate,

aiuta grandemente alla convivenza e all’essere accettati con rispetto, oltretutto non è così

impegnativo, non parlo di chador o altre pratiche che definirei “estreme”, basta ciò che ci

viene richiesto per certe visite in chiesa, niente shorts o minigonne, niente canottiere, per i

musulmani aggiungerei anche niente vestiti troppo attillati o provocanti, attenzioni che

probabilmente avremmo anche se dovessimo recarci come interpreti a qualche incontro tra

capi di stato…). Ovviamente come si deve dimostrare rispetto e considerazione per

l’interlocutore, è importante anche mantenere un certo distacco che ci permette poi non solo

di garantire la nostra imparzialità (che non significa freddezza), ma anche la possibilità di

eseguire il nostro compito in caso di resoconti particolarmente violenti e/o atroci (stupri,

torture).

8. Prima dell’inizio della comunicazione è abituata a spiegare il suo ruolo alle parti

coinvolte?

Si, è previsto dalle linee guida che ci illustra la rappresentante dell’Acnur all’inizio del

colloquio, tra le varie presentazioni dopo aver presentato per nome e ruolo i presenti

(membri e Presidente della Commissione) si introduce al richiedente asilo l’interprete -“che

non sta dalla sua parte o dalla parte della Commissione, ma la cui posizione è

necessariamente neutrale ed il cui compito è di tradurre agli uni ed agli altri tutto ciò che

verrà detto”-. Io anche prima che si instaurasse questa prassi, mi presentavo dicendo che

sarei stata l’interprete per l’audizione e magari così si scambiavano due parole utili anche

per capire se la comunicazione era possibile o se ci sarebbero state difficoltà.

9. Un interprete è attento al linguaggio del corpo e alle sfumature di significato?

Si sta certamente attenti, ma per le sfumature di significato non sempre è possibile arrivare

ad un livello tanto preciso, alle volte a causa dell’eventuale significato particolare in un

contesto culturale particolare, alle volte a causa delle limitate conoscenze linguistiche

dell’interessato. Si ovvia, sempre in caso di sospetta ambiguità o imprecisione, descrivendo

con altre parole il termine, l’oggetto o la situazione alla persona, chiedendone poi

conferma.

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10. Che tipo di strategie impiega più frequentemente ?

Per la Commissione territoriale: ho sempre carta e penna per segnarmi i punti fondamentali

e la successione nell’esposizione dell’interessato, non trascrivo tutto, ma mi serve un

minimo per non perdere il filo. Ovviamente la concentrazione è essenziale e con colloqui

tanto lunghi, quando si comincia a non connettere meglio chiedere una pausa (un caffè o

zuccheri). Per le traduzioni di memorie personali scritte da richiedenti con bassa

scolarizzazione, quando il testo di primo acchito risulta del tutto incomprensibile, c’è un

metodo semplice ed efficace; per il francese è utilissimo, ma lo è anche per l’inglese,

bisogna cercare di leggerlo a voce alta ed “ascoltarsi”: di solito chi parla la lingua, ma non è

abituato a scrivere, trascrive i suoni in maniera completamente diversa dall’ortodossia

ortografica, ma, parlando, i termini si indovinano con un notevole grado di

approssimazione (è per questo che i testi in francese sono tanto più chiari con questo

metodo, tutte le parti delle parole che non si pronunciano vengono trascritte con fuorviante

fantasia, ma se si “dicono” il senso torna chiaro). Per le traduzioni di decreti utilizzo molto

Google anche per verificare quanto le espressioni usate siano presenti in testi di

madrelingua

11. In casi di forte conflittualità e complessità culturale come si comporta?

Non comprendo la domanda: conflittualità di chi? Non tra le parti perché il mio ruolo non si

pone come avverso alla parte, anzi se rendo la comunicazione possibile sono uno strumento

utile. Conflittualità tra l’intervistatore ed il richiedente? Non dovrebbero avvenire queste

situazioni, mi è capitato con un intervistatore che trascendeva dal suo ruolo ed ho cercato di

calmare gli animi, ognuno ha il suo ruolo ed i suoi interessi, ma non serve l’esasperazione

delle proprie posizioni. La complessità culturale non è sempre possibile conoscerla

appieno, sta poi anche all’intervistatore rimandare il caso, se è necessario un

approfondimento.

Nel caso avvertissi la necessità della presenza di un interprete della stessa

madrelingua del richiedente, sarei la prima a segnalare questa necessità: sono conscia del

fatto che la cosa più importante sia che il richiedente possa comunicare al meglio, se non

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dovessi essere adeguata mi farei da parte (certo lo considererei una mia mancanza che mi

farebbe approfondire gli argomenti o i campi semantici in cui mi sono trovata in difficoltà,

ma non metterei in quel momento a repentaglio gli interessi superiori di chi ha diritto a

quanto di meglio possa avere per mettersi in comunicazione con chi lo può aiutare). Devo

anche però dire che mi è capitato piuttosto il contrario, nel caso in cui fosse stata richiesta

inizialmente una lingua locale per il colloquio, mi è capitato di spiegare al richiedente che,

avendo indicato una lingua o un dialetto locale, l’interessato/a poteva avere l’interprete di

quella lingua (lì presente) e di sentirmi dire che no, preferivano di gran lunga parlare con

me, insistendo per sostenere il colloquio con la Commissione con me come interprete (la

spiegazione data spesso da loro stessi riguarda il fatto che ai loro occhi noi europei

offriamo una imparzialità che non trovano in un connazionale magari di credo religioso o

politico diverso –o, peggio, che ha nei loro confronti un atteggiamento di superiorità e di

disprezzo, ahimé situazione da me osservata in certi casi-).

12. Come crede si possa esplicitare la complessità di un codice culturale?

La lingua parlata, ma anche quella scritta, sono grandemente influenzate dall’uso che se ne

fa, i termini si caricano di significati speciali, talvolta anche molto diversi da quelli di

partenza. Spesso anche nella nostra lingua un termine in un certo ambiente o gruppo della

società è inteso diversamente dal significato comune della stessa. Nel caso pratico di

comunicazione orale penso che con la buona volontà non sia mai impossibile superare

eventuali scogli rappresentati da specificità particolari. Per quanto riguarda le traduzioni

scritte, invece, senza poter chiedere spiegazioni a chi ha scritto, si rischia sempre di

prendere delle cantonate, ma, come mi è stato detto tanti anni fa da una collega con molta

esperienza quando io iniziavo questa mia attività, -“è inevitabile che un interprete si trovi

qualche volta a prendere una cantonata o a fare una figuraccia, per quanto preparato e per

quanta esperienza possa avere: non si può sapere tutto.”-

13. Nel caso in cui la persona straniera provenga da una micro-area linguistico-

culturale, si tende ad utilizzare comunque una lingua franca ( es. l’inglese per la Nigeria)?

