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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
Corso di Laurea Magistrale in Lingua, Società e Comunicazione
Aspetti della mediazione linguistico-culturale. Il caso del Centro di
Identificazione ed Espulsione (C.I.E.) di Bologna
Tesi di laurea in Mediazione Inglese
Relatore: Presentata da:
Prof.ssa METTE RUDVIN Francesca Pesare
Correlatore:
Dott. FRANCO PILATI
Seconda sessione
Anno accademico 2011-2012
INDICE
INTRODUZIONE ............................................................................................ 1
CAPITOLO 1
IMMIGRAZIONE: LEGISLAZIONE E DATI STATISTICI ................... 7
1.1 Immigrazione e normativa di riferimento ...................................................................... 7
1.2 Alcuni dati sull’immigrazione in Italia ......................................................................... 12
CAPITOLO 2
CAPIRE LA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE ................. 16
2.1 Considerazioni preliminari ........................................................................................... 16
2.2 La medizione linguistico-culturale: le coordinate ....................................................... 19 2.3 La pratica della mediazione .......................................................................................... 27
2.4 Problematicità della comunicazione interculturale ...................................................... 32
2.5 Ambiti di esercizio della mediazione linguistico-culturale .......................................... 36
2.6 Profilo professionale del mediatore linguistico-culturale: le competenze.................... 40
2.7 La professione del mediatore: tra precarietà e territorio. Il caso di Bologna ............... 44
CAPITOLO 3
L’ESPERIENZA SUL CAMPO: PER UN’ANALISI EMPIRICA DELLA
MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE. IL C.I.E. DI BOLOGNA
.......................................................................................................................... 53
3.1 Note metodologiche della ricerca ................................................................................. 53
3.2 Il contesto di riferimento .............................................................................................. 59
3.3 Prima fase della ricerca: colloqui e interviste ............................................................... 68
3.4 Seconda fase della ricerca: l’osservazione partecipante .............................................. 72 3.4.1 Lingua e traduzione: riformulazione e registro. Compiti del mediatore e attività di assistenza .............................................................................................................. 83 3.4.2 Tensioni e richieste al di là del ruolo del mediatore ............................................. 86
3.5 Mediazione e conflitti etnici: il caso della Nigeria ....................................................... 91
3.6 Riflessioni sulla lingua, chiave d’accesso al disagio dei trattenuti............................. 103
CONCLUSIONI ........................................................................................... 106
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ............................................................ 112
Rapporti di ricerca ............................................................................................... 114
Tesi di laurea ....................................................................................................... 116
Leggi di riferimento e delibere ............................................................................ 117
Sitografia ............................................................................................................. 120
ALLEGATI:
Questionari sottoposti alle dott.sse Iaboni e Rosolini Mappa dei C.I.E. presenti in Italia Scheda anamnestica Diario di bordo
1
INTRODUZIONE
Il volto sempre più multiculturale che l’Italia sta assumendo sollecita il dibattito sulle
tematiche legate alla nuova cittadinanza, al fine di individuare il ruolo e la posizione degli
stranieri nella scena sociale italiana.
L’aumento del divario economico e sociale, acuito dalla crisi mondiale, il permanere di
aree di grande instabilità dovuto al proliferare di conflitti bellici e a situazioni fortemente
carenziali sul piano dei diritti umani e civili, ha portato ad un intensificarsi negli ultimi
vent’anni dei flussi migratori. L’Europa, per il suo elevato livello di sviluppo economico,
costituisce uno dei maggiori poli di attrazione del mondo, e l’Italia, per la sua posizione
geografica è diventata una “porta d’ingresso” per tutto il continente.1
L’Italia è divenuta Paese di immigrazione solo recentemente, e nel fronteggiare questo
fenomeno, si è mostrata incline ad una gestione abbastanza improvvisata e improntata
principalmente alla regolarizzazione “a tutti i costi”, e all’esclusione, giuridica e fisica dei
migranti irregolari. (cfr. Dal Lago: 1999, 222)
L’interesse dei media in merito all’immigrazione è esponenzialmente cresciuto, dirigendo
l’attenzione dell’opinione pubblica sull’aspetto securitario e la sua messa in discussione in
seguito alle “ondate migratorie”, creando, in questo modo, un clima di allerta. A questo
proposito, si può indicare come il rapporto “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei
media italiani” dell’Università La Sapienza di Roma rilevi che “per oltre i tre quarti delle
volte (76,2%), persone straniere sono presenti nei telegiornali come autori o vittime di
reati” e ancora che “le persone straniere compaiono nei news media, quando protagoniste di
fatti criminali, con maggiore probabilità di quelle italiane (59,7% contro il 46,3% nei tg,
42,9% vs. 35,7% nella stampa) (Morcellini: 2009, 2). Emerge chiaramente come una grossa
fetta della popolazione associ gli stranieri all’immagine di pericolosi criminali che
minacciano il territorio e i confini nazionali. Questo atteggiamento pregiudiziale
contribuisce a corroborare quel processo di spersonalizzazione e privazione dell’identità
1Gruppo di Lavoro Istituzionale per la promozione della Mediazione Interculturale, Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura professionale del mediatore interculturale, 2009, p.1.
2
attuato dalla società moderna nei confronti degli stranieri, descritti da Dal Lago (1999)
come “non-persone”:
sono vivi, conducono un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali (gli italiani che li circondano), ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come “irregolari” o clandestini”, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta. (Dal Lago: 1999, 207)
Nella condizione di limbo “di chi può essere rimosso dal territorio italiano perché
irregolare, clandestino, illegittimo, abusivo” (Ivi, 206) il passo tra la condizione di persona
e di non-persona appare veramente stupefacente. Lo straniero risulta schiavo della sua
nazionalità; sono quindi “le norme relative alla cittadinanza che fanno di qualcuno una
persona, e non viceversa”. (Ivi, 207)
Il sociologo Sayad (2002), sottolinea come le migrazioni vengano osservate da un punto di
vista sostanzialmente etnocentrico, perché si focalizzano sui problemi che le ondate
migratorie provocano nel paese di arrivo, senza tenere conto del fatto che l’immigrazione
sconvolge anche i paesi di partenza. Decidere di abbandonare il proprio paese è sempre un
evento traumatico che coinvolge chi resta e chi parte: un’intera comunità investe tutto
quello che possiede e carica di un mandato economico-familiare il membro della famiglia
più adatto a tale compito. Le migrazioni, afferma Sayad (2002), sono un “fatto sociale
totale”: in esse ogni aspetto dell’assetto economico, sociale, politico, culturale e religioso è
coinvolto.
I paesi che diventano terre d’accoglienza, nel normare la disciplina degli ingressi, però,
continuano a considerare per lo più l’aspetto lavorativo e quello securitario, alimentando di
fatto quell’etnocentrismo di cui sopra.
Ben Jelloun, scrittore marocchino emigrato in Francia, afferma:
L’immigrato, effettivamente è sempre stato percepito come una forza-lavoro, talvolta come un parassita per le società sviluppate. Raramente è stato considerato come un uomo, cioè come un essere con un’anima, con uno spirito, un cuore, delle emozioni, dei desideri e, perché no, anche ricco di fantasia e di senso dell’umorismo. (1999, 7)
3
Il presente contributo, nello specifico, vuole affrontare, attraverso il punto di vista della
mediazione linguistico-culturale, il tema della difficoltà per gli stranieri di essere parte di
una nuova cittadinanza.
Si è scelto di focalizzare l’attenzione sulla mediazione linguistico-culturale come strategia
di accoglienza e integrazione, necessarie alla costruzione di un efficiente dialogo tra
culture. Nel suo complesso definirsi per via teorica, la mediazione linguistico-culturale è
più che altro legata, soprattutto nel preciso contesto applicativo prescelto, il Centro
d’Identificazione ed Espulsione di Bologna, all’esperienza maturata dal mediatore e da
alcune competenze quali l’attitudine all’ascolto e ottime capacità relazionali.
In particolare nel primo capitolo, si stenderà un resoconto delle caratteristiche
dell’immigrazione in Italia, rilevando la peculiarità delle risorse legislative elaborate dal
governo italiano in rapporto alle dinamiche della nuova cittadinanza attiva, con un focus
particolare sulla disciplina dei respingimenti e delle espulsioni, di cui figlio è il Centro
d’Identificazione ed Espulsione (d’ora in poi C.I.E.).
Si affronterà, nel secondo capitolo, la questione della polemica definitoria attorno alla
professione di mediatore/mediatrice, professione ancora molto precaria e poco delineata.
Si osserverà tuttavia, come la regione Emilia-Romagna, in cui il presente lavoro trova la
sua collocazione fisica, e il suo riferimento ideale (in relazione all’esperienza di
volontariato svoltasi presso il C.I.E. di Bologna), sia una delle regioni più avanzate nella
legislazione e messa a punto dei servizi per l’integrazione dei cittadini extra-europei sul
proprio territorio. Grazie ai due rapporti di ricerca che hanno verificato lo stato dei servizi
di mediazione sul territorio regionale e che nel secondo capitolo verranno considerati, si
farà riferimento all’atteggiamento e all’approccio regionali nei confronti dell’immigrazione
e dei servizi per stranieri.
Come suggerito dal rapporto “La mediazione interculturale nei servizi. Il caso della
provincia di Bologna” dell’Osservatorio provinciale delle Immigrazioni (2006, 2):
la mediazione interculturale si inserisce a pieno titolo nel dibattito sulle politiche di integrazione degli immigrati, che ha visto tradizionalmente prevalere in Europa due prospettive contrapposte: • quella assimilazionista alla francese, che si contraddistingue per l’orientamento di tipo universalista, diretto a favorire l’accesso individuale ai diritti di cittadinanza;
4
• quella di stampo più multiculturale, propria dei paesi del nord, Olanda e Svezia in testa ma anche Germania e Gran Bretagna, dove le politiche dei servizi cercano di tenere conto, in misura variabile a seconda dei casi, delle specificità culturali dei gruppi immigrati.
Si proporrà, grazie alla testimonianza della dott.ssa Cinzia Iaboni, interprete presso il
Ministero dell’Interno, e della dott.ssa Paola Rosolini, interprete presso la Prefettura di
Trieste, e del responsabile di AMISS (associazione mediatrici interculturali socio-sanitarie)
una definizione di mediazione in antitesi con l’idea dell’interpretariato.
Si rifletterà dal punto di vista della mediazione linguistico-culturale, su quanto previsto dal
“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero” (decreto legislativo luglio 1998, n. 286 e successive
modifiche): i C.I.E. o Centri di Identificazione ed Espulsione (così denominati a partire dal
2008, prima indicati come C.P.T. – Centri Permanenza Temporanea).
Proprio questa tipologia di struttura, atta alla detenzione amministrativa degli stranieri
sprovvisti dei requisiti per soggiornare legalmente sul territorio nazionale, ha costituito il
punto di osservazione delle dinamiche e dei meccanismi della mediazione linguistico-
culturale in un settore di emergenza.
Nel terzo capitolo, quindi, l’attenzione si focalizzerà sull’attività di sostegno che il
mediatore presta al C.I.E., attraverso specifiche competenze che consentono a questa figura
professionale di accompagnare il trattenuto nell’universo politico, legislativo e sociale
italiano e di prenderlo in carico, assieme alle altre figure professionali operanti al Centro.
L’attività del mediatore e i riferimenti del suo operato presso il C.I.E. sono da ritenersi
strettamente legati alla struttura di Bologna, che come si avrà modo di esplicitare, si è
dotata negli anni di un Progetto Sociale per la riduzione del danno dei trattenuti.
L’esperienza di volontariato presso il C.I.E. di via Mattei a Bologna, costituisce il nodo
focale del presente contributo: a partire dall’attività svolta si è voluta verificare
l’applicabilità dell’impianto teorico che si è andato costruendo in Italia a proposito della
mediazione linguistico-culturale, esposto nel secondo capitolo del presente contributo.
5
Nel corso della trattazione, si dimostrerà a livello empirico il singolare delinearsi e
discostarsi dell’attività di mediazione linguistico-culturale in un “nonluogo”2 come il C.I.E.
Si vedranno le caratteristiche che rendono questa struttura così peculiare e distinta rispetto
ad altre che sembrano partecipare al medesimo genus delle “istituzioni totali” cui
appartiene anche il carcere. (Pilati: 2010a, 1)
Alla luce di questa particolare conformazione relativamente all’organizzazione dei servizi
alla persona, il presente lavoro vuole chiarificare le dinamiche del lavoro multidisciplinare
svolto dal Progetto sociale, una importantissima risorsa per il migrante trattenuto.
Grazie al contributo degli operatori sociali del Progetto Sociale si valuterà inoltre l’impatto
psicosociale del lavoro al C.I.E. Si affronterà un’analisi delle problematiche e delle
strategie alle quali un mediatore linguistico-culturale deve fare riferimento nello
svolgimento del suo lavoro.
Partendo dal concetto “classico” di mediazione linguistico-culturale come facilitazione
della comunicazione, si esporrà nel corso del terzo capitolo, come nel contesto applicativo
di riferimento, i topic classici dell’attività di mediazione decadano e seguano logiche
diverse, in relazione a specifici fattori legati al contesto.
Grazie al confronto con tutte le figure professionali del Progetto Sociale, si vuole fornire
una descrizione completa del lavoro di presa in carico del migrante portato avanti
dall’équipe multidisciplinare di cui responsabile è il dott. Pilati, cercando di fornire proprio
grazie a questo costante confronto, un quadro che tenga conto per quanto possibile, delle
variabili psicosociali del contesto C.I.E., registrate direttamente durante i mesi di
volontariato.
Si noti, inoltre, che la particolare vicinanza, durante i mesi di volontariato, al gruppo delle
donne nigeriane trattenute (dovuto all’affiancamento alla mediatrice nigeriana) ha
consentito di esplorare le particolarità dell’universo di provenienza di queste donne, e di
addentrarsi nell’atrocità dei racconti sulla tratta, di cui la stragrande maggioranza di
nigeriane trattenute sono protagoniste, con riferimento alle particolari dinamiche di
mediazione che questa comunità richiede. 2Il concetto si riferisce ad Augé: 1992, trad.it 2009. L’ortografia “nonluogo” (dal francese “non-lieux”) rispecchia la scelta del traduttore dell’edizione italiana; egli spiega che l’utilizzo del termine senza trattino, risponde alla resistenza semantica della lingua italiana alle parole composte.
6
Infine, a supporto del presente contributo, tra gli allegati si è pensato di inserire alcuni
documenti chiave rispetto agli argomenti trattati. Si troveranno infatti i questionari
sottoposti alle dott.sse Iaboni e Rosolini, utili nella stesura della prima parte del contributo,
per la riflessione sulle differenze tra mediazione linguistico-culturale e interpretariato. Si
troveranno inoltre una mappa dei C.I.E presenti sul territorio nazionale, un esemplare della
scheda anamnestica impiegata durante i colloqui con i trattenuti dal Progetto Sociale
(l’utilizzo della scheda anamnestica sarà approfondito e spiegato nel corso del terzo
capitolo), e infine si correda il presente contributo del diario di bordo, tenuto nel corso dei
mesi di volontariato, come strumento di ricerca, filtro e analisi personale3.
3Per ragioni di tutela della privacy si fa presente che i nomi impiegati per riferirsi ai mediatori sono pseudonimi, e che per i trattenuti e le trattenute, si è preferito indicare l’iniziale appuntata del nome di battesimo.
7
CAPITOLO 1
IMMIGRAZIONE: LEGISLAZIONE E DATI STATISTICI
“Ma voi davvero pensate che è possibile fermare una marea umana di questo tipo?
Pensate davvero che riuscirete a frenarci?” L’urlo gli uscì quasi soffocato,
un’imprecazione gridata dal fondo dei polmoni. […] Si chiamava Dauda ed era appena
stato rimpatriato dalla Spagna. Era di nuovo qui, a Mbour, nel luogo in cui era partito (Liberti: 2011, 15)
1.1 IMMIGRAZIONE E NORMATIVA DI RIFERIMENTO4
L’Italia è stata significativamente toccata dal fenomeno migratorio a partire dagli anni
ottanta, ma solo nel 1998 si sono compiuti tentativi legislativi adeguati in materia di
immigrazione.
L’Italia e l’Europa hanno sempre concepito il fenomeno dell’immigrazione come
emergenza e come problema per la tutela dell’ordine pubblico.
Centrale è stato l’accordo Schengen, stipulato il 14 giugno 1985 tra Germania, Francia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo, con il quale i cinque Stati contraenti si sono impegnati a
“eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne” (art.
17).
L’accordo ha disciplinato la materia dei visti con l'istituzione di un visto uniforme che
consente, per una durata massima di 90 giorni, l'accesso nei territori di tutti i paesi
contraenti. Tale visto viene rilasciato allo straniero che si presenti alle frontiere di uno degli
Stati coinvolti nell’accordo, con un passaporto valido o un documento di viaggio
equipollente e con disponibilità di mezzi finanziari sufficienti per il periodo di soggiorno e
4Per la stesura di questo paragrafo si fa riferimento a O. Di Mauro, “I centri di permanenza temporanea per immigrati. Aspetti legali e funzionali” in “L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”, Università di Firenze. Consultabile su: http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/migranti/dimauro/index.htm
8
il ritorno in patria. Per i visti di lunga durata invece, i paesi Schengen conservano la
sovranità, in base ai rispettivi ordinamenti.
Una novità importante prevista dall’accordo, ai fini della sicurezza, è quella che vede i
contraenti impegnarsi a realizzare uno schedario informatizzato, istituito e disciplinato dal
IV Titolo della Convenzione di Applicazione di Schengen, denominato “Sistema di
Informazione Schengen” (SIS), destinato a facilitare i controlli alle frontiere esterne e le
nuove forme di cooperazione interna. All’art. 92 Titolo IV si legge:
1. Le Parti contraenti istituiscono e gestiscono un sistema comune d`informazione in appresso denominato Sistema d' Informazione Schengen, costituito da una sezione nazionale presso ciascuna Parte contraente e da un'unità di supporto tecnico. Il Sistema d'Informazione Schengen consente alle autorità designate dalle Parti contraenti, per mezzo di una procedura d'interrogazione automatizzata, di disporre di segnalazioni di persone e di oggetti, in occasione di controlli alle frontiere, di verifiche e di altri controlli di polizia e doganali effettuati all'interno del paese conformemente alla diritto nazionale nonché, per la sola categoria di segnalazioni di cui all'articolo 96, ai fini della procedura di rilascio di visti, del rilascio dei documenti di soggiorno e dell'amministrazione degli stranieri in applicazione delle disposizioni contenute nella presente Convenzione in materia di circolazione delle persone.
Nelle banche dati del SIS possono essere altresì contenute segnalazioni di persone ricercate
nel quadro di procedimenti giudiziari, dal momento che la presenza di uno straniero può
costituire “una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale” (art. 96).
Nonostante il sistema Schengen, la prima vera e propria legge italiana ad occuparsi di
immigrazione, risale solo al 1986 (legge n.943). Prima di allora la normativa vigente si
occupava degli stranieri in modo generico con l’obiettivo precipuo di tutelare l'ordine
pubblico, dunque in maniera complessivamente insufficiente rispetto ai nuovi flussi.
Successivamente, nel 1990, venne approvata la legge n.39, cosiddetta legge Martelli con lo
scopo di regolare più organicamente l’immigrazione e ridefinire lo status di rifugiato.
Conformemente agli Accordi di Schengen che impongono maggiori controlli alle frontiere
esterne e adeguate misure per contrastare l'immigrazione irregolare, nel 1998, invece, con il
T.U. (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 o Testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) in cui confluisce la
precedente legge Turco-Napolitano (la legge 6 marzo 1998 n. 40 che ha istituito i Centri di
Permanenza Temporanea in seguito Centri d’Identificazione ed Espulsione con il decreto
9
legge n. 92 del 23 maggio 2008 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi
convertita in legge 125/20085) si sanciscono misure per prevenire l'ingresso irregolare e per
reprimere la presenza ed il lavoro irregolari, ridisegnando tutta la materia delle espulsioni e
del respingimento.
In breve, nel 1998, quando viene approvata la Turco-Napolitano, lanciata dal governo Prodi
come il primo provvedimento concernente gli aspetti fondamentali della questione
immigrazione, si interviene soprattutto per colmare le lacune della precedente legislazione.
La legge Turco-Napolitano regola e modifica tutto l’assetto della politica sull’immigrazione
e tra i punti principali se ne elencano di seguito:
la regolazione dei flussi sulla base di quote programmate annualmente;
il contrasto dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento criminale di essa
oltre che alla previsione di maggiori controlli alle frontiere;
la definizione dei diritti e dei doveri dello straniero (vengono inoltre pensati percorsi
di integrazione per gli immigrati regolarmente soggiornanti in Italia);
la regolamentazione del permesso di soggiorno in base al contratto di lavoro
stagionale, subordinato (a tempo determinato o indeterminato) o autonomo;
la disciplina delle espulsioni e del respingimento alle frontiere con l’istituzione del
fermo amministrativo per i casi non immediatamente espellibili, e l’attenzione alla
costruzione di rapporti con i Paesi di origine e di transito per scoraggiare le
emigrazioni e facilitare i rimpatri.
L’urgenza con cui l’Italia e l’Europa affrontano il tema dell’immigrazione e la scelta della
politica del respingimento come unica risposta ai nuovi flussi migratori emerge
chiaramente dall’art. 3 del T.U. dove si fa riferimento specifico alla predisposizione ogni
tre anni “salva la necessità di un termine più breve [di] un documento programmatico
5Nel decreto-legge del 23 maggio 2008, n. 92, all’art. 9 si legge: “Le parole: “centro di permanenza temporanea” ovvero: “centro di permanenza temporanea ed assistenza” sono sostituite, in generale, in tutte le disposizioni di legge o di regolamento, dalle seguenti: “centro di identificazione ed espulsione” quale nuova denominazione delle medesime strutture”.
10
relativo alla politica dell'immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, che è
approvato dal Governo e trasmesso al Parlamento”.
Come accennato, il terzo capitolo del presente lavoro tratterà la realtà del C.I.E., a tal
proposito sembra dunque opportuno descrivere i punti salienti del funzionamento della
politica delle espulsioni e dei respingimenti in Italia.
Oggi si può procedere nei confronti di un immigrato irregolare in due modi: con il
respingimento o con l’espulsione. Il respingimento viene eseguito direttamente alla
frontiera impedendo l’ingresso dello straniero che non è in possesso degli adeguati requisiti
previsti dalla legge e che si è sottratto ai controlli di frontiera o che è stato
temporaneamente ammesso nel territorio nazionale per necessità di pubblico soccorso.
L’espulsione riguarda invece chi viene trovato sul territorio nazionale senza i suddetti
requisiti.
Con il termine espulsione si indicano provvedimenti diversi per presupposti e per natura. In
particolare il T.U. prevede tre diversi tipi di espulsione, di cui il primo di competenza
dell'autorità amministrativa (Ministro dell'Interno o prefetto) e gli altri dell'autorità
giudiziaria:
1. l'espulsione amministrativa (disciplinata dall’art. 11 della legge 40/1998, dall’art. 13
del T.U., e dall’art. 12 della legge 189/2002). In questo caso viene prevista, per lo
straniero che entri illegalmente nel territorio nazionale o vi soggiorni illegalmente,
l’espulsione amministrativa (per i reati di clandestinità e di soggiorno illegale).
L'espulsione è disposta dal prefetto con un decreto comunicato all'interessato
insieme all'indicazione delle modalità di impugnazione e a una traduzione in una
lingua da lui conosciuta o, laddove non sia possibile, in lingua francese, inglese o
spagnola. Il decreto di espulsione, inoltre, deve sempre riportare le motivazioni;
2. l'espulsione a titolo di misura di sicurezza (disciplinata dall’ art. 13 della legge
40/1998, dall’art. 15 del T.U., e dall’art. 14 della legge 189/2002). Viene prevista la
possibilità che il giudice, in casi di pericolosità sociale dello straniero, nel caso in cui
per esempio abbia commesso un omicidio o reati con fini terroristici, decreti
l’espulsione dello straniero al termine della pena;
11
3. l'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione (disciplinata dall’art. 14
della legge 40/1998, dall’art. 16 del T.U. e dall’art. 15 della legge 189/2002). Si
tratta della possibilità che un giudice possa sostituire la pena con l’espulsione dal
territorio nazionale, con esplicito divieto per lo straniero di farvi ritorno prima dello
scadere di cinque anni.
In questa sede, considerato l’interesse per la realtà dei Centri di Identificazione ed
Espulsione, si focalizzerà l’attenzione sulla prima modalità, per la quale lo straniero viene
accolto nel C.I.E. L'art. 13 del T.U. prevede quattro diverse ipotesi di espulsione
amministrativa:
1. espulsione amministrativa nei confronti dello straniero per motivi di ordine
pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, c.1);
2. espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero
“clandestino” che, entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di
frontiera, non è stato respinto (art. 13 c. 2a);
3. espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero che si
trova sul territorio privo del permesso di soggiorno (espulsione per soggiorno
irregolare, art. 13 c. 2b)6;
4. espulsione amministrativa disposta dal prefetto, per sospetta pericolosità sociale
dello straniero (art.13, c. 2c).
È molto importante in questa fase preliminare inquadrare la tematica della
regolamentazione delle espulsioni amministrative e le modifiche che ripetutamente hanno
interessato i tempi di trattenimento nei C.I.E., poiché la questione del tempo, o periodo di
trattenimento, sono risultati fatti chiave all’interno dei percorsi del singolo trattenuto. Tali
fattori hanno una ricaduta profondamente negativa sull’individuo innanzitutto, e
relativamente all’obiettivo del presente contributo, ricadono in maniera sostanziale sulle
dinamiche della mediazione linguistico-culturale, che proprio in determinate condizioni di
6Si rileva da quanto emerso dai racconti degli stranieri trattenuti presso il C.I.E. di Bologna, come questa ipotesi di espulsione sia la più diffusa.
12
allungamento dei tempi e di casualità diventa, in sinergia con altre figure professionali (cfr.
assistente sociale e psicologi) un’importantissima ancora di salvezza, al di là del mero
supporto linguistico.
Come si mostrerà nel terzo capitolo, la tematica del tempo è certamente un’aggravante nelle
condizioni complessivamente alienanti che lo straniero trattenuto in una struttura come il
C.I.E. sperimenta.
Si è infatti passati, da venti giorni, rinnovabili al massimo per altri dieci (art. 12 c. 5 legge
Turco-Napolitano, poi art. 14 T.U.) per il trattenimento nel centro di permanenza
temporanea:
Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. (art. 14 T.U. c. 1)
Alla successiva legge Bossi Fini (189/2002) che con la modifica del c. 5 dell’articolo 14 del
T.U ha previsto tempi di trattenimento pari a trenta giorni rinnovabili per altri trenta.
In seguito nel 2009, la legge 94 del 15 luglio, “Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica”, conosciuta anche sotto il nome di “pacchetto sicurezza” (legge che tra l’altro
introduce il reato di immigrazione clandestina), estende il trattenimento a centottanta giorni
complessivi.
Infine, il decreto legislativo n. 89 del 23 giugno 2011 porta a diciotto mesi il periodo di
trattenimento massimo per lo straniero (capo II, art. 3).
1.2 ALCUNI DATI SULL’IMMAGRAZIONE IN ITALIA
Sebbene sia opinione comune tra la popolazione italiana che siano i migranti che accedono
via mare7 a rappresentare l’ammontare più significativo della popolazione straniera
7Il rapporto del Ministero dell’Interno sulla criminalità in Italia riporta che i migranti giunti via mare sono non più del 15% del totale della presenza straniera in Italia. Il rapporto suggerisce che le ragioni di questa
13
irregolare presente sul territorio italiano, sono invece gli overstayers8 a essere più numerosi,
vittime soprattutto al sud del Paese, dei meccanismi illegali del caporalato9.
All’inizio del 2011, i cittadini stranieri residenti in Italia erano 4.570.317, pari a 330.000 in
più rispetto al 2010, incidendo sul totale della popolazione italiana per il 7,5%. Oltre la
metà dell’intera presenza straniera era rappresentata dai gruppi nazionali romeno (21,2%),
albanese (10,6%), marocchino (9,9%), cinese (4,6%) e ucraino (4,4%)10
Il numero di persone approdate sulle coste italiane (migrant smuggling11) è salito da 4.406
nel 2010 a 42.807 nel mese di agosto 201112. Le motivazioni che inducono le persone ad
adottare canali illegali per uscire dal proprio paese sono svariate: grave instabilità politico-
sociale, conflitti armati, violazione dei diritti umani, spiccata disparità economica tra le
classi sociali, ritardi nel processo di sviluppo economico-sociale, disoccupazione, estrema
povertà, difficoltà nell’ottenimento del visto.
Una persona che decide di emigrare, lo fa con un preciso progetto migratorio, che se
disatteso comporta il senso di tradimento del singolo rispetto alla famiglia d’origine, che ha
investito soldi, affetti e speranze. È questo il dramma che sperimenta ogni migrante nel
nostro Paese che per ragioni troppo spesso casuali e fuori controllo diventa irregolare e
quindi, secondo la logica della “penalizzazione dello straniero” (Dal Lago: 1999, 33)
poiché clandestino, un delinquente.
Per effetto di una legislazione sull’immigrazione molto restrittiva, gli stranieri vengono
frequentemente trattati come degli invisibili o non-persone (Dal Lago: 1999, 207) nel senso
popolarità risiedono nella maggiore visibilità che la modalità d’ingresso via mare detiene. (Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, Prevenzione, Contrasto, p. 334). Consultabile su: http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf 8Coloro che entrano in Italia con visto turistico e che continuano a permanere sul territorio anche dopo la sua scadenza. 9Con il termine “caporalato” si intende “un fenomeno che intreccia le fila della criminalità organizzata con quelle dello sfruttamento dell'attività lavorativa e che si annida soprattutto nel settore agricolo ed edilizio. Sono moltissime le vittime del ricatto dei “caporali”, intermediari illegali che in cambio di una percentuale sul compenso pattuito offrono un lavoro irregolare, sottopagato, insicuro, degradante e privo di qualsiasi forma di tutela”. (“Il caporalato diverrà reato in Italia”, portale Lavoro dignitoso. Consultabile su: http://www.lavorodignitoso.org/acm-on-line/Home/News/articolo18012595.html). 10Dati Caritas/migrantes (2011) in Mirisola: 2011, 20. 11Si intende il contrabbando di migranti che avviene per mezzo di organizzazioni che, direttamente o indirettamente, ne traggono un beneficio finanziario o materiale. 12Dati Caritas/migrantes (2011) in Mirisola: 2011, 24.
14
che per decisioni che non dipendono da loro stessi, all’improvviso restano impigliati nella
rete dello stato diventando individui invisibili senza dignità.
In questo scenario globale, la regione Emilia-Romagna si classifica al primo posto per
incidenza di stranieri sul territorio regionale. Dal 4% del 2003 si è passati all’11,3% del
201113.
Ambrosini (2005, 48) individua alcuni fattori chiave nella descrizione del fenomeno
immigrazione in Italia: la netta contrapposizione che si è andata inasprendo tra cittadini
comunitari e cittadini non comunitari; l’incremento dei flussi per ricongiungimenti familiari
o per asilo politico; il carattere via via più stanziale delle migrazioni; l’aggravarsi
dell’immigrazione irregolare. I provvedimenti di sanatoria hanno poi infuso nei migranti
irregolari la speranza di essere regolarizzati.
Si prendano ad esempio i modelli di inclusione della popolazione immigrata (2005, 206-
213):
temporaneo: esemplificato dalla Germania, vede l’immigrazione come “fenomeno
contingente”. Riguarda per lo più lavoratori chiamati a rispondere a specifiche
esigenze di mercato. Non ci si aspetta che essi avviino processi stanziali, perché
saranno sostituiti da altri. Si parla infatti di Gastarbaiter (lavoratori ospiti), questo
modello è riconducibile ad una concezione chiusa, etnica che vede la difficoltà dei
migranti di ottenere la cittadinanza, anche dopo molti anni di permanenza;
assimilativo: esemplificato dal modello americano del passato, ma anche quello
francese. L’orientamento di questo modello si indirizza verso l’omologazione, i
nuovi arrivati quindi sono accettati purché aderiscano alla cultura e alle regole dello
Stato. Questo modello guarda ai migranti come individui sprovvisti di radici
proprie, e per poter averne devono accettare quelle dello Stato in cui hanno scelto
di migrare;
pluralista: può essere distinto in due varianti, la prima, del laissez-faire,
riconducibile all’esperienza degli Stati Uniti degli ultimi decenni, ove le differenze
culturali sono tollerate ma non favorite da un impegno diretto dello stato. La
13Dati consultabili su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/news/immigrazione-in-emilia-romagna-un-fenomeno-in-stabilizzazione-2.
15
seconda variante invece è attenta a politiche multiculturali esplicite, e vede i
componenti del gruppo di maggioranza disposti ad accettare le differenze (cfr. caso
Canada, Svezia, Olanda). Quest’ultima variante propone un’idea della cittadinanza
in senso multiculturale e si oppone al rigido etnocentrismo del modello
assimilativo. Non mancano, nemmeno in questo modello però, elementi discutibili:
l’enfasi sulla cultura d’origine attraverso programmi educativi a favore del
mantenimento della lingua e della cultura del paese d’origine, rischia di ghettizzare
le minoranze e non di integrarle.
Alla luce della legislazione elaborata in questi anni, vissuti a livello mediatico in stato di
costante “emergenza sbarchi”14, il modello italiano, come indicato da Ambrosini (2005,
212) è un modello “implicito” di inclusione, caratterizzato da una scarsa regolazione
normativa. Gli interventi dello Stato si rimarcano per lo più attraverso sanatorie anziché
regolamentazioni ad hoc; vi è una ricezione contrastata da parte della società ospitante, con
aperture per ragioni umanitarie e chiusure per i problemi legati alla sicurezza pubblica;
un’influenza rilevante degli attori locali nelle iniziative di accoglienza, e nascita di reti di
mutuo aiuto tra connazionali.
Da questo si desume che il legislatore italiano sia riluttante all’ammissione di nuovi
immigrati ma al contempo i meccanismi delle sanatorie grazie alla quale gli irregolari
hanno trovato lavoro, rendono ambiguo l’atteggiamento delle istituzioni.
14Si fa riferimento a due tipi di immigrazione, una costruita a livello mediatico che trasmette al cittadino e allo spettatore una situazione emergenziale e di pericolo costante riguardo all’emergenza sbarchi (cfr Dal Lago: 1999, 29). Tale condizione viene in realtà smentita dai dati, che in questa sede sono stati forniti, riferiti ad un secondo tipo di immigrazione, quella reale, “fatta” dai cosiddetti overstayers e come si avrà modo di mostrare nel terzo capitolo, “fatta” di persone che arrivano regolarmente e poi spesso in maniera assolutamente casuale perdono il loro diritto di essere persone giuridiche nello Stato. (cfr. Dal Lago: 1999, 207 e abstract della tesi di laurea di F.G.Farina, “Un giornale interculturale. Il caso de “Il Tamburo” di Bologna” a.a. 2006/2007. Relatore: prof.ssa P.Lalli. consultabile su: http://www2.compass.unibo.it/Materiali/Osservatorio/Tesi/Tesi_Farina.pdf)
16
CAPITOLO 2
CAPIRE LA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE
I cittadini europei e tutti coloro che vivono nell’UE in modo temporaneo o permanente dovrebbero avere l’opportunità di
partecipare al dialogo interculturale e realizzarsi pienamente in una società diversa, pluralista, solidale e dinamica, non soltanto in
Europa, ma in tutto il mondo. Decisione n. 1983/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006
relativa all'anno europeo del dialogo interculturale (2008).
2. 1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Le sempre più frequenti migrazioni verso il Nord del mondo, hanno portato ad un
riassestamento dei volti delle città europee in senso fortemente multiculturale. Ciò ha reso
urgente il dibattito sulla convivenza tra culture differenti, alla luce di spiacevoli ma
purtroppo frequenti episodi di intolleranza e xenofobia.
Nel caso dell’Italia la forte presenza di stranieri sul territorio nazionale è una novità legata
alla giovane esperienza italiana come meta di immigrazione (prima paese di esclusiva
emigrazione), secondo le dinamiche precedentemente esposte.
Il discorso sulla mediazione linguistico-culturale, che da vent’anni anima il dibattito sulle
nuove professioni nel sociale in Italia, è un discorso purtroppo ancora dalle tinte fosche per
tanti aspetti: l’esercizio della professione di mediatore linguistico-culturale è ad oggi, salvo
alcuni virtuosi casi (cfr. lo sforzo normativo in tal senso della regione Emilia-Romagna)
privo di tutele e garanzie certe. La precarietà della professione si unisce alla difficoltà del
lavoro stesso, soprattutto qualora venga assimilato ad una pura attività di traduzione e per
questo indegno di avere una propria autonomia. La mediazione linguistico-culturale è, al
contrario, una complessa attività dai fitti rimandi alla multiculturalità e alla risoluzione del
conflitto che la diversità culturale può creare.
17
In primo luogo, è opportuno spendere alcune parole sull’eterogeneità delle definizioni di
questa professione. Come suggerisce Favaro (Favaro e Fumagalli: 2004, 37), a seconda
delle funzioni e dallo spazio accreditati al mediatore, dal punto di vista linguistico si
possono registrare focus differenti a partire dal nome con il quale si designa questa figura
professionale, o meglio dall’aggettivazione che accompagna il termine. Per le funzioni di
ponte si utilizzano spesso i termini di “mediatore linguistico-culturale”, “mediatore
culturale”, “mediatore interculturale”; per quelle difensive e di portavoce dei gruppi
minoritari si usano: “ mediatore di comunità”, “mediatore etnico” ecc.; per le funzioni di
facilitazione linguistica e di traduzione si parla di: “mediatore linguistico”, “interprete
sociale”. Le diverse funzioni sono spesso compresenti (Ivi, 38), ed è per questo che è
difficile distinguere in maniera netta i momenti di traduzione linguistica, di “difesa”
dell’utente, o di interpretazione culturale. Soprattutto in realtà piccole, è molto facile che
alla fine il mediatore diventi un operatore “tuttofare”. (Ibidem)
Si considereranno ora le definizioni di mediatore culturale e mediatore linguistico-culturale,
che rispetto alla funzione di ponte, che entrambe le diciture realizzano, si riflettono negli
impieghi che si sono osservati da vicino, attraverso il volontariato svolto al C.I.E. di
Bologna.
Ceccatelli Guerrieri (2003) sottolinea che sebbene nella pratica non vi siano differenze
evidenti tra la dicitura “mediazione linguistico-culturale” e “mediazione culturale”, “è
casomai nel dibattito che afferisce alla definizione che possiamo trovare qualche
sostanziale divergenza di opinione sul significato dell’attributo semplice o doppio unito al
sostantivo” (Ivi, 55). Come afferma Ceccatelli Gurrieri (Ibidem), gli operatori e gli studiosi
che preferiscono la definizione di “mediatore linguistico-culturale” privilegiano una
delimitazione chiara e circoscritta delle funzioni; questa prima definizione girerebbe intono
alla dimensione comunicativa, considerata prioritaria, in un significato di comprensione
reciproca chiara e immediata tra istituzioni e migranti. La seconda definizione, più breve,
vedrebbe l’accorpamento dell’aspetto linguistico entro quello culturale, e presenterebbe un
focus sulla necessità di lavorare sulla diversità culturale.
18
Si aggiunge inoltre il punto di vista della regione Emilia-Romagna che insiste sulla
definizione di “mediazione interculturale”, per sottolineare l’ipotesi di scambio e
reciprocità che il confronto tra culture implica. (Osservatorio delle migrazioni: 2006, 2)
Inoltre le definizione di mediazione culturale e interculturale suggerisce un immediato
rimando al fatto culturale, tenendo in conto la questione linguistica in un’accezione
nettamente diversa dalle funzioni del traduttore/interprete. (Ceccatelli Gurrieri: 2003, 55)
Alla luce di quanto osservato nei mesi di volontariato presso il C.I.E., si ritiene opportuno
privilegiare la definizione di mediazione linguistico-culturale proposta da Ceccatelli
Gurrieri (2003) relativa alla dimensione comunicativa, senza escludere ovviamente, il
comparto culturale. L’esigenza comunicativa dei trattenuti, e delle istituzioni italiane,
richiede inesorabilmente ai mediatori una buona comunicazione, alla quale si unisce la
necessità di veicolare la complessità dei codici culturali dei trattenuti, e renderli meno
collusivi con le istituzioni italiane.
Nel corso della trattazione si mostreranno alcuni lineamenti della mediazione e la difficoltà
di elaborarli in una “teoria della mediazione”. Piuttosto che una teoria, possono, infatti,
esistere temi da discutere, secondo quanto elaborato in questi anni di “sperimentazione” del
dispositivo di mediazione.
Ed effettivamente, come sostengono le mediatrici e i mediatori del Progetto Sociale (da
tempo impegnati nella mediazione linguistico-culturale e nei servizi sociali del territorio),
conosciuti al C.I.E., la mediazione linguistico-culturale è un’attività così fortemente legata
alla pratica, che per esercitarla correttamente occorre fare tanta esperienza sul campo.
Dato l’ambito fortemente pratico che si andrà a sviluppare, orientato verso i temi della
salute, sicurezza, criminalità, giustizia, si ritiene che la mediazione linguistico-culturale
riguardi per lo più modelli di intervento, talvolta soggettivi (visto il vago inquadramento
professionale dei mediatori) su cui occorre ragionare in termini di efficacia.
19
2.2 LA MEDIZIONE LINGUISTICO-CULTURALE: LE COORDINATE
La mediazione linguistico-culturale si fonda sui concetti di cultura e diversità, e sulla
necessità della comunicazione tra cultura ospite e cultura ospitante in un’ottica di scambio
costruttivo che tuteli entrambe le parti.
