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SOMMARIO

Pag. 3 Il teatro greco

Pag. 8 Il teatro latino

Pag. 15 Il teatro medievale

Pag. 18 Il teatro rinascimentale

Pag. 24 Il teatro nel Seicento

PREMESSA “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo”): è stata questa massima

del celebre commediografo latino Terenzio Afro ad animare noi studenti della IV A nel percorso di approfondimento

extracurriculare relativo al Teatro nella sua storia.

In modo casuale ci siamo costituiti in gruppo per realizzare un iter cronologico e tematico partendo dal fantomatico, mitico,

leggendario Carro di Tespi per giungere alla Commedia dell’Arte del Seicento quando la scena si confonde con la vita.

Un valido apporto è stato per noi la professoressa Trane, nostra docente di Lettere, che ci ha accompagnato nelle varie fasi

del lavoro offrendoci spunti di riflessione e facendo emergere da ognuno di noi contributi personali e unici.

Ne è risultata una “summa Theatri” di immediata e pubblica consultazione. Ci siamo accorti che è vero quanto afferma Piero

Angela: “Tutti coloro che si occupano di insegnamento dovrebbero ricordare continuamente l'antico motto latino «ludendo

docere», cioè «insegnare divertendo». Se si riesce infatti a inserire l'aspetto del «gioco» (nel senso dell'«interesse») eccitando

così le motivazioni individuali e accendendo i cervelli, si riesce a moltiplicare in modo altissimo l'efficienza dell'informazione,

dell'insegnamento, della comunicazione. Perché l'interessato «ci sta». È stimolato, partecipa, ricorda. E impara.” Questo è

accaduto a noi che siamo stati stimolati, incuriositi dalla nostra insegnante durante tale lavoro. Dal teatro antico, greco,

romano, siamo giunti a quello del Cinquecento e del Seicento ricostruendo i vari tipi di rappresentazione, i luoghi dove

avvenivano, i personaggi, i costumi, gli ambienti, l’atmosfera sociale, culturale nella quale il fenomeno si verificava.

Attraverso la storia del teatro si è proceduto a recuperare la vita dei vari tempi esaminati dal momento che in esse trovavano

spiegazione le opere teatrali.

Completo, ha voluto essere il nostro lavoro per quanto riguarda i periodi presi in esame.

Ci ha emozionato addentrarci nei meandri delle quinte dei palcoscenici antichi medioevali e rinascimentali, studiare i grandi

drammaturghi e commediografi dei secoli passati, esplorare i loro testi senza trascurare il riflesso avuto sul pubblico. Abbiamo

scoperto che il teatro ha sempre avuto una sua influenza nella cultura di ogni tempo. Le trame delle opere ci hanno indotto a

riflettere su noi stessi, sulle nostre esperienze e ci hanno fatto capire che il teatro è un mezzo espressivo tra i più adatti a

favorire la comunicazione.

Francesca Giada Antonaci e

Francesca Ancora, Giulia Azzella, Martina Cataldi, Andreina Casarano, Simona Ciampa, Gloria

Crusi, Santo De Luca, Alessandro De Santis, Susanna Gatto, Giorgia Ingrosso, Beatrice Leo,

Francesco Macrì, Francesca Malagnino, Davide Nuzzo, Matteo Pennetta , Alessia Placì, Nico

Preite, Mattia Primiceri , Debora Quintana, Lorenzo Rimo, Jacopo Sabato, Federica Sammali,

Elena Sansone, Marina Scorrano, Riccardo Seclì, Giorgio Silvano, Francesco Venuti

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L TEATRO GRECO Si fa convenzionalmente coincidere la nascita della tragedia con il momento in cui, nel VI secolo a.C., il poeta Tespi inventò la prima maschera. In realtà il primo abbozzo di rappresentazione drammatica ha una matrice di carattere celebrativo e religioso. Difatti risale ai misteri del culto del dio Dioniso. Il culto dionisiaco riservava la rivelazione ad una ristretta cerchia di fedeli, che venivano iniziati ai misteri delle diverse divinità. Dioniso, una divinità giunta dalla Tracia, proteggeva il vino e l’ebbrezza. In origine il culto del dio dovette consistere in una festa campestre durante la quale si cacciava un animale che riguardava il dio. Camuffati con pelli e corna di animali, i seguaci di Dioniso, eccitati dalla musica, dalle danze e dal vino, giungevano ad una sorta di furore mistico in seguito al quale sbranavano la sacra preda e

se ne cibavano. Con il trascorrere del tempo queste feste acquistarono maggiore rilevanza e vennero chiamate “grandi e piccole dionisiache”. In esse s’intonava il ditirambo, l’inno sacro in onore di Dioniso, che prese il nome di tragodia, cioè canto del capro. Dapprima improvvisato, il ditirambo venne poi scritto in versi: i cantori, in coro, si rivolgevano verso l’altare del dio, dove aveva luogo il sacrificio e cantavano invocando il nume e celebrandone le gesta. Da questo momento si ebbe un primo abbozzo di rappresentazione teatrale: l’originaria tragodia cominciò a divenire teatro, cioè proiezione di personaggi invocati dal coro. L’origine della tragedia dionisiaca, mista di gioia e di dolore, spiega forse perché all’inizio non vi fosse alcuna distinzione fra tragedia e commedia. Risale, però, a tempi antichissimi la separazione che indica Aristotele nella sua Poetica: la tragedia tratta un argomento serio e si conclude con un evento tragico; nella commedia gli eventi narrati hanno lo scopo di divertire e di far ridere il pubblico. Per gli ateniesi il teatro era considerato uno spettacolo al quale potevano partecipare cittadini di ogni classe sociale. Era un rituale di grande rilevanza religiosa e sociale perché considerato uno strumento di educazione. Essi organizzavano grandi manifestazioni nelle quali tre autori gareggiavano dinanzi ad una giuria formata da dieci giudici selezionati tra varie tribù. Gli autori indossavano maschere che li rendevano riconoscibili anche da lontano. La recitazione avveniva in versi e le parti soliste erano accompagnate da un coro. Ad Atene durante le feste le rappresentazioni teatrali erano "le linee" e le "Dionisie". Le prime erano delle feste popolari che si tenevano d’inverno e includevano tragedie e commedie. Le “Dionisie”, invece, erano divise in “Grandi Dionisie” e “Dionisie rurali”. Le prime venivano celebrate all'inizio della primavera e ad esse erano invitati tutti tranne i nemici di Atene; le “Dionisie rurali” erano delle feste di minore importanza organizzate durante l'inverno nei paesi vicini ad Atene ed ad esse partecipavano solo gli ateniesi.

STRUTTURA

Il teatro greco rimase sempre una struttura a cielo aperto suddivisa nelle tre parti essenziali che sempre lo caratterizzeranno:

La cavea (koilon) a pianta circolare o ellittica nella quale sono disposte le gradinate suddivise in settori e con i sedili di legno. In genere la cavea è addossata ad una collina per sfruttarne il pendio naturale. Essa aveva la forma di un semicerchio leggermente allungato. In età classica è

divisa in più settori (kerkides), ed ha un corridoio (diazoma). I sedili furono dapprima in legno (ikria) poi in pietra. Erano formati da un piano superiore sul quale sedeva lo spettatore e da uno inferiore, leggermente curvo, dove poggiava i piedi. Esisteva una proedria, cioè una fila di sedili d'onore destinata a sacerdoti, personaggi ufficiali, capi tribù ecc. La cavea era in genere ricavata da un pendio naturale del terreno. I romani, invece, costruiranno tutto il complesso teatrale.

L'orchestra (orkhestra) era circolare e collocata tra il piano inferiore della cavea e la scena. Era lo spazio centrale del teatro greco, quello riservato al coro. Al centro di essa era situato l'altare di Dioniso (thymele). L'orchestra (il termine deriva da "orhke" = danza) era lo spazio destinato alle evoluzioni e agli spostamenti del coro. Nei teatri greci più antichi era di forma circolare, trapezoidale o poligonale. Nei primi teatri monumentali era circondata per poco più della metà del perimetro dalla cavea, che era addossata quasi sempre a un pendio naturale. Un canale coperto da lastre correva intorno all'orchestra, per permettere all'acqua della cavea di defluire. Il piano dell'orchestra era di terra battuta. Ai lati c’erano due entrate ('parodoi) poste tra le testate della cavea e la scena: esse servivano per gli spettatori, per gli attori e per il coro.

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La scena (skené), costruzione a pianta allungata disposta perpendicolarmente all'asse della cavea e inizialmente in legno, era situata ad un livello più alto dell'orchestra con la quale comunicava mediante scale. La sua funzione originaria era soltanto pratica, cioè forniva agli attori un luogo appartato per prepararsi senza essere visti. Divenne poi sempre più complessa e abbellita da colonne, nicchie e frontoni. Dal 425 a.C. fu costruita in pietra e con maggiori ornamenti. La scena serviva in origine per accogliere costumi e attori ed era un semplice insieme di tende. All'inizio del V secolo a. C. diventò una costruzione in legno. Con l'"Orestiade" di Eschilo è già pensata come vero e proprio edificio scenico. Ha una fossa profonda per gli scenari, una pedana su cui recitano gli attori e un fondale con tre porte. Nel corso dello stesso secolo si creano i parasceni, ovvero due strutture laterali alla scena, poste in posizione avanzata.

LA TRAGEDIA E IL CARRO DI TESPI

Il teatro e la tragedia greca hanno una data storica ben precisa. Era l’anno 535 a.C. e il tiranno ateniese Lisastro riorganizzò le feste pubbliche dando spazio ad una forma di poesia mai conosciuta con concorsi a tema e con premio per il vincitore: la tragedia. Il primo vincitore fu Tespi, personaggio semileggendario al quale gli antichi attribuirono innovazioni. Si diceva che andasse girovagando con la sua compagnia di attori tra le città e con un carro, il cosiddetto Carro di Tespi. Questo forse si riferisce a pratiche rituali poiché era

usanza trasportare le statue processionali di Dioniso sopra carri. Di Tespi si conservano i titoli di quattro tragedie e alcuni frammenti ma forse si tratta di un falso di epoca posteriore. E’ noto, infatti, che il peripatetico Eraclide Pontico, nel secolo IV a.C., compose drammi e li fece circolare attribuendoli a Tespi. Che cosa fosse la tragedia in quei primissimi anni della sua storia non possiamo saperlo con precisione. Gli eruditi antichi amavano pensare ad una sorta di antropologia teatrale primitiva: un rustico ambiente contadino, semplici compensi in natura per gli artisti, attori che si truccavano il viso con biacca o mosto d'uva, un carro che vagava col suo carico di rudimentali costumi di scena. Una comunità autosufficiente la cui vocazione era vendere illusioni a persone semplici. La realtà era ben diversa. Il teatro greco non era il prodotto di un marginale ambiente contadino ma un fenomeno centrale nella vita delle città. Si pensi che gli spettacoli drammatici, patrocinati in origine da un tiranno, sono poi diventati l'espressione più significativa della civiltà democratica ateniese del secolo V a.C., cioè dell'epoca più alta e creativa della cultura greca. Il dramma greco non nasce con degli attori che lo improvvisano, nasce con l'opera consapevole di un autore il quale è il committente e il destinatario. La tragedia greca è un genere teatrale nato nell'antica Grecia e la sua messa in scena era, per gli abitanti dell’Atene classica, una cerimonia di tipo religioso con forti valenze sociali. Derivata dai riti sacri della Grecia e dell'Asia Minore, raggiunse la sua forma più significativa nell'Atene del V secolo a.C. Precisamente la tragedia è l'estensione in senso drammatico (ossia secondo criteri prettamente teatrali) di antichi riti in onore di Dioniso, dio della natura. La tragedia greca è strettamente connessa con l'epica, col mito ma dal punto di vista della comunicazione essa sviluppa mezzi del tutto nuovi. Nella tragedia il mythos si fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta e il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte, che agiscono autonomamente sulla scena, provvisti ciascuno di un proprio ruolo.

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I GRANDI TRAGEDIOGRAFI

La rappresentazione tragica nell’antica Grecia ebbe la funzione di educare il popolo oltre che di divertirlo. Trasmetteva, infatti, agli spettatori i principi morali, religiosi e politici su cui si fondava la società, servendosi di argomenti tratti dal mito, dalla tradizione epica e più raramente, da eventi storici contemporanei. Eschilo, Sofocle ed Euripide nel corso del V secolo a.C. portarono la tragedia alla sua perfezione formale.

ESCHILO Nato a Eleusi (un demo di Atene) intorno al 525 a.C., di famiglia nobile, fu testimone della fine della tirannia ad Atene nel 510 a.C.. Combatté contro i persiani in numerose battaglie, Maratona e Salamina. La leggenda narra che Eschilo sia morto per colpa di un'aquila che avrebbe lasciato cadere, per spezzarla, una tartaruga sulla sua testa scambiandola, data la calvizie, per una pietra. Eschilo viene considerato il vero padre della tragedia antica. A lui viene attribuita l'introduzione di maschere e coturni. Dopo pochi anni introdusse pure un secondo attore (precedentemente sulla scena compariva un solo attore per volta) e rese possibile la drammatizzazione di un conflitto. Si dedicò anche a migliorare la trilogia, che era quella forma drammatica nella quale il racconto di un solo mito veniva svolto in tre parti ben separate e distinte. Scelse di rappresentare i miti che offrivano spunti per azioni particolarmente spettacolari, che colpivano sia l’immaginazione sia la vista degli spettatori: grandi re umiliati, fratelli uccisi dai fratelli e madri trucidate dai figli. Egli seppe unire l’elemento umano con quello soprannaturale in una perfetta fusione di forma e contenuto e questo portò la tragedia ai suoi più alti vertici.

SOFOCLE

Nacque a Colono (Atene) nel 497 a.C.. Figlio di un ricco fabbricante d'armi, ricevette la migliore formazione culturale e sportiva e ricoprì importanti cariche pubbliche, militari e religiose. Amico di Pericle ed impegnato nella vita politica introdusse nella tragedia il terzo attore e portò da dodici a quindici i coreuti. Sofocle scrisse, secondo la tradizione, ben centoventitré tragedie, delle quale ne restano solo sette: “Antigone”, “Aiace”, “Edipo re”, “Elettra”, “Filottete”, “Le Trachinie” ed “Edipo a Colono”. I suoi eroi sono immersi in un ambiente di contraddizioni insanabili, di conflitti con forze inevitabilmente destinate a travolgerli. Il suo contributo originale allo sviluppo della tragedia greca fu rappresentato dall'accentuazione della dimensione umana dei personaggi. Questi sono generosi e buoni ma smisuratamente soli e destinati alla tragedia dai loro conflitti interni. Ciò nonostante non appaiono mai schiacciati del tutto dal fato perché capaci di lottare contro questo. Rispetto ad Eschilo i cori tragici sofoclei partecipano meno attivamente e diventano piuttosto spettatori e commentatori dei fatti. La psicologia dei personaggi si approfondisce, emerge un’inedita analisi della realtà e dell'uomo. Inoltre Sofocle rese più complicata l’azione con un intreccio ricco di espedienti che suscitavano la commozione o la sorpresa e tenevano sempre desto l’interesse del pubblico.

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EURIPIDE Nacque intorno al 485 a.C. da una famiglia ateniese rifugiatasi sull'isola di Salamina per sfuggire ai Persiani. La sua cultura dimostra un’educazione raffinata, acquisita dallo studio svolto presso sofisti come Protagora. Questa non sarebbe stata possibile senza una condizione sociale agiata. Euripide mise insieme una ricca biblioteca, una delle prime delle quali si faccia menzione. Egli partecipò anche a giochi ginnici e venne incoronato cinque volte. Contemporaneo di Socrate ne divenne amico. Si ritirò a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove morì, si dice, sbranato dai cani (ma la notizia è molto dubbia). Solo dopo la sua morte la Grecia lo riconobbe in tutto il suo valore e le sue opere divennero famose. Gli ateniesi gli dedicarono nel 330 a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso. Le peculiarità delle tragedie euripidee rispetto a quelle degli altri due drammaturghi sono la ricerca di sperimentazione tecnica e la maggiore attenzione alla descrizione delle passioni e dei sentimenti.La struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e più ricca di novità rispetto alle precedenti. Ci sono nuove soluzioni drammatiche, un maggiore utilizzo del deus

ex machina ed una progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro, che tende ad assumere una funzione di pausa nell'azione. Anche lo stile risente della ricerca euripidea di rompere con la tradizione mediante l'inserimento di parti dialettiche, atte a ridurre la tensione drammatica e l'alternanza delle modalità narrative. La novità assoluta del teatro euripideo è, tuttavia, rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo mostrava le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe delle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e di Sofocle ma una persona problematica ed insicura, carica di conflitti interiori che vengono portati alla luce ed analizzati. Lo sgretolamento del tradizionale modello eroico porta alla ribalta, nel teatro euripideo, le figure femminili. Le protagoniste dei drammi, Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide. Egli ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con la ragione. Euripide espresse le contraddizioni di una società che stava cambiando. Nelle sue tragedie spesso le motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere e con i vecchi valori fondanti della polis. Il personaggio di Medea, ad esempio, arriva ad uccidere i propri figli pur di non sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con Glauce, figlia di Creonte re di Corinto. ll teatro di Euripide deve essere considerato un vero e proprio laboratorio politico perché non chiuso in se stesso ma aperto ai mutamenti della storia.

FUNZIONE EDUCATIVA DELLA TRAGEDIA

La tragedia è forma drammatica e non narrativa. Essa mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha l’effetto di sollevare e purificare l’animo da tali passioni. I Greci attribuivano una funzione profondamente educativa alla tragedia. Assistendo allo spettacolo il popolo, mentre provava i sentimenti di pietà o di terrore suscitati dalle vicende rappresentate, si nobilitava e purificava il suo animo. Quando il protagonista violava i divieti posti dalla divinità meritava quei terribili castighi che provocavano terrore negli spettatori. Il pubblico rifletteva sulla profonda lezione morale che scaturiva da una rappresentazione e alla fine si trovava in pace con se stesso.

LA COMMEDIA

La tradizione attribuisce al popolo dei Dori, considerati per carattere inclini agli scherzi e ai motti di spirito, il merito di aver creato la commedia. Le prime tracce di questo tipo di rappresentazione fecero la loro apparizione nella città di Megara. La parola “comodìa”, composta da “Komos” (corteo festivo) e “odè”(canto), indica come questa forma drammaturgica sia la rappresentazione di feste e riti in onore delle divinità ellenistiche con probabili riferimenti dionisiaci. Dovette trascorrere molto tempo prima che la commedia fosse presentata pubblicamente. Questo avvenne intorno al 472 a.C.. Una volta affermatasi ebbe più fortuna della tragedia. La prima gara teatrale si svolse ad Atene nel 486 a.C.. Secondo Aristotele la commedia ha inizio a Siracusa con Formide ed Epicarmo. Il genere comico durò fino al III secolo a.C. adattandosi ai cambiamenti culturali e sociali. La commedia greca si divide in tre fasi:

COMMEDIA ANTICA (dalle origini al IV secolo a.C.)

COMMEDIA DI MEZZO (fino all’inizio dell’Ellenismo)

COMMEDIA NUOVA (che coincide con l’età ellenistica). La commedia antica è rappresentata da Aristofane. Egli utilizzò elementi fantastici e introdusse la satira politica fino all’attacco personale (onomastìkomodèin). Mise in scena le problematiche più scottanti dell’attività politica.