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Per il colloquio orale dei richiedenti asilo, sono gli stessi interessati che indicano la lingua

in cui vogliono che si svolga il colloquio, la scelta è ovviamente legata anche al livello di

scolarità ed alla propria condizione, e dunque del tutto personale. Comunque l’inglese ed il

francese come lingue “franche” sono in genere conosciute da un largo numero di persone

provenienti dall’Africa

14. Le è capitato di dover controllare l’impatto emotivo delle informazioni sulla

persona straniera, nel caso in cui si tratti di notizie particolarmente spiacevoli?

E’ capitato più volte di dovermi controllare per non esprimere, con le parole o con

l’espressione, l’emozione causata da racconti allucinanti di torture o trattamenti disumani,

come è successo anche che il/la richiedente non riuscisse a trattenere la propria emozione

nel rievocare un fatto accaduto. Avere un ruolo ed uno scopo ben preciso, cioè riferire cosa

gli uni e gli altri dicono, mi ha sempre aiutata a mantenere il dovuto ritegno, anche se con

un larvato sorriso o uno sguardo comprensivo trasmettevo la mia partecipazione. Questa

partecipazione veniva espressa anche verbalmente pure dai relatori con una disponibilità a

seguire i ritmi del/della richiedente, qualora non se la sentisse di continuare. In certi casi,

già a conoscenza di fatti particolarmente delicati riguardanti una richiedente asilo (dalla

memoria allegata all’istanza), la Commissione predisponeva il colloquio scegliendo

appositamente una “squadra” operativa tutta al femminile e con i relatori di sesso maschile

che lasciavano la stanza. La “squadra” consisteva nella relatrice, presidente (quando era una

donna) e l’interprete.

15. La persona straniera cerca di capire dall’interprete cosa sta accadendo, in casi di

lavoro in emergenza, o cerca di reperire informazioni sulla struttura e il funzionamento

delle istituzioni e della burocrazia italiana?

Dipende, ovviamente, ma normalmente i richiedenti, in occasione del colloquio con la

Commissione, da cui in sostanza dipende il loro futuro, mostrano una notevole soggezione

e dunque queste domande “pratiche” le riservano ad altri momenti.

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16. Può capitare che sia la parte italiana che quella straniera si rivolgano a Lei in modo

diretto, chiedendo opinioni o chiarimenti, con il tentativo di eludere l’altro? In questo caso,

come si comporta?

Capita alle volte, con richiedenti che sperano di avere qualche informazione

sull’opportunità di citare o meno un certo elemento nel loro discorso oppure, purtroppo,

con dei relatori meno professionali di quanto richiesto e previsto, ma con il relatore

chiaccherone cerco di tagliar corto o di coinvolgere il richiedente nella conversazione.

17. In quali casi considera utili le briefing sessions?

Sul lavoro le trovo utilissime, negli svariati campi in cui mi sono trovata a lavorare (anche

non in quello linguistico), ma in Italia c’è poca abitudine al lavoro strutturato ed

organizzato. Per la Commissione territoriale considero utilissimo essere informati

preventivamente non solo sul paese di provenienza del richiedente, ma anche sui particolari

della richiesta d’asilo in modo da presentarsi più preparati al colloquio a beneficio di tutti.

(Es. banale, ma mi è rimasto impresso: avevo saputo che il richiedente asilo che avrei

incontrato l’indomani era saldatore e che il colloquio si sarebbe svolto in inglese: ho

controllato ed ho scoperto che in inglese, a seconda di “cosa” si salda il termine cambia; il

giorno dopo proprio una domanda specifica del relatore riguardava i particolari dell’attività

di saldatore. Ci saremmo capiti comunque, certo, ma mi ha dato molta soddisfazione poter

essere così precisa!)

18. Infine, mi piacerebbe sapere se apporterebbe modifiche o migliorie al sistema

dell’interpretariato e della mediazione del suo settore.

Sarebbe utile se i seminari sulla terminologia specifica in un determinato settore o quelli

riguardanti problematiche particolari su una o l’altra zona del mondo fossero molto più

numerosi e frequenti. Sicuramente una collaborazione più stretta tra interpreti e/o mediatori

potrebbe essere vantaggiosa. Persino le tante, piccole, apparentemente insignificanti

esperienze, se riferite, arricchirebbero il bagaglio individuale a vantaggio di tutti.

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4

Ministero dell’Interno

DIPARTIMENTO PER LE LIBERTA' CIVILI E L'IMMIGRAZIONE - Direzione Centrale Servizi civili per l'Immigrazione e l'Asilo

CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE (CIE)

MILANO

Via Corelli

Posti 132

GORIZIA (Gradisca d'Isonzo)

Posti 248

MODENA

TORINO Posti 60

C.so Brunelleschi

Posti 180 BOLOGNA (Caserma Chiarini)

Posti 95

BARI Palese

Posti 196

ROMA

Ponte Galeria

Posti 360 BRINDISI (Restinco)

Posti 83

CROTONE

(Loc. S. Anna)

Posti 124

TRAPANI

Serraino Vulpitta

Posti 43

CATANZARO

(Lamezia Terme)

TRAPANI Posti 80

località Milo

Posti 204

CALTANISSETTA

Contrada Pian del Lago

Posti 96

aggiornato al 28.9.2011

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Diario di bordo

3 maggio 2012, primo giorno 2h30

Percorrendo la strada tra la fermata dell’autobus e il portone di ingresso del CIE, pensavo che

avrei finalmente osservato con gli occhi ciò che avevo letto negli ultimi mesi a proposito dei

CIE.

Ciò che avviene “al di là del muro di cinta” dell’ex caserma di via Mattei è troppo spesso

strumentalizzato, e avevo sentito troppo spesso parlare di CIE da persone che non avevano idea

di cosa veramente fosse. Sono entrata pensando di avere voglia di farmi un’idea personale. Mia.

