La tragedia della Polonia in guerra

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Rassegna bibliografica La tragedia della Polonia in guerra di Giorgio Vaccarino Dopo una molteplice produzione che lo pone alla testa della storiografia sulla resistenza francese e sulla seconda guerra mondiale, Henri Michel si è ora impegnato in una mo- nografia di vasto respiro, quale soltanto una matura preparazione può consentire, sulla tragedia polacca che culmina — ma non fini- sce — con l’assedio e la distruzione di Varsa- via {Et Varsovie fu t détruite, Paris, Albin Michel, 1984, pp. 455). Dopo tre spartizioni, la più recente vicen- da nazionale polacca trae origine dalla fine della prima guerra mondiale quando, con il trattato di Riga del 1921, il paese riacquista la sua indentità ed i suoi confini, che esso manterrà sino alla duplice occupazione ger- mano-sovietica, conseguenza dell’alleanza contratta dai due potenti vicini nell’agosto 1939. Germania e Russia sono le due principali potenze che tradizionalmente hanno attenta- to alla sua indipendenza, spartendosene vol- ta a volta le spoglie, nel confronto delle qua- li la Polonia deve necessariamente guardar- si, ma in realtà con una ambigua equidistan- za, dopo che la Russia oltre che imperialista è divenuta sovietica. E tale condotta essa persegue con mentalità risorgimentale, su- bordinando al problema primo dell’indenti- tà da salvaguardare quello della modernità delle istituzioni, così come l’attenzione alle sollecitazioni ideologiche e sociali che fer- mentano nell’Europa nel secondo quarto del secolo. Simbolo della nuova Polonia del secondo dopoguerra è il maresciallo Josef Pilsudski, il salvatore del paese sulla Vistola nel 1920 contro l’offensiva del rivitalizzato esercito sovietico (J.P. Year 1920 and its climax Bat- tle o f Warsaw, during the Polish-Soviet War 1919-1920, Pilsudski Institute, London-New York, 1972). Dalle originarie convinzioni so- cialiste egli si converte ad un modello di fie- rezza nazionalistica che gli appare come la principale garanzia dell’indipendenza del paese, e procede all’idealizzazione dell’eser- cito nel segno dell’unità della Polonia e ad una organizzazione autoritaria attorno alla sua persona che, anche se non si confonde con i fascismi di moda, suscita un’opposi- zione nei democratici dei rinati partiti e nei comunisti. I rappresentanti del centrosinistra, che avevano continuato a sperare che la sollecita- zione esercitata attraverso il parlamento avrebbe indotto Pilsudski ad un compromes- so, trovarono il 31 ottobre 1929 l’aula occu- pata da centocinquanta ufficiali armati, pe- netrativi per ordine del colonnello Beck, allo- ra sottosegretario alla guerra. Peggiore sorte toccò ai comunisti, i quali dopo aver sostenu- to il “maresciallo” — per una erronea valuta- zione moscovita — nel colpo di stato militare del 1926 contro il parlamentarismo borghese, patirono il carcere della Sanacja, o movimen- to del “risanamento” (cfr. nostro, Storia del- la Resistenza in Europa 1938-’45, parte IV, Polonia, Milano, Feltrinelli, 1981). Italia contemporanea”, giugno 1985, n. 159.

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Rassegna bibliografica

La tragedia della Polonia in guerradi Giorgio Vaccarino

Dopo una molteplice produzione che lo pone alla testa della storiografia sulla resistenza francese e sulla seconda guerra mondiale, Henri Michel si è ora impegnato in una mo­nografia di vasto respiro, quale soltanto una matura preparazione può consentire, sulla tragedia polacca che culmina — ma non fini­sce — con l’assedio e la distruzione di Varsa­via {Et Varsovie fu t détruite, Paris, Albin Michel, 1984, pp. 455).

Dopo tre spartizioni, la più recente vicen­da nazionale polacca trae origine dalla fine della prima guerra mondiale quando, con il trattato di Riga del 1921, il paese riacquista la sua indentità ed i suoi confini, che esso manterrà sino alla duplice occupazione ger­mano-sovietica, conseguenza dell’alleanza contratta dai due potenti vicini nell’agosto 1939.

Germania e Russia sono le due principali potenze che tradizionalmente hanno attenta­to alla sua indipendenza, spartendosene vol­ta a volta le spoglie, nel confronto delle qua­li la Polonia deve necessariamente guardar­si, ma in realtà con una ambigua equidistan­za, dopo che la Russia oltre che imperialista è divenuta sovietica. E tale condotta essa persegue con mentalità risorgimentale, su­bordinando al problema primo dell’indenti- tà da salvaguardare quello della modernità delle istituzioni, così come l’attenzione alle sollecitazioni ideologiche e sociali che fer­mentano nell’Europa nel secondo quarto del secolo.

Simbolo della nuova Polonia del secondo dopoguerra è il maresciallo Josef Pilsudski, il salvatore del paese sulla Vistola nel 1920 contro l’offensiva del rivitalizzato esercito sovietico (J.P. Year 1920 and its climax Bat­tle o f Warsaw, during the Polish-Soviet War 1919-1920, Pilsudski Institute, London-New York, 1972). Dalle originarie convinzioni so­cialiste egli si converte ad un modello di fie­rezza nazionalistica che gli appare come la principale garanzia dell’indipendenza del paese, e procede all’idealizzazione dell’eser­cito nel segno dell’unità della Polonia e ad una organizzazione autoritaria attorno alla sua persona che, anche se non si confonde con i fascismi di moda, suscita un’opposi­zione nei democratici dei rinati partiti e nei comunisti.

I rappresentanti del centrosinistra, che avevano continuato a sperare che la sollecita­zione esercitata attraverso il parlamento avrebbe indotto Pilsudski ad un compromes­so, trovarono il 31 ottobre 1929 l’aula occu­pata da centocinquanta ufficiali armati, pe­netrativi per ordine del colonnello Beck, allo­ra sottosegretario alla guerra. Peggiore sorte toccò ai comunisti, i quali dopo aver sostenu­to il “maresciallo” — per una erronea valuta­zione moscovita — nel colpo di stato militare del 1926 contro il parlamentarismo borghese, patirono il carcere della Sanacja, o movimen­to del “risanamento” (cfr. nostro, Storia del­la Resistenza in Europa 1938-’45, parte IV, Polonia, Milano, Feltrinelli, 1981).

Italia contemporanea”, giugno 1985, n. 159.

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Isolatosi dagli oppositori democratici, che esso accusava di “socialfascismo”, il partito comunista polacco fu sciolto da Stalin nel 1938, sotto l’accusa di “deviazionismo di de­stra e di sinistra” , di contaminazione fascista e trotzkysta, di nazionalismo borghese. Co­loro che per sfuggire alla prigione polacca ri­pararono in Urss caddero quasi tutti vittime delle purghe staliniane; in particolare coloro che avevano combattuto nelle brigate inter­nazionali di Spagna e che ora venivano accu­sati da Stalin di aver collaborato con i socia­listi. Per singolare ironia, si salvarono tutti quelli che erano rimasti nelle patrie carceri polacche.

Il partito comunista fu così ridotto a pic­coli gruppi soprattutto giovanili, che dopo l’aggressione tedesca del settembre ’39 parte­ciparono alla difesa di Varsavia, nei batta­glioni operai creati dai socialisti. Ma sorpresi dal patto di amicizia tedesco-sovietico dell’a­gosto, che neppure essi avevano conosciuto, venivano ora doppiamente sospettati da Mo­sca per aver combattuto gli alleati tedeschi e per averlo fatto con i socialisti. Malgrado le purghe, malgrado il patto germano-sovieti­co, malgrado le condanne formali essi erano rimasti nei circoli degli Amici dell’Urss. “È difficile immaginare — osserva Michel — maggior dedizione ad una causa, ed al paese che l’incarna”. La sofferta vicenda dei co­munisti polacchi, costretti ad una permanen­te condizione minorile dalla loro appassiona­ta sudditanza ideologica, è trattata dal Mi­chel con umana sensibilità, come una faccia pur essa patetica della più grande tragedia polacca.

Nella resistenza opposta ai tedeschi inva­sori dal settembre ’39 la separazione tra i po­litici dei partiti democratici (contadino, so­cialista e democratico-nazionale, oltre ai gruppi minori) e i militari già pilsudskisti pa­re ora superata dall’invito rivolto ai vecchi politici dell’opposizione di venire a far parte della direzione resistenziale. Il nuovo pre­mier, generale Sikorski, antipilsudskista, rac­

comanda al generale Tokarzewski, incarica­to della riorganizzazione militare clandesti­na, di dare largo spazio alle forze politiche, in modo da assicurare una loro posizione di equilibrio, se non di prevalenza, agli occhi di una opinione pubblica che ha bisogno di ri­conoscersi in un’autorità nazionale, rinvigo­rita e rinnovata dopo la catastrofe. Cionono­stante sono ancora gli ufficiali di carriera so­prattutto a ricoprire i quadri della resistenza a dimostrazione di una continuità che è diffi­cile rinnegare d’un tratto.

A sua volta la Chiesa non si riconosce e non ha bisogno di operare in un suo partito cattolico, tanto è forte la sua compenetrazio­ne, a tutti i livelli, nella compagine sociale del paese, e tanto alto l’ascendente, che ac­quista dal generoso sacrificio dei suoi mini­stri, a difesa delPintegrità religiosa e dell’i­dentità nazionale: a 2.800 ammontano i preti e i religiosi caduti nella lotta nazionale, tra cui sei vescovi.

Il partito comunista polacco con le sue deboli forze, è ricostituito ora da Stalin a Mosca, ma rappresenta pur sempre l’impo­polare occupazione sovietica nelle terre del­l’Est, avvenuta dopo l’invasione tedesca della rimanente e più ampia metà occidenta­le del paese. Anche senza aperti conflitti (tranne che da parte di esigui gruppi dell’e­strema destra fascistizzante che non fanno parte dell’esercito resistente), si costituisco­no le organizzazioni armate clandestine: as­sai presto l’Armia Krajova, o forza dell’in­terno, fedele al governo emigrato a Londra e solo più tardi, nell’aprile ’42, la Gwardia Ludowa dei comunisti. Anche la forza nu­merica delle due organizzazioni resistenti ri­sponde ai grandi orientamenti del paese nel 1944. A quasi 400.000 unità ammontano le forze della prima (di cui il 10% di donne) e a sole 20.000 quelle della seconda, destinate a salire sensibilmente — osserva l’autore — nelle ultime fasi del conflitto, sotto l’in­fluenza sconvolgente dell’Armata rossa avanzante, che fornisce armamento pesante

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e istruttori e favorisce le possibilità di reclu­tamento.

Il regime del terrore imposto dall’occupa­zione tedesca non ha possibilità di confronto con qualsiasi altro, sia nelle terre occidenta­li, annesse direttamente alla Germania, sia nel centrale “Governatorato generale” (ove sono Varsavia e Cracovia), con le indiscri­minate eliminazioni di massa, soprattutto a Varsavia, ancora più largamente perpetrate contro gli ebrei (si pensi ai ghetti e alla loro sistematica eliminazione), con la deportazio­ne al lavoro coatto di due milioni di polacchi (oltre ai 400.000 prigionieri di guerra), con la spoliazione economica, una delle più de­vastanti in Europa, con la forzata germaniz­zazione della vita civile, sino alla rieducazio­ne ariana dei fanciulli, razzialmente “adat­ti” , che vengono a questo fine deportati in Germania.