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La commedia di mezzo va dal 388 a.C.al 321 a.C. con autori quali Antifane, Anassandride e Alessi. Con loro si perdono le caratteristiche di satira politica e ci si orienta verso le commedie “disimpegnate”. I personaggi sono tratti dalla realtà quotidiana, sono persone umili. E’ presente anche un adattamento comico degli episodi mitologici ( parodia mitologica). La commedia nuova inizia con Menandro e dura fino alla metà del III secolo a.C. . In questa fase si eliminano i riferimenti all’attività politica e si mette in scena la borghesia di Atene. A differenza della commedia antica il coro funge da riempimento tra un atto e l’altro. Nella commedia nuova il coro fa il suo ingresso dopo il prologo e interloquisce direttamente con i personaggi dell’azione. Solitamente si narrava una vicenda basata su un intrigo di carattere amoroso. L’intreccio più tipico era quello delle vicende di un giovane di buona famiglia che si innamorava di una ragazza di umili condizioni.

ARISTOFANE E LE NUVOLE

Aristofane è stato uno dei principali esponenti della commedia antica.Di lui sono rimaste circa 11 opere complete. Non si hanno molte notizie sulla sua vita e le poche si ricavano dalle sue commedie. Nacque nel Demo Attico di Citadene (444-388 a.C.). In questi anni Atene combatteva Sparta nella guerra del Peloponneso. Le sue prime commedie furono “Bacchettanti” e “Babilonesi” e di entrambe restano pochi frammenti. Il sistema di valori di Aristofane è vicino a quello dei proprietari terrieri. Il suo eroe comico è un anziano legato alla terra, colto e intelligente. Fra lui e il nuovo si creano rapporti difficili ovviamente riferiti in chiave comica. Le “Nuvole” è certamente la sua opera più famosa. Essa tratta le vicende di un contadino ed il rapporto che questi ha con il figlio Filippide. I personaggi sono pochi e possono essere considerati tutti principali. Il primo ad essere introdotto è Strepsiade, ricco contadino coniugato con una nobildonna. Il secondo è Filippide e l’ultimo è il coro rappresentato dalle nuvole a cui Strepsiade si rivolge per risolvere i problemi dei debiti. Esso ha il compito di commentare e dare consigli ad ogni personaggio. L’esponente di questo complesso è Corifea. La tematica principale che viene affrontata è il mutamento della società e di tutti gli usi e tradizioni di essa. La filosofia è stata un mezzo molto importante per tale mutamento. Il maggiore

esponente di questa filosofia è Socrate che critica le divinità fino ad ora onorate. Un altro argomento sul quale Aristofane si sofferma è l’alternanza tra vecchio e nuovo, antico e moderno, adulto e giovane. Tra questi l’intermediario è Socrate che introduce una coppia di contrari ovvero quella del discorso peggiore e del discorso migliore. L’ultima tematica affrontata riguarda le abitudini dei nobili caratterizzate da passioni.

LA POLITICA NEL TEATRO

Il teatro greco fu un fenomeno politico ovvero una manifestazione collettiva della poleis. La città era intesa come comunità di individui con pari facoltà di parola e pari diritti davanti alla legge e non come un giocattolo per l’aristocrazia. Il teatro era un rituale collettivo che coinvolgeva migliaia di spettatori. Una delle caratteristiche del teatro fu quella di mettere al centro la città, di fare di questa un teatro davanti ai cittadini.

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L TEATRO ROMANO Andronico e Nevio, autori di tragedie e di commedie, diedero l’avvio al teatro latino in stretta dipendenza da quello greco. Copioni, idee, metri, strutture, tutto derivò dal teatro greco. Gli autori latini presero come modelli per l’ambito tragico Sofocle ed Euripide e per l’ambito comico Menandro. Non si limitarono, però, ad imitare gli autori greci ma diedero vita ad opere nuove. Nell’ambito comico introdussero la contaminatio, una tecnica che consisteva nel fondere varie parti di commedie di argomento greco (palliate) in un unico intreccio. Fecero poi opere di argomento romano come le tragedie, dette fabulae praetextae, e le commedie, dette fabulae togatae. Nelle tragedie gli attori vestivano con la toga bordata di porpora, detta praetexta e usata come abito dai

magistrati nella vita pubblica. Nelle commedie gli attori vestivano con la toga. Le commedie di argomento romano erano una copia della palliata (commedia di argomento greco) ma non ebbero grande successo. Delle tragedie precedenti a Seneca possediamo solo qualche frammento e non possiamo ricostruire in maniera precisa la struttura dei testi tragici. Per le commedie, invece, ci sono pervenute opere di Plauto e Terenzio. Queste presentano una divisione in atti. Grande importanza viene data al prologo che può avere una funzione informativa o può essere utilizzato dall’autore per difendere il proprio operato davanti al pubblico. Le rappresentazioni si alternavano con cantica, parti cantate, e deverbia, parti recitate.

STRUTTURA

A Roma i teatri più antichi erano costruzioni provvisorie di legno, montabili e smontabili, poiché si riteneva che potessero indurre gli spettacoli ad un eccessivo otium. Soltanto nel 55 a.C. (periodo repubblicano) comparvero i teatri stabili in muratura. Il primo, costruito a spese di Pompeo, sorse nei pressi dell’attuale Campo dei Fiori. Aveva una pianta semicircolare con un’alta parete di fondo davanti alla quale vi erano il palco e poi la cavea con gradinate per i posti a sedere. Il pubblico era sistemato nella cavea antistante alla scena e si

portava da casa sedie e sgabelli. Per un certo periodo furono vietati dal Senato sedili provvisori e il pubblico assisteva in piedi. Dal II secolo a.C. le prime file della cavea furono riservate a senatori e cavalieri. Essa poteva contenere 40.000 spettatori. Per riparare gli spettatori dal sole o dalla pioggia sopra la cavea si stendevano i velaria, cioè teloni di lino e di seta. Sullo sfondo c’era il fondale, una facciata di palazzo o di casa a più livelli. Nel primo livello c’erano tre porte, nel secondo numerose nicchie e nel terzo tettoie o cornicioni. La facciata era abbellita da statue, pilastri e piante. A partire dal 133 a.C. fu introdotto il sipario: grande telo rettangolare (aulaeum) che calava all’inizio della rappresentazione e si alzava alla fine (contrariamente a quanto avviene nel teatro moderno). Il teatro aveva due uscite, quella a destra conduceva alla piazza della città, quella a sinistra alla campagna o al porto.

ATTORI

Gli attori professionisti, chiamati histriones, erano tutti maschi, solitamente schiavi, che costituivano vere e proprie compagnie dirette da un capocomico o regista (dominus gregis). Questi acquistava la commedia dallo scrittore e, grazie al finanziamento degli edili, la metteva in scena. Allo scrittore rimanevano i diritti del copione che apparteneva ormai al capocomico.

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COSTUMI

Gli attori indossavano il pallio o la toga in rapporto all’argomento greco o latino. Nell’ambiente comico gli attori indossavano i cothurni (stivaletti alti con stringhe) e i socci (sandali bassi). I vestiti cambiavano con i personaggi: i vecchi indossavano un abito bianco,i giovani un vestito multicolore, gli schiavi una tunica corta. Il colore rosso era dei poveri mentre il porpora dei ricchi. I colori distinguevano la condizione sociale. Gli attori usavano una vistosa maschera sia per ragioni di acustica sia per immedesimarsi con il personaggio da interpretare. La maschera bruna indicava i personaggi maschili, quella bianca i personaggi femminili interpretati da attori maschi. Inizialmente venivano anche usate parrucche colorate per indicare la classe sociale.

LIVIO ANDRONICO

Non si hanno dati precisi riguardo alla vita di Livio Andronico. Le prime informazioni risalgono al 240 a.C. con la sua prima opera a Roma. Si presuppone che sia nato a Taranto e che successivamente si sia inserito nella gens Livia, a Roma, per lavorare come grammaticus (maestro di scuola) in quanto conosceva sia il latino sia il greco. In seguito si trovò a capo del collegium scribarum histrionumque nel quale si accoglievano poeti senza soldi. Non si sa nulla riguardo alla sua morte. Egli è il primo autore che si impegna nella tragedia più che nella commedia. Delle sue tragedie ricordiamo:

“Achilles” (“Achille”)

“Aiax mastigophorus” (“Aiace fustigatore o Aiace portatore di frusta”: tratta dall'Aiace di Sofocle, narrava la storia della spartizione delle armi di Achille tra gli Achei, della follia e del conseguente suicidio di Aiace)

“Equus Troianus” (“Il cavallo di Troia”)

“Aegisthus” (“Egisto”)

“Hermiona” (“Ermione”) Egli è il primo ad estendere l’elemento musicale nelle tragedie e a limitare il coro. Sviluppa anche la cantica che si alterna, durante le messe in scena, alle parti parlate, diverbia. Usa un metro che si ispira a quello greco: nel dialogo il trimetro giambico,

nelle cantiche il settenario trocaico. Per quanto riguarda la commedia si hanno due titoli, “Adiolus” e “Ludius”. La sua opera principale è l’”Odusia” che è una traduzione artistica dell’Odissea. Nella traduzione egli romanizza e accultura l’opera. Andronico decise di tradurre l’Odissea perché, secondo lui, Achille incarnava perfettamente le virtus romane. La sua non è una traduzione letterale, è adattata al mondo romano e le divinità greche sono trasformate in divinità romane.

NEVIO

Le poche informazioni che riguardano Nevio si riferiscono alla sua nascita a Capua nel 270 a.C., alla sua morte a Utica nel 201 a.C. e alla sua partecipazione alla prima guerra punica. Scrisse tragedie di argomento romano (praetexae). A noi sono rimasti due titoli: “Clastidium”, che anticipa la prima guerra punica, e “Romulus”, che narra della fondazione di Roma. Le sue tragedie di argomento greco si rifanno al ciclo troiano e quella di cui abbiamo più frammenti è “Lucurgus” che tratta di un re punito perché non aderisce al culto bacchico. Per quanto riguarda le commedie si hanno 34 titoli di argomento e titolo greco e pochi di titolo romano con tratti italici e greci. Per la prima volta Nevio nelle sue opere usa la contaminatio, cioè la fusione di parti provenienti da altre opere. Tema ricorrente in Nevio è l’amore visto come Heros. Personaggio principale è il servo astuto, simbolo di libertà, che ha in sé un’estrema forza comica. L’opera più importante di Nevio è il “Bellum

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Poenicum”, poema epico storico che tratta della prima guerra punica. Con quest’opera Nevio dà origine all’epica romana. È innovativa l’idea di Nevio di scrivere riguardo a qualcosa che ha vissuto. L’opera risale al periodo della seconda guerra punica e fu scritta in quegli anni per fornire ai Romani un esempio di eroe. L’eroe di Nevio incarna perfettamente il cittadino romano con i suoi mos maiorum. Per la prima volta Nevio separa la storia dalla mitologia e fa della seconda una digressione della prima. Le vicende storiche sono centrali e sono descritte in modo asciutto ed essenziale. Le parti mitologiche, invece, sono scritte in tono più curato e più particolare. In origine il “Bellum Poenicum” era un carmen continuum e successivamente Ottavio Lampadione gli diede la forma che conosciamo dividendolo in sette libri.

PLAUTO

Riguardo alla vita di Plauto le notizie che possediamo sono solo quelle che è nato a Sarsina e morto nel 188 a.C. a Roma. Tutte le altre informazioni a noi giunte sono state ricostruite in modo piuttosto fantasioso. Sulla base di quanto afferma il letterato Aulo Gellio sappiamo che iniziò a lavorare nei teatri e che guadagnò abbastanza per aprire una propria attività commerciale. Non riuscì, tuttavia, a pagare i debiti e iniziò a lavorare come schiavo girando la macina di un mulino. Questa situazione drammatica lo portò alla stesura di commedie che riscossero un enorme successo nei teatri. La fortuna che ebbe sin all’inizio spinse scrittori mediocri a comporre opere e a spacciarle per quelle di Plauto. Dopo la sua morte si contavano infatti ben 130 commedie. Grazie all’intervento di Marco Terenzio Verrone sappiamo che solo 21 sono di Plauto, le altre 90 sono di scrittori mediocri e le ultime 19 sono dubbie. Le commedie plautine sono strutturate in:

Argomentum, una breve sintesi del contenuto;

Prologo narrativo, una parte iniziale dove viene esposto l’antefatto e anticipato qualche elemento dell’intreccio. A recitare il prologo è un

personaggio o una divinità di carattere allegorico. Il prologo viene personificato. La sua lunghezza è variabile e a volte è presente una sezione narrativa che permette all’autore di parlare di se stesso. Egli va alla ricerca della captatio benevolentiae, esorta il pubblico ad applaudire alla fine dell’opera dopo averla ascoltata attentamente e in silenzio;

Azione scenica, che in Plauto si presentava senza divisione in atti. Per questo c’erano delle parti cantate con la presenza di danzatori e flautisti mentre gli attori si riposavano. Nell’opera si alternavano parti cantate (cantica) con parti recitate (deverbia).

Elemento assente nella commedia di Plauto è il coro.

Intrecci

Con Plauto gli intrecci non sono vari come i prologhi. Sono storie ripetitive: un giovane ricco s’innamora di una fanciulla che appartiene ad un lenone e solo con l’aiuto del suo servo fedele riesce a liberarla mentre dal padre avaro ha ottenuto una certa somma di denaro. Talvolta la storia si può risolvere col procedimento dell’agnitio, cioè col riconoscimento della vera identità della ragazza. Plauto, dunque, non da’ troppa importanza alla trama ma alla comicità della scena. Anche il ritmo narrativo era vario: se l’opera era apprezzata dal pubblico il dialogo veniva ampliato, nel caso contrario venivano eliminati i personaggi che potevano essere noiosi.

Personaggi

L’eroe è lo schiavo. Lo schiavo furbo diventa il fulcro della storia ed in lui lo spettatore può immedesimarsi. Gli altri personaggi sono monotoni, dei tipi fissi. Essi sono maschere caricaturali che non si evolvono. Al pubblico non importa trovare in loro una caratterizzazione psicologica ma la comicità.

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Modi espressivi

Sperimentalismo:ampliamento dei dialoghi e dei monologhi rispetto al prototipo greco; introduzione del metateatro (teatro nel teatro), cioè di scene dove un personaggio allestisce una sua personale finzione assumendo il ruolo del drammaturgo. Con Plauto è il servo a rivolgersi al pubblico rivelando i retroscena della vicenda Contaminatio: arte di cucire insieme scene di diversa provenienza e fonderle in un’unica opera.

PUBLIO TERENZIO AFRO

Terenzio visse tra il 185 e il 159 a.C. e fu amico di Scipione Emiliano. La sua prima commedia messa in scena fu quella dell’”Andria” (166 a.C.). Ne scrisse in tutto sei. Rapporto con i modelli greci. Lingua e stile. Terenzio attinge da Menandro, massimo esponente della commedia nuova, per quattro delle sue commedie(“Andria”, “Heautontimorumenos”, “Eunuchus”, “Adelphoe”) e da Apollodoro di Caristo per “Hécyra” e “Phormio”. Terenzio si trovò in sintonia con Menandro, autore greco della néa (commedia nuova), con il quale condivise la ricerca della verosimiglianza, la riduzione delle parti musicali a favore di quelle recitate e l’equilibrata distribuzione dei personaggi in scena (un personaggio non stava sulla scena per più di 150 versi consecutivi). Terenzio raggiunse la media dei 14 personaggi presenti nelle sue commedie discostandosi dai greci. Lo stile del suo teatro risulta piano, pacato, volto a sviscerare l’interiorità dei personaggi. La lingua è scorrevole e semplice, vicina ai modi del parlare comune.

Il prologo

Terenzio utilizzò il prologo per difendersi dalle accuse di Luscio Lanuvinio. La prima critica rivoltagli fu quella relativa all’uso della contaminatio, ovvero allo scrivere una commedia senza rimanere fedele al modello greco da cui attingeva. Terenzio, infatti, preferiva la neglegentia, cioè trattava gli originali greci con libertà.

La seconda accusa fu quella della presunta collaborazione di membri del circolo degli Scipioni alla stesura delle sue commedie. Gaio Lelio e Scipione Emiliano sarebbero stati anche autori delle sue commedie. La difesa di Terenzio fu debole poiché sapeva che a Lelio e a Scipione non era sgradita tale diceria. Ultima accusa fu quella di furtum. Il plagio per i Romani era il riproporre una scena o un personaggio che erano già comparsi in un’altra opera. Terenzio si discolpò sostenendo di non sapere affatto che il “Colax” di Menandro, da cui ammise di avere attinto, fosse già stato tradotto in latino.

Humanitas

Nelle commedie di Terenzio nasce l’interesse per la psicologia del personaggio. Terenzio voleva mantenere vivi i canovacci tradizionali immettendovi contenuti nuovi, che facessero riflettere sull’uomo. Voleva costruire personaggi che esprimessero nei loro gesti e nei loro discorsi significati relativi ai problemi fondamentali della condizione umana. La verosimiglianza provoca nello spettatore un processo di immedesimazione con quanto avviene sulla scena e con lo stato d’animo del personaggio. La commedia nuova, importata dalla Grecia dopo la conquista di Pidna del 168 a.C., porta gli autori romani a cercare il cosmopolitismo, a fare attenzione al prossimo e alle sue sofferenze. Prima di Terenzio per humanitas si intendeva riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo. In essa culminava tutto il travaglio del mondo antico prima che la caritas cristiana insegnasse a riconoscere e amare il figlio di Dio in ogni uomo. Aulio Gellio ha accostato l’humanitas latina alla paideia greca (educazione) ma il significato vero è quello greco di philantropia (benevolenza). La migliore sintesi del concetto di humanitas è la celebre massima “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, “sono un uomo: tutto ciò che è umano non lo ritengo a me estraneo”. In tale formulazione l’humanitas è proclamata come un valore universale e onnicomprensivo, con essa l’uomo rivendica il diritto-dovere di interessarsi ai problemi degli altri uomini, in un atteggiamento di solidarietà e condivisione.

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Quello di Terenzio è detto teatro pedagogico perché si offre come luogo di dibattito ancorato alla realtà quotidiana ed ai temi più importanti della società del tempo. Il teatro terenziano sembra suggerire un nuovo modo di vivere, fondato sulla confidenza reciproca. Di fronte alla sorte, al suo muoversi cieco e imprevedibile ogni uomo risponde con la fragilità del suo giudizio e la fallibilità delle sue scelte. La sola possibilità di opposizione al caso sta nella solidarietà umana, nella collaborazione, nella capacità di comprensione, che rendono la vita migliore e più umano l’uomo che la vive.