A livello antropologico, il primo concetto organico di cultura si deve a Tylor (1871;
trad.it.1983, in Villano e Riccio: 2006, 20) che afferma: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo
ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita
dall’uomo come membro di una società”. Inoltre, il concetto di cultura deve essere
necessariamente stratificato (Garzone e Rudvin: 2004, 55)
Si parla infatti, di un “sistema” di cultura a cerchi concentrici (Hall: in Garzone e Rudvin:
2004, 55) comprendente un outer layer, contenente il livello di cultura esplicita (cibo, casa,
vestiti, comportamenti); un middle layer che comprende le norme e i valori che una
comunità detiene, e un inner layer, contenente la cultura implicita, fatta di basic
assumptions, approcci automatici ai quali non si pensa. È proprio il livello contenente la
cultura implicita ad essere il più complesso da comprendere e allo stesso tempo la chiave
vincente per accedere ad un interazione interculturale. (Ibidem)
Le differenze culturali “non esistono in vitro” (Quassoli in Villano e Riccio: 2006, 11), ma
si disvelano nelle relazioni interpersonali, e l’inserimento in una società “altra” rispetto alla
propria, racchiude in sé la problematicità dello scontro tra un Sé e un Altro che
appartengono a due universi di provenienza molto distanti.
Ricorrere ad un mediatore culturale, che conosca come attivare la conoscenza e la
condivisione di codici culturali estranei al paese d’arrivo e che sappia come esplicitarli,
senza reificarli o semplificarli è di fondamentale importanza in contesti difficili e delicati
come la salute, la giustizia, l’educazione e in generale nell’attività di mediazione.
Secondo il rapporto Cospe (in Villano e Riccio: 2008, 12): “La mediazione è […]
finalizzata a facilitare la comunicazione e la comprensione, sia linguistica che culturale, fra
l’utente di etnia minoritaria (e, per estensione, una comunità di etnia minoritaria) e
20
l’operatore di un servizio pubblico, in contesto di poteri impari, rispettando i diritti di tutte
e due le parti”.
Con questa definizione si vuole sottolineare soprattutto la funzione della mediazione, che
facilita la comunicazione in un contesto che viene descritto asimmetrico. Il mancato
padroneggiamento della lingua e dei codici culturali del paese d’arrivo significa, infatti, per
lo straniero che si trova davanti ad un servizio o in un qualsiasi ambito della sua nuova vita
all’estero, essere escluso e vivere l’interscambio comunicativo come un rapporto di potere a
favore del rappresentante della cultura del Paese ospitante.
Sembra interessante la prospettiva di Alessandrini, già consigliere del CNEL (Consiglio
Nazionale Economia e Lavoro) e vicepresidente della Consulta nazionale per
l'immigrazione e dell'organismo nazionale di coordinamento delle politiche d'integrazione,
esposta in un rapporto dedicato all’indagine sulla mediazione culturale in Italia.
Alessandrini afferma:
Il mediatore culturale non ha un ruolo di rappresentanza degli stranieri, non si sostituisce né a chi deve erogare un servizio, né a chi ne deve fruire, non è un semplice traduttore o interprete. È, invece, un operatore culturale che favorisce con l'autorevolezza della competenza e dell'imparzialità la reciproca conoscenza e comprensione, una relazione positiva tra soggetti di culture diverse per evitare conflitti e discriminazioni, e nello stesso tempo è un agente di cambiamento. (CISP-UNIMED: 2004, 54)
Dunque, facilitare la comunicazione non significa tradurre o interpretare e nemmeno
rappresentare o prendere le parti di uno degli attori della comunicazione, si tratta di agire
come operatori culturali per favorire relazioni proficue e antidiscriminatorie.
L’attività di mediazione resta comunque un ambito fortemente precario e scarsamente
tutelato: con la legge 286/98 o Testo unico sull’immigrazione, all’art. 42 in termini di
“Disposizioni sull'integrazione sociale, sulle discriminazioni e istituzione del fondo per le
politiche migratorie” viene proposta la possibilità e l’utilità della mediazione linguistico-
culturale:
la realizzazione di convenzioni con associazioni […] per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi.
21
Nel T.U. sull’immigrazione, si citano, senza specificarne i profili ed eventuali differenze,
sia figure di “mediatori culturali” che di “mediatori interculturali”. In particolare si parla di
mediatori culturali all’articolo 38, c. 7, con riferimento all’integrazione scolastica degli
alunni stranieri e alla facilitazione della comunicazione con le famiglie. I mediatori
interculturali figurano all’art. 42, tra le misure di integrazione sociale.
Anche il Decreto del Presidente della Repubblica n. 394/99 “Regolamento recante norme di
attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero” adotta la denominazione “mediatore culturale
qualificato” e ne indica come compiti, l'accoglienza, la comunicazione con le famiglie e le
azioni a tutela dalla lingua di origine (art. 45 c. 5 e 6): “Il collegio docenti formula proposte
in ordine ai criteri e alle modalità per la comunicazione tra scuola e famiglia degli alunni
stranieri. Ove necessario, anche attraverso intese con l'ente locale, l'istituzione scolastica si
avvale dell'opera di mediatori culturali qualificati”.
È comunque evidente, come un mediatore, possa assurgere al ruolo di livellatore delle
differenze, ponte tra sponde lontane: in sostanza una figura professionale indispensabile nei
nuovi ambienti multiculturali.
Come inoltre sostenuto da Belpiede (2002, 24), nell’incontro tra popolazioni di lingua e
costumi diversi, la mediazione culturale serve a facilitare la comunicazione, ma anche a
sostenere il medesimo livello di accessibilità ai servizi tra autoctoni e stranieri, sostenere il
processo di integrazione e a favorire lo scambio.
Perché ci sia attività di mediazione, continua Belpiede (Ivi, 25) è opportuna la presenza del
“terzo” che sia imparziale e assicuri la livellazione e lo smussamento dell’asimmetria del
potere nel dialogo interculturale. In quest’ottica la mediazione è un’attività utile non solo
alla persona straniera, ma anche a chi lavora nelle istituzioni perché possa avviare il
riconoscimento dell’ Altro positivamente.
Le funzioni maggiormente richieste, come ricorda Belpiede (Ivi, 29-31) riguardano
l’interpretariato linguistico-culturale, intendendo questa funzione nella sua accezione più
ampia (traduzione, decodifica culturale, facilitazione della comunicazione e della relazione)
e, inoltre, funzioni d’informazione (diritti e doveri, normative di riferimento, confronto su
22
tematiche della differenza tra culture) all’utente straniero, favorendo la conoscenza
reciproca tra nativi e migranti.
Queste funzioni, come si verificherà in seguito, sono fondamentali per promuovere
interventi sociali ad hoc per la popolazione immigrata.
L’attività di mediazione in Italia, a livello generale, si è sviluppata secondo alcune fasi che
come enumera Balsamo (in Luatti: 2006, 71) riguardano: un uso molto locale in linea con le
esigenze del territorio di queste figure, soprattutto per quanto concerne controversie a
livello istituzionale e incomunicabilità negli ambiti sanitari (prima fase d’esistenza della
mediazione), successivamente si è cominciato a pensare alla strutturazione di corsi di
formazione, per garantire uno standard di competenze più completo e competitivo. In una
terza fase, d’isolamento, i mediatori si troverebbero “abbandonati” nei servizi senza un
progetto specifico, risentendo dello scarso associazionismo. Al contrario, la riunificazione
in associazioni sembra essere la possibilità più plausibile e “vincente” per i mediatori.
In quanto facilitatore della comunicazione, il mediatore attiva e incanala la domanda di
integrazione della popolazione straniera nella società ospitante e spesso nel farlo oltrepassa
i suoi compiti primari per diventare un operatore sociale, cosa che si è potuta osservare
diffusamente nell’esperienza presso il C.I.E. di Bologna. In questi casi, infatti è quasi
spontaneo per il mediatore rispondere ad un’esigenza di costruzione, ascolto, comprensione
che parta dalla condivisione di un codice culturale e della lingua, per spostarsi sul piano più
squisitamente umano.
Secondo quanto affermato da Renzetti (in Luatti: 2006, 267), l’attività di mediazione
culturale, sulla base della tipologia del servizio e dell’utenza, si può classificare in:
mediazione linguistico culturale programmata;
mediazione di emergenza;
mediazione a presenza fissa
La prima tipologia viene indicata di solito in ambito educativo o socio-sanitario, per
l’azione di risoluzione di un problema mirato. Nel secondo caso, si tratta di un servizio che
richiede una risposta rapida, ad esempio ricoveri d’urgenza in Pronto Soccorso (cfr.
23
AMISS15). Nel terzo caso (che si riferisce per esempio al contesto del C.I.E.) si ha una
presenza secondo determinati turni di lavoro della figura del mediatore che mira a
instaurare una collaborazione tra operatori del servizio e mediatori.
La proposta (Ceccatelli Gurrieri in Luatti: 2006, 45) estremamente interessante e in questa
sede condivisa, è la possibilità di prospettare l’affiancamento di giovani italiani formati
all’interno di corsi universitari ad hoc, ai mediatori, perché rassicurino lo straniero e
costruiscano con lui un rapporto di fiducia16. In questo modo, suggerisce Ceccatelli
Gurrieri:
attraverso percorsi sostenuti da stage adeguati, e da progetti locali e nazionali di inserimento in programmi di mediazione culturale e sociale, adeguati a prevenire, gestire e trasformare in modo costruttivo, i conflitti, espliciti e latenti, determinati in generale dall’adattamento, progressivo ma non scontato, alla convivenza dei gruppi e delle culture, in particolare dal disagio personale, dalla ricomposizione familiare, dal rapporto contraddittorio e talvolta condizionante con le comunità etniche, nel paese di origine come in quello di arrivo (Ibidem)
è auspicabile che accanto agli interventi spesso emergenziali, di traduzione e
accompagnamento spesso per le frange più deboli di immigrati, si sostituisca un lavoro di
mediazione integrato a più livelli, da quello linguistico-culturale di primo impatto, a quello
di animazione e confronto, di ascolto e sostegno in situazioni di disagio e di empowerment
nel lavoro. Prima di arrivare a tale svolta nelle concrete condizioni di vita dei migranti,
sarebbe opportuno, continua Ceccatelli Gurrieri (Ibidem), impiegare la mediazione come un
profondo mezzo per la facilitazione linguistica, che favorisca lo scambio e favorisca
contatti duraturi ed efficaci tra culture.
Il mediatore appare cosi la figura alla quale l’istituzione affida l’importanza e la difficoltà
della comunicazione interculturale, con l’obiettivo della creazione di una strategia d’intesa.
Il mediatore porta alla luce “il magma complesso del metalinguaggio, dove più facilmente
15Durante un’intervista effettuata al dott. A.Cusatelli (responsabile per AMISS) riguardo alle tematiche dell’emergenza in mediazione linguistico-culturale, egli ha esposto il funzionamento delle chiamate in emergenza: filtrate da un “contact center” le richieste si sviluppano a seconda di diversi gradi di urgenza, entro un’ora, due ore, tre ore. 16Il Vice-questore aggiunto della Polizia di Stato, dott.ssa Fiorenza Maffei, durante l’incontro con gli studenti del 5 aprile 2011 all’interno della programmazione del corso di Mediazione Inglese (Università di Bologna, facoltà di Lingue e Letterature Straniere), ha auspicato una positiva comunicazione tra Università di Bologna e Questura ai fini dell’impiego di giovani laureati consapevoli e preparati alle tematiche della comunicazione interculturale nelle questure. (cfr. http://amsacta.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf, pp. 117-130).
24
si annidano le opacità reciproche che è difficile trattare” e che è bene non si trasformino in
incomprensioni. (Ducoli in Belpiede: 2002, 7)
In questa prospettiva il rischio è di strumentalizzare e semplificare la cultura che finisce con
l’essere banalmente etichettata come un ostacolo per la comprensione e la successiva
adempienza dei doveri del cittadino straniero nel “suo nuovo stato” (Ceccatelli Gurrieri in
Luatti: 2006, 44).
In virtù di quanto finora esposto si evince come l’attività di mediazione vada al di là di
quella di interpretariato/ traduzione:
il mediatore si caratterizzerebbe come vero e proprio operatore culturale, a cui spetta una funzione specifica di facilitazione della comunicazione e della comprensione tra persone appartenenti a culture diverse. In termini più precisi, l’elemento cruciale su cui ruota la funzione del mediatore interculturale consisterebbe in un’attività di decentramento dei punti di vista e di decostruzione dei presupposti culturali dati per scontati da ciascun interlocutore. Ad esempio: se in una certa cultura avere un disturbo mentale o una determinata malattia è considerato un tabù e un fattore di stigmatizzazione sociale, il mediatore interculturale che opera presso un servizio sanitario si sforzerà di comprendere se dietro richieste generiche di informazioni da parte di persone appartenenti a quella cultura non si nascondano in realtà problemi più seri (Osservatorio sulle Immigrazioni: 2006, 4)
La mediazione infatti si concentra sulla necessità di esplicitare e negoziare le differenze
culturali oltre che comunicative, ed interviene in situazioni di asimmetria sociale. Quanto
detto emerge anche a fronte di un questionario17 (cfr. Allegati) sottoposto alla dott.ssa
Cinzia Iaboni e alla dott.ssa Paola Rosolini. Il questionario ha svelato interessanti spunti di
riflessione a proposito dell’attività di interprete e la sua differenziazione rispetto all’attività
di mediazione linguistico-culturale. In merito a ciò, la dott.ssa Iaboni ha rimarcato da un
lato le divergenze tra le due attività, dall’altro ha formulato l’ipotesi, che l’interprete, con
l’esperienza, possa acquisire le specifiche competenze del mediatore. In aggiunta la dott.ssa
Rosolini, ha affermato:
Quando frequentavo l’università (a TS) il termine “mediatore culturale” non si usava e l’interprete per eccellenza (di simultanea) era chi si era diplomato alla scuola superiore per interpreti a Trieste, relegando al termine “traduzione” tutto quello che riguardava il rendere in una lingua un concetto, un’idea o un termine espressi in un’altra. Nella mia attività professionale
17Si è pensato alla strutturazione di un questionario come metodo più veloce e riflessivo per arrivare a comprendere le specificità dell’attività di interprete per le Istituzioni (le interpreti a cui si è sottoposto il questionario lavorano per il Ministero degli Interni) e differenziare tale attività dalla mediazione linguistico-culturale. Sono state previste domande specifiche per comprendere il grado di percezione delle interpreti a proposito delle differenze tra le due attività.
25
negli anni ho visto cambiare il significato del termine (ma non so quanto tutto ciò sia soggettivo): il mediatore culturale era lo straniero che conosceva la lingua, gli usi e costumi di chi di solito era un suo connazionale e che non parlava la nostra lingua. I mediatori culturali avevano la caratteristica di non avere magari un titolo di studio elevato, ma erano in grado di interagire con lo straniero proprio perché non solo parlavano la sua lingua, ma anche potevano spiegare certe espressioni o certe situazioni proprio in quanto ne conoscevano la cultura. (Es i mediatori che sono stati indispensabili nell’attività della Questura e dei vari uffici di polizia di frontiera, molto attivi in questa zona di confine). (cfr. Allegati)
Come indicato poi dal rapporto CIES (2010, 75):
la differenza tra l'attività mediazione e quella dell'interpretariato non implica che dalla mediazione si debba escludere l’interpretariato e che l’interpretariato sia l’unica ragione della mediazione. Non si esclude neppure che tali funzioni, spesso complementari, ma talvolta separabili, siano svolte dalla stessa persona (il mediatore), ma la distinzione fra le due funzioni è necessaria per far funzionare meglio il dispositivo. 18
Infatti secondo tale rapporto di ricerca, vi sono casi in cui si preferisce la scelta
dell’interprete (come ad esempio in situazioni circoscritte al mero bisogno informativo, in
cui non sia quindi necessaria la traduzione delle matrici culturali del comportamento o in
cui non siano presenti elementi di conflitto). Parimenti non si può prescindere dalle
competenze specifiche della mediazione, qualora il messaggio e le parti coinvolte siano
culturalmente connotate. In questo caso la traduzione non deve necessariamente essere
letterale ma deve interessarsi ad esplicitare il sommerso, legato ai codici culturali.
All’esercizio dell’attività di mediazione è assai ricorrente associare il tema della rilevanza
della nazionalità del mediatore. Le opinioni della letteratura di riferimento, come rilevato
dal rapporto CIES (2010, 41) rispecchiano due distinte visioni:
- se il mediatore è debitamente formato e ha esperienza nel settore è irrilevante che sia
italiano o straniero;
- è preferibile che il mediatore sia straniero o addirittura della stessa cultura del
beneficiario.
Anche rispetto all’esperienza presso il C.I.E., si può affermare (CIES: 2010, 7) che la
condivisione dell’esperienza migratoria, possa facilitare il lavoro del mediatore, ma ciò non
deve prescindere dalla posizione di terzietà del mediatore rispetto ai due poli comunicanti:
“La terzietà è il punto di partenza da cui scaturiscono gran parte dei pilastri etici e
18Cfr. quanto detto in precedenza dalla dott.ssa Iaboni a proposito della possibilità che interprete e mediatore convergano nella stessa persona.
26
funzionali del codice di comportamento necessario ad un mediatore, come la neutralità,
l’autonomia, il rispetto del segreto professionale ecc.” (Ibidem)
Non è comunque da escludere che un mediatore italiano, per caratteristiche legate al
proprio vissuto e alle proprie esperienze, possa esercitare efficacemente la professione,
previo accertamento e consolidamento delle competenze linguistiche dovute (come
effettivamente si dimostrerà nel contesto applicativo di riferimento).
Inoltre, è spesso richiesta al mediatore la conoscenza di lingue veicolari per permettergli di
intervenire anche in caso di coinvolgimento di lingue diverse dalla propria. In questo caso il
mediatore ha il plus, rispetto ad uno di nazionalità italiana, del già citato vissuto migratorio.
Si noti, inoltre, che se si focalizza l’attenzione sulla dimensione strettamente comunicativa,
escludendo l’aspetto culturale, si rischia di equiparare la mediazione con l’ interpretariato,
funzione diversa ove la nazionalità dell’interprete è scarsamente rilevante in quanto non
incide sulla prestazione linguistica del suo operato. (CIES: 2010, 42)
Come sottolineato nel colloquio con Andrea Cusatelli, responsabile per AMISS
(Associazione Mediatrici Interculturali Sociali Sanitari), è importantissimo che qualora il
migrante sia il mediatore, non rappresenti un gruppo specifico, perché potrebbe facilmente
assumere un ruolo di advocacy invece che di terzo neutrale. Non necessariamente infatti,
condividere la stessa etnia, per il mediatore e il migrante rappresenta un punto positivo, al
contrario potrebbe creare situazioni di pericolosa immedesimazione, che farebbero fallire il
dispositivo della mediazione, in quanto dispositivo neutrale. A questo proposito, per
ovviare il problema occorrerebbe una buona formazione che aiuti il mediatore a fare fronte
alle situazioni che potrebbero prospettarglisi. Cusatelli sottolinea anche la lunghezza di
un’attività di mediazione, in genere un’ora, cosa che distingue nettamente questa attività
dall’interpretariato.
In generale, come sostiene Balsamo (in Luatti: 2006, 73), il mediatore inteso come
traduttore è stato il modello più comunemente diffuso, soprattutto negli uffici del Comune,
nelle questure e negli ospedali, dove la situazione emergenziale, diventa anche fortemente
caotica. Successivamente, si è privilegiata la visione del mediatore culturale come
informatore e traduttore di regole, una funzione insomma, esplicativa inserita in una logica
di inclusione sociale assimilatoria.
27
Le funzioni psicosociali di aiuto e sostegno, hanno interessato e interessano tutt’ora le
donne, di gran lunga protagoniste di quest’orizzonte professionale.
Il senso più forte, continua Balsamo, resta (Ivi, 73): “l’interpretariato culturale dei bisogni”;
e ancora “il/ la mediatrice culturale reinterpreta sostanzialmente i bisogni, ne evidenzia e
sostiene la legittimità (non riconosciuta in contesti culturali diversi), alla luce dei codici
culturali e comportamentali entro cui si generano e mette in evidenza anche attraverso la
decodifica culturale delle risorse che gli immigrati esprimono, non sempre visibile agli
operatori”. Si afferma dunque un idea di mediazione come promozione sostanziale dei
diritti, e un’idea del mediatore come “operatore di metissages, un produttore e riproduttore
di incroci interculturali nuovi”. (Ivi, 74)
2.3 LA PRATICA DELLA MEDIAZIONE
La decodifica dei codici culturali è la premessa per lo sviluppo della pratica della
mediazione: in una relazione interculturale gli attori della comunicazione sono portatori
oltre che di una lingua diversa, di una cultura e di un apparato prossemico e gestuale
profondamente pertinente al proprio universo culturale di appartenenza.
Il mediatore linguistico-culturale si incarica di assumere il ruolo di ponte tra le due culture
e di cooperare affinché lo scambio comunicativo sia efficacemente portato a termine.
Inoltre si noti come il mediatore assuma differenti ruoli a seconda dell’ambito in cui opera.
Ciò significa che in alcuni ambiti operativi l’attività di mediazione assume risvolti
differenti, che si aggiungono alla funzione primaria della mediazione stessa, la facilitazione
della comunicazione (cfr. capitolo terzo).
In situazioni di potenziale conflitto quali le relazioni interculturali, è bene, come indica
Belpiede (in Luatti: 2006, 248), tracciare alcune linee d’intervento e costruire spazi di
mediazione per facilitare la comunicazione e prevenire il conflitto. In questi spazi, il
migrante può (soprattutto alla luce di quanto osservato nel C.I.E di Bologna) riferire le
proprie esperienze e il mediatore può recuperare facilmente le informazioni necessarie
derivanti da esitazioni e silenzi per esempio, in questo modo è possibile aggiungere un
28
nuovo tassello al mosaico variegato delle funzioni del mediatore: il ruolo di resa degli
impliciti, del sommerso nella cultura.
La mediazione come meccanismo livellatore delle differenze ha un impatto forte sulla
società e per questo la visione (ambiziosa) di mediazione proposta da Jabbar sembra
particolarmente pregnante. Jabbar parla di mediazione socio-culturale, come:
una strategia di pianificazione di opportunità con lo scopo di ricostruire reti sociali, creare nuove competenze e ripristinare l’autostima dei cittadini immigrati riconoscendo anche quegli aspetti legati ai vissuti culturali e religiosi. La mediazione socio-culturale (che) mira a lavorare insieme a questo nuovo segmento della società perché possa partecipare attivamente contribuendo a ricostruire una prospettiva condivisa. Qui non ci sono in gioco solo i servizi sociali perché si tratta di una strategia complessiva del territorio (…) La posta in gioco è rivitalizzare la democrazia attraverso una cittadinanza attiva che coinvolga tutti gli attori sociali del territorio. (Jabbar in Luatti: 2006, 79)
La mediazione così come emerge nell’idea di Jabbar viene ad assumere un risvolto politico
e sociale, di supporto alla partecipazione alla nuova cittadinanza.19 Tuttavia, questa
definizione di mediazione induce a trasformare le domande e i bisogni sociali in
problematiche “etniche”, rischiando di contribuire all’etnicizzazione dei conflitti, e di
omologare tutti gli stranieri ad un unico modello, nel quale magari le seconde generazioni
non si identificano più. Nello stesso tempo, è vero che i nuovi cittadini hanno bisogno di
“essere riconosciuti” ed inclusi nei paesi in cui vivono. È proprio seguendo questo
orientamento che il mediatore culturale acquisisce importanza e rilevanza nella costruzione
di una società democratica e partecipata da parte di tutti. (Luatti: 2006, 80)
Come indicato da Villano e Riccio (2008, 50-52), si tiene conto che la mediazione
linguistico-culturale in quanto attenuatrice delle asimmetrie di potere, si muove in un’ottica
di empowerment, promuove quindi l’autonomia nella comunicazione tra operatori e utenti
stranieri. Inoltre, come sostengono gli autori summenzionati (Ibidem) per sviluppare una
vera e propria attività di mediazione è necessario che il piano della traduzione e quello della
condivisione dei significati co-occorrenti in una relazione interculturale (mentalità,
abitudini, comportamenti) siano intrecciati. Le informazioni culturali che il mediatore può
esplicitare sono vitali nelle relazioni d’aiuto con gli stranieri. Ad esempio possono essere
19Si osserverà che nel contesto del C.I.E. il cammino verso l’accompagnamento per la piena fruizione dei diritti si concreta in specifici interventi di assistenza da parte del mediatore in sinergia con altri operatori sociali, ad esempio nell’assistenza alle vittime di tratta.
29
fornite spiegazioni di atteggiamenti e di credenze da parte del migrante, facilmente
contestualizzabili dall’operatore all’interno di uno specifico universo culturale. Al contrario
concepire la mediazione come attività traduttiva, non porta ad uno scambio ma ad un
irrigidimento dei ruoli e delle identità culturali. (Ibidem)
Bisogna ricordare l’importanza del valore della neutralità da accordare alla figura del
mediatore. È importante che il mediatore non faccia riferimento ad un suo parere personale,
ma è bene che resti neutrale e si ponga in maniera equidistante tra le parti. É altresì
importante che il mediatore non sviluppi alcuna forma di affiliazione etnica con le parti,
perché il prodotto della comunicazione mediato non ne risulti falsato.
Tuttavia come si legge nel rapporto CISP-UNIMED (2004, 58): “Nessun soggetto può
essere mai ritenuto in nessuna condizione culturale, sociale e politica esso si trovi,
propriamente neutrale rispetto ad una situazione di conflitto o di tensione sociale.” Vi sono
ripetutamente elementi linguistici, culturali, di genere, di estrazione sociale, che portano il
mediatore ad essere più vicino ad una delle due parti coinvolte. La proposta formulata nel
rapporto summenzionato, e dunque relativa alla capacità per il mediatore di “collocarsi in
una condizione tendenzialmente mediana tra le parti, dichiarando con chiarezza i propri
margini di preferenza o rischio di sbilanciamento ad entrambe. La relazione di mediazione,
infatti, si basa in primo luogo sulla chiarezza, spesso preclusa ad altri tipi di relazione
conflittuale, e mira a stabilire rapporti non più falsati tra le parti.” (Ibidem)
Proprio per la delicatezza e il facile coinvolgimento che l’esercizio della professione
implica, il ruolo del mediatore rischia di sconfinare spesso in professionalità differenti (cfr.
Belpiede: 2002, 34-35). Come infatti nota Belpiede (Ibidem) nei servizi pubblici la
responsabilità dell’intervento ricade sull’operatore nativo, con riferimento a quelle
situazioni in cui l’operatore ha dirette responsabilità penali (cfr. campo medico). In tali
situazioni il mediatore, per il grado fortemente limitato della propria autonomia
professionale, deve sviluppare un certo affiatamento con l’operatore nativo, ed evitare
situazioni di tensione dovute alla sovrapposizione dei ruoli. Proprio perché il ruolo del
mediatore culturale si trova in una tappa ancora nascente, è esposto a questi rischi. (Ibidem)
30
La mediazione appare una negoziazione fondata sulla diversità culturale e proprio in quanto
tale va vista in un’ottica di aspettative e benefici in rapporto alle parti che la richiedono, e
in rapporto alle diversità di cui le parti sono portatrici.
Si può affermare che l’intervento di mediazione si situa su piani differenti (Favaro e
Fumagalli: 2004, 32-33):
piano orientativo e informativo;
piano linguistico e comunicativo;
piano culturale e interculturale;
piano psicosociale e relazionale.
Nel primo ambito il mediatore fa riferimento al gruppo di appartenenza e agli operatori di
servizio. Il mediatore dunque agisce per rendere il servizio fruibile comunicando eventuali
barriere linguistico-culturali. Quando la mediazione si sofferma sul secondo ambito,
linguistico e comunicativo, si sviluppa soprattutto come attività di traduzione.
Il mediatore si può infine porre come accompagnatore e sostenitore dei bisogni della
comunità straniera nel difficile percorso di traghettamento e integrazione nella nuova realtà
sociale.
Andolfi (2003: 110) afferma che in un rapporto di mediazione sono coinvolti un ingroup
costituito dal gruppo di appartenenza, percepito come il gruppo migliore possibile e un
outgroup, gli altri, i membri non appartenenti al proprio gruppo, i diversi, spesso
stereotipati. La relazione iniziale si pone come una non-relazione, un non equilibrio basato
sulla differenza, e di solito sulla forte autorappresentazione del primo gruppo.
L’ingresso di un terzo, il mediatore, in questa relazione può essere indirizzato verso
l’intervento risolutivo del conflitto, o verso il controllo del conflitto, oppure può essere
indirizzato verso il non intervento. Nel caso di un conflitto, il mediatore può decidere di
intervenire per migliorare la qualità della comunicazione, o per correggere eventuali
distorsioni della comunicazione dovute a posizioni eccessivamente etnocentriche.
31
Mediare e conciliare dialogicamente e attivamente culture significa soprattutto essere
consapevoli della diversità culturale.
Lo scarso inquadramento professionale di cui gode la mediazione linguistico-culturale,
rende l’attività di molto sottovalutata e assimilata a interventi traduttivi “arrangiati”.
In questi casi le competenze linguistiche e culturali relative al paese ospitante nulle e
l’inesperienza nel corretto impiego di strategie adeguate ad un intervento di mediazione
linguistico-culturale rendono questo tipo di interventi di mediazione assolutamente
fallimentari.
È invece molto importante, avere mediatori adeguatamente formati, e in grado di costruire
una relazione di fiducia che in caso di situazioni particolarmente delicate (cfr.
salute/ricostruzioni di biografie piene di traumi), è un fatto ancora più complesso (Ciola e
Rosenbaum in Andolfi: 2003, 129-146). In questi contesti delicati, è altresì importante per
il mediatore elaborare un distacco dalla situazione, per evitare il “rischio di burn-out20 a
causa dell’esposizione protratta alle situazioni difficili rappresentate dagli utenti. In questo
caso essi possono con facilità passare dalla fruttuosa empatia a forme d’immedesimazione
eccessiva che possono ragionevolmente essere ricondotte proprio ad una mancanza di
formazione specifica.” (CIES: 2010, 77)
Purtroppo, l’opinione pubblica mantiene troppo spesso rappresentazioni errate a proposito
della mediazione linguistico-culturale. Come afferma Favaro (in Favaro e Fumagalli: 2004)
il rischio nell’ambito della mediazione linguistico-culturale è che l’istituzione richiedente
del servizio di mediazione si deresponsabilizzi per caricare di responsabilità il mediatore.
Come se fosse una sorta di “operatore tutto fare”. Per esempio, per il caso della mediazione
nella scuola, Favaro (Ivi, 178) racconta di alcuni casi di impiego del mediatore come
“pronto soccorso”, nell’ansia del non saper gestire una conversazione efficacemente.
Accade inoltre che si pensi erroneamente al mediatore come informatore di cultura,
20“Il burnout è generalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate (possiamo considerarlo come un tipo di stress lavorativo). Generalmente nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite”. In Psicologia del Lavoro. Consultabile su: http://www.psicologiadellavoro.org/?q=burnout.
32
intendendo a questo punto la cultura come fortemente statica e omogenea e ritenendo il
mediatore come un contenitore di codici.
2.4 PROBLEMATICITÀ DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Il discorso sulla mediazione linguistico-culturale implica una riflessione sulla
comunicazione interculturale, strumento prezioso nelle mani del mediatore.
I punti di convergenza o di divergenza all’interno delle situazioni comunicative, dipendono
dalla cultura di appartenenza che condiziona il modo in cui le persone si esprimono. È
importante quindi definire i concetti di competenza comunicativa.
La competenza comunicativa rende possibile la comunicazione e la decodifica del
messaggio. In contrapposizione alla nozione di competenza linguistica di Chomsky (intesa
come la conoscenza di un parlante della propria lingua materna), quella di competenza
comunicativa si riferisce “al padroneggiamento del repertorio linguistico da parte di un
singolo parlante” (Berruto: 2003, 67) e dunque è “la competenza riguardo a quanto parlare
e quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove, in qual modo.” (Hymes in
Berruto: 2003, 67)
Vivere contesti pluriculturali, può portare l’individuo a sviluppare una competenza
comunicativa interculturale. Tuttavia accanto allo sforzo del singolo si deve accostare,
come suggerito da Mucchi Faina (Mucchi Faina in Villano e Riccio: 2008, 66) un attento
lavoro delle politiche sociali che:
cerchino di contrastare gli effetti negativi di pregiudizi e stereotipi […] solo attraverso questa doppia strada (ovvero le determinanti individuali unite a quelle sociali) è possibile che la comunicazione interculturale diventi non solo un mezzo per scambiarsi informazioni, ma anche un efficace strumento di conoscenza reciproca, di collaborazione e di mediazione dei conflitti.
Per stabilire una comunicazione adeguata “sono necessari curiosità e interesse nei confronti
di altri mondi, di altre esperienze di vita, di altri modi di sentire.” (Ivi, 68)
Nello specifico, “la competenza comunicativa interculturale implica possedere la
sensibilità, le conoscenze e le capacità necessarie per interagire efficacemente e in modo
33
appropriato con persone di culture differenti” (Ibidem), si tratta dunque di abilità, facoltà
generali e aspetti affettivi che si intrecciano con le conoscenze specifiche della lingua.
Come sostiene Hofstede (1991) il compito della comunicazione interculturale è quello di
permettere l’acquisizione di:
“consapevolezza, conoscenza e abilità. Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale. […] Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti […] L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale.”21
Hofstede elabora un concetto di cultura come programma mentale che “distingue i membri
di un gruppo o una categoria di persone da un altro gruppo o categoria” (Hofstede in
Garzone e Rudvin: 2004, 55-56).
Lo studioso si è occupato di costruire un modello con cui descrivere le dimensioni culturali
che si sviluppa intorno ad una struttura bipolare (Ivi, 57-58):
individualismo e collettivismo: questa dimensione si focalizza sul rapporto tra
l’individuo e il gruppo. In base a questa classificazione, vi saranno culture
individualiste che si basano sull’autonomia dell’individuo e sugli obiettivi del
singolo, oppure culture collettiviste, che tendono ad evitare il conflitto e si basano
sugli sforzi del leader;
mascolinità e femminismo: una cultura viene giudicata mascolina quando ha una
preferenza per il successo materiale e l’eroismo, al contrario una cultura femminile
predilige le relazioni e la cura dei più deboli;
il rischio di incertezza (alto e basso livello), si riferisce alla capacità di adattamento
all’incertezza e al rischio. Un alto livello di Uncertainity Avoidance caratterizza
una cultura con alto livello di ansia e stress lavorativo, un basso livello di
Uncertainity Avoidance invece riguarda una società dotata di poche regole;
power distance (alta e bassa): in culture con un forte Power Distance index si
riflette un’accettazione dell’ineguaglianza e relazioni generalmente asimmetriche
21Cfr. URP, Comunicazione pubblica in rete. Consultabile su: http://www.urp.it/Sezione.jsp?idSezione=924&idSezioneRif=38.
34
(ad es. culture asiatiche, africane e “latine”). Un low Power Distance index si
riferisce al grado di uguaglianza tra i membri del gruppo sociale (ad es. paesi
germanici).
Considerate queste variabili è insomma facilmente comprensibile come sia frequente che
questo tipo di comunicazione finisca nell’ambito del malinteso.
Si consideri anche l’aspetto della comunicazione non-verbale, dove i gesti sono molto più
sensibili delle parole, di essere culturospecifici. Silenzi, ritmi e sorrisi, rischiano di essere
fraintesi se non si è consapevoli del valore differente che essi rivestono in una cultura
“altra” dalla nostra. Se ad esempio il bianco in occidente è il colore della nascita, è
necessario sapere che in Cina è il colore del lutto. Oppure, se ad esempio alzare la voce in
Africa occidentale è segno positivo di vivacità, altrove può essere percepito come simbolo
di maleducazione.
Gli immigrati sono portatori di valori, di modelli di organizzazione sociale, statuale, e
familiare, frequentemente molto differenti da quelli che appartengono alla comunità
autoctona, del Paese ospitante. Ad esempio, nelle aree delle relazioni familiari e sociali,
occorre dire che ogni società sviluppa il suo modo di strutturare la famiglia. Tali strutture,
in Occidente cambiano in maniera accelerata, tanto che sempre più spesso si rileva il
passaggio ad un’organizzazione plurinucleare, con padri e madri separati, i rispettivi
conviventi e i figli acquisiti. Se invece osserviamo le società del sud del mondo, si nota
come questo tipo di organizzazione non è assolutamente contemplabile. In diverse realtà
del mondo africano, la famiglia è una struttura complessa fondata sul lignaggio22 e può
infatti raggiungere anche le duecento persone. Ne risulta una persona che si definisce in
base alla comunità familiare, ove la genitorialità risulta il nodo centrale nella gestione del
nucleo familiare.
Le migrazioni, se considerate come “fatto sociale totale” (Sayad: 2002) costituiscono un
profondo elemento di rottura di questo equilibrio: “Il nucleo familiare, in migrazione, è
22“Lignaggi sono […] quelle linee di discendenza la cui genealogia può essere ricostruita con certezza a partire da un comune antenato ed è nota ai suoi membri.” (Marazzi A., “Discendenza, sistemi di parentela e gruppi domestici”, in Famiglie e forme di convivenza. Consultabile su: http://www.loescher.it/librionline/risorse_capirelasocieta/download/2712_Percorso7.pdf. p.102)
35
[quindi] sottoposto, obbligatoriamente e dall’esterno, a dinamiche di cambiamento
accelerate.” (Belpiede in Luatti: 2006, 64)
Insistendo sul tema dei rapporti all’interno del nucleo familiare, il problema
dell’adattamento ai cambiamenti di ruolo e di potere che la migrazione mette alla prova,
sono molto ricorrenti se si osserva una qualsiasi famiglia immigrata in territorio straniero.
Spesso si assiste all’impossibile interazione positiva dei codici interiorizzati con la cultura
del Paese ospitante. Si tratta dell’incapacità che i codici interiorizzati interagiscano
positivamente con la cultura del paese ospitante.
La centralità delle relazioni familiari nelle famiglie dei migranti, spinge alla costruzione di
un progetto migratorio di tipo collettivo, di cui attore è colui che viene giudicato più forte
fisicamente e psicologicamente e i beneficiari tutti i componenti della comunità familiare.
Ad esempio, sembra particolarmente pregnante a questo proposito la storia di un uomo
senegalese, apparsa sul sito del blog “PassaparoleMilano”:
credevo che in Italia avrei trovato una vita migliore, ma non è questo il caso: da quando sono arrivato ho lavorato solo due mesi. Sono rimasto sei mesi senza fare niente, solo vendere. Da una parte ho sbagliato, adesso sono qua e non posso andare via, non posso ritornare giù perché ho già lasciato tutto dietro. E se vado via devo almeno partire con qualcosa.
[…]
Noi non viviamo cosi, noi viviamo per la famiglia, per aiutare nostro padre, nostra mamma, nostro cugino, tutti. In Africa non ci sono due persone, tre persone, una persona, noi viviamo in famiglia. Io non sono qua per vivere solo per me, sono in Italia per aiutare mia mamma. Lei mi ha detto “tu sei il mio figlio più serio, sei tu che devi andare per primo.” E ha preso tutti i suoi soldi, il braccialetto, ha preso tutto, ha venduto tutto, per mandarmi qua, per darmi dei soldi per fare il viaggio per partire, per fare, per trovare lavoro, per aiutare.
Fino ad ora si è inteso il confronto interculturale in termini di conflitto, ed effettivamente se
si introduce il tema della mediazione, il concetto di conflitto o si è già sviluppato oppure si
rischia che si prospetti. Tuttavia, è necessario dire, con U. Melchionda (in Andolfi: 2003,
119) che il conflitto non implica necessariamente violenza, e negatività, e che invece è il
quasi normale rovescio della medaglia qualora due individui appartenenti ad universi socio-
culturali differenti si trovino a confrontarsi. Nel caso di intervento a cui si fa riferimento in
questo contributo, spetta al mediatore, qualificato e ferrato al fine di gestire queste
sfumature di diversità, essere prima di tutto consapevole delle possibili divergenze culturali
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e cooperare con le parti coinvolte affinché questo conflitto non trovi applicazioni delle più
violente. È quanto emerge dal colloquio con Amina, mediatrice tunisina presso il C.I.E. di
Bologna, che in modo esplicito riferisce come in un colloquio tra istituzione italiana e
straniero, la strategia dell’ammorbidimento dei toni, è vincente, perché si rifà
all’importanza in contesti così tesi e accessi, della calma e talvolta dell’edulcorazione.
Sembrerebbe, dunque, che la “scomodità” della differenza culturale costringa l’operatore
autoctono a richiedere l’intervento dispendioso, in termini di tempi e costi, di un operatore
esterno. Ma la diversità culturale non è un fatto di svantaggio. In un epoca di omologazione
e globalizzazione, diversità è sinonimo di ricchezza, e vi sono svariati motivi, quelli che
con Hannerz (1996; trad. it 2001, 89-102) vengono definiti “ipotesi sulla diversità” che ci
portano a vedere la differenza in termini positivi.
Per Hannerz infatti la cultura mondiale è l’organizzazione della diversità, ove la diversità
culturale risulta quasi un “monumento alla creatività dell’umanità.” (Ivi, 91).
2. 5 AMBITI DI ESERCIZIO DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE
È bene tracciare una mappa dei possibili contesti in cui il mediatore opera, anche in
rapporto alla definizione del ruolo del mediatore all’interno del C.I.E.
Dalla scuola agli ambienti familiari, ai contesti sanitari, giudiziari e della pubblica sicurezza
la mediazione linguistico-culturale agisce in diversi ambiti. In ognuno di questi l’attività del
mediatore si indirizza verso un obiettivo specifico, che rende la funzione e l’azione del
mediatore, ogni volta differenti.
Si fornirà in questa sezione una breve panoramica delle forme di intervento del mediatore
negli ambiti che risultano funzionali alla trattazione successiva.
L’ambito in cui da tempo si sperimenta il valore aggiunto di una relazione interculturale
mediata da un terzo neutrale, è quello sanitario. Nel contesto sanitario, il mediatore si pone
come terzo partecipante del dialogo medico-paziente, e proprio alla luce di questa veste, è
importante che il suo ruolo sia ben compreso sia dall’operatore sanitario che dal paziente:
entrambi devono stabilire con il mediatore una relazione di fiducia.