Anche l’occupazione sovietica nelle terre orientali è pesante, con la sistematica sovie- tizzazione, con la deportazione a più riprese di 1.200.000 cittadini, dissidenti o sospetti, specialmente nella fascia degli intellettuali, docenti, ecclesiastici e funzionari, con la cac­cia ai militari che ripiegavano nel settembre ’39 sotto la pressione tedesca e che furono catturati al momento in cui tentavano di su­perare il confine rumeno, per andare a rico­stituire i resti dell’esercito in Occidente. Tutti costoro furono deportati nel profondo del- l’Urss, nei deserti del Kazakistan o nelle lan­de siberiane del Nord, fino alle miniere di Kolima, ove il termometro supera i —50 gra­di centigradi, e dove gli inviati del generale Anders andranno a ricercare i pochi soprav­vissuti, per costituire — dopo gli accordi di Sikorski con Stalin — un’armata polacca de­stinata a combattere, almeno secondo l’ini­ziale progetto, a fianco dell’esercito sovieti­co. Ma per quanto sia assurdo lo stato di guerra con l’Urss e pesante la sua repressio­ne, questa non è confrontabile con la rabbia razziale e antislava di Hitler. In compenso la polizia segreta sovietica è assai più penetran­

te e subdola, quasi da “ingegneri dell’ani­ma”, come è stato detto da Michel Borwicz.

La clandestinità polacca difende soprat­tutto lo spirito della nazione contro lo smembramento e l’atomizzazione sociale (Jan Tomak Gross, Polish Society under German Occupation. The Generalgovern- ment, 1939-1944, Princeton University Press1981). Le scuole sono chiuse dagli occupanti, tranne le primarie per consentire soltanto quel minimo di conoscenze necessarie ad un popolo destinato a servire. L’insegnamento è allora continuato clandestinamente, sino alle dissertazioni di laurea ed alle non interrotte pubblicazioni scientifiche. Per tutta risposta molti docenti sono imprigionati e uccisi. L’organizzazione resistente si organizza sta­tualmente. Lo “stato clandestino polacco”, che ripete in sé gli stessi ministeri del governo emigrato e si regge sul consenso di un esiguo parlamento in cui sono rappresentati i parti­ti, è fenomeno unico in Europa. Confrontata con quella francese e con l’autoritarismo di De Gaulle, la clandestinità polacca — ri­conosce Michel — è retta più democratica­mente.

Una tale amministrazione si prepara per uscire allo scoperto, per insediarsi nella capi­tale una volta liberata dalle armi polacche, e per affermare dinnanzi al mondo l’irrinun- ciabile sua identità nazionale. Ma ciò essa deve fare prima che l’Armata rossa avanzan­te vi installi un governo del tutto minoritario e allineato, che Mosca tiene in serbo a Lubli­no. Per queste ragioni l’insurrezione di Var­savia dell’estate ’44, singolarmente sollecita­ta dalle radio sovietiche, ma non potuta con­cordare con l’Armata rossa, costituisce un’o­perazione militarmente antitedesca ma poli­ticamente sovietica, come afferma non a tor­to la storiografia filorussa (J. Kirchmayer, L ’insurrezione di Varsavia, Editori Riuniti, Roma 1963). Nonpertanto essa rappresenta, con i suoi sessantatré giorni di terrificante battaglia e i suoi 200.000 civili uccisi, oltre ai20.000 caduti delle forze combattenti, la più

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rilevante manifestazione resistenziale in Eu­ropa.

Nessuna resistenza — osserva giustamente Michel — è stata così generosamente spesa e così ingiustamente ripagata da tutti gli allea­ti. L’Urss si trincera a lungo in un assurdo stato di guerra, contro un paese, alleato a pieno diritto, e non ne riconosce ovviamente il governo in quanto esso si ostina a rifiutare la cessione delle terre orientali, già acquisite aH’Urss dal patto (ora impropriamente scon­fessato) con Hitler nell’agosto ’39. Ma anche gli anglo-americani, in omaggio alle ragioni della grande alleanza, impongono con mala grazia tale cessione ai polacchi così come gli anglo-francesi, per amore di una pace fitti- zia, hanno imposto nel ’38 ai cecoslovacchi la cessione dei Sudeti alla Germania.

Il continuare a resistere in una battaglia perduta è proprio dell’animo dei polacchi. Fedeli ad un’alleanza che li rinnega, essi in­tendono affermare, contro tutte le avversità, che la Polonia esiste ancora, convinti che il sacrificio pagherà a termine. Essi hanno per­duto militarmente e politicamente — osserva Michel — ma moralmente hanno vinto. An­che Stalin, che ha volutamente ignorato il sa­crificio di Varsavia e ha atteso, con le sue forze ferme nei sobborghi della capitale, che questa venisse rasa al suolo dai tedeschi (ed ha poi proditoriamente arrestato e condan­nato i suoi capi) ha perso un’occasione non ripetibile per fondare, con la riconoscenza dei polacchi, una possibilità tutta nuova di avvicinamento e di accordo fra i due popoli.

Frequente, abbiamo già visto, è il confron­to, proposto da Michel, con gli avvenimenti francesi, quasi in un illuminante contrappun­to. Che sarebbe similmente accaduto di Parigi insorta, in quelle medesime settimane, se il ge­nerale von Choltiz avesse dato ascolto all’or­dine di distruzione di Hitler, qualora le forze alleate (e per prime quelle del gollista Ledere) non l’avessero alla fine raggiunta e soccorsa?

Non diversamente la seconda grave tensio­ne con l’Urss, che si identifica nella questio­

ne del nuovo potere in Polonia, dopo la solu­zione imposta di fatto al problema dei confi­ni, trova ancora una volta drammaticamente isolata la resistenza e il suo governo. Se Churchill tenta alla fine di irrigidirsi con i so­vietici, soccombe comunque sotto la impre­vedibile capacità negoziatrice di Stalin, forte non soltanto del successo delle sue armate ma del debole sostegno dato da Roosevelt, ingenuamente fiducioso nella democraticità di Stalin, alle tardive intenzioni di Churchill di ovviare alle conseguenze di questa nuova sconfitta diplomatica dell’Occidente.

Sulle lotte per il potere in Polonia e il di­stacco, non privo di cecità e grettezza, di Roosevelt dai problemi dell’Europa orientale (tutto preso com’egli era dai suoi equilibri elettorali, assai meno pressanti e drammatici invero di quelli dell’Europa sacrificata; e tut­to intento a blandire Stalin per averlo solida­le nell’ultima fase della guerra contro il Giappone), Henri Michel costruisce la parte più nuova e mediata della sua opera, in cui la franchezza dei giudizi va di pari passo con un costante controllo di obiettività e di informa­zione. Fra il resto egli contraddice giusta­mente la ormai generalizzata ipotesi che fos­se stata Jalta a dividere l’Europa (in realtà già divisa dagli accordi Churchill-Stalin a Mosca nell’ottobre ’44); mentre fu il tradi­mento di Jalta a confermare la frattura, e cioè il mancato impegno a consentire a molti paesi la libera scelta dei loro futuri governi.

Il libro di Henri Michel è forse la più catti­vante opera che io abbia letto su tutta la vicen­da polacca, poiché il quadro che egli traccia non è soltanto una penetrante sintesi degli av­venimenti e dei complessi problemi, ma anche la storia morale di un popolo, drammatica- mente abbandonato dagli alleati, che pur com­battevano nello stesso campo della liberazio­ne dal nazismo, e a cui i polacchi avevano of­ferto, senza nulla riavere in cambio, la più tragica messe di sacrifici che si ricordi di tutta la Resistenza in Europa.

Giorgio Vaccarino

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“Maestri e compagni” dell’antifascismodi Carlo Francovich

Sono questi (Norberto Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli editore, 1984, pp. 299, lire 25.000; Alessandro Galante Garrone, I miei maggiori, Milano, Garzan­ti, 1984, pp. 343, lire 18.000) due volumi che si integrano a vicenda, scritti da due au­tori dalla medesima fede ed entrambi pre­senti nella lotta antifascista, militanti nelle file del Partito d’azione. Ambedue, tuttora fedeli agli ideali professati ed elaborati negli anni del “roveto ardente”, sotto il mazzi­niano stimolo di pensiero e azione, fanno adesso i conti di ciò che debbono ai loro “maggiori” , maestri e compagni, scomparsi ora dalla scena politica.

Bobbio in una serie di saggi traccia i pro­fili di coloro che furono i padri e i promo­tori del rosselliano socialismo liberale, di Giustizia e Libertà, del liberalsocialismo, del socialismo riformista: Rodolfo Mondol- fo, Salvemini, Calamandrei, Omodeo, Ca­pitini, e via di seguito. Campeggiano sullo sfondo, anche se non chiamati direttamente in causa: Piero Gobetti e Benedetto Croce. Su quest’ultimo c’è (pp. 169-170) una viva­ce e verace pagina, scritta con garbata au­toironia, circa la sua grandissima influenza sui giovani, che sullo scorcio degli anni ven­ti si destavano alla vita intellettuale: “L’ini­ziazione a Croce offriva un criterio indiscu­tibile per distinguere in modo alquanto set­tario (non posso negarlo) gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati... L’autorità di Croce era indi­scussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri, che non li avevano accolti o li avevano sdegnosamente rifiutati. Croce era la voce del tempo”. Da parte mia aggiungerei, ma senza autoironia, che Croce aiutò anche molti di noi a passare da un antifascismo generico ed istintivo a

un antifascismo consapevole, fondato sulla filosofia della libertà.

Campeggia sullo sfondo, sebbene non chiamato espressamente in causa, Piero Go­betti, prevalentemente nel saggio su Augu­sto Monti. Ed è giusto, perché Monti “è stato uno degli interpreti più rigorosi e più convinti del messaggio gobettiano” che tra­smise, dalla cattedra del liceo D’Azeglio, a un’intera generazione di giovani, divenuti poi attivi oppositori del regime: da Giancar­lo Pajetta a Leone Ginzburg, da Cesare Pa­vese a Massimo Mila. In questo saggio si può leggere quella che, a mio giudizio, è la più bella e più chiara sintesi di Rivoluzione li­berale: “Una formula che comprende tre idee fondamentali: l’idea che una rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma inevita­bilmente nel suo contrario; l’idea che la tra­sformazione dello stato italiano non potrà av­venire se non attraverso un processo rivolu­zionario, un processo che altri paesi hanno avuto con la riforma o con la rivoluzione mentre l’Italia ha avuto la Controriforma in­vece della riforma, e il Risorgimento che in­vece di una rivoluzione è stato una conquista militare compiuta dall’alto; l’idea che nell’età dell’avvento del quarto stato, la rivoluzione non potrà essere fatta se non dal movimento operaio, non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha dimostrato di avere esaurito il suo compito” (p. 157).

I saggi di Bobbio si dividono in due cate­gorie. Quelli che propriamente spiegano e il­lustrano filosoficamente il pensiero dei “maestri” . Ed è questo il caso delle lucide analisi dedicate al marxismo di Rodolfo Mondolfo, al revisionismo empirista di Gae­tano Salvemini, nonché dei due bellissimi saggi (i migliori, secondo me) su Aldo Capi- tini. Essi enucleano e rendono evidenti le teo­

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rie capitiniane, così complesse ed astruse nel­la loro espressione scritta, quanto erano ac­cessibili nelle parole suasive del nostro indi­menticabile Gandhi italico.

Ci sono poi, oltre a quello di Eugenio Co- lorni, filosofo, europeista e vittima della be­stialità fascista, i ritratti di uomini più speci­ficamente impegnati nella lotta clandestina e che ora risuscitano nell’appassionata rievo­cazione dell’autore, che fu loro compagno e amico. Sono costoro, oltre al già ricordato Monti, Leone Ginzburg e l’eroico Antonio Giuriolo. La loro vicenda è narrata con stile che talvolta richiama alla mente le Vite Pa­rallele di Plutarco.

Infine il libro di Bobbio è prezioso non so­lo per i saggi citati, ma anche per l’affiorare ogni tanto di notizie inedite e comunque uti­lissime. Valga come esempio (nonché come testimonianza della inadeguatezza del recen­sore, ahimè, salveminianamente “non-filo- sofo”) la nota a pagina 147, nel saggio dedi­cato a Calamandrei scrittore politico. Ivi fi­nalmente si trova esattamente elencato l’iti­nerario di noi ex azionisti — guidati dall’in­trepido “Pippo” Codignola — attraverso i vari gruppuscoli minoritari, tra scissioni ed espulsioni, fino all’approdo in Unità proleta­ria e, per molti di noi anche nel partito socia­lista, liberato dal dogmatismo marxista e dal patto di unità d’azione.