Mi sentivo emozionata, spaventata, preoccupata. Quando il dott. Pilati mi ha presentato Mary, la

gentilissima mediatrice nigeriana che mi ha tenuta al suo fianco e sotto la sua attenta e dolce

supervisione e professionalità, ero spaventatissima e credevo di non farcela alla visione di tutto

quello che mi si stava palesando davanti. In fondo avevo letto troppe cose raccapriccianti

riguardo ai CIE. Non avevo mai visto tutta quella polizia. Soprattutto non avevo mai visto un

luogo simile a quello. Tanta gente, mi aveva ricordato che non ero “finita” in un bel posto. Lo

sapevo che non ero andata in un bel posto, certo che lo sapevo. Credo di aver visto tanta

disperazione solo nei reparti oncologici che per alcune tristissime vicende della mia esistenza ho

dovuto “visitare”. Sono stata nel reparto femminile quel giorno al CIE. Donne, per lo più

nigeriane, giovani, molto giovani. Donne disperate, che mi guardavano all’inizio con diffidenza,

poi con curiosità, poi con speranza. E non mi spiegavo nemmeno perché.

Mary mi ha presentata a tutti, in particolare ha tenuto a presentarmi alle trattenute e ai trattenuti,

se capitava di incontrarne nel corridoio di cemento che divide gli alloggi dagli uffici. Una donna

si avvicina alla porta di ferro che divide gli alloggi dal resto della struttura. Mary me la presenta

dicendo: “Lei ha bevuto il detersivo qualche giorno fa…” La donna, con uno sguardo assente,

chiedeva a Mary cosa avrebbe dovuto fare per incontrare la psicologa e per incontrare la sua

bambina. Ho pensato: “tua figlia, cara M., sicuramente sentirà la tua mancanza, ma tu non hai il

permesso di soggiorno, e non puoi vederla quando vuoi. Tua figlia”. Ho pensato al perché quella

donna non avesse il permesso di soggiorno.

Le storie di madri, di figli, di padri mi hanno sempre toccata dal profondo del cuore.

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Il mio primo giorno al CIE è stato angosciante, straziante, avevo paura di tutto, del personale,

della polizia, di quei due tunisini (?) sdentati che avevano chiesto ad un operatore sociale del

Progetto sociale, di cui il dott. Pilati è responsabile, un po’ di musica da mettere sul loro mp3,

per svagarsi un po’. Mi guardavano, sembrava che mi studiassero. Mi sentivo in imbarazzo. Un

senso di disgusto mi ha pervasa. Si sono subito chiesti se fossi italiana, gli ho risposto. Mi

sentivo “una novità”, mi sentivo colpevole, perché mi hanno chiesto se fossi d’accordo con la

legge sull’immigrazione. Mi hanno chiesto cosa ci facessi lì, che potevo essere figlia loro. Mi

hanno chiesto se mio padre sapeva che ero lì. Mi hanno detto una cosa che somigliava a questa

frase, in un italiano stentato: “Tu vieni qua per sentirti meglio. Non stiamo sempre peggio.” È

stato un colpo durissimo, ma avevano ragione.

Come si fa a condividere la propria intimità, il proprio disagio, il vuoto interiore con gli

sconosciuti? Me lo sono chiesta quando ho visto gli alloggi.

Non ho capito una parola di quello che Mary e le ragazze nigeriane si dicevano, è stato

frustrante. Ed io che pensavo di poter usare l’inglese con facilità. Mi sono venute in mente tante

cose riguardo ai “world englishes” studiati all’università.

Ho scritto sul taccuino che non posso assolutamente fare a meno di imparare qualcosa di questo

“broken English” .

[…]

Sono passati due giorni da giovedì e non riesco a smettere di pensare a quelle donne.

Sono stati tutti molto cordiali con me. Vorrei scoprire come fa Mary a creare un clima di fiducia

intorno a sé. La chiamano MAMI. Lo è stata anche per me quel singolo giorno, quelle 2 ore. Il

mio cervello ha avuto un tale cultural shock… e non posso credere di essere rimasta senza parole

nel mio Paese. Mi sono detta che lì non era il mio Paese. Lì era il regno di nessuno, un nonluogo.

18 maggio 2012 secondo giorno 9.30/16.30

Il mio secondo giorno è stato un giorno molto impegnativo dal punto di vista fisico e mentale.

Arrivo al mattino alle 9.30 insieme a Mary, mi ritrovo in giacchino catarifrangente subito dopo

che i poliziotti si sono assicurati di trovare il mio nome tra la lista dei volontari.

Mary mi incalza, c’era tanto lavoro quel giorno. In effetti ho passato tutto il giorno a seguire

freneticamente Mary. Ci sono tre nuovi ingressi.

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S., S., B. Non credo me le dimenticherò mai. Come nessun altro trattenuto. Sono arrivata in quel

posto, per caso, per egoismo, pensando di fare qualcosa di buono, e forse avevano veramente

ragione quei due tunisini sdentati, che mi avevano detto “tu vieni qui per sentirti meglio”.

In realtà è facile fare la paladina di giustizia, ma aiutare veramente qualcuno è diverso. Fregiarsi

di visite turistiche del CIE, a che serve, quando il dolore, la sofferenza, ti entrano nel cuore, si

impossessano delle ossa.

Mi sono sentita così inadeguata, così sbagliata nel mio atteggiamento pietistico e

compassionevole. Ho capito che per “combinare qualcosa di buono” dovevo agire, osservare e

imparare dai mediatori. Che ascoltano, immagazzinano e filtrano i bisogni dei trattenuti nella rete

d’aiuto del Progetto Sociale.

S., S. e B. sono tre donne rom, arrivate nel cuore della notte in via Mattei. Avrei voluto tanto

essere Mary in quel momento, avere quella sua freddezza, quel suo modo di trattare con garbo,

ma con distacco tre donne che dicono di avere problemi di salute, che consegnano i loro

passaporti alla polizia, e quindi già identificate se ne andranno presto. A casa. Tanto torneremo

dice B. Qui faccio molta fatica a capire dove sta il bene e dove il male. Perché in un momento mi

sentivo così empatica con loro, poi mi dicono: “Tanto torniamo in Macedonia con un bel viaggio

gratis… due tre mesi di tempo e poi torniamo qui”. Un atteggiamento aggressivo, prepotente, che

non mi piace affatto. Poi però questa stessa donna pensando di dover lasciare i nipoti qui, piange

e mi fa commuovere. All’inizio queste donne si comportano in maniera assai scostante, poi si

dimostrano donne ferite, semplicemente donne che si inquietano per i loro uomini e si

preoccupano per le loro famiglie. Come tutti. Famiglie allargate, famiglie rom, senza casa. E poi

S., con l’accento toscano. Mary mi fa compilare la scheda anamnestica, e io ho il tremore alle

mani, scrivo i loro nomi e i loro numeri identificativi in copertina e ho paura di sbagliare. Mi fa

davvero impressione scrivere nomi di persone e accostarli a numeri.