CECILIO STAZIO

A parte i casi clamorosi di Plauto e Terenzio, Cecilio Stazio è l’unico commediografo dell’ età arcaica latina del quale resta qualcosa di più del semplice nome. Delle sue numerose opere ci sono pervenuti i titoli di quaranta commedie, tutte palliate, insieme ad una serie di frammenti di circa 300 versi. Dalla lettura dei titoli si può dedurre come Stazio si sia orientato rispetto ai modelli greci: alcuni sono delle translitterazioni in latino del titolo originale greco (es.“Hymnis” = ”Innide”, “Plocium” = “Collana”), altre commedie hanno doppia titolazione (es. “Hypobolimaeus” = “Il figlio sostituto”) ed altre ancora il solo titolo in latino (es. “Epistula” = “La lettera”, “Pugil” = “Il pugile”). Sedici di questi titoli derivano da opere di Menandro, che Stazio prediligeva e che seguì come modello senza, però, usare la contaminatio e con una maggiore attenzione all’unitarietà e all’ organicità della vicenda drammatica. La commedia più famosa è il “Plocium”, che tratta della vicenda intricata delle nozze di un giovane benestante. Questa si risolve con il riconoscimento di una

collana ed è arricchita dalla presenza di una ricca uxor dal brutto aspetto e dal carattere burbero. La commedia si distingue per una certa autonomia e libertà inventiva da parte dell’autore. Egli amplifica il modello greco e sostituisce il linguaggio misurato e ironicamente garbato di Menandro con un linguaggio più esuberante, ricco di iperboli colorite e di gusto plebeo. Ma oltre a creare un’atmosfera ironica e divertente Stazio inserisce anche delle riflessioni morali riguardanti temi esistenziali, si esprime sotto forma di sententiae e si mostra aperto verso i temi dell’humanitas. Alcuni critici indicano in Cecilio Stazio un autore diviso tra la grande libertà del vortere plautino e un maggiore rispetto del modello greco. Questa maniera prevarrà negli sviluppi immediatamente successivi del genere teatrale.

ENNIO

Amico di Cecilio Stazio fu il famoso drammaturgo latino Ennio, scrittore di commedie e di tragedie. I modelli di riferimento di Ennio furono i tre tragici attici del V sec. a.C. ed in particolare Euripide, al quale fu accomunato dall’ interesse per l’approfondimento psicologico, dalla predilezione per i toni patetici, dal bisogno di indagare razionalmente e filosoficamente nelle pieghe dell’esistenza umana e dalla caratterizzazione delle figure femminili. Un’altra prerogativa del teatro enniano sta nella propensione alla riflessione filosofica che, in un passo del “Telamo”, si pronuncia a favore della dottrina epicurea sugli dei. Le opere di Ennio più amate dai romani furono le cothurnatae perché, facendo riferimento al ciclo troiano, raccontavano vicende connesse con le origini di Roma. Il legame tra la storia di Roma e quella di Troia attraverso Enea era materia molto nota. Le cothurnatae si concludevano con una serie di drammi riconducibili ai più celebri miti greci. Ennio compose anche due praetextae: l’ “Ambracia”, che celebra la vittoria di M. Ulvio Nobiliore, e le “Sabinae” in ricordo del famoso ratto architettato da Romolo. Nonostante Ennio fosse fedele ai suoi modelli appare notevolmente originale nella scelta linguistico-stilistica perché molto solenne. Per creare effetti patetici

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ed eccessi emotivi nei personaggi Ennio privilegiò l’uso di allitterazioni, omoteleuti, antitesi e parallelismi. Benché con minore successo rispetto alle tragedie Ennio compose anche due commedie, la “Caupuncula” e il “Pancratiastes”. La produzione teatrale enniana non si fece apprezzare per l’ originalità degli argomenti ma risultò valida per l’attenzione rivolta all’uomo ed ai principi dell’ humanitas.

IL SECOLO D’ORO DELLA TRAGEDIA

Durante tutto il II secolo a. C. si alternarono sulla scena tragica autori di grande rilievo. Tra questi si distinsero Ennio, Pacuvio ed Accio. Per tale ragione esso può essere definito “il secolo d’ oro” della tragedia latina. Le tappe che portarono a questa fioritura passarono attraverso l’ opera di autori che già in precedenza avevano praticato lo stesso genere a Roma, cioè Livio Andronico e Gneo Nevio.

PACUVIO

Marco Pacuvio fu un autore poliedrico: letterato, pittore e musicista. Nato nel 220 a. C., visse in stretto contatto con il circolo filellenico degli Scipioni. Conosciamo i titoli di sue 13 tragedie. Dodici sono di argomento mitologico greco, l’ ultima è una praetexta, ovvero una tragedia di argomento e ambientazione romani. S’intitolava “Paulus” e celebrava la vittoria di Emilio Paolo a Pidna. A Pacuvio vanno riconosciuti i tratti di uno scrittore magniloquente dallo stile barocco. Egli accentua il pathos tragico, costruisce scene di forte drammaticità e dà all’ azione sviluppi romanzeschi poiché mira a stupire lo spettatore. I personaggi tragici di Pacuvio sono eroi che lottano fieramente contro il destino, sono esempi della gravitas romana e delle altre virtù del mos maiorum. Un aspetto interessante del teatro di Pacuvio è il riferimento alla religione e soprattutto alla filosofia, a temi quali il perenne divenire delle cose, l’unità dell’essere nel mondo nonostante l’infinita varietà della vita e l’incidenza della Fortuna. A livello linguistico l’erudizione e la ricerca dell’effetto portarono Pacuvio ad un eccessivo sperimentalismo ed alla costruzione di audaci neologismi basati sul modello

greco.

ACCIO

Mise in scena oltre 50 tragedie. Fu un autore convinto della propria abilità e prolifico. Per comporre i suoi drammi attinse ai racconti mitologici ed eroici greci, in gran parte si ispirò al ciclo troiano. Accio compose anche due pratetextae, il “Decio” ed il “Bruto”, dedicata quest’ultima al suo protettore Decimo Giunio Bruto. Dominano nelle tragedie di Accio figure grandiose ed isolate capaci di ergersi a veri eroi. Con esse l’autore proponeva una riflessione sul potere e sul suo esercizio. Non è un caso che il successo delle sue opere sia stato duraturo. Riusciva egli a suscitare l’interesse degli spettatori poiché i suoi temi trovavano riscontro nelle vicende della realtà storica. Le violente lotte politiche e sociali del momento preparavano la strada alle guerre civili e facevano sentire il rischio della tirannia. Molto frequentemente Accio scelse questi argomenti per i suoi drammi. Come Pacuvio i suoi toni sono aulici e magniloquenti. Risultano dominanti il patetico, l’orrido, le apparizioni di spettri, gli incubi, i sogni e i prodigi. Accio tese anch’egli allo sperimentalismo linguistico, utilizzò figure retoriche e neologismi.

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IL DECLINO DEI GENERI TEATRALI

I due generi teatrali maggiori, tragedia e commedia, videro il loro culmine tra il terzo e il secondo secolo a.C., ma in seguito andarono incontro ad un rapido declino. La commedia dopo Terenzio non ebbe altri autori di rilievo. L’unica forma originale di produzione comica ci fu nella seconda metà del secondo secolo a.C. con la fabula togata, una commedia di ambientazione romana ben più debole, nella struttura e nelle potenzialità comiche, rispetto alla palliata, della quale era la brutta copia. Per quanto riguarda la tragedia vennero replicate a lungo le rappresentazioni delle opere di Ennio, Pacuvio e Accio. L’involuzione della tragedia in un primo tempo passò attraverso la produzione di spettacoli che puntavano alla grandiosità

degli allestimenti. In un secondo tempo il genere si ridusse a recitazioni antologiche, nelle quali gli attori si esibivano davanti ad un ristretto pubblico di colti intenditori. Le cause della decadenza della tragedia sono da individuare nella sua rigidità strutturale, che non le permetteva di parlare un linguaggio nuovo, adatto ai tempi mutati, e nel fatto che non rappresentava un genere di massa per il pubblico romano ormai interessato alle gare ippiche e ai cruenti giochi del circo.

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L TEATRO MEDIEVALE

DOPO IL TEATRO LATINO

Dopo la caduta dell’Impero romano le compagnie teatrali si sciolsero poiché gli attori iniziarono ad essere scomunicati dalla Chiesa. Questa non apprezzava le rappresentazioni teatrali e dal canto suo diede origine ad una forma di teatro basata sulla religione affinché i fedeli apprendessero direttamente gli episodi più importanti delle Sacre Scritture. Il teatro medievale è derivato dal “Quem Quaeritis”, cioè da una brevissima rappresentazione scenica collegata

con la liturgia Pasquale. La frase “Quem Quaeritis” sta per “Chi cercate?”. E’ la domanda che un angelo pose alle tre Marie, radunatesi dinanzi al sepolcro del Cristo. Esse risposero “Gesù di Nazareth” e ad esse fu rivelata la Sua Resurrezione. Il primo luogo scenico del teatro dell’Età di Mezzo fu, dunque, la Chiesa. Durante la messa si iniziò a mettere in scena alcuni passi del Vangelo. Con il passare del tempo tali rappresentazioni assunsero maggiore autonomia fino a spostarsi in luoghi esterni agli edifici religiosi. • Lo spartito del “Quem Quaeritis”, il quale

veniva sia cantato sia suonato. Qui l’elemento scenografico fondamentale divenne un palco con tendaggio, denominato “sedes” o “mansions”. Per i drammi più complessi venivano utilizzati diversi palchi, ognuno dei quali rappresentava un luogo differente. Questo, però, non è caratteristico di tutta l’Europa. In Inghilterra, per esempio, c’era l’uso dei Pageant, dei carri che sostituivano le strutture fisse e permettevano agli attori di spostarsi da un luogo all’altro. Di questi carri la parte superiore veniva utilizzata per mettere in scena la rappresentazione teatrale, quella inferiore per lo spogliatoio degli attori. In linea di massima gli aspetti fondamentali del teatro medievale furono:

la drammatizzazione;

i motivi teatrali e religiosi;

una componente liturgica e didattica;

una forma drammatica in volgare.

DAL SACRO AL PROFANO

La Chiesa ben presto divenne un ambiente troppo ristretto per lo svolgimento delle rappresentazioni sacre. Si iniziò, dunque, a costruire dei palcoscenici all’esterno delle Chiese, sui loro sagrati, e la conseguenza fu la nascita di rappresentazioni con tematiche profane. Nel 1264, in occasione della celebrazione del Corpus Domini, i palcoscenici si spostarono dai sagrati alle piazze e le rappresentazioni vennero affidate ad attori dotati di vero talento invece che a dei semplici chierici. Inoltre le mansiones iniziarono ad arricchirsi di botole, trabocchetti, gru e fumo per creare gli effetti speciali richiesti. Nel 1300 presero voce in capitolo le confraternite, che chiesero alle

autorità di gestire le rappresentazioni con l’aiuto di quelle corporazioni che si occupavano di allestire i palcoscenici.

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UNA FIGURA DI RILIEVO: IL GIULLARE

Il giullare è una figura controversa e discussa del teatro medievale. Contrariamente a quanto si possa pensare è un vero e proprio attore professionista, che ha il compito di divertire il popolo durante le feste. Il termine “giullare” indica una specializzazione molto ampia. Prima che comparisse tale vocabolo gli attori venivano chiamati con appellativi precisi. Vi erano i saltatores (saltimbanchi), i balatrones (ballerini), i bufones (comici) e persino i divini (indovini). Alcuni di questi agivano nella pubblica piazza mentre altri nelle corti dei grandi signori. Gli attori, inizialmente, non erano ben accetti dalla Chiesa, che li riteneva colpevoli, secondo le Sacre Istituzioni, di agire contro natura poiché mutavano il loro corpo e la loro espressione. Essendo essi conoscitori del mondo in quanto girovaghi, erano per propria indole irriverenti, anticonformisti e si opponevano alle regole monastiche. Successivamente l’ambiente ecclesiastico mutò opinione. Ciò avvenne quando gli spettacoli dei giullari vennero messi per iscritto e la Chiesa iniziò a conservarli trasformando, nel contempo, le feste pagane, legate ai giullari, in feste proprie dette paraliturgiche. Ai giullari va riconosciuto il merito di propagare notizie. Le loro rappresentazioni facevano conoscere ai pellegrini le storie di santi, di eroi e gli avvenimenti di interesse generale. Va, tuttavia, posta una distinzione tra il buffone e il giullare che, generalmente, sono accomunati. Mentre il buffone si limita ad interpretare opere altrui, il giullare è l’autore delle sue parti.

IL CANTO LITURGICO DELL’ANTIFONA

Una particolarità del teatro medievale è la mescolanza di forme drammatiche differenti come quelle cristiane e pagane. Essa è strettamente connessa all’aspetto rituale proprio delle cerimonie liturgiche celebrate nelle Chiese e di certe ricorrenze quali le feste popolari. L’atteggiamento della Chiesa fu assolutamente proibitivo nei confronti del teatro e dello spettacolo e li condannò apertamente. Basti pensare che ancora nel 1215 il Concilio Lateranense proibiva a tutti gli ecclesiastici di avere contatti con istrioni, giullari ed altri tipi di attori.

Nel X secolo si iniziarono ad inscenare i Tropi, ossia alcuni passi del Vangelo. L’esecuzione di queste rappresentazioni fu affidata a due cori che scambiavano battute mediante un dialogo cantato. Tutto ciò è l’antifona, ossia un canto liturgico che generò una nuova forma di teatro ed ebbe origine quando i tropi vennero rappresentati dagli stessi celebranti. Questi si prefissarono di far giungere anche ai fedeli analfabeti la conoscenza degli episodi cruciali delle Sacre Scritture. Diedero corpo alla narrazione biblica su appositi palchetti di legno vestiti con costumi appropriati. L’affluenza dei fedeli fu tale che spinse gli attori a spostarsi sul sagrato. Qui vennero rappresentati veri e propri cicli come quello relativo alla

nascita di Cristo. Le prime rappresentazioni teatrali si ebbero nel 970 quando il Vescovo di Winchester ne descrisse una vista probabilmente in Francia, a Limoges. Soprattutto in Francia, infatti, si cercò di recuperare lo spazio rappresentativo degli antichi teatri romani, e si aprì la stagione del teatro medievale che ripropose ai cittadini le commedie di Plauto e Terenzio.

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LA LAUDA DRAMMATICA

La forma più importante di canzone sacra dialettale nell’ Italia del tardo medioevo fu la lauda drammatica (o spirituale). Essa racchiude in sé tutte le caratteristiche di uno spettacolo teatrale con attori, costumi e musiche. Trae origine dalla ballata profana ed è composta da stanze generalmente affidate ad un solista o ad un gruppo inteso come coro. Il precursore della lauda fu Jacopone da Todi la cui lauda più famosa fu “Donna de Paradiso”. E’scritta in versi settenari dove compaiono personaggi come la Madonna, Gesù, il popolo e il nunzio fedele (ovvero San Giovanni Apostolo). Per rappresentare le laude nacquero le fraternite (successivamente confraternite) composte spesso da chierici e, a volte, anche da laici. Dalle fraternite si svilupparono i laudesi, i battuti, i disciplinati ed altri gruppi. In Italia tale genere si diffuse largamente e i centri più importanti furono Perugia, Assisi, Orvieto, L’Aquila, Roma e Firenze.

I MORALITY PLAYS

Un’ulteriore tipologia di rappresentazione teatrale nata tra il XV e il XVI secolo è la morality play. Era incentrata sulla vita dell’uomo, sulla morte, sulla salvezza dell’anima e su altri temi a sfondo religioso. Nonostante questo i suoi argomenti si distaccavano dalla storia biblica e portavano in scena rappresentazioni, recitate in volgare, dell’uomo di fronte alla virtù. Tra i personaggi di spicco nelle morality play c’è la figura del Vice, che personifica i vizi e le virtù. I vizi sono riconducibili al diavolo, le virtù sono viste come messaggi di Dio. Peculiarità di tale personaggio era quella di stabilire un contatto con il pubblico rivelando i propri piani mediante monologhi o soliloqui. Una delle più importanti morality play è quella inglese intitolata “Everyman”, della quale non si conosce l’autore.

IL MISTERO

Il mistero è un genere teatrale apparso nel XV secolo (Basso Medioevo) ed espresso in volgare e col verso. La rappresentazione utilizzava soggetti reali e sovrannaturali tratti soprattutto dalla Bibbia. (Uno dei misteri più comuni fu “La Passione di

Cristo”). La scena era spesso allestita con grande uso di costumi e secondo convenzioni medievali che dovevano rispettare il fatto biblico rappresentato. In tale genere testi e durata erano molto lunghi e numerosi erano i personaggi rappresentati (potevano essere cento, duecento fino ad arrivare a cinquecento, comparse escluse). Basandosi sulle caratteristiche di ognuno i misteri si possono dividere in tre categorie:

misteri sacri, tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento;

misteri religiosi, tratti dalle vite dei Santi e dai miracoli;

misteri profani, tratti dalla storia.

LA SACRA RAPPRESENTAZIONE

La Sacra Rappresentazione è un genere teatrale di argomento religioso che si sviluppò in Toscana a partire dal XV secolo. Si tratta della rappresentazione di un fatto religioso compiuta in maniera più articolata e complessa rispetto alla semplice lettura di un testo. Essa differisce da una normale lettura a causa del suo intento didascalico e del desiderio di immedesimarsi nell'evento.

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GIULLARE E BUFFONE: DUE IDENTITA’

DISTINTE

Si narra che Gerardo Riquier, giullare spagnolo, giunse in Castiglia alla corte del Re e, spavaldo, fece al sovrano una richiesta particolare: essere riconosciuto come giullare, essere distinto dai buffoni ed ottenere una “patente”. Quando il Re volle sapere il motivo di questa curiosa richiesta, Riquier rispose che i buffoni erano esecutori di opere altrui mentre egli era un trovatore, cioè un artista colto che trovava e creava da sé musiche e versi originali. Il Re accolse la richiesta e Gerardo Riquier ottenne la sua “patente”. Si creò così una netta divisione fra giullare e buffone.

EVERYMAN: LA TRAMA

Nella storia la Morte, mandata da Dio, appare ad Everyman per dirgli che sta per morire. Il protagonista, un po’ scosso, chiede alla Morte ancora un po’ di tempo e cerca anche di corromperla ma ottiene tempo solo fino alla fine del giorno. Everyman chiede ad ogni suo amico (Fedeltà, Amicizia, Bene, Bellezza, Forza) di aiutarlo ma solo Buone Azioni accetta. Questo è però molto debole a causa dei peccati del protagonista e gli suggerisce di chiedere aiuto a Conoscenza, che lo porta a pentirsi e confessarsi. Dopo la confessione Everyman entra nella sua tomba con Buone Azioni e alla fine muore ma la sua anima è salva.

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L TEATRO RINASCIMENTALE Nell’ampio periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento si collocano la radice del teatro moderno e l’origine dei più importanti teatri nazionali europei. In questo periodo il fenomeno di rinascita in ambito teatrale portò al distacco dalla lunga tradizione medioevale manifestatasi nelle corti, nelle piazze e nelle università in molteplici forme, dalla Sacra Rappresentazione alle commedie colte quattrocentesche. Nella prima metà del Quattrocento il rinnovamento del genere teatrale si verifica esclusivamente in Italia, mentre Francia, Spagna e Inghilterra daranno il via alle nuove formazioni a partire dalla seconda metà del secolo.