Con lo stesso spirito di saldare un debito di riconoscenza è scritta l’opera di Galante Garrone, che ricorda i suoi maestri e i suoi compagni con impegno di storico, recando, nello stesso tempo, un notevole contributo su determinati avvenimenti citati nel corso del volume. Ai “vecchi” e venerati maestri, come Francesco Ruffini e Luigi Einaudi, si affiancano Omodeo, Salvatorelli e Jemolo, con i quali l’autore ebbe rapporti di recipro­ca amicizia, ed altri come Salvemini, Cala­mandrei, Ernesto Rossi, Parri e Livio Bian­co, che furono legati a lui da una assoluta identità di sentire nella vicenda politica e nel­la convivenza umana. Anche qui si ha una

galleria di personaggi, diversi fra loro ma ac­comunati dall’avversione al fascismo e dal­la volontà di rinnovare l’Italia nelle istituzio­ni, nel costume morale, attingendo fede e ra­gione dal nostro Risorgimento: spessissimo in queste pagine ricorre il nome di Mazzini, di Cattaneo, di De Sanctis. I saggi qui raccol­ti sono in gran parte già stati pubblicati, ma ora integrati e collegati fra loro; pubblicati talvolta su giornaletti partigiani, sfuggiti quindi anche al pubblico specialista, qui tro­vano la loro giusta collocazione. Saggi ricchi di nuove interpretazioni e di puntualizzazio­ni inedite, come ad esempio il capitolo Storia dì un giuramento (o piuttosto di un non giu­ramento) opportunamente inserito fra le pa­gine dedicate a Francesco Ruffini. Qui per la prima volta viene esposta, in ogni suo detta­glio la vicenda del giuramento imposto dal regime ai professori universitari (p. 32-47). Nuovo ed interessante è quanto l’autore scri­ve sull’opera storica e sull’attività politica di Adolfo Omodeo, nonché sui rapporti com­plessi di quest’ultimo con Gentile e con Cro­ce.

Ma le pagine più belle — a mio avviso — sono quelle dedicate a Salvemini e a Cala­mandrei, cui anche qui soccorrono testimo­nianze e lettere inedite, provenienti dall’ar­chivio dell’autore. Per Salvemini egli prende le mosse da quella splendida lezione tenuta all’Università di Firenze nel 1949, nel riassu­mere il posto che dovette abbandonare nel lontano 1926, per rivivere poi tutta l’attività di storico del Medioevo, della Rivoluzione francese, di Mazzini e di Cattaneo; la sua at­tività di socialista, degli anni dell’ “Unità” e dell’interventismo, del “Non Mollare!” e dell’esilio americano. Ed altrettanto sentite sono le pagine dedicate a Piero Calamandrei — cui è dedicato il saggio più lungo — le quali prendono le mosse dal famoso “Gior­nalino della domenica”, di Luigi Bertelli (Vamba), che, negli anni dell’interventismo e della prima guerra mondiale, infiammò una intera generazione di patriottismo democra­

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tico e repubblicano, affiancato purtroppo dal nazionalismo di padre Pistelli. Con mol­ta delicatezza Galante Garrone tratteggia i rapporti di Piero col padre Rodolfo e quelli ancora più complessi col figlio Franco. Esat­ta e documentata quella che per alcuni è tut­tora una vexata quaestio, della collaborazio­ne alla compilazione dei codici, cosiddetti fa­scisti. Nessun cedimento di Calamandrei di fronte a Dino Grandi, al quale era ben noto l’antifascismo del suo interlocutore, ma sol­tanto volontà di migliorare la legislazione della procedura civile, all’insegna del suo maestro Giuseppe Chiovenda; nessun incen­samento al fascismo o al duce, come del re­sto ben sanno coloro che furono suoi allievi, e che non gli hanno mai sentito nemmeno pronunziare, nel corso delle sue lezioni, il nome di Mussolini o del fascio: dalla sua scuola uscirono molti che si cimentarono nel­la lotta antifascista e nella guerra di libera­zione, come “Pippo” Codignola, Enzo Enri­ques Agnoletti, Carlo Fumo...

Né sfugge all’autore la finezza letteraria del suo protagonista, nel cui Diario rivivono alcune preziose pagine dell’Inventario di una casa di campagna, laddove si parla degli ozi forzati nel rifugio di Corcello. L’autore inol­tre pone giustamente in risalto come Cala­mandrei per primo intuisse la “spontaneità” del moto resistenziale e cita quella pagina fa­mosa (p. 217) in cui Calamandrei definisce la Resistenza come “quel misterioso e miraco­loso moto di popolo, questo miracoloso ac­correre di gente umile, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momen­to di prendere il fucile... cosicché vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica... come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno”. E tale modo di ragionare Calamandrei lo attinse dalla pro­pria esperienza, vissuta in Toscana, in Um­bria, vale a dire nell’Italia mezzadrile, dove realmente ci fu questo concorso attivo dei contadini alla guerra di liberazione. Né sfug­ge a Galante Garrone quella che si chiama il

fondo dell’anima, cioè la consapevolezza del mistero in cui siamo immersi. Ne è simbolo quella farfalla del Poveromo “che ogni anno tornava, con una puntualità quasi paurosa, latrice di qualche misterioso presagio o mes­saggio”. Cosicché, se non possiamo parlare di un Calamandrei credente, esiste almeno un Calamandrei “rispettoso di ogni fede reli­giosa”, poiché, come ebbe a dire in un di­scorso alla Costituente: “La religione è una cosa seria, poiché la cosa più seria della vita è la morte” (p. 202).

Ma mi dilungherei troppo se dovessi se­gnalare tutte le pagine interessanti e convin­centi. Alcune addirittura attuali, come le ine­dite parole che Jemolo scrisse all’autore sul caso Reder, parole bellissime, che se non al­tro trovano il pieno consenso dello scrivente. C’è poi il saggio dedicato ad Ernesto Rossi con una opportuna rivalutazione de II man­ganello e l’aspersorio e una lettura in positi­vo del suo anticlericalismo.

Quello però che in questa sede mi preme di porre in rilievo è il capitolo che raccoglie gli scritti dedicati a Ferruccio Parri, in cui si ri­vendica con nuovi apporti documentari non tanto l’azione militare quanto quella politi­ca, condotta all’insegna dell’unità antifasci­sta. Azione iniziata già da Carlo Rosselli in Francia nei mesi precedenti la sua morte. E viene a questo proposito riesumata la pole­mica con Indro Montanelli, assai screanzato nei confronti di “Maurizio”, anche se in se­guito corresse la sua valutazione, limitandosi — bontà sua — a definirlo “forte nel subire la persecuzione”, ma “debole nell’azione po­litica” . Molto opportunamente Galante Gar­rone ricorda come fosse merito di Parri l’a­vere affermato nel novembre del 1943, di fronte agli emissari alleati, la Resistenza ita­liana come guerra di popolo e non come or­ganizzazione di pochi nuclei efficienti adde­strati al sabotaggio e alle informazioni politi­co-militari, come essi avrebbero voluto. E anche questa fu una riuscita azione politica, come quando, dopo la liberazione, nei pochi

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mesi in cui resse il governo, egli seppe af­frontare, in mezzo ad enormi difficoltà eco­nomiche, il separatismo siciliano, e dette l’avvio al cambio della moneta, onde realiz­zare una perequazione fiscale.

Se i suoi disegni si realizzarono solo in par­te, la colpa non fu di “Maurizio”, ma fu ra f­fermarsi della politica compromissoria dei tradizionali partiti politici. Fu però valida azione politica l’avere lottato contro l’ege­

monia democristiana, capeggiando nel ’53 Unità popolare, ultima propaggine del Parti­to d’azione, che impedì l’instaurarsi di un re­gime cattolico.

Non qui finisce l’opera di Galante Garro­ne. Essa si conclude con brevi ricordi di ma­gistrati “compagni e maestri” dell’autore: Alvazzi Delfrate, Manfredini e Peretti Griva.

Carlo Francovich

Francesco Saverio NittiUn “esperto politico”

di Maria Malatesta

L’imponente biografia su Nitti scritta da Francesco Barbagallo (Nitti, Torino, Utet, 1984, pp. 681, lire 52.500) per la collana “La vita sociale della nuova Italia” fondata da Nino Valeri, colma uno strano vuoto storiografico relativo a questo grande intel­lettuale ed uomo di stato. La bibliografia specifica su Nitti dalla fine degli anni cin­quanta al 1983 comprende meno di quindici titoli, incluse le pubblicazioni di carteggi e di inediti non contenuti nell’edizione nazio­nale delle sue opere. La contraddittoria e spesso avversa fama, di cui godette Nitti nel corso della sua vita, ha esercitato i suoi in­flussi anche sul piano storiografico. Il silen­zio è stato interrotto da valutazioni spesso parziali, derivate dall’analisi settoriale di al­cuni periodi della sua attività politica o di aspetti particolari della sua produzione teo­rica. Il taglio biografico ha restituito il sen­so della continuità e della completezza di una vita e di una carriera, consentendo di individuare le linee di persistenza di un tra­gitto politico ed umano con una precisione dovuta tanto all’ampiezza e pluralità delle fonti utilizzate, quanto alla stessa dimen­

sione temporale nella quale si svolge. Il lun­go periodo è fondamentale nella valutazione storiografica di Barbagallo. Il giovane Nitti meridionalista, il tecnocrate, l’uomo di sta­to del primo dopoguerra, il grande vecchio escluso dalla ricostruzione politica ed istitu­zionale della nuova Italia rivelano un dato comune, sovente sottovalutato o negato dal­la storiografia precedente: Nitti fu essenzial­mente un politico.

“Animale politico” , piuttosto che tecno­crate o “uomo del capitale” . La sua tor­mentata carriera di uomo di stato, i falli­menti che gli sono stati imputati, non sono riconducibili ad una presunta incapacità di progettazione politica globale, dovuta alla sopravvalutazione di un’ottica produttivisti­ca ed efficientistica. Nitti fu un grande pro­gettatore, un elaboratore di piani proiettati nel futuro, con una rara prerogativa di anti­cipare tempi politici e sviluppi economici. Gli mancò la capacità contingente di calco­lare nel presente il peso reale di quei fattori che ostacolavano la realizzazione delle diret­tive da lui individuate per realizzare la cre­scita del paese.

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Capacità intellettuali, rigore morale e passione disinteressata per la politica. Ma anche “io” ipersviluppato, tanto da ritener­si sempre “l’artefice” di ogni situazione. Carattere fortemente polemico, oltre che ipercritico, con una decisa propensione alla lotta, quando non alla rissa. Uomo dai grandi odi e dai titanici rifiuti. Il personag­gio Nitti emerge in tutta la sua corrucciata complessità: dalla sua proiezione nel futuro, durante il periodo liberale, al ripiegarsi, da­gli anni del fascismo, nel mitico passato di un’Europa scandita da un armonico svilup­po del capitalismo, arroccato su di una con­cezione squisitamente liberale basata sulla competizione individuale.

Se non fu solo un tecnocrate, l’essere sta­to un “esperto politico”, un politico della competenza, fa di Nitti un personaggio sin­golare nel contesto italiano dell’epoca, assai più vicino a realtà europee più avanzate. Economista, professore di scienza delle fi­nanze, avvocato consulente di banche e grandi imprese: la sua per certi versi spetta­colare carriera è molto diversa da quella dei politici avvocati di formazione umanistica o dai politici burocrati. La cultura è per lui un business. Professionalità e politica si uniscono all’organizzazione culturale in un grande managering. Pagò duramente il prezzo per le sue molteplici attività che lo misero a contatto con il mondo degli affari e dell’industria. Barbagallo ha smontato puntualmente l’accusa che sia stato “uomo del capitale” , che abbia cioè favorito, quan­do era ministro e capo del governo, gli inte­ressi dei gruppi economici con i quali aveva avuto rapporti professionali come consulen­te di diritto commerciale e societario. Resta il dato sociologico di una concezione ed una pratica di una carriera svolta su molteplici piani, all’insegna dell’utilizzazione di una forte competenza tecnica e professionale. In questo può essere forse rintracciato un altro punto di contatto con Keynes, oltre ai più noti elementi di accordo sulle “conseguen­

ze economiche della pace” . Keynes sfrut­tò infatti le sue competenze di economi­sta soprattutto come attento e fortunato giocatore in borsa. Nitti alternava i periodi in cui fu ministro alla professione di avvo­cato commercialista, entrando personal­mente anche in imprese industriali e finan­ziarie.