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Il tema della salute è molto delicato da gestire, soprattutto perché legato al vissuto
dell’individuo e alla sua sfera più intima. Stare bene e stare male, sono tra l’altro concetti
soggettivi, che dipendono dall’apparato culturale di cui è dotato lo straniero stesso. Il
mediatore deve dunque lavorare ad impedire malintesi tra medico e paziente a causa delle
differenti concezioni di salute e malattia. (Castiglioni: 1997)
In contesti giudiziari e di pubblica sicurezza, invece, i mediatori spesso vengono impiegati
come fossero interpreti. Sicuramente in questo ambito, la traduzione è il primissimo punto
di partenza per stabilire una relazione interculturale, ma occorrerebbe maggiore
informazione per coloro che richiedono i servizi linguistici (avvocati, giudici e clienti)
perché il ruolo del mediatore sia tenuto distinto da quello dell’interprete.
Secondo quanto afferma il Vice Questore aggiunto di Bologna, dott.ssa F. Maffei,
all’interno del dossier “La geografia della mediazione linguistico-culturale” (Miller et al.:
2009, 117-130), i mediatori sono utili soprattutto nella fase della costruzione di una
relazione di fiducia. Al contrario degli interpreti che si pongono di fronte allo straniero in
termini esclusivamente linguistici, la mediazione nell’ambito della sicurezza, si indirizza
verso il supporto e l’assistenza nelle indagini ai fini dell’identificazione. La dott.ssa Maffei
aggiunge che i mediatori sono altrettanto importanti per
facilitare la comprensione dei bisogni degli “ospiti” nei centri di accoglienza, nel tentativo
di risolvere eventuali conflitti, sono pronti ad informare ed orientare gli stranieri verso i
servizi erogati nei sistemi di accoglienza (assistenza medica, psicologica e legale).
All’interno di una Questura, la dott.ssa Maffei ricorda l’importanza del mediatore
nell’avvio delle procedure per il diritto d’asilo e della protezione umanitaria.
Soprattutto in temi delicati come la tratta di esseri umani, lo sfruttamento della
prostituzione, l’impiego del mediatore linguistico-culturale durante le indagini, e come
primo approccio con le vittime, risulta, secondo quanto affermato dal Vice Questore
aggiunto, un punto molto utile per la risoluzione positiva del reato.
In questa direzione, si è mosso il progetto della regione Emilia-Romagna “Oltre la strada”,
in grado di offrire supporto alle vittime della prostituzione, il progetto impiega mediatori
nell’avvicinamento e accompagnamento delle vittime in progetti più sicuri all’interno di
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strutture quali la Casa delle Donne23 insieme ad un altro punto fermo dell’anti tratta
internazionale, l’associazione “Papa Giovanni XXIII”.24
Facendo riferimento a Fumagalli (in Favaro e Fumagalli: 2004) si affronta ora il tema della
mediazione nell’ambito del disagio sociale. Un primo fattore di complessità deriva dalla
centralità delle dinamiche familiari all’interno delle migrazioni. Il migrante, decide spesso
di migrare per portare avanti un progetto di miglioramento economico di una vasta gamma
di individui che si aspettano determinati successi. Inoltre le famiglie di migranti vivono una
forte fragilità economica e una situazione di costante precarietà derivante dalle
modificazioni che i ruoli dei singoli assumono in relazione all’adattamento al nuovo
ambiente sociale.
In questi casi, queste persone, si aspettano dal mediatore determinati aiuti, che man mano si
stanno definendo sempre di più nel verso della presa in carico totale dello straniero.
La domanda di mediazione in ambito sociale si concentra sulle fasi dell’accoglienza e
dell’informazione oltre che sul supporto psicologico, cosa che rende necessario per il
mediatore che si approccia a questo ambito operativo, acquisire competenze specifiche. Si
tratta quindi di una funzione quasi esclusivamente dell’accompagnamento e del supporto,
che fa del mediatore, un operatore sociale.
In relazione a quanto sostenuto da Fumagalli (Ivi, 110) la mediazione in ambito sociale è
caratterizzata da interventi compiuti per lo più da donne che hanno vissuto sulla propria
pelle l’esperienza della migrazione, nell’ambito dei servizi sociali comunali o di strutture
associate alla tutela dei minori25. Si tratta dunque di una mediazione che si prefigge
l’obiettivo primario dell’aiuto e del miglioramento delle condizioni degli stranieri. Vista la
vastità del campo del sociale, sarebbe bene, come suggerito da Fumagalli (Ivi, 128-129)
definire un quadro della normativa di riferimento ai servizi, un attento ascolto delle storie e
dei punti traumatici di cui esse sono portatrici. È fondamentale poi, che il mediatore si
23La Casa delle Donne per non subire violenza, istituita nel 1990 è una struttura assolutamente segreta ove donne vittima di violenza possono rifugiarsi godendo del completo anonimato. 24L’associazione ha attivo un servizio di antitratta dal 1990 con un numero verde e la possibilità di aiuto concreto delle vittime attraverso la sistemazione in case famiglia. 25Si osserverà nel capitolo terzo, come la mediazione sociale, per il fatto di conformarsi come attività di presa in carico e supporto è ampiamente utilizzata nel C.I.E., ove la presa in carico diventa estremamente significativa e utile per la possibilità che essa porti a progetti di riduzione del danno in favore del trattenuto.
39
inserisca proficuamente nell’équipe di lavoro e si premunisca di una forte dose di
flessibilità. Il lavoro d’équipe deve essere studiato in maniera congiunta tra operatori e
mediatori perché risorse professionali come colloqui e riunioni siano efficacemente sfruttati
nell’interesse del migrante.
Tenendo conto, come indicato da Fumagalli (Ivi, 128) che la mediazione oggi è una
modalità operativa “per trovare terreni possibili e condivisi di intesa e di lavoro” tra utenti
stranieri e autoctoni, l’autrice offre l’interessante prospettiva di un Protocollo di mediazione
nei servizi sociali (descritto in Favaro e Fumagalli: 2004, 129-131). In tale Protocollo
vengono specificate le competenze del mediatore, in un’ottica di acquisizione delle stesse
in formazione continua. In seguito vengono elencate le funzioni e i compiti del mediatore in
ambito sociale. Vengono inoltre specificate le attività in ambito di interpretariato durante i
colloqui e di traduzione, la facilitazione nelle relazioni interculturali e la funzione di
accompagnamento. Quella che risulta essere un’interessante indicazione, in questa sede
caldamente auspicabile, è lo sviluppo di un glossario della terminologia specifica del
settore sociale che aiuti il mediatore a familiarizzare con concetti specifici e riflettere sulla
loro riproducibilità linguistica.
La prospettiva sociale è affrontata nel lavoro di Ceccatelli Gurrieri (2003) in termini di
supporto nello “svantaggio sociale”. L’autrice sottolinea la condizione svantaggiata dello
straniero, nella sua precarietà giuridica e nella condizione di bisogno. Afferma:
la mediazione sociale diventa infatti una metodologia sostitutiva e compensativa da parte del mediatore, che si relaziona con l’immigrato in quanto soggetto debole e in difficoltà, riducendo la propria funzione a quella di interpretariato, a sua volta concentrata su una corretta traduzione “tecnica” dei termini e dei codici delle strutture di servizio e delle istituzioni, senza arrivare veramente a una esplicitazione e interpretazione dei bisogni soggettivi e collettivi dell’immigrato. (Ceccatelli Gurrieri: 2003, 76)
Infine, proiettando questa trattazione al focus del presente lavoro, si afferma che il caso del
C.I.E., come si avrà modo di dimostrare, si presenta, per la sua peculiarità, come un
contesto che abbisogna di interventi di mediazione diversificati. Quanto si è osservato nel
Centro di Bologna riguardo alla mediazione si contestualizza all’interno di attività
giudiziarie e richieste d’aiuto in ambito familiare e sanitario; a fronte di ciò il mediatore si
trasforma in operatore sociale che si fa carico delle richieste d’aiuto del trattenuto,
40
canalizzando tali richieste verso le figure professionali più adeguate tra quelle dell’équipe
multidisciplinare.26
2.6 PROFILO PROFESSIONALE DEL MEDIATORE LINGUISTICO-CULTURALE :
LE COMPETENZE
Per sostenere la relazione con le diversità occorre approfondire capacità e competenze che
si situano sia sul piano cognitivo (maggiori informazioni, apertura, intellegibilità,
sospensione del giudizio) sia sul piano affettivo (decentramento, empatia, capacità di
ascolto, analisi delle emozioni in gioco…) (Favaro e Fumagalli: 2004, 25).
Ciò che deve sempre essere tenuto in conto per la formazione di un mediatore culturale è
una buona dose di qualità relazionali che possano permettere al mediatore di entrare in
contatto in maniera misurata con l’“Altro”, senza cadere nell’errore della sovra-
identificazione. Visto che il mediatore è sovente un migrante, o per lo meno lo è stato, è
molto facile che le esperienze si sovrappongano. È bene quindi che nella formazione di un
mediatore oltre a competenze teoriche ve ne siano di pratiche che consentano di sviluppare
una certa dimestichezza nell’adottare strategie del decentramento culturale (cfr. Belpiede:
2002, 38) e del distacco, atte a tenere il focus sempre e soltanto sugli attori reali della
comunicazione interculturale.
Tuttavia il mediatore è una persona, e nonostante lo sviluppo di un codice etico, che spesso
si è strutturato nel corso dell’esercizio della professione, non può essere sempre e
comunque un terzo neutrale: “il mediatore culturale ha un compito difficile, un compito
d’intermediazioni, di facilitatore della relazione tra i nativi e i migranti. È pertanto soggetto
sia alle pressioni del migrante e soprattutto all’identificazione con questi, sia alle pressioni
dell’operatore, o delle logiche organizzative e burocratiche del servizio, che spesso
comprimono l’agire del mediatore impedendogli un ruolo neutrale.” (Ivi, 44)
La neutralità è un requisito importante, per il quale il mediatore mantiene l’equidistanza
dalle parti coinvolte nella comunicazione. In un ambiente come quello che ci troveremo ad
26I dettagli del lavoro del mediatore al C.I.E. di Bologna verranno più diffusamente esposti nel terzo capitolo, nel paragrafo relativo all’osservazione partecipante.
41
analizzare più tardi, è fondamentale gestire le emozioni e controllare le reazioni, a volte
spontanee di fronte alla sofferenza. Attivare un procedimento di distacco, è per il mediatore
una vera e propria difesa. Eppure l’emozione è una parte imprescindibile all’interno di
colloqui delicati e privati, dove piuttosto sarebbe il discorso empatico a dover essere
favorito, lasciar intendere di comprendere gli stati d’animo e cercare di trasmetterli a
parole, senza tradirli, senza sciuparli.
Belpiede (2002, 37-38) individua alcuni nuclei di competenze di base che il mediatore deve
possedere al fine di sviluppare un’attività di mediazione efficace. Tra cui: competenze
nell’interpretariato, includendovi un’ottima conoscenza orale e scritta della lingua d’origine
e di quella d’arrivo, con particolare riferimento al linguaggio settoriale relativo all’ambito
del servizio in cui si opera nel caso di quella d’arrivo. Si tratta inoltre di essere capaci di
ascoltare e comunicare, decodificare i bisogni, le incomprensioni, essere capaci di essere
neutrali e lavorare in équipe. Nell’ambito delle competenze informative, occorre che il
mediatore conosca e sappia veicolare le informazioni riguardo al funzionamento dei servizi
e alla legislazione sull’immigrazione. Occorre una conoscenza delle dinamiche migratorie,
delle tradizioni e degli usi dei luoghi d’origine degli stranieri. Oltre ad una conoscenza
profonda dell’ambiente d’origine che possa permettere di disvelare codici e pratiche di
primo acchito “strane”, bisogna avere una conoscenza altrettanto profonda delle pratiche e
dei costumi italiani, perché si possa avviare la macchina burocratica e perché si possano
incentivare percorsi di integrazione e autonomia degli utenti.
A questa elencazione, si aggiunge quanto evidenziato dal rapporto CNEL “Mediazione e
mediatori interculturali: indicazioni operative” ove i requisiti demandati al mediatore
afferiscono a capacità relazionali di cui sopra si è già accennato, ma anche a capacità
relative ad un buon esercizio dell’interpretariato sociale. In particolare si specifica (in
aggiunta a quanto prima esposto):
- motivazione e disposizione al lavoro relazionale e sociale, capacità personali di empatia e
riservatezza;
- ottima conoscenza della lingua italiana parlata e scritta (corrispondente al livello avanzato
C di comprensione e al livello B di produzione del QCERL-Quadro Comune Europeo di
42
Riferimento delle Lingue del Consiglio d’Europa);
- buona conoscenza della cultura, delle principali istituzioni e della realtà socioeconomica
italiana, a livello locale e nazionale, nonché delle specifiche situazioni in cui il mediatore
opera.
Il rapporto citato ci offre un interessante insight sulle diverse scelte formative funzionali a
questo mestiere: prevede infatti una diversificazione tra formazione di base, specialistica e
continua (CNEL: 2009, 4-5). Si parte da un monte di 600 ore, di cui 100 tassativamente in
ambito pratico, per sviluppare le competenze nell’area della comunicazione e delle
relazioni interculturali, prevedendo una formazione in psicologia, antropologia, tecnica
della mediazione interculturale, deontologia e conoscenza dei fenomeni migratori. Bisogna
inoltre prevedere una formazione per l’area normativa, a proposito della Costituzione
italiana, i diritti umani e le istituzioni dell’Unione Europea, dell’organizzazione dei servizi
sociali, e della legislazione nazionale, regionale e internazionale in merito all’immigrazione
e alle politiche dell’integrazione. Da ultimo è importante offrire una formazione per l’area
dell’organizzazione dei servizi perché i futuri mediatori conoscano e padroneggino le
strutture locali e siano in possesso di modelli per l’intervento e la valutazione del lavoro
sociale. Una fase successiva, detta specialistica, vedrà i mediatori alle prese con uno
specifico settore della mediazione. In una fase poi, detta di formazione continua, è
opportuno che i mediatori siano assistiti al fine di evitare un logoramento psico-fisico e
quindi per prevenire meccanismi di eccessiva identificazione e presa in carico di soggetti
particolarmente disagiati.
Si tenga presente che la durata media dei corsi è in genere di 300 ore, distribuite nell’arco
di almeno sei mesi e divise circa a metà tra lezioni e tirocinio.
Anche Ceccatelli Gurrieri (2003, 60-61) insiste sull’importanza che la fase della
formazione si concentri sulla normativa vigente a proposito d’immigrazione, sulle differenti
tipologie di utenza a cui l’intervento di mediazione si può indirizzare, e sui servizi che il
sistema del welfare garantisce agli stranieri. Tutto ciò si deve conciliare con una solida
competenza comunicativa che porti il mediatore a soppesare parole e significati, gesti e
linguaggi non verbali, e ad ascoltare le storie, spesso di grande sofferenza che lo straniero
ha alle spalle.
43
Uno degli aspetti più discussi resta la necessità per il mediatore di sviluppare una certa
equidistanza tra le parti: il problema del decentramento culturale è da definire come una
necessità primaria, perché non si sviluppino scomodi meccanismi di affiliazione etnica e
processi identificatori con il singolo immigrato.
Tuttavia il problema della deontologia professionale mal si accorda alla sostanziale
precarietà della professione stessa (Belpiede: 2002, 39). L’etica del mediatore deve
comunque propendere alla neutralità, non si può, infatti, parlare di advocacy in favore
dell’immigrato ma di equidistanza dalle parti interessate. Bisogna ad ogni modo
considerare però che data la posizione nettamente superiore in quanto a potere del
rappresentante della cultura italiana, perché parte del gruppo dominante, il ruolo del
mediatore si deve indirizzare verso l’empowerment della persona immigrata. (Ibidem)
Il ruolo del mediatore resta comunque difficile, e senza un quadro normativo
d’orientamento è ancora più arduo trovare una metodologia univoca per l’esercizio della
mediazione.
Castelli (in Belpiede: 2002) propone, all’interno del progetto del “Centre national de la
médiation” di Parigi, un abbozzo di codice deontologico. Si discutono, infatti,
l’indipendenza, la neutralità, il segreto professionale, e gli obblighi del mediatore. Il
mediatore svolge un lavoro indipendente, dove il rapporto con il datore d lavoro si esegue
nelle condizioni materiali; il lavoro deve essere esercitato nel pieno interesse delle parti.
Tra gli obblighi del mediatore vi è il segreto professionale, infatti, egli è spesso costretto a
trattare documenti privati e delicati che è opportuno custodire gelosamente, è comunque
richiesta una chiarificazione dei suoi compiti prima dell’intervento di mediazione.
Il “problema” sulle competenze e conoscenze preliminari del mediatore linguistico-
culturale si può dunque riassumere attraverso il punto di vista di Ceccatelli Gurrieri (2003:
59):
mediare significa nel senso più ampio avvicinare, facilitare il contatto, includere, incoraggiare e sostenere l’interazione e lo scambio, in estrema sintesi il compito del mediatore è perciò, da un lato quello di agevolare l’accesso e l’uso, da parte degli immigrati, di servizi, luoghi e risorse comuni a tutti i cittadini, dall’altro quello di favorire il riconoscimento, da parte del paese di accoglienza, dei bisogni, delle specificità e delle differenze culturali, linguistiche e religiose di cui sono portatori i singoli e i gruppi immigrati.
44
2.7 LA PROFESSIONE DEL MEDIATORE: TRA PRECARIETÀ E TERRITORIO. IL
CASO DI BOLOGNA
In questa sezione si vuole fornire una descrizione dell’impegno della regione Emilia-
Romagna nel normare la professione di mediatore linguistico-culturale.
Facchini e Martelli (in Luatti: 2006, 235-245) sottolineano infatti il vivo interesse della
regione per le dinamiche della mediazione e l’impegno per la tutela della professione. La
regione tra l’altro è stata la prima regione italiana a legiferare in materia di politiche per
l'integrazione dei cittadini immigrati dopo la riforma del Titolo V della Costituzione27 e
dopo la modifica della normativa nazionale (approvazione del decreto legislativo 286/98 o
"Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero") e delle sue successive modifiche previste dalla legge 189/2002.
In particolare nel 2001 la regione ha promosso insieme ad alcuni enti locali un Protocollo
d’intesa in materia di immigrazione straniera, in cui si è impegnata in cinque aree di
intervento:
governo dei flussi migratori;
lavoro e formazione professionale;
politiche abitative;
integrazione sociale;
nuova legislazione regionale
In particolare, nel protocollo si afferma:
la relazione tra culture differenti richiede che sia dedicata particolare attenzione alle azioni e ai progetti di mediazione culturale volti al superamento delle incomprensioni, diffidenze e conflitti che inevitabilmente si creano. La realizzazione efficace di interventi di mediazione culturale necessita però dell'attivazione di percorsi volti alla definizione del profilo professionale, all'individuazione di percorsi formativi specifici, alla differenziazione fra ambiti e modalità
27“Con la legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 viene riformata la parte della Costituzione riguardante il sistema delle Autonomie Locali e dei rapporti con lo Stato. Sono da mettere in evidenza: la nuova struttura istituzionale, la ripartizione della potestà legislativa e amministrativa, lo schema di finanziamento e i rapporti finanziari tra enti, la possibilità di forme di autonomia differenziata per le Regioni a Statuto Ordinario, l’abrogazione dei controlli preventivi sugli atti delle Regioni” (Espa e Felici: 2003, 29) Si specifica all’art. 117 c. 3 “E’ competenza esclusiva dello Stato l’insieme delle politiche dell’immigrazione; sono di competenza delle Regioni le politiche di integrazione e, tra queste, anche quelle della mediazione interculturale, che giuridicamente si configurano a titolo concorrente od esclusivo, secondo un’articolazione basata su un duplice livello che garantisce al livello regionale un intervento di tipo programmatorio e riserva al livello locale le attività propriamente di erogazione e gestione dei servizi”.
45
d'intervento, alle modalità organizzative per la gestione di progetti e servizi, alla destinazione di risorse economiche specifiche. La progettazione di iniziative in tal senso non possono e non devono non disporre della ricca esperienza realizzata in questa regione dall'associazionismo, dal volontariato e dalla cooperazione sociale. (Protocollo d'intesa in materia di immigrazione straniera, 2001 in Luatti: 2006, 236)
Successivamente a queste affermazioni, con la legge n. 5 del 24 marzo 2004 “Norme per
l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati. Modifiche alle leggi regionali 21
febbraio 1990, n. 14 e 12 marzo 2003, n. 2”, la Regione Emilia-Romagna si propone di
normare l’integrazione dei cittadini extra-europei nel territorio. La regione Emilia-
Romagna, infatti, ai sensi del Testo unico sull’immigrazione e ispirandosi ai principi di
garanzia dei diritti fondamentali della persona che più volte sono stati ribaditi all’interno
dell’Unione Europea, si impegna a garantire i diritti fondamentali ai cittadini dei paesi extra
europei e apolidi presenti sul territorio regionale.28
La legge 5/2004 quindi, va ricondotta all’interno di uno sforzo migliorativo della
legislazione previgente, che affrontava il fenomeno dell’immigrazione in maniera del tutto
emergenziale, e si pone l’obiettivo di assicurare una maggiore coesione sociale tra vecchi e
nuovi residenti alla luce del nuovo carattere stanziale dell’immigrazione nella regione.
L’impegno della regione a favore della rimozione degli ostacoli al pieno inserimento
sociale, si legge chiaramente al c. 4 dell’art. 1 (legge 5/2004):
4. In conformità ai principi del Testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 e della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) ed in raccordo con le disposizioni della legge regionale 12 marzo 2003, n. 2 (Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema
28All’art. 1 capo 1 della legge 5/2002 si legge: 1. La Regione Emilia-Romagna, nell'esercizio delle proprie competenze ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione e del Testo unico emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 concernente la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (di seguito denominato "Testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998"), ispirandosi ai principi ed ai valori della "Dichiarazione fondamentale dei diritti dell'uomo" del 10 dicembre 1948, della "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea", proclamata a Nizza il 7dicembre 2000 (di seguito denominata "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea"), agli impegni assunti con la Carta europea dei diritti dell'uomo nella città, sottoscritta a Saint-Denis il 18 maggio 2000 ed alla Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale adottata dal Consiglio d'Europa e ratificata con legge 8 marzo 1994, n. 203 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992, limitatamente ai capitoli A e B), concorre alla tutela dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e degli apolidi, presenti nel proprio territorio, riconoscendo loro i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.
46
integrato di interventi e servizi sociali), le politiche della Regione e degli Enti locali sono finalizzate: a) alla rimozione degli ostacoli al pieno inserimento sociale, culturale e politico; b) al reciproco riconoscimento ed alla valorizzazione delle identità culturali, religiose e linguistiche, ispirandosi ai principi di uguaglianza e libertà religiosa secondo gli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione; c) alla valorizzazione della consapevolezza dei diritti e dei doveri connessi alla condizione di cittadino straniero immigrato, come disciplinata dalle convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo, dall'ordinamento europeo ed italiano.
Attraverso i successivi artt. 12 e 13, la regione si impegna chiaramente alla protezione di
vittime di situazioni di violenza o di grave sfruttamento e all’assistenza sanitaria.
All’art. 17, punto e), nell’ambito del Capo IV “Interventi in materia di accesso ai servizi
educativi per l'infanzia, diritto allo studio, istruzione e formazione professionale,
inserimento lavorativo, integrazione e comunicazione interculturale”, la legge prevede:
il consolidamento di competenze attinenti alla mediazione socio-culturale, secondo la normativa regionale in materia di formazione professionale, finalizzate alla individuazione ed alla valorizzazione di una specifica professionalità volta a garantire sia la ricognizione dei bisogni degli utenti, sia l'ottenimento di adeguate prestazioni da parte dei servizi.
La definizione di “mediatore”, nell’art. citato, indicato come socio-culturale, risulta
convergere nell’aiuto e nell’accoglienza degli utenti che richiedono specifici servizi. Resta
comunque abbastanza vago l’ambito di azione di queste figure professionali e nello
specifico restano vaghe le mansioni.
Con la delibera n.1576 del 30 luglio 2004 “Prime disposizioni inerenti la figura
professionale del mediatore interculturale” la Regione Emilia-Romagna ha definito gli
standard formativi essenziali per il riconoscimento della qualifica di mediatore
interculturale e ha fissato tale figura professionale con la delibera n. 2212 del 10 novembre
2004, “Approvazione repertorio delle qualifiche professionali regionali”. In queste delibere
vengono individuate le competenze del mediatore e i contenuti del percorso formativo, ma
non vengono indicati i requisiti d'accesso alla professione. Non vengono date informazioni
precise riguardo all’età, i gradi d’istruzione richiesti e le nazionalità.
Il 7 febbraio 2006, la Giunta regionale ha approvato il Programma Triennale 2006-2008
per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri sulla base dell'art. 3 della legge regionale
5/2004. In particolare al punto 14 del programma relativo alla “Comunicazione e
47
mediazione interculturale”, si incoraggiano enti ed istituzioni a promuovere e sviluppare
interventi per l’integrazione e la comunicazione interculturale, attraverso una serie di
possibilità operative, tra le quali, le attività dei Centri interculturali, eventi per la
promozione dei valori delle culture d’origine dei migranti e il consolidamento di
competenze attinenti alla mediazione socio-culturale attraverso la presenza nei servizi delle
figure dei mediatori interculturali. In seguito, in data 16 dicembre 2008, la Giunta
Regionale ha decretato l'approvazione del Programma Triennale 2009-2011 per
l'integrazione sociale dei cittadini stranieri. Gli obiettivi strategici del programma sono:
- la promozione dell’apprendimento e dell’alfabetizzazione della lingua italiana per favorire
i processi di integrazione e consentire ai cittadini stranieri una piena cittadinanza sociale e
politica;
-la promozione di una piena coesione sociale attraverso processi di conoscenza, formazione
e mediazione da parte dei cittadini stranieri immigrati e italiani. Il Programma specifica
infatti (Programma Triennale 2009-2011, p.5) : “Anche a questo fine occorre potenziare le
competenze interculturali e di mediazione degli operatori pubblici necessarie per garantire
pari opportunità di accesso ai servizi; competenze che la Regione ha definito nell'ambito
delle qualifiche professionali regionali con deliberazioni della Giunta regionale n.
2212/2004 e n. 265/2005”;
-la promozione di attività di contrasto al razzismo e alle discriminazioni, lavorando su:
prevenzione ed educazione, sostegno a progetti e azioni per eliminare alla base le situazioni
di svantaggio, opportunità di orientamento, assistenza e consulenza legale, e un lavoro
costante di osservazione del fenomeno nel territorio regionale, con particolare attenzione al
ruolo dei mezzi di informazione.
Con la delibera di giunta n. 265/2005 la Regione Emilia-Romagna ha inoltre approvato gli
standard dell’Offerta Formativa. Nell’ambito degli standard formativi del Sistema regionale
delle qualifiche. Il mediatore interculturale si colloca nell'area professionale “Assistenza
sociale, sanitaria, socio-sanitaria” e il percorso formativo prevede:
corsi di 500 ore, con una quota di ore di stage pari almeno al 35-45% del monte ore
complessivo, rivolti a giovani non occupati, che hanno concluso un percorso di
istruzione e formazione con il conseguimento del relativo titolo finale;
48
corsi di 300 ore per giovani-adulti occupati o disoccupati (con un periodo di stage
pari al 20-40% del monte ore totale) la cui durata può essere ridotta fino ad un
minimo di 200 ore, in funzione delle caratteristiche dei partecipanti.
Secondo quanto previsto dalla Regione, quindi (Delibera di Giunta regionale dell’Emilia-
Romagna n. 2212/2004) il mediatore interculturale deve essere in grado di “accompagnare
la relazione tra immigrati e contesto di riferimento, favorendo la rimozione delle barriere
linguistico-culturali, la conoscenza e la valorizzazione delle culture di appartenenza,
nonché l’accesso a servizi pubblici e privati. “[Il mediatore] assiste le strutture di servizio
nel processo di adeguamento delle prestazioni offerte all’utenza immigrata. Può operare
all’interno di servizi pubblici e privati (ufficio stranieri, Aziende USL, scuole, ecc.) e
strutture che promuovono l’integrazione socioculturale”. La delibera regionale 2212/2004
individua poi, quattro tipi di competenze necessarie affinché il mediatore possa svolgere
compiutamente la sua funzione, e cioè:
• la capacità di diagnosi dei bisogni e delle risorse dell’utente immigrato, che consiste
sostanzialmente nell’interpretare correttamente le esigenze dell’utente e nel tradurne
bisogni e risorse in azioni di accompagnamento e assistenza;
• la capacità di orientamento della relazione utente immigrato/servizi, per cui il mediatore
deve saper fornire ad entrambe le parti in gioco gli elementi conoscitivi necessari a
impostare una relazione corretta; l’intermediazione linguistica, di comprensione e
decodificazione delle lingue in uso nella relazione utente/servizio;
• la mediazione interculturale, che consiste invece nell’interpretare i codici culturali e nel
facilitare lo scambio tra le parti;
• l’intermediazione linguistica, che consiste nel comprendere ed interpretare linguaggio e
significati della comunicazione in lingua straniera e nel decodificare e trasmettere all’utente
straniero i codici verbali e non verbali espressi dall’operatore italiano, rimuovendo ogni
ostacolo ad una efficace relazione comunicativa.
Si consideri ora il rapporto di ricerca del 2010 della regione Emilia-Romagna, a proposito
della “Mediazione interculturale nei servizi alla persona”, che si propone attraverso
l’attività del Servizio Politiche per l’accoglienza e l’integrazione sociale di conoscere
49
meglio coloro che nel territorio operano come mediatori/mediatrici interculturali (ma anche
linguistici e culturali) nei servizi alla persona (straniera) della regione (sportelli e centri
informativi per stranieri, Aziende USL, Ospedali, consultori, scuole, centri per l’impiego,
servizi per migranti).
Come segnalato dal rapporto, oggi, nel territorio regionale è possibile trovare sia servizi di
mediazione linguistico-culturale che punti informativi per stranieri in cui sono impiegati
operatori con elevati livelli di competenza in campo giuridico, linguistico e
dell’organizzazione dei servizi amministrativi, sociali e sanitari. Il rapporto parla di servizi
di mediazione diffusi negli ambiti dei servizi sanitari, sportelli informativi comunali,
scuole, servizi educativi, centri per le famiglie, carceri. Si registra un netta prevalenza del
settore sanitario (tutte le sedici aziende sanitarie della regione dispongono infatti di una
presenza, fissa e/o programmata o su chiamata, di mediatori/mediatrici interculturali, in
particolare nei servizi di ostetricia e ginecologia, e spazi dedicati alle donne immigrate in
generale).
La ricerca ha permesso di definire che sono 282 i mediatori “strutturati” operativi in
regione, a cui si aggiungono altri 567 mediatori occasionali29. Altre caratteristiche peculiari
dei servizi di mediazione in regione riguardano la forte femminilizzazione del campo, “la
componente femminile rappresenta infatti oltre il 90% delle figure di intermediazione
interculturale e, in alcune realtà, anche rilevanti e costituite da più aziende sanitarie, come
Bologna, Reggio-Emilia o Modena, è addirittura esclusiva.” (La mediazione interculturale
nei servizi alla persona della regione Emilia-Romagna: 2010, 21)
Spesso, i mediatori e le mediatrici, non si occupano solo ed esclusivamente di un’etnia, o
gruppo linguistico, ma praticano la loro attività anche a favore di più ambiti linguistico-
culturali. É stato inoltre largamente sottolineato che talora è addirittura più facile mediare in
presenza di mediatrici o mediatori che assumono posizioni culturalmente neutre. 30
29Con il termine “strutturato” si fa riferimento ad una condizione occupazionale che garantisce una certa continuità di impegno nel tempo; con il termine “occasionali” si intendono quei mediatori che abbiano svolto nell’ultimo anno, almeno una prestazione di mediazione, si riferisce quindi ad un’attività saltuaria e poco continuativa. (cfr. “La mediazione interculturale nei servizi alla persona della Regione Emilia-Romagna”, 2010, p. 20) 30Il rapporto di ricerca porta l’esempio di una donna pakistana di religione musulmana che ha preferito alla mediatrice bengalese, che pur parlava Urdu, una mediatrice europea che parlava inglese.
50
L’offerta si concentra su lingue di ambito europeo (rumeno, moldavo, albanese, russo,
ecc.). La copertura maggiore dell’offerta di mediatori riguarda il mondo arabo, a cui
seguono i mediatori cinesi.
Il rapporto chiarisce inoltre le differenze esistenti tra mediazione interculturale, utilizzata in
una prospettiva che tende a enfatizzare le nozioni di scambio e reciprocità, e mediazione
linguistico-culturale, utilizzata quando è necessario assicurare una buona comprensione
delle richieste delle parti. Si entra poi nella specificità della mediazione culturale che
assume caratteristiche più specialistiche e riguarda i servizi sociali professionali, per
richiedenti asilo o per la protezione delle vittime di tratta o violenza.
Il rapporto predilige il termine “mediazione interculturale”, condividendo sostanzialmente
quella prospettiva che sottolinea l’aspetto dell’interazione e dello scambio, e guarda quindi
alla cultura in termini di flessibilità.
Permane un’incertezza di fondo rispetto a questa figura professionale sospesa tra
volontariato e professionalità, fra appartenenza alla comunità d’origine e identificazione
con quella d’accoglienza.
Nel tentativo di definire un profilo comune volto a colmare il vuoto legislativo, si inserisce
il documento approvato della conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome. Tale
documento ricorda come effettivamente la presenza di varie definizioni come “mediatore
culturale”, “mediatore linguistico-culturale”, “mediatore di madrelingua”, “tecnico esperto
in mediazione” sia una spia della frammentazione e disomogeneità delle diverse proposte di
profilo formulate da Enti territoriali ed Enti locali per la stessa figura professionale.
La questione del riconoscimento della figura professionale del mediatore interculturale è
cruciale nell’ambito delle politiche di integrazione sociale degli stranieri e solleva la
necessità di mettere in atto una collaborazione e quindi una strategia comune tra Stato,
Regioni e Province autonome ed Enti locali nell’ambito dell’immigrazione straniera.
Un altro rapporto importante che attesta l’impegno della regione nel campo della
mediazione è quello prodotto nel 2006 dall’Osservatorio delle Immigrazioni. Il rapporto si
concentra sulla descrizione del panorama bolognese rispetto ai servizi per gli utenti
stranieri. I servizi in cui i mediatori sembrano operare sono i servizi sanitari, in cui
esperienza pilota è quella del Centro per la salute delle donne straniere e dei loro bambini,
51
che dal 1990 assicura accoglienza e informazioni sull’accesso alla sanità oltre che visite
mediche. Inoltre il rapporto attesta che i mediatori operano anche nell’ambito dei centri per
l’impiego, nelle carceri e nelle associazioni.
Si aggiunge inoltre nelle “Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura professionale
del mediatore interculturale”, del Gruppo di Lavoro istituzionale per la promozione della
Mediazione Interculturale, l’urgenza di conciliare l’esperienza pregressa con la
diversificazione necessaria degli impieghi e la chiarezza dei ruoli. Questo alla luce
dell’enorme portata che il fenomeno dell’immigrazione ha sul Paese.
In questo documento si ribadisce la necessità di evitare livelli di mediazione non
qualificata, l’attività di mediazione invece deve agire in termini di efficacia, affidabilità,
trasparenza, rigore e neutralità, oltre che attraverso sufficienti conoscenze del contesto di
riferimento. Viene ventilata la possibilità di creare registri nazionali, per la consultazione
rapida di mediatori con le stesse caratteristiche a livello nazionale. Sarebbe inoltre bene,
individuare garanzie anche in termini di contratti e di minimi garantiti, cosa che potrebbe
incentivare nuovi soggetti a intraprendere questa carriera professionale.
Secondo quanto affermato nelle “Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura
professionale del mediatore interculturale” dunque normare il dispositivo di “mediazione
interculturale” potrebbe essere molto utile al fine di rendere la formazione, i singoli corsi e
la legislazione regionale funzionale ad uno standard nazionale e quindi condiviso. Oggi
invece, nonostante la pratica della mediazione sia consolidata, per lo meno in settori come
quello sanitario e scolastico, non c’è un frame di riferimento e sebbene l’impegno della
regione Emilia-Romagna sia sicuramente lodevole31, bisogna comunque sottolineare come
la possibilità data ad ogni regione di legiferare in questa materia autonomamente, può
creare ulteriori ambiguità a livello nazionale. Si fa riferimento al fatto che ogni regione ha
stabilito profili e standard differenti, e in alcuni casi la figura professionale del mediatore
linguistico-culturale non è nemmeno prevista. Il rischio, pertanto, è quello di “formare un
31A proposito del lodevole impegno della regione Emilia-Romagna nella normazione della mediazione linguistico-culturale, si ricordi che in base all’indagine di CISP-UNIMED, l’Emilia-Romagna figura al secondo posto in termini di attività di mediazione promosse, con il 10% sul totale nazionale, dopo la Lombardia (14,3% del totale). Questi dati sono presenti all’interno del rapporto “La mediazione interculturale nei servizi: il caso della provincia di Bologna”, 2006, p. 5.
52
mediatore con un corso di 300 ore in Emilia- Romagna che poi si trasferisce in un'altra
regione dove il suo certificato non ha alcun valore o perché in quella regione non esiste
affatto il profilo o perché è stato individuato un profilo per la professionalizzazione del
quale sono richieste più ore” (Piccinini in Luatti: 2006, 103).
Alla luce di queste considerazioni sarebbe sicuramente auspicabile la nazionalizzazione del
sistema delle qualifiche: in questo modo si potrebbe avere un riferimento in termini di
mediazione, su tutto il territorio nazionale, relativamente all’esercizio della professione e
agli aspetti ad esso connessi, evitando che questa nuova professionalità resti esclusivamente
una realtà locale.
53
CAPITOLO 3
L’ESPERIENZA SUL CAMPO: PER UN’ANALISI EMPIRICA DELLA
MEDIAZIONE LINGUISTICO-CULTURALE. IL CIE DI BOLOGNA32
“Ma Fatima adesso è diversa, giusto o non giusto è entrata nell’eternità, c’è una Legge
che lo stabilisce, si chiama Turco-Napolitano, o Legge 40, una Legge del 1998 che stabilisce che per alcuni, come Fatima, il tempo sia sospeso, che la loro vita cambi, che
entrino negli alberghi dell’eternità, che non si sentano altre persone, ma diverse sì, certo
diverse, non c’è davvero bisogno di chiederlo, è la Legge a stabilirlo, loro pensavano di
essere uguali, uguali agli altri e uguali a se stessi […] diversi rispetto a me, […] al
Presidente della Croce Rossa, alla Turco e a Napolitano, e diversi rispetto a se stessi, diversi, certo che sono diversi. È ovvio che Fatima sia diversa”
(Sossi: 2002, 70)33
3.1 NOTE METODOLOGICHE DELLA RICERCA
Come anticipato, in questo capitolo si esporrà quanto emerso in seguito all’attività di
volontariato presso il C.I.E. di Bologna. L’attività svolta, sotto la supervisione dell’équipe
del Progetto Sociale interno al C.I.E., si è indirizzata a scandagliare i meccanismi e le
forme della mediazione linguistico-culturale, in una struttura così peculiare.
Il presente contributo trova, per questo, il proprio centro focale all’interno dell’esperienza
di volontariato, che ha reso possibile sviluppare una ricerca pienamente aderente alla realtà
del contesto e alle sue caratteristiche. La particolare conformazione dell’équipe
multidisciplinare del Progetto Sociale e le esigenze del contesto hanno richiesto che
32In alcuni passaggi di questo capitolo, soprattutto nei paragrafi 3.4 e 3.5, si è reso necessario adottare la prima persona singolare. La scelta si deve al forte grado di coinvolgimento nella ricerca, in cui chi scrive è stato anche il diretto osservatore dei fatti narrati. 33F. Sossi si è occupata nel libro “Autobiografie negate”, da cui questo passaggio è stato estrapolato, di descrivere attraverso interviste ai trattenuti degli allora Centri di permanenza temporanea e assistenza (C.P.T.A.) di Milano, Agrigento e Torino, gli aspetti del trattenimento. In particolare, il passo riportato a cui la presente nota fa riferimento, condensa in poche righe quella sensazione di “diversità” rispetto agli altri avvertita dalle persone trattenute, dovuta alla privazione dell’identità e dei diritti che il trattenimento nel C.I.E. implica.
54
l’attività di volontariato si sviluppasse in maniera piuttosto attiva al fianco dell’équipe,
divenendo un’attività formativa e un’occasione di ricerca uniche.
Prima di esporre i risultati derivanti da questa attività, sembra necessario, vista la
particolarità del contesto, a molti sconosciuto in termini di funzionamento, offrire una
premessa metodologica al lavoro, perché possa essere inquadrato nella complessità della
cornice di riferimento, a livello giuridico, burocratico e soprattutto umano.
Inoltre, la peculiare conformazione dell’équipe del Progetto sociale ha richiesto una
considerazione globale del C.I.E. di Bologna e dei servizi alla persona presenti, con
riferimenti a tutte le professionalità coinvolte che collaborano in favore della persona
trattenuta; si consideri che la complessa realtà psicologica e sociale di provenienza di
queste persone influenza fortemente la pianificazione delle attività di mediazione, la quale
non può proporsi mediante gli stessi schemi di altri contesti. Al contrario, come si
dimostrerà in seguito, la mediazione al C.I.E. si configura come un’attività di sostegno
attorno alla quale si costruisce la rete d’aiuto in favore del trattenuto.
L’idea del volontariato e successivamente del presente lavoro di tesi ha preso forma in
seguito alla partecipazione al workshop del 18 febbraio 2012 a Bologna, “C.I.E e C.A.R.A.
- Istruzioni per l’uso” a cura della campagna LasciateCIEntrare34 in collaborazione con la
Federazione nazionale della stampa italiana e l`Ordine nazionale dei Giornalisti. Il
workshop ha chiarificato la struttura e il funzionamento del C.I.E. e in particolare
l’intervento di Alessandra Ballerini (avvocato ASGI35), riferendosi alla normativa in tema
di espulsione e detenzione amministrativa, diritto di asilo, protezione e art. 18 e ai casi di
inespellibilità, ha fornito una spiegazione alla complessa realtà della politica italiana in
merito a immigrazione ed espulsioni.