RISCOPERTA DEI CLASSICI E FIORITURA

DELLA COMMEDIA UMANISTICA

L’autore sul quale si basò la riscoperta del teatro classico fin dall’inizio del Trecento fu Seneca, le cui opere ispirarono la prima nuova tragedia del teatro europeo, l’”Ecerinis” di Mussato. Questa si riferiva alla storia cittadina padovana e rievocava la figura di un tiranno con chiari riferimenti alla situazione politica dell’epoca. A partire dal XVI secolo intellettuali, umanisti e poeti riscoprirono il teatro classicheggiante. Si iniziò con il rappresentare all’interno di scuole e circoli umanistici le antiche commedie latine e, in seguito, si arrivò alla composizione di testi sulla base di quelli classici. Con la nascita della filologia umanistica l’approccio ai testi classici si rinnovò e si passò, in un primo momento, alla rappresentazione delle opere di Plauto e Terenzio durante le feste di corte e, in seguito, alla fioritura di opere originali in volgare. In particolare si diede vita alla commedia umanistica, una forma drammatica di ambiente universitario, composta per

scopi didattici più che spettacolari. Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena scrisse un'unica ma interessante commedia, che esemplifica il gusto del periodo,“La Calandria”. Questa fu ritenuta la prima commedia in assoluto scritta in italiano senza ascendenti greci o latini e diede ispirazione per la successiva scrittura della “Mandragola” da parte di Machiavelli.

LA MANDRAGOLA

Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro rinascimentale fu Niccolò Machiavelli, il quale ebbe il merito di produrre una delle commedie più importanti di questo periodo, “La Mandragola”. L’opera è caratterizzata da una forte carica espressiva ed è animata da riferimenti satirici alla realtà quotidiana dei personaggi. Questi non sono più legati ai tipi della tradizione classica. La “Mandragola” è divisa in cinque atti, preceduti da una canzone che contiene un’anticipazione, da parte dell’autore, circa la sua concezione pessimistica della realtà. Vi è poi un prologo in versi, in cui Machiavelli presenta i luoghi, i protagonisti, la trama e l’antefatto. Alla fine di ogni atto vi è una canzone formata da una sola stanza, con funzione di raccordo. Essa serve ad incuriosire il lettore grazie a delle anticipazioni. In ogni canzone il protagonista è la personificazione di Amore, il quale è nominato con riferimenti petrarcheschi.

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La commedia fu scritta nel 1518 ma la prima rappresentazione avvenne nel 1519 a Firenze in occasione del Carnevale. Infatti per la sua ironia l’opera si addice perfettamente al clima carnevalesco. Il mondo descritto è privo di ideali, è dominato da calcoli, interessi meschini e passioni irrefrenabili. La trama ricorda lo schema delle novelle boccaccesche del raggiro e della beffa ai danni di mariti stupidi: Callimaco di ritorno da Parigi, dove ha vissuto vent’anni, sente parlare delle virtù della bella ma sposata Lucrezia. Nonostante non l’abbia mai vista, Callimaco se ne innamora tanto da tramare un piano con il perfido Ligurio ai danni della donna e del povero marito Nicia. Sfruttando il desiderio insoddisfatto dei coniugi di avere un figlio, Callimaco si spaccia per un dottore venuto da Parigi e consiglia Nicia di far bere alla moglie una fantomatica pozione a base di mandragola. La pozione ha il potere di rendere fertile la donna ma ucciderà il primo uomo che giacerà con Lucrezia. Per ovviare a questo “inconveniente” Callimaco propone a Nicia di costringere un giovane ad unirsi con la donna: questo morirà ucciso dal veleno che avrà assorbito e Nicia potrà unirsi alla moglie senza alcun pericolo. Con l’aiuto di Fra’ Timoteo, l’impenitente confessore di Lucrezia, Callimaco si finge un “garzonaccio” e viene così rapito e costretto a unirsi con Lucrezia. Compiuta la beffa, Callimaco rivela la sua identità e il suo amore alla donna mentre Nicia, ignaro del raggiro, dimostra ai due imbroglioni tutta la sua gratitudine. Ai personaggi tipici della commedia classica, il padrone, il servo e l’innamorata (i nomi dei personaggi sono tutti di origine greca tranne Lucrezia che è di origine latina e si collega alla famosa matrona romana) si vanno ad aggiungere i personaggi tipici delle novelle, che ricordano da vicino quelli di Boccaccio (il frate e il marito sciocco e gabbato). Al tradizionale ruolo del servo scaltro della commedia plautina subentra quello dell’amico dell’innamorato, Ligurio, che per soldi e un paio di pasti è disposto ad aiutare Callimaco. Nello sviluppo della commedia i personaggi sono piatti, privi, cioè, di evoluzione (eccezion fatta per Lucrezia che nel finale si dimostra tutt’altro che una moglie fedele) ma è comunque notevole la loro caratterizzazione linguistica. Callimaco, personaggio piuttosto “impetuoso”, possiede gli attributi del giovane leader, ed è stato talvolta considerato un apprendista "principe". Lucrezia appare ai lettori più recenti una felice incarnazione teatrale della virtù machiavellica. Essa tende in assoluto al bene ma è pronta ad imparare l'amara lezione delle cose e a mutarsi da moglie fedele in adultera soddisfatta, adattandosi al tempo in cui vive. Giustificherà la sua relazione adulterina con parole dalle quali traspare una certa dose di falsa ingenuità: «Poi che l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito [...] e la tristizia del mio confessoro mi hanno condotta a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che il cielo vuole che io accetti» (Atto V, scena IV). Machiavelli si sofferma a descrivere quel mondo che ai suoi occhi appariva degradato, in rovina e senza correzioni, ironizzando su di esso in modo tagliente ma disilluso. Nonostante lo sfondo tutt’altro che ottimista la commedia rimane piacevole e divertente. Secondo una certa interpretazione i personaggi si riferirebbero allegoricamente a dei valori o concetti precisi: Messer Nicia all’essere umano nella sua visione negativa, Fra’ Timoteo alla religione corrotta. Secondo una visione politica, invece, Callimaco che strappa a Nicia Madonna Lucrezia rappresenterebbe un Medici che priva i Soderini, importante casato fiorentino, di Firenze. Secondo questa allegoria Ligurio sarebbe il segretario che riesce a diventare il vero e proprio padrone della città.

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Si tratta, però, di supposizioni dei critici dal momento che Machiavelli non ha mai esplicitato riferimenti precisi. Comunque, nel desiderio di Callimaco come nell'avidità e nell'astuzia del frate e nelle motivazioni di tutti i personaggi c'è una lucida tensione, un impegno a conseguire i propri fini. Questo fa della “Mandragola” un caso unico nella storia del nostro teatro. Lo stile di Machiavelli nella commedia è estremamente naturale ed obiettivo: egli utilizza la lingua giocando per meglio caratterizzare i personaggi. Nicia ha un linguaggio incomprensibile, Callimaco pronuncia spesso frasi latine per prevaricare il marito dell’amata, Ligurio gioca con le parole in modo equivoco. Nella commedia non è presente la fortuna, non è il caso che determina l’azione poiché i calcolatori sono i veri vincitori. E’ proprio Ligurio, infatti, che con una meticolosità incredibile mantiene il controllo di tutta la vicenda.

IL TEATRO DEL RINASCIMENTO

Nonostante la produzione teatrale fosse costituita interamente da commedie non mancarono, nel corso del Cinquecento, alcuni esempi di spettacolo colto come drammi pastorali e tragedie, di teatro popolare o spettacolo giullaresco, allestiti in occasione di festività particolari. Proprio per la grande varietà di generi e di innovazioni tecniche il rinnovamento del genere teatrale si ebbe principalmente in Italia. Le rappresentazioni si tenevano all’interno di cortili o nelle sale dei palazzi, i quali venivano arricchiti con fregi tipicamente barocchi. Gli interpreti di questo nuovo teatro furono, in

principio, solo gentiluomini, accademici e studenti, ma successivamente ne fecero parte anche professionisti provenienti da scuole di specializzazione. Nacquero, poi, le prime accademie che commissionavano i lavori insieme ad Enti culturali. Spesso i testi venivano arricchiti da interventi estemporanei degli attori che divennero pretesti per le invenzioni dei comici. Importante fu, inoltre, la ricomparsa in scena delle donne nonostante i rigori della Chiesa. Tutto ciò contribuì ad affermare la figura dell’attore e, in epoca più tarda, la nascita delle compagnie. Per quanto riguarda la musica tra la metà del XIV e la fine del XVI secolo si distinsero un primo Rinascimento a contatto con la scuola fiamminga e un tardo Rinascimento nel quale emersero la scuola polifonica romana e le esperienze della Camerata Fiorentina.

LA SVOLTA NELLA COMMEDIA E “IL CANDELAIO”

La commedia cinquecentesca subì una svolta nel 1582, quando a Parigi venne pubblicato “Il Candelaio” di Giordano Bruno, opera che presentava caratteristiche piuttosto anomale. “Il Candelaio” è ambientata nella Napoli del secondo Cinquecento e, sebbene scritta in italiano, presenta un linguaggio molto complesso perché composto

da un insieme di latino, toscano e napoletano. Il mondo rappresentato nella commedia è assurdo, violento e corrotto, delineato con amara comicità e ricco di eventi che si succedono in una trasformazione continua. Altri esempi che segnarono la svolta effettiva furono commedie come “L’Erofilomachia” (1572), “I morti vivi”(1580) e “La Prigione d’amore”(1580) da parte del perugino Sforza Oddi. Queste rappresentarono il panorama della contaminazione fra il teatro tardo cinquecentesco e quello dei professionisti che si andava affermando anche presso le corti italiane e francesi. L'apparizione, nel teatro dei nobili dilettanti, delle maschere della Commedia dell'arte ne fece un vero e proprio genere detto “Commedia ridicolosa”. Questa nel Seicento ebbe una vasta platea anche nei teatri gestiti dalle Accademie.

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LA COMMEDIA DELL’ARTE E LA COMMEDIA RIDICOLOSA

La commedia dell'arte, conosciuta all’estero come “commedia italiana”, nacque in Italia nel XVI secolo e rimase popolare fino alla metà del XVIII secolo. La definizione di "arte", che significava "mestiere", "professione", veniva sostituita anche da altri nomi: “commedia all'improvviso”, “commedia a braccio” o“commedia degli Zanni”. La storia della commedia dell’arte si sviluppò lungo un arco di secoli e il momento di maggior diffusione fu il Seicento. Le sue origini possono essere collocate nelle fiere, piccole e grandi, dove di preferenza saltimbanchi, ciarlatani e cantastorie erigevano il loro piccolo palco. Qui, prima dell'offerta di prodotti per lo più dubbi come elisir d'amore o di lunga vita, i saltimbanchi si esibivano in sketches e azioni mimiche, spesso a uno ma talvolta a più personaggi, mentre i cantastorie accompagnavano i loro racconti con una mimica che faceva da supporto all’interpretazione dei diversi personaggi. Come, quando e in quali termini questi ciarlatani e saltimbanchi abbiano cominciato ad assumere l'aspetto ed il ruolo di personaggi tipici della tradizione popolare è difficile a dirsi. Ma quando questa integrazione fu compiuta, quando, rendendosi conto del successo dei dialoghi mimati, ciarlatani e saltimbanchi smisero di lavorare da soli e si unirono in piccoli gruppi o coinvolsero tutta la loro famiglia(spesso si avevano grandi famiglie di attori) la Commedia dell'Arte era già diventata un fenomeno identificabile .

Arrivati nel paese o nella città dove rappresentavano la loro commedia, gli attori si aggiravano fra la gente, nelle piazze e nei mercati, cercando di carpire gli umori, i malcontenti e gli interessi del posto. Dalle notizie carpite deducevano trame adeguate, arricchite di spunti satirici, allusioni ironiche e ammiccanti sottintesi. Quando si alzava il sipario il giorno della rappresentazione il pubblico si riconosceva in una storia che, per quanto strampalata, macchinosa ed improbabile, era la sua storia. L'autore, invece di scrivere un copione, si limitava a tracciare per sommi capi una trama, detta “canovaccio-

trama”, la quale era poi rispettata dagli attori. Conoscere i ''canovacci'' era una delle maggiori competenze richieste agli attori. Tuttavia una volta sulla scena questi dovevano improvvisare le loro battute intorno al “Canovaccio Standard ''. I personaggi della Commedia dell'Arte erano le Maschere e i caratteri di queste erano divisi in tre gruppi: i vecchi, gli innamorati, i servi. Tutti parlavano nel dialetto di origine mentre gli innamorati, che erano dei giovani senza maschera, parlavano esclusivamente in toscano inventando battute ed inserendo i propri lazzi. La maschera era un oggetto fisiognomorfo e l' attore si faceva carico di tutte le conseguenze espressive che erano imposte

dalla maschera e che coinvolgevano il comportamento fisico e quello caratteriale. Fra le maschere dei vecchi spiccava Pantalone, vecchio mercante, avaro, geloso e brontolone. Gli innamorati erano dei giovani senza maschera, belli ma non sempre ardimentosi dal punto di vista dell'azione scenica. Il ruolo degli innamorati era insostituibile poiché questi erano il perno attorno al quale si muoveva e si diramava l'intreccio comico. Gli innamorati parlavano d'amore e di nobili sentimenti nella raffinata lingua toscana e ripetevano concetti che erano già presenti nella commedia letteraria. Il loro abito non era rigorosamente definito dalle didascalie ma doveva essere elegante e all'ultima moda; accanto a loro c’erano giovani donne, belle, maliziose e principalmente civettuole.

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Il terzo gruppo apparteneva ai servi che in questo genere di teatro erano i più famosi. Essi interpretavano Arlecchino,Brighella e Pulcinella. La Maschera più antica e complessa era quella dello Zanni, da cui derivò Arlecchino. Col tempo le maschere andarono perfezionandosi sempre più: i primi abbozzi, schematici ed essenziali, si arricchirono a tal punto da diventare dei veri e propri caratteri, dei modi di pensare e di ragionare. Alcune maschere si ingentilirono nel comportamento, altre si raffinarono nella psicologia e nel linguaggio. Contemporaneamente esse si spogliavano delle vecchie vesti e ne indossavano di nuove. Fra attore e maschera si creò una simbiosi tale che dai contemporanei il comico non era più conosciuto col suo nome ma con quello del personaggio che rappresentava. Le maschere della Commedia dell'Arte nel suo momento di maggiore splendore e fama fecero da portavoce ad una satira vivissima dei costumi del tempo. La professionalità appena conquistata portò i comici della Commedia dell'Arte a

rivoluzionare i luoghi comuni del loro mestiere. Il primo risultato fu l’affidamento ad ogni attore di una parte ben precisa, sulla quale era tenuto a specializzarsi. Più tardi, verso l’inizio del XVII secolo, soprattutto in area romana si sviluppò un tipo di commedia simile alla commedia dell’arte per i personaggi e la lingua dialettale: la commedia ridicolosa. Differentemente da quella dell'arte la commedia ridicolosa presentava attori dilettanti e gli spettacoli avvenivano in teatri accademici. Le varie compagnie di questo periodo avevano nomi fantasiosi, ispirati alle virtù (come le compagnie dei Floridi, degli Uniti e dei Concordi) o ai mestieri (come gli Ortolani e i Zardinieri). Le compagnie si distinguevano per le loro calze colorate e per i

complicati ricami che richiamavano il nome del gruppo stesso.

IL DRAMMA PASTORALE

Il termine dramma ha origine dalla parola greca “drama”, che significa propriamente “azione”. Solo successivamente, in periodo tardo-latino, assunse il significato di componimento letterario destinato alla rappresentazione sulla scena. Storicamente si distinsero quattro tipi fondamentali di dramma: satiresco, liturgico, pastorale e moderno Il dramma pastorale o favola pastorale fu il genere che prevalse nel Cinquecento. I temi trattati erano bucolici e idilliaci, e ci si riallacciava direttamente al satiresco greco. Il dramma, in parte cantato e in parte recitato, fu sostituito, in seguito, dal melodramma interamente cantato. Questo genere teatrale alle origini veniva rappresentato solo nei giardini cortesi ed era,

quindi, destinato ad un pubblico ristretto. Fungeva, infatti, da intrattenimento festivo e possedeva un tono garbato ed estremamente raffinato. Le sue prime rappresentazioni si svolsero a Ferrara e trovarono nella cultura di un letterato come Torquato Tasso la loro espressione.

VINCENZO BRACA E LA “FARSA CAVAIOLA”

Il nome di Vincenzo Braca è legato principalmente a un fortunato ma semisconosciuto genere letterario, la "farsa cavaiola", importante filone dialettale dell'ultima stagione del teatro cinquecentesco che va dal XV al XVII secolo. Si trattava di un genere incentrato sull'archetipo farsesco del “cavaiuolo”, cioè di un ignorante e stolto villico cavese ( un abitante della città di Cava), che dai cittadini salernitani era immaginato, per la rozzezza del suo dialetto, nei tratti più grossolani e caricaturali. Il fiorire della “farsa cavaiola” rappresentò un momento importante della letteratura italiana rinascimentale poiché la produzione farsesca del Braca, pur nella sua espressività e vivacità linguistica, superò la dimensione locale e campanilistica. Tuttavia la minore ampiezza dell'orizzonte satirico precluse a Vincenzo Braca la possibilità di attingere i livelli di incisività raggiunti dalla farsa del Ruzante.

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L TEATRO NEL SEICENTO Il teatro è il genere letterario nel quale più chiaramente si manifestano le molteplici,a volte contrastanti, caratteristiche della civiltà barocca: la ricerca in ogni campo artistico dell'effetto “scenografico”, la predilezione per tutto ciò che è grandioso ed appariscente, la tendenza ad accordare od unificare poesia, pittura, musica, l' interpretazione del mondo come spettacolo. “Tanto che “teatro” è “scena” furono fra le metafore più diffuse, i termini più emblematici di un atteggiamento mentale caratteristico di quegli uomini e del loro modo di considerare la vita” (G. Petronio). Si comprende, pertanto, la grande diffusione che esso ebbe nel Seicento in Italia e in molte altre nazioni

europee (in Francia, Inghilterra, Spagna ebbe addirittura il suo secolo d'oro). Fu un teatro, quello italiano, che riprese le forme del secolo precedente ma ad esse apportò profonde innovazioni a cominciare dalla “commedia d'arte”.

LA “ COMMEDIA D'ARTE”

Di origini incerte ma risalenti alla metà del Cinquecento, questo particolare tipo di rappresentazione, conosciuto anche come commedia “a soggetto” od “improvvisa”, deve probabilmente il suo nome al fatto che per la prima volta, dopo un millennio circa, presentava al pubblico non più chierici, membri di congregazioni artigiane, giovanetti di apposite confraternite (dramma sacro) o studenti, gentiluomini, accademici (dramma profano), che interpretavano questo o quel ruolo occasionalmente per devozione o dilettantismo. Esso presentava attori di “mestiere”, riuniti in regolari compagnie, addestrati metodicamente, che recitavano per

lucro in ogni stagione dell'anno. Erano dicitori, mimi, giocolieri, cantori, musici e non pochi di essi avevano un'apprezzabile preparazione culturale. La grande novità del nuovo spettacolo teatrale era l'improvvisazione da non intendersi, però, in senso assoluto. La bravura tecnica comune ai più illustri attori accolti a corte ed ai più umili che recitavano sulle piazze affollate, era in gran parte frutto della inesauribile inventività di cui dovevano necessariamente essere dotati. Essa celava un lungo e faticoso addestramento, una minuziosa e quasi pedantesca combinazione della recita con il variabilissimo temperamento del singolo. Dal personale zibaldone di centinaia e centinaia di frasi, scherzi, freddure, maledizioni, soliloqui imparati a memoria, ogni attore doveva saper scegliere di volta in volta e d'un tratto il motto, l'invettiva, il discorso amoroso, lo “sproposito” che meglio sapesse suscitare l'ilarità del più aristocratico o del più rozzo o del più composito dei pubblici. La commedia dell'arte si sviluppava ordinariamente su un “ canovaccio “ o scenario che comportava una regolare e predisposta partizione degli atti e delle scene oltre ad un prefissato svolgimento dell’azione nelle sue linee generali. Per tutto il resto ci si affidava all'arbitrio dell'attore. La brillante riuscita della recita era infatti raccomandata alla sua prontezza nel saper trovare la risposta calzante od il frizzo arguto, nel porgere all'interlocutore il destro di presentare nuove domande cui in anticipo erano preparate le repliche più facete, nel fare sfoggio di retoriche eleganze o di ardite metafore qualora dovesse sostenere una parte seria, nell'infiorare il suo dire di “lazzi“, come in gergo comico venivano definite le battute salaci e spesso sguaiate per le loro satiriche allusioni a fatti del giorno o a qualche notabile presente in sala.