Formatosi nell’ambiente della Napoli di fine Ottocento, si distacca per il suo attivi­smo dalla tipologia dell’intellettuale meri­dionale. L’homo novus, lo studente-lavora­tore che in brevissimo tempo raggiunge con la sua intelligenza ed abilità, ma anche con dure lotte, i più alti gradi accademici e poli­tici, elabora un grande modello di sviluppo economico e politico del paese, la cui forza dinamica ha una rispondenza antropologica con il suo autore. Dalla “questione meridio­nale” alla “questione industriale” . La pro­duzione di Nitti economista si snoda nella direzione di attribuire un ruolo centrale allo stato nel determinare le condizioni dello svi­luppo industriale: il raggiungimento cioè dell’autonomia energetica attraverso lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, rea­lizzabile solo tramite la nazionalizzazione del settore. Il modello di sviluppo nittiano presuppone una borghesia industriale pro­duttiva e progressista, uno stato interventi­sta nei settori cruciali dell’economia e della previdenza sociale, una classe operaia rifor­mista ed un regime di alti salari. Si configu­ra anche come un progetto politico di am­pio respiro, all’interno del quale emerge il ruolo dello stato come propulsore (non co­me sovvenzionatore) di una crescita econo­mica basata sulla priorità dell’industria e fi­nalizzata al raggiungimento di un equilibrio economico nazionale che colmi gli scarti tra Nord e Sud.

All’interno di questo progetto politico il governo dell’economia ha un posto determi­nante. In questo settore Nitti eserciterà la sua competenza tecnica prima come mini­stro di agricoltura, industria e commercio,

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poi come ministro del tesoro durante la guer­ra, accentrando in quest’ultimo dicastero po­teri assai vasti, forte della consapevolezza dei mutamenti che si stavano verificando all’in­terno della direzione pubblica dell’econo­mia. La tecnocrazia di Nitti si rivela, alla lu­ce degli eventi bellici e postbellici, non un li­mite delle sue strategie politiche ma piuttosto uno strumento per individuare i problemi economici da risolvere con urgenza: la ricon­versione industriale, l’arresto dell’ascesa dei cambi, la ricerca di crediti all’estero. La va­lenza della sua strategia di ricostruzione eco­nomica, basata sempre su di un accentuato produttivismo e su di un ulteriore potenzia­mento dell’interventismo statale, deve co­munque essere colta alla luce delle altre com­ponenti che qualificano la sua politica nei tre ministeri che, dal 1919 al 1920, lo videro ca­po del governo.

L’intensa attività di politica internaziona­le, tutta volta alla ricerca di nuove forme di cooperazione politica ed economica, che lo misero in aperto contrasto con la Francia e su posizioni filo-britanniche, costituisce il complemento della linea politica che tentò di svolgere all’interno. Ma allo stesso modo in cui il suo modello di sviluppo industriale era troppo avanzato per imporsi sui compromes­si con i ceti parassitari tipici dell’età giolittia- na, così nel periodo postbellico la coopera­zione ed il produttivismo non riescono a tro­vare nel paese interlocutori adatti, a diffe­renza di quanto stava avvenendo sul piano internazionale. La realizzazione del progetto di ricostruzione nittiano necessitava una col­laborazione tra capitale e lavoro che avrebbe dovuto esprimersi in una mediazione social- democratica “con forti caratteri tecnocratici, tendenzialmente corporativi” . Le spinte ri­voluzionarie della classe operaia, la crescita inarrestabile dei nazionalismi, il rifiuto delle forze economiche di abbandonare la visione dello “Stato-strumento” per quella di “Sta­to-coordinatore” di problemi sociali ed eco­nomici, provocarono il fallimento della sua

linea. In essa la difesa dello stato liberale da­gli opposti estremismi avrebbe dovuto rea­lizzarsi attraverso il passaggio dallo “stato conteso” allo “stato mediatore” .

Progetto politico ancora una volta troppo proiettato verso il futuro, anticipatore di mutamenti che si sarebbero verificati molto tempo dopo. È forse su questo terreno che può essere valutata meglio la capacità di Nitti di individuare le tendenze evolutive delle società contemporanee. Lo stato me­diatore, la politica di orchestrazione degli interessi, che ermergeranno nella fase di de­finitiva affermazione del capitalismo matu­ro, definiscono una linea che distacca pro­fondamente Nitti da Giolitti e dalla politica dell’età liberale, ancora basata su di una concezione ed una realtà dello stato conteso tra i vari gruppi di interesse. L’abuso stesso del decreto-legge che, quando era primo mi­nistro, gli fu imputato dai socialisti, costitui­sce un’altra anticipazione di una delle carat­teristiche dei sistemi politici attuali: il predo­minio dell’esecutivo sul legislativo.

Nitti teorico e politico del capitalismo ma­turo? È impossibile dare a questa domanda una risposta totalmente affermativa, dato che per certi aspetti restò profondamente se­gnato dal liberalismo otto-novecentesco. Prova ne è il suo pervicace rifiuto, anche do­po la seconda guerra mondiale, di riconosce­re il ruolo assunto dai partiti di massa all’in­terno del sistema politico. Un singolare cock­tail tra un’irriducibile fedeltà aH’elitarismo politico e una pragmatica opzione per il so­cialismo di stato. Questi aspetti ambivalenti gli resero difficile la coabitazione con gli uo­mini del suo tempo: Nitti, se così si può dire, produsse nemici su scala industriale. Anche questo dato è forse attribuibile a quello che Barbadoro definisce come il suo “positivi­smo totalizzante”, un realismo cioè che as­sunse sovente la forma di un’incapacità di valutare il peso effettivo degli avversari. Il radicalismo fu una sua caratteristica perso­nale, oltre che politica, che si trasformò, a

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partire dal 1921, in quell’atteggiamento di “sdegnoso salvatore della patria in attesa di richiamo che non avrebbe più abbandonato, in un duro quanto inefficace scontro con la realtà”.

Su queste posizioni, non comprendendo lui pure — come molti altri — agli inizi la ve­ra natura del fascismo, gli si oppone imme­diatamente in quanto governo fondato sulla violenza antistituzionale. Nel 1923, dopo i ri­petuti assalti fascisti, sceglie la via dell’esilio; nei ventun anni passati all’estero prosegue il suo percorso individuale, mantenendosi stac­cato dai gruppi resistenti riparatisi come lui in Francia. Fatto prigioniero nel 1943 dai te­deschi, torna in Italia senza aver potuto com­prendere il significato del movimento di libe­razione e assume puntigliose posizioni politi­che che lo isolano irrimediabilmente. Escluso con Orlando dalla commissione preparatoria del progetto della carta costituzionale, non riesce a portare a termine l’incarico di for­mare il governo datogli nel 1947, nonostante l’appoggio di socialisti e comunisti. Forte­

mente avverso al nascente regime democri­stiano, favorevole al piano Marshall ma con­trario al carattere militare del Patto atlanti­co, diventa l’artefice della lista di sinistra a Roma, per le elezioni amministrative del 1952. La distanza ideologica che lo separava dai comunisti viene superata in nome di una cooperazione volta a superare i blocchi con­trapposti e a fornire una fase efficace per la ricostruzione della nuova Italia.

A pochi mesi dalla morte, avvenuta il 20 febbraio 1953, il vecchio parlamentare espri­me in una lettera a Togliatti una rinnovata apertura verso il futuro, un progetto di colla­borazione tra movimento operaio, ceti medi democratici ed intellettuali. La battaglia per le amministrative conclude una vita dedicata alla politica, segnando al tempo stesso la fine di quella “chiusura individualistica” e il su­peramento della “difficoltà a comprendere le profonde trasformazioni avvenute nella so­cietà italiana dopo la caduta del fascismo”.

Maria Malatesta

Didattica della storia e riforma della scuoladi Biagio Passaro

La prospettiva di un’imminente riforma del­la scuola secondaria suscitò, verso la fine de­gli anni settanta, un coraggioso e originale dibattito sull’insegnamento della storia. Vengono allora proposti concetti come quelli di un più stretto rapporto tra ricerca e didat­tica, della critica al manuale e ai programmi ministeriali, del laboratorio di storia, della valenza scientifica e didattica di un nuovo ti­po di storia locale, dell’apporto delle fonti orali e delle scienze sociali: tematiche tutte

ben radicate nei più fecondi indirizzi storio­grafici contemporanei.

S’intravedeva allora un rinnovamento del­la didattica della storia che investiva l’intera scuola e tale da richiedere l’apporto di consi­derevoli forze culturali e politiche.

Ora, a pochi anni di distanza, la riforma della scuola secondaria sembra suscitare mi­nore eco e la sua elaborazione si inquadra in un contesto politico mutato. A molti infatti appare improbabile un rinnovamento radica­

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le della scuola con una classe politica che ten­de a presentare come impraticabile qualsiasi alterazione dei tradizionali equilibri di potere e poiché la scuola è certamente un anello im­portante di tali equilibri, se proprio non la si può utilizzare attivamente, si preferisce la­sciarla decadere.

In nome di un realismo, forse giustificabi­le, vengono avanzate proposte compatibili con gli attuali livelli di competenza del perso­nale docente, con le intramontabili certezze del manuale e della storia generale con le sue classiche periodizzazioni. Ci si ritiene soddi­sfatti di qualche correttivo, se grazie ad esso l’insegnamento viene impostato in maniera più problematica, arricchito con esercizi sul­l’uso delle fonti, come operazioni di smon­taggio e decodificazione di un testo storio­grafico.

Sono, certo, acquisizioni qualificate e ne­cessarie, ma parziali e inclini a far considera­re il rinnovamento solo una questione inter­na alla scuola e non un problema di rapporto diverso tra scuola e società.

Proprio su questo argomento il libro di Francesco De Bartolomeis Scuola e territo­rio. Verso un sistema formativo allargato, (Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 150, lire 12.500) mostra di non subire l’influenza di siffatti ripiegamenti; anzi la chiave di volta di tutte le argomentazioni è indicata nella fi­ne della “centralità” dell’istituzione scolasti­ca e la nascita di un “sistema formativo allar­gato” . Alla scuola, ormai trasformata in un sistema di laboratori, l’autore vede la neces­sità di affiancare, con piena dignità educati­va, le informazioni e le competenze profes­sionali di enti e istituzioni pubbliche e priva­te, amministrative e culturali, produttive e ri­creative, che operano sul territorio.

Un insegnamento, anche se metodologica­mente rinnovato, che si risolvesse esclusiva- mente nel chiuso della scuola, inevitabilmen­te rappresenterebbe un grave ridimensiona­mento dei propositi riformatori. Le stesse realtà sociali riportate a misura scolastica, ri­

sultano “fittizie, snaturate, irriconoscibili, private dei caratteri e dei nessi vitali che le determinano. Sono produttivi invece i rap­porti con le cose a dimensione reale, anche se pochissimi aspetti di essi possono essere compresi” (p. 37).

A ciò è dovuto l’inaridirsi di tante espe­rienze didattiche innovative ma ancora inse­rite in una scuola chiusa e autosufficiente. Anche nella pratica delle ricerche simulate, gli oggetti della realtà risultano falsi e fittizi; la realtà esterna viene rappresentata in ma­niera snaturata e irriconoscibile.