In una fase successiva, l’incontro con l’assistente sociale del C.I.E. di Bologna, ha
permesso di costruire il network delle professionalità presenti all’interno della struttura;
quindi fatta la conoscenza del responsabile del Progetto Sociale, che si occupa
34La campagna “LasciateCIEntrare” è nata a seguito del divieto di ingresso nei CIE e nei CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) espresso nella circolare n.1305 del 01/04/2011 firmata dall’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni. La circolare è stata in seguito revocata nel dicembre dello stesso anno, dall’attuale Ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. 35Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione.
55
dell’organizzazione del gruppo di lavoro e della progettazione di azioni di sostegno e
riduzione del danno per le persone immigrate trattenute nella struttura, si è arrivati ai
contatti di due mediatrici, Amina, tunisina e Mary mediatrice nigeriana36.
Con l’ausilio di uno strumento flessibile come l’intervista di tipo qualitativo37 è stato
possibile addentrarsi nella conoscenza del fenomeno della mediazione linguistico-culturale
all’interno del C.I.E. Nello specifico, attraverso l’intervista qualitativa di tipo semi
strutturato38, si è quindi posta alle persone intervistate (l’assistente sociale, il responsabile
del Progetto Sociale dott. Franco Pilati e la mediatrice tunisina) una serie di domande
simili, lasciando libero l’intervistato di rispondere come meglio credeva. L’intervista si è
sviluppata come un colloquio esplicativo sui temi della mediazione linguistico-culturale in
un “nonluogo” come il C.I.E.39, e più in generale sugli aspetti chiave del trattenimento in un
carcere amministrativo; non ha seguito uno schema fisso, ma, limitatamente alle esigenze e
ai temi che gli intervistati evidenziavano, le domande inizialmente previste si sono
susseguite come in un colloquio a partire dalla traccia primaria della mediazione, in
un’ottica di scambio di informazioni e delucidazioni.
L’asimmetria tra l’intervistato e l’intervistatore (me stessa) in termini di informazioni
possedute, ha richiesto una totale disposizione all’ascolto da parte dell’intervistatore e la
36Come anticipato nell’introduzione, mi riferirò spesso a queste due mediatrici utilizzando gli pseudonimi di Amina e Mary, per proteggerne la privacy. 37L’intervista qualitativa è “una conversazione provocata dall’intervistatore, rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione e in numero consistente, avente finalità di tipo conoscitivo, guidata dall’intervistatore, sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di interrogazione” (Corbetta: 1999 in E. Amaturo, “L’approccio qualitativo. L’intervista qualitativa”. Consultabile su: http://www.federica.unina.it/sociologia/metodologia-e-tecnica-della-ricerca-sociale/lapproccio-qualitativo-lintervista-qualitativa/.) 38All’interno della tipologia dell’intervista qualitativa, le sottocategorie si pongono in un continuum a seconda della maggiore o minore flessibilità: all’estremo di minore flessibilità vi è l’intervista strutturata, a quello opposto, l’intervista non strutturata. “L’intervista semi strutturata prevede una traccia che riporta gli argomenti che necessariamente devono essere affrontati durante l’intervista; essa può essere costituita da un elenco di argomenti o da una serie di domande a carattere generale. […] La conduzione dell’intervista può variare sulla base delle risposte date dall’intervistato e sulla base della singola situazione. L’intervistatore, infatti, non può affrontare tematiche non previste dalla traccia ma, a differenza di quanto accade nell’intervista strutturata, può sviluppare alcuni argomenti che nascono spontaneamente nel corso dell’intervista qualora ritenga che tali argomenti siano utili alla comprensione del soggetto intervistato. Può accadere, ad esempio, che l’intervistato anticipi alcune risposte e quindi l’intervistatore può dover modificare l’ordine delle domande. In pratica, la traccia stabilisce una sorta di perimetro entro il quale l’intervistato e l’intervistatore hanno libertà di movimento consentendo a quest’ultimo di trattare tutti gli argomenti necessari ai fini conoscitivi.” (Ibidem) 39L’accostamento del C.I.E. ad un nonluogo verrà sviluppata nel paragrafo successivo.
56
capacità di mettere in discussione i piani precedentemente sviluppati a proposito dello
svolgimento dell’intervista. Con l’ausilio di un blocco per appunti, e dopo aver illustrato gli
scopi dell’intervista si è proceduto con domande che andavano dal generico al particolare.
L’intervista di tipo qualitativo si è insomma configurata come un valido supporto
conoscitivo iniziale.
L’intento di osservare in fieri le pratiche di mediazione linguistico-culturale e il lavoro
svolto dall’équipe di Progetto Sociale in loco, sono stati supportati dalla scelta di tenere un
diario per ogni ingresso nel C.I.E. (cfr. Allegati). Lo strumento si è rivelato estremamente
operativo: ha concesso, durante i mesi di volontariato, l’esplorazione e la registrazione
degli aspetti caratterizzanti l’attività di mediazione e più in generale degli aspetti
psicosociali del trattenimento di cui occorre tenere conto nella pianificazione delle strategie
di sostegno ai trattenuti. Il diario di bordo non si è configurato come un monologo a tema
libero sul volontariato al C.I.E., piuttosto attraverso la sistemazione per iscritto degli eventi
e delle esperienze vissute al C.I.E. si è rivelato una preziosa risorsa per fissare tematiche ed
emozioni che altrimenti sarebbero rimaste solo pensieri; è stato altresì importante per la mia
personale gestione psicologica dell’esperienza, a impatto emotivo altissimo. Il diario ha
sicuramente costituito il tramite tra attività di volontariato e ricerca perché ha permesso di
fissare quanto osservato e di canalizzarlo nelle tematiche che si è scelto di approfondire e
trattare nel presente contributo. Tuttavia, in quanto supporto emotivo dell’esperienza
include comunque una forte dose di soggettività. Si è pensato di organizzare il diario a
partire da ciascun ingresso nel C.I.E., riportando data e ore complessive di presenza. Molto
spesso si sono riportate solo parole chiave ad alto potere evocativo, che anche a distanza di
tempo riaccendono momenti, esperienze ed insegnamenti. Non si è infatti curato lo stile del
diario, quanto invece si è voluto verbalizzare fatti, racconti e strategie di lavoro.
La strategia di ricerca chiave è stata l’osservazione partecipante40: nonostante il forte grado
di soggettività che essa implica, si è rivelata molto utile per approfondire i temi della
40L’osservazione partecipante è una strategia di ricerca nella quale il ricercatore si inserisce in maniera diretta e per un periodo di tempo relativamente lungo in un determinato gruppo sociale preso nel suo ambiente naturale, istaurando un rapporto di interazione personale con i suoi membri allo scopo di descriverne le azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le motivazioni (Corbetta, 1999 in E.Amaturo). La tecnica, nata in ambito antropologico fra il XIX e il XX secolo, fu definita esplicitamente per la prima volta da B. Malinowski nell’introduzione del suo libro “Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922).
57
mediazione linguistico-culturale nel Centro di Bologna. Il contatto diretto previsto da
questa tecnica, unitamente alla (mia) posizione di volontaria, hanno permesso di sviluppare
contatti diretti con gli attori del contesto e quindi una visione “dal di dentro” del fenomeno,
che fosse la base della comprensione dello stesso.
Si è scelto di sviluppare con le persone trattenute una relazione umana fondata sulla
comprensione dei bisogni primari di ascolto e attenzione delle problematiche personali, e
per questo si è adottata una modalità di ricerca covert41, per non rischiare di compromettere
la relazione poco a poco costruita e non inibire le persone trattenute nell’espressione dei
loro bisogni.42 È comunque evidente che questa modalità d’indagine implichi problemi
deontologici per il ricercatore, non è infatti trasparente, ma permette di entrare più in
sintonia con il gruppo. Al contrario, adottando una modalità overt, ho manifestato nel corso
del periodo di volontariato ai membri dell’équipe del Progetto Sociale, il mio interesse
all’approfondimento delle tematiche della mediazione linguistico-culturale.
La pianificazione e lo svolgimento della ricerca hanno seguito alcune fasi43:
la decisione sugli obiettivi dell'indagine;
la decisione sul gruppo di soggetti da studiare;
l'accesso al gruppo;
l'instaurazione di un rapporto con i soggetti da studiare;
la realizzazione dell'indagine mediante osservazione e registrazione44
41In relazione al fatto che i membri del gruppo sociale considerato possono essere a conoscenza oppure no dell'identità del ricercatore, si parla di ricerca covert (nell’ipotesi della segretezza dell’identità del ricercatore) e di ricerca overt (nel caso in cui l’identità e il ruolo del ricercatore siano riconosciuti e la ricerca venga quindi condotta in totale trasparenza). La prima soluzione ha lo scopo di non produrre alterazioni di sorta nell'ambiente, la seconda è più consona a situazioni nelle quali il ricercatore abbia lo scopo di introdurre (anche con la sua presenza) stimoli. Cfr. M. Niero, Paradigmi e metodi di ricerca sociale, Coop. Nuovo Progetto, 190-195, “Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 2. Consultabile su: http://vettorato.unisal.it/Animazione/OsservazionePartecipante.pdf). 42Ad esempio con trattenuti come E. vivace donna moldava, l’utilizzo della modalità overt, avrebbe rappresentato il fallimento della ricerca stessa. Quando un gruppo di giornalisti, ad esempio, alla fine di maggio 2012 sono entrati al C.I.E. per realizzare un servizio informativo, la donna, scocciata dalle domande e dalla presenza dei giornalisti, urlò loro da lontano: “Principessa, la prossima volta che torni portami un paio di ciabatte nuove” (in “Voci da una terra di nessuno chiamata C.I.E.” di A. Testa, Il Manifesto [online], 26 maggio 2012. Consultabile su: http://www.ilmanifestobologna.it/wp/2012/05/voci-da-una-terra-di-nessuno-chiamata-cie/). 43Si fa riferimento a Niero, “Alcune note sull’osservazione partecipante” p.3. 44Si tenga presente che per ragioni di privacy e a causa dell’eccessiva delicatezza dei temi trattati, non è stato possibile registrare i colloqui in nessun caso.
58
l'analisi dei dati;
la redazione del rapporto di ricerca.
È stato importante il ruolo di gatekeeper45 del dott. Pilati, che ha facilitato attraverso
spiegazioni e consigli, il lavoro nel contesto, fornendone le chiavi d’accesso interpretative,
rispetto a quelle peculiarità che verranno descritte nel paragrafo successivo.
Si è ritenuto importante filtrare prima dal punto di vista emotivo l’esperienza per poi, una
volta trascorso un tempo di “assimilazione e di assestamento” (di più o meno due
settimane), procedere alla stesura del presente contributo.46
Attraverso le interviste destrutturate47, si è inoltre avuto modo di confrontarsi con i
mediatori, casualmente o su esplicita richiesta, su temi ed eventi accaduti durante i mesi di
volontariato. È risultato di fondamentale importanza, confrontare quanto rimarcato
soggettivamente, con le opinioni e gli atteggiamenti dei mediatori e dei membri dell’équipe
che hanno fornito di volta in volta chiarimenti riguardo al trattamento di casi specifici. Tali
chiarimenti hanno quindi fornito nell’immediato gli strumenti per procedere con l’attività di
volontariato, ma hanno anche permesso di comprendere il perché di determinate azioni,
alimentando l’interesse per il tema del presente contributo.
Da ultimo, bisogna considerare la difficoltà dovuta alla fase di uscita dal contesto48. La
chiusura dell’esperienza ha rispecchiato i meccanismi covert e overt precedentemente
esposti: si è voluto quindi annunciare la fine dell’attività al Progetto Sociale; con le persone
trattenute, si è proceduto ad una chiusura tacita, spiegare le ragioni della fine del periodo di
45“Il gatekeeper (letteralmente "portiere") è una persona che fornisce l'accesso per introdurre il ricercatore nel campo di indagine. Egli costituisce la prima interfaccia con il campo di analisi, e da lui il ricercatore trarrà le informazioni di prima mano sulle caratteristiche dell'ambiente in modo da conoscerne la struttura fondamentale (chi sono le persone, che ruoli hanno, ecc). Il gatekeeper è anche la persona che fornisce le chiavi per potere fare l'indagine in quell'ambiente (autorizzazioni formali, sostanziali, ecc.). In Niero, “Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 3. 46In questo senso, è stato di fondamentale aiuto il diario di bordo, perché ha favorito la fase di ricostruzione e di analisi dei dati raccolti. 47Si tratta di una tecnica di ricerca qualitativa che si riferisce a interviste che spesso si svolgono casualmente, senza che l'osservatore ne abbia provocato l'occasione. Le interviste prendono la forma di conversazioni su fenomeni specifici ai quali hanno assistito. In questo senso, il ricercatore dovrebbe essere pronto ad approfittare dell’opportunità di integrare l'osservazione con l’interazione. Altre volte, invece, le interviste sono appositamente programmate dall'osservatore desideroso di sviluppare temi specifici potenzialmente interessanti per la comprensione del contesto. (Cfr. Niero,“Alcune note sull’osservazione partecipante”, p. 5) 48La difficoltà si riferisce anche al fatto che il periodo di volontariato nella struttura ha corrisposto ad un periodo di crescita formativa e di costruzione di relazioni.
59
collaborazione a persone psicologicamente e comprensibilmente instabili che affrontano il
tempo e le tematiche ad esso connesso (cfr. paragrafo successivo) con tanta angoscia,
sarebbe stato considerevolmente destabilizzante. Si è preferito dunque lasciare la chiusura
un fatto casuale.49
3.2 IL CONTESTO DI RIFERIMENTO
I Centri d’Identificazione ed Espulsione sono strutture per migranti istituite in ottemperanza
all’art. 12 della legge 40/1998 (Legge Turco Napolitano):
Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell'Interno, di concerto con i ministri per la Solidarietà sociale e del Tesoro.
Vengono chiamati C.I.E. in seguito al decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008 "Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi convertito in legge (legge 125/2008).
Vengono istituiti in una situazione emergenziale, legata al peculiare atteggiamento del
legislatore italiano di fronte al fenomeno dell’immigrazione; sono gestiti dalla Croce Rossa,
o dalle Misericordie d’Italia, o ancora da associazioni appositamente create.
Il C.I.E. cui si fa riferimento si trova a Bologna, in via Mattei 60, alla periferia della città, in
una ex-caserma ed è gestito dalla Misericordia di Modena. Entrandovi si ha subito
l’impressione di fare ingresso in un “nonluogo”. Secondo quanto affermato da Augé:
“Il nonluogo è il contrario dell’utopia: esso non esiste e non accoglie alcuna società
organica”. (Augé: 1992, trad.it. 2009, 99)
Augé etichetta come nonluoghi i risultati della surmodernità50, spazi come aeroporti e
49Per ovvie questioni di privacy nell’esposizione dei casi esemplificativi, si è scelto di riportare la sola iniziale appuntata del nome di battesimo della persona trattenuta e la nazionalità. 50Una trattazione della surmodernità si ha in Augé: 1992, trad.it 2009, pp. 44-49. In maniera sintetica riportiamo cosa Augé intenda con questo termine: “Nell’estensione degli spazi virtuali c’è il segno di un rapido progresso della surmodernità, intesa come la combinazione di tre fenomeni: il restringimento dello
60
supermercati che hanno a che fare con individui (clienti, passeggeri, utenti) identificati,
socializzati e localizzati solo all’entrata e all’uscita. Afferma Augé:
se i nonluoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità. Appena gli individui si accostano, fanno del sociale e organizzano dei luoghi. Lo spazio della surmodernità è invece segnato da questa contraddizione, esso ha a che fare solo con individui (clienti, passeggeri, utenti, ascoltatori), ma questi sono identificati, socializzati e localizzati (nome, professione, luogo di nascita, indirizzo) solo all’entrata o all’uscita. […] È dunque come in una immensa parentesi che i non luoghi accolgono individui ogni giorno più numerosi. (1992, trad.it. 2009, 98-99)
In seguito all’esperienza diretta presso il C.I.E. di Bologna, si ritiene opportuno definire
anche il C.I.E. come un nonluogo. Effettivamente, il periodo di trattenimento, scandito dai
ritmi delle entrate e delle uscite51, e da un forte sentimento di angoscia, si configura proprio
come una grossa parentesi nella vita dell’individuo trattenuto, in attesa di risposte riguardo
al proprio destino oltre il C.I.E.
Il Centro di Bologna nel corso del tempo si è strutturato in modo unico in Italia, dotandosi
di un Progetto Sociale che, in accordo con l’Ufficio del Garante e con l’intervento degli enti
locali e di alcune associazioni, cooperative sociali, sindacati e volontari, autorizzati dalla
Prefettura di Bologna, assicura maggiore attenzione alle persone, in una prospettiva di
riduzione del danno derivante dal fallimento del progetto migratorio e dalla difficile
accettazione del ritorno al paese di origine, nonché di intervento a tutela dei diritti
fondamentali della persona, fornendo numerosi servizi, dai mediatori culturali, allo
psicologo, ai gruppi di mutuo-auto-aiuto, agli sportelli informativi, compreso quello per le
donne che provengono da situazioni di sfruttamento sessuale. E’ presente una biblioteca
che ha ricevuto libri da molte realtà cittadine, compresa l’Università di Bologna, che
consente anche lo svolgimento di tirocini agli studenti presso il Centro (cfr. “Quinta
Relazione sull’attività dell’ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà
personale, maggio 2008 - aprile 2009”, p. 55).
spazio, l'accelerazione del tempo e l'individualizzazione dei destini.” In M Garofalo., “Non luoghi e “surmodernità” - incontro con Marc Augé”, Il Sole 24 ore [online], 17 luglio 2008. Consultabile su: http://maurogarofalo.nova100.ilsole24ore.com/2008/07/i-nonluoghi-e-i.html. 51È sicuramente interessante far presente che l’uscita dal C.I.E., sia essa per rimpatrio, che per l’ottenimento del permesso di soggiorno per salute o per protezione internazionale, viene vissuta come una festa, da parte di tutti i trattenuti. Si ricorda il caso di una ragazza nigeriana, richiedente asilo, che dopo tre mesi di permanenza presso il C.I.E., finalmente ottiene il rilascio per permesso di soggiorno secondo l’art. 18 T.U.: la sua uscita dal C.I.E. diventa un susseguirsi di canti e balli della tradizione yoruba (l’etnia nigeriana della ragazza).
61
Come afferma Pilati nella sua relazione “La condizione dello straniero nel C.I.E.”
presentata in occasione del seminario che si è svolto il 14 maggio 2010 a Bologna, sul tema
“La condizione dello straniero nel carcere”52, la struttura sembra partecipare al medesimo
genus delle “istituzioni totali” cui appartiene anche il carcere. La vocazione delle due
istituzioni potrebbe apparire comune, tuttavia, la natura relativamente recente dei C.I.E., si
rivela un elemento di “sfavore” per questi ultimi, che appaiono meno “normati” e meno
strutturati rispetto all’istituzione carceraria e, pertanto, anche meno in grado di fronteggiare
necessità e bisogni della popolazione trattenuta. Pilati inoltre afferma che non di rado lo
straniero proveniente dal carcere sostiene di preferire la condizione di detenuto perché
meno mortificante, rispetto al trattenimento al C.I.E. L’esperienza carceraria infatti rientra
in una dimensione culturale, essendo la punizione che quel paese infligge a chi ha infranto
la legge. Invece la condizione di forte casualità legata al C.I.E., fa perdere di vista i motivi
del trattenimento e fa crescere nel trattenuto rabbia e angoscia.
A caratterizzare la struttura, “in maniera pervasiva”, come afferma Pilati nella relazione già
citata, vi è la forte dose di casualità. La presenza del migrante irregolare nella struttura è
condizionata infatti da una serie di fattori come l’indisponibilità del vettore per il rimpatrio
immediato, e la disponibilità di posti nella struttura stessa. Spesso, sottolinea Pilati nella
sua relazione, la mancanza di risorse adeguate fa sì che la maggior parte dei provvedimenti
di espulsione sia eseguita con una “semplice” intimazione a lasciare il territorio dello Stato
(salvo i casi con conseguenze penali). Ecco che, il concreto dipanarsi della vicenda del
migrante - afferma Pilati - può dipendere da un errore burocratico nell’esecuzione del
provvedimento di convalida o dalla collaborazione dei paesi di provenienza dei migranti (se
si tratta di paesi che hanno stretto accordi di cooperazione con l’Italia impegnandosi a
collaborare per le procedure di identificazione).
Inoltre, osserva Pilati, il ruolo determinante della casualità è in grado di produrre un
acutizzarsi del disagio e del senso di afflizione dello straniero, che dopo essersi interrogato
sulle “ragioni” della detenzione, finisce anche per chiedersi il “perché” di un trattamento
52La relazione, alla quale in questa sezione si farà sovente riferimento, consente soprattutto ai non addetti ai lavori, di avere un quadro globale della struttura C.I.E.
62
differenziato rispetto ad altri53, non possedendo gli strumenti conoscitivi per comprenderne
a pieno le cause. Il tempo trascorso al C.I.E. rafforza la paura delle conseguenze del
fallimento del progetto migratorio, la paura di essere rimpatriati in una nazione alle volte
sconosciuta (è il caso di A. giovanissima donna serba nata in Italia e da sempre residente in
un campo rom alla periferia della città, portata al C.I.E. perché per la legge italiana vige il
principio dello ius sanguinis54).
Si consideri la preoccupazione dei migranti di non poter più essere, per i mesi di
trattenimento e forse per sempre (nel caso di un rimpatrio), il punto di riferimento per il
sostentamento della famiglia. Come nota Pilati, infatti, sulle spalle del migrante, grava una
responsabilità che va ben oltre la dimensione puramente individuale, essendo egli
affidatario di un mandato collettivo che lo vede implicato nei confronti del suo gruppo di
riferimento, in quanto forma di investimento psicologico ed economico per tutti coloro che
restano nel Paese d’origine del migrante.
L’aspetto temporale e di indeterminatezza che in seguito al cosiddetto pacchetto sicurezza
(legge 23 giugno 2011 n.89) ha prolungato i tempi di trattenimento fino ad un massimo di
diciotto mesi, rappresenta un ulteriore fattore di destabilizzazione per la salute psichica del
trattenuto. La stessa modifica del nome della struttura da “C.P.T.A., Centro Permanenza
Temporanea e di Assistenza a C.I.E., Centro d’Identificazione ed Espulsione, è indicativo
rispetto alla questione della temporaneità: venendo meno infatti l’indicazione sul tempo, il
C.I.E. preannuncia il mutamento strutturale dei centri per migranti, destinanti all’effettività
delle espulsioni, diventando luoghi detentivi a tutti gli effetti. (Quinta relazione svolta
53Una ragazza nigeriana il giorno del rilascio di una donna moldava dopo “soli” due mesi al C.I.E., per l’ottenimento di un permesso di soggiorno per salute, lamenta, riferendosi ai mediatori e agli operatori dell’ente gestore: “Voi non fate uscire mai le nigeriane, voi ce l’avete con noi perché siamo nere. Voi ci volete solo qui dentro!”. 54Il diritto italiano (a differenza di quello francese) non accorda ai nati sul suolo italiano automatica cittadinanza. “La legge 91 del 1992 indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori.” (cfr. Ministero dell’Interno, “Ius soli e Ius sanguinis”. Consultabile su: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/cittadinanza/Ius_soli.html). Nel caso specifico di A. si fa riferimento alla situazione dei cittadini provenienti dall’ex-Jugoslavia, di etnia rom, che arrivano in Italia in tenera età, per questo senza documenti. Ciò rende la loro condizione particolarmente delicata perché non potendo essere identificati sono rilasciati dal C.I.E. solo alla scadenza dei termini previsti dalla legislazione di riferimento.
63
dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Maggio
2008-aprile 2009, p. 55)
L’attesa, il senso di incertezza rispetto al proprio futuro, l’insofferenza e la rabbia portano i
migranti trattenuti ad assumente comportamenti autolesionisti, violenti, oltre che forme di
auto-abbandono e protesta, come ripetuti scioperi della fame; ogni persona trattenuta si
rapporta al proprio dramma secondo modalità che sono come afferma Pilati nella sua
relazione: “il frutto eterogeneo di un amalgama di vissuti caratterizzati da solitudine,
povertà, alienazione e sfruttamento”. (Pilati: 2010a, 4)
Per l’obbligo al successo che la migrazione impone, nonché per poter disporre di una
piccola cifra per l’acquisto di un biglietto di autobus o di treno, che consenta allo straniero
di raggiungere il paese di provenienza una volta rimpatriato, una piccola azione, come
l’ottenimento della mercede55 dal carcere, assume in un contesto di privazione della libertà,
un significato assai simbolico.
Si nota, inoltre, che la condizione del trattenimento sottopone il trattenuto ad un forte
livello di stress. Nel passare per esempio da un piccolo villaggio ad un grosso centro
occidentale, si costruisce nel migrante un forte senso di smarrimento. Lasciare il proprio
Paese è sempre all’origine di crisi individuali, familiari e sociali, si tratta di cambiamenti
che implicano un forte sconvolgimento dell’Io. L’individuo è costretto a rivisitare le
proprie rappresentazioni culturali per adattarle al nuovo contesto ospite. Come sostiene più
chiaramente Losi: “Per consentire ai […] migranti di elaborare il lutto del mondo che hanno
lasciato, dobbiamo abbandonare le nostre certezze, i nostri assoluti; dobbiamo confrontare
le nostre modalità di pensiero con le loro, le nostre pratiche con le loro pratiche.” (Losi:
2000, 172)
In questo contesto:
Nell’intento di lenire parzialmente il senso di abbandono a se stessi nonché di garantire un sostegno alle persone trattenute, in un momento così difficile della loro vita, che nasce nell’aprile 2005, all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione, il Progetto Sociale, un gruppo di lavoro composto da mediatori culturali, psicologi-psicoterapeuti, avvocati, operatori sociali di vario genere e volontari, che cerca di mettere in atto azioni in una prospettiva di riduzione del danno. (Pilati: 2010a, 6)
55Le mercedi sono compensi maturati dai detenuti in seguito ad attività lavorative svolte all’interno del carcere. Si noterà con i dati statistici esposti in seguito che molti trattenuti hanno già scontato una pena prima di arrivare al C.I.E.
64
Il Progetto Sociale vede il coinvolgimento con l’Ufficio del Garante, di enti locali e di
alcune associazioni, autorizzati dalla Prefettura di Bologna. Considerati i numeri ridotti
rispetto al carcere, il Progetto Sociale riesce ad effettuare una presa in carico quasi totale
dei migranti presenti, al punto che una struttura come il C.I.E., può paradossalmente
divenire un’opportunità da cogliere per i trattenuti.
Sembra opportuno, nella descrizione del contesto di riferimento, esporre un resoconto del
Rapporto 2011 “Piani di assistenza individualizzati” che il Progetto Sociale, sulla base della
collaborazione con l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale, ha
redatto. Nel rapporto si legge che nel 2011 sono passati dal C.I.E. di Bologna 665 persone,
per la maggior parte provenienti dal Nord-Africa (249 tunisini, 91 marocchini). Si registra
inoltre la presenza di numerosi nigeriani (90). Il più alto numero di espulsi secondo il
rapporto si registra tra i tunisini (143), in seguito marocchini (56), albanesi (31), cinesi (13),
ucraini (12), moldavi (11) e nigeriani (10). Un altro parametro descritto nel rapporto è il
numero di trattenuti che richiede protezione internazionale56: i richiedenti sono tunisini
(89), nigeriani (51) e marocchini (21).
Il rapporto riscontra nel C.I.E. bolognese una caratterizzazione alquanto eterogenea della
popolazione femminile. Si parla di cinque macro-aree di provenienza:
la Nigeria: le donne nigeriane hanno frequenti vissuti legati alla prostituzione e
violenze;
l’Est-Europa: le donne di quest’area sono vittime di tratta, oppure ex-badanti con
trascorsi di violenze da parte di mariti, conviventi o datori di lavoro;
il Maghreb: la presenza di donne originarie di quest’area può dirsi relativamente
recente, si tratta di donne che per vari motivi sono sole in Italia, spesso fuggono dai
mariti in seguito a reiterate violenze;
il Sud America: le donne sud-americane in genere hanno alle spalle una lunga
permanenza in Italia e hanno frequentemente un passato di prostituzione;
la Cina: le donne cinesi sono oggetto di sfruttamento per tratta o per lavoro.
56La questione della protezione internazionale può dilatare i tempi del trattenimento, nell’attesa di una risposta da parte della commissione preposta, così che alle volte accade di passare un anno al C.I.E., aspettando l’esito del colloquio con la Commissione territoriale.
65
Gli uomini, si raggruppano intorno alle seguenti aree di provenienza:
il Maghreb: gli uomini di quest’area sono la maggioranza, si tratta di ex-detenuti,
tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti con precedenti penali da molti anni in
Italia, oppure giunti recentemente in Italia in seguito della forte instabilità politica
che ha colpito le zone di provenienza; ad esempio le 43 persone di provenienza
tunisina sono arrivate in Italia in seguito all’acuirsi dell’instabilità politica del loro
Paese e sono giovani uomini, con scarsa conoscenza della lingua italiana;
il Pakistan: questi uomini hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi
lavorativi, successivamente revocato per problemi con la giustizia;
l’Est-Europa: anche in questo caso si tratta spesso di ex-detenuti o
tossicodipendenti.
Il rapporto sottolinea inoltre come 107 persone su 665 transitate abbiano usufruito di
progetti individualizzati di assistenza. Per quanto riguarda in generale i progetti avviati, si
riferiscono, si legge nel rapporto, a persone che hanno sofferto violenze e spesso lunghi
periodi di vita di strada.
Ciò che si riscontra nel rapporto (che è stato molto importante acquisire come conoscenza
base per identificare subito il più corretto approccio per costruire la relazione con le
persone trattenute) è la presenza di alcune macro-categorie di persone. Il rapporto parla di:
persone poco integrabili, da tanti anni in Italia e note ai servizi sociali e sanitari,
hanno esperienze di vita di strada molto traumatiche e una condizione psichiatrica
molto precaria;
ex-detenuti, uomini non identificati nel periodo di carcerazione, che vengono
trattenuti nel C.I.E. subito dopo aver scontato la pena;
tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti, alcuni di essi seguiti dal SERT (Servizi
pubblici per le tossicodipendenze) per la somministrazione di metadone; sono
persone che hanno bisogno di contenimento e che spesso si sono rese protagoniste
di episodi di autolesionismo;
ex-minori non accompagnati, persone provenienti soprattutto dal Maghreb che una
volta maggiorenni hanno commesso anche piccoli reati e quindi hanno perso il
66
diritto al permesso di soggiorno. In questi casi il legame con il paese d’origine è
pressoché nullo;
persone cosiddette “smarrite”, sono persone con un livello di disagio psichico che
impedisce la ricostruzione della loro storia sanitaria e psicosociale. Si rende
necessario a volte un accompagnamento al rimpatrio assistito.
Si è potuto notare che la conoscenza di questi dati di scenario relativi alla caratterizzazione
delle nazionalità è una risorsa molto importante da impiegare nella delicata fase iniziale
rappresentata dai colloqui preliminari svolti di prassi dai mediatori.
È importante ora inquadrare alcuni meccanismi, quali la convalida da parte del giudice di
pace e la notifica del decreto di espulsione, che il trattenuto affronta con fortissimo stress
emotivo e che il mediatore prima e gli operatori in seguito si trovano a fronteggiare, come
passaggi obbligati del percorso di trattenimento.
Il provvedimento di trattenimento disposto dal questore deve essere convalidato dal
Giudice di pace, con udienza da tenersi all’interno del C.I.E. Il provvedimento è quindi una
negazione della libertà personale (sancita dall’art. 13 della Cost. it). Basta un intoppo
burocratico, come ad esempio la mancata presenza di un interprete che traduca nella lingua
della persona in questione il provvedimento, che la convalida diventa non eseguibile; in
questo caso si procede con un foglio di via che intima al migrante di lasciare il territorio
nazionale entro sette giorni. Tale procedura deve essere svolta alla presenza dello straniero
trattenuto, di un suo avvocato (di fiducia se ne fa esplicita richiesta, oppure d’ufficio), di un
interprete e di un funzionario della questura. Il Giudice di Pace è chiamato a esprimersi a
proposito della convalida del trattenimento entro e non oltre quarantotto ore da quando è
stato emesso, pena l’inefficacia del provvedimento di trattenimento. L’udienza di convalida
è un momento molto delicato, è per questo che è molto importante la presenza
dell’avvocato, è infatti l’unico momento in cui è possibile far decadere il trattenimento,
dato che anche se si opta per il ricorso, il migrante resta comunque trattenuto nella
struttura.57 È possibile che il migrante sia incompatibile con il trattenimento nel C.I.E, tra
gli individui incompatibili vi sono le categorie previste dall’art. 19 del T.U. (come
57Per questa parte riguardante gli aspetti burocratici del trattenimento si è consultata oltre alla diretta osservazione sul campo, la tesi di laurea di A. Nicolini.
67
modificato dal cd. “pacchetto sicurezza” del 2009). Secondo l’articolo, minori di anni 18,
donne incinte e conviventi con parenti entro il secondo grado, sono inespellibili.
Attualmente i C.I.E. operativi sono 1358:
- Bari-Palese, area aeroportuale – 196 posti
- Bologna, Caserma Chiarini – 95 posti
- Brindisi, Loc. Restinco - 83 posti
- Caltanissetta, Contrada Pian del Lago – 96 posti
- Catanzaro, Lamezia Terme – 80 posti
- Crotone, S. Anna – 124 posti
- Gorizia, Gradisca d’Isonzo – 248 posti
- Milano, Via Corelli – 132 posti
- Modena, Località Sant’Anna – 60 posti
- Roma, Ponte Galeria – 360 posti
- Torino, Corso Brunelleschi – 180 posti
- Trapani, Serraino Vulpitta – 43 posti
- Trapani, loc Milo - 204 posti
La forte attenzione mediatica che recentemente ha coinvolto i C.I.E. di tutta Italia, con un
numero sempre maggiore di giornalisti interessati a documentare le condizioni delle
persone trattenute (cfr. campagna LasciateCIEntrare), ha reso queste strutture più visibili
all’opinione pubblica, spesso ignorante riguardo ai meccanismi di espulsione e
respingimento che l’Italia ha adottato nel corso degli ultimi decenni59. Questa attenzione, è
sicuramente auspicabile, perché le angosce e il disagio dei trattenimenti amministrativi
siano conosciuti ai più. È importante infatti essere consapevoli dello stato delle cose,
relativamente ai C.I.E, come sottolinea l’ On. R.M. Villecco Calipari, in un’interpellanza
urgente del 10 maggio 2012:
il rapporto di Medici senza frontiere sui centri per migranti – C.I.E., C.A.R.A. e C.D.A. - del 2010 denuncia come nei C.I.E. convivono persone con status giuridici differenti. Infatti, negli stessi ambienti si trovano vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come
58Dati Ministero degli Interni (cfr. Allegati). Consultabili su: http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema006.html. 59Reperire informazioni sui C.I.E. resta comunque compito di organi di stampa indipendenti. Ad esempio di veda il blog di Gabriele del Grande “Fortress Europe”, consultabile su: http://fortresseurope.blogspot.it/
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individui in fuga dai conflitti e da condizioni degradanti. Altri sono affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure vi sono stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro non regolare, una casa e la famiglia, oppure gente appena arrivata. Come giustamente è stato rilevato, nel rapporto stilato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato (marzo 2012), la gestione dei centri di trattenimento degli stranieri sembra, quindi, essere ancora del tutto orientata verso un approccio emergenziale. (Interpellanza urgente n. 2-01434 dell’On. Villecco Calipari, p.3)
3.3 PRIMA FASE DELLA RICERCA: COLLOQUI E INTERVISTE
Entrare in un C.I.E. non è cosa semplice, soprattutto se si è a digiuno di legislazione di
riferimento e non si immagina fino a quanto possa essere duro il lavoro di ascolto e di
supporto delle persone trattenute.
In questo paragrafo si espone come è avvenuta la pianificazione della prima fase della
ricerca: con incontri informativi, nella forma di interviste semi-strutturate, si è cercato di
comprendere la complessa attività di mediazione linguistico-culturale nella struttura di
riferimento, oltre che alle dinamiche ad essa connesse.
Il primo incontro, con l’assistente sociale del C.I.E. si è svolto quasi come un colloquio
libero su temi poco specifici. Si è subito compreso, con la prima domanda (“potrebbe
spiegare in cosa consiste l’attività di mediazione linguistico-culturale presso il C.I.E.?”) che
il tema non era facilmente circoscrivibile entro tematiche della lingua e della cultura, ma
che sarebbe stato importante inquadrare la questione da un punto di vista strutturale (il
funzionamento del centro e l’attività del Progetto Sociale) e sociale (le tematiche della
sofferenza, gli aspetti psicosociali del trattenimento). Il colloquio con l’assistente sociale,
ha insomma svelato che parlare di mediazione linguistico-culturale in un luogo come il
C.I.E. avrebbe richiesto uno svincolamento da un’eccessiva enfasi su etichette e sistemi
classificatori, utilizzabili in altri ambiti della mediazione più circoscritti (scuola, ospedali
etc.).
L’assistente sociale ha spiegato il lavoro sinergico dell’équipe, e nello specifico il suo
ruolo. Il colloquio è stato molto utile anche perché ha permesso un incontro successivo con
il dott. Pilati, il quale ha chiarito le difficoltà e le peculiarità del luogo, inquadrando il
discorso in una prospettiva organizzativa. Il colloquio con il dott. Pilati ha permesso di
69
chiarire il funzionamento della struttura e dei servizi alla persona di cui è responsabile. Ciò
che si è potuto estrapolare dall’incontro, riscontrato nella relazione “La condizione dello
straniero nel C.I.E.” precedentemente citata, è che il numero relativamente poco consistente
di trattenuti (95, di cui 50 uomini e 45 donne) porta gli operatori del Progetto Sociale ad
effettuare una presa in carico individuale e quasi complessiva delle persone trattenute.
Il dott. Pilati in relazione alle mie domande sulla figura del mediatore, spiega che
all’interno dell’équipe di lavoro, il mediatore si inserisce in maniera centrale e trasversale
rispetto alle attività del Progetto Sociale. Sottolineando gli aspetti linguistici e culturali
comuni alla persona trattenuta, il mediatore instaura una relazione di fiducia di grande
importanza: infatti trascorrendo gran parte del tempo negli spazi comuni e negli alloggi, il
mediatore raccoglie i bisogni e le richieste dei trattenuti, tentando di assicurare loro
un’adeguata comunicazione verso l’esterno, con familiari, legale di fiducia ecc. e verso
l’interno, facendo presente bisogni e richieste ai diversi servizi del Progetto Sociale
(assistente sociale, psicologi-psicoterapeuti, sportello SOS donna60 per vittime di tratta e
sportello di informazione legale). (Pilati: 2010a, 7)
Nella stessa occasione del colloquio conoscitivo, il dott. Pilati mi fornisce e mi presenta una
scheda anamnestica, di cui aveva parlato già l’assistente sociale (cfr. Allegati). La scheda si
presenta come un prezioso strumento conoscitivo, un insieme di linee guida per dirigere i
colloqui con il migrante, dal primissimo incontro per poi proseguire con quelli in itinere,
verso l’approfondimento della storia personale, perché possano emergere i punti su cui
lavorare in maniera efficace.
Un incontro altrettanto interessante, è stato sviluppato con una delle mediatrici che
lavorano nel C.I.E. di Bologna: Amina, di nazionalità tunisina, con la quale si è potuto
chiarire almeno in una fase preliminare, il ruolo del mediatore e i topic con cui viene a
contatto, con le relative difficoltà di gestione degli stessi.
60Dal Novembre 2006, alcune volontarie dell’associazione “SOS donna”, che si occupa dal 1990 di sostenere le donne che vivono e/o hanno vissuto situazioni di violenza, o che sono minacciate o esposte a maltrattamenti fisici, psicologici, sessuali ed economici all’interno o all’esterno dell’ambito familiare, sono presenti all’interno del C.I.E. di via Mattei allo Sportello di aiuto psicologico per le donne vittime del traffico a scopo di sfruttamento sessuale che fornisce sostegno psicologico e informazioni necessarie ad assicurare la difesa dei loro diritti e l’inserimento nel programma di protezione previsto dall’art.18 D.Lgs 286/1998. (cfr. http://lareteeilcambiamento.wordpress.com/sos-donna/)
70
La mediatrice, inizialmente spaventata dalle domande, per timore di non essere capace a
rispondere (“lavoro al C.I.E. da nemmeno un anno” si scusa) ha in seguito compreso la
bontà del progetto e ha vivacemente preso in mano il colloquio raccontando la sua
esperienza migratoria e lavorativa con vivacità e trasporto. Parla subito di fortuna Amina,
giunta in Italia dopo aver avviato le pratiche per il ricongiungimento familiare61 (suo marito
viveva in Italia da alcuni anni). Fortunatamente nessun viaggio rocambolesco o tragiche
esperienze di frontiera per lei. In seguito racconta il difficile inserimento dal punto di vista
lavorativo, e a poco a poco le prime soddisfazioni del suo mestiere. In possesso di una
laurea in comunicazione, è tra i primi a partecipare al servizio civile per cittadini stranieri62.
In seguito a questa esperienza comincerà a lavorare come mediatrice in alcuni ospedali
emiliani.
La mediatrice è entrata nel merito delle pratiche di mediazione linguistico-culturale,
parlando specificamente dell’area arabofona con cui lavora. Racconta di un maschilismo
imperante e della difficoltà legata alla varietà dei dialetti arabi, che spesso pregiudicano la
riuscita stessa del colloquio. Il grande incremento di giovani uomini soprattutto, ma anche
di donne, dal Nord Africa, in seguito alle vicende a cui brevemente si è accennato nelle
pagine precedenti, si è tradotto come anticipato, in una presenza sovrabbondante di uomini
e donne (in maggioranza uomini) trattenuti provenienti da quelle zone. La mediatrice ha
inoltre spiegato le difficoltà di interazione con uomini tossicodipendenti (come si è esposto
precedentemente i problemi maggiori dei trattenuti nord africani riguardano la dipendenza
da sostanze stupefacenti), non di rado violenti ed autolesionisti, che difficilmente si
approcciano in maniera tranquilla ai colloqui, nonostante si tratti di instaurare una relazione
finalizzata all’aiuto.