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Fu così che attorno ai più intelligenti ed ai più geniali di tali attori-autori si venne creando un generale consenso del pubblico. Questo accorreva alle rappresentazioni della commedia dell'arte non per assistere ai soliti intrecci amorosi, alle umoristiche sostituzioni di persona, ai clamorosi colpi di scena la cui soluzione era scontata in partenza, ma per sentire il “suo“ attore che era tanto più acclamato quanto meglio sapeva riprodurre un determinato “tipo” della vita comune, incarnare le qualità o i difetti più appariscenti. La costante apparizione sulla scena di questi “tipi” favorì la diffusione delle cosiddette maschere, le quali, non del tutto nuove perché da esse già l'antico teatro aveva derivato in gran parte la sua estemporanea

vis comica, risorgono ora a nuova vita. Ogni compagnia dell'arte ebbe il suo repertorio fisso di maschere: dal veneziano Pantalone, gretto e brontolone, al bolognese Dottore, ironica caricatura del sofistico ignorante; dal capitano, reincarnazione del miles gloriosus di Plauto, agli «zanni », servi astuti ed imbroglioni come Brighella, o sciocchi e bugiardi come Arlecchino e Meneghino, alle servette graziose e procaci come le Colombine, le Coralline, le Riccioline, e così via. Riesce oggi impossibile seguire le vicende e gli spostamenti delle singole compagnie, le più famose delle quali conobbero ambitissimi successi in Italia in ogni Paese del continente. Già di moda presso le corti germaniche verso la fine del Cinquecento, esse fecero la spola in questo secolo tra Parigi e Madrid, Londra e Vienna, Boemia, Polonia e Russia. Ovunque furono “ammirate”, acclamate ed imitate. A nulla valse la guerra mossa loro dai moralisti, scandalizzati dalle frequenti scurrilità e immoralità portate sulla scena, o dai commediografi regolari, inorriditi dinanzi alla estemporaneità ed ineleganza del dire. Ricostituendosi di stagione in stagione a somiglianza delle moderne compagnie teatrali, variando di volta in volta le persone ma serbandosi fedeli ad una tecnica consacrata dal favore del pubblico, le compagnie dell'arte continuarono il loro cammino trionfale fino a metà del XVII secolo. Allora la decadenza del genere fu causata dal moltiplicarsi dei mestieranti più che dei buoni attori e la caratteristica inventività del periodo d'oro fu sostituita da una fredda e monotona ripetizione di motivi ormai invecchiati. La recita si ridusse quasi unicamente alla distribuzione di busse a destra e a manca, a gesti sguaiati ed inverecondi, a lazzi plebei e volgari. Tuttavia è bene ricordare che riproponendo a modo suo la sostanza della commedia classica, la “commedia d'arte” esercitò una notevole influenza sul teatro moderno e sui suoi più autorevoli rappresentanti. Lope de Vega trasse da essa lo sviluppo scenico e molti degli intrighi dei suoi lavori teatrali; William Shakespeare ne derivò in abbondanza temi ed espedienti; Molière ne fu in un certo senso diretto discepolo e lo stesso Goldoni, pur ribellandosi alle forme più decadenti di essa, ne rappresentò, in ultima analisi, un'indiretta ed indimenticabile filiazione.

IL TEATRO “REGOLARE”

Alla fortuna del teatro improvvisato si contrappone il graduale decadimento del teatro letterario. La commedia regolare italiana soggiacque all'influsso della commedia dell'arte ma di questa non seppe accogliere né lo spirito di indipendenza da ogni modello e da ogni impaccio di regole precostituite né il realistico adeguamento al nuovo gusto del pubblico, che voleva veder portata sulla scena la sua vita. Unico ad avere un certo rilievo in questo campo è MICHELANGELO BUONARROTI il giovane (1568-1642), figlio di un fratello del celebre scultore. Fu accademico della Crusca, partecipò attivamente alle prime due edizioni del Vocabolario e fu autore di due commedie, la “Tancia” e la “Fiera”. Nella “Tancia”, commedia rusticale in ottave rallegrata da intermezzi musicali, è il contado toscano con i suoi costumi e la sua lingua a fare da protagonista. Vi sono narrati, in maniera macchinosa per il continuo intrecciarsi delle più impensate peripezie, gli amori di due villici che alla fine possono concludere felicemente il loro sogno. La “Fiera” è un'opera di vaste proporzioni in quanto riunisce in una sola cinque commedie o giornate, a loro volta suddivise in cinque atti e il tutto in oltre venticinquemila versi. Priva di intreccio essa è la rappresentazione del continuo andirivieni di una folla di mercanti, bottegai, scolari, soldati; dei discorsi e delle liti fra persone di ogni ceto, delle ciurmerie di imbroglioni, dell'affaccendarsi di magistrati ed ufficiali, dei mille incidenti, insomma,

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di cui può essere spettatore un mercato. La scena è collocata nella immaginaria città di Pandora. Unico filo conduttore, in tanta frammentarietà di parti e di situazioni, è la simpatica adesione dell'autore non solo alla spedita parlata toscana, rapportata ai vari ceti sociali, ma a tutta la tradizione della letteratura popolare fiorentina. La tragedia, in omaggio all'affermazione aristotelica che fosse la più nobile e la più compiuta forma letteraria, ebbe in questo secolo una folta schiera di cultori, tutti mossi dall'ambizioso proposito di coronare la varia ed abbondante loro produzione con un'opera che potesse affiancarsi degnamente a quelle dei grandi tragici antichi e moderni. È la ragione principale dell'assenza, quasi completa, nella tragedia, dell'inclinazione al rinnovamento che invece si manifesta in tutti i campi dell'arte secentesca. Le tre unità e la divisione in cinque atti furono mantenute rigorosamente, il coro conservò il suo ufficio di confidente, gli orrori senechiani continuarono ad avere la prevalenza sulla semplicità strutturale della tragedia greca e non mutarono sostanzialmente i mezzi atti a creare il gioco violento dei sentimenti e delle passioni. Si può, tuttavia, riconoscere in essa una inconsapevole risonanza di accenti pensosi che lasciano intravedere il latente conflitto,dovuto alla Controriforma, tra morale e sentimento, politica e costume, istinto e ragione. Quando questo conflitto si risolve in esteriore declamazione la tragedia diventa artificio, quando, invece, è frutto di una reale inquietudine dello spirito di fronte agli eterni motivi tragici della vita umana quali l'onore, il fato, l'eroismo, l'ambizione sfrenata, la conquista del potere, allora la tragedia assume una serietà di contenuto che se non assurge alla grande poesia del contemporaneo teatro cornelliano o del prossimo teatro alfierano, stupisce e sorprende fra la tanta frivolezza e superficialità letteraria del secolo. È il caso dell'”Aristodemo” del padovano CARLO DOTTORI (1618-85). Suo soggetto è la forsennata cupidigia di potere del protagonista ed il sublime sacrificio della figlia. Motivo ispiratore è la legge inesorabile della “ragion di Stato” che comporta il sacrificio di vittime innocenti. Alla base dell'azione scenica stanno due umanissimi drammi: quello di Aristodemo, che calpesta i più sacri affetti paterni in nome di una smisurata e tragica sete di dominio, e quello di Merope, dolce creatura femminile, che rinuncia all'amore ed alla vita con la serenità di chi sa comprendere appieno il valore dell'ideale patrio. Quando essa si accorge che l'inaspettato sacerdote dell’olocausto è il padre con un solo gemito esprime il proprio drammatico stupore e l'orrore per il gesto disumano: il ferro trafigge le sue carni ma prima ancora della morte materiale scende nel suo spirito la morte spirituale, che significa il crollo di ogni certezza nell'immortalità del suo sacrificio. Il volontario suicidio di Aristodemo è l'ultimo e non necessario atto di una tragedia che ha già raggiunto con la morte di Merope la sua più alta drammaticità. Ancor più significative, sul piano artistico, sono le tragedie dell'astigiano FEDERIGO DELLA VALLE (1565 c.-1628), vissuto prima alla corte torinese dei Savoia e passato poi a Milano al servizio degli Spagnoli. Nelle tragedie “Judith”, “Esther”, “La reina di Scotia” è dato scorgere una sottile analisi psicologica .dei personaggi, una concezione religiosa intonata a pessimismo, una costante e commossa partecipazione alle vicende delle tre eroiche protagoniste. Giuditta si vale della propria bellezza per ingannare e sopprimere Oloferne, intenzionato a sterminare il popolo ebreo. La giovane ha saputo dall'oracolo di Delfo che lo sdegno degli dèi verso Messene, in guerra contro Sparta, potrà essere placato solo con il sacrificio di una vergine di stirpe regale. Sono a ciò destinate Merope, figlia di Aristodemo, ed Arena, figlia di un congiunto. La sorte, affidata all'urna, cade su quest'ultima ma il padre la sottrae al pericolo favorendone la fuga dopo averne negata la paternità. Accecato dall'ambizione e fermamente deciso a conservare il regno, Aristodemo si risolve allora a sacrificare Merope, la quale con eroica abnegazione accetta di essere immolata per far salva la patria. La madre ed il promesso sposo, pur di salvarla, spargono la falsa notizia di una incipiente maternità della fanciulla, ma Aristodemo, accecato dallo sdegno e dal terrore di non potersi propiziare gli dèi, uccide la figlia e selvaggiamente ed invano cerca nelle viscere di lei la prova della sua colpevolezza. Anche Arena è stata colpita da un arciere inviato al suo inseguimento e quando Aristodemo viene a sapere che essa pure è sua figlia, frutto di amori giovanili, pazzo di dolore e conscio dell’inutilità del duplice sacrificio perché non compiuto secondo il rito, si uccide gettandosi sulla spada ancor lorda del sangue di Merope. Trasfigurata dalla nobiltà del movente che la spinge ad uccidere e dalla consapevolezza di assolvere una missione affidatale da Dio, non conosce debolezza o paura e si presenta al tiranno. Questi, superbo e vanitoso, sazio di vittorie e di prede, ricerca nell'ebbrezza del piacere l'evasione dalla realtà quotidiana ma quando nel sonno gli viene mozzato il capo dall' affascinante fanciulla è già un vinto di sé stesso, della sua lussuria e non ha nemmeno la possibilità di fissare lo sguardo nel volto della morte, che è tutt'uno con quello dell'amore. Esther, moglie del re Assuero e trionfatrice di Amman, il persecutore ostinato degli Ebrei, è una soave e mite creatura umana che vuol salvare il suo popolo. Si commuove profondamente, però, dinanzi al corpo del nemico appeso alla forca ed abbandonato alle intemperie. Maria Stuarda, dopo vent'anni di prigionia ed una fugace quanto illusoria speranza di poter rivedere la sua terra, cade vittima dell’intrigo politico di una regina senza scrupoli quale Elisabetta d'Inghilterra. Le ore estreme della sua terrena esistenza, evocate con trattenuta commozione come quelle della manzoniana Ermengarda, mostrano una infelice in atto di chiedere l’ultimo abbraccio alla pietosa moglie di un guardiano che le ha coperto gli occhi con un bianco panno. Troncandole il capo la mannaia tronca la vita di una martire della fede cattolica ma soprattutto la vita di una donna nel significato più ampio ed umano del termine.

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Il Della Valle ha saputo cogliere nell'animo delle tre protagoniste la tensione dolorosa dei sentimenti e la forza spirituale che fanno loro superare l'angoscioso conflitto fra timori e speranze, fra certezza della caducità delle cose e attesa della morte liberatrice. Conflitto riconducibile alla sensibilità barocca ed alla tipica religiosità della Controriforma, ma dal Della Valle espresso liricamente soprattutto nei numerosi monologhi.

IL MELODRAMMA

Il genere teatrale nel quale il Seicento ebbe modo di accentuare la sua istintiva tendenza al lirismo melico e ad ogni manifestazione,decorativa o spettacolare dell'arte, fu il melodramma. La sua origine è da ricercare nel proposito dei teorici del secolo precedente di ricomporre la tragedia greca in tutti i suoi elementi costitutivi: poesia, musica, danza. Tale proposito fu ripreso dai componenti la cosiddetta Camerata dei Bardi (dal nome del mecenate che li accoglieva nella sua casa), i quali stabilirono la necessità di riportare la parola ad una perfetta coincidenza con la musica in modo che la fusione dell'una nell'altra potesse di nuovo suscitare l'entusiasmo che i drammi greci suscitavano negli spettatori del tempo. Così i componenti della “camerata” fiorentina si ritrovarono nel melodramma, la più tipicamente italiana delle forme teatrali. Essa conobbe alterne vicende, gloriose e meno gloriose, fino alla morte del Metastasio. In seguito, con il graduale prevalere della musica e del canto sul testo letterario, si evolverà nella popolare forna dell' opera ottocentesca, e contribuirà al processo di formazione culturale della nostra nazione. La data di nascita del melodramma può essere considerata quella della prima rappresentazione della “Dafne” (1594), nata dalla cooperazione del musico JACOPO PERI e del letterato OTTAVIO RINUCCINI(1562-1621). Impostata su un’azione semplicissima, suddivisa in un prologo e quattro episodi, questa favola, desunta da Ovidio (Dafne inseguita da Apollo e tramutata in lauro), si muove ancora nell'ambito del mondo pastorale. Ma anche se priva di calore drammatico essa presenta già nella verseggiatura la tonalità musicale indispensabile per un elegante recitativo. A questo primo illustre esempio di « libretto » fecero seguito l'”Euridice” e l’”Arianna”, sempre dello stesso Rinuccini. La prima fu rappresentata nel 1600 in occasione delle nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia. Essa riecheggia la nota favola mitologica, già cantata dal Poliziano, di Euridice morta per il morso di una serpe e restituita da Plutone allo sposo con la variante della felice conclusione del viaggio di Orfeo nell'Ade. Di maggiore sviluppo scenico e di più intensa drammaticità di sentimenti è la seconda, che narra l'abbandono di Arianna da parte di Teseo ed il seguente suo matrimonio

con Bacco. Fu rappresentata anch'essa in occasione di nozze principesche e fu in parte musicata dal cremonese CLAUDIO MONTEVERDI, il vero creatore della musica melodrammatica. In entrambe le composizioni il Rinuccini seppe giungere ad una caratterizzazione dei personaggi principali e soprattutto si servì del verso, limpido sempre, per creare un'aura melodica e avviare il genere, ormai libero dagli impacci della tragedia e della favola pastorale, alle fortune dei secoli seguenti. Con l'apertura a Venezia, nel 1637, del primo teatro pubblico a pagamento, quello di San Cassiano, tra parola e musica s' inserì un terzo elemento, lo spettacolo. Il suo trionfo portò ad una grave decadenza artistica. La poesia, asservita alla musica, perse ogni libertà d'azione a causa del virtuosismo dei cantanti e della frenetica ricerca, da parte dei macchinisti, di una grandiosità che non conobbe limiti. Da qui lo scadere del “libretto “al valore di un semplice “ scenario “. A risollevarne le sorti penserà, all'inizio del Settecento, un letterato cesareo della corte di Vienna, il veneziano Apostolo Zeno. Ma per ridargli il primitivo splendore occorrerà un nuovo poeta, Pietro Metastasio.

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L TEATRO ITALIANO

DALL’UMANESIMO AL SEICENTO

IL DRAMMA RINASCIMENTALE

Tra il 1200 e il 1400 l'Italia conosce una profonda trasformazione politica e un forte rinnovamento culturale. Nell'Italia meridionale s' insedia il regno angioino mentre nell'Italia settentrionale e centrale il sistema delle città- stato si trasforma in quello delle signorie. È in questo momento storico che le forme drammatiche destinate a sostituire i modelli medievali nascono insieme allo sviluppo della cultura umanistica, ed allo studio e recupero degli ideali della civiltà classica. La prima tragedia nata dall'imitazione dei modelli classici è “Ecerinis” di Albertino Mussato, scritta in latino e ispirata allo stile di Seneca. L'iniziatore della commedia umanistica è Petrarca. Il più antico testo sopravvissuto è “Paulus” di Pier Paolo Vergerio, in versi latini che imitano lo stile di Terenzio. Nel 1429 furono ritrovate dodici commedie di Plauto. Nel 1465 l'introduzione della stampa in Italia rese possibile un'ampia diffusione dei testi classici e tra il 1472 e il 1518 furono pubblicate tutte le opere drammatiche greche e latine allora conosciute. L'esigenza di rendere le opere più accessibili ai lettori e agli spettatori di corte favorì la traduzione in italiano dei testi teatrali antichi e poi la creazione di commedie e tragedie in volgare. La prima commedia scritta a imitazione dei modelli classici, ma in italiano, fu “La Cassaria” di Ludovico Ariosto (1474-1533). All'Ariosto si devono altre quattro commedie tutte in italiano: “I suppositi”, “Il negromante”, “I studenti” e “La Lena”. Intorno alla metà del '500 la commedia italiana si era completamente sviluppata e diffusa. Gli autori drammatici si mostravano perfettamente capaci di padroneggiare le tecniche della commedia latina e di adattarle alla situazione e alla sensibilità contemporanee. Il primo esempio di tragedia scritta in italiano è “Sofonisba”(1526) di Gian Giorgio Trissino (1478-1550). Oltre alla commedia e alla tragedia in Italia si sviluppò anche un nuovo genere, il dramma pastorale. Il progenitore del dramma pastorale è considerato l'”Orfeo” di Poliziano (1454-1494). Ma il vero e proprio dramma pastorale è considerato “Il Sacrificio” di Agostino Beccari che racconta le vicende amorose di pastori, ninfe e satiri nelle regioni dell'Arcadia. I due drammi più celebri sono l'”Aminta” di Torquato Tasso (1544-1595) e “Il Pastor fido” di Giovan Battista Guarini (1538-1612).