Per l’autore non si tratta di portare la realtà nella scuola, né al limite “fare scuola fuori della scuola” , come in altre occasioni egli stesso ha sostenuto; pur senza riconoscersi tra i fautori di una descolarizzazione, l’autore preferisce ora affermare che “non si deve fare scuola, né dentro né fuori la scuola” (p. 3).

Da questa affermazione consegue la neces­sità di una stretta connessione tra teoria e pratica, tra comprensione e produzione: “c’è rinnovamento educativo se non solo gli stu­denti ma anche gli insegnanti diventano pro­duttori di cultura” (p. 52). L’autore è da sempre favorevole all’assunzione di una me­todologia della ricerca che agevoli la trasfor­mazione della scuola in una “struttura di la­boratori”, culturalmente produttiva e che necessariamente conduca all’uso sistematico dell’esterno e del territorio.

E ancora, tiene a precisare De Bartolo­meis, che ciò che si considera “esterno” alla scuola è in realtà “interno'” all’individuo stu­dente; i due termini risultano complementa­ri: la centralità spetta agli studenti e alla loro esperienza.

Allo stesso modo è evidente che una didat­tica come ricerca non deve essere soffocata da un’eccessiva normativa delle tecniche, da rigide tassonomie, da esercizi solo di tipo ap­plicativo, insomma da un insegnamento di ti­po “grammaticale”.

E questo è più che evidente per una didat­tica della storia imperniata sulla ricerca. In

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realtà il libro non parla specificamente di storia, ma della storia dice cose che pochi storici saprebbero dire. “Il passato è un mo­do di essere dell’attualità”; e ancora: “il pas­sato agisce in noi, nelle cose di cui facciamo esperienza, nei modi di organizzazione della società e della vita privata, nelle leggi e nei costumi. Ha senso parlare di cause, di resi­stenza e di viscosità dei fenomeni, di strati..., di obiettivi di lotta, proprio perché il passato non è svanito” (p. 33).

La storia è quindi considerata una sostan­za vitale di cui siamo costruiti; ed è rilevante il posto che essa occupa nel “sistema forma­tivo” . Si prospetta la necessità di un insegna­mento “forte” della storia, praticato attra­verso ricerche didattiche che, a partire da ciò che è vicino nel tempo e nello spazio, utilizzi­no fonti e realtà presenti nel territorio. Non è pensabile un rinnovamento, fondato peral­tro sull’uso del laboratorio di storia, che elu­da la questione della storia locale.

De Bartolemeis ritorna sul concetto di “lo­cale” e di “cultura locale” e sostiene che so­no termini che non stanno affatto ad indica­re chiusura e limitazione, ma l’opposto. Il “locale” è individuabile in “area prossima a quella in cui vivono gli studenti, nei servizi della città, nei luoghi di produzione, nella campagna, nei cosiddetti servizi culturali”, ma anche “in altre città con cui le classi sta­biliscano rapporti di scambio” (p. 2) e anco­ra nelle “realtà lontane che esercitano in­fluenze pressanti” (p. 38). Quando si studia­no a fondo queste realtà locali, se ne scopre “la molteplicità di piani storici e di connes­sioni spaziali” (p. 32).

Ne è un esempio ciò che avviene quando si studia la storia della propria città, gran­de o piccola che sia, che non è possibile de­limitare entro un determinato territorio sen­za cogliere la rete di relazioni che l’attra­versa e la collega a realtà più ampie e signi­ficative.

Non vale la pena ripetere qui le critiche e le perplessità che accompagnano ogni discorso

sull’uso didattico della storia locale. L’auto­re, per evitare fraintendimenti riduttivi, pre­scrive raffronti, analogie, comparazioni che allarghino il campo di indagine evidenziando le connessioni e gli intrecci. Oltre a ciò, è co­munque decisivo che le ricerche sul territorio possano guidare verso aree avanzate della cultura.

È inutile nascondersi dietro la sicurezza dei programmi attuali, troppo estesi “in os­servanza a falsi criteri di coerenza storica e di completezza” (p. 32) e che già da tempo non garantiscono una formazione e un’istruzione adeguate, né rispetto ai bisogni del sistema produttivo, né rispetto alle esigenze di una società democratica.

Non sarà necessario né utile fornire agli studenti una massa di informazioni, quanto piuttosto gli strumenti mentali e operativi per cercare queste informazioni e imparare ad usarle nella realtà. Non basta inoltre co­noscere il presente e scoprirne lo spessore storico; è importante che la scuola insegni ad operare e a progettare il futuro, a predispor­re progetti operativi capaci di incidere sulla realtà.

È qui riaffermata la valenza trasformatri­ce e politica di un insegnamento e di una scuola che si fanno soggetti educativi concre­ti e adeguati. La nascita del “sistema forma­tivo allargato” richiede che la collaborazione tra la scuola e le realtà politico-amministrati­ve del territorio diventi sistematica e produt­tiva.

De Bartolomeis confida in un’estensione e in una precisazione delle competenze degli enti locali in materia di diritto allo studio, criticando come arbitraria la distinzione che assegnerebbe all’ente locale compiti assisten­ziali e solo all’amministrazione scolastica centrale, e alle sue articolazioni periferiche, le funzioni educative. Gli eccessivi timori di in­debite invasioni (per lo più attribuite agli enti locali), denotano una mentalità che per “oc­cuparsi di” intende tout court: “occupare”, “impadronirsi di ” . Questo potrebbe essere il

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punto di vista dell’amministrazione centrale, ma non è ciò che si intende quando si parla di funzioni educative anche degli enti locali.

Un altro elemento che l’autore ritiene deci­sivo — accogliendo la lezione degli storici delle “Annales” — è l’ampliamento del cam­po d’indagine anche agli aspetti materiali e quotidiani della vita (capitoli XIX e XX). Già nell’introduzione, De Bartolomeis si compiace che ormai “alla cultura come lette­ratura, poesia, saggistica, arti, scienza s’in­treccia la cultura materiale, un insieme di ele­menti che, pur avendo un peso enorme nella nostra esistenza, viene considerata indegna di attenzione culturale” . L’ambito della cul­tura materiale gli appare privilegiato anche per ristabilire un corretto rapporto tra scuola e territorio; un campo che senza forzature riapre la comunicazione tra l’esperienza sco­lastica e l’esperienza sociale e familiare degli studenti, cosa che invano si era cercato di at­tivare con gli asfittici organi collegiali.

In conclusione, un serio rinnovamento della didattica della storia deve poggiare per l’autore su un modello storiografico che per la varietà dei temi si presti ad indagini ravvi­cinate, si serva di fonti e realtà vicine a noi, ai nostri studenti; fonti che sono sotto gli oc­chi di tutti, nella nostra memoria, in quella

dei nostri parenti, nelle vie e nei palazzi delle nostre città e paesi. Non le solite ricerche d’ambiente — mette in guardia l’autore — intese come raccolta insignificante di notizie da enciclopedie, manuali, libri di storia cam­panilistica, che poi non è “ricerca” , ma inuti­le perdita di tempo.

Se il sottotitolo di un precedente libro di De Bartolomeis (Sistema dei laboratori, Mi­lano, Feltrinelli, 1978), diceva: Per una scuo­la nuova necessaria e possibile, questo Scuo­la e territorio ha il merito di fare intravedere questa scuola nuova e non solo come proget­to di un pedagogista, ma come una tendenza già in atto, già operante in tante parti del no­stro paese, anche se non ancora organica- mente strutturata e generalizzabile.

Le esperienze più valide vanno configu­rando non una scuola chiusa in se stessa, con pretese di autosufficienza, ma un sistema formativo allargato.

Una scuola che, se perde la sua astratta centralità, può acquistare quella funzione di laboratorio in cui i dati raccolti sul territorio vengono elaborati culturalmente, scientifica- mente per divenire ipotesi interpretativa, co­noscenza della realtà, progetto operativo.

Biagio Passaro

Storia dell’educazione, storia sociale e storia d’Italia

di Gaetano Bonetta

Alcuni anni fa, quando in molti auspicarono una crescita di interesse e un arricchimento metodologico degli studi di storia della scuo­la e dell’educazione non mancò chi espresse incredulità, scetticismo e indifferenza. Ma a

scorrere la produzione storiografica di questi ultimi tempi c’è da ricredersi: parecchie di quelle aspettative non sono andate deluse. Molti infatti sono stati i saggi dedicati ai pro­blemi storici dell’educazione, dall ’ancien ré-

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girne ai nostri giorni, che hanno non solo ar­ricchito il panorama degli studi storico-edu­cativi, ma sulla scia epistemologica della “geografia storica dell’educazione” hanno perfezionato e valorizzato una strumentazio­ne metodologica multidisciplinare e hanno fornito ulteriori elementi di chiarificazione di quel complesso universo socio-culturale, nonché politico ed economico, che è stata la storia dell’Italia contemporanea. Dei tanti lavori apparsi, per i quali sarebbe anche dif­ficoltoso solo compilare un elenco, in questa sede se ne vogliono prendere in esame alcuni che si sono mossi nelPambito della cosiddet­ta “storia locale” ed altri ancora che hanno tentato una riconsiderazione storiografica ed una riconsiderazione sintetica delle vicende scolastiche del nostro paese dal 1860 ad oggi.

Con Pane e grammatica. L ’istruzione ele­mentare in Romagna alla fine dell’800 (Mila­no, Angeli, 1983, pp. 176, lire 10.000) di Ste­fano Pivato la ricerca storico-educativa com­pie senz’altro un passo avanti sia dal punto di vista metodologico che da quello storio­grafico. Dal primo punto di vista, l’autore ha scavato con sicura perizia in quelle aree disciplinari (antropologia, sociologia, quoti­dianità, geografia storica ecc.) spesso eluse dalla storia delle istituzioni scolastiche e da quella pedagogica in genere. Dal secondo, l’autore risponde in pieno, senza ipostatizza­zioni di sorta, alle sollecitazioni emerse di re­cente circa l’esigenza di restringere ad un “campus” le ricerche storico-educative per fare chiara luce sull’articolato, diversificato e composito mondo “culturale” italiano di quegli anni, quando venivano avviati i primi seri tentativi per creare la “nazione” nelle sue strutture politiche, economiche, sociale e culturali.

La ricerca di Pivato — condotta prevalen­temente su fondi archivistici locali, sulle car­te del ministero della Pubblica Istruzione (depositate presso l’Archivio centrale dello stato di Roma), su una abbondante pubblici­stica coeva, e corredata di grafici e statisti­

che varie — prende le mosse dall’eredità sco­lastico-istituzionale, e culturale, dello Stato pontificio e da quanto nei primi anni post unitari si pose contro l’introduzione della nuova istruzione nazionale tendenzialmente laica e religiosamente positivista. Di qui per arrivare: in primo luogo, all’analisi dell’in­sorgenza dei molteplici fattori politici, cultu­rali ed economici che ostacolarono la realiz­zazione della speranza liberale e positivista di una generalizzata scolarizzazione popolare per una non molto vaga crescita civile del paese; in secondo luogo, allo studio di quelle istanze ideali e pratiche politiche, da un lato reazionarie e da un altro lato rivoluzionarie, che proprio a livello locale vollero orientare ed egemonizzare con carica e contenuti alter­nativi la “nuova” variabile socio-politica che venne ad essere la scuola elementare; le pri­me contenendo e clericalizzando l’istruzione, le seconde diffondendola e finalizzandola al­l’emancipazione culturale e politica delle classi subalterne.