A livello linguistico l’incontro ha introdotto un tema che è emerso più chiaramente durante
i mesi di volontariato: la mediatrice ha fatto riferimento alla difficoltà di comunicare con
61Il ricongiungimento familiare è previsto dall’art. 29 del T.U. 62Il Servizio civile regionale per i ragazzi stranieri e comunitari è stato introdotto in Emilia-Romagna con la legge regionale n. 20 del 2003 che da un lato mira a sostenere la proposta del Servizio civile nazionale nel territorio regionale, dall’altro lo integra con un’ulteriore opportunità rivolta esplicitamente ai giovani cittadini non italiani presenti sul territorio, che altrimenti sarebbero esclusi da questa esperienza di cittadinanza attiva, partecipazione e integrazione, fino ad allora accessibile solo ai giovani con cittadinanza italiana. (cfr. “Servizio civile per stranieri, 79 i giovani già avviati”. Consultabile su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/brevi/servizio-civile-regionale-per-stranieri-79-i-giovani-gia-avviati)
71
persone scarsamente scolarizzate o provenienti da aree linguistiche e sociali
particolarmente lontane dalla propria e ha accennato alla vastità dell’arabo e alla micro
suddivisione dello standard. Come afferma Rudvin:
Interpreters for clients from the large international language groups such as English, Spanish, French and Arabic will often not be from the client's own country; apart from the fact that the vast variety of “englishes”, “frenches”, “spanishes”, etc., have different semantic and grammatical features from the “standard models” of the world languages, they clearly do not share their culture referents – so not only do the communication models differ (directness, distance, politeness, semantic overlap, etc.) - even if they are speaking the same language (indeed many interpreters find it difficult to even understand varieties of a particular language), but their real-world referents do not overlap. Varieties of standard languages (especially colonial languages) are sometimes described as “cross-cultural”, or “nativized” - that is, the language has been adapted -semantically, grammatically- to its new terrain and culture (for example, English in the Indian subcontinent or East or Central Africa), and reflects that reality and world-vision, rather than, say, the UK or the US. (Rudvin in Londei et al.: 2006, 67)
Un altro tema importante, sollevato dalla mediatrice e poi riscontrato sul campo è relativo
alla questione del genere del mediatore. In particolare, Amina spiega che essere mediatrice
donna crea con gli uomini provenienti dal Nord Africa alcuni problemi nella costruzione di
relazioni, che su suggerimento di Amina vanno affrontati sin dal primissimo incontro.
Amina afferma: “O sei troppo giovane, o sei solo una femmina per loro” riferendosi a quel
maschilismo imperante di cui sopra. È importante per il mediatore costruire una relazione a
partire dalla spiegazione del proprio ruolo, una relazione di fiducia in cui il mediatore è un
ponte tra due universi. Esigere rispetto per il proprio ruolo è sicuramente il primo step
perché tale relazione prenda avvio nel modo giusto. I consigli di Amina nel come
rapportarsi agli uomini trattenuti (la mediatrice ha sconsigliato qualora si fosse riusciti ad
entrare nel braccio maschile, a interagire eccessivamente con gli uomini, attirando la loro
attenzione e soprattutto tentando di stabilire una relazione che non tenesse conto delle
specificità culturali) sono risultati estremamente efficaci con tutti gli uomini, non solo
nordafricani63.
La mediatrice ha poi parlato del suo primo giorno di lavoro, lo stesso giorno in cui è stato
varato il decreto che portava a diciotto mesi il tempo massimo per il trattenimento. Ha
63Cfr. esperienza del gruppo di auto-mutuo aiuto maschile di cui si discorrerà nel paragrafo successivo.
72
prontamente spiegato quanto fosse stato difficile per lei l’adattamento al contesto C.I.E.,
definendolo senza eguali, rispetto al più circoscritto lavoro in ospedale al quale era abituata.
3.4 SECONDA FASE DELLA RICERCA: L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
Successivamente alla fase appena descritta, ho avviato un’attività di volontariato nel C.I.E.
di Bologna, sulla base di interessi personali che i colloqui e le interviste hanno rafforzato. È
quindi in seguito a questa scelta e alla diretta osservazione dei primi ingressi che decido di
sviluppare un’attività di ricerca e approfondimento della mediazione linguistico-culturale.
Il 3 maggio, giorno del primo ingresso al C.I.E., ho fatto la conoscenza della mediatrice
nigeriana. La figura di questa mediatrice è stata fondamentale perché attraverso un
crescente rapporto di fiducia reciproco, mi ha consentito di fare del volontariato
un’opportunità di crescita formativa e personale, spingendomi all’azione e alla
partecipazione alle attività da lei stessa presiedute (con la comunità delle donne nigeriane
trattenute e nella gestione dei colloqui).
Grazie a Mary si è potuta fare la conoscenza degli altri membri dell’équipe del Progetto
Sociale, degli operatori della Misericordia, oltre che dei trattenuti e si è potuto conoscere la
struttura nel suo funzionamento quotidiano. La scelta di affiancare la mediatrice nigeriana
si basa sulla possibilità di condivisione della lingua inglese, con conseguente facilità di
comprensione dei colloqui e delle attività di mediazione gestiti dalla mediatrice.
L’équipe multidisciplinare del Progetto Sociale risulta formata da:
il responsabile del Progetto Sociale (dott. Pilati, psicologo);
quattro mediatori (una mediatrice nigeriana, un mediatore tunisino, un mediatore
marocchino, una mediatrice moldava);
un operatore sociale con competenze antropologiche (di nazionalità italiana);
una psicologa psicoterapeuta e un tirocinante in psicologia post-lauream;
un assistente sociale.
In particolare, si fa presente che l’attività di mediazione, presente tutti i giorni dal lunedì al
venerdì, ricopre complessivamente un servizio di 110 ore settimanali. La mediatrice
73
nigeriana risulta avere il monte ore più consistente, assieme ai mediatori marocchino e
tunisino (25 ore ciascuno) per turni lavorativi di quattro o cinque ore giornaliere.
È stato molto importante entrare da subito in confidenza con il luogo, per comprenderne le
peculiarità e comprendere in che modo inserirsi nella realtà della struttura senza interferire
con la gestione delle attività lavorative dei mediatori e con la vita dei trattenuti; il punto di
forza è stato il grado di fiducia e disponibilità dell’équipe nei miei confronti che ha
permesso un inserimento rapido nella struttura.64
Attraverso i primi dialoghi informativi con la mediatrice Mary, ho cominciato a conoscere
le prime storie di trattenuti, soprattutto di donne, con le quali ho trascorso la maggior parte
del tempo.65 La mediatrice Mary, nel tentativo di inserirmi a pieno titolo nella schedule
delle proprie giornate lavorative, ha sin da subito adottato l’abitudine, di informarmi, prima
dell’inizio del colloquio, della storia del trattenuto, per lo meno a grandi linee, perché
potessi partecipare attivamente alla seduta.66 L’abitudine al briefing è stata assai vincente
soprattutto in casi emotivamente e oggettivamente complessi, per i quali, occorreva
informarsi in anticipo sulle problematiche rilevanti, visto che averne conoscenza avrebbe
giovato all’incontro: in questo modo tutti i partecipanti al colloquio avrebbero avuto le
stesse informazioni riguardo al caso.
Sin dai primissimi minuti di “osservazione” ho compreso che le caratteristiche del luogo e
la particolare conformazione dell’équipe, avrebbero richiesto flessibilità e adattabilità
soprattutto in relazione alla delicatezza delle storie coinvolte. È stato importante insomma
un certo grado di coinvolgimento per svolgere l’attività. È stato opportuno quindi investire
il tempo dell’osservazione partecipante come in un lavoro in cui imparare a gestire
professionalmente ed emotivamente l’attività di mediazione. 64Durante i mesi al C.I.E., una grande conquista per me è stata guadagnarmi l’appellativo di “piccolo mediatore”. Ho interpretato tale nomignolo, più che in un senso dispregiativo di inadeguatezza per via della miaetà anagrafica rispetto alla delicatezza del “lavoro”, come un riconoscimento concreto della mia presenza e del mio ruolo all’interno dell’équipe di lavoro. L’appellativo è stato coniato da una ragazza nigeriana mia coetanea, e poi accolto positivamente dalle altre donne trattenute, che preferivano comunque attirare la mia attenzione con il mio nome di battesimo. 65Le persone nigeriane trattenute sono di rado uomini, si tratta al contrario per la maggior parte di donne, vittime di tratta e violenze, come si avrà modo di approfondire nel paragrafo successivo. L’affiancamento a Mary ha quindi favorito la vicinanza e la conoscenza di storie legate alla Nigeria, oltre che dei topic connessi all’area. 66Questo comportamento è stato adottato dalla mediatrice soprattutto nella fase iniziale dell’inserimento nella struttura, quando avevo una conoscenza assai scarsa dei trattenuti.
74
L’équipe del Progetto Sociale, ha sin da subito e continuativamente, soprattutto nella
delicata fase iniziale dell’inserimento in qualità di volontaria, menzionato la necessità di
pianificare strategie del distacco emotivo, per non incappare in un procedimento di burn out
(cfr. paragrafo 2.3, nota n.20). Proprio per controllare il flusso incontrollato di sensazioni, e
cogestire l’andamento della ricerca, a conclusione di ogni ingresso, il dott. Pilati ha ritenuto
opportuno prevedere uno spazio di dialogo successivo alle attività “pratiche”, in cui i
sentimenti e i pensieri relativamente a quanto osservato venissero opportunamente calibrati
e assimilati, e che relativamente alla mediazione linguistico-culturale e agli aspetti rimarcati
durante la giornata, potessi trovare una spiegazione e potessi contestualizzarla.
La ricerca ha quindi preso avvio, nel tentativo di collocare e osservare il ruolo del
mediatore nella gestione quotidiana delle attività lavorative. Ne è emersa subito una forte
centralità: persino a livello visivo, il mediatore è un’entità ben distinta dagli operatori della
Misericordia, per questo indossa una casacca catarifrangente; è importante che sia chiaro al
trattenuto la differenza tra le mansioni degli operatori dell’ente gestore e quelle dell’équipe
del Progetto Sociale.
Anche nei singoli colloqui, i trattenuti sono stati puntualmente informati della mia presenza
durante il corso del colloquio stesso. È stato tuttavia necessario ribadirlo nei momenti di
visita negli alloggi, perché i trattenuti potessero essere veramente coscienti della mia
disposizione all’aiuto e all’ascolto nei loro confronti. La particolarità del luogo e dei suoi
protagonisti richiede una partecipazione continuativa perché se ne comprendano le
sfumature e i significati profondi. Le sfaccettature del mestiere del mediatore nel C.I.E. si
sono svelate poco a poco, con cautela e al crescere del rapporto di fiducia con l’équipe e i
trattenuti.
L’attività del mediatore si è mostrata l’attività centrale attraverso la quale è possibile
mettere in moto gli altri servizi del Progetto Sociale. L’importanza della figura del
mediatore, come ricorda Pilati nella sua relazione, viene evidenziata anche nella Quinta
Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della
libertà personale (maggio 2008 – aprile 2009), dove si rileva che:
L’attento e quotidiano lavoro dei mediatori culturali, anche attraverso la compilazione di una scheda anamnestica di tipo sociale, ha infatti consentito di canalizzare l’attività dello sportello [legale] verso una più approfondita conoscenza delle realtà di ciascun migrante. (Quinta
75
Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, p. 59)
Inoltre, nella Quarta Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle
persone provate della libertà personale (maggio 2007- aprile 2008) si legge:
La presenza e l’attività dei mediatori culturali sono stati di fondamentale importanza sia nell’indirizzare con sollecitudine allo sportello legale quei cittadini stranieri che prima facie apparivano meritevoli di un immediato colloquio in considerazione della peculiarità della loro condizione personale o giuridica che sembrava consentirne una possibilità di regolarizzazione, sia nell’abbattere quel “muro” di diffidenza che sovente caratterizza il comportamento degli stranieri vissuti in condizioni di clandestinità e che mostrano a volte un certa ritrosia nel raccontare la loro storia personale. Il valore dell’attività dei mediatori sotto questi profili ha posto sicuramente in secondo piano il pur importante lavoro di intermediazione linguistica che gli stessi operano con persone che sovente parlano solo la loro lingua nazionale. (Quarta Relazione sull’attività svolta dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale maggio 2007- aprile 2008, p. 86)
La partecipazione dei trattenuti ai vari sportelli è quindi mediata e promossa dai mediatori
culturali (che fanno capo al Progetto Sociale), avviando un’attività che ben oltrepassa quei
compiti di traduzione e facilitazione linguistica che si è tentato di descrivere nel capitolo
precedente, secondo la letteratura di riferimento.
E’ compito dei mediatori e degli altri operatori presenti nel Progetto Sociale (ad es.
l’antropologo), fare da filtro raccogliendo prenotazioni e iscrizioni per l’accesso allo
sportello informativo legale e allo sportello per donne vittime della tratta, sportello di
ascolto psicologico, oltre che ai colloqui con l’assistente sociale. È compito dei mediatori
compilare la scheda anamnestica, capire i bisogni dei trattenuti ed indirizzarli verso
l’offerta più adeguata.
Riguardo ai compiti preliminari del mediatore al C.I.E., egli si occupa di tenere aggiornato
un archivio, in cui vengono certificati tutti gli ingressi e le uscite dei trattenuti, e che
visivamente si pone come un repertorio assai immediato per il reperimento di nomi e storie.
Vi è inoltre un raccoglitore, uno per le donne e uno per gli uomini, in cui vengono raccolte
le schede provenienti direttamente dalla questura e che catalogate costituiscono la prova
della presenza del trattenuto nella struttura.
I diversi sportelli attivi nella struttura cooperano perché il caso della persona trattenuta
venga affrontato in una prospettiva olistica. L’attività, centrale, del mediatore si affianca a
quella di altre figure professionali; l’assistente sociale ha facoltà di costruire o ricostruire la
76
storia della persona trattenuta, ripristinando attraverso informazioni verbali o scritte
presentate dal migrante, le tappe chiave del soggiorno in Italia, pensando ad un progetto
mirato di assistenza. Di grande rilevanza è la presenza dello Sportello di ascolto
psicologico. Come afferma il dott. Pilati in una relazione per l’Ufficio del Garante dei
diritti delle persone private della libertà personale:
E’ noto come, persone in condizione di privazione della libertà personale, siano sovente portate, nell’intento di alleviare la sofferenza, a fare richiesta di psicofarmaci o anche a dare vita, nei casi di frustrazione estrema, a manifestazioni di autolesionismo. Tali situazioni, si sono drasticamente ridotte in seguito all’azione del Progetto Sociale, ed in particolare dello Sportello di ascolto psicologico , che si propone come spazio di sostegno individuale offerto alla persona trattenuta. (Pilati: 2010b, 139)
Attraverso l’ascolto psicologico dunque, il Progetto Sociale si prefigge di prendere in
carico la persona che sta affrontando un momento drammatico della sua vita in cui
l’equilibrio psichico è fortemente minacciato. Lo sportello mira a mettere in atto veri e
propri percorsi psicoterapeutici utili per la persona anche oltre il periodo di trattenimento.
Altro elemento cardine dei servizi alla persona interni al C.I.E., previsti dal Progetto
Sociale, è lo sportello SOS donna: in un centro con una forte concentrazione femminile
proveniente dal mondo della prostituzione, si prefigge di informare e aiutare le donne
vittime di tratta e di violenze e di assicurare loro diritti e protezione secondo quanto
garantito dalla legge italiana ed europea.
Molto importante si rivela inoltre, lo sportello legale, che fornisce informazioni sulla
normativa vigente in tema di immigrazione.
Ma ritornando al mediatore e alla sua centralità, si è potuto riscontrare come egli sia la
prima figura che il neo trattenuto incontra, in seguito alla procedura di accettazione con
l’ente gestore, nel corso della quale il mediatore di norma non è presente67. L’iter
67L’assenza del mediatore nella fase d’accettazione risponde ad una precisa strategia da parte del Progetto Sociale: il mediatore è il primo appiglio per l’avvio di una relazione di aiuto e sostegno: in modo che ciò sia chiaro, è bene che il mediatore non presenzi alla serie di operazioni burocratiche per cui il migrante irregolare entra nel centro, perché il migrante non scambi il mediatore per un operatore complice del sistema detentivo. Vi è stato un caso però, in cui la persona in accettazione, di nazionalità nigeriana, non aveva neanche una rudimentale conoscenza dell’italiano, così l’operatore dell’ente gestore ha chiesto a Mary, di fornire supporto linguistico. Tuttavia, neanche in questo caso si può parlare di mediatore come interprete o mero facilitatore linguistico. L’incontro in questione al quale ho potuto presenziare, si è diretto verso la traduzione di alcune richieste da parte dell’operatore dell’ente gestore, arricchite costantemente da formule come “Don’t worry H., do what she is asking you, don’t be afraid, we will help you”, da parte della mediatrice. La mediatrice si è
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burocratico prevede poi che l’ente gestore informi gli operatori della presenza del migrante,
tramite le schede della questura che ha emesso il provvedimento di espulsione. Il mediatore
organizza così i colloqui (il primo deve svolgersi entro 24 ore dall’ingresso al C.I.E.) in
base all’affinità linguistico-culturale con il trattenuto.
I colloqui si sviluppano a partire della scheda anamnestica in cui vengono raccolte
informazioni dettagliate di tipo legale e sociosanitario sulle condizioni di vita della persona,
precedenti al trattenimento. È importante però che prima che si avvii il colloquio vero e
proprio, il mediatore spieghi al trattenuto il proprio ruolo con chiarezza e il luogo in cui si
trova. La maggior parte delle persone, appena entrate nel centro, chiedono infatti
abbastanza immediatamente: “Dove mi trovo?”, altre volte si tratta di persone che in
passato hanno già trascorso alcuni giorni o mesi al C.I.E. e quindi ne conoscono il
funzionamento. Non è facile spiegare al trattenuto, dove si trova e le opzioni che gli si
aprono davanti. Sicuramente nella fase antecedente all’udienza di convalida è bene che il
mediatore non spaventi il trattenuto, ma lo tranquillizzi circa il suo destino. È bene inoltre
avvertire la persona di quali sono le sue facoltà al momento e cosa prevede l’udienza.
Questa fase spesso richiede molto tempo, perché accade spesso che il trattenuto pensi di
poter far rilievo sulla disponibilità del mediatore e aspettarsi qualcosa, per poter essere
rilasciati. E dunque, la spiegazione del ruolo del mediatore, è indirizzata a far capire al
trattenuto che deve aspettarsi dal mediatore, solo ciò che effettivamente egli può dargli e
cioè ascolto, supporto linguistico e informativo.
Il mediatore a questo punto chiede al trattenuto se è disponibile a rispondere ad alcune
domande. In alcuni casi, di persone con particolari problemi o con situazioni che
preferirebbero nascondere, nel rispondere alle domande, si limitano ad annuire o dissentire,
oppure preferiscono non rispondere e sospendere il colloquio. In molti altri casi, invece, i
trattenuti si pongono in maniera propositiva e si aspettano dal colloquio una serie di
informazioni che possano lenire parzialmente il senso di angoscia e paura.
Per quanto riguarda i casi di persone reticenti, si tenga presente la vicenda di tre donne rom,
giunte insieme nella notte in via Mattei. Le donne costituivano un nucleo familiare che
informata sul nome della ragazza e sulle sue condizioni, in seguito si è soffermata sulla spiegazione delle procedure in fase di accettazione. L’incontro tra la mediatrice e la giovane donna nigeriana ha permesso sin da subito di costruire una relazione di fiducia tra la mediatrice e la donna.
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attraversava tre generazioni, nonna e nipote e amica di lunga data, nonché vicina di casa. Le
tre donne provenivano da un campo rom in corso di smantellamento, e subito si dimostrano
ostili alle domande della mediatrice. Quando quest’ultima però consapevole dell’ostilità
delle donne, imposta il colloquio in un senso meno formale, chiedendo: “Come siete
arrivate qui? Raccontatemi cosa vi è successo…” le donne si aprono, si sciolgono in un
lungo pianto collettivo e raccontano le loro tragiche esperienze. Il caso, il primo al quale si
è preso parte, ha rappresentato un importante banco di prova, dal punto di vista della
gestione a livello emotivo della situazione, purtroppo l’inesperienza e la novità di un
contesto tanto doloroso hanno fatto sì che la partecipazione e il livello di interazione
fossero nulli, tuttavia l’estrema comprensione e prontezza di Mary68, che ha tentato di
smorzare il livello di tensione e sofferenza e contemporaneamente di rassicurare gli animi,
hanno fatto rientrare la situazione. In questo caso, l’attività del mediatore si è sviluppata per
come effettivamente è il più delle volte in una struttura come il C.I.E.: un ascolto profondo
dei bisogni e del vissuto, purtroppo spesso, traumatico della persona. È importante annotare
quanto sembra rilevante del racconto, perché il resto dell’équipe di lavoro possa, qualora
fosse necessario, costruire un percorso individualizzato in favore della persona trattenuta.
Ascoltare i bisogni dell’altro, in questo caso delle donne rom, come in tanti altri casi,
significa per il mediatore, incontrare il dolore e cercare di gestirlo dentro di sé. Si è quindi
compreso che occorre autoregolamentarsi nella gestione dell’emotività per non inficiare il
ruolo di imparzialità cui il mediatore assurge. Il caso delle donne rom si è rivelato
interessante da più punti ai fini dell’osservazione delle dinamiche della mediazione
linguistico-culturale, ha infatti permesso di valutare l’utilità della figura di un madrelingua
italiana accanto a quella del mediatore straniero. Effettivamente, a livello linguistico,
l’incontro ha presentato alcuni problemi: le donne in parte per effetto di un forte senso di
disorientamento, in parte per una reale mancanza di competenza linguistica in italiano, sono
state scarsamente in grado di comunicare con la mediatrice nigeriana in italiano, fatta
eccezione per la più giovane delle tre donne (cosa che ha potuto fungere da punto di
riflessione per azzardare ipotesi sulla sua permanenza in Italia che la donna sosteneva 68A volte, la mancata disponibilità di un mediatore affine all’area linguistica del trattenuto implica che il colloquio venga portato avanti in italiano, da un mediatore estraneo all’universo linguistico-culturale del trattenuto.
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aggirarsi intorno ai tre mesi ma che non avrebbe giustificato la conoscenza così progredita
della lingua italiana). Proprio la più giovane delle donne ha espresso la necessità di scrivere
un messaggio per il proprio avvocato, in cui far presente di un particolare aspetto della sua
situazione giuridica in Italia, messaggio che la donna ha espresso di voler scrivere ella
stessa e poi inviare per fax. La giovane donna che come si è anticipato si esprimeva
correttamente in italiano, e aveva addirittura assimilato un singolare accento toscano,
possedeva un grado molto basso di competenza in italiano scritto (non avendo frequentato
nessuna scuola in Italia). Così ho deciso di accettare la richiesta della donna di aiutarla a
comporre la lettera, svolgendo una funzione di “consulenza linguistica”. La giovane donna,
a conoscenza della mia nazionalità, è stata insistente nel desiderare che fossi proprio io ad
aiutarla nella stesura del messaggio (probabilmente a causa dalla condivisione con me della
stessa età anagrafica). Questo tema è ricorso altre volte, in cui la competenza in italiano
madrelingua posseduta, si è rivelata un valore aggiunto nella cogestione dei colloqui
assieme alla mediatrice nigeriana Mary o all’assistente sociale. Ad esempio, nel caso di un
giovane georgiano che in ufficio colloqui continuava a chiedere una “carta della famiglia”,
senza però esprimere più chiaramente di cosa avesse bisogno, ho suggerito al trattenuto che
forse il documento a cui si riferiva e di cui aveva bisogno poteva essere uno “stato di
famiglia”. Ho dunque spiegato all’uomo cosa si intendesse in Italia per “stato di famiglia”,
e se il concetto corrispondesse alla sua idea iniziale, tradotta in italiano come “carta della
famiglia”. La strategia ha prodotto esito positivo, trattandosi effettivamente di uno “stato di
famiglia”.
Un altro punto ricorrente nei mesi di volontariato è stato il rapporto della mia età anagrafica
con quella dei trattenuti. Nel caso della giovane rom, di un anno più giovane di me, e in
tutti i casi di donne giovani, il fattore età non ha per nulla influenzato la gestione del
colloquio o il tentativo di una relazione senza l’intermediazione della mediatrice. Al
contrario questo elemento comune si è rivelato un punto favorevole all’accelerazione della
costruzione del rapporto di fiducia. Altre volte, la mia giovane età è stata percepita dai
trattenuti, come mancanza di competenze, e quindi come l’impossibilità a fare qualcosa per
aiutarli. In questo quadro globale, si è comunque rimarcata una forte chiusura da parte della
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comunità nigeriana, abbastanza consistente nel centro, che si è dimostrata, salvo alcune
eccezioni69, restia a fidarsi di me. Ma si parlerà approfonditamente delle dinamiche
relazionali e di mediazione con le donne nigeriane nel paragrafo successivo.
Ascoltare e stabilire una relazione empatica con le persone trattenute è quindi il primissimo
punto di partenza nell’esercizio della mediazione al C.I.E. La relazione si fonda sul forte
bisogno di comunicare ed esercitare la parola, anche solo per qualche minuto o in italiano
stentato; comunicare si rivela una forte esigenza di espressione della propria personalità,
che in un sistema detentivo, viene schiacciata. Sintomatico di questo parziale e graduale
annientamento è il numero identificativo affidato ad ogni trattenuto, con il quale gli
operatori dell’ente gestore sono soliti riferirsi alle persone trattenute. Gli operatori del
Progetto Sociale invece non conoscono affatto i numeri identificativi dei trattenuti, ma i
loro nomi.70
A proposito del bisogno di comunicare dei trattenuti, un’ampia fetta dei colloqui post-
convalida sono chiesti apertamente dal trattenuto per una incontenibile voglia di raccontare,
parlare, trovare soluzioni affinché si possa “uscire di lì”. Ad esempio E. una donna croata di
etnia rom, ha cercato sempre nei mesi in cui ho potuto conoscerla al C.I.E. un contatto con i
mediatori e con me, per parlare e per capire cosa le sarebbe potuto succedere. Un giorno,
davanti all’ennesima risposta negativa del consolato croato, al quale la donna aveva
richiesto personalmente che venisse ricercato il suo nome, negli archivi, per poter essere
dunque identificata e rimpatriata, la signora ha urlato “Io non posso più esistere qui. Io mi
ammazzo. Io bevo adesso detersivo”. Sembra che questa frase, semplice e tragica allo
stesso tempo, seppur fondata su una scarsa competenza dell’italiano, racchiuda il senso di
angoscia, di perdita di ogni speranza e di smarrimento, che provano le persone trattenute.
Questo groviglio di sentimenti, è emerso chiaramente in una interessante attività alla quale
ho preso parte, con il benestare dei trattenuti stessi: il gruppo di auto-mutuo-aiuto per
69Il riferimento è alla ragazza nigeriana di cui si parla nella nota precedente. La ragazza, visto l’incontro in fase di accettazione e il mio interessamento sincero alle sue condizioni di salute, ha sin da subito compreso la mia posizione cooperativa rispetto alla situazione. 70È inaspettatamente facile ricordare i nomi di battesimo dei trattenuti, perché associati alle loro storie, che restano scolpite nella mente e nel cuore. In ogni caso questa differenza tra ente gestore e Progetto Sociale, si riferisce al differente tipo di approccio adottato dai due gruppi di operatori in rapporto ai trattenuti e alle loro esigenze.
81
uomini.71 Il gruppo è stato il primo reale contatto, prolungato e approfondito con gli
uomini, prima di allora limitato alla conoscenza di alcune storie o alla soddisfazione di
alcune banali richieste (alcuni fax o richieste di documentazione da me inviati su loro
richiesta, ai loro legali di fiducia). Nel caso del gruppo di auto-mutuo-aiuto, la richiesta di
ascolto è stata il leitmotiv di tutto l’incontro. Il gruppo risultava composto da persone di
sesso maschile72: due mediatori, uno psicologo conduttore della seduta e due assistenti. La
presenza di una figura femminile, non ha scoraggiato l’espressione dei bisogni e delle
sensazioni degli uomini, è stata pienamente accettata. La seduta si è rivelata importante
perché ha mostrato una reiterata presenza delle macro tematiche legate alla privazione della
libertà personale e al fallimento del progetto migratorio73, e una amplificazione delle stesse
dovute alla dimensione gruppale e alla condivisione della sofferenza. Inoltre è stato
interessante osservare l’atteggiamento del mediatore presente, che spesso è intervenuto in
seguito ad alcune esternazioni e riferimenti di trattenuti, poco chiare allo psicologo
conduttore, in parte a causa di un fatto puramente linguistico, in parte a causa di riferimenti
ad episodi specifici della vita nella struttura, sconosciuti allo psicologo. Il mediatore si è
occupato dunque di tradurre ed esplicitare i riferimenti alla quotidianità nella struttura dei
migranti trattenuti. Infatti, secondo quanto si legge nella “Quarta relazione sull’attività
dell’ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale” (p. 90), in un
gruppo di auto-mutuo-aiuto, il mediatore provvede alla traduzione e alla mediazione, intesa
come capacità di essere neutrale rispetto alle tematiche discusse, e alla capacità di tradurre
includendo le sensazioni, traducendo cioè parole e anima del trattenuto. L’incontro ha
seguito alcune regole, come l’alternanza del turno di parola e le presentazioni iniziali, oltre
71“Un gruppo di auto-mutuo-aiuto non è un gruppo terapeutico, è un gruppo composto da persone accomunate dal desiderio di superare lo stesso disagio psicologico, affrontando ed elaborando il disagio in prima persona attraverso la condivisione e lo scambio di informazioni, emozioni, esperienze e percorsi. Si ascolta e si è ascoltati in un setting in cui si scoprono e si potenziano le proprie risorse interiori. La formulazione di un gruppo di auto-mutuo-aiuto con i trattenuti del C.I.E. è volta alla creazione di uno spazio dinamico di condivisione e confronto, dove si abbia modo di esternare in un setting protetto le proprie emozioni, e i propri sfoghi, in seguito al forte senso di colpa dato dal fallimento del progetto migratorio. Inoltre, il gruppo di auto-muto-aiuto è volto alla prevenzione del disagio psichico, per quanto possibile in una situazione assai mutevole che vede l’alternarsi di persone sempre diverse nel gruppo.” In Quarta Relazione sull’attività svolta dall’ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (maggio 2007- aprile 2008), pp. 89-92. 72Quanto affermato si riferisce alla seduta a cui ho preso parte. 73Di queste tematiche si è parlato nel paragrafo 3.2.
82
che il rispetto per le opinioni altrui. Nella seduta alla quale ho preso parte, il “protagonista”,
è stato un uomo tunisino, con una fortissima esigenza comunicativa (in seguito all’invito
dello psicologo a lasciare parlare anche gli altri, l’uomo risponde: “Io non parlo da tre
giorni, fatemi parlare”74). L’uomo si esprimeva in maniera quasi frenetica, verbalizzando
un estremo disagio rispetto alla vita nel centro. La caratteristica della sua esposizione è
stato un uso reiterato di calchi dal francese in italiano, spesso consapevolmente adottati, nel
tentativo spasmodico di parlare e farsi capire.
Questo particolare momento aggregativo, permette di riflettere ancora una volta sulla
politica della presa in carico attuata dal Progetto Sociale. Nella dimensione gruppale, si è
potuto osservare un riassunto delle dinamiche cooperativistiche e multidisciplinari
impiegate dall’équipe. Il mediatore che ad un primo livello di analisi, si è occupato della
decodifica verbale e culturale dei messaggi del trattenuto desideroso di parlare e di riferirsi
ad aspetti anche concreti della vita al C.I.E., ha poi offerto lo spunto interpretativo
necessario al resto del gruppo. In quest’ottica sinergica, nascono gran parte dei progetti
individualizzati del Progetto Sociale: a partire dalle indicazioni dei mediatori, primi e
indiscussi facilitatori della comunicazione, l’équipe multidisciplinare, in casi difficili e/o
vulnerabili, sviluppa il progetto individualizzato di assistenza, che si rivela essere il
risultato naturale della politica della presa in carico adottata dal Progetto Sociale. L’équipe
si fa carico del trattenuto nella sua totalità e anche successivamente al periodo di
trattenimento presso il C.I.E., cercando un percorso di reinserimento nel territorio, con
l’aiuto e l’affiancamento al mondo dell’associazionismo e dei servizi alla persona presenti
sul territorio. Spesso, si tratta di percorsi che mirano alla protezione internazionale o alla
concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per art. 18, per motivi di
salute, o per motivi familiari. Purtroppo quelle condizioni di casualità che si è tentato di
descrivere precedentemente, rendono lo svolgersi e il realizzarsi del progetto un fatto
complicato, non è raro che il migrante oggetto del progetto individualizzato venga
rimpatriato senza preavviso. È il caso di uomo senegalese malato di cataratta e per questo
74Una condizione ricorrente, sottolineata da Losi (2000) è la forte attitudine alla verbosità dei migranti, senza ragioni precise, che a volte diventa una forma di difesa preventiva da possibile domande, altre volte è una strategia per alleviare la solitudine. Nel caso descritto in questa sede, l’attitudine alla verbosità appare chiaramente un metodo contro la solitudine.
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bisognoso di cure continue. Il signore in un momento di forte smarrimento, mi riferisce che
se l’avessero rimpatriato sarebbe diventato completamente cieco, perché in Senegal
un’operazione di rimozione della cataratta sarebbe costata troppo e lui non avrebbe potuto
permettersela, in Italia aveva invece un’operazione prenotata per due mesi dopo il giorno
dell’ingresso al C.I.E. Il fallimento del suo progetto migratorio, unito alla sofferenza delle
proprie condizioni fisiche ha fatto del signore senegalese un uomo arrabbiato e disperato, il
cui unico appiglio restava il rilascio delle mercede per un lavoro svolto mentre era detenuto
in carcere. Lo straniero trattenuto infatti, attraverso il recupero di queste somme, trova un
flebile conforto al forte senso di colpa per il fallimento di un progetto di vita.
3.4.1 Lingua e traduzione: riformulazione e registro. Compiti del mediatore e attività di
assistenza
Spesso i progetti individualizzati riguardano donne vittime di tratta, a scopo di sfruttamento
sessuale. Uno specifico Protocollo contro la tratta di persone, in particolare donne e
bambini definisce la tratta come fenomeno comprendente:
Il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, mediante l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, di frode, di inganno, di abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, o tramite il dare ed il ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Quest’ultimo deve comprendere, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui e altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o le prestazioni forzate, la schiavitù o le pratiche ad essa analoghe, la servitù e l’espianto di organi.75
Le donne vittime di tratta possono recarsi, se lo desiderano, nel giorno prestabilito, allo
sportello di SOS donna.
A questo proposito è importante chiarire la posizione del mediatore rispetto all’attività dello
sportello SOS donna. Infatti proprio grazie al peculiare rapporto di fiducia che la mediatrice
(si fa soprattutto riferimento alla mediatrice nigeriana Mary), piano a piano costruisce con
la trattenuta, quest’ultima comincia ad avvertire un’atmosfera protettiva e a pensare alla
possibilità, attraverso lo sportello dell’associazione SOS donna, di intraprendere un
75United Nations Convention against Transnational Organized Crime, in M. Rossilli: 2009, 54. Consultabile su: http://www.fupress.net/index.php/sdd/article/view/8439/7917
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percorso di affrancamento dalla condizione di schiavitù. Trovando nella mediatrice
un’àncora di salvezza, un sostegno nel difficile e doloroso percorso della denuncia contro
gli sfruttatori e della preparazione della lunga e dettagliata documentazione per la richiesta
della protezione internazionale e la richiesta del permesso di soggiorno (procedura art. 18;
cfr. storia di M. paragrafo successivo), la ragazza vittima di tratta (e nel caso delle donne
nigeriane giunte al C.I.E. si tratta di quasi la totalità di esse) può pensare di intraprendere
questo tortuoso e doloroso percorso. Si è dunque avuto modo di osservare come la presenza
della mediatrice durante i colloqui tra trattenuta e volontarie di SOS donna, vada ben al di
là dei compiti di facilitazione linguistica, ma si configuri come la risultante di una relazione
di fiducia, come l’esito positivo di un lavoro di aiuto e sostegno che la mediatrice porta
avanti a partire dal dialogo e dall’ascolto costanti.
Gli incontri con SOS donna sono estremamente privati, per questo è stato quasi
impossibile, presenziare allo svolgimento della seduta. In un solo caso, con la complicità
della ragazza nigeriana che richiedeva il colloquio presso SOS donna si è potuto partecipare
all’incontro. In questo colloquio, l’attività della mediatrice non è stata solo un’attività
traduttiva, si è trattato innanzitutto di un’opera vasta di riformulazione di quanto le
volontarie di SOS donna stavano affermando (in relazione ad alcuni aspetti particolari della
domanda di protezione internazionale), e di un’opera di semplificazione del registro (le
volontarie dell’associazione si esprimevano in un registro mediamente formale). L’attività
della mediatrice ha sicuramente tenuto conto della bassa scolarizzazione della ragazza, che
non avrebbe compreso un discorso formale in maniera chiara, e tra l’altro una questione
così delicata come l’andamento della sua domanda di protezione internazionale, richiedeva
un tono di rassicurazione e un registro piano, non arzigogolante. La mediatrice nigeriana ha
quindi scelto semplicità e franchezza. In questo caso l’ambiente tutto al femminile, ha
sicuramente giovato, soprattutto alla giovane nigeriana, che esprimeva le sue profonde
inquietudini derivate dalla paura degli sfruttatori fuori dal centro.
La tecnica della riformulazione, in questo colloquio largamente impiegata è effettivamente
la tecnica maggiormente impiegata dai mediatori al C.I.E., si fonda nulla necessità di
indirizzare il colloquio vero l’efficacia e il controllo del registro. Il contenuto di molti
colloqui si sposta su temi densamente culturospecifici, quali la burocrazia e la disciplina
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dell’immigrazione in Italia, e si utilizzano spesso termini settoriali del linguaggio giuridico,
che sarebbe impossibile tradurre in maniera equivalente. È invece indispensabile, da parte
del mediatore, ridimensionare il registro, renderlo più fluido e comprensibile ai migranti,
molto spesso non scolarizzati, e in uno stato psicofisico precario, dovuto al trattenimento e
alla paura per l’incolumità propria e della propria famiglia e fornire delucidazioni al
migrante. I mediatori si assicurano, approfittando di fatismi, che il contenuto del messaggio
sia stato chiaramente recepito, soprattutto nel caso di colloqui delicati. (cfr. colloqui con la
polizia). In questo senso l’attività di mediazione agisce a livello interpretativo,
concentrandosi sul senso, più che sulla parola.
Il mediatore si adopera per sciogliere dubbi legati a problematiche transculturali, ed
esplicita il linguaggio non verbale, inoltre è molto importante che possegga una buona
conoscenza del linguaggio settoriale con cui lavora. È stato importante nella partecipazione
alle attività di mediazione al C.I.E., acquisire familiarità con la terminologia richiesta dal
luogo per spiegare e delucidare i migranti trattenuti. Si tratta di una terminologia giuridica,
legata alle domande di protezione internazionale e alla legislazione di riferimento per la
richiesta di permessi di soggiorno speciali. In questi casi, non avviene nessun tipo di
traduzione della terminologia, è compito del mediatore spiegare al trattenuto cosa voglia
dire ad esempio “redazione di una memoria per la domanda di protezione internazionale”
oppure “foglio di via entro sette giorni”. Il mediatore ha dunque il compito di snellire,
anche linguisticamente l’ostilità della materia burocratica italiana in merito alla legislazione
sull’immigrazione e spiegare al trattenuto le procedure.
Il supporto ai trattenuti molto spesso si tramuta in assistenza vera e propria: i fax da inviare
per gli avvocati di fiducia, la richiesta di scrittura di sms o di consulti per la redazione di
memorie, la presenza fisica durante attività potenzialmente autolesive come quelle che
richiedono l’impiego di forbici e oggetti pericolosi, ad esempio le tinture per capelli. Il
mediatore è tenuto a presenziare a tali attività perché non si verifichino situazioni
pericolose.
86
3.4.2 Tensioni e richieste al di là del ruolo del mediatore
Esercitando una funzione di ponte, il mediatore si presenta quindi come un’entità neutrale,
avulsa dalle diatribe che possono insorgere nel centro. Nonostante ciò, non è infrequente
che la rabbia dei trattenuti davanti allo spezzarsi di una speranza, si scateni proprio con i
mediatori. È il caso di un uomo albanese, che arrabbiato per il continuo rinvio
dell’audizione presso la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale,
un giorno mi ha chiesto (per via della mia competenza in italiano) in maniera insistente di
telefonare all’ufficio di competenza per segnalare la sua situazione. Ho anticipato che
sarebbe stato difficile soddisfare la sua richiesta, poiché avevo già sentito dire dai mediatori
che la Commissione non discute l’andamento delle pratiche per telefono. Ho quindi chiesto
conferma al mediatore tunisino, che a sua volta ha tentato di dissuaderlo, perché la
telefonata avrebbe sicuramente avuto esito negativo, rispetto alle sue richieste. L’uomo ha
insistito, la telefonata ha avuto luogo, con esito negativo. Dopo aver sbraitato a lungo, è
ritornato velocemente nella sua stanza e ha continuato ad essere arrabbiato e deluso dal
comportamento del mediatore, che comunque gli ha ricordato che è al di là del suo ruolo
garantire l’efficienza della macchina burocratica italiana. Di fatto, il mediatore al C.I.E.
deve affrontare continui conflitti, e come una sorta di saggio super partes deve anche
tentare di arginarli senza inserirsi eccessivamente nelle vicende. Molto spesso i conflitti
nascono dal disagio della condizione di trattenuto e sfociano in comportamenti auto o etero
lesivi. Nei casi di comportamento come simbolo del disagio psicologico, si ritiene
opportuno non cedere alla prove di forza che i trattenuti a volte tendono, e conservare una
buona dose di nervi saldi.