IL PRINCIPIO DELLE TRE UNITÀ

Nel corso del XVI secolo fu formulato il principio delle tre unità, di azione, di tempo e di luogo. L'unità d'azione significa, come spiegava Aristotele nella Poetica, che ogni opera «deve comprendere un'azione unica, che sia un tutto coerente e compiuto in se stesso». Il rispetto dell'unità di tempo era stato proposto nel 1543 dal Giraldi Cinzio nel libro “Intorno al comporre delle commedie e delle tragedie”, e il rispetto dell'unità di luogo dallo Scaligero nei suoi scritti “Peotices Libri Septem” del 1561. Castelvetro nel 1570 stabilì per primo che tutte e tre le unità dovevano costituire delle regole fondamentali. Il pubblico non avrebbe mai potuto credere che sulla scena fossero trascorsi lunghi periodi di tempo. Allo stesso modo gli spettatori non avrebbero potuto accettare che l'azione scenica si trasferisse sotto i loro occhi da un posto all'altro. Dopo il 1570 numerosi critici decretarono che un dramma doveva avere un'unica trama, svolgersi in non più di ventiquattro ore ed essere ambientato in un unico luogo.

ALLESTIMENTO SCENICO

Le prime rappresentazioni dei testi antichi avvennero intorno al 1470 grazie all'Accademia Letteraria Romana di Pomponio Leto e Sulpizio da Veroli che misero in scena l'”Epidicus” e l'”Asinaria” di Plauto in Campidoglio e al Quirinale e l'”Ippolito” di Seneca in piazza Campo dei Fiori. Lo studio della prospettiva trovò la sua prima sistemazione teorica nel trattato “Della pittura” (1435) di Leon Battista Alberti. Le pratiche sceniche del primo Cinquecento sono descritte nel secondo dei “Sette libri dell'architettura” di Sebastiano Serlio (1474-1554). Le scene di Serlio erano concepite come strutture fisse e non prevedevano la possibilità di rapidi cambi di scena. Poco dopo la pubblicazione del trattato crebbe l'esigenza di effettuare dei cambi di scena a vista. La prima soluzione fu quella dei periaktoi, i prismi triangolari del teatro antico che recavano una scena dipinta su ciascun lato e potevano ruotare su se stessi con un perno centrale. La soluzione ultima e più perfezionista per i cambi di scena avrebbe chiesto la sostituzione di tutte le quinte angolari con quinte piatte. Questa soluzione fu resa possibile dagli sviluppi della prospettiva. Il punto di fuga veniva fissato sulla parete di fondo del palco, lì si agganciava una

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fune che veniva tesa verso il basso e determinava l'altezza e le dimensioni relative. Intorno all'inizio del XVII secolo i tre elementi fondamentali di ogni scenografia erano le quinte laterali, i fondali scorrevoli e le "arie", che potevano essere cambiati simultaneamente.

IL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA

Il più antico esempio di teatro rinascimentale è il teatro Olimpico di Vicenza, costruito tra il 1580 e il 1585 per l'Accademia Olimpica della città. Questa accademia usò dei palcoscenici provvisori. Quando i membri decisero di costruire un teatro permanente Andrea Palladio, celebre architetto, s' impegnò a realizzare l'esatta ricostruzione di un teatro classico all'interno di un edificio preesistente. Nel teatro i sedili per il pubblico sono disposti secondo una semiellisse che gira intorno ad una piccola orchestra. Nella facciata fa da prono un arco centrale e due porte più piccole. L'effetto di questo spazio è quello di un teatro romano in miniatura trasferito in un interno. Il palcoscenico è rettangolare, lungo e stretto, ed è internamente delimitato da una scaenae frons ricca di ornamenti, con timpani, statue, tetto dipinto e pannelli decorativi. Di fronte al pubblico c'è un grande arco aperto, la porta regia, affiancato da due porte piccole. Le due ali laterali della facciata hanno anch'esse delle porte sormontate da palchetti destinati sia all'azione della commedia sia agli spettatori. Palladio morì prima che il teatro fosse terminato ma il suo progetto venne portato a compimento da Vincenzo Scamozzi. Il teatro fu inaugurato nel 1585 con la messa in scena dell'”Edipo re” di Sofocle.

LA COMMEDIA DELL’ARTE

Lo sviluppo di un teatro professionale in Italia e in Europa lo si deve principalmente alla Commedia dell'Arte. È del 1545 il primo contratto che stabilisce la costituzione per un anno della compagnia di comici di Raffio da Padova. Del 1568 è, invece, la prima descrizione di uno spettacolo dei comici dell'arte. Secondo alcune ipotesi la Commedia dell'Arte deriverebbe dalla farsa atellana tramandata da mimi itineranti, soprattutto per la somiglianza dei personaggi fissi. Altri studiosi sostengono che la Commedia dell'Arte è nata dalle improvvisazioni delle commedie di Plauto e Terenzio. Le due caratteristiche principali di questo genere erano l'improvvisazione e i personaggi fissi: gli attori partivano da un canovaccio, sulla base del quale improvvisavano il dialogo e l'azione e ogni attore recitava sempre lo stesso personaggio. Le commedie rappresentavano soprattutto storie d'amore, intrighi, travestimenti ed equivoci. I tipi fissi dei personaggi erano in genere gli innamorati, i vecchi, i servitori. I Comici dell’Arte hanno liberato l’attore dai vincoli del testo scritto per spingerlo ad una scrittura scenica che nasce dall’improvvisazione sviluppata dalla sua stessa fantasia. Egli metteva in moto tutto il suo corpo, la sua voce, la sua energia, il suo volere. L'unico livello dello spettacolo dell'arte non fissato completamente era quello relativo alla superficie verbale. Su essa i comici esercitavano per intero il loro dominio. Tuttavia questo tessuto verbale, benché composto all'improvviso, non era realmente improvvisato nel senso di inventato al momento dell'esecuzione visto che faceva riferimento a un' ingente letteratura di diverse parti, manoscritta e raccolta negli zibaldoni. Improvvisazione, dunque, ma come arte dell'adattamento e della combinazione, come variazione personale e ad hoc di un vasto repertorio letterario e come capacità di far sembrare improvvisato ciò che in realtà era previsto. La Commedia dell'Arte nasce dall'incontro di due generi, il serio e il comico. Ad esempio l'innamorato fa parte del serio con le sue vicende amorose, e le maschere dei vecchi e degli zanni fanno parte del comico. Si noti come i personaggi ridicoli, da Pantalone ad Arlecchino, sono sempre in posizioni precarie, ricurvi e incassati su se stessi. Un disequilibrio che li vede costretti ad impiegare molta energia per restare in equilibrio, in posizioni arcuate, con le gambe esageratamente divaricate. Attorno alla metà del XVII sec. la recitazione energica viene sostituita da una recitazione più elegante. Questa trasformazione vede un Pantalone o un Arlecchino maggiormente attenti alla leggerezza dei corpi nel movimento. Ciò che colpisce è una ricercata leggerezza, morbidezza che sembra aver soppiantato completamente la dura e pesante fisicità delle posture energiche piene di tensione e sforzo. Il movimento è verso l'alto, mai entrambi i piedi posano interamente a terra, uno dei due è sempre in spinta. Un personaggio estremamente popolare era il Capitano, che originariamente era uno degli innamorati e indossava spada, cappa e cappello piumato. Gli attori portavano una maschera che copriva interamente il viso lasciando liberi solo il mento e le labbra. I personaggi più variegati erano i servi, detti anche zanni. Essi avevano almeno due possibilità, il furbo o il rozzo e sempliciotto. Tra gli zanni il più famoso è naturalmente Arlecchino. Nel Settecento veniva spesso chiamato Brighella. Anche Pulcinella, maschera napoletana tuttora viva nel teatro dialettale, era un servo. Aveva un enorme naso ed era gobbo. Viene considerato l'antenato del burattino inglese Punch. La prima compagnia di rilievo fu quella di Alberto Naselli conosciuto con il nome di Zan Ganassa. Recitò in varie città d'Europa, diffuse in Spagna modi e tecniche della Commedia dell'Arte e influenzò autori come Lope de Vega. I comici dell'arte continuarono a recitare fino alla seconda metà del XVIII secolo. Verso la metà del XVII il declino economico e politico dell'Italia aveva definitivamente compromesso anche il suo primato culturale destinato a passare alla Francia. La francesizzazione della Commedia dell'Arte è un processo complesso e a tante facce. Essa va ben al di là della semplice adozione della lingua francese. Nel momento stesso in cui si stabiliscono a

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Parigi come Comédie Italienne le compagnie italiane subiscono un processo di "fissazione folclorica" che congela la loro versatilità in forme rigide e ripetitive. L'abbandono della recitazione energica e l'adozione del nuovo canone elegante avvengono in coincidenza di questo processo di folclorizzazione.

IL TEATRO ELISABETTIANO

Il teatro elisabettiano fu uno dei momenti di maggiore intensità del teatro inglese. Sotto questo nome si suole identificare la produzione teatrale collocata tradizionalmente fra il 1558 e il 1625, durante i regni dei sovrani britannici Elisabetta I d'Inghilterra e Giacomo I d'Inghilterra. Il termine, nella sua accezione di teatro rinascimentale inglese, si estende ai fenomeni teatrali fioriti nel periodo che va dalla riforma anglicana alla chiusura dei teatri nel 1642, a causa del sopraggiungere della Guerra Civile. La produzione del periodo successivo al 1603 (anno della morte della regina) è talvolta definita come il teatro dell'età giacobita (jacobean) e presenta caratteri differenti dalla precedente, di cui è l'evoluzione. Il teatro di tutto il periodo viene tradizionalmente associato a due grandi figure: la regina Elisabetta, dalla quale trae il nome, e il drammaturgo William

Shakespeare, massimo esponente di questo periodo e considerato tuttora uno dei maggiori autori teatrali a livello mondiale. Sotto il

regno di Elisabetta l'Inghilterra, nonostante gli attacchi dei puritani che non gradivano l'arte teatrale poiché vi scorgevano i tratti di attività ludiche che potevano allontanare i fedeli dal credo, ci fu una fioritura impressionante delle attività connesse allo spettacolo. L'associazionismo portò alla nascita di numerose compagnie configurate come organismi moderni con autore, attore e scenografi, che prendevano sovente il nome del nobile finanziatore e ne ricevevano una protezione più o meno ufficiale. Nacque la figura dell'impresario teatrale quando il teatro si configurò come una vera e propria attività commerciale. Sorsero, nonostante le difficoltà del caso, strutture teatrali debitrici nella forma e nella logistica delle vecchie sale dei nobili dove si svolgevano spettacoli di puro intrattenimento.

L'ARCHITETTURA TEATRALE

IL PALCOSCENICO DEL GLOBE NELLA RICOSTRUZIONE ROMANA A VILLA BORGHESE

Questi luoghi, chiamati playhouses, erano aperti al pubblico ed erano distanti, per rozzezza, dai raffinati teatri europei che stavano sorgendo nel resto del continente. Il momento di massimo splendore fu rappresentato dalla concezione dello spazio del teatro all'italiana. Tra le numerose strutture teatrali vi erano il celebre Globe Theatre, il The Curtain, il The Rose ed altri ancora. Le strutture lignee sorgevano fuori dal territorio comunale londinese dove il potere puritano, avverso all'arte teatrale, era meno forte. Di forma circolare, erano sprovviste di tetto e l'illuminazione era garantita dalla luce diurna nelle rappresentazioni del primo pomeriggio e poi da quella delle candele e delle torce. Il palcoscenico, provvisto di sgabelli laterali dove

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sedevano alcuni spettatori e privo di sipario e di arco scenico, aveva un proscenio aggettante rialzato che dava nella platea dov'era il popolo che assisteva in piedi alle messinscene. Alle spalle del palco vi era la continuazione delle gallerie del pubblico che si divideva in due parti: una al livello del palco e praticabile detta inner stage, l'altra al secondo livello detta upper stage. Entrambe erano utilizzate come luoghi dell'azione scenica e alle spalle dell'upper stage, nascosta, si celava l'orchestra musicale, che suonava senza essere vista.

LA DRAMMATURGIA

FRONTESPIZIO DE LA TRAGEDIA SPAGNOLA DI THOMAS KYD

CHRISTOPHER MARLOWE

La produzione teatrale scritta destinata ad un pubblico d'élite prese il nome di University wits (ingegni universitari), intendendo con questa una schiera di drammaturghi che alzarono il livello medio della drammaturgia d'epoca inserendovi riferimenti colti e attingendo alla propria cultura universitaria. Tra questi vanno ricordati John Lyly, Thomas Lodge, Christopher Marlowe, Robert Greene, Thomas Nashe, George Peele. Se Lyly riprese, nelle commedie, la mitologia classica e le leggende per celebrare i fasti del regno elisabettiano inteso come età dell'oro, George Peele incentrò la sua produzione

sui drammi patriottici e storici. Robert Greene si riservò ad attingere ampiamente alla letteratura fantastica derivante dalla novellistica. Christopher Marlowe, spirito inquieto e ribelle, rivendica fortemente l'autorità del singolo a scapito della produzione plurale. La tensione dialettica delle sue opere mista alla volontà di stupire e

stravolgere l'ordine costituito è riscontrabile in“Tamerlano il grande” del 1587-1588. Qui il personaggio principale è lo stereotipo del protagonista marlowiano, ossia dell'uomo venuto dal nulla che raggiunge il potere imponendo il suo pensiero alle ipocrisie sociali con una dose di sarcasmo e sfacciataggine che lo pongono in atteggiamento di sfida. Ancor più celebre è il

suo “Doctor Faustus” del 1588-1593, dove trasforma un libello in un dramma dalle tinte fosche e luciferine, in una celebrazione dell'interiorità che lo renderà celebre ai posteri per il nuovo messaggio contenuto. Lontano dalla formazione

universitaria fu invece Thomas Kyd, di cui ci rimane il testo “La tragedia spagnola”(1582-1592) che si configura come la prima tragedia di vendetta (revenge tragedy) ed è articolata su più livelli metateatrali grazie alla divisione tra i personaggi che agiscono e il coro di fantasmi che commenta.

WILLIAM SHAKESPEARE

William Shakespeare (1564-1616) è considerato all'unanimità uno dei maggiori drammaturghi a livello mondiale per le molte sue opere e l'universalità dei messaggi contenuti in esse . Di lui ci sono giunte tragedie, commedie e drammi storici per un totale di 40 opere, alcune delle quali di certa attribuzione Tragedie:

“Romeo e Giulietta”, “Macbeth”, “Re Lear”, “Amleto”, “Otello”, “Tito

Andronico”, “Giulio Cesare”, “Antonio e Cleopatra”, “Coriolano”, “Troilo e

Cressida”, “Timone di Atene”.

Commedie: “Le allegre comari di Windsor”, “La bisbetica domata”, “Cimbelino”,

“Come vi piace”, “La commedia degli errori”, “La dodicesima notte”, “I due

gentiluomini di Verona”, “I due nobili congiunti”, “Il mercante di Venezia”,

“Misura per misura”, “Molto rumore per nulla”, “Pene d'amor perdute”, “Pericle-

principe di Tiro”, “Il racconto d'inverno”, “Sogno di una notte di mezza estate”,

“La tempesta”, “Timone d'Atene”, “Tutto è bene quel che finisce bene”.

Drammi storici: “Riccardo III”, “Riccardo II”, “Enrico VI-parte I”, “Enrico VI,-

parte II”, “Enrico VI- parte III”, “Enrico V”, “Enrico IV- parte I”, “Enrico IV-

parte II”, “Enrico VIII”, “Re Giovanni”, “Edoardo III”.

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Le opere di Shakespeare, più volte rimaneggiate e riadattate, furono in periodi diversi riprese con successo dalla maggior parte degli attori e delle compagnie inglesi. Fino ad oggi il suo lavoro è considerato tra i punti più alti della drammaturgia di tutti i tempi.

ALTRI PROTAGONISTI

Dal punto di vista della produzione drammatica oltre a Shakespeare agirono per le scene numerosi autori, alcuni di stampo profondamente classicheggiante quali Samuel Daniel, William Alexander, Fulke Greville, Lord Brooke e William Alabaster. Questi si rifacevano ai moduli tragici senechiani e le loro opere, di rado rappresentate, erano destinate ad una cerchia elitaria distante dalle rumorose playhouses. Il gusto degli spettatori si spostò pian piano sulla tragicommedia sebbene tragedie e commedie saranno ancora rappresentate fino alla chiusura dei teatri nel 1660 per volere dei puritani. JOHN FLETCHER FRANCIS BEAUMONT

Di altro stampo erano gli autori di mestiere i quali, ad eccezione di Thomas Dekker, possedevano una buona cultura

di base pur senza farne puro esercizio di stile. La loro produzione era, quindi, finalizzata essenzialmente alla rappresentazione. Francis Beaumont e John Fletcher lavorarono in alcuni drammi in coppia e Fletcher collaborò con Shakespeare nella

stesura de “I due nobili congiunti”. Sebbene Beaumont fosse più dotato di Fletcher fu quest'ultimo ad assicurarsi larga fama presso i contemporanei. Dall'apice del teatro elisabettiano si giunse poi ad un sostanziale inaridimento della drammaturgia, sebbene alcuni autori si siano ampiamente distinti nel loro lavoro. La ricerca di precisi riferimenti alle loro opere è però difficile anche a causa della distruzione di numerose fonti storiche avvenuta nell'incendio di Londra del 1666. George Chapman fu autore di varie commedie e tragedie di stampo ampolloso e stereotipato mentre John Marston lo fu di tragedie ideate per gruppi di fanciulli. Della produzione di Thomas Heywood ci sono giunti 24 lavori di cui uno, “A Woman Killed wirh Kindness”, si configura come dramma domestico mentre egli fu principalmente autore di city comedies. La sua produzione è di difficile attribuzione per l'elevata quantità di collaboratori dei quali si servì. Ben Jonson fu contemporaneo di Shakespeare ma profondamente differente per la produzione drammaturgica. Erudito e raffinato quanto mondano socialmente e schivo personalmente, lasciò ai posteri una copiosa produzione di masque e di drammi. Tra i più celebri vi sono

“Every Man in His Humour” del 1598 e il “Volpone” del 1606. In qualche modo Jonson fu il portavoce di un'aspra critica nei confronti della mancanza di cultura nel teatro del suo tempo. Richiamò questo a più alti valori di dignità e sapienza. Altri autori minori furono Nathanael Field, autore di city comedies, Richard Browne, Robert Davenport, John Ford e James Shirley. Se Ford preferì il sensazionalismo scabroso, Shirley fu più pacato nei toni con le sue tragicommedie e commedie brillanti. In esse si ravvisa una capacità letteraria notevole, più adatta alla lettura che alla messinscena.

IL SISTEMA TEATRALE

EDWARD ALLEYN, UNO TRA I PIÙ CELEBRI ATTORI DELL'EPOCA

Nel periodo di maggiore fioritura del teatro elisabettiano Londra fu l'epicentro della vita dello spettacolo inglese dal vivo. Costruiti su terreni non assoggettati completamente all'autorità comunale, i teatri sorsero di grande capienza e prevalentemente in legno a partire dalla seconda metà del sedicesimo secolo. Gli attori si costituivano in associazioni che si spartivano i dividendi degli introiti (costituiti dal pagamento del biglietto d' ingresso da parte degli spettatori) in quote stabilite nel contratto iniziale sottoscritto. I drammaturghi scrivevano per specifiche compagnie che detenevano i diritti delle rappresentazioni sebbene questi venissero violati di fronte ai

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successi di un lavoro. Ci sono giunti 24 nomi di compagnie operanti nel periodo elisabettiano. Tutte possedevano un "protettore" che dava il nome al gruppo oltre ad agire nel teatro dove avevano sede come le moderne compagnie di produzione. Esse tenevano anche i costumi e la poca scenografia oltre che le suppellettili di scena e agivano in tournée nazionali e internazionali. Sovente venivano introdotte a corte per spettacoli privati da allestire in saloni che possedevano una struttura differente rispetto al teatro classico elisabettiano.