E proprio dall’analisi di questa progettua­lità politico-culturale emergente ed alternati­va, benché di segno opposto — e da quanto potrebbe scaturire da una futura compara­zione con quanto avvenne politicamente in tante altre zone d’Italia — ci viene fornito un aspetto saliente e peculiare, generalizzato e ben strutturato nelle popolazioni della Ro­magna, ove i più generali fenomeni sociali acquistano una forte valenza politica. Infatti qui, più che altrove, dove pure con una con­flittualità in atto permaneva una certa disso­ciazione fra politica e società in genere, i pro­cessi educativi di socializzazione vengono più facilmente e naturalmente proiettati nella sfera del politico, la quale a sua volta va as­sumendo una autonomia non meramente so- vrastrutturale. Ciò naturalmente non sta a si­gnificare che 1’esistenza della scuola in Ro­magna fu un’esistenza “depedagogizzata” , quanto invece la rilevanza che nei processi educativi romagnoli ha assunto la loro natu­rale componente politica, nonché i condizio­

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namenti negativi o positivi che economia in genere, sistemi produttivi, sistema di valori culturali, stratificazione, mobilità, interazio­ne sociale hanno su di essi esercitato.

In questa “obbligata” direzione di ricerca, quindi, il lavoro di Pivato si snoda nell’indi­viduazione dei momenti e dei fenomeni dia­cronici, relativi anche all’istruzione informa­le, che contribuirono con forza a dialettizza­re il ruolo politico, economico e sociale della scuola primaria, nel suo aspetto istituzionale come pedagogico-culturale. In particolare l’attenzione dell’autore si posa sulla forma­zione e sull’analisi del progetto sempre più organico di una educazione anticlericale, sul­lo scontro politico e ideale di questo con il mondo e con il movimento cattolico, per giungere all’attività educativa delle società di mutuo soccorso e al programma del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, per il quale l’educazione rivestiva, come detto, una funzione ideologica e politica di fondamenta­le importanza per la rigenerazione delle mas­se popolari. Ad illustrare inoltre più compiu­tamente il panorama ideologico-culturale e pedagogico concorre la ricca appendice docu­mentaria, fondata per lo più su inediti, dove oltre ad essere ripresi i vari orientamenti poli­tici in tema di istruzione elementare vengono esposte quelle che furono le grandi direttive pedagogiche e didattiche che animarono le scuole primarie con alterno successo.

Utilizzando una omologa strumentazione metodologica, i medesimi paradigmi storio­grafici, sfruttando i fondi archivistici del Centrale di Roma e altri di livello provinciale e comunale, consultando una cospicua pub­blicistica coeva, Angelo Semeraro con Catte­dra, altare, foro. Educare e istruire nella so­cietà di Terra d ’Otranto tra Otto e Novecen­to (Lecce, Milella, 1984) ci porta nell’“uni­verso educativo” del tacco d’Italia, ovvero in un territorio con perimetri culturali, sociali, economici, istituzionali ben individuabili ove la “vicenda” scolastica, educativa che ci vie­ne raccontata sfuma, si integra, si confonde

con la più generale “vicenda” sociale ed umana. Cattedra, altare e foro ci fanno in­tendere tout court la caratterizzazione classi­sta dei processi educativi in Terra d’Otranto nel declinare del secolo diciannovesimo, la detenzione egemonica, ideologica e istituzio­nale, degli apparati di gestione dell’improro­gabile diffusione delle abilità fondamentali, saper leggere scrivere e far di conto, e della selettiva formazione dei quadri dirigenti lo­cali e non, delle élites politiche ed economiche.

I ceti più abbienti, quelli in genere domi­nanti, si davano, infatti, un gran da fare per lo sviluppo dell’istruzione popolare “perché attraverso questa passasse una educazione a sistema di valori che trovavano nell’immobi- lismo la possibilità della sopravvivenza” . La scuola andava assumendo “così sempre più esclusivamente il compito di educare alla le­galità e alla sopportazione del proprio stato. E i suoi tratti selettivi-cooptativi diventavano via via rigidissimi, giacché costituivano per i ceti popolari l’imbuto attraverso il quale si accedeva all’altra società” (pp. 19-20).

In tale disegno l’opzione educativa più che quella istruttiva dominò l’orientamento dello sviluppo scolastico lento ma continuo che era in corso. E benché non fossero mancati forze, gruppi, disegni che avrebbero voluto privilegiare nettamente per una diversifica­zione e crescita economica l’aspetto istrutti­vo della scuola, questa divenne “la santa scuola dell’educazione” , tutta tesa a mora­lizzare gli individui e la società, le relazioni interpersonali, parentali, pubbliche e sociali, e poi ancora il mondo del lavoro, della pro­duzione, i rapporti di produzione, i rapporti di potere. Nettezza morale divenne quindi si­nonimo di passività e neutralità sociale e po­litica per coloro i quali si erano da poco af­facciati al mondo della cultura scritta.

Una scuola così caratterizzata non poteva nei suoi ordini superiori non condurre ad una istruzione tendenzialmente ed esclusiva- mente letteraria che trovava ragion d’esse­re anche in un peculiare tessuto economico,

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piuttosto univoco. La città che altrove, e se­gnatamente in parecchie zone settentrionali, stava a significare urbanesimo ed industriali­smo, qui nel Salento “trae vita dal numero straordinario di enti collettivi che vi fiorisco­no” . “Certo — commenta un amministrato­re provinciale — noi vorremmo che accanto a quel po’ di floridezza che danno le ammini­strazioni pubbliche e gli stabilimenti educati­vi, vi fosse una vera e propria attività indu­striale; ma noi siamo ancora lontani dallo sperare tanto bene in un prossimo avvenire (...) non dobbiamo perciò perdere il vantag­gio che ci viene dalle indicate istituzioni” (p. 119).

Questo universo scolastico si fa più chiaro, la sua natura si rende più manifesta quando la narrazione di Semeraro prende a trattare delle tante altre vicende scolastiche, quali i tentativi di introduzione dell’istruzione agra­ria, dell’istituzione degli asili infantili, anco­ra “fra beneficienza privata e assistenza pub­blica”, della vita e dei problemi dei seminari, educandati, convitti, collegi e delle scuole di ordine secondario; e ancora delle vicende de­gli operatori scolastici, in particolare degli ispettori, “non solo inutili, ma dannosi”, e dei maestri, protagonisti di “storie di margi­nalità”. Per finire con le vicende di particola­re interesse che riguardano l’editoria scola­stica, i libri di testo, il metodo d’insegnamen­to, la didattica attraverso cui la giornata sco­lastica veniva riempita e i processi educativi acquistavano concretamente contenuti e va­lori.

Ancor più ispirato alla microstoria è il vo­lume di Simonetta Ulivieri, Gonfalonieri, maestri e scolari in Val di Cornia. Storia lo­cale di istruzione popolare (Angeli, Milano, 1985). Anche la Ulivieri quindi con questo suo nuovo saggio cerca e trova nuove fron­tiere, considerato il lento ed irreversibile esaurirsi della storia dell’educazione intesa come esclusiva storia delle idee e del dibattito pedagogico e la legittima diffidenza che va nutrita verso una storia delia legislazione e

delle istituzioni scolastiche troppo concen­trata sullo svolgimento nazionale, sulle me­die statistiche, sull’aggregazione di dati e fat­ti poco omogenei. L’autore, infatti, ferma la propria attenzione su una zona abbastanza ristretta, la piccola città di Piombino e il ter­ritorio ad essa circostante, con il deliberato scopo di arricchire la mappa nazionale dell’i­struzione post unitaria, indispensabile per comprendere fino in fondo e nella loro preci­pua natura i nodi storici e reali della scuola del nostro paese.

Attraverso l’utilizzazione di materiale ar­chivistico inedito viene messa a fuoco la vita scolastica piombinese sia nelle componenti fisiche che culturali in senso lato. Emerge netta una “meridionalizzazione” di tutto l’apparato scolastico: mancanza di edifici, di suppellettili e materiale didattico, livelli igie­nici inaccettabili, mancanza di aria e di luce negli ambienti scolastici. Altrettanto nette sono la subordinazione diffusa dei maestri, la loro scarsa professionalità e il loro scarso prestigio sociale; l’incompletezza e l’improv­visazione dei metodi d’insegnamento, della didattica in genere, e la mancanza quasi tota­le della ginnastica educativa e dell’istruzione agraria; infine la scarsa frequenza scolastica, ovvero la notevole evasione dell’obbligo sco­lastico determinata per gran parte dal lavoro minorile. Questo quadro si completa e si ar­richisce con una singolare appendice ragio­nata di regolamenti, rapporti, relazioni, no­te, bandi, lettere ecc. che animano e vivifica­no la narrazione della Ulivieri.

Spesso per simili percorsi disciplinari, gio­vani e probabilmente scientificamente “in­compiuti” , si esigono sia da un punto di vista metodologico che cognitivo, tematico, mo­menti di riflessione, di analisi retrospettive su quanto finora emerso e, perché no, di ge­nerali riconsiderazioni teoriche. Ciò è quan­to si è avvertito per la nostra complessiva e giovane storiografia sulla scuola italiana e ciò è quanto è stato fatto da Giorgio Canestri con Centoventanni di storia della scuola 1861-

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1983 (Torino, Loescher, 1983, pp. 96, lire 7.500) e da Dario Ragazzini con Storia della scuola italiana. Linee generali e problemi di ricerca (Firenze, Le Monnier, 1983), i quali tra l’altro hanno redatto volumi di sicuro successo per Faggiornamento degli insegnan­ti e dato un contributo ragguardevole alla di­vulgazione dei temi e dei nodi storici della nostra scuola dall’Unità in poi.

I due volumi, tuttavia, quantunque siano omologhi per la legittima esigenza di fare il punto su quanto finora prodotto, per l’aver avvalorato certi paradigmi storiografici e per il loro carattere pedagogicamente e profes­sionalmente “militante”, differiscono non poco nella loro conformazione, nella loro struttura.

II libro di Canestri, che si distingue per ra­ra sinteticità e tecnica espositiva, pone forse la parola fine alle riemergenti e spesso acca­demiche discussioni circa la più pertinente periodizzazione storica della scuola italiana. Infatti per Canestri da un punto di vista poli­tico e culturale tre sono i grandi periodi di spiccata caratterizzazione ideale, educativa ed istituzionale della nostra storia scolastica, vale a dire quelli liberale, fascista e repubbli­cano. Per ognuno di questi tre periodi scorre una veloce e chiara narrazione dei momenti, delle leggi, dei personaggi, dei problemi, dei

movimenti ideali e politici, dei fenomeni so­ciali ed economici, delle correnti filosofiche e pedagogiche che hanno fatto la cosiddetta storia “pluri-evenemenziale” della scuola ita­liana, per la comprensione della quale inoltre sono utilissime la “cronologia” dei momenti legislativi e politici più salienti e la “nota bi­bliografica” ordinata per periodi e temi che il Canestri ci ha apparecchiato.

Il volume di Ragazzini è composto diversa- mente. Nella prima parte “è proposta una sintesi di storia della scuola in Italia dagli in­tenti espositivi, nella seconda è proposto il te­ma delle relazioni intercorrenti fra storiogra­fia educativa, teoria della scuola e teoria della storia” (p. 5). In particolare Ragazzini con questo suo nuovo lavoro ci vuole dare un rag­guaglio “sullo stato degli studi storici in cam­po educativo, una illustrazione dei dibattiti in corso e delle nuove tendenze della ricerca, una riflessione sul significato che la storia dell’educazione ha per la comprensione degli odierni problemi educativi” (ivi). In questa direzione vengono ribaditi i nuovi orizzonti proposti dalla più recente storiografia, il bi­sogno di una necessaria multidisciplinarità e precisati i comparti tematici interessati ad una composita ricostruzione storica dei pro­cessi educativi.