Mary mi sembra una persona molto saggia e riservata.

Poi arriva l’assistente sociale, che avevo già incontrato per un colloquio-intervista, alcuni mesi

fa. Lei mi sembra una mamma. Si rivolgeva a me guardandomi come ad una pari, mi riempiva di

attenzioni. Il mio volontariato si sta trasformando sempre più in qualcosa di molto attivo, in

un’osservazione partecipante di alcune dinamiche peculiari della nostra società. Quella che

regola gli ingressi e le uscite.

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Le domande per compilare la scheda anamnestica durante il primo colloquio sono volte

soprattutto a capire lo stato di salute mentale e fisico delle persone. Se sono state in carcere

prima, da dove vengono, che lingue parlano, da quanto tempo sono in Italia, perché non hanno il

permesso di soggiorno, se l’hanno mai richiesto, e se ce l’hanno mai avuto perché e da quanto

l’hanno perso. Domande per ricostruire il loro tessuto sociale, e le loro famiglie.

Poi si cerca di mandare fax ad un avvocato, che ti chiede 500 euro solo per venire lunedì

all’udienza. E non sappiamo nemmeno se verrà e se potrà fare qualcosa per loro tre. Hanno il

cellulare con la camera ma vivevano in una baracca. Mi sembra una cosa assurda. E comincio a

faticare di nuovo a capire il bene e il male. Le donne, come mi spiegherà l’assistente sociale,

nella debriefing session, è molto probabile che siano vittime di un processo di sgombero

programmato, che colpisce prima chi non ha documenti. Quando l’assistente sociale, chiede loro

qualsiasi documento in loto possesso che avrebbero voluto mostrare per essere aiutate, le donne

porgono alcuni fogli verso di noi come ci volessero dare un tesoro. I documenti sono un tesoro.

La presa in carico del trattenuto è totale. Pilati insiste che non può finire tutto con l’espulsione e

che la presa in carico e la multidisciplinarità della sua équipe sono i punti di forza del Progetto

Sociale. Incontro l’operatore sociale con competenze antropologiche, e la psicologa-

psicoterapeuta, che mi chiariscono dal loro punto di vista alcuni aspetti psicosociali del

trattenimento. Cerco di parlare con i trattenuti in maniera semplice, piano. Instaurando un

rapporto alla pari. Un rapporto umano di fiducia, come mi spiegano tutti i mediatori è molto

importante dimostrarsi disponibili e comprensivi, ma al contempo imparziali. Ci sono tanti

termini “tecnici”: convalida, udienza, giudice di pace, non puoi andare in Francia, è un paese

Schengen. Come avranno fatto le tre donne rom a capire, visto che avevano una conoscenza

dell’italiano quasi nulla e nessuno al CIE era in grado di interagire con loro nel loro dialetto?

Incontro una donna moldava, considerata da molti “matta” e alcune donne nigeriane, che si

sistemavano i capelli in treccine, al sole.

Osservo alcune operatrici della Misericordia trasportare un materasso. Quando arriva un

materasso vuol dire che sta arrivando qualcuno nuovo. Tutti mi guardano un po’ incuriositi, forse

perché sono giovane. E sono incapace di gestire le emozioni. Forse lo leggevano chiaramente che

ero a disagio. Adesso ho imparato, devo essere calma, devo essere neutra.

Il distacco è importante, il dott. Pilati me lo dice sempre. Il distacco mi dirà Pilati a fine giornata

è una protezione per te e per loro, i trattenuti.

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25 maggio 2012- terzo giorno 9.30 / 16.30

Arrivo al solito orario, incontro alla fermata dell’autobus Mary. Ci infiliamo le giacchette

catarifrangenti. La giornata è abbastanza movimentata, da subito. Mary e il mediatore tunisino

discutono in sala colloqui sul recente articolo di giornale in cui un’associazione locale chiede che

i CIE vengano chiusi. Si discute l’utilità di questa petizione. Sarebbe più giusto invece agire a

monte, sulla legislazione che consente l’esistenza di questi nonluoghi? Quel posto non piace a

nessuno, non è un posto normale. Però esiste. C’è una legge. Poi si comincia con la giornata.

Arrivano le volontarie di SOS donna. Sono così cordiali e disponibili con me. Mi sento

paradossalmente protetta da tutti lì dentro, ma allo stesso tempo mi sento costantemente messa

alla prova, rispetto al mio essere italiana, rispetto alle mie competenze linguistiche, e alle mie

capacità di costruire relazioni. Bisogna fare un sacco di fax per i trattenuti. Poi arrivano alcuni

giornalisti, autorizzati ad entrare nella struttura per realizzare un servizio. Il dott. Pilati si occupa

di accompagnarli nella visita. Io e la mediatrice nigeriana iniziamo i colloqui. Ritrovo dopo una

settimana esatta le tre donne rom. Mi avevano giurato che loro sarebbero rimaste lì al massimo

fino al lunedì successivo. Non avevo osato contraddirle, spiegando loro che i ritmi della

burocrazia erano diversi. La loro arroganza si era trasformata in rassegnazione. Alla fine

sarebbero state rimpatriate tutte e tre. E molto presto. Dentro al braccio femminile, scopro

l’arrivo di una ragazza, brasiliana, mia coetanea. Mi aspettavo una di quelle bellissime ragazze

brasiliane, invece: P. è molto mascolina e mi guarda con aria di sfida. Sul volto ha

quell’espressione di chi ha 26 anni ma ne ha vissuti almeno 40. Faccio la conoscenza di R.,

ucraina e chiacchiero brevemente con E. la donna moldava soprannominata la “matta”. Mi rendo

conto di quanto sia difficile dialogare con tutte le persone trattenute e assicurare loro il

medesimo livello di ascolto, per lo meno dal mio punto di vista. I mediatori invece sono molto

agili nei rapporti e nella gestione delle richieste. Ovviamente. Come mi spiega Mary, l’unica

mediazione “uguale a quella che ti raccontano nei libri o nei convegni” si svolge in due momenti

che non potrò osservare. Gli incontri delle trattenute con le volontarie di SOS donna, o con la

polizia nel caso in cui queste donne decidano di denunciare i propri sfruttatori. Per il resto è un

andirivieni di richieste da operatore sociale. “Comprami la crema, la tinta per capelli…” “ ho

bisogno di parlati” “ spiegami meglio….” etc. Con P. e R. è stato molto difficile comprendersi.