RICHARD BURBAGE, ATTORE, FIGLIO DELL'IMPRESARIO TEATRALE JAMES BURBAGE E A SUA VOLTA

IMPRESARIO

In particolar modo nell'età elisabettiana si ebbe la fioritura di numerose compagnie teatrali come i The Admiral's Men o i Lord Chamberlain's Men, nella quale lavorava Shakespeare, oltre che di figure di spicco come gli impresari James Burbage e Philip Henslowe. Tra le compagnie di giro, che si produssero in tournée europee, ci fu quella di Robert Browne, allievo del celebre attore Edward Alleyn e protagonista dell'epoca particolarmente apprezzato dalla regina Elisabetta. Se Alleyn era, però, interprete del modo garbato di recitare, dalla parte del fool è da ricordare il comico danzatore grottesco William Kempe, erede di Richard Tarlton. Altra compagnia fu quella di George Webster mentre pare che un certo John Kempe sia stato celebre in Italia agli inizi del Seicento. Numerosi sono i tentativi di ricostruzione della recitazione dell'epoca sebbene

essa si possa delineare solo sommariamente e per deduzione a causa della mancanza di fonti dirette. Quasi sicuramente non esistevano veri e propri copioni in quanto la stampa era una pratica costosa e non di certo possibile per ogni spettacolo in allestimento: stampare copie per tutti gli attori era difficile. Di certo era necessaria una capacità vocale visto che i teatri erano all'aperto e non vi era un sistema di diffusione del suono. La scarsa scenografia lasciava al testo il compito di illustrare l'ambiente nel quale agivano i personaggi. Da ciò è possibile dedurre che all'elemento verbale fosse attribuita notevole importanza perché fungeva da elemento descrittivo della scena. Bisogna poi tener presente che alle donne era vietato intraprendere la carriera di attrice e che i ruoli femminili erano assegnati a giovinetti che agivano molto diversamente da come avrebbe agito una donna. Giunto il genere del masque al momento del suo massimo splendore, acquisì fama e

importanza nel campo teatrale il nome dello scenografo ed architetto Inigo Jones. A lui sì accreditano importanti innovazioni in campo scenico quali l'inserimento dell'arco di proscenio, fino ad allora non utilizzato in Inghilterra, lo studio e l'applicazione delle quinte prospettiche sul palcoscenico. L'imprenditoria teatrale era ormai una professione a tutti gli effetti sebbene non regolamentata, come molte altre, da nessuna specifica norma legale. Tra gli imprenditori celebri si ricordano James Burbage, che fu alla guida degli stabili The Theatre e The Curtain, poi passati al figlio James Burbage;

Philip Henslowe, sotto la cui direzione passarono il Globe Theatre e il Fortune Theatre in società con l'attore Edward Alleyn; Francis Langley, che diede vita al The Swan. Il 1642 si configurò come un anno negativo per i teatri londinesi. Convocato il Parlamento da Carlo I, alla vigilia della guerra civile, i puritani imposero la chiusura dei teatri e il conseguente abbandono di ogni attività di intrattenimento. Tale situazione perdurò per diciotto anni fino alla restaurazione della monarchia e all'ascesa al trono di Carlo II. Sebbene la chiusura dei teatri valesse per l'intera nazione, alcuni spettacoli continuarono ad essere allestiti in clandestinità all'esterno della capitale. Sappiamo per certo che la Red Bull di Clerkenwell, un salone popolare dove si esibivano in gighe e farse alcune compagnie (tra cui, in seguito, quella della Regina Anna) lavorò clandestinamente. Questo è provato dall'arresto del comico Andrew Cane nel 1649. Nei grandi palazzi privati, inoltre, era d'uso dare rappresentazioni private come dimostra l'intensa attività culturale della Holland House a Kensington sia dopo l'immediata chiusura delle playhouses sia nel corso della dittatura di Oliver Cromwell. Anche il poeta laureato William Davenant, protagonista del successivo periodo della restaurazione, mise in scena alcuni suoi lavori come “L'assedio di Rodi” (“The Siege of Rhodes”) nel 1698 e arrivò a creare in Rutland House, una mansione affittata nella città di Londra, un vero e proprio teatro semi-clandestino. Soprattutto gli attori, privati del loro lavoro, si videro costretti a ripiegare su altri mestieri o ad arruolarsi negli eserciti reali mentre una minoranza preferì continuare la professione trasferendosi in altri paesi europei.

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A RESTAURAZIONE THOMAS KILLIGREW IN UN DIPINTO DI ANTOON VAN DYCK

La Restaurazione fu il periodo successivo alla caduta del protettorato repubblicano di Richard Cromwell, figlio di Oliver e a lui succeduto, con la conseguente ascesa al potere di Carlo II, proclamato re, che ripristinò il potere monarchico della corona d'Inghilterra. Era il 1660. Carlo II, amante delle arti in genere, aveva vissuto un lungo periodo in Francia presso la corte del cugino Luigi XIV, dove aveva

sviluppato una sensibilità verso un certo tipo di spettacoli di diversa fattura rispetto alla produzione teatrale precedente. Nel 1662 il sovrano delegò due cortigiani di fiducia, Thomas Killigrew e Sir William Davenant, per ricomporre due compagnie. Il primo rifondò la Compagnia del Re (la King's Company) il secondo fu il direttore della Compagnia del Duca di York (la Duke's Company) in onore del più giovane fratello del monarca e futuro sovrano Giacomo II d'Inghilterra. Il teatro della Restaurazione si basò fondamentalmente su questo duopolio che durò quasi due secoli. Cambiarono sia gli spazi della rappresentazione sia le sue forme. Se da una parte si mantenne viva la tradizione del dramma elisabettiano, dall'altra nuovi lavori di gusto spiccatamente francese, dovuti al periodo che Carlo II passò alla corte del cugino, fecero il loro ingresso sulle scene inglesi. Carlo II ereditò dal re francese anche la volontà di creare un forte potere accentratore in nome di un assolutismo monarchico senza, però, riuscirci. Nonostante l'apertura di nuove sale teatrali le attività connesse con quest'arte rimasero per lo più nella stretta cerchia delle corti e resero il teatro della Restaurazione strettamente elitario rispetto al periodo d'oro precedente.

IL POETA WILLIAM DAVENANT

L'ARCHITETTURA E LA SCENOGRAFIA

IL PALCO DEL DRURY LANE NEL 1674

Le playhouses elisabettiane dalla loro tipica forma erano state ormai smantellate. Le nuove architetture teatrali rispecchiavano maggiormente le forme dei teatri europei, con riferimenti al teatro

all'italiana, che acquisivano maggiore importanza sulla scena architettonica internazionale. Il più celebre architetto inglese del periodo, Christopher Wren, ricostruì il Drury Lane dotandolo di una sala rettangolare e disponendo in platea file di panche per far sedere il pubblico, che nei teatri elisabettiani rimaneva in piedi. Le gallerie divennero file di palchi mentre il palcoscenico acquisì profondità e uno spazio per i fondali che fungevano da scenografia per l'ambientazione. Veniva, così, modificato anche lo spazio per la recitazione rispetto a prima: si recitava davanti alla scenografia in linea con la tradizione del continente. Lo studio dell'illuminotecnica non era ancora sviluppato, il lampadario centrale delle sale impediva la creazione del buio e costringeva gli inservienti di scena ad essere visti. Per dare maggiore risalto agli avvenimenti sul palcoscenico si utilizzavano delle lastre rifrangenti con cui direzionare la luce sugli attori senza riuscire a creare l'effetto occhio di bue, che sarà raggiunto solo nel XIX secolo con il limelight. Di contro mutò profondamente la scenotecnica, per la quale ora c'era bisogno di valletti che facessero scorrere i fondali e muovessero le suppellettili in scena. Poiché il sipario, altro nuovo elemento del teatro inglese, non si abbassava se non alla fine della rappresentazione, i cambi erano a vista e preceduti dal suono di un fischietto o di un campanello, caratteristica che rimarrà nel teatro nazionale fino a metà del XIX secolo.

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ATTORI E ATTRICI

NELL GWYN RITRATTA DA SIR PETER LELY, 1675 CIRCA

Una vera innovazione dal punto di vista sociologico fu l'ingresso delle donne in scena, pratica severamente proibita fino a pochi decenni prima. Vi era stato un precedente, una compagnia francese aveva presentato al Blackfriars Theatre delle attrici nel 1629 ma la novità non era stata ben accolta dal pubblico. Tra le prime donne a calcare le scene vi furono Ann e Rebecca Marshall, poi entrate stabilmente nella compagnia di Killigrew; la più celebre tra tutte rimase, però, Nell Gwyn, ex venditrice di arance, che passò alla storia per essere diventata l'amante del re Carlo II dal quale ebbe due figli. Servì comunque del tempo per preparare le prime donne all'esibizione scenica. Lo stesso valse per gli attori uomini che modificarono lo stile recitativo con forme raffinate visto il pubblico di ceto più elevato che assisteva alle rappresentazioni. Tra i più celebri nomi dell'epoca è da ricordare Thomas Betterton, attore e poi capocomico delle compagnie di Killigrew e Davenant nel periodo in cui esse si fusero sotto la sua guida. Specializzato in ruoli shakespeariani venne ben pagato per le sue rappresentazioni e la sua fama crebbe a tal punto da essere sepolto nella Westminster Abbey. Tra le prime attrici del periodo ci fu anche Mary Saunderson, moglie di Betterton, anch'essa celebre per le interpretazioni di personaggi del vecchio repertorio. Di un ventennio più giovane era Elizabeth Barry, che recitò assieme a Betterton e che era specializzata in ruoli tragici. Il pathos che ispirava è riportato in diverse cronache d'epoca. Un dato importante da sottolineare è che proprio in questi anni nasce il fenomeno che sarà detto del divismo e che troverà con l'avvento del cinema il suo apice. Gli attori iniziano ad essere celebri e ammirati. Non di rado vengono ammessi a corte (come nel caso di Nell Gwyn) e diventano vere e proprie icone di riferimento per il pubblico, che ne copia modi e comportamenti.

IL SISTEMA TEATRALE

IL SIPARIO FU UNA DELLE NOVITÀ INTRODOTTE NEL TEATRO

Ad esclusione delle grandi sale destinate alle messinscene per i

nobili, una serie di compagnie, più o meno girovaghe, si formò nel resto d'Inghilterra, lasciando poche tracce dietro di sé e rendendo difficile una ricostruzione storica, precisa e attendibile del fenomeno. Se il duopolio delle compagnie maggiori trovava sostentamento nei finanziamenti dei protettori e nel pagamento del biglietto d'ingresso a teatro, quelle minori si configuravano in due modi stabili o itineranti. Mentre le prime si affidavano, come nel caso di Killigrew e Davenant, alla protezione di signori locali, le seconde vagavano per le province dividendosi gli introiti ricavati dalle rappresentazioni date non sempre nei luoghi deputati. Tra le compagnie stabili sappiamo che sono esistite e

hanno operato quella del duca di Norfolk a Norwich, quella del duca di Grafton a Bath e Bristol, quella del duca di Southampton a Richmond e, successivamente, altre a Canterbury e a Newcastle. Il repertorio era sempre quello di Londra e scarsa era la produzione teatrale regionale. Le compagnie itineranti, che contavano ormai una dozzina di persone di sesso misto e che vivevano della suddivisione dei beni, erano spesso costrette ad allestire serate di beneficenza nelle quali un attore o un'attrice si recava nelle città più grandi tentando di attirare il pubblico ad assistere ai lavori della propria compagnia. La pratica, spesso umiliante e a scopo promozionale, permetteva all'artista di incamerare il denaro che gli astanti lasciavano come mancia simbolica e per pagare il prezzo del biglietto. Gli spettacoli iniziavano verso le 16 del pomeriggio e nacque la moda del cartellone, con il quale si pubblicizzava l'evento in corso. Il più antico cartellone sembra essere stato un annuncio di un burattinaio italiano che lavorava a Charing Cross nel 1672. Il colore tipico dei teatri sembrava il verde, che padroneggiava nei rivestimenti delle poltrone e nei toni del sipario. Forse da qui deriva il termine "green room", con il quale si indica il camerino dove si raccolgono tuttora gli attori in procinto di entrare in scena o dove ricevono i loro ospiti.

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LA DRAMMATURGIA

COLLEY CIBBER

Nel quarantennio che corre tra il 1660 e il 1700 vennero prodotti all'incirca 560 drammi, di cui 120 appartenenti al vecchio repertorio e 440 di nuova fattura. Gli autori del passato che trovarono maggiore rappresentazione furono Francis Beaumont, John Fletcher, William Shakespeare e Ben Jonson, sebbene molte opere siano state rivisitate e adattate al gusto moderno, soprattutto tramite l'eliminazione del finale tragico. Carlo II, più del successore del fratello Giacomo II, Guglielmo III, amò circondarsi di letterati e questo spiega la provenienza aristocratica della nuova leva di drammaturghi. La nuova produzione spaziò in diversi generi, dei quali due in particolare divennero caratteristici dell'epoca sebbene fossero mutuati da alcuni esempi del passato: la tragedia eroica (heroic tragedy) e la commedia di maniere o di maniera (comedy of manners).

JOHN DRYDEN

La tragedia eroica si configurava con elementi

esotici e lontani, rappresentanti un mondo di sentimenti che sfociavano a volte in un'eccessiva pomposità dialettica e retorica. Il blank verse della drammaturgia elisabettiana venne rimpiazzato dall'heroic couplet o distico eroico, composto da coppie di decasillabi a rima baciata. Questa, di probabile derivazione dal verso alessandrino delle tragedie francesi, permise al linguaggio un naturale distacco dalla lingua del quotidiano. Contrariamente alle tragedie antiche il finale non era obbligatoriamente triste in quanto la "giustizia poetica" permetteva il finale lieto. Lo scopo che si prefiggeva la tragedia eroica non era quello di ispirare pietà ma quello di suscitare ammirazione per il comportamento e i sentimenti dei protagonisti. Il creatore di tale genere tragico fu un irlandese, Lord Orrery al secolo Roger Boyle, autore di sei tragedie delle quali la più celebre è la “Mustapha” del 1665

composta su richiesta di Carlo II. Questi voleva che gli spettatori fossero ispirati dalle alte gesta e dal comportamento nobile dei protagonisti. La figura di maggior rilievo del secolo fu, però, il poeta laureato John Dryden che, dopo le prime tragedie di gusto altamente retorico e magniloquente, seppe individuare i mutamenti di gusto del pubblico e indirizzarsi verso una più moderata ricerca formale tramite una revisione dei contenuti e un ripristino del blank verse. Tra gli altri autori vanno ricordati l'avversario di Dryden, Elkanah Settle, e John Crowne oltre che che John Banks e Thomas Southerne. Di estrazione non aristocratica furono, invece, Nathanael Lee e Thomas Otway, entrambi ex attori morti in miseria. Lee in particolare, con la sua dozzina di tragedie, si allontanò dalla tragedia eroica regolare e, a causa di un'esistenza abbastanza travagliata che lo vide trascorrere diversi anni in manicomio, si avvicinò al sentimentalismo scenico dei secoli successivi. Egli affidò al logorroico ed esasperato pianto delle protagoniste femminili lo sfogo di un'infelice esistenza e questo gli permise di trovare una fortuna scenica anche negli anni successivi. APHRA BEHN

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La commedia di maniera rappresentava un contraltare degli alti ideali della tragedia eroica. Come sempre nello storia dei generi teatrali mentre il genere tragico dà voce alle grandi aspirazioni umane, la commedia rivela una contemporaneità svelando alcuni tratti della coeva società. Ambientate nella Londra contemporanea le commedie erano costituite da un'esile intreccio in cui spiccava la figura del wit, colto aristocratico nullafacente che era solito parlare per aforismi mettendo in ridicolo i repubblicani e i borghesi. I personaggi femminili, liberi e licenziosi, acquisirono importanza e sostanza, mentre frequenti erano i riferimenti spregiudicati al sesso e al libertinismo. Quest'ultima caratteristica non permise il continuarsi delle rappresentazioni negli anni successivi se non a costo di una pesante edulcorazione dei contenuti licenziosi. La produzione delle commedie di maniera fu esigua e vi si esercitò Dryden in prima persona e con esiti dubbi. Sir George Etherege produsse solo tre opere, delle quali va ricordata “The Man of Mode” del 1676; più moralista fu William Wycherley,

autore di quattro pièces tra le quali vanno menzionate “The Country Wife” del 1675 e “The Plain Dealer” del 1676. Altri autori furono Sir Charles Sedley, Thomas Shadwell, Tom D'Urfey e Thomas Southerne, irlandese di nascita che produsse sempre nella capitale inglese. Un discorso a parte va fatto per Aphra Behn, prima donna a scrivere per denaro senza servirsi di uno pseudonimo maschile e attirandosi le critiche dei contemporanei. Nelle sue opere teatrali, che spaziano dagli intrecci cavallereschi dell'unica tragedia della quale fu autrice,l'”Abdelazar”

del 1676, ai più frequenti e complessi intrighi comici della produzione di maniera, spicca una critica feroce alla condizione sottomessa della donna all'uomo soprattutto riguardo ai matrimoni forzati.

RICHARD STEELE

Il periodo della Restaurazione fu caratterizzato da una maggiore licenziosità dei costumi teatrali, che si riflettevano in opere di più ampia "modernità" rispetto ai periodi precedenti. Tuttavia il passaggio alla successiva età dei lumi si caratterizzò per una virata restrittiva della morale comune voluta nel campo teatrale dal vescovo e critico Jeremy Collier che col suo trattato “Short View of the Immorality and Profaneness of the English Stage”, condannò il teatro quale luogo di pubblica dimostrazione della corruzione umana. Già William Congreve, irlandese di

nascita, autore di quattro commedie e una tragedia, si distinse per uno stile meno colorito e sboccato dei suoi predecessori. Sono da ricordare, poi, Sir John Vanbrugh e John Farquhar. Il primo, architetto di fama e amico di Congreve, chiuse l'epoca della commedia di maniere mentre il secondo inserì dei personaggi distanti dall'humour wit e meno licenziosi dei precedenti. Tra gli ultimi autori della commedy of manners vi furono il poeta laureato Colley Cibber, già direttore del Drury Lane ed ex attore comico, che si produsse in numerose commedie di una certa licenziosità dalle quali traspare una maggiore attenzione alla morale del tempo, e Susanna Carroll Centlivre, altra donna scrittrice e autrice di commedie sia mutuate da esempi stranieri sia originali. Sir Richard Steele, personaggio poliedrico e apertamente favorevole alle idee di Collier, segna un periodo di transizione piuttosto evidente. Le sue commedie,

nelle quali agiscono personaggi dignitosi e dal comportamento sobrio, tendono non più al riso ma alla commozione e inaugurano quella commistione dei generi tragico e comico che sarà caratteristica dell'età successiva. Non di rado i suoi lavori trattano un tema specifico col quale si vuole impartire un insegnamento etico alla società.