Gaetano Bonetta

R assegna della sta m p a su l X L della liberazione

“Il Corriere della Sera”

Lucio Colletti ha aperto un di­battito (L ’a lib i d e l l’an tifasci­sm o , 24 marzo) sul tema dell’i­dentità tra antifascismo e de­mocrazia affermando che “la tesi è in apparenza ovvia; in realtà, cela un equivoco”, giac­ché “se la democrazia... non può non essere antifascista, non

sempre è vera l’affermazione inversa”. L’unità d’azione rea­lizzatasi durante la Resistenza avrebbe pertanto rivestito un carattere puramente operativo, tanto è vero, prosegue Colletti, che nel dopoguerra “chi teneva ai valori della democrazia oc­cidentale e sul fondamento di essi intendeva ricostruire il Paese... fu costretto a rompere l’unità antifascista per uscire dall’equivoco della collabora­zione con quanti guardavano all’Unione Sovietica come allo

Stato-guida e alla dittatura del partito unico come al fine ulti­mo”. Alle affermazioni di Col­letti, Paolo Spriano {Il germ e p lu ra lista nel cuore d e l C L N , 26 marzo) replica sottolineando che l’unità antifascista “fu rea­lizzata su una piattaforma di principio e problematica che era quella della ‘democrazia’ (e ribadendo che “nessuno dei ‘mondi’ nei quali si raccoglie­vano le forze fondamentali del­la società italiana era di per sé acquisito alla democrazia poli­

Rassegna bibliografica 137

tica nel 1943” . Su una linea in parte analoga si muove anche l’intervento di Pietro Scoppola (I veri m eriti d e l C L N , 3 aprile), secondo il quale se “è vero che l’antifascismo non è uguale alla democrazia”, è “vero anche che l’unità antifascista... è stata una scuola di democrazia” e che in ogni caso “non si può rovesciare la giusta distinzione tra antifa­scismo e democrazia in una identificazione tra anticomuni­smo e democrazia”. Gli articoli di Adrian Lyttelton (D im en tica ­re T oglia tti, 2 aprile) e di Piero Melograni (M asoch ism o s to r i­co , 2 aprile) sviluppano a loro volta tematiche parallele al que­sito sollevato da Colletti. Lyttel­ton affaccia il discorso sul nodo di interessi sociali che, al di là delle contrapposizioni ideologi­che, portarono all’esaurimento dell’unità antifascista; Melogra­ni accomuna antifascismo e fa­scismo in un’unica condanna in quanto serbatoi di “idee anti­moderne” e proclama la necessi­tà di “capire che l’Italia chiede ancora alla sua classe politica quella modernizzazione che né il fascismo né l’antifascismo sep­pero darle”.

Non mette naturalmente con­to di sottolineare i risvolti che collegano il dibattito di allora all’attualità politica ed in parti­colare a quanto è definibile co­me “questione comunista”. L’uso del passato, anche nelle sue forme più esasperate, costi­tuisce la condizione stessa della discussione e ne determina la potenziale ricchezza. Ciò che colpisce, in questo ambito, è piuttosto il perpetuarsi di una tendenza (esemplarmente docu­mentata dall’articolo di Collet­ti) a frapporre nel rapporto tra passato e presente un ieri fittizio

che proprio perché tale ottunde anziché chiarire le posizioni a confronto. Le diversità e con­trapposizioni ideologiche inter­ne allo schieramento antifasci­sta sono da sempre un minimo comun denominatore della sto­riografia in materia; ma il pro­blema storico, che è anche di oggi, consiste appunto nel chie­dersi come queste diversità e contrapposizioni sono state vis­sute dentro e fuori gli stati mag­giori dei partiti, come si so­no intersecate con le altre mol­teplici spinte che hanno gover­nato il movimento di resistenza e quale peso queste esperienze abbiano esercitato sulla fonda­zione dell’Italia repubblicana. Fuori di tale contesto (richia­mato intonazioni diverse da Spriano, Scoppola e Lyttelton) l’appello alle certezze demo­cratiche è solo un mortificante invito all’ignoranza delle ten­sioni reali che percorrevano la società italiana di fronte agli interrogativi scaturiti dalla crisi del 1943. E per lo scio­glimento dei quali sembra dav­vero riduttivo immaginare uno sbocco da incontro di Teano.

m . l .

“Il Manifesto”

“Il Manifesto” del 25 aprile, in occasione del quarantennale della Resistenza, ha scelto di analizzare quella vasta opera­zione culturale, oggi in corso, di ripensamento del fascismo e della resistenza, che ha aperto un vero e proprio conflitto sul “controllo politico del passato nazionale”: sono articoli che si caratterizzano per l’impegno sul piano storiografico e tendono a

prospettare linee interpretative nuove e problematiche. La ru­brica Il f i lo fa sc is ta ha come nu­cleo centrale di riflessione l’arti­colo di Luigi Ganapini sugli in­dirizzi dell’ultima storiografia (L ’occu pan te a fascista): mentre per qualche decennio la storio­grafia antifascista aveva per­meato largamente le espressioni della cultura nelle forme e nelle sedi più varie, negli ultimi anni è andata emergendo una tendenza interpretativa ‘afascista’ che, pur non fondandosi su di un im­pianto teorico rigoroso, costrin­ge chi non la condivide su posi­zioni esclusivamente difensive. Secondo Ganapini l’unica stra­tegia per contrapporsi a questa tendenza non è la guerriglia tra storici, ma “una sorta di furore muratoriano” fatto di studi se­veri tendenti a raccogliere la più vasta documentazione e che consenta di conoscere la varie­gata e contraddittoria realtà del ventennio. Marcello Flores (M e­m oria d i f in e seco lo) si propone di analizzare come le categorie di ‘consenso’ e di ‘privato’, di solito feconde per la conoscenza della coscienza collettiva e della dimensione della quotidianità, abbiano potuto alimentare at­teggiamenti di nostalgia e di in­dulgenza verso il fascismo. Ac­canto ad una vera e propria mi­stificazione del concetto di ‘pri­vato’, viene sottolineata la re­sponsabilità degli storici marxi­sti dediti a ricerche troppo spe­cialistiche, dei giornalisti spesso approssimativi e dei mass me­dia, preoccupati esclusivamente da esigenze di mercato. Guido Quazza (30 aprile) sottolinea la specificità (Un 25 aprile m usso- liniano) di questo 25 aprile ca­ratterizzato da una “pseudocul­tura della riabilitazione” e da

138 Rassegna bibliografica

una storiografia che in nome dell’“oggettività” si appella ad ideali di conciliazione tra gli ita­liani occultando le ragioni stori­che della conflittualità sociale e politica di un sessantennio di lotte. La proposta avanzata da Quazza, in linea con gli studi condotti dagli Istituti delle resi­stenza, si orienta verso una revi­sione della storia del dopo 1945, nella direzione di una prospetti­va interdisciplinare che ponga la società in tutte le sue compo­nenti al centro dell’analisi e, nella metodologia, dia largo spazio alle fonti orali che arric­chiscono i dati storici con il va­sto apporto dello studio delle mentalità. Claudio Pavone nel numero del 4 maggio (G uerra civile, m a non ‘b u o n a ’) propone la non facile e in genere molto discussa definizione della Resi­stenza come guerra civile e ana­lizza nel contempo le ragioni di natura psicologica tendenti a configurarla esclusivamente co­me lotta patriottica e antitede­sca, risalendo sia alla valenza negativa attribuita al termine sia all’esigenza degli italiani di co­stituirsi un’identità come popo­lo, di fronte al crollo delle istitu­zioni e alla duplice sconfitta. Pavone respinge la qualificazio­ne di “buona guerra civile”, così come viene definita da Massimo Ilardi sulle tracce di Henry di Montherlant (L a buona guerra civile. G li italiani, la guerra, la resistenza. Un C onvegno a M i­lano, 26 aprile), richiamando­si alla tragicità del momento storico.

Tra la memorialistica propo­sta da “Il Manifesto” (30 apri­le), particolarmente suggestivi sono i ricordi del 25 aprile di Rossana Rossanda per la loro freschezza e nel contempo per la

carica problematica che li per­vade. La Rossanda ricorda co­me nel periodo di confusione ideologica in cui si andava di­battendo e per le sue origini bor­ghesi e per le diverse linee del­l’antifascismo, “una giovane oca” si presentò ad Antonio Banfi “le cui lezioni erano un’avventura favolosa, una sor­ta di navigazione tra i marosi cui ci gettava, a diventare gran­di senza salvagente”, per do­mandare la natura della sua fe­de politica. La risposta fu una bibliografia dei classici del co­muniSmo, la cui pronta e febbri­le lettura orientò per la vita la giovane studentessa.

p.p.

“Panorama”

L’inserto speciale di “Pano­rama” del 14 aprile, dopo un lungo articolo di ricostruzione storico-cronachistica del 25 aprile 1945 di Corrado Augias (Q uel m ercoled ì d ’aprile) pubblica al­cuni interventi che vale la pena di ricordare. Lucio Villari (M i­seria e libertà) mette in evidenza un aspetto forse poco noto al­l’opinione pubblica, le profon­de differenze nella situazione economica tra un Sud, devasta­to da un’inflazione selvaggia, e un Nord in cui nonostante tutto l’economia industriale aveva te­nuto e i programmi di economia di guerra si erano incontrati “con gli interessi complessivi dei gruppi industriali, finanziari e commerciali”. Salvatore Veca (Q uan to dura un m ito ) indaga le cause del mito collettivo della resistenza e del suo perdurare nel tempo tanto che ancor oggi esso mostra una capacità di te­nuta, cause che individua nel

modo di formazione dell’unità nazionale “pilotata da élite ri­strette, secondo il modello libe­rale di stampo ottocentesco, che esclude di fatto ampie masse di ‘sudditi’ dalla condizione di cit­tadini”; successivamente il fa­scismo “riesce a suo modo a ge­nerare questa appartenenza na­zionale... costringendo gli ita­liani a considerarsi una nazione e un popolo, a bastonate maga­ri”. Il mito della resistenza quindi “si pone come mito di ri­fondazione nazionale con le li­bertà e anzi grazie ad esse”. “La resistenza è vissuta come termi­ne ideale di un processo di lunga durata avviato nel XIX secolo dalle élite risorgimentali e com­piuto, quasi un secolo dopo, con la rivoluzione democratica” e pluralista. Il suo mito è per­tanto strettamente legato al mi­to di fondazione di una Costitu­zione e in ciò sta la ragione della sua stabilità nel tempo. Interes­santi sono le pagine conclusive dedicate in articoli non firmati aH’immagine e al giudizio sulla resistenza dati all’estero dalla stampa e dagli storici (C he ne p en sa lo stran iero). La stampa ignorò a suo tempo quasi total­mente la vicenda italiana, ma il fatto trovava la sua naturale e quasi ovvia spiegazione nell’at­mosfera del tempo e nella quasi contemporanea fine del conflit­to che oscurò ogni altro avveni­mento. Il giudizio degli storici tuttavia ripropone questa man­canza di rilievo e, secondo “Pa­norama”, “in estrema sintesi concorda su almeno due punti fondamentali: a) la resistenza italiana ha avuto uno scarso pe­so sulle operazioni militari vere e proprie; b) molto maggiore è stato il suo peso psicologico nel- l’agevolare l’uscita dall’atmo­

Rassegna bibliografica 139

sfera della guerra, e della disfat­ta”. Tra gli storici interpellati sono Mack Smith; Peter Lange dell’Università di Harvard; Ste­wart Hughes dell’Università di San Diego in California; Victo­ria De Grazia, una studiosa americana che ha pubblicato un libro su C onsenso e cultura d i m assa n e ll’Ita lia fa sc is ta , tra­dotto per Laterza; Albrecht Tyrrel, dell’Università di Bonn; Erich Kuby, studioso tedesco autore di un volume che non ha riscosso molti consensi in Ger­mania, I l tra d im en to tedesco , tradotto per Rizzoli, in cui so­stiene la tesi che all’interno del­l’alleanza italo-tedesca furono i tedeschi a tradire per primi nel 1939 con l’invasione senza preavviso agli alleati della Polo­nia. Sui due punti di “Panora­ma” concorda anche Deakin nell’intervista rilasciata a “Re­pubblica”.

c.r.