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La prima conosceva solo il portoghese, ma se le si parlava lentamente, comprendeva il senso di

alcune semplici frasi in italiano. R. invece presentava un quadro psicologico molto precario, cosa

che rendeva ancora più complesso il dialogo. R. voleva restare lì tanto il figlio l’aveva mandato

in Ucraina con sua madre. Forse è incinta e forse ha l’AIDS, dice. Ma si vergogna a chiedere

delle analisi. Vuole restare lì così almeno è al caldo: per colpa delle “amiche cattive” che l’hanno

fatta bere è andata in ospedale, e un medico l’ha segnalata alla Polizia. È quindi finita al CIE

perché irregolare. P. invece era scesa per un panino, con l’amica che chiama sorella (ma è un

amica o è una sorella?) quando alcuni poliziotti le hanno chiesto i documenti.

Ho notato che nel brevissimo incontro tra M. e SOS donna, l’unico incontro con mediazione

“canonica” al quale ho potuto assistere con la complicità di M., una ragazza nigeriana,

quest’ultima cercava di esprimersi in italiano, stentato, mentre il livello di esposizione delle

volontarie di SOS donna (come ho rimarcato anche nel corso dei colloqui gestiti con l’assistente

sociale) resta piuttosto formale, e articolato. Ci sono parecchi termini derivanti dalla

burocrazia/giustizia (ricorso, art.18, art. 13, protezione umanitaria) termini che queste donne

conoscono nelle loro odissee per la regolarizzazione, ma che quelle nuove, ignorano. Mi accorgo

che Mary riformula molto e adatta i dialoghi tenendo conto di molteplici fattori: l’individuo, la

materia trattata. Facendo molta attenzione, con l’utilizzo di fatismi che tutto venga chiaramente

compreso dalla trattenuta.

28 maggio 2012 – quarto giorno 9.30/16.00

L’assistente sociale mi invita a gestire insieme alcuni colloqui. Poi Mary mi parla di M., da

lunghissimo tempo al CIE, raccontandomi di come sia difficile accettare per lei la lunga

detenzione.

Mi soffermo in ufficio colloqui con il mediatore tunisino, i cui colloqui con i trattenuti mi

sembrano molto informali, e chiaramente miranti a stabilire un rapporto di fiducia e rispetto

reciproci. È molto integrato in Italia, così come il mediatore marocchino.

Oggi la donna moldava soprannominata la matta è stata rilasciata. Lei era contentissima, mi ha

detto ridendo: “spero di non vederti mai più!” Le nigeriane sono arrabbiatissime, sono gelose che

lei sia uscita. Anche loro vogliono uscire ma se vogliono uscire devono denunciare gli aguzzini e

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le madame, come mi dice Mary (la stragrande maggioranza di nigeriane trattenute è legata alla

triste vicenda della tratta a scopo di sfruttamento sessuale).

È possibile rifiutare un colloquio col mediatore? Sì, il caso di una ragazza del Ghana. Le altre

(nigeriane) le dicono (con tono ostile e intimidatorio) devi fidarti di Mary.

Mercoledì mandano in Macedonia le tre donne rom. Sono molto triste per loro.

Mi accorgo di quanto R. la donna ucraina abbia dei gravissimi problemi psicologici. È

autolesionista e continua a sospettare di avere l’AIDS. Oltre che di avere un bambino

addormentato nella pancia. Come mi spiegherà in una briefing session la psicologa

psicoterapeuta, occorrerà approfondire il discorso sulla gravidanza e maternità, che ricorre

costantemente nei colloqui con la donna. Vengo informata della possibilità, qualora lo ritenessi

opportuno di compilare alcuni moduli di invio per segnalare criticità dei trattenuti agli altri

membri dell’équipe (es. la psicologa). Oggi M. mi chiama “piccolo mediatore”. Abbiamo la

stessa età, ma lei sembra aver vissuto il doppio dei nostri anni. Mi sento riconosciuta dai

trattenuti.

Insieme all’assistente sociale, conduco un colloquio con un signore pakistano un po’ in inglese e

un po’ in italiano. Ha perso il lavoro da tornitore in un’azienda metalmeccanica e quindi il

permesso di soggiorno. È disperato. Ho cercato, di esplicitare alcuni punti poco chiari, attraverso

domande in inglese al trattenuto, all’assistente sociale.

R. la donna ucraina, abbisogna di cure psichiatriche mi pare. La psicologa sostiene che non è

affatto orientata nello spazio e nel tempo. È difficile parlare con questa donna, perché anche con

la mediatrice che parla la sua lingua, conserva aspetti paralinguistici e caratteristiche

dell’esposizione (molto sregolata) che non agevolano la comprensione e lo scambio

comunicativo. Il linguaggio settoriale della medicina e della burocrazia oltre che alla sua

patologia psichiatrica rendono il colloquio quasi fallimentare. Mi chiedo come possa essere

possibile che questa donna sia in Italia, a detta sua, da 16 anni, ma il suo italiano sia così

pessimo.

Osservo da lontano le trattenute e mi sembra che il CIE sia un grande esperimento di società

multiculturale. Ci sono tante culture e tante tradizioni, a volte si scontrano, ma tante volte di

incontrano.

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“Io non posso esistere qui” dice una trattenuta croata. Non mi sono mai più dimenticata di questa

frase. Ci ho riflettuto tutto il giorno. Mi sembra sia un punto cardine, esprime in tutta la sua

banalità un estremo disagio.

30 maggio 2012 quinto giorno 9.30/15.30

C’è una ragazza all’accettazione, appena io e Mary arriviamo. Sostiene di non comprendere

l’italiano. È nigeriana, è diffidente.

Un’altra ragazza nigeriana si avvia verso l’ ufficio della questura per effettuare la denuncia dei

propri sfruttatori. Non ho potuto assistere all’intervento di mediazione con la polizia, sarebbe

stato veramente interessante, penso, ma la privacy è molto più importante.