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L TEATRO DEL '600 FRANCESE TRA

MITI, TECNICHE E STRUTTURA Il Classicismo si fonda sul Razionalismo (vedi Pascal e Cartesio) e anticipa il cosiddetto "Siécle des Lumes". Proprio durante questo movimento storico, artistico e letterario si conia il concetto di "Vraisemblance", ossia della verosomiglianza nelle opere teatrali. Questa condurrà lo spettatore alla catarsi, alla purificazione dalle passioni

terrene. Altro concetto di uguale importanza è quello del "Bienséance", cioè del comune senso del pudore. Gli autori dovevano cercare di capire le attese degli spettatori e per questo le scene di violenza non venivano messe in atto ma erano sottintese. Il periodo classicista in sè cerca di operare un raffinamento nei costumi e crea una "nouvelle langue" depurata dall' estrosità Barocca. Inoltre bisognava usare temi nobili riferiti a grandi imprese. L'opera doveva essere svolta in 24 ore nello stesso luogo e con un azione principale che non doveva essere influenzata dalle altre. Questa "innovazione" fu molto importante agli esordi dei primi teatri che erano ancora organizzati rudimentalmente. Nel teatro seicentesco troviamo, inoltre, la cosiddetta polisemia dell'opera teatrale, ossia vi è un doppio binario: la lettura e lo spettacolo. L'écrit è libertà d'interpretare e capire l'opera a proprio piacimento, la rapresentation è una sola e non vi è possibilità di interpretarla diversamente da com'è rappresentata sul palcoscenico. Il dialogo è la base del teatro insieme a tecniche usate dagli attori come l'"aparté" (monologo) proprio dei comici. Mentre il dialogo coinvolge due o più persone e dà una "focalisation", una visione completa del punto centrale dell'opera, il monologo è con se stessi, adottato per decidere su una scelta o per discorrere con la propria coscienza. Inoltre il monologo utilizza tutte le forme classiche come l'apostrofo, le interrogazioni e tutte le figure del discorso. Altro elemento importante sono le didascalie che si distinguono in interne ed esterne. Le interne sono dette dal personaggio e danno informazioni sulle scene, le esterne riprendono la presentazione dei personaggi, degli atti e delle scene. La commedia può essere classificata in grottesca (una farsa), epica ( come quella elisabettiana) e "commedie d'art", più evoluta delle altre anche dal punto di vista interpretativo. Quest'ultima in Francia muove la gente a spostare l'interesse verso la "tragedie classique" perchè ci sono due diversi modi di fare teatro: il primo è il teatro di corte con balletti e spettacoli, il secondo è il teatro ambulante, quello di strada, fatto da ubriaconi, violenti e prostitute che approfittano degli spettacoli per attirare clienti. I modelli d’ispirazione per le tragedie rimandano tutti al passato e nello specifico all’antica Grecia e alla Bibbia ( viste le traduzioni appena fatte in quel tempo ). Uomini del calibro di Aristotele, soggetti biblici, miti come quelli delle opere di Ovidio e, il più recente dell'epoca, “Il Cortigiano” di Baldassare Castiglione (noto perché vive su un palcoscenico permanente e deve al tempo stesso simulare e nascondere i propri sentimenti), vennero portati in scena e acclamati dal pubblico. Le tragedie sono codificate in :

L'exposition (esposizione dell'opera)

Le noeud (il "nodo" ossia la trama)

Le développement ( lo sviluppo della trama)

Le dénoument (lo "scioglimento" o conclusione della tragedia)

Gli autori puntano sulla sofferenza e sul dolore del personaggio per creare "suspence" nello spettatore. Più questi sentimenti negativi sono presenti più il pubblico sarà condotto alla catarsi. La conclusione della tragedia, in generale, culmina con la morte del/i protagonista/i, vista come unica soluzione per liberarsi dal fardello dei problemi che la vita pone. Il politico Richelieu fu un sosteniore convinto del

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"développement des arts" (sviluppo delle arti) e aveva pensato che investire nella cultura avrebbe contribuito al futuro francese. A lui si deve la creazione del primo "teatro stabile" che ebbe sede a Bourgogne e della cosiddetta "decentralizzazione dei teatri" che portò all'apertura di numerosi teatri a Lyon, nel mezzogiorno francese e in tutta la provincia oltre che nelle grandi città come Paris. Nota importante fu che gli attori teatrali vennero scomunicati dalla Chiesa e privati di una qualsiasi selpotura dignitosa in luoghi sacri. I politici invece cercarono sempre di esaltare questa forma d'arte. Ultima ma non per importanza fu la funzione del teatro in termini propagandistici durante il regno dell'allora monarca e assolutista Luigi XIV.

MOLIÈRE

MOLIÈRE RITRATTO DA NICOLAS MIGNARD (1658)

FIRMA DI MOLIÈRE

Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin (Parigi 15 gennaio 1622 – Parigi 17 febbraio 1673), è stato un commediografo e attore teatrale francese.

BIOGRAFIA

L'INFANZIA

Il 15 gennaio 1622 Molière venne battezzato nella chiesa di sant'Eustachio a Parigi. Ben presto chiamato Jean-Baptiste per distinguerlo dal fratello minore Jean, solo in seguito, a ventidue anni, prese lo pseudonimo di Molière. Suo padre, Jean, era un tappezziere, un artigiano agiato. La madre, Marie Cressé, morì quando il figlio aveva solamente dieci anni. I genitori si erano sposati l'anno prima. In seguito, nel 1633, il padre si sposò con Catherine Fleurette, la quale morì nel 1636. L'infanzia del piccolo fu segnata da lutti ed inquietudini, che spiegano solo in parte il fondo di tristezza del suo umore e la rarità dei ruoli materni nel suo teatro. Nella sua fanciullezza furono fondamentali la vivacità popolare, l'animazione, il rumore, l'accanito lavoro oltre agli spettacoli con i quali da piccolo fu ogni giorno a contatto grazie alla passione che gli fu trasmessa dal nonno materno Louis Cressé. Questi spesso lo portava all'Hotel de Bourgogne e al Pont Neuf, dove si poteva assistere alle rappresentazioni dei comici italiani e alle tragedie dei comédien. Nel quartiere delle Halles, dove visse, il vivace spirito di Poquelin poté impregnarsi di una vita formicolante, dello scherzo pittoresco e della varietà della realtà umana. Il padre gli permise scuole molto più prestigiose di quelle destinate ai figli degli altri commercianti. Compì i suoi studi dal 1635 al 1639 al Collège de Clermont, collegio di gesuiti, considerato il migliore della capitale e frequentato da nobili e ricchi borghesi. Qui egli imparò la Filosofia, Filosofia scolastica, in lingua latina ed acquisì una perfetta padronanza della retorica. Nel 1637 prestò giuramento come futuro erede della carica di tappezziere del re, che era ricoperta dal padre.

GLI INIZI

Nel 1641 portò a termine gli studi di diritto ottenendo la Licenza in diritto ad Orléans. Cominciò a frequentare gli ambienti teatrali, conobbe il famoso Scaramuccia Tiberio Fiorilli e intrattenne una relazione con la ventiduenne Madeleine Béjart, giovane attrice rossa di capelli, già madre di un bambino avuto dalla precedente relazione con il Barone di Modène Esprit de Raymond de Mormoiron. Con l'aiuto della donna, colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari, leale e devota, organizzò una compagnia che servì a Molière per capire la propria vocazione di attore. Il 6 gennaio del 1643 egli rinunciò alla carica di tappezziere reale. Il 30 giugno 1643 firmò il contratto e costituì una troupe teatrale di dieci membri, l'Illustre Théâtre.Di esso facevano parte Madeleine Béjart (in qualità di prima attrice), il fratello Joseph e la sorella Geneviève. La piccola compagnia prese in affitto il Jeu de Paume des Métayers ("sala dei mezzadri") di Parigi e nell'attesa della conclusione dei lavori per adattare la sala alle rappresentazioni teatrali si stabilì a Rouen e inscenò spettacoli di ogni tipo, dalle tragedie alle farse. Il 1º gennaio del 1644 l'Illustre Théatre debutta nella capitale. Il pubblico non rispose a dovere, iniziarono ad accumularsi debiti, Molière fu arrestato per insolvenza, la compagnia nel 1645 si sciolse. Una volta liberato per l'interessamento del padre e di Madeleine, lui ed alcuni membri della compagnia abbandonarono la capitale francese. Dal 1645 al 1658 lavorò come attore ambulante con la compagnia di Charles Dufresne, rinomata e finanziata dal duca di Epernon, governatore della Guienna. Nel 1650 Molière ottenne la direzione della troupe che iniziò a fare le sue rappresentazioni a Pézenas, dove ogni anno si trovavano gli Stati della Linguadoca, e nel sud della Francia. A partire dal 1652 la compagnia, ormai ben affermata, iniziò ad avere un pubblico regolare a Lione. Durante questo girovagare conobbe bene l'ambiente della provincia ma soprattutto imparò a fare l'attore ed a capire i gusti del pubblico e le sue reazioni. In tale

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periodo scrisse alcune farse e due commedie, ossia “Lo stordito” (“L'Etourdi”), commedia di intrigo, rappresentata a Lione nel

1655, e “Il dispetto amoroso”(“Le dépit amoureuse”), opera non eccezionale, rappresentata a Narbona nel 1656. Nel 1658 tornò a Parigi dopo un soggiorno a Rouen con la sua compagnia, la Troupe de Monsieur, nome accordatole da Filippo d'Orléans. Il 24 ottobre di quell'anno recitarono davanti al re Luigi XIV, il quale si entusiasmò solo con la farsa “Il dottore

amoroso” (“Le Docteur amoureux”), scritta da Molière (il testo fu ritrovato e pubblicato nel 1960). La compagnia venne autorizzata ad occupare, alternandosi con la troupe degli Italiani, il teatro del Petit-Bourbon e quando nel 1659 gli Italiani se ne andarono, lo stesso teatro fu a completa disposizione di Molière. Iniziò così a mettere in scena delle tragedie ma con

scarso successo. Scrisse anche un'opera che non era né una tragedia né una commedia, il “Don Garcia de Navarre”, incentrata sul tema della gelosia, ma fu un fiasco. Molière allora capì che la commedia era la sua attitudine ed in questo genere eccelse

già con la prima opera “Le preziose ridicole” (“Les précieuses ridicules”) del 1659. Nella farsa mise in luce gli effetti comici di una precisa realtà contemporanea, le bizzarrie tipiche della vita mondana e di questa ridicolizzò le espressioni ed il linguaggio. Tutto ciò provocò l'interruzione delle rappresentazioni per qualche giorno ma gli inviti a corte e nelle case dei grandi signori si susseguirono ugualmente.

IL SUCCESSO

LUIGI XIV INVITA MOLIÈRE PER CONDIVIDERE

LA SUA CENA, DI JEAN-LÉON GÉRÔME.

Nel 1660 vi fu il gran successo di “Sganarello o il cornuto

immaginario” e fu il comico d'intrigo l'argomento principale insieme a quello del qui pro quo in un ambiente dove ognuno si preoccupava solo ed esclusivamente della propria situazione. Nel frattempo venne demolito il salone Petit-Bourbon ma il re fece

prontamente assegnare alla compagnia la sala del Palais-Royal. Qui a giugno vi fu la presentazione de “La scuola dei mariti” (“École des maris”). In questa commedia attraverso le buffonerie vennero ancora presentati problemi gravi e scottanti come l'educazione dei figli e la libertà da concedere alle mogli. In onore di una festa offerta da Luigi XIV in quindici giorni

Molière scrisse e mise in scena la commedia “Gli importuni”(“Fâcheux”). Il 20 febbraio 1662 sposò Armande Béjart, ufficialmente sorella ma quasi sicuramente figlia di Madeleine ed anch'essa entrò a far parte della compagnia (dall'unione nacquero tre figli, due maschi e una femmina, l'unica che sopravvisse al padre). In dicembre venne rappresentata “La scuola

delle mogli” (“École des femmes”) che superò in successo ed in valore tutte le commedie precedenti. L'opera portò, tuttavia,

allo scontro con i rigoristi cristiani. Nel 1663 Molière fu interamente occupato dalla querelle de “La scuola delle mogli” e dal

suo successo. Il 12 maggio 1664 ci fu la prima rappresentazione del “Tartufo o l'Impostore”. Tra il 1667 e 1668, ispirandosi

alla commedia in prosa di Tito Maccio Plauto, “Aulularia”, e prendendo spunti anche da altre commedie (“I suppositi” dell'Ariosto, “L'Avare dupé” di Chappuzeau, “La Belle plaideuse” di Boisrobert, “La Mère coquette” di Donneau de Vizé)

scrive “L'avaro” (“L'Avare ou l'École du mensonge”) che viene rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1668 al Palais-Royal dalla "Troupe de Monsieur, frère unique du Roi". Era la compagnia di Molière che in quell'occasione recitò la parte di Harpagon. Nel 1673, anno della morte del drammaturgo, la sua compagnia, l'Illustre Theatre, assorbe i resti di quella del Teatro di Marais. Nel 1680, a sette anni dalla morte di Molière, il re con un ordine speciale sancisce la fusione con l'Hotel de Bougogne dando vita all'inizio della Comédie Française, con sede all'Hotel Guénégaud.

MORTE

LA TOMBA DI MOLIÈRE, OGGI NEL CIMITERO DI PÈRE LACHAISE

Molière morì il 17 febbraio 1673 di tubercolosi mentre recitava “Il malato immaginario”. Prima di morire aveva recitato a fatica e aveva coperto la tosse , si dice , con una risata forzata. Morì durante

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la notte tra le braccia di due suore che lo avevano accompagnato a casa. Da qui è nata la superstizione di non indossare, in Francia, il verde in scena, in quanto egli indossava un abito di questo colore. In Italia la superstizione si riferisce, invece, al colore viola poiché durante i quaranta giorni quaresimali nel Medioevo venivano vietati tutti i tipi di rappresentazione teatrale e di spettacolo pubblico che si tenevano per le vie o le piazze delle città. Questo comportava per gli attori e per tutti coloro che vivevano di solo teatro notevoli disagi economici. Non potendo lavorare le compagnie teatrali non avevano guadagni e procurarsi il pane quotidiano era un'ardua impresa. Il divieto di inumazione cattolica per gli attori e i commedianti di quell'epoca fu aggirato per intercessione del Re presso l'Arcivescovo, e la sepoltura di Molière avvenne nel cimitero di Saint-Eustache anche se ad una profondità superiore a quattro piedi, misura che fissava l'estensione in profondità della terra consacrata. Oggi la tomba di Molière si trova nel famoso cimitero parigino di Père-Lachaise, accanto a

quella di Jean de La Fontaine.

ONORI POSTUMI

L'Accademia di Francia non accettò, mentre era in vita, che Molière fosse tra gli immortali perché il commediante, ancora definito guitto, era considerato culturalmente inferiore. Riparò in seguito dedicandogli nel 1774 una statua con l'iscrizione Rien ne manque à sa gloire, il manquait à la nôtre (Nulla manca alla sua gloria, Egli mancò alla nostra).

POETICA

STATUA DI MOLIÈRE A PARIGI

Molière, attore e allo stesso tempo drammaturgo, ricercò uno stile di scrittura e recitazione meno legato alle convenzioni dell'epoca e volto ad una naturalezza che descrivesse al meglio le situazioni e la psicologia dei personaggi. Queste idee, che si realizzeranno in seguito nel teatro borghese, cominciano ad emergere ne “La scuola delle

mogli” e ne “Il misantropo”. Un nuovo stile che Molière accompagna con una critica feroce della morale dell'epoca. Questo impedì a lungo

alla commedia “Il tartufo” di essere rappresentata in pubblico. L'acuta osservazione della realtà fu spesso per Molière fonte di guai,

specialmente quando i nobili, oggetto delle sue satire, si riconoscevano nei personaggi. È nota la reazione del duca di La Feuillade che, riconosciutosi nel Marchese della “Critica alla scuola delle mogli”, gli strofinò sul viso con violenza i bottoni del suo vestito pronunciando la battuta «Torta alla crema! Torta alla crema!». Simili incidenti accaddero con Monsieur d'Armagnac, scudiero di Francia, e con il duca di Montasieur, precettore del Delfino, che minacciò di bastonarlo a morte per averlo preso a modello nel creare il personaggio di Alceste, il misantropo. L'aspirazione di Molière, spesso costretto a scrivere commedie-balletto per compiacere ai gusti del re, fu quella di dedicarsi a sviluppare un nuovo tipo di commedia. Questo porterà alla nascita della commedia di costume moderna, ispirata agli accadimenti quotidiani, scritta in prosa e tendente alla verosimiglianza. Molière può essere considerato a tutti gli effetti il precursore di quel rinnovamento teatrale che comincerà ad esprimersi compiutamente un secolo dopo con Carlo Goldoni e che raggiungerà la piena maturità col teatro di Anton Čechov. Anche Dario Fo lo ha spesso indicato tra i suoi maestri e modelli.

MOLIÈRE E LA FIGURA DEL MEDICO

MOLIÈRE RITRATTO DA PIERRE MIGNARD, MUSEO CONDÉ (CHANTILLY)

Un luogo comune abbastanza diffuso consisterebbe nella presunta ossessione di Molière nei confronti della medicina e dei medici. Basterebbe, infatti, una semplice lettura di alcune opere del drammaturgo perimbattersi diverse volte nel personaggio del medico. Questo sembra essere direttamente preso di mira da parte dell'autore (basti pensare a

“L'amore medico” del 1665 o al successivo “Il medico per forza” sino al celebre “Il

malato immaginario”). Nella prima commedia menzionata l'autore non si limitava a moltiplicare il numero dei medici (addirittura cinque) ma dietro i nomi fittizi e

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"parlanti" dei personaggi satireggiava celebri medici professionisti della Parigi di Luigi XIV, ognuno dei quali caratterizzato a suo modo. La satira da parte dell'autore in quest'opera si manifesta nella rappresentazione, palesemente caricaturale, dell'atteggiamento dei medici in scena. Questi si esibiscono in duelli sulle reciproche conoscenze e sono assolutamente pomposi. Spesso Molière insiste sul medico come professionista di scarsa qualità che agisce solo in funzione dei propri interessi. Tutti i dottori di Molière sono profondamente legati al denaro, i suoi medici dimenticano il loro ruolo positivo e vengono dipinti in atteggiamenti arrivisti che hanno il solo scopo di "far fruttare la malattia con la frode, con l'inganno". In generale l'assiduità delle battute aspre e pungenti che Molière non lesina ai medici sembrerebbe tradire una forma di astio personale, al limite del maniacale. Forse a causa della personale esperienza dell'autore con la malattia e, quindi, con i medici (non si dimentichi la tubercolosi di cui soffrì il drammaturgo; egli ricevendo i medici, poteva rendersi personalmente conto della loro inadeguatezza e aveva subito modo di scriverne). Tuttavia come afferma un importante studioso (Sandro Bajini), la critica di Molière all'imperizia dei medici si potrebbe far rientrare in quella più ampia alle illusioni umane che rappresenta la dimensione più profonda del teatro del commediografo. Può dirsi, dunque, che Molière non abbia mai nutrito alcuna seria ostilità nei confronti dei medici. La stessa biografia dell'autore può risultare in questo senso illuminante: con Monsieur Mauvillain, suo medico personale, Molière avrebbe intrattenuto rapporti molto cordiali anche se non resisteva a fare ironia circa la necessità di assumere i farmaci da lui suggeritigli.

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