Situazioni conflittuali possono emergere a partire dalla gestione di alcuni colloqui. In
generale essi si profilano come momenti privati per i trattenuti, e per questo, come si è già
ricordato è assai improbabile che questi incontri vengano registrati. Il quantitativo di
informazioni personali, spesso considerevolmente delicate, unito alla paura e al dolore del
ricordo delle esperienze vissute prima del C.I.E., porta in alcuni casi, la persona trattenuta a
fare addirittura esplicita richiesta di non scrivere nella scheda anamnestica. Ad esempio
nella gestione di un colloquio pre-convalida insieme alla mediatrice Mary, si propone sin da
87
subito una situazione molto delicata. Mary poneva alcune domande ad una donna nigeriana,
io riportavo il contenuto delle risposte sulla scheda anamnestica. Il colloquio in inglese,
come in tutti gli altri casi, prevedeva un avviso alla persona dei ruoli dell’intervistatrice e in
aggiunta una spiegazione del mio ruolo di volontaria. La donna trattenuta e non ancora
convalidata, arrivata da qualche ora nella struttura, risultava molto agitata, ha però
acconsentito. Ma non appena si è resa conto del fatto che io stessi comprendendo e
riportando in italiano il contenuto del colloquio (la situazione in realtà si prospettava assai
normale: come d’abitudine, e come mi aveva mostrato Mary, ho riportato i contenuti più
rilevanti della storia raccontata durante il colloquio), la donna non solo ha bloccato subito
la conversazione chiedendo di cancellare tutto ciò che era stato scritto sulla scheda, ma ha
anche pesantemente inveito contro di me e contro la mediatrice. In quel caso si è realizzato
quanto sarebbe stato utile, chiedere in maniera più esplicita alla signora trattenuta se avesse
gradito che quanto veniva detto venisse scritto e che quelle informazioni sarebbero servite a
evidenziare eventuali criticità che avrebbero potuto sollevare una questione di non
compatibilità con il regime detentivo (visto che non era ancora stata celebrata l’udienza di
convalida).76
Considerato ciò, nel colloquio immediatamente successivo, sulla scorta di questa
esperienza, Mary e io abbiamo ritenuto opportuno specificare che il contenuto delle
domande, poste durante il colloquio, sarebbe stato riportato per iscritto, solo con il
consenso della donna trattenuta e per le ragioni di cui sopra.
Vi sono stati diversi casi, in cui in prima persona (incoraggiata da Mary) ho ritenuto
opportuno segnalare alcune criticità relative alle persone trattenute, ai diversi servizi attivati
dal Progetto Sociale. Il mediatore o l’assistente sociale, possono infatti compilare un
modulo di invio in cui marcando la casella corrispondente al servizio al quale intendono
segnalare la persona trattenuta, riportano alcune righe di motivazione della richiesta, con
l’intenzione che il servizio in questione sia informato su un qualche particolare aspetto. Si
riporta il caso di una ragazza brasiliana: ho partecipato al colloquio preliminare con
76La spiegazione all’atteggiamento della signora, risiede nello spavento e l’ansia della signora stessa che non voleva verbalizzare nulla circa gli aspetti più difficili del suo passato, con la particolare criticità della madre anch’ella priva di permesso di soggiorno e costretta a scappare, quando la notte prima, la Polizia aveva sorpreso durante un controllo, la donna senza documenti.
88
l’assistente sociale. Nell’assenza di un operatore che conoscesse il portoghese, unica lingua
parlata dalla ragazza, e in seguito ai fallimentari tentativi dell’assistente sociale di condurre
il colloquio in spagnolo, si è optato per l’italiano, che la ragazza diceva di comprendere un
po’, se le si fosse parlato lentamente. L’assistente sociale ha dunque spiegato alla ragazza le
sue possibilità in seguito ad un’eventuale convalida del trattenimento il giorno seguente.
In seguito ad alcuni comportamenti e ad alcune affermazioni (la ragazza confondeva
ripetutamente il nome della sorella con quello di un amica, al punto di non essere più sicura
di chi fosse sua sorella e chi la sua amica) e dopo aver prestato attenzione ad alcuni
fenomeni paralinguistici durante il colloquio (la ragazza bisbigliava dopo aver pronunciato
i nomi dei genitori, la cui tossicodipendenza aveva causato la rovina della famiglia, come la
ragazza stessa aveva confessato) e dopo aver confrontato queste mie opinioni con quelle
dell’assistente sociale, ho infatti compreso come la ragazza nascondesse ferite profonde
dentro di sé che potevano essere esplorate e approfondite grazie all’aiuto della psicologa
del centro. La ragazza presentava alcuni problemi, esplosi nei giorni successivi77, di identità
di genere (alla domanda dell’assistente sociale: “Ti occupi tu di inviare i soldi a casa, in
Brasile, per la tua famiglia e tua sorella?” la ragazza risponde: “Sì, sono io l’uomo di casa”,
la ragazza inoltre indossava ripetutamente biancheria maschile) e un fortissima mancanza
di punti di riferimento dovuta al disfacimento del suo nucleo familiare di origine a causa
della tossicodipendenza dei suoi genitori.
In un altro caso si è invece ritenuto opportuno segnalare una donna nigeriana all’assistente
sociale, in seguito ad un racconto molto sofferto delle battaglie legali contro il suo ex-
compagno italiano, per l’affidamento dei figli.
In questi tristi e sofferti episodi, occorre che il mediatore, operi un distacco emotivo per
proteggersi e proteggere il trattenuto da comportamenti poco professionali. È importante,
conservare l’attenzione sempre sulla storia, e non farsi trasportare invece da fattori emotivi,
cosa che sarebbe del tutto controproducente. Potrebbe comunque essere utile interrompere
le domande, durare i colloqui finalizzati alla scheda anamnestica, perché troppo dolorosi
77È importante per un mediatore fare caso a comportamenti anomali e alle richieste più o meno tacite delle persone trattenute: il mediatore è la figura che passa più tempo con il trattenuto, è quindi nelle sue possibilità fare presente all’assistente sociale o alla psicologa eventuali anomalie che rendono necessari interventi specifici di presa in carico.
89
per il trattenuto, ma non sarebbe utile trasformare il colloquio in un dialogo amicale, anche
se a volte si sarebbe portati a farlo.
Alcune attività di mediazione risultano più complesse di altre, poiché comprendono
riferimenti alla condizione clinica del trattenuto. È la storia per esempio di R., una signora
ucraina, con un vissuto molto tragico, una vita di strada in totale abbandono. Il primo
colloquio, effettuato con l’assistente sociale, ha subito mostrato le difficoltà espressive e la
bipolarità della signora, che alternava un’esposizione vivace e ricca di espressività con
momenti di caduta e di indisposizione al dialogo, con peggioramento della qualità di
italiano parlato, dal punto di vista grammaticale e lessicale. L’intervento della mediatrice
moldava ha sicuramente reso più fluido il colloquio, ma non ha migliorato la
segmentazione di informazioni che la donna trattenuta ha dispensato nel corso della sua
permanenza presso il C.I.E. La presenza di un quantitativo considerevole di elementi
paralinguistici, come sorrisi e risate fragorose nel mezzo del racconto di episodi tragici, ha
fatto comprendere come l’interferenza dei problemi psichici della signora mal si conciliasse
con l’attività di supporto e aiuto tentata dall’assistente sociale. Si è quindi optato per una
richiesta di ascolto psicologico, che la donna ha prontamente accettato.
L’episodio di R. testimonia come la condivisione della stessa lingua, di un passato
migratorio difficile, non è necessariamente un beneficio per il trattenuto. Sicuramente, si
può affermare che all’interno del C.I.E., la nazionalità sia semmai un valore aggiunto in una
fase esclusivamente preliminare, di “agganciamento” della persona. Successivamente, il
trattenuto stesso demanda consulti all’operatore madrelingua (oltre ai mediatori stranieri, è
presente nel Progetto Sociale anche un operatore sociale di nazionalità italiana con
competenze antropologiche). Per questo non si può escludere che un mediatore di
nazionalità italiana, ma con competenze linguistiche adeguate possa svolgere efficacemente
l’attività di mediazione.
Un altro aspetto importante, quello della neutralità, può essere visto attraverso il fenomeno
delle denunce di donne vittime di tratta nei confronti dei propri sfruttatori. Le ragazze
vittime di tratta, secondo la legge italiana, infatti, possono sporgere denuncia contro i loro
sfruttatori, fornendo adeguati riferimenti e dettagli perché essi vengano identificati,
localizzati e arrestati, in cambio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari
90
(procedura di art.18) In questi casi, la mediazione viene richiesta dal questore. Quando si
tratta di convocare le ragazze per formalizzare la denuncia in questura (interna al C.I.E.), la
mediatrice nigeriana, la più coinvolta in questo fenomeno perché a fare queste richieste
sono per lo più donne nigeriane, non accetta mai di andare a chiamare personalmente le
ragazze negli alloggi (come invece richiede inconsapevolmente l’ente gestore). La
mediatrice ha infatti riferito che così facendo, le ragazze potrebbero confondere il suo
ruolo, neutro, di facilitazione linguistica (limitatamente alla mediazione con la polizia) con
un ruolo di supporto emotivo o di incitamento, altre volte necessario, in altri contesti della
vita nel C.I.E.
Secondo quanto detto finora e secondo quanto è stato possibile osservare direttamente nei
mesi di volontariato, l’idea di mediazione sviluppata nel C.I.E. di Bologna, risulta molto
fluida, concentrata sul core message del colloquio, un intervento privo di fronzoli, e ricco
di spiegazioni aggiuntive che fa della mediazione un intervento molto più lungo rispetto ad
una sessione di interpretazione. Si è voluto indicare la mediazione che si sviluppa
all’interno del C.I.E., come una mediazione linguistico-culturale, poiché alla luce di quanto
detto sino ad ora, emerge chiaramente che da un lato, il fattore della facilitazione linguistica
influenza molto lo svilupparsi dell’attività: soprattutto nella fase di ingresso del trattenuto,
il mediatore si comporta da facilitatore linguistico. Emerge dall’altro lato, come si evince
nei vari interventi di mediazione ai quali si è partecipato, un’attitudine alla costruzione di
un rapporto di fiducia, e a esplicitare il sommerso culturale, rendendolo visibile e
comprensibile, aspetti che complessivamente fanno propendere per una configurazione del
mediatore nel C.I.E. come operatore sociale. Rispetto a quanto detto precedentemente, la
mediazione nel C.I.E. si delinea in modo assai peculiare, perché vede il mediatore
impegnato su più fronti contemporaneamente, le funzioni di facilitazione linguistica, di
“difesa”, di smussamento e risoluzione del conflitto (Favaro e Fumagalli: 2004, 37-38)
vengono inglobate entro questa unica figura, che agisce sul campo come un filtro dei
bisogni, interpretandoli e contestualizzandoli, ma soprattutto esplicitandoli alle figure
competenti dell’équipe multidisciplinare.
91
3.5 MEDIAZIONE E CONFLITTI ETNICI: IL CASO DELLA NIGERIA
Considerata la stretta vicinanza al lavoro della mediatrice nigeriana Mary e l’alta
concentrazione di donne nigeriane nel C.I.E., con le quali è stato possibile avere contatti
ravvicinati in lingua inglese, si è scelto di concentrarsi sui temi della mediazione
linguistico-culturale in rapporto alla comunità nigeriana del C.I.E., e di approfondire le
problematicità connesse all’universo di provenienza di questa comunità e come si
ripercuotono sull’individuo e sulla gestione delle attività di mediazione.
Dai dati presi in esame, nelle pagine precedenti, si evince come la popolazione nigeriana
nel C.I.E. sia molto consistente e al contempo tristemente legata al fenomeno della tratta di
esseri umani. In questo paragrafo, si affronterà dunque il problema della prostituzione
nigeriana, una vera e propria piaga sociale in Nigeria come in Italia, le cui vittime popolano
i centri per migranti di tutto il Paese.
Come sostengono Taliani e Vacchiano (2006, 195), la prostituzione nigeriana in Italia è un
fenomeno recente dalle dimensioni vaste e di grande visibilità. Dalla fine degli anni ottanta
si calcola che siano passate per l’Italia circa 15.000 donne nigeriane, in gran parte
provenienti dallo stato Edo. La Nigeria è uno stato federale composto da 31 stati con
capitale Abuja. Il paese, che conta 120 milioni di abitanti consta di 426 gruppi etnici
differenti (fra i più noti Yoruba e Ibo). La lingua ufficiale è l’inglese anche se la
popolazione predilige nell’uso quotidiano i dialetti locali. Quanto alle religioni, l’Islam è
diffuso prevalentemente al nord, la religione cristiana protestante nelle regioni sud
occidentali, e la religione cristiana cattolica nelle regioni sud orientali. Riguardo alle
religioni tradizionali, anche se interessano solo il 10% della popolazione, continuano ad
essere praticate in parallelo rispetto alle forme di religiosità più diffuse.
La Nigeria è un Paese fortemente contraddittorio, come riportato da Carrisi (2011, 173), in
questo Paese multiculturale, oltre il 70% dei 120 milioni di nigeriani vive con meno di un
dollaro al giorno; nonostante il Paese sia il sesto produttore mondiale di greggio e il primo
in Africa, i proventi dell’estrazione del greggio non producono effetti benefici sulla
popolazione a causa di una sproporzionata distribuzione della ricchezza che rimane nelle
mani dei funzionari governativi. Alla povertà estrema della stragrande maggioranza, si
92
unisce la condizione subalterna della donna: si assiste ad una femminilizzazione della
povertà e alla violazione dei diritti sociali ed economici della donna. I trafficanti fanno leva
proprio su questo nell’adescare nuova “merce umana.” (Ivi, 177)
Come riscontrato in Taliani e Vacchiano (2006, 195-197), il fenomeno della grande
emigrazione nigeriana si sviluppa in fasi a partire dalla grave crisi economica che interessa
il Paese negli anni ottanta; i primi flussi di donne (per lo più adulte) si sono diretti
soprattutto verso l’Italia. Si tratta dunque di donne spesso sposate e con figli che per
migliorare le condizioni di vita delle proprie famiglie, hanno avviato il commercio di
prodotti da e per l’Africa. Alcune però hanno colto le potenzialità del mercato italiano della
prostituzione e hanno iniziato ad attirare connazionali (si tratta delle prime madame) con
finte promesse di guadagni esorbitanti. Solo una minoranza di queste donne attirate in Italia
è veramente a conoscenza di ciò che le attende, costrette a risarcire i debiti di viaggio,
vengono avviate alla prostituzione per saldarli. Il tutto viene suggellato nel patto voodoo,
prima di partire. In caso di mancato rispetto del patto, le “forze soprannaturali” potrebbero
scatenare morte, distruzioni e in generale forti ritorsioni nei confronti della donna
contraente e della sua famiglia.78
Successivamente, nei primi anni novanta una seconda ondata di migranti dalla Nigeria si
dirige in Italia, in particolare verso Torino, che diventerà negli anni a venire, il centro delle
organizzazioni della tratta e della malavita nigeriana. Si tenga presente che questa seconda
ondata migratoria, ha interessato donne più giovani, tra i 20 e i 30 anni, di condizioni molto
modeste, attratte dai facili guadagni prospettati loro dagli organizzatori dei viaggi. In questa
fase si sono consolidati i meccanismi illegali di transito in Africa e nei Paesi europei.
In una terza fase dell’emigrazione nigeriana verso l’Italia, si osserva il triste inserimento di
ragazze ancora più giovani nel mercato della prostituzione. Queste ragazze, minorenni
78Comune a molte donne è il fortissimo legame con il culto di alcune divinità naturali, unitamente alla forte religiosità cristiana (molte donne nigeriane al centro indossavano vistosi rosari). In particolare si nota il legame con Mami Wata (the Queen of the Water), una divinità femminile donatrice di fertilità e ricchezza. Si tratta di una figura femminile metà donna e metà pesce ha tratti indo-europei e una carnagione bianca. La madre delle acque governa bellezza, ricchezza e amore. Attraverso un rituale di sacrificio, offre soldi e successo, ma se le promesse alla dea non vengono mantenute, allora si scatena la sua vendetta. (cfr. Taliani e Vacchiano: 2006, 110 e 207).
93
senza prospettive nei loro villaggi natii, spesso vengono spinte al viaggio dalla loro stessa
famiglia che investe economicamente e psicologicamente nel viaggio.
Queste donne, sono obbligate a versare alla madame “un debito di viaggio” che si aggira
sempre intorno alle 40/50.000 euro oltre all’affitto dell’appartamento che condividono con
numerose connazionali, il cibo e il “joint”, il posto che occupano sul marciapiede. (Ibidem)
La sofferenza di queste donne si perpetra già a partire dal durissimo viaggio cui sono
costrette. Come riferisce Liberti (2011), immense carovane umane convogliano ad Agadez
(Niger), in pieno deserto del Sahara e spesso in condizioni climatiche molto precarie. Da
Agadez (Niger) partono alla volta della Libia. I racconti del viaggio sono intrisi di episodi
legati alla corruzione della polizia locale e di sofferenze fisiche. Gran parte delle donne
nigeriane trattenute al C.I.E. conferma, durante i colloqui, quanto anzidetto, raccontano
infatti, come le sofferenze fisiche patite durante la traversata del deserto e la drammaticità
delle condizioni cui sono costrette dagli accompagnatori del viaggio una volta giunti in
Libia, facciano svanire presto l’entusiasmo della partenza verso una vita migliore nella
“fortezza Europa”. Arrivate in Libia, queste donne iniziano a “pagare” il debito del viaggio
prostituendosi, vivendo in condizioni di prostrazione psicologica e fisica che le porta a
giungere in Italia, già distrutte e psicologicamente pressoché annientate.
Come si legge in Liberti (2011, 32), inoltre, è assai frequente che gli sfortunati exodants,
una volta giunti in Libia, vengano rimpatriati79 e vivano tutto il fallimento e la sconfitta, del
ritorno forzato a casa, che si condensa in queste parole: “Come faccio a tornare dalla mia
famiglia a mani vuote?” (Ivi, 33).
La ricostruzione delle tappe del viaggio e di come esso si svolge, è un elemento doloroso
per chi l’ha vissuto, ma diventa un valido supporto per i reparti della Polizia che si
occupano di sventare le rotte della tratta. Ecco che nella stesura delle memorie per la
richiesta d’asilo politico, e nella formulazione delle denunce contro i propri sfruttatori, oltre
79Nell’agosto del 2008, l’ex premier Berlusconi e Gheddafi hanno siglato un trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione”. Secondo tale accordo, a fronte degli indennizzi per cinque miliardi di dollari che l’Italia avrebbe stanziato per “voltare pagina” rispetto al periodo dell’occupazione coloniale, la Libia avrebbe dovuto collaborare con Roma nel contrasto all’immigrazione clandestina e l’attuazione dell’accordo già firmato nel dicembre 2007 per il pattugliamento congiunto delle coste libiche dalle quali salpano fiumi di migranti verso Lampedusa. (cfr. Corriere della Sera [online], 30 agosto 2008, “Berlusconi da Gheddafi, siglato l'accordo: Uniti sull'immigrazione”)
94
che nei quesiti previsti dalla scheda anamnestica del Progetto Sociale, le ragazze vengono
invitate a ricostruire nel dettaglio le tappe del viaggio.
Tuttavia, è da considerare la difficoltà con cui queste ragazze arrivano alla decisione di
denunciare gli sfruttatori e le madame. La forza della sudditanza psicologica e fisica di
queste donne nei confronti dei malfattori è da scriversi nella forza esercitata dall’apparato
magico, spirituale e religioso nigeriani, di cui si è accennato sopra. Le pratiche di
stregoneria prima del viaggio, diventano le procedure operative attraverso le quali le
madame esercitano il controllo sulle donne sfruttate. Capelli, unghie, peli, sangue
mestruale, indumenti intimi vengono raccolti e conservati dalla madame fino all’estinzione
del debito, come:
oggetti attivi attraverso i quali si può agire sul corpo della donna inviandole dolore, malattia o morte. L’azione coercitiva sul corpo, che si struttura per metonimia attraverso il possesso delle sue parti, è spesso affiancata da un’operazione che utilizza evocativamente le metafore della morte e della consumazione attraverso l’uccisione di un animale (solitamente un pollo), il suo dissanguamento e il consumo cerimoniale delle sue interiora. (Taliani e Vacchiano: 2006, 198)
Questi aspetti rendono la schiavitù delle donne nigeriane tra le più feroci. Alla base del
patto magico-religioso vi è la figura del babalawo o native doctor. Si tratta di un sacerdote
voodoo, temuto da tutti per i suoi grandi poteri. Considerato come un intermediario con le
divinità, diventa il protagonista dei riti che subiscono le nigeriane in procinto di partire per
l’Italia. Il rito diventa il simbolo del sodalizio, fortissimo e indissolubile, con
l’organizzazione criminale. (Carrisi: 2011, 90)
Come suggerisce Carrisi (Ivi, 186) il termine “voodoo” deriva dalla lingua fon, parlata nel
sud del Benin e significa “spirito protettore”. Dal 1992 tale pratica è stata riconosciuta
come una delle religioni ufficiali del Benin (esso è professato da circa 60 milioni di persone
nel mondo). Si consideri che l’uso che attualmente ne viene fatto, per assoggettare le
ragazze nigeriane avviate alla prostituzione, assume un significato senza riferimenti alla
natura religiosa del culto, ma, al contrario, ha assunto i toni di un rituale magico-
stregonesco, a cui è molto difficile smettere di credere. (Ivi, 187)
Il potente impatto psicologico del rito, e la pericolosità della posta in gioco, fanno sì che la
ragazza si senta legata alla sua madame, e raramente tenti di fuggire.
95
La donna che tradisce l’accordo, uscendo dal circuito della prostituzione prima del pagamento del riscatto, lo fa sfidando la consapevolezza delle conseguenze che ne potrebbero derivare, sul piano della salute propria o di quella dei familiari o su quello della fortuna e del successo. È una sfida che, almeno parzialmente, si compie in buona parte in solitudine: è significativa l’importanza dell’appoggio sociale e morale di operatori o amici [i clienti abituali o i “fidanzati” della strada], ma di fronte alla paura della sanzione mistica le risorse da mobilitare sono innanzitutto di natura spirituale. (Taliani e Vacchiano: 2006, 201-202)
Quando la donna, per motivi svariati (la fuga grazie all’aiuto di un cliente-amico, per
esempio), abbandona il marciapiede, è assai comune, la somatizzazione di un pesante senso
di angoscia e paura; attraverso il corpo queste donne testimoniano l’esistenza di un dolore
assillante. Infatti:
Il sintomo è allora pregno di senso poiché un certo messaggio è già stato scritto in esso dal soggetto, e non in quanto segno universalmente dato di una patologia […] il sintomo può essere letto allora come tentativo di articolare un vero e proprio linguaggio della sofferenza, la cui rilevanza investe il complesso delle vicissitudini esistenziali del singolo all’interno del mondo relazionale che abita: è un lessico che può essere utilizzato per comunicare il proprio stato psicofisico attraverso una sorta di narrazione corporea dalle formule comuni e, almeno parzialmente condivise. (Ivi, 224)
Non è corretto guardare alle particolari manifestazioni cliniche di donne che in passato
hanno contratto un patto voodoo, come significati specifici di una dimensione culturale.
Dire: “è voodoo”, non rende comunque sufficiente l’analisi (Taliani e Vacchiano: 2006,
109), perché poco rivela a proposito della persona, della biografia e della società a cui
appartiene: “Il rischio è qui quello di cadere nell’illusione di comprendere, attraverso un
tratto o un riferimento che percepiamo come culturale, allusivo di una differenza che
sarebbe sotto gli occhi di tutti…”(Ibidem)
A proposito dell’embodiment della sofferenza nei migranti, il Progetto Sociale si è
impegnato in una ricerca, tutt’ora in corso, denominata “La salute delle donne immigrate
che vivono o hanno vissuto episodi di maltrattamento o violenza: indagine
quali/quantitativa presso il C.I.E. di Bologna”, la ricerca ha lo scopo di conoscere le
condizioni di vita e lo stato di salute dei migranti, in particolare riferendosi ai sintomi
sentinella riguardo alla violenza di genere. La ricerca prevede l’approfondimento della
realtà psicologica e di salute delle donne trattenute, nell’intento di individuare una possibile
correlazione tra “sintomi sentinella” ed eventuali trascorsi episodi di violenza, al fine di
garantire alle trattenute un sostegno ed un’assistenza più mirati. La ricerca, sviluppandosi
96
su un piano quantitativo, legato alla raccolta delle storie significative, si è poi affinata dal
punto di vista qualitativo, con uno studio caso per caso sulla correlazione tra salute e
sintomi con vissuti di violenze e maltrattamenti. Anche in questa ricerca, ritorna il discorso
sulla centralità del mediatore all’interno dell’équipe del Progetto Sociale: proprio attraverso
i mediatori, l’équipe si è impegnata a rintracciare i cosiddetti sintomi sentinella, per poi
operare una complessa analisi della salute psicofisica dei migranti. Si ha in questo modo, un
ulteriore rimando a quel concetto di mediazione come attività olistica di cui si è parlato in
precedenza, e su cui si voluto insistere nel corso della trattazione.
Tutti questi fattori, gravitanti intorno alla ferocia della schiavitù, sono alla base dei dati
oggettivi, raccolti dalla regione Emilia-Romagna80, a proposito della forte impennata di
richieste d’asilo da parte di persone di nazionalità nigeriana. Secondo i dati regionali sono
proprio i nigeriani la maggiore nazionalità presente in regione, e secondo i dati diffusi dal
progetto SPRAR81 la Nigeria è il principale paese di provenienza dei richiedenti asilo in
Italia, con più di 5000 domande.82
Queste nuove forme di schiavitù come sottolinea Carrisi (2011, 14) “rispetto alla schiavitù
cosiddetta storica, presentano caratteristiche radicalmente differenti: principalmente la
schiavitù di oggi è illegale, mentre un tempo era lecita e tollerata.” I gruppi criminali, come
i negrieri dell’antichità, approfittano delle condizioni di estrema necessità in cui versano
queste giovani donne, sempre più spesso nemmeno maggiorenni.83
A questo punto converrebbe interrogarsi sulle motivazioni di questo massiccio sfruttamento
e traffico di esseri umani, che a livello globale ha assunto proporzioni drammatiche84.
80Si fa riferimento ai dati raccolti nel report di monitoraggio della regione Emilia-Romagna (“Emilia-Romagna terra d’asilo, Richiedenti e titolari di protezione internazionale in Emilia-Romagna. Monitoraggio, giugno 2012”. Consultabile su: http://sociale.regione.emilia-romagna.it/news/Monitoraggio2012.pdf ) 81I dati sono consultabili nel già citato rapporto CIES, 2010. 82I dati del rapporto CIES fanno riferimento ai dati dell’UNHCR, Asylum Levels and Trends in Industrialized Country, 2008. Dati sostanzialmente confermati dal rapporto della prima metà del 2011 (cfr. UNHCR, Asylum Levels and Trends in Industrialized Country, 2011, p. 30. Consultabile su: http://www.unhcr.it/news/dir/91/view/1081/domande-di-asilo-nei-paesi-industrializzati-primo-semestre-2011-108100.html ) 83È la storia di F. al C.I.E. da cinque mesi, originaria di Benin City a causa di condizioni di vita particolarmente avverse, decide di viaggiare alla volta dell’Italia all’età di 17 anni, con qualche spicciolo in tasca e la promessa di un lavoro da parrucchiera. 84Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), sono 12 milioni e 300.000 le persone sottoposte a sfruttamento lavorativo e sessuale. L’80% delle vittime sono donne e bambine, le più vulnerabili, in più del 50% dei casi minorenni. (I dati sono stati estrapolati da Carrisi: 2011, 10)
97
Come sottolinea il Sostituto Procuratore di Teramo, Mancini, in un articolo apparso il
16/02/2006 sul sito di informazione giuridica “altalex”85, tra i push factors (fattori di
espulsione) che spingono sempre più consistenti masse di persone ad abbandonare il
proprio Paese, è da collocarsi la situazione economica di povertà, in particolare nei paesi
del Terzo Mondo le condizioni di vita sono bassissime. Ciò, unitamente al boom
demografico, ha fatto crescere senza controllo il mercato dei potenziali schiavi. I pull
factors (fattori di attrazione) risultano essere invece l’assistenza sociale, sistemi di governo
democratici, stabilità di vita che i paesi occidentali sembrano garantire.
Inoltre, come afferma Rossilli:
nei Paesi di destinazione, al fattore di attrazione costituito dalla domanda di lavoro e servizi sessuali, si aggiungono gli ostacoli dell’emigrazione legale, in particolare nell’Europa di Schengen. Un ulteriore fattore risiede, infine, negli enormi guadagni che ne provengono per le reti di criminalità, dal momento che la tratta di persone è meno rischiosa del traffico di armi e droga e non richiede grandi investimenti, essendo la merce umana utilizzabile molte volte e facilmente sostituibile. (Rossilli in Storia delle Donne 5/2009, 59)
Mancini (cfr. articolo precedentemente citato) inoltre chiarifica la complessità della
struttura organizzativa dei gruppi criminali: si occupano di trafficare queste donne sono
capillarmente diffuse in Italia a diversi livelli con:
organizzazioni tecniche al primo livello: pianificano e gestiscono lo spostamento dai
Paesi d’origine ai paesi di destinazione;
gruppi operanti in zone di confine;
organizzazioni nelle aree di transito;
passeurs (o smugglers in inglese) che conducono i migranti lungo percorsi difficili
per chi non è pratico del posto.
La catena dello sfruttamento delle nuove schiave, riferisce Carrisi (2011, 218), non si
interrompe nemmeno quando le ragazze vengono portate nei C.I.E.. Vengono infatti
controllate attraverso cellulari, le donne già trattenute, o con uomini che le prendono in
consegna direttamente all’uscita dai Centri affidandole alle madame.86
85L’articolo (“Traffico di esseri umani e tratta di persone: le azioni di contrasto integrate”) è consultabile su: http://www.altalex.com/index.php?idnot=4217 86Cfr. Il dossier della Cooperativa Sociale “BE FREE”, circa i dati raccolti da alcune volontarie all’interno del C.I.E. di Ponte Galeria, in bibliografia.
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Considerate queste tragiche condizioni di vita precedenti e contemporanee alla migrazione,
che è stato opportuno tenere bene in mente nella gestione del dialogo con le donne
nigeriane, si farà ora riferimento ad alcuni casi pratici di gestione dell’attività di mediazione
all’interno del C.I.E. La condizione di detenzione, la paura del mondo esterno e la necessità
di essere protette, sfocia in liti furiose tra le donne stesse, a partire da diversità etniche o
pretesti futili dati dal nervosismo e dai ripetuti digiuni di protesta. Si consideri che molte
situazioni conflittuali prendono avvio a causa del forte temperamento delle donne nigeriane
e nonostante siano, in moltissimi casi, poco più che bambine, possiedono gli sguardi di chi
ha vissuto tutte le atrocità che l’uomo può creare. Per questi motivi, anche futili cose, come
i prodotti per la cosmesi, che parenti o fidanzati portano durante le visite, e le sigarette da
acquistare allo spaccio (organizzato ogni giorno dopo il pranzo dall’ente gestore, ove con la
quota giornaliera assegnata ad ogni trattenuto - 2,50 euro - a mo’ di argent de poche, è
possibile acquistare generi alimentari o sigarette), diventano, per le donne, un palliativo
della sofferenza, un flebile sfogo per supplire le mancanze che una vita normale e libera
può dare. Privarle di questi palliativi, equivarrebbe a distruggere gli ultimi rimasugli di
libero arbitrio in loro possesso.
Tenendo conto di quanto detto fino ad ora, vorrei riferire alcuni episodi che sembrano
particolarmente pregnanti per la riflessione sull’atipicità della mediazione
linguistico-culturale in una struttura come il C.I.E. Il caso di un colloquio con una ragazza
nigeriana (F.), e la sua gestione in assenza della mediatrice nigeriana, si inserisce
pienamene in questo tipo di riflessione. Avevo già avuto modo di conoscere F., una ragazza
molto impulsiva e anche un po’ aggressiva. Un giorno mi chiede di poter parlare con Mary
e quando le rispondo che Mary era assente, la ragazza si rivolge a me per esprimere la sua
richiesta: mi chiede che le venisse consegnata assolutamente la sua crema e tutto il
contenuto della busta che il suo fidanzato le aveva portato poco prima e che gli operatori
dell’ente gestore, a suo parere, non le volevano consegnare. In questo caso, più che una
richiesta, la ragazza ha voluto rivendicare un diritto, ricevere i suoi prodotti per la cosmesi.
In una situazione normale la richiesta della ragazza potrebbe sembrare banale, ma
all’interno di una struttura come il C.I.E., per tutti quei fattori legati alla negazione della
libertà personale (descritti nel secondo paragrafo del presente capitolo) acquisisce un valore
99
simbolico importante. La richiesta, con tono piuttosto aggressivo, viene formulata in
italiano, la ragazza infatti non aveva chiaro il mio ruolo all’interno del centro e soprattutto
credeva che non comprendessi la lingua inglese. Proprio per questo, le ho risposto in
inglese e le ho spiegato di essere una volontaria e che se aveva voglia, in assenza di Mary
poteva raccontarmi l’accaduto e spiegarmi il suo punto di vista. In seguito a questa mia
risposta, la ragazza si è calmata, ma ha ripreso con toni secchi e perentori: “I want you to
go catch my cream, right now!”. Ho quindi tentato di spiegarle che purtroppo non c’era
nessuna irregolarità, la sua crema, come già avevo sentito dire dai mediatori in altre
occasioni, e altri prodotti liquidi non possono entrare negli alloggi perché potrebbero
costituire elementi pericolosi e, nella fattispecie, potrebbero essere ingeriti.
Alimenterebbero dunque il pericolo di atti di autolesionismo molto frequentemente
commessi tra i trattenuti. L’operatore dell’ente gestore, che la ragazza mi indica essere il
responsabile del mancato recapito della crema, conferma la mia ipotesi. Tuttavia,
considerato che la ragazza dava in escandescenza, chiedo all’operatore se fosse stato
possibile, in sua presenza, visionare i prodotti. L’operatore acconsente. Si ottiene che la
ragazza esamini i prodotti sotto la supervisione dell’operatore in ufficio colloqui. In
seguito, l’operatore insiste sulla quantità eccessiva di prodotti. Spiego quindi il problema
alla ragazza, con una traduzione simultanea. Inoltre cerco di verbalizzare gli aspetti
paralinguistici dell’inquietudine della ragazza, da un lato, e della necessità di rispetto del
regolamento del centro, dall’altro. Mi rendo conto che nonostante gli sforzi, le due
posizioni continuano ad essere intransigenti. In questa particolare condizione di non
negoziabilità delle posizioni, e nel pericolo della degenerazione della situazione (per
esempio, una crisi isterica della ragazza, tra l’altro nota al centro per le sue reazioni
spropositate), ho ritenuto necessario intervenire. Ho quindi chiesto all’operatore se fosse
stato possibile versare poco a poco, e sotto la supervisione di un mediatore (per tutta la
durata del processo87), in contenitori più piccoli il contenuto dei grandi barattoli di unguenti
e prodotti per la cosmesi. L’episodio si conclude con la mia spiegazione alla ragazza della
mia proposta e la sua approvazione da parte dell’operatore dell’ente gestore.
87Del resto come si è già accennato, tutte le operazioni “pericolose” come l’uso delle forbici, vengono svolte dal trattenuto sotto la supervisione del mediatore (tinture per capelli comprese!).
100
In questo episodio, si può osservare come l’ascolto e l’imparzialità nei confronti delle parti
coinvolte nel “conflitto” siano state le chiavi alla risoluzione positiva dell’episodio. E allo
stesso tempo, come l’inserimento di un terzo nello scambio comunicativo, si sia configurato
non solo come intervento di facilitazione linguistica, ma soprattutto come un intervento che
con una funzione di ponte potesse “avvicinare” le posizioni.
Un altro momento che mi sembra particolarmente interessante, dal punto di vista delle
peculiarità della mediazione linguistico-culturale al C.I.E., si è sviluppato attorno
all’osservazione del comportamento della mediatrice nigeriana in una situazione piuttosto
delicata, e potenzialmente esplosiva: riguarda infatti alcuni difficili giorni, in cui i trattenuti
di via Mattei avevano, per protesta, deciso di portare avanti uno sciopero della fame, per via
della qualità troppo scadente del cibo. Il digiuno prolungato insieme ai “consueti” problemi
del contesto, hanno reso la situazione di un giorno di fine maggio, particolarmente
incandescente. In questo caso, la mediatrice nigeriana ha svolto un dialogo approfondito
con le donne nigeriane (pare che l’iniziativa dello sciopero della fame fosse partita da loro).
In questo maxi colloquio, la mediatrice ha interrogato le donne sui problemi
dell’alimentazione e del servizio mensa. Infatti, come mi ha poi detto, Mary ha ritenuto di
primaria importanza comprendere la situazione dal punto di vista degli attori principali (le
donne nigeriane che avevano iniziato lo sciopero) piuttosto che intervenire per recapitare i
messaggi offensivi delle trattenute all’ente gestore. Solo in seguito al confronto con le
trattenute e la comprensione dei bisogni e della condizione reale, la mediatrice ha riferito
all’ente gestore la situazione dal punto di vista delle trattenute, facendosi tramite con l’ente
gestore, nell’esporre le richieste delle donne a proposito della necessità di lavorare ad una
soluzione migliorativa della qualità del cibo.
Mary in questo episodio non ha semplicemente ottenuto che la situazione rientrasse e che il
caos e le urla venissero rimpiazzate da un dialogo civile. Non ha semplicemente funto da
“pacificatrice” come in un qualsiasi conflitto. Mary ha assicurato alle trattenute il diritto
all’ascolto di un bisogno, lo ha accolto e ha fatto in modo che venisse rispettato e ascoltato
dall’ente gestore.
In un’altra occasione, e in assenza della mediatrice nigeriana, si è sviluppata un’altra
situazione problematica all’interno degli alloggi femminili, dai quali improvvisamente
101
provenivano urla. Gli operatori dell’ente gestore, e la polizia scelgono di temporeggiare
l’intervento, perché si ipotizzava inizialmente una lite tra trattenute per la quale niente
avrebbero potuto fare. Tuttavia, mi accorgo che la più giovane delle trattenute, F. chiede
insistentemente di poter vedere il dottore, presenta numerosi graffi sul volto ed è in stato di
forte agitazione. Trovandomi nei pressi dell’infermeria, chiedo a F. cosa fosse successo,
non risponde e se la prende con un’anziana trattenuta ucraina “colpevole” di averle chiesto
di non urlare più così tanto. Per ridimensionare la situazione, chiedo alla donna ucraina di
non dare retta a F. Si sente poi una nuova serie di urla. Un poliziotto e un operatore della
Misericordia, decidono dunque di intervenire. Entro anche io, la situazione era di questo
tipo: due ragazze nigeriane, la giovanissima F. e J., più grande, litigano violentemente e si
picchiano, circondate dalle altre trattenute che tentano di dividerle. Con l’intervento del
poliziotto gli animi sembrano placarsi un po’, e per comprendere cosa sta veramente
accadendo, chiedo informazioni a H. con la quale ho instaurato un rapporto maggiore di
fiducia. H. afferma: “Everything is normal, J. is crazy and want to fight all costs”.
Effettivamente sono a conoscenza della forte irascibilità di J. che non esita a venire alle
mani con le altre trattenute, sue connazionali, anche per futili motivi. Tento di calmare la
più piccola, che mi sembrava più ragionevole; a questo punto il poliziotto e l’operatore mi
chiedono di tradurre per loro il contenuto dei dialoghi tra le ragazze, per comprendere il
problema sopraggiunto. Tuttavia, a causa dell’uso di espressioni fortemente dialettali e del
grado di esagitazione degli animi, lo scambio comunicativo è quasi incomprensibile.
Spiego quindi solo grosso modo la situazione, che gravitava attorno ad alcuni insulti che J.
aveva rivolto a F. In una fase successiva, ho scoperto che all’origine del litigio vi erano stati
insulti a proposito del patto voodoo che la ragazza nigeriana più giovane aveva rivelato di
aver stretto, prima di arrivare in Italia, ad alcune compagne. Successivamente vengo a
conoscenza che tra le due donne intercorreva comunque una situazione di conflittualità
pregressa, perché appartenenti a due gruppi etnici nigeriani differenti.
Anche in questo caso, benché l’attività del mediatore dovesse partire dal compito della
facilitazione linguistica, doveva comunque comprendere l’ascolto delle istanze delle
ragazze. Il mediatore è dunque neutrale nel senso che non potrebbe mai prendere posizioni
102
e parti di nessuno, ma a partire da situazioni di conflitto interviene perché vengano risolte,
assicurando i diritti di espressione dell’identità e dei bisogni del trattenuto.
Al rientro di Mary, dopo una settimana di assenza, mi sono confrontata con lei circa gli
avvenimenti più importanti accaduti, in particolare le ho riferito della lite di cui sopra. La
mediatrice ha voluto quindi convocare l’intera comunità nigeriana e discutere insieme dei
fatti, chiedendo ad ognuna di esprimersi a riguardo. La mediatrice è stata molto attenta al
fine che ognuno esprimesse la sua opinione e che tutte le donne fornissero il proprio
apporto alla questione, perché fosse risolta come un fatto sociale interno alla comunità,
chiarendo come le divergenze etniche e religiose, non dovessero più influire così
bruscamente all’interno della struttura, e come fosse più opportuno condividere la
sofferenza del trattenimento in un altro modo, per esempio attraverso il rispetto e l’aiuto
reciproci. Ancora una volta si è affermata la neutralità della mediatrice, che ha esordito nel
colloquio affermando di non voler difendere nessuno, ma di voler conoscere la realtà dei
fatti e i motivi dell’accaduto. Nel corso di tutto il colloquio ha evitato che il ricordo
dell’avvenimento potesse scatenare nuovamente una lite e ha ridimensionato i fatti,
contestualizzandoli alla vita nella struttura.