Ho capito che Mary ha un’idea di mediazione abbastanza fluida, si concentra sul core message.

Non lascia passare i fronzoli. È diretta, e chiarissima sulla procedura amministrativa.

Rimango molto stupita che nei documenti della questura, la traduzione di CIE in inglese sia

“deportation camp”.

Conosco meglio anche Irina, mediatrice moldava, che con le donne moldave o georgiane risulta

essere molto empatica.

Mary all’uscita dal CIE mi chiede cosa ne penso di questi primi giorni al CIE. Mi fa presente

l’importanza di adottare il distacco dalle storie, è importante chiudersi la porta del CIE dietro, a

giornata conclusa, per continuare a vivere a casa propria, mi dice. E mi parla del suo precedente

lavoro in unità di strada e della sua difficilissima gestione emotiva delle storie delle prostitute

con cui veniva a contatto.

Irina, mi racconta parte della sua biografia, ci sono molti elementi che potrebbero far pensare ad

una condivisione del tessuto e del progetto migratorio con le altre donne dell’est (alcool, marito

alcolizzato, povertà, condizioni migliori, lavoro come badante), che mi tracciano un quadro

davanti di disperazione e desolazione rispetto alle province più recondite dell’est.

Le tre donne rom stanno per essere rimpatriate, preparano la borsa. Sono felici. È strano che

siano felici adesso di tornare in Macedonia. Non me lo spiego. Vanno a casa, dove non hanno

nessuno e in un Paese che non conoscono, ma sono libere.

L’importanza della presenza di un madrelingua italiano (io) nel dialogo con I. che richiedeva la

sua carta della famiglia. Gli Ho chiesto se poteva trattarsi di uno stato di famiglia, spiegando il

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concetto e l’idea. Sono riuscita a comprendere la sua richiesta e mi sono guadagnata la sua

fiducia. Mi ha detto: “ Allora non è vero che gli italiani sono tutti st*****”.

1 giugno 2012 sesto giorno 9.30/15.00

Non c’è la mediatrice nigeriana e senza di lei non riesco ad entrare in contatto con le nigeriane.

L’episodio della crema tra F. e un operatore della Misericordia. L’incontro tra R. e P. con la

psicologa, chiarisce ulteriori punti foschi sulla storia di queste due donne. M. ha dei problemi di

tossicodipendenza. È in crisi e lo mettono in isolamento. Mary riceve il diniego della protezione

umanitaria e sono io a comunicarglielo. E., una donna croata mi dice di non riuscire ad essere

identificata, perché ha avuto tre mariti e non hanno documenti con il suo nome da nubile. Una

giovane mamma rom viene prorogata, e rifiuta di parlare con chiunque. Continuo a coltivare una

relazione cordiale con H. una giovane donna nigeriana.

4 giugno 2012 settimo giorno 11.00/15.30

La vicenda di M. giovane ragazzo marocchino, tossicodipendente già in carico al SERT, apre lo

scenario del consumo di ansiolitici, e “terapie” nel CIE. Noto infatti una forte richiesta da parte

dei trattenuti di metadone e Rivotril (usato in Italia come antiepilettico). Ci sono molti uomini

che hanno abusato di sostanze stupefacenti nel passato. All’orario prestabilito dal medico, questi

uomini (sono in prevalenza uomini, in genere magrebini) si recano come in sfilata dal medico,

che dà loro la “terapia” Oggi, un signore in particolare mi ha colpito. Mi sembra di aver capito

che sia entrato ieri nel CIE. Ha litigato con il medico di turno perché necessita metadone, mentre

il medico gli consiglia di aspettare un altro momento della giornata. Il litigio che rischiava di

divenire violento, si placa con l’intervento del mediatore marocchino, che spiega all’uomo di

fidarsi del medico e di non sentirsi trascurato o non capito. Le nigeriane continuano a non fidarsi

di me, ma a poco a poco da quando ho preso l’abitudine di specificare più spesso il mio ruolo di

volontaria e di affiancare più spesso i colloqui con la mediatrice nigeriana, stanno allentando la

morsa. Mi rendo conto, che per quanto molte nigeriane abbiano difficoltà a comprendere

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l’inglese standard, perché in gran parte non scolarizzate, sia meglio utilizzare l’inglese standard

che l’italiano, che crea un quantitativo di gran lunga maggiore di misunderstandings.

Il mediatore tunisino mi spiega il funzionamento dell’archivio digitale, che ogni giorno occorre

aggiornare in relazione agli ingressi e alle uscite. Inserisco alcuni dati. Seguo con l’assistente

sociale il tortuoso percorso di R., la donna ucraina con problemi psichici, nel tentativo di creare

un percorso individualizzato che la possa portare fuori dal CIE con un permesso di soggiorno per

salute.

5 giugno 2012 ottavo giorno 8.30/11.00

Oggi ho assistito ad una discussione tra la mediatrice moldava e il mediatore tunisino circa gli

stereotipi religiosi. Il mediatore tunisino, che mi sembra aver attuato un profondo processo di

assimilazione alla cultura italiana, si discosta dagli estremismi religiosi dei suoi connazionali.

7 giugno 2012 nono giorno 09.30/15.00

Da alcuni giorni, i trattenuti di via Mattei portano avanti lo sciopero della fame, per protestare

contro la qualità scadente del cibo. Due donne nigeriane mi stringono i polsi forte, e mi prendono

dalle braccia, chiedendomi di ascoltarle. Non capisco se si tratta di una dimostrazione di fiducia

nei miei confronti, oppure di disperazione. O di entrambe. Osservo Mary interagire con le donne

e traghettare le richieste, una volta comprese, all’ente gestore.

A differenza della comunità nigeriana, tendenzialmente chiusa, le donne provenienti dall’Est

Europa sono più inclini a parlare e a raccontare le loro storie, e in generale acquisiscono un grado

di conoscenza di italiano, abbastanza presto, una volta arrivate in Italia (a differenza delle

nigeriane).

Continuano le lamentele delle donne trattenute rispetto alle violente crisi di R. che sovente

assume comportamenti poco consoni, e di protesta. Le ragazze raccontano che si denuda molto

spesso, e se ne sta al centro dei luoghi comuni, aspettando che gli altri la guardino.

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22 giugno 2012 decimo giorno 09.30/16.30

All’arrivo chiedo alla mediatrice nigeriana e all’assistente sociale un breve aggiornamento su

cosa è accaduto nei miei 10 giorni di assenza. Mi raccontano di R., la donna ucraina e dei suoi

continui atteggiamenti che richiamano l’attenzione. Ma da qualche giorno a questa parte ha

cominciato a dormire molto, tanto da sembrare morta, per la sua compagna di stanza.

Le ragazze sembrano più tranquille riguardo alla questione cibo, ma è solo una tregua, perché

senza cibo decente non si può stare dicono.

Mi raccontano di C., nigeriana, dalla vita tormentata, con un dossier di 20 pagine a suo carico.

Poi si parla di alcuni trattenuti fuggiti nella notte, e dell’incertezza del lavoro a partire da agosto

con l’ingresso del nuovo ente gestore. Nel corso di alcune ricerche, per la costruzione del

percorso individualizzato in favore di C., l’assistente sociale, scopre maggiori dettagli, in realtà,

il faldone a suo carico è molto molto più vasto: alla Caritas di Napoli dove è stata a lungo, hanno

così tanta roba da non poterla neanche inviare per posta.

Parlo con A. una ragazza rom di 20 anni nata e cresciuta in Italia.

Mary mi parla di una strana relazione basata sulla sudditanza psicologica che J. un’irascibile

donna nigeriana ha instaurato con l’ultima arrivata C.

Partecipo al gruppo di auto mutuo aiuto maschile. Esperienza centrale della giornata alla quale

inizialmente mi approccio con riserbo e qualche timore. Poi però tutto fila liscio, ed

effettivamente si è rilevata una buona osservazione di ciò che sono le dinamiche dei gruppi. È

interessante come la condivisione della sofferenza possa risultare quasi un anestetico del

trattenimento. Gli uomini che vi partecipano, salvo alcuni casi, manifestano una necessità quasi

spasmodica di esprimersi, parlare, farsi sentire.

Sono felice perché H. mi cerca e mi chiede dove fossi finita. Dice che si è accorta che non c’ero.

Sto avanzando terreno nell’area relazioni umane. Si conclude la mia giornata con l’invito del

dott. Pilati, a riflettere sulla mediazione come attività olistica.

Ci soffermiamo di nuovo sulla questione della globalità dell’approccio e la necessità di smontare

la teoria della mediazione e adattare il mestiere ai bisogni che di volta in volta si manifestano.

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25 giugno 2012 undicesimo giorno 09.30/12.30

Nulla di estremamente rilevante. Tranne l’incontro con D., uomo senegalese appena uscito dal

carcere. Le varie faccende burocratiche che disbrigo e la procedura per il recupero mercedi che

avvio con quest’uomo mi ricordano come il mediatore al CIE sia un operatore sociale. Quando

l’uomo mi racconta di aver timore di essere rimpatriato, perché malato di cataratta e in attesa di

operazione, proprio qui a Bologna (mi mostra anche il foglio della prenotazione), e mi sorprendo

ad ascoltare conservando un atteggiamento composto, ma empatico, comprendo di aver fatto un

enorme passo avanti verso l’elaborazione di una strategia del distacco emotivo e verso il

controllo delle emozioni, il mio più grande problema i primi giorni.

29 giugno 2012 dodicesimo giorno 10.00/16.00

Sono un po’ spaventata, perché Mary non c’è. E neanche l’assistente sociale, non avrò i miei

consueti punti di riferimento, penso. Mi rincuoro pensando che tanto c’è il gruppo di auto-mutuo

aiuto. Mi piace parteciparvi. Invece non vi partecipo. È l’ultimo incontro, e la situazione già

abbastanza accesa (il venerdì come il lunedì è giorno di proroghe e convalide. Giorno di fuoco).

E neanche questo venerdì si smentisce. Parlo molto con i trattenuti uomini delle loro condizioni,

accolgo i loro sfoghi. E., una trattenuta croata, vuole ricercare i numeri del consolato croato a

Roma (devono trovare il suo nome, con cognome che aveva da ragazza, altrimenti con quello

attuale, che è del marito, non riusciranno a trovarla e quindi ad identificarla, quindi

sostanzialmente se non la identificano lei resta al CIE per 18 mesi) Tra l’altro forse aiuterò

l’assistente sociale a trovare informazioni in Francia su questa donna, ove pare abbia fatto

richiesta di protezione internazionale, per art. 18. Affronto con i mediatori in ufficio un discorso

riguardo alla casualità intrinseca al CIE. Ad esempio, molto spesso i trattenuti cinesi non

vengono convalidati per la mancata presenza di un interprete che traduca il decreto di espulsione

in cinese.

Mi sento spesso in colpa per essere italiana al CIE. Rappresento l’outgroup nel mio Paese.

Rappresento i cattivi. Nel corso della giornata, c’è una lite tra J. e la giovanissima F., due ragazze

nigeriane. La lite ha preso avvio a seguito degli insulti di J contro F. Il conflitto viene gestito da

un operatore della Misericordia e da un ispettore di Polizia che cercano di ascoltare cosa dicono

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le ragazze. Io cerco di dividerle e calmarle. Mi sono comportata molto istintivamente e ho

sbagliato, ho agito come se stessi dividendo i miei fratelli durante i nostri innocui litigi

casalinghi. Cerco di capire da H. cosa è accaduto e lei mi dice subito che è tutta colpa di J. che “è

violenta e cattiva con tutti”. La più piccola ha riportato alcune ferite sul volto, credo si sia molto

spaventata, perché a quanto pare J. le avrebbe rivolto accuse e insulti pesanti. Non so che strano

rapporto si sta innescando nella mia mente e nel mio cuore con queste donne. Ma ho sviluppato

un senso di protezione e di affetto nei loro confronti. Le guardo, spaventate, distrutte, molte

hanno la mia età ma mi sembrano più grandi. Ma immature allo stesso tempo.

Credo che penserò tutto il giorno a F. e ad avere paura che le succeda qualcosa.

Alcune donne nigeriane mi hanno dimostrato con abbracci l’approvazione alla mia presenza in

quella situazione di lite. Non mi hanno mandata via, hanno risposto alle mie domande. Poi,

dovevo andare via, e mi sono sentita fortemente in colpa quando ho detto a due di loro: “ciao,

ragazze, devo andare a casa.” Loro mi hanno guardata con un sorriso di invidia buona: “vai vai

bella”, mi hanno detto.