Un ultimo episodio che si inserisce in questa trattazione di momenti chiave per la
riflessione sulle peculiarità della mediazione linguistico-culturale nel C.I.E. riguarda il
difficile compito del mediatore, che molto spesso è posto davanti alla necessità di
comunicare al trattenuto notizie spiacevoli, come nel caso delle risposte negative della
Commissione territoriale, rispetto alla richiesta di protezione internazionale. In un giorno di
assenza di Mary, ho consegnato un plico a M., con la quale fortunatamente avevo già stretto
un rapporto umano cordiale e sulla quale avevo già accumulato sufficienti informazioni
riguardo la sua storia personale che potessero aiutarmi ad interagire con lei, a partire da
alcune conversazioni che la donna spontaneamente aveva voluto avviare con me. La donna,
analfabeta, mi chiede di cosa si trattasse. Le dico che per scoprirlo avrei dovuto aprire il
plico, mi autorizza quindi ad aprirlo. Leggo subito che si trattava dell’esito negativo della
richiesta di protezione internazionale e penso a come riferirlo. Nelle motivazioni si leggeva
infatti, in maniera sufficientemente chiara, che per la Commissione Territoriale quanto
affermato da M. nel corso del colloquio, era troppo contraddittorio. Con calma le ho
103
spiegato che la Commissione aveva giudicato non sufficiente la documentazione fornita, e
che il racconto presentava delle incongruenze per cui non era stato possibile accertare la
veridicità delle informazioni. Vista la reazione, prevedibile, della donna, ho poi cercato di
rassicurarla. La ragazza mi ha anche chiesto di dialogare in italiano, per rendere la
conversazione non decifrabile alle compagne. Le ho spiegato quali fossero stati gli errori,
secondo la Commissione, parlando in italiano e molto lentamente.88 Le ho fatto presente
che parlare con la psicologa l’avrebbe potuta aiutare a elaborare il difficile momento e le
conseguenze derivanti da questa risposta rispetto al proprio destino oltre il C.I.E.
In questo caso, e in altri analoghi che implicano la gestione di situazioni dolorose legate a
notizie che così violentemente si ripercuotono sulla vita del trattenuto, è quanto mai
necessario che il mediatore sviluppi strategie di distacco emotivo per conservare un
atteggiamento composto e professionale.
Questi episodi appena esposti testimoniano quanto l’attività di mediazione presso il C.I.E.,
sia oltremodo un’attività di assistenza emergenziale, che deve fronteggiare scontri
culturospecifici, e generali situazioni di gestione del conflitto, oltre che forti emozioni.
3.6 RIFLESSIONI SULLA LINGUA, CHIAVE D’ACCESSO AL DISAGIO DEI
TRATTENUTI
È evidente come il mediatore, sulla base della condivisione di un codice linguistico, sia il
punto di contatto, tra quelli della rete d’aiuto del Progetto Sociale, più immediato con i
88M. come la maggior parte delle donne nigeriane trattenute al C.I.E., è vittima di tratta: è possibile per queste donne ottenere un “permesso di soggiorno per le vittime della tratta – Art. 18 Dlgs. 286/1998”. L’art. 18 può essere considerato come una tra le norme più avanzate in Europa sulla tutela delle vittime di sfruttamento; prevede la partecipazione delle richiedenti ad un programma di assistenza e integrazione sociale. Al capo III del T.U. “Disposizioni di carattere umanitario” si legge: 1.Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all'articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un'associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell'organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.
104
trattenuti, ed è altrettanto evidente come questo fatto faccia del mediatore la figura chiave
del Progetto Sociale. Tuttavia, non è sempre scontato per un mediatore entrare in contatto
con i trattenuti. Spesso la provenienza da aree linguistiche molto particolari, e ristrette
rende l’incontro con il mediatore della stessa nazionalità molto arduo. È il caso, ad
esempio, degli arabofoni (cfr. intervista con Amina, par. 3.3). Inoltre, l’utilizzo di una
lingua franca, l’inglese standard ad esempio, ha sovente costituito nei casi specifici
affrontati, un ostacolo alla comunicazione reale. In generale, e molto spesso si è avuto a che
fare con persone trattenute scarsamente scolarizzate, con evidenti problemi di
comprensione della lingua standard, e che si sentivano più a loro agio nei loro dialetti, cosa
che, in un contesto globale di negazione della libertà personale, assume il significato
dell’esercizio di una libertà apparente.89
Effettivamente, l’utilizzo dell’inglese standard e di una lingua standard in generale,
equivale ad utilizzare una varietà di prestigio; una varietà standard è parlata da una
minoranza di persone in seno ad una società, e si tratta di persone che occupano una
posizione di potere. Come afferma Milroy: “Queste varietà acquisiscono prestigio quando i
loro parlanti hanno un alto prestigio.” (Milroy in Jenkins: 2009, 33)
L’utilizzo dell’inglese standard come forma di agganciamento iniziale con la popolazione
nigeriana del C.I.E. ha sortito risultati ambigui e talvolta fallimentari per quanto riguarda la
comprensione reciproca. Ma in alcuni casi, come quello di H. (che a differenza di altre
trattenute nigeriane risultava scolarizzata e quindi maggiormente in grado di interagire in
inglese standard), la possibilità di condurre un dialogo in inglese ha veramente consentito di
instaurare un rapporto di fiducia e rispetto reciproci, oltre che a costituire un’occasione di
approfondimento della storia della ragazza, la lingua insomma si è fatta chiave di accesso
ad una storia, un racconto e un universo lontano, e doloroso.
Per questo, soprattutto durante i primi giorni di volontariato, è stato molto importante
avvicinare le ragazze nigeriane attraverso la figura della mediatrice nigeriana, che potesse
garantire la mia buona fede rispetto alle trattenute. Attraverso la fiducia, già accordata alla
mediatrice, si è lavorato al riconoscimento della mia presenza al C.I.E. e col passare del
89Si veda ad esempio il caso delle nigeriane.
105
tempo le donne hanno compreso che il mio utilizzo dell’inglese standard rispondeva ad
un’esigenza di praticità e non di autorità.
Inoltre, al C.I.E. l’inglese viene in generale utilizzato come lingua franca in assenza di
mediatori della medesima lingua, cosa che spesso giova a chi non conoscendo le lingue
principali, o lingue di lavoro dell’Unione Europea (inglese, francese, italiano, tedesco,
spagnolo) non comprende, in sede di convalida del trattenimento, le parole del Giudice di
Pace, il quale si trova dunque obbligato a procedere con il rilascio dell’individuo. È una
condizione che accomuna spesso i cinesi. Da qualche mese il C.I.E. di via Mattei risulta
sprovvisto di un mediatore cinese, e il dialogo con la popolazione cinese del centro è
diventato quasi impossibile. La situazione è particolarmente spiacevole, perché un’intera
comunità perde il contatto con l’istituzione e con i servizi e si chiude inesorabilmente. La
comunità dei mediatori ha deciso, per ovviare a questa situazione, di sfruttare le capacità
linguistiche in italiano dei trattenuti cinesi, che seppur minime, possono garantire
l’interfaccia con l’équipe di lavoro. Oppure a volte, in caso di donne cinesi totalmente
incapaci di comunicare in italiano, si sceglie di impiegare altre trattenute della medesima
nazionalità, per avere un minimo di conversazione. In genere le donne cinesi impiegate
come “interpreti” non hanno comunque una competenza d’italiano in grado di rendere il
colloquio fluido e totalmente comprensibile. Di norma i dialoghi si concentrano su poche
parole chiave, attorno alle quali il mediatore che conduce il colloquio, sviluppa un discorso
più articolato, verificando se ha compreso il messaggio del trattenuto e del suo interprete
improvvisato.
106
CONCLUSIONI
Considerato lo scenario multiculturale delle società contemporanee, gli incontri
transculturali si sono moltiplicati e problematizzati. Tale assetto multiculturale impone un
riferimento all’Alterità e al rapporto che il singolo individuo costruisce con essa e un
riferimento alla costruzione di strumenti per rapportarsi all’Altro in maniera efficace e
proficua. In questo panorama multidentitario, in cui realtà culturali diverse si trovano a
convivere negli stessi spazi della socialità e della comunicazione, la mediazione linguistico-
culturale si inserisce in una prospettiva del tutto integrazionista.
Storicamente si è abituati ad affrontare il discorso sull’Alterità come un discorso
dicotomico tra bianco e non bianco, intorno ad un Altro descritto come esotico,
ontologicamente diverso, ed oggi identificato spesso tout court con “l’immigrato”. (Taliani
e Vacchiano: 2006, 56). In questo modo si rischia di operare una stereotipizzazione
dell’Altro come primitivo, ignorante, superstizioso, deficitario, si rischia “di adottare
approcci che fanno della naturalizzazione della diversità culturale l’unica chiave di lettura
possibile (“è così perché è africano”, “si comporta così perché è di nazionalità xxx?”, “sono
ben strani, ma si sa, sono africani…”)”. (Ivi, 85)
La mediazione linguistico-culturale non può assolutamente partire da questo equivoco
interpretativo riguardo l’Alterità. Non può infatti proporsi come un’attività che
strumentalizza la differenza culturale, al contrario deve proporsi come strumento attivo,
nelle mani delle nuove società multiculturali, volto a traghettare universi culturali da una
sponda all’altra del fiume.
In particolare, nel presente lavoro, contestualizzato e cresciuto in seguito all’osservazione
diretta del C.I.E. di Bologna si è voluto sottolineare che la mediazione “è assai più
complessa di una mediazione di conflitti o di una pura traduzione linguistica”. (Ivi, 84)
Nonostante la delicatezza e la particolare difficoltà insita alla gestione di un rapporto
comunicativo interculturale, la figura professionale del mediatore linguistico-culturale,
resta poco normata e in generale, salvo alcuni virtuosi esempi (cfr. l’esperienza della
regione Emilia-Romagna descritta nel secondo capitolo del presente contributo), poco
conosciuta e impiegata. Se si considerano le proporzioni del fenomeno migratorio che
107
recentemente ha interessato il Paese, si osserva che un dialogo interculturale efficacemente
ponderato, sarebbe al contrario quando di più auspicabile nella gestione dei “nuovi arrivi”.
Sebbene l’Italia si sia da tempo approcciata alle nuove migrazioni in via del tutto
emergenziale, adottando più spesso lo strumento delle sanatorie, invece che di leggi chiare,
l’immigrazione in Italia conta numeri consistenti.
Nel presente lavoro, a partire dalle considerazioni riguardo alle forme e ai numeri
dell’immigrazione in Italia, si è potuto valutare come nel farraginoso scenario italiano della
mediazione, l’intervento del mediatore si sia inserito negli ultimi anni come un intervento
diretto alla facilitazione linguistica e al ponte tra culture differenti. Soprattutto in questa
fase di assestamento delle migrazioni, la mediazione linguistico-culturale si configura come
un’attività volta al supporto dei migranti nel delicato processo di ingresso in un nuovo
contesto sociale e culturale, ospite. Tuttavia, si consideri che il -purtroppo- prevalente
atteggiamento italiano, che colloca il fenomeno migratorio entro la dimensione securitaria e
lo contestualizza nella paura dell’invasione del proprio territorio, non agevola affatto il
dialogo proficuo tra culture, e di conseguenza non agevola nemmeno una più positiva
considerazione (e utilizzo) della mediazione linguistico-culturale. Inoltre, vi è una scarsa
conoscenza da parte delle istituzioni e dei servizi dell’effettiva utilità di questa attività, che
spesso, viene associata ad una sorta di attività di pronto soccorso, quando l’Altro sembra
troppo diverso e per questo incomprensibile.
Nel presente contributo si è scelto di inserire il discorso sulla mediazione linguistico-
culturale entro un contesto emergenziale, frutto della legislazione italiana riguardo
all’immigrazione: il C.I.E. La descrizione delle caratteristiche specifiche della struttura
hanno sollevato una serie di tematiche che influenzano l’attività della mediazione, la
determinano, forgiandola come snodo centrale all’interno di una complessa attività di
sostegno e riduzione del danno portata avanti dal Progetto Sociale. Si consideri, che i dati
in questa sede esposti, circa il periodo di volontariato presso il C.I.E. di via Mattei,
risentono della particolare conformazione del centro, che nel corso degli anni si è dotato di
una serie di servizi per la persona trattenuta, al contrario di altri C.I.E. nazionali. Proprio a
partire dalla particolare conformazione del C.I.E. di Bologna, rispetto alla presenza di
108
servizi alla persona, l’attività di volontariato si è potuta sviluppare come un’attività di
ricerca, occasione di una più profonda esperienza di vita.
L’obiettivo di osservare le pratiche di mediazione linguistico-culturale in loco, ha reso
necessaria una partecipazione attiva alle attività dell’équipe multidisciplinare del Progetto
Sociale, e a tal proposito si è pensato alla strategia dell’osservazione partecipante, che
grazie alla vicinanza e al supporto della mediatrice nigeriana, ha potuto assumere molto
spesso i toni di un vera e propria attività formativa.
In un contesto peculiare come quello del C.I.E., caratterizzato da variabili quali il dolore e
la sofferenza per il fallimento di un progetto di vita, il mediatore deve mettere in atto
strategie specifiche, che gravitano intorno al bisogno primario dell’ascolto e del supporto.
La centralità del mediatore, poi, fa sì che sia proprio questa figura a mettere in contatto il
trattenuto con la rete di sostegno del Progetto Sociale. Rete, che “servendosi” del mediatore
attua, qualora necessario, specifici progetti individualizzati, facendosi carico del trattenuto
per un periodo che va persino oltre il trattenimento, e rendendo paradossalmente
l’esperienza del C.I.E., per alcuni trattenuti, un’opportunità da cogliere. Il Progetto Sociale
infatti garantisce al trattenuto, soprattutto nella fase immediatamente successiva al rilascio,
una continuità di riferimenti, attraverso l’affiancamento degli operatori del Progetto Sociale
al mondo dell’associazionismo e al mondo istituzionale del territorio.
È per questo, che l’attività di mediazione nel C.I.E. di via Mattei, è in netta
contrapposizione rispetto alle altre tipologie impiegate sul territorio. A differenza di queste
ultime, non è segmentata, non si interrompe (ad esempio) al livello linguistico, ma lo
oltrepassa trasformandosi in attività di sostegno.
La conformazione peculiare della struttura di Bologna e le caratteristiche proprie del C.I.E.,
hanno richiesto che l’indagine sulle forme della mediazione linguistico-culturale
considerasse da vicino le storie dei migranti, e le prendesse come simboli ed elementi
attraverso i quali aprire un discorso più approfondito, sulle macro tematiche presenti.
L’elemento biografico si è rivelato un imprescindibile punto di partenza per la
considerazione del fenomeno da studiare.
Nel generale caos definitorio rispetto all’attività di mediazione, si è dunque rimarcato, nel
corso dell’attività di ricerca, come l’etichetta “mediazione linguistico-culturale” sia la più
109
appropriata per il contesto del C.I.E. Oltre al prezioso elemento di facilitazione linguistica,
si deve considerare infatti anche il riferimento alla cultura e al lavoro del mediatore
all’esplicitazione del sommerso culturale. Soprattutto in contesti istituzionali e burocratici,
come quelli che talvolta il C.I.E. ingloba (relativamente, per esempio, ai colloqui con le
forze dell’ordine e con i servizi del territorio), è compito del mediatore lavorare alla
“spiegazione” di comportamenti e codici verbali.
Si consideri inoltre, che l’attività di mediazione si colloca ad un primo e centrale livello di
supporto per il trattenuto. I C.I.E., in quanto luoghi di privazione della libertà e dell’identità
(che deve essere accertata in collaborazione con le ambasciate dei paesi di origine e che
spesso non viene accertata, nel caso per esempio di Paesi che non hanno stretto accordi con
l’Italia) producono forti scompensi psicologici di cui il mediatore e l’operatore devono
tenere conto nella gestione delle attività. In tal senso, proprio l’attività di volontaria ha
stimolato e alimentato l’interesse ad osservare “dal di dentro” le variabili dell’azione
dell’équipe.
La vicinanza all’operato giornaliero dei mediatori e degli altri membri dell’équipe del
Progetto Sociale e la fiducia costruita con i vari attori del contesto, hanno favorito
l’inserimento e la possibilità di costruire relazioni e dialoghi di approfondimento con i
trattenuti e i membri dell’équipe.
È stato molto importante prevedere debriefing sessions con i membri dell’équipe, in seguito
ai colloqui con i trattenuti, perché ogni professionalità coinvolta, potesse come in puzzle,
mettere assieme tutti i tasselli, tutti gli aspetti cioè della storia del migrante trattenuto. La
storia e le criticità del migrante, vengono, infatti, sezionati pezzo per pezzo e ricostruiti,
nell’ottica di un piano individualizzato in cui il mediatore funge da aggancio, primario e
imprescindibile della relazione di cura e presa in carico.
Il periodo di distacco dal contesto, necessario per filtrare i dati e ricostruirli all’interno del
presente contributo, è servito inoltre alla categorizzazione mentale di una serie di episodi,
che hanno permesso di riflettere sul valore delle rappresentazioni culturali e sui metodi di
interazione di codici comportamentali differenti. Il confronto quotidiano con i trattenuti ha
infatti dimostrato che lavorare con gli stranieri implichi la messa in discussione dei propri
modelli di categorizzazione. È stato interessante imparare a guardare alla mediazione come
110
ad una grande occasione di negoziazione di significati culturali e di arricchimento
personale.
Un punto su cui, soprattutto la mediatrice nigeriana ha insistito, e adoperato come forma di
autoregolamentazione personale, è stato il forte grado di imparzialità. In un contesto in cui
ogni situazione, diventa per il trattenuto angosciato e sfiduciato, l’occasione per pensare ad
una disparità di trattamento rispetto agli altri, è bene che il mediatore sappia far
comprendere a tutti il proprio ruolo. È sembrato molto interessante il rapporto costruito
dalla mediatrice nigeriana con la comunità delle sue connazionali. Sin dai primissimi
incontri, il suo messaggio si è sempre indirizzato all’importanza della neutralità e
all’impegno costante affinché tutti i trattenuti fossero egualmente seguiti e tutelati, alla
stessa maniera. Tale atteggiamento ha di sicuro spezzato i dubbi iniziali circa la possibilità
di una pericolosa affiliazione etnica o sovraidentificazione tra mediatore e trattenuto. Si è
infatti verificato in loco, che la condivisione della nazionalità non corrisponde in nessun
caso alla condivisione di un rapporto amicale, o che va al di là della relazione necessaria
allo svolgimento dell’attività di mediazione. Per questo, come suggerito dalla mediatrice, è
opportuno mettere in atto personali strategie di distacco emotivo, perché è difficile in casi
drammatici, come quelli presenti al C.I.E., restare negli schemi di una relazione predefinita
e conservare un ruolo neutrale. Si è inoltre rimarcato come i migranti trattenuti si rivolgano
ai mediatori non già per un’affinità etnica o linguistica, ma per una necessità verbale, per
l’ascolto, per sentirsi vivi. Il che spiega il desiderio di molti trattenuti a parlare con
qualsiasi mediatore (verbosità), non necessariamente della propria lingua. Infatti, a tal
proposito si è osservato, che la mediazione diventa l’occasione dell’ esercizio del diritto
all’identità, alla parola, alla diversità e all’ascolto, che in un contesto di privazione della
libertà personale come il C.I.E., diventa una considerevole risorsa.
Dunque, la condivisione di un medesimo progetto migratorio, può essere solo un valore
aggiunto e mai una conditio sine qua non. La presenza dell’operatore sociale italiano, con
competenze linguistiche adeguate, ha infatti dimostrato di poter brillantemente coadiuvare e
completare il lavoro del mediatore straniero. La competenza linguistica in italiano, viene
percepita dai trattenuti (una volta sicuri di potersi fidare) un ottimo requisito nelle mani del
111
mediatore, anzi spesso, come si è narrato nelle pagine di questo contributo, è addirittura una
“componente” da ricercare.
L’ “italianità”, a relazione di fiducia costruita e avviata, diventa un punto di forza nelle
mani del mediatore-tipo, che può in questo modo rassicurare i timori del trattenuto e
svolgere un dialogo efficace con le istituzioni italiane, dalle quali il trattenuto si attende
risposte rispetto alle proprie richieste (cfr. i casi di domande di asilo politico e richieste di
ritorno mercedi, oppure dialoghi con enti e strutture italiane dalle quali ci si attende
documentazione in grado di fornire prove e costruire percorsi individualizzati finalizzati
all’uscita dalla struttura con permesso di soggiorno).
L’attività effettuata sul campo ha quindi dapprima voluto chiarire il contesto e le sue
caratteristiche, per poi approfondire dall’interno, l’attività di mediazione e i suoi
meccanismi, che sono risultati così totalmente contestualizzati e ancorati alla specificità del
luogo.
Il C.I.E ha paradossalmente offerto uno spunto riflessivo sul modo di pensare l’Altro e su
come questo rapporto dovrebbe essere. È stato soprattutto grazie ai mediatori, e all’équipe
del Progetto Sociale che un periodo di volontariato è potuto divenire un’irripetibile
occasione di ricerca partecipata e quindi (e soprattutto) un’ottima occasione di formazione.
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ALLEGATI
Questionario sottoposto alla dott.ssa C.Iaboni, interprete per il Ministero dell’Interno
1. In cosa si distingue l’interpretariato rispetto alla mediazione linguistica e culturale?
A mio parere, si può parlare di interpretariato quando gli interlocutori, anche se parlano
lingue diverse e fanno riferimento a culture diverse, hanno uno status e livelli di istruzioni
simili oppure parlano di argomenti che conoscono molto bene (penso, in questo caso,
all’interpretazione cd. “di conferenza”). Quando invece due interlocutori sono molto
distanti tra loro, non solo perché parlano lingue diverse, ma soprattutto perché la
comunicazione tra di loro non può avvenire se non vengono colmate le differenze culturali,
l’interprete esplica un ruolo diverso, per cui deve anche fornire spiegazioni e assicurarsi che
il dialogo si svolga senza ostacoli (di qualunque tipo). In questo caso si può parlare di
mediazione linguistico-culturale.
2. Come definirebbe il suo ruolo nella comunicazione interculturale e in rapporto alla
figura del mediatore/mediatrice linguistico-culturale? Le è capitato di lavorare
sinergicamente con questa figura?
Premesso che lavoro come traduttrice e interprete in un ambito istituzionale, mi capita
spesso di trovarmi di fronte a stranieri che non conoscono il funzionamento delle istituzioni
italiane o fanno fatica a capire alcune procedure, quindi devo spiegare o riformulare quanto
detto dall’operatore per assicurare il passaggio di tutte le informazioni.
3. Pensa che in comunicazione interculturale le due figure, l’interprete e il mediatore,
possano essere riassunte in una sola persona oppure che esse debbano essere scisse ma al
contempo lavorare insieme ?
Penso che l’interprete, con l’esperienza, possa sviluppare le competenze necessarie per
diventare anche mediatore.
4. Come definirebbe il suo lavoro in termini di adattabilità alle parti coinvolte nella
comunicazione?
Nel mio lavoro è essenziale adattare la comunicazione alle parti coinvolte, per far sì che gli
interlocutori collaborino allo sforzo comunicativo e la comunicazione possa fluire senza
interruzioni o ostacoli.
5. Nel suo lavoro di interprete di quale settore si occupa e quali situazioni si trova a
dover fronteggiare più frequentemente?
Lavoro in una Questura e mi occupo di immigrazione e asilo (rapporti con utenti stranieri
che richiedono un titolo di soggiorno o la protezione internazionale) e violazioni di legge,
soprattutto in campo penale, ma non solo (interrogatori; ricezione di denunce; contestazioni
di violazioni al codice della strada; accertamenti su documenti, cittadini, società o beni
stranieri; restituzione di beni rubati ai legittimi proprietari stranieri; contatti e scambi di
informazioni con polizie estere; intercettazioni telefoniche).
6. Viene convocata per sessioni programmate o il suo lavoro segue la linea
dell’emergenza?
Entrambe le situazioni.
7. Nella fase di interpretazione utilizza un codice etico per gestire situazioni di emergenza o
di forte complessità ?
Cerco di essere imparziale, neutrale, professionale e cerco di tradurre tutto quello che viene
detto, senza omissioni e commenti.
8. Prima dell’inizio della comunicazione è abituata a spiegare il suo ruolo alle parti
coinvolte?
Sì, sempre.
9. Un interprete è attento al linguaggio del corpo e alle sfumature di significato?
Sì, e ritengo opportuno segnalare i segnali che vengono dal corpo (sofferenza, paura,
diffidenza, ecc.) a chi conduce la conversazione per permettergli di relazionarsi in modo
diverso con la persona straniera.
10. Che tipo di strategie impiega più frequentemente ?
Se mi accorgo che la persona straniera fa fatica a seguire un discorso molto “tecnico”, cerco
di andarle incontro utilizzando un lessico più comprensibile, frasi brevi e semplici.
11. In casi di forte conflittualità e complessità culturale come si comporta?
Cerco di far presente ai due interlocutori che si sta compromettendo la comunicazione.
12. Come crede si possa esplicitare la complessità di un codice culturale?
Non so rispondere a questa domanda, forse perché non la capisco bene.
13. Nel caso in cui la persona straniera provenga da una micro-area linguistico-culturale, si
tende ad utilizzare comunque una lingua franca (es. l’inglese per la Nigeria)?
No, viene utilizzata la lingua franca solo se la persona straniera acconsente e se risulta
conoscere effettivamente tale lingua in modo adeguato alla situazione comunicativa,
altrimenti si cerca di reperire un interprete/mediatore che parla lo stesso dialetto della
persona straniera e si rinvia il colloquio.
14. Le è capitato di dover controllare l’impatto emotivo delle informazioni sulla persona
straniera, nel caso in cui si tratti di notizie particolarmente spiacevoli?
Sì. In un caso si trattava della madre di una ragazza deceduta in un incidente stradale
(riconoscimento della salma). In un altro caso ho lavorato con minori. Altre volte ho
tradotto esperienze terribili raccontate da vittime di reato o richiedenti asilo.
Fortunatamente non mi è accaduto spesso. Mi sono resa conto che, per gestire queste
situazioni – sia durante che dopo l’attività di interpretariato – all’interprete servono
competenze particolari che esulano dalla formazione accademica tradizionale. Non va
sottovalutato l’impatto emotivo che questo tipo di interpretariato lasciano sull’interprete.
15. La persona straniera cerca di capire dall’interprete cosa sta accadendo, in casi di lavoro
in emergenza, o cerca di reperire informazioni sulla struttura e il funzionamento delle
istituzioni e della burocrazia italiana?
Dipende molto dalle situazioni e dal livello di istruzione dello straniero. In alcuni casi è
difficile mantenere la capacità di ragionare lucidamente e si è in balia degli eventi.
16. Può capitare che sia la parte italiana che quella straniera si rivolgano a Lei in modo
diretto, chiedendo opinioni o chiarimenti, con il tentativo di eludere l’altro? In questo caso,
come si comporta?
Sì, a volte succede. In questo caso rispondo che quanto richiesto esula dal mio compito e
ristabilisco il contatto con la controparte girando a lei l’eventuale richiesta.
17. In quali casi considera utili le briefing sessions?
Nel mio specifico ambito istituzionale, le briefing sessions sono utili nei casi in cui si deve
affrontare una situazione che richiede la conoscenza di informazioni non necessariamente
note all’interprete/mediatore. Maggiori sono le informazioni note all’interprete, minore sarà
lo sforzo richiesto per seguire il dipanarsi della comunicazione (penso, ad esempio, ad
un’indagine che va avanti da tempo e nella quale sono emersi vari collegamenti tra le
persone oppure ad un colloquio in cui è essenziale conoscere la situazione politica nel paese
di provenienza della persona straniera da sentire). Oltre alle briefing sessions è senz’altro
utile l’esame del fascicolo per “prevedere” la terminologia che verrà utilizzata durante il
colloquio tra le parti per prepararsi linguisticamente al lavoro di interpretazione. Non
sempre, ahimé, è data la possibilità di consultare il fascicolo, nonostante l’interprete abbia
un dovere deontologico di riservatezza.
18. Infine, mi piacerebbe sapere se apporterebbe modifiche o migliorie al sistema
dell’interpretariato e della mediazione del suo settore.
Bisognerebbe istruire gli operatori istituzionali su come lavorare al meglio con un interprete
e sui modi in cui possono contribuire a migliorarne la prestazione.
Questionario sottoposto alla dott.ssa P.Rosolini, Interprete per la Commissione Territoriale
Richiedenti Asilo
1. In cosa si distingue l’interpretariato rispetto alla mediazione linguistica e culturale?
Penso dipenda da come viene vissuta l’attività professionale ed anche dal tipo di
prestazione richiesta. Quando frequentavo l’università (a TS) il termine “mediatore
culturale” non si usava e l’interprete per eccellenza (di simultanea) era chi si era diplomato
alla scuola superiore per interpreti a Trieste, relegando al termine “traduzione” tutto quello
che riguardava il rendere in una lingua un concetto, un’idea o un termine espressi in
un’altra. Nella mia attività professionale negli anni ho visto cambiare il significato del
termine (ma non so quanto tutto ciò sia soggettivo): il mediatore culturale era lo straniero
che conosceva la lingua, gli usi e costumi di chi di solito era un suo connazionale e che non
parlava la nostra lingua. I mediatori culturali avevano la caratteristica di non avere magari
un titolo di studio elevato, ma erano in grado di interagire con lo straniero proprio perché
non solo parlavano la sua lingua, ma anche potevano spiegare certe espressioni o certe
situazioni proprio in quanto ne conoscevano la cultura. (Es i mediatori che sono stati
indispensabili nell’attività della Questura e dei vari uffici di polizia di frontiera, molto attivi
in questa zona di confine.)
2. Come definirebbe il suo ruolo nella comunicazione interculturale e in rapporto alla
figura del mediatore/mediatrice linguistico-culturale? Le è capitato di lavorare
sinergicamente con questa figura?
[Vedi risposta 3]
3. Pensa che in comunicazione interculturale le due figure, l’interprete e il mediatore,
possano essere riassunte in una sola persona oppure che esse debbano essere scisse ma al
contempo lavorare insieme ?
Penso che dipenda non solo dal tipo di attività, ma anche nell’ambito di una caratteristica
specifica (come quella di cui ho più esperienza, cioè l’interpretariato per la Commissione
territoriale) dipenda molto dalle singole situazioni, perché, a seconda della persona di cui
dobbiamo tradurre le dichiarazioni, la sua estrazione sociale, la sua cultura, per non parlare
dell’argomento oggetto di conversazione, l’intervento del mediatore culturale può essere
alle volte determinante come altre volte superfluo. Penso che comunque una preparazione
approfondita degli usi, della cultura, ma anche della storia e della geografia del luogo di
provenienza della persona siano oltremodo utili perché non lo si dirà mai troppo, la
traduzione non è un meccanico scambio di caselle linguistiche….
4. Come definirebbe il suo lavoro in termini di adattabilità alle parti coinvolte nella
comunicazione?
Lo interpreterei come une adeguamento di registro e terminologia della propria espressione
verbale con l’interlocutore, che spesso richiede una semplificazione notevole del discorso
da tradurre, per giungere più vicino possibile al livello di espressione di chi si ha di fronte,
sempre che questo livello permetta i risultati richiesti. (Mi è capitato di far presente
all’intervistatore come all’intervistato –dei quali io dovevo tradurre le dichiarazioni- che il
livello di comprensione fosse così modesto da proporre di reperire piuttosto un interprete
della lingua madre dell’interessato a tutela tanto dell’interessato, quanto dell’intervistatore.)
5. Nel suo lavoro di interprete di quale settore si occupa e quali situazioni si trova a
dover fronteggiare più frequentemente?
Nella mia attività di dipendente di una Prefettura che ospita in sede anche la “Commissione
territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale” mi trovo a tradurre sia le
memorie che gli interessati consegnano insieme alla loro istanza, sia le dichiarazioni dei
richiedenti asilo in sede di audizione. Gli argomenti sono i più disparati, i problemi addotti
infatti sono talvolta di natura religiosa, altre volte politica, ma anche personale, come
conflitti insanabili tra famiglie, pratiche debilitanti nei confronti delle donne, etc.
Per le esigenze della Prefettura, invece, traduco le ordinanze dell’Ufficio Illeciti
Amministrativi e qualche volta qualche decreto dell’Ufficio Patenti. In questo caso,
ovviamente la terminologia è specifica, spesso criptica anche in italiano (i decreti hanno
allegato il verbale delle forze dell’ordine e spesso devo “interpretare” il cattivo
burocratichese del poliziotto o finanziere che ha contestato la violazione), la corrispondenza
tra termini è minima, e, ancora di più, tra procedure del diritto italiano e quello
anglosassone, ed il registro, dunque, cambia completamente rispetto al vocabolario minimo
dei colloqui. (La stragrande maggioranza dei richiedenti asilo attuali ha scarsa scolarità ed
il vocabolario è limitato, la sintassi talvolta addirittura inesistente.
6. Viene convocata per sessioni programmate o il suo lavoro segue la linea
dell’emergenza?
Per le traduzioni dei decreti, in genere, mi viene consegnata una copia, o tutto il fascicolo, e
mi comunicano se c’è urgenza o se posso tradurre senza fretta, magari procedendo alle
richieste urgenti. Queste possono riguardare la richiesta orale di informazioni di uno
straniero che non parla l’italiano, o l’esigenza improvvisa di un interprete in più della
Commissione che di norma già organizza le proprie esigenze riguardo agli interpreti con
largo anticipo. Anticipo con il quale vengo avvertita se la Commissione vuole “prenotarmi”
per la giornata ed in quel caso vedo di organizzare anche la mia vita famigliare in modo da
garantire una disponibilità più ampia rispetto a quanto richiesto dal nostro contratto di
lavoro (ad esempio, grazie alla flessibilità prevista e fatto salvo, ovviamente, il
completamento dell’orario previsto, come impiegati della Prefettura possiamo andare in
pausa alle 13.30 per poi rientrare il pomeriggio, invece la Commissione spesso non
interrompe la propria attività all’ora di pranzo e dunque i colloqui possono anche protrarsi
fino al pomeriggio, con magari solo una brevissima pausa per recupero zuccheri.)
7. Nella fase di interpretazione utilizza un codice etico per gestire situazioni di
emergenza o di forte complessità ?
Non so bene cosa si vuole intendere per codice etico, io lo vedrei come, sia il mantenimento
della riservatezza sulle informazioni che vengo a conoscere, sia il rispetto da dimostrare
agli interlocutori, tanto nel linguaggio verbale e non verbale, compreso l’abbigliamento
indossato; non deve essere solo dignitoso, ma deve tener conto anche di realtà e mentalità
diverse dalla nostra, in modo, ad esempio, da non imbarazzare od offendere un musulmano,
etc (ho vissuto per breve tempo in un paese arabo e ricordarsi di coprire la propria pelle con
indumenti molto di più di quanto noi oggigiorno siamo abituati a fare, soprattutto d’estate,
aiuta grandemente alla convivenza e all’essere accettati con rispetto, oltretutto non è così
impegnativo, non parlo di chador o altre pratiche che definirei “estreme”, basta ciò che ci
viene richiesto per certe visite in chiesa, niente shorts o minigonne, niente canottiere, per i
musulmani aggiungerei anche niente vestiti troppo attillati o provocanti, attenzioni che
probabilmente avremmo anche se dovessimo recarci come interpreti a qualche incontro tra
capi di stato…). Ovviamente come si deve dimostrare rispetto e considerazione per
l’interlocutore, è importante anche mantenere un certo distacco che ci permette poi non solo
di garantire la nostra imparzialità (che non significa freddezza), ma anche la possibilità di
eseguire il nostro compito in caso di resoconti particolarmente violenti e/o atroci (stupri,
torture).
8. Prima dell’inizio della comunicazione è abituata a spiegare il suo ruolo alle parti
coinvolte?
Si, è previsto dalle linee guida che ci illustra la rappresentante dell’Acnur all’inizio del
colloquio, tra le varie presentazioni dopo aver presentato per nome e ruolo i presenti
(membri e Presidente della Commissione) si introduce al richiedente asilo l’interprete -“che
non sta dalla sua parte o dalla parte della Commissione, ma la cui posizione è
necessariamente neutrale ed il cui compito è di tradurre agli uni ed agli altri tutto ciò che
verrà detto”-. Io anche prima che si instaurasse questa prassi, mi presentavo dicendo che
sarei stata l’interprete per l’audizione e magari così si scambiavano due parole utili anche
per capire se la comunicazione era possibile o se ci sarebbero state difficoltà.
9. Un interprete è attento al linguaggio del corpo e alle sfumature di significato?
Si sta certamente attenti, ma per le sfumature di significato non sempre è possibile arrivare
ad un livello tanto preciso, alle volte a causa dell’eventuale significato particolare in un
contesto culturale particolare, alle volte a causa delle limitate conoscenze linguistiche
dell’interessato. Si ovvia, sempre in caso di sospetta ambiguità o imprecisione, descrivendo
con altre parole il termine, l’oggetto o la situazione alla persona, chiedendone poi
conferma.
10. Che tipo di strategie impiega più frequentemente ?
Per la Commissione territoriale: ho sempre carta e penna per segnarmi i punti fondamentali
e la successione nell’esposizione dell’interessato, non trascrivo tutto, ma mi serve un
minimo per non perdere il filo. Ovviamente la concentrazione è essenziale e con colloqui
tanto lunghi, quando si comincia a non connettere meglio chiedere una pausa (un caffè o
zuccheri). Per le traduzioni di memorie personali scritte da richiedenti con bassa
scolarizzazione, quando il testo di primo acchito risulta del tutto incomprensibile, c’è un
metodo semplice ed efficace; per il francese è utilissimo, ma lo è anche per l’inglese,
bisogna cercare di leggerlo a voce alta ed “ascoltarsi”: di solito chi parla la lingua, ma non è
abituato a scrivere, trascrive i suoni in maniera completamente diversa dall’ortodossia
ortografica, ma, parlando, i termini si indovinano con un notevole grado di
approssimazione (è per questo che i testi in francese sono tanto più chiari con questo
metodo, tutte le parti delle parole che non si pronunciano vengono trascritte con fuorviante
fantasia, ma se si “dicono” il senso torna chiaro). Per le traduzioni di decreti utilizzo molto
Google anche per verificare quanto le espressioni usate siano presenti in testi di
madrelingua
11. In casi di forte conflittualità e complessità culturale come si comporta?
Non comprendo la domanda: conflittualità di chi? Non tra le parti perché il mio ruolo non si
pone come avverso alla parte, anzi se rendo la comunicazione possibile sono uno strumento
utile. Conflittualità tra l’intervistatore ed il richiedente? Non dovrebbero avvenire queste
situazioni, mi è capitato con un intervistatore che trascendeva dal suo ruolo ed ho cercato di
calmare gli animi, ognuno ha il suo ruolo ed i suoi interessi, ma non serve l’esasperazione
delle proprie posizioni. La complessità culturale non è sempre possibile conoscerla
appieno, sta poi anche all’intervistatore rimandare il caso, se è necessario un
approfondimento.
Nel caso avvertissi la necessità della presenza di un interprete della stessa
madrelingua del richiedente, sarei la prima a segnalare questa necessità: sono conscia del
fatto che la cosa più importante sia che il richiedente possa comunicare al meglio, se non
dovessi essere adeguata mi farei da parte (certo lo considererei una mia mancanza che mi
farebbe approfondire gli argomenti o i campi semantici in cui mi sono trovata in difficoltà,
ma non metterei in quel momento a repentaglio gli interessi superiori di chi ha diritto a
quanto di meglio possa avere per mettersi in comunicazione con chi lo può aiutare). Devo
anche però dire che mi è capitato piuttosto il contrario, nel caso in cui fosse stata richiesta
inizialmente una lingua locale per il colloquio, mi è capitato di spiegare al richiedente che,
avendo indicato una lingua o un dialetto locale, l’interessato/a poteva avere l’interprete di
quella lingua (lì presente) e di sentirmi dire che no, preferivano di gran lunga parlare con
me, insistendo per sostenere il colloquio con la Commissione con me come interprete (la
spiegazione data spesso da loro stessi riguarda il fatto che ai loro occhi noi europei
offriamo una imparzialità che non trovano in un connazionale magari di credo religioso o
politico diverso –o, peggio, che ha nei loro confronti un atteggiamento di superiorità e di
disprezzo, ahimé situazione da me osservata in certi casi-).
12. Come crede si possa esplicitare la complessità di un codice culturale?
La lingua parlata, ma anche quella scritta, sono grandemente influenzate dall’uso che se ne
fa, i termini si caricano di significati speciali, talvolta anche molto diversi da quelli di
partenza. Spesso anche nella nostra lingua un termine in un certo ambiente o gruppo della
società è inteso diversamente dal significato comune della stessa. Nel caso pratico di
comunicazione orale penso che con la buona volontà non sia mai impossibile superare
eventuali scogli rappresentati da specificità particolari. Per quanto riguarda le traduzioni
scritte, invece, senza poter chiedere spiegazioni a chi ha scritto, si rischia sempre di
prendere delle cantonate, ma, come mi è stato detto tanti anni fa da una collega con molta
esperienza quando io iniziavo questa mia attività, -“è inevitabile che un interprete si trovi
qualche volta a prendere una cantonata o a fare una figuraccia, per quanto preparato e per
quanta esperienza possa avere: non si può sapere tutto.”-
13. Nel caso in cui la persona straniera provenga da una micro-area linguistico-
culturale, si tende ad utilizzare comunque una lingua franca ( es. l’inglese per la Nigeria)?
Per il colloquio orale dei richiedenti asilo, sono gli stessi interessati che indicano la lingua
in cui vogliono che si svolga il colloquio, la scelta è ovviamente legata anche al livello di
scolarità ed alla propria condizione, e dunque del tutto personale. Comunque l’inglese ed il
francese come lingue “franche” sono in genere conosciute da un largo numero di persone
provenienti dall’Africa
14. Le è capitato di dover controllare l’impatto emotivo delle informazioni sulla
persona straniera, nel caso in cui si tratti di notizie particolarmente spiacevoli?