2 luglio 2012 tredicesimo giorno 9.30-15.30

Il tempo è passato in fretta tra richieste degli uomini a proposito di consolati e ambasciate, e la

rabbia di A., un trattenuto albanese, per l’ennesima proroga del trattenimento. Ascolto il racconto

di (non mi ricordo il nome) georgiano, che mi fa vedere come un proiettile gli aveva attraversato

la mano e lo stomaco, durante la guerra con la Russia. Lui da 10 anni è tossicodipendente e versa

in condizioni di salute fisica e morale abbastanza precarie. L’altro hot topic è D., che per alcune

difficoltà burocratiche, non riesce ad ottenere le mercedi dal carcere, per lui importantissime,

perché quando verrà rimpatriato, almeno potrà comprarsi il biglietto dall’aeroporto al suo paese.

É molto preoccupato perché se verrà rimpatriato non potrà fare l’operazione alla cataratta di cui

aveva già una prenotazione per settembre. Tra l’altro in Senegal questa operazione costa

tantissimo. Poi entro nel reparto femminile, chiedo subito a F. come va dopo il litigio con J.

dell’ultima volta e successivamente H. attira la mia attenzione, chiedendomi maggiori

informazioni sul mio ruolo nel CIE. Lei sembra stupita che io lo faccia come volontariato. Mi

chiede di entrare per assisterla mentre taglia le extensions (i trattenuti non possono usare oggetti

taglienti senza la supervisione del mediatore o di un operatore). C., la più adulta tra le donne

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nigeriane mi racconta spontaneamente la sua difficoltà di essere compagna di stanza di R. la

donna ucraina con problemi psichici. Mi racconta anche di vivere una condizione di marginalità

all’interno del CIE, perché tutte le altre donne pensano che sia troppo vecchia (dovrebbe avere

circa 40 anni, con almeno 25 anni di prostituzione in strada alle spalle). C. continua,

raccontandomi i conflitti tra etnie in Nigeria. Mi parla in inglese, sforzandosi di evitare il suo

dialetto, che sa io non avrei compreso. Quando finalmente arriva Mary, la aggiorno su quanto

successo venerdì, e lei comprende come sia necessario un colloquio con tutta la comunità

nigeriana, per capire l’origine della furiosa litigata. Come una mamma con i suoi bambini si

siede e fa mettere tutte le interessate intorno, a parlare di cosa fosse successo. Emerge la forte

conflittualità tra J. e le altre trattenute nigeriane ed emergono anche chiaramente le accuse di J. a

F., (che il venerdì precedente le altre nigeriane avevano omesso di raccontami) riguardanti il

patto voodoo che F. avrebbe stretto prima di partire per l’Italia, oltre che ad altre orribili accuse,

credo, a sfondo religioso-mistico: F. avrebbe dei vermi in pancia, che costituiscono il male che

ha fatto nella sua vita. Come ricordano alcune donne, J. avrebbe inoltre accusato F. di avere

avuto rapporti sessuali con il padre. Quando una delle donne nigeriane, fa presente questa serie

di accuse, J sbotta che era tutto inventato e F. sembra sentirsi male, se ne va in stanza. J. si sente

in minoranza e offesa va via. Si offende anche con Mary. (Comincio ad abituarmi all’accento

non standard utilizzato dalle trattenute, e riconosco alcune espressioni).

Devo approfondire il tema del voodoo, perché ricorre spesso nei racconti allegati alla richiesta di

protezione internazionale delle ragazze nigeriane. Per questo vengono insultate. Anche il

problema del debito con la madame ricorre molto frequentemente. Una cosa che mi ha turbato

molto nel corso degli ultimi giorni sono state alcune frasi di M. (proprio la stessa che mi ha

iniziato a chiamare “piccolo mediatore”) nei miei confronti. In queste frasi, M. mi fa presente

una presunta astinenza dal sesso e dalla vita di strada. La cosa mi turba ma mi incuriosisce allo

stesso tempo, quindi le chiedo di spiegarsi meglio. Mi dice: “tu hai un fidanzato, torni a casa e

sei in compagnia di chi ti ama, io resto qui e nessuno mi ama più”. Non ho avuto lo forza di

replicare, ma prima di andare via ho raccontato a F., l’operatore sociale con competenze

antropologiche del Progetto Sociale, questa vicenda. Lui mi ha detto che in situazioni di reiterate

violenze, si innesca a volte nella mente della donna vittima di sfruttamento sessuale, la

convinzione che quanto vissuto sia giusto. La donna assume per buoni i comportamenti

(frequentemente lascivi e ammiccanti) e gli atteggiamenti messi in atto nella vita di strada, per

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adescare i clienti e li “riutilizza” in tutte le situazioni possibili. E., la donna croata, in un

momento di crollo psicologico urla forte contro tutti. Si rifiuta di parlare con la psicologa. Oggi

viene rilasciata Z. una donna rom alla quale E. è molto legata, condividono la stanza e la lingua.

Forse anche per questo E. ha avuto questo crollo.

12 e 13 luglio 2012, 08.00-13.00

In questi giorni, prima della mia chiusura forzata del volontariato, incontro due donne nigeriane

che mi colpiscono molto. Una si arrabbia tantissimo con me quando scopre che comprendevo

quanto stesse dicendo alla mediatrice nel colloquio iniziale e lo stessi riportando per iscritto.

(facendo tra l’altro un’operazione di routine). Ho sempre agito in questo modo, ai fini delle

comunicazioni sulla scheda anamnestica. Furiosa chiede che vengano cancellate tutte le

informazioni su sua madre.

L’altra donna nigeriana ha invece alle spalle, una bruttissima storia di negazione dell’affido dei

suoi bambini in seguito alla separazione dal suo compagno italiano. Segnalo, avvalendomi del

modulo di invio, entrambe le donne all’assistente sociale.

Poche ore prima di salutare definitivamente la struttura, incontro una ragazza magrebina

scappata ad un matrimonio combinato, che non viene convalidata. È grande la gioia di queste

ragazza. E di tutti i mediatori.

In questi giorni di commiato, è durissimo lasciare i membri dell’équipe e i trattenuti. Mi sento in

colpa di chiudere così l’esperienza, ma rifletto: se avessi comunicato ufficialmente a tutti la mia

dipartita sarebbe stato più doloroso, ho preferito una strada corta, dell’anonimato.