E’ capitato più volte di dovermi controllare per non esprimere, con le parole o con
l’espressione, l’emozione causata da racconti allucinanti di torture o trattamenti disumani,
come è successo anche che il/la richiedente non riuscisse a trattenere la propria emozione
nel rievocare un fatto accaduto. Avere un ruolo ed uno scopo ben preciso, cioè riferire cosa
gli uni e gli altri dicono, mi ha sempre aiutata a mantenere il dovuto ritegno, anche se con
un larvato sorriso o uno sguardo comprensivo trasmettevo la mia partecipazione. Questa
partecipazione veniva espressa anche verbalmente pure dai relatori con una disponibilità a
seguire i ritmi del/della richiedente, qualora non se la sentisse di continuare. In certi casi,
già a conoscenza di fatti particolarmente delicati riguardanti una richiedente asilo (dalla
memoria allegata all’istanza), la Commissione predisponeva il colloquio scegliendo
appositamente una “squadra” operativa tutta al femminile e con i relatori di sesso maschile
che lasciavano la stanza. La “squadra” consisteva nella relatrice, presidente (quando era una
donna) e l’interprete.
15. La persona straniera cerca di capire dall’interprete cosa sta accadendo, in casi di
lavoro in emergenza, o cerca di reperire informazioni sulla struttura e il funzionamento
delle istituzioni e della burocrazia italiana?
Dipende, ovviamente, ma normalmente i richiedenti, in occasione del colloquio con la
Commissione, da cui in sostanza dipende il loro futuro, mostrano una notevole soggezione
e dunque queste domande “pratiche” le riservano ad altri momenti.
16. Può capitare che sia la parte italiana che quella straniera si rivolgano a Lei in modo
diretto, chiedendo opinioni o chiarimenti, con il tentativo di eludere l’altro? In questo caso,
come si comporta?
Capita alle volte, con richiedenti che sperano di avere qualche informazione
sull’opportunità di citare o meno un certo elemento nel loro discorso oppure, purtroppo,
con dei relatori meno professionali di quanto richiesto e previsto, ma con il relatore
chiaccherone cerco di tagliar corto o di coinvolgere il richiedente nella conversazione.
17. In quali casi considera utili le briefing sessions?
Sul lavoro le trovo utilissime, negli svariati campi in cui mi sono trovata a lavorare (anche
non in quello linguistico), ma in Italia c’è poca abitudine al lavoro strutturato ed
organizzato. Per la Commissione territoriale considero utilissimo essere informati
preventivamente non solo sul paese di provenienza del richiedente, ma anche sui particolari
della richiesta d’asilo in modo da presentarsi più preparati al colloquio a beneficio di tutti.
(Es. banale, ma mi è rimasto impresso: avevo saputo che il richiedente asilo che avrei
incontrato l’indomani era saldatore e che il colloquio si sarebbe svolto in inglese: ho
controllato ed ho scoperto che in inglese, a seconda di “cosa” si salda il termine cambia; il
giorno dopo proprio una domanda specifica del relatore riguardava i particolari dell’attività
di saldatore. Ci saremmo capiti comunque, certo, ma mi ha dato molta soddisfazione poter
essere così precisa!)
18. Infine, mi piacerebbe sapere se apporterebbe modifiche o migliorie al sistema
dell’interpretariato e della mediazione del suo settore.
Sarebbe utile se i seminari sulla terminologia specifica in un determinato settore o quelli
riguardanti problematiche particolari su una o l’altra zona del mondo fossero molto più
numerosi e frequenti. Sicuramente una collaborazione più stretta tra interpreti e/o mediatori
potrebbe essere vantaggiosa. Persino le tante, piccole, apparentemente insignificanti
esperienze, se riferite, arricchirebbero il bagaglio individuale a vantaggio di tutti.
4
Ministero dell’Interno
DIPARTIMENTO PER LE LIBERTA' CIVILI E L'IMMIGRAZIONE - Direzione Centrale Servizi civili per l'Immigrazione e l'Asilo
CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE (CIE)
MILANO
Via Corelli
Posti 132
GORIZIA (Gradisca d'Isonzo)
Posti 248
MODENA
TORINO Posti 60
C.so Brunelleschi
Posti 180 BOLOGNA (Caserma Chiarini)
Posti 95
BARI Palese
Posti 196
ROMA
Ponte Galeria
Posti 360 BRINDISI (Restinco)
Posti 83
CROTONE
(Loc. S. Anna)
Posti 124
TRAPANI
Serraino Vulpitta
Posti 43
CATANZARO
(Lamezia Terme)
TRAPANI Posti 80
località Milo
Posti 204
CALTANISSETTA
Contrada Pian del Lago
Posti 96
aggiornato al 28.9.2011
Diario di bordo
3 maggio 2012, primo giorno 2h30
Percorrendo la strada tra la fermata dell’autobus e il portone di ingresso del CIE, pensavo che
avrei finalmente osservato con gli occhi ciò che avevo letto negli ultimi mesi a proposito dei
CIE.
Ciò che avviene “al di là del muro di cinta” dell’ex caserma di via Mattei è troppo spesso
strumentalizzato, e avevo sentito troppo spesso parlare di CIE da persone che non avevano idea
di cosa veramente fosse. Sono entrata pensando di avere voglia di farmi un’idea personale. Mia.
Mi sentivo emozionata, spaventata, preoccupata. Quando il dott. Pilati mi ha presentato Mary, la
gentilissima mediatrice nigeriana che mi ha tenuta al suo fianco e sotto la sua attenta e dolce
supervisione e professionalità, ero spaventatissima e credevo di non farcela alla visione di tutto
quello che mi si stava palesando davanti. In fondo avevo letto troppe cose raccapriccianti
riguardo ai CIE. Non avevo mai visto tutta quella polizia. Soprattutto non avevo mai visto un
luogo simile a quello. Tanta gente, mi aveva ricordato che non ero “finita” in un bel posto. Lo
sapevo che non ero andata in un bel posto, certo che lo sapevo. Credo di aver visto tanta
disperazione solo nei reparti oncologici che per alcune tristissime vicende della mia esistenza ho
dovuto “visitare”. Sono stata nel reparto femminile quel giorno al CIE. Donne, per lo più
nigeriane, giovani, molto giovani. Donne disperate, che mi guardavano all’inizio con diffidenza,
poi con curiosità, poi con speranza. E non mi spiegavo nemmeno perché.
Mary mi ha presentata a tutti, in particolare ha tenuto a presentarmi alle trattenute e ai trattenuti,
se capitava di incontrarne nel corridoio di cemento che divide gli alloggi dagli uffici. Una donna
si avvicina alla porta di ferro che divide gli alloggi dal resto della struttura. Mary me la presenta
dicendo: “Lei ha bevuto il detersivo qualche giorno fa…” La donna, con uno sguardo assente,
chiedeva a Mary cosa avrebbe dovuto fare per incontrare la psicologa e per incontrare la sua
bambina. Ho pensato: “tua figlia, cara M., sicuramente sentirà la tua mancanza, ma tu non hai il
permesso di soggiorno, e non puoi vederla quando vuoi. Tua figlia”. Ho pensato al perché quella
donna non avesse il permesso di soggiorno.
Le storie di madri, di figli, di padri mi hanno sempre toccata dal profondo del cuore.
Il mio primo giorno al CIE è stato angosciante, straziante, avevo paura di tutto, del personale,
della polizia, di quei due tunisini (?) sdentati che avevano chiesto ad un operatore sociale del
Progetto sociale, di cui il dott. Pilati è responsabile, un po’ di musica da mettere sul loro mp3,
per svagarsi un po’. Mi guardavano, sembrava che mi studiassero. Mi sentivo in imbarazzo. Un
senso di disgusto mi ha pervasa. Si sono subito chiesti se fossi italiana, gli ho risposto. Mi
sentivo “una novità”, mi sentivo colpevole, perché mi hanno chiesto se fossi d’accordo con la
legge sull’immigrazione. Mi hanno chiesto cosa ci facessi lì, che potevo essere figlia loro. Mi
hanno chiesto se mio padre sapeva che ero lì. Mi hanno detto una cosa che somigliava a questa
frase, in un italiano stentato: “Tu vieni qua per sentirti meglio. Non stiamo sempre peggio.” È
stato un colpo durissimo, ma avevano ragione.
Come si fa a condividere la propria intimità, il proprio disagio, il vuoto interiore con gli
sconosciuti? Me lo sono chiesta quando ho visto gli alloggi.
Non ho capito una parola di quello che Mary e le ragazze nigeriane si dicevano, è stato
frustrante. Ed io che pensavo di poter usare l’inglese con facilità. Mi sono venute in mente tante
cose riguardo ai “world englishes” studiati all’università.
Ho scritto sul taccuino che non posso assolutamente fare a meno di imparare qualcosa di questo
“broken English” .
[…]
Sono passati due giorni da giovedì e non riesco a smettere di pensare a quelle donne.
Sono stati tutti molto cordiali con me. Vorrei scoprire come fa Mary a creare un clima di fiducia
intorno a sé. La chiamano MAMI. Lo è stata anche per me quel singolo giorno, quelle 2 ore. Il
mio cervello ha avuto un tale cultural shock… e non posso credere di essere rimasta senza parole
nel mio Paese. Mi sono detta che lì non era il mio Paese. Lì era il regno di nessuno, un nonluogo.
18 maggio 2012 secondo giorno 9.30/16.30
Il mio secondo giorno è stato un giorno molto impegnativo dal punto di vista fisico e mentale.
Arrivo al mattino alle 9.30 insieme a Mary, mi ritrovo in giacchino catarifrangente subito dopo
che i poliziotti si sono assicurati di trovare il mio nome tra la lista dei volontari.
Mary mi incalza, c’era tanto lavoro quel giorno. In effetti ho passato tutto il giorno a seguire
freneticamente Mary. Ci sono tre nuovi ingressi.
S., S., B. Non credo me le dimenticherò mai. Come nessun altro trattenuto. Sono arrivata in quel
posto, per caso, per egoismo, pensando di fare qualcosa di buono, e forse avevano veramente
ragione quei due tunisini sdentati, che mi avevano detto “tu vieni qui per sentirti meglio”.
In realtà è facile fare la paladina di giustizia, ma aiutare veramente qualcuno è diverso. Fregiarsi
di visite turistiche del CIE, a che serve, quando il dolore, la sofferenza, ti entrano nel cuore, si
impossessano delle ossa.
Mi sono sentita così inadeguata, così sbagliata nel mio atteggiamento pietistico e
compassionevole. Ho capito che per “combinare qualcosa di buono” dovevo agire, osservare e
imparare dai mediatori. Che ascoltano, immagazzinano e filtrano i bisogni dei trattenuti nella rete
d’aiuto del Progetto Sociale.
S., S. e B. sono tre donne rom, arrivate nel cuore della notte in via Mattei. Avrei voluto tanto
essere Mary in quel momento, avere quella sua freddezza, quel suo modo di trattare con garbo,
ma con distacco tre donne che dicono di avere problemi di salute, che consegnano i loro
passaporti alla polizia, e quindi già identificate se ne andranno presto. A casa. Tanto torneremo
dice B. Qui faccio molta fatica a capire dove sta il bene e dove il male. Perché in un momento mi
sentivo così empatica con loro, poi mi dicono: “Tanto torniamo in Macedonia con un bel viaggio
gratis… due tre mesi di tempo e poi torniamo qui”. Un atteggiamento aggressivo, prepotente, che
non mi piace affatto. Poi però questa stessa donna pensando di dover lasciare i nipoti qui, piange
e mi fa commuovere. All’inizio queste donne si comportano in maniera assai scostante, poi si
dimostrano donne ferite, semplicemente donne che si inquietano per i loro uomini e si
preoccupano per le loro famiglie. Come tutti. Famiglie allargate, famiglie rom, senza casa. E poi
S., con l’accento toscano. Mary mi fa compilare la scheda anamnestica, e io ho il tremore alle
mani, scrivo i loro nomi e i loro numeri identificativi in copertina e ho paura di sbagliare. Mi fa
davvero impressione scrivere nomi di persone e accostarli a numeri.
Mary mi sembra una persona molto saggia e riservata.
Poi arriva l’assistente sociale, che avevo già incontrato per un colloquio-intervista, alcuni mesi
fa. Lei mi sembra una mamma. Si rivolgeva a me guardandomi come ad una pari, mi riempiva di
attenzioni. Il mio volontariato si sta trasformando sempre più in qualcosa di molto attivo, in
un’osservazione partecipante di alcune dinamiche peculiari della nostra società. Quella che
regola gli ingressi e le uscite.
Le domande per compilare la scheda anamnestica durante il primo colloquio sono volte
soprattutto a capire lo stato di salute mentale e fisico delle persone. Se sono state in carcere
prima, da dove vengono, che lingue parlano, da quanto tempo sono in Italia, perché non hanno il
permesso di soggiorno, se l’hanno mai richiesto, e se ce l’hanno mai avuto perché e da quanto
l’hanno perso. Domande per ricostruire il loro tessuto sociale, e le loro famiglie.
Poi si cerca di mandare fax ad un avvocato, che ti chiede 500 euro solo per venire lunedì
all’udienza. E non sappiamo nemmeno se verrà e se potrà fare qualcosa per loro tre. Hanno il
cellulare con la camera ma vivevano in una baracca. Mi sembra una cosa assurda. E comincio a
faticare di nuovo a capire il bene e il male. Le donne, come mi spiegherà l’assistente sociale,
nella debriefing session, è molto probabile che siano vittime di un processo di sgombero
programmato, che colpisce prima chi non ha documenti. Quando l’assistente sociale, chiede loro
qualsiasi documento in loto possesso che avrebbero voluto mostrare per essere aiutate, le donne
porgono alcuni fogli verso di noi come ci volessero dare un tesoro. I documenti sono un tesoro.
La presa in carico del trattenuto è totale. Pilati insiste che non può finire tutto con l’espulsione e
che la presa in carico e la multidisciplinarità della sua équipe sono i punti di forza del Progetto
Sociale. Incontro l’operatore sociale con competenze antropologiche, e la psicologa-
psicoterapeuta, che mi chiariscono dal loro punto di vista alcuni aspetti psicosociali del
trattenimento. Cerco di parlare con i trattenuti in maniera semplice, piano. Instaurando un
rapporto alla pari. Un rapporto umano di fiducia, come mi spiegano tutti i mediatori è molto
importante dimostrarsi disponibili e comprensivi, ma al contempo imparziali. Ci sono tanti
termini “tecnici”: convalida, udienza, giudice di pace, non puoi andare in Francia, è un paese
Schengen. Come avranno fatto le tre donne rom a capire, visto che avevano una conoscenza
dell’italiano quasi nulla e nessuno al CIE era in grado di interagire con loro nel loro dialetto?
Incontro una donna moldava, considerata da molti “matta” e alcune donne nigeriane, che si
sistemavano i capelli in treccine, al sole.
Osservo alcune operatrici della Misericordia trasportare un materasso. Quando arriva un
materasso vuol dire che sta arrivando qualcuno nuovo. Tutti mi guardano un po’ incuriositi, forse
perché sono giovane. E sono incapace di gestire le emozioni. Forse lo leggevano chiaramente che
ero a disagio. Adesso ho imparato, devo essere calma, devo essere neutra.
Il distacco è importante, il dott. Pilati me lo dice sempre. Il distacco mi dirà Pilati a fine giornata
è una protezione per te e per loro, i trattenuti.
25 maggio 2012- terzo giorno 9.30 / 16.30
Arrivo al solito orario, incontro alla fermata dell’autobus Mary. Ci infiliamo le giacchette
catarifrangenti. La giornata è abbastanza movimentata, da subito. Mary e il mediatore tunisino
discutono in sala colloqui sul recente articolo di giornale in cui un’associazione locale chiede che
i CIE vengano chiusi. Si discute l’utilità di questa petizione. Sarebbe più giusto invece agire a
monte, sulla legislazione che consente l’esistenza di questi nonluoghi? Quel posto non piace a
nessuno, non è un posto normale. Però esiste. C’è una legge. Poi si comincia con la giornata.
Arrivano le volontarie di SOS donna. Sono così cordiali e disponibili con me. Mi sento
paradossalmente protetta da tutti lì dentro, ma allo stesso tempo mi sento costantemente messa
alla prova, rispetto al mio essere italiana, rispetto alle mie competenze linguistiche, e alle mie
capacità di costruire relazioni. Bisogna fare un sacco di fax per i trattenuti. Poi arrivano alcuni
giornalisti, autorizzati ad entrare nella struttura per realizzare un servizio. Il dott. Pilati si occupa
di accompagnarli nella visita. Io e la mediatrice nigeriana iniziamo i colloqui. Ritrovo dopo una
settimana esatta le tre donne rom. Mi avevano giurato che loro sarebbero rimaste lì al massimo
fino al lunedì successivo. Non avevo osato contraddirle, spiegando loro che i ritmi della
burocrazia erano diversi. La loro arroganza si era trasformata in rassegnazione. Alla fine
sarebbero state rimpatriate tutte e tre. E molto presto. Dentro al braccio femminile, scopro
l’arrivo di una ragazza, brasiliana, mia coetanea. Mi aspettavo una di quelle bellissime ragazze
brasiliane, invece: P. è molto mascolina e mi guarda con aria di sfida. Sul volto ha
quell’espressione di chi ha 26 anni ma ne ha vissuti almeno 40. Faccio la conoscenza di R.,
ucraina e chiacchiero brevemente con E. la donna moldava soprannominata la “matta”. Mi rendo
conto di quanto sia difficile dialogare con tutte le persone trattenute e assicurare loro il
medesimo livello di ascolto, per lo meno dal mio punto di vista. I mediatori invece sono molto
agili nei rapporti e nella gestione delle richieste. Ovviamente. Come mi spiega Mary, l’unica
mediazione “uguale a quella che ti raccontano nei libri o nei convegni” si svolge in due momenti
che non potrò osservare. Gli incontri delle trattenute con le volontarie di SOS donna, o con la
polizia nel caso in cui queste donne decidano di denunciare i propri sfruttatori. Per il resto è un
andirivieni di richieste da operatore sociale. “Comprami la crema, la tinta per capelli…” “ ho
bisogno di parlati” “ spiegami meglio….” etc. Con P. e R. è stato molto difficile comprendersi.
La prima conosceva solo il portoghese, ma se le si parlava lentamente, comprendeva il senso di
alcune semplici frasi in italiano. R. invece presentava un quadro psicologico molto precario, cosa
che rendeva ancora più complesso il dialogo. R. voleva restare lì tanto il figlio l’aveva mandato
in Ucraina con sua madre. Forse è incinta e forse ha l’AIDS, dice. Ma si vergogna a chiedere
delle analisi. Vuole restare lì così almeno è al caldo: per colpa delle “amiche cattive” che l’hanno
fatta bere è andata in ospedale, e un medico l’ha segnalata alla Polizia. È quindi finita al CIE
perché irregolare. P. invece era scesa per un panino, con l’amica che chiama sorella (ma è un
amica o è una sorella?) quando alcuni poliziotti le hanno chiesto i documenti.
Ho notato che nel brevissimo incontro tra M. e SOS donna, l’unico incontro con mediazione
“canonica” al quale ho potuto assistere con la complicità di M., una ragazza nigeriana,
quest’ultima cercava di esprimersi in italiano, stentato, mentre il livello di esposizione delle
volontarie di SOS donna (come ho rimarcato anche nel corso dei colloqui gestiti con l’assistente
sociale) resta piuttosto formale, e articolato. Ci sono parecchi termini derivanti dalla
burocrazia/giustizia (ricorso, art.18, art. 13, protezione umanitaria) termini che queste donne
conoscono nelle loro odissee per la regolarizzazione, ma che quelle nuove, ignorano. Mi accorgo
che Mary riformula molto e adatta i dialoghi tenendo conto di molteplici fattori: l’individuo, la
materia trattata. Facendo molta attenzione, con l’utilizzo di fatismi che tutto venga chiaramente
compreso dalla trattenuta.
28 maggio 2012 – quarto giorno 9.30/16.00
L’assistente sociale mi invita a gestire insieme alcuni colloqui. Poi Mary mi parla di M., da
lunghissimo tempo al CIE, raccontandomi di come sia difficile accettare per lei la lunga
detenzione.
Mi soffermo in ufficio colloqui con il mediatore tunisino, i cui colloqui con i trattenuti mi
sembrano molto informali, e chiaramente miranti a stabilire un rapporto di fiducia e rispetto
reciproci. È molto integrato in Italia, così come il mediatore marocchino.
Oggi la donna moldava soprannominata la matta è stata rilasciata. Lei era contentissima, mi ha
detto ridendo: “spero di non vederti mai più!” Le nigeriane sono arrabbiatissime, sono gelose che
lei sia uscita. Anche loro vogliono uscire ma se vogliono uscire devono denunciare gli aguzzini e
le madame, come mi dice Mary (la stragrande maggioranza di nigeriane trattenute è legata alla
triste vicenda della tratta a scopo di sfruttamento sessuale).
È possibile rifiutare un colloquio col mediatore? Sì, il caso di una ragazza del Ghana. Le altre
(nigeriane) le dicono (con tono ostile e intimidatorio) devi fidarti di Mary.
Mercoledì mandano in Macedonia le tre donne rom. Sono molto triste per loro.
Mi accorgo di quanto R. la donna ucraina abbia dei gravissimi problemi psicologici. È
autolesionista e continua a sospettare di avere l’AIDS. Oltre che di avere un bambino
addormentato nella pancia. Come mi spiegherà in una briefing session la psicologa
psicoterapeuta, occorrerà approfondire il discorso sulla gravidanza e maternità, che ricorre
costantemente nei colloqui con la donna. Vengo informata della possibilità, qualora lo ritenessi
opportuno di compilare alcuni moduli di invio per segnalare criticità dei trattenuti agli altri
membri dell’équipe (es. la psicologa). Oggi M. mi chiama “piccolo mediatore”. Abbiamo la
stessa età, ma lei sembra aver vissuto il doppio dei nostri anni. Mi sento riconosciuta dai
trattenuti.
Insieme all’assistente sociale, conduco un colloquio con un signore pakistano un po’ in inglese e
un po’ in italiano. Ha perso il lavoro da tornitore in un’azienda metalmeccanica e quindi il
permesso di soggiorno. È disperato. Ho cercato, di esplicitare alcuni punti poco chiari, attraverso
domande in inglese al trattenuto, all’assistente sociale.
R. la donna ucraina, abbisogna di cure psichiatriche mi pare. La psicologa sostiene che non è
affatto orientata nello spazio e nel tempo. È difficile parlare con questa donna, perché anche con
la mediatrice che parla la sua lingua, conserva aspetti paralinguistici e caratteristiche
dell’esposizione (molto sregolata) che non agevolano la comprensione e lo scambio
comunicativo. Il linguaggio settoriale della medicina e della burocrazia oltre che alla sua
patologia psichiatrica rendono il colloquio quasi fallimentare. Mi chiedo come possa essere
possibile che questa donna sia in Italia, a detta sua, da 16 anni, ma il suo italiano sia così
pessimo.
Osservo da lontano le trattenute e mi sembra che il CIE sia un grande esperimento di società
multiculturale. Ci sono tante culture e tante tradizioni, a volte si scontrano, ma tante volte di
incontrano.
“Io non posso esistere qui” dice una trattenuta croata. Non mi sono mai più dimenticata di questa
frase. Ci ho riflettuto tutto il giorno. Mi sembra sia un punto cardine, esprime in tutta la sua
banalità un estremo disagio.
30 maggio 2012 quinto giorno 9.30/15.30
C’è una ragazza all’accettazione, appena io e Mary arriviamo. Sostiene di non comprendere
l’italiano. È nigeriana, è diffidente.
Un’altra ragazza nigeriana si avvia verso l’ ufficio della questura per effettuare la denuncia dei
propri sfruttatori. Non ho potuto assistere all’intervento di mediazione con la polizia, sarebbe
stato veramente interessante, penso, ma la privacy è molto più importante.
Ho capito che Mary ha un’idea di mediazione abbastanza fluida, si concentra sul core message.
Non lascia passare i fronzoli. È diretta, e chiarissima sulla procedura amministrativa.
Rimango molto stupita che nei documenti della questura, la traduzione di CIE in inglese sia
“deportation camp”.
Conosco meglio anche Irina, mediatrice moldava, che con le donne moldave o georgiane risulta
essere molto empatica.
Mary all’uscita dal CIE mi chiede cosa ne penso di questi primi giorni al CIE. Mi fa presente
l’importanza di adottare il distacco dalle storie, è importante chiudersi la porta del CIE dietro, a
giornata conclusa, per continuare a vivere a casa propria, mi dice. E mi parla del suo precedente
lavoro in unità di strada e della sua difficilissima gestione emotiva delle storie delle prostitute
con cui veniva a contatto.
Irina, mi racconta parte della sua biografia, ci sono molti elementi che potrebbero far pensare ad
una condivisione del tessuto e del progetto migratorio con le altre donne dell’est (alcool, marito
alcolizzato, povertà, condizioni migliori, lavoro come badante), che mi tracciano un quadro
davanti di disperazione e desolazione rispetto alle province più recondite dell’est.
Le tre donne rom stanno per essere rimpatriate, preparano la borsa. Sono felici. È strano che
siano felici adesso di tornare in Macedonia. Non me lo spiego. Vanno a casa, dove non hanno
nessuno e in un Paese che non conoscono, ma sono libere.
L’importanza della presenza di un madrelingua italiano (io) nel dialogo con I. che richiedeva la
sua carta della famiglia. Gli Ho chiesto se poteva trattarsi di uno stato di famiglia, spiegando il
concetto e l’idea. Sono riuscita a comprendere la sua richiesta e mi sono guadagnata la sua
fiducia. Mi ha detto: “ Allora non è vero che gli italiani sono tutti st*****”.
1 giugno 2012 sesto giorno 9.30/15.00
Non c’è la mediatrice nigeriana e senza di lei non riesco ad entrare in contatto con le nigeriane.
L’episodio della crema tra F. e un operatore della Misericordia. L’incontro tra R. e P. con la
psicologa, chiarisce ulteriori punti foschi sulla storia di queste due donne. M. ha dei problemi di
tossicodipendenza. È in crisi e lo mettono in isolamento. Mary riceve il diniego della protezione
umanitaria e sono io a comunicarglielo. E., una donna croata mi dice di non riuscire ad essere
identificata, perché ha avuto tre mariti e non hanno documenti con il suo nome da nubile. Una
giovane mamma rom viene prorogata, e rifiuta di parlare con chiunque. Continuo a coltivare una
relazione cordiale con H. una giovane donna nigeriana.
4 giugno 2012 settimo giorno 11.00/15.30
La vicenda di M. giovane ragazzo marocchino, tossicodipendente già in carico al SERT, apre lo
scenario del consumo di ansiolitici, e “terapie” nel CIE. Noto infatti una forte richiesta da parte
dei trattenuti di metadone e Rivotril (usato in Italia come antiepilettico). Ci sono molti uomini
che hanno abusato di sostanze stupefacenti nel passato. All’orario prestabilito dal medico, questi
uomini (sono in prevalenza uomini, in genere magrebini) si recano come in sfilata dal medico,
che dà loro la “terapia” Oggi, un signore in particolare mi ha colpito. Mi sembra di aver capito
che sia entrato ieri nel CIE. Ha litigato con il medico di turno perché necessita metadone, mentre
il medico gli consiglia di aspettare un altro momento della giornata. Il litigio che rischiava di
divenire violento, si placa con l’intervento del mediatore marocchino, che spiega all’uomo di
fidarsi del medico e di non sentirsi trascurato o non capito. Le nigeriane continuano a non fidarsi
di me, ma a poco a poco da quando ho preso l’abitudine di specificare più spesso il mio ruolo di
volontaria e di affiancare più spesso i colloqui con la mediatrice nigeriana, stanno allentando la
morsa. Mi rendo conto, che per quanto molte nigeriane abbiano difficoltà a comprendere
l’inglese standard, perché in gran parte non scolarizzate, sia meglio utilizzare l’inglese standard
che l’italiano, che crea un quantitativo di gran lunga maggiore di misunderstandings.
Il mediatore tunisino mi spiega il funzionamento dell’archivio digitale, che ogni giorno occorre
aggiornare in relazione agli ingressi e alle uscite. Inserisco alcuni dati. Seguo con l’assistente
sociale il tortuoso percorso di R., la donna ucraina con problemi psichici, nel tentativo di creare
un percorso individualizzato che la possa portare fuori dal CIE con un permesso di soggiorno per
salute.
5 giugno 2012 ottavo giorno 8.30/11.00
Oggi ho assistito ad una discussione tra la mediatrice moldava e il mediatore tunisino circa gli
stereotipi religiosi. Il mediatore tunisino, che mi sembra aver attuato un profondo processo di
assimilazione alla cultura italiana, si discosta dagli estremismi religiosi dei suoi connazionali.
7 giugno 2012 nono giorno 09.30/15.00
Da alcuni giorni, i trattenuti di via Mattei portano avanti lo sciopero della fame, per protestare
contro la qualità scadente del cibo. Due donne nigeriane mi stringono i polsi forte, e mi prendono
dalle braccia, chiedendomi di ascoltarle. Non capisco se si tratta di una dimostrazione di fiducia
nei miei confronti, oppure di disperazione. O di entrambe. Osservo Mary interagire con le donne
e traghettare le richieste, una volta comprese, all’ente gestore.
A differenza della comunità nigeriana, tendenzialmente chiusa, le donne provenienti dall’Est
Europa sono più inclini a parlare e a raccontare le loro storie, e in generale acquisiscono un grado
di conoscenza di italiano, abbastanza presto, una volta arrivate in Italia (a differenza delle
nigeriane).
Continuano le lamentele delle donne trattenute rispetto alle violente crisi di R. che sovente
assume comportamenti poco consoni, e di protesta. Le ragazze raccontano che si denuda molto
spesso, e se ne sta al centro dei luoghi comuni, aspettando che gli altri la guardino.
22 giugno 2012 decimo giorno 09.30/16.30
All’arrivo chiedo alla mediatrice nigeriana e all’assistente sociale un breve aggiornamento su
cosa è accaduto nei miei 10 giorni di assenza. Mi raccontano di R., la donna ucraina e dei suoi
continui atteggiamenti che richiamano l’attenzione. Ma da qualche giorno a questa parte ha
cominciato a dormire molto, tanto da sembrare morta, per la sua compagna di stanza.
Le ragazze sembrano più tranquille riguardo alla questione cibo, ma è solo una tregua, perché
senza cibo decente non si può stare dicono.
Mi raccontano di C., nigeriana, dalla vita tormentata, con un dossier di 20 pagine a suo carico.
Poi si parla di alcuni trattenuti fuggiti nella notte, e dell’incertezza del lavoro a partire da agosto
con l’ingresso del nuovo ente gestore. Nel corso di alcune ricerche, per la costruzione del
percorso individualizzato in favore di C., l’assistente sociale, scopre maggiori dettagli, in realtà,
il faldone a suo carico è molto molto più vasto: alla Caritas di Napoli dove è stata a lungo, hanno
così tanta roba da non poterla neanche inviare per posta.
Parlo con A. una ragazza rom di 20 anni nata e cresciuta in Italia.
Mary mi parla di una strana relazione basata sulla sudditanza psicologica che J. un’irascibile
donna nigeriana ha instaurato con l’ultima arrivata C.
Partecipo al gruppo di auto mutuo aiuto maschile. Esperienza centrale della giornata alla quale
inizialmente mi approccio con riserbo e qualche timore. Poi però tutto fila liscio, ed
effettivamente si è rilevata una buona osservazione di ciò che sono le dinamiche dei gruppi. È
interessante come la condivisione della sofferenza possa risultare quasi un anestetico del
trattenimento. Gli uomini che vi partecipano, salvo alcuni casi, manifestano una necessità quasi
spasmodica di esprimersi, parlare, farsi sentire.
Sono felice perché H. mi cerca e mi chiede dove fossi finita. Dice che si è accorta che non c’ero.
Sto avanzando terreno nell’area relazioni umane. Si conclude la mia giornata con l’invito del
dott. Pilati, a riflettere sulla mediazione come attività olistica.
Ci soffermiamo di nuovo sulla questione della globalità dell’approccio e la necessità di smontare
la teoria della mediazione e adattare il mestiere ai bisogni che di volta in volta si manifestano.
25 giugno 2012 undicesimo giorno 09.30/12.30
Nulla di estremamente rilevante. Tranne l’incontro con D., uomo senegalese appena uscito dal
carcere. Le varie faccende burocratiche che disbrigo e la procedura per il recupero mercedi che
avvio con quest’uomo mi ricordano come il mediatore al CIE sia un operatore sociale. Quando
l’uomo mi racconta di aver timore di essere rimpatriato, perché malato di cataratta e in attesa di
operazione, proprio qui a Bologna (mi mostra anche il foglio della prenotazione), e mi sorprendo
ad ascoltare conservando un atteggiamento composto, ma empatico, comprendo di aver fatto un
enorme passo avanti verso l’elaborazione di una strategia del distacco emotivo e verso il
controllo delle emozioni, il mio più grande problema i primi giorni.
29 giugno 2012 dodicesimo giorno 10.00/16.00
Sono un po’ spaventata, perché Mary non c’è. E neanche l’assistente sociale, non avrò i miei
consueti punti di riferimento, penso. Mi rincuoro pensando che tanto c’è il gruppo di auto-mutuo
aiuto. Mi piace parteciparvi. Invece non vi partecipo. È l’ultimo incontro, e la situazione già
abbastanza accesa (il venerdì come il lunedì è giorno di proroghe e convalide. Giorno di fuoco).
E neanche questo venerdì si smentisce. Parlo molto con i trattenuti uomini delle loro condizioni,
accolgo i loro sfoghi. E., una trattenuta croata, vuole ricercare i numeri del consolato croato a
Roma (devono trovare il suo nome, con cognome che aveva da ragazza, altrimenti con quello
attuale, che è del marito, non riusciranno a trovarla e quindi ad identificarla, quindi
sostanzialmente se non la identificano lei resta al CIE per 18 mesi) Tra l’altro forse aiuterò
l’assistente sociale a trovare informazioni in Francia su questa donna, ove pare abbia fatto
richiesta di protezione internazionale, per art. 18. Affronto con i mediatori in ufficio un discorso
riguardo alla casualità intrinseca al CIE. Ad esempio, molto spesso i trattenuti cinesi non
vengono convalidati per la mancata presenza di un interprete che traduca il decreto di espulsione
in cinese.
Mi sento spesso in colpa per essere italiana al CIE. Rappresento l’outgroup nel mio Paese.
Rappresento i cattivi. Nel corso della giornata, c’è una lite tra J. e la giovanissima F., due ragazze
nigeriane. La lite ha preso avvio a seguito degli insulti di J contro F. Il conflitto viene gestito da
un operatore della Misericordia e da un ispettore di Polizia che cercano di ascoltare cosa dicono
le ragazze. Io cerco di dividerle e calmarle. Mi sono comportata molto istintivamente e ho
sbagliato, ho agito come se stessi dividendo i miei fratelli durante i nostri innocui litigi
casalinghi. Cerco di capire da H. cosa è accaduto e lei mi dice subito che è tutta colpa di J. che “è
violenta e cattiva con tutti”. La più piccola ha riportato alcune ferite sul volto, credo si sia molto
spaventata, perché a quanto pare J. le avrebbe rivolto accuse e insulti pesanti. Non so che strano
rapporto si sta innescando nella mia mente e nel mio cuore con queste donne. Ma ho sviluppato
un senso di protezione e di affetto nei loro confronti. Le guardo, spaventate, distrutte, molte
hanno la mia età ma mi sembrano più grandi. Ma immature allo stesso tempo.
Credo che penserò tutto il giorno a F. e ad avere paura che le succeda qualcosa.
Alcune donne nigeriane mi hanno dimostrato con abbracci l’approvazione alla mia presenza in
quella situazione di lite. Non mi hanno mandata via, hanno risposto alle mie domande. Poi,
dovevo andare via, e mi sono sentita fortemente in colpa quando ho detto a due di loro: “ciao,
ragazze, devo andare a casa.” Loro mi hanno guardata con un sorriso di invidia buona: “vai vai
bella”, mi hanno detto.
2 luglio 2012 tredicesimo giorno 9.30-15.30
Il tempo è passato in fretta tra richieste degli uomini a proposito di consolati e ambasciate, e la
rabbia di A., un trattenuto albanese, per l’ennesima proroga del trattenimento. Ascolto il racconto
di (non mi ricordo il nome) georgiano, che mi fa vedere come un proiettile gli aveva attraversato
la mano e lo stomaco, durante la guerra con la Russia. Lui da 10 anni è tossicodipendente e versa
in condizioni di salute fisica e morale abbastanza precarie. L’altro hot topic è D., che per alcune
difficoltà burocratiche, non riesce ad ottenere le mercedi dal carcere, per lui importantissime,
perché quando verrà rimpatriato, almeno potrà comprarsi il biglietto dall’aeroporto al suo paese.
É molto preoccupato perché se verrà rimpatriato non potrà fare l’operazione alla cataratta di cui
aveva già una prenotazione per settembre. Tra l’altro in Senegal questa operazione costa
tantissimo. Poi entro nel reparto femminile, chiedo subito a F. come va dopo il litigio con J.
dell’ultima volta e successivamente H. attira la mia attenzione, chiedendomi maggiori
informazioni sul mio ruolo nel CIE. Lei sembra stupita che io lo faccia come volontariato. Mi
chiede di entrare per assisterla mentre taglia le extensions (i trattenuti non possono usare oggetti
taglienti senza la supervisione del mediatore o di un operatore). C., la più adulta tra le donne
nigeriane mi racconta spontaneamente la sua difficoltà di essere compagna di stanza di R. la
donna ucraina con problemi psichici. Mi racconta anche di vivere una condizione di marginalità
all’interno del CIE, perché tutte le altre donne pensano che sia troppo vecchia (dovrebbe avere
circa 40 anni, con almeno 25 anni di prostituzione in strada alle spalle). C. continua,
raccontandomi i conflitti tra etnie in Nigeria. Mi parla in inglese, sforzandosi di evitare il suo
dialetto, che sa io non avrei compreso. Quando finalmente arriva Mary, la aggiorno su quanto
successo venerdì, e lei comprende come sia necessario un colloquio con tutta la comunità
nigeriana, per capire l’origine della furiosa litigata. Come una mamma con i suoi bambini si
siede e fa mettere tutte le interessate intorno, a parlare di cosa fosse successo. Emerge la forte
conflittualità tra J. e le altre trattenute nigeriane ed emergono anche chiaramente le accuse di J. a
F., (che il venerdì precedente le altre nigeriane avevano omesso di raccontami) riguardanti il
patto voodoo che F. avrebbe stretto prima di partire per l’Italia, oltre che ad altre orribili accuse,
credo, a sfondo religioso-mistico: F. avrebbe dei vermi in pancia, che costituiscono il male che
ha fatto nella sua vita. Come ricordano alcune donne, J. avrebbe inoltre accusato F. di avere
avuto rapporti sessuali con il padre. Quando una delle donne nigeriane, fa presente questa serie
di accuse, J sbotta che era tutto inventato e F. sembra sentirsi male, se ne va in stanza. J. si sente
in minoranza e offesa va via. Si offende anche con Mary. (Comincio ad abituarmi all’accento
non standard utilizzato dalle trattenute, e riconosco alcune espressioni).
Devo approfondire il tema del voodoo, perché ricorre spesso nei racconti allegati alla richiesta di
protezione internazionale delle ragazze nigeriane. Per questo vengono insultate. Anche il
problema del debito con la madame ricorre molto frequentemente. Una cosa che mi ha turbato
molto nel corso degli ultimi giorni sono state alcune frasi di M. (proprio la stessa che mi ha
iniziato a chiamare “piccolo mediatore”) nei miei confronti. In queste frasi, M. mi fa presente
una presunta astinenza dal sesso e dalla vita di strada. La cosa mi turba ma mi incuriosisce allo
stesso tempo, quindi le chiedo di spiegarsi meglio. Mi dice: “tu hai un fidanzato, torni a casa e
sei in compagnia di chi ti ama, io resto qui e nessuno mi ama più”. Non ho avuto lo forza di
replicare, ma prima di andare via ho raccontato a F., l’operatore sociale con competenze
antropologiche del Progetto Sociale, questa vicenda. Lui mi ha detto che in situazioni di reiterate
violenze, si innesca a volte nella mente della donna vittima di sfruttamento sessuale, la
convinzione che quanto vissuto sia giusto. La donna assume per buoni i comportamenti
(frequentemente lascivi e ammiccanti) e gli atteggiamenti messi in atto nella vita di strada, per
adescare i clienti e li “riutilizza” in tutte le situazioni possibili. E., la donna croata, in un
momento di crollo psicologico urla forte contro tutti. Si rifiuta di parlare con la psicologa. Oggi
viene rilasciata Z. una donna rom alla quale E. è molto legata, condividono la stanza e la lingua.
Forse anche per questo E. ha avuto questo crollo.
12 e 13 luglio 2012, 08.00-13.00
In questi giorni, prima della mia chiusura forzata del volontariato, incontro due donne nigeriane
che mi colpiscono molto. Una si arrabbia tantissimo con me quando scopre che comprendevo
quanto stesse dicendo alla mediatrice nel colloquio iniziale e lo stessi riportando per iscritto.
(facendo tra l’altro un’operazione di routine). Ho sempre agito in questo modo, ai fini delle
comunicazioni sulla scheda anamnestica. Furiosa chiede che vengano cancellate tutte le
informazioni su sua madre.
L’altra donna nigeriana ha invece alle spalle, una bruttissima storia di negazione dell’affido dei
suoi bambini in seguito alla separazione dal suo compagno italiano. Segnalo, avvalendomi del
modulo di invio, entrambe le donne all’assistente sociale.
Poche ore prima di salutare definitivamente la struttura, incontro una ragazza magrebina
scappata ad un matrimonio combinato, che non viene convalidata. È grande la gioia di queste
ragazza. E di tutti i mediatori.
In questi giorni di commiato, è durissimo lasciare i membri dell’équipe e i trattenuti. Mi sento in
colpa di chiudere così l’esperienza, ma rifletto: se avessi comunicato ufficialmente a tutti la mia
dipartita sarebbe stato più doloroso, ho preferito una strada corta, dell’anonimato.