“La Repubblica”

La stampa d’opinione ha pub­blicato in occasione del quaran­tennale articoli ed inserti specia­li che, cercando anche se non sempre felicemente di evitare l’aspetto meramente celebrati­vo, si richiamano in linea di massima a due filoni: la rico­struzione storica soprattutto della giornata del 25 aprile e la memorialistica. In genere i due filoni sono spesso affiancati ed intrecciati, ma fine comune — almeno negli interventi più si­gnificativi ai quali soli facciamo riferimento — è stato quello di tracciare un bilancio e di chiari­re il rapporto tra storia e mito. Su questa linea è ad esempio l’inserto di “Repubblica” del 23

aprile: 2J aprile 1945 quaran­ta n n i d o p o , con articoli di Giorgio Bocca, Italo Calvino, un’intervista di Edgardo Bartoli a Frederick Deakin, cui seguono le pagine dedicate ai protagoni­sti: le interviste di Paolo Mieli agli uomini chiave della grande industria — Merzagora, Agnel­li, Pirelli — e a Pajetta; l’inter­vento di Silvia Giacomoni sul­l’arcivescovo di Milano Schu­ster; di Sandro Setta su Mussoli­ni e la sua operazione-ponte ver­so il Psi; di Giuseppe Conti sul­l’operazione salva-gerarchi. Sia Bocca (O re 10: insurrezione) sia Calvino (T an te s to r ie che abb ia ­m o d im en tica to ) prendono le mosse dalla loro personale par­tecipazione agli avvenimenti e all’atmosfera del 25 aprile 1945 per approdare ad un tentativo di bilancio. Per Bocca “il 25 aprile è allo stesso tempo la nascita e la morte di un’epoca’” anche se allora ne mancò la consapevo­lezza. “La cosa più diversa e penso irripetibile tra l’Italia di allora e di oggi è che allora tutti, non solo i partigiani, sono con­vinti di essere padroni del desti­no nazionale”; il significato maggiore della resistenza è stato quello “di ridare al paese la fi­ducia nel futuro” e avere creato “la prima vera omogeneità nella nostra storia”, omogeneità che nonostante tutto almeno nel fondo è rimasta; ciò che invece è mancato dice Bocca è stato “in notevole parte una cultura mo­derna” e da questa mancanza sono derivate pesanti conse­guenze e una serie di occasioni perdute che sono state e sono tuttora duramente pagate. An­che per Calvino “nonostante tutte le divisioni interne la resi­stenza è stata nelle grandi linee unita, unita tra le sue compo­

nenti attive e unita al sentimen­to della popolazione nel suo in­sieme”, il che spiega la difficol­tà ad interpretarla dottrinaria­mente e in senso unidireziona­le. L’intervista a Deakin di Bartoli (Q uei p a rtig ian i che non cap im m o) chiarisce la mancanza di comprensione e l’importanza marginale attri­buita, allora ed oggi, alla resi­stenza italiana da parte degli alleati e delle opinioni pubbli­che e degli storici di altri paesi, tranne rare eccezioni.

Una sorta di bilancio era sta­to anche quello tentato qualche settimana prima (“Repubbli­ca”, 30 marzo) da Alberto Asor Rosa (Q u a ra n ta n n i d o p o ), per il quale “il modello italiano” nato dalla guerra e dalla lotta di liberazione ha mostrato al di là delle apparenti continue aspre conflittualità interne “eccezio­nali caratteristiche di durevolez­za e resistenza, o, forse, sarebbe meglio dire, di flessibilità e ac­comodamento” , permettendo così quarant’anni di stabilità, frutto di una pace e di una sicu­rezza... che da un certo punto in poi hanno cominciato a produr­re frutti intossicati”, dato che alla immutabilità della situazio­ne politica sia delle forme di go­verno sia di quelle d’opposizio­ne si sono invece contrapposte profonde mutazioni “antropo- logiche” che esigono ora un su­peramento di “questa democra­zia imperfetta”.

Rievocazioni personali (Ma­rio Soldati, Q uella fu c ila zio n e spen se il m io o d io ) e ricostruzio­ne storica (Renato Mieli, T o­g lia tti non a veva du bb i: da so li non ci sa rem m o liberati) sono i temi che contrassegnano le pa­gine più significative pubblicate dal “Corriere della sera” del 21

140 Rassegna bibliografica

aprile; lo stesso discorso vale per gli interventi di Alessandro Galante Garrone {M a non p ia n ­ta va m o bandiere su lle to rr i) e Oreste Del Buono {Da! lager su l cam ion d e i d ispera ti) sulla “Stampa” del 25 aprile.

c.r.

“Rinascita”

Con esplicito riferimento al quarantesimo della Liberazio­ne, “Rinascita” dedica “11 con­temporaneo”, inserito nel nu­mero del 20 aprile, ad una serie di interventi su “Il fascismo nel­la storia d’Italia”. I contributi ospitati sono raggruppabili in due categorie principali: della messa a punto delle ricerche su singoli settori ed aspetti; della discussione sugli orientamenti di studio e di visuale politica emersi negli ultimi anni. Appar­tengono prevalentemente al pri­mo tipo gli scritti di F. Benvenu­to sui fronti popolari; di G. Santomassimo su Togliatti; di E. Garin e C. De Seta sulla cul­tura e le arti; di G. Toniolo, L. Villari e V. Castronovo, D. Pre­ti e G. Sapelli su politica econo­mica, produzione, classi sociali; di C. Casucci e A. Del Boca sul- l’imperialismo fascista; di M. De Giorgio sulla condizione femminile; di E. Collotti sul raf­fronto fascismo-nazismo. Rien­trano nel secondo gruppo le in­terviste a P. Ingrao, R. Villari ed E. Hobsbawn; gli interventi di F. Ferraresi e M. Revelli sul neofascismo e di M. Ciliberto, N. Tranfaglia, N. Gallerano e P. Alatri sull’attuale orienta­mento della produzione tra sto­riografia e mass media. Anche dalla semplice elencazione di autori e temi emerge l’ampiezza

del quadro e la sua funzione di aggiornamento critico, anche se a questo proposito v’è da la­mentare l’assenza di puntuali ri­ferimenti bibliografici. Molti in­terventi ricapitolano analisi e ri- costruzione che i rispettivi auto­ri hanno da tempo realizzato at­traverso pubblicazioni che sa­rebbe stato opportuno richia­mare, anche per dar modo al lettore di risalire alla formula­zione di quei giudizi e al conte­sto storico-politico da cui sono scaturiti. L’osservazione non mi sembra né pedante né margina­le, se si tiene conto della necessi­tà di stabilire uno stretto raccor­do tra la riesposizione di risulta­ti già acquisiti e l’evoluzione della storiografia più recente. In questa ultima direzione appaio­no particolarmente sollecitanti, oltre alle osservazioni di In­grao, l’invito di Tranfaglia a ri­cerche di storia comparata ed i riferimenti di Gallerano al ruo­lo svolto dalle comunicazioni di massa nel deprimere il profi­lo delle conoscenze sul regime e sulle sue forme di compenetra­zione con le varie articolazioni della società italiana. L’impres­sione complessiva è tuttavia quella di un discorso che deve ancora precisare le sue coordi­nate di fondo, come si può ve­dere, ad esempio, dalla intervi­sta di Hobsbawm sulla correla­zione fascismo-modernizzazio­ne, intervista francamente delu­dente data la statura di studio­so dell’interlocutore. Segnalerei infine, tra le inevitabile assen­ze, una che appare particolar­mente rilevante proprio in tema di modernizzazione: quella del rapporto fascismo-chiesa-mon­do cattolico, che è cerniera in­dispensabile per impostare il dibattito sulla “modernizza­

zione” italiana al di là del fa­scismo.

m.l.

“L’Unità”

“L’Unità” (21 aprile) ha pro­posto ai suoi lettori un panora­ma della Resistenza di carattere divulgativo (25 aprile 1945- 1985 L iberi), legato a cano­ni interpretativi molto tradizio­nali: i brevissimi articoli e me­morie di P. Spriano, G. Boffa, G. Procacci, S. Rodotà, V. Foa, R. Zangheri, A. Boldrini, R. Scappini, N. Marcellino, M. Lizzerò, G. Brambilla, P. Colajanni, G.C. Pajetta, S. Lenci, G. Petter, U. Pecchioli, G.C. Caselli, L. Violante, A. Savioli, P. Soldini, P. Barile, G. La Malfa, T. Anseimi, N. Jotti, A. Garzia, G. Chiaro- monte, B. Ugolino, G. Carli. M. Martinazzoli, raggruppati per temi {R ivo lu zion e d em o ­cra tica , Q uel g iorn o in d ire tta , I l m o n d o ieri e oggi, R esisten ­za non terrorism o , Tragedia indelebile , I l p e rco rso d e i p a r ­titi, Vita dem ocra tica e S ta to , L e vie dello sv ilu p p o ) propon­gono una descrizione della lot­ta di liberazione nei suoi singo­li aspetti più che una riflessio­ne problematica.

Alcune sezioni legate a temi di attualità come il terrorismo e il caso Reder offrono spunti critici che smuovono, sia pure in modo parziale, il generale quadro di storia immobile e as­sorta nella contemplazione di sé che “L’Unità” presenta. Maurizio Ferrara {N on erava­m o banditi, fa c e v a m o la guer­ra), prendendo spunto da un giudizio di Norberto Bobbio (“Europeo”, 20 ottobre 1984)

Rassegna bibliografica 141

che qualifica come terroristica l’uccisione di Giovanni Gentile e dei soldati tedeschi di via Ra- sella in quanto “vittime inno­centi perché scelte a caso”, trac­cia una linea di demarcazione tra questi atti che si rivolgevano contro un capo ideale della Re­pubblica di Salò e contro soldati appartenenti ad un esercito oc­cupante, e gli attentati delle BR. L’articolo di Enzo Collotti (D ie­tro a R ed er la vergogna d i tro p ­p e im punità) mette in luce l’at­teggiamento di sostanziale am­biguità politica che alla fine del­la guerra ha portato alla non vo­lontà di ricercare e di punire i colpevoli dei crimini nazisti.

Le conseguenze delle tattiche assolutorie degli alleati a cui si aggiunse nel periodo della guer­ra fredda una ulteriore indul­genza al fine di ottenere il con­senso dei tedeschi allo schiera­mento occidentale, pesano an­cora sulla nostra storia determi­nando atteggiamenti giustifica- zionisti tendenti a teorizzare im­punibilità e irresponsabilità e provocando stati d’animo con­traddittori e ambigui. La di­mensione prevalentemente poli­tico-descrittiva di queste pagine, se talora offre qualche apertura critica verso eventi di attualità, tuttavia chiude la resistenza in un orizzonte ormai codificato e concluso, ignorando sia l’ap­porto dei più recenti orienta­menti della storiografia che il dibattito attuale sulle linee in­terpretative di una rievocazione storica “afascista”.

p.p.

Una mostra su Parri dimezzato

Promossa dal Comune di Mi­lano, dall’Istituto milanese per

la storia della resistenza e del movimento operaio e dal mini­stero per i Beni Culturali si è te­nuta a Milano una mostra su “Parri, la coscienza della demo­crazia”. L’esposizione è accom­pagnata dalla pubblicazione, Mazzotta editore, di un catalo­go comprendente anche una ric­ca serie di interventi, in parte dedicati ad illuminare momenti specifici della vita e dell’attività di Parri (con scritti, fra gli altri, di Mario Boneschi e Libero Lenti, Leo Valiani ed Enzo Col- lojtti), in parte a dar conto delle carte raccolte nei fondi versati all’Archivio centrale di Stato e in quelli dell’archivio personale presso la famiglia. L’iniziativa ha un rilievo indiscutibile e si presenta come una tappa impor­tante per la ricostruzione dell’e­sperienza politica di Parri e del­la sua collocazione in rapporto alle fasi decisive della storia ita­liana del Novecento. Quando sa­ranno giunte a compimento altre iniziative in corso (a cominciare da quelle avviate all’Istituto na­zionale: ordinamento della do­cumentazione versata alla Bi­blioteca-Archivio dell’Istituto e pubblicazione di un volume di saggi storico-interpretativi) l’ac­quisizione degli elementi di base per una completa ricostruzione dell’attività di Parri potrà dirsi realizzata. L’apporto che la mo­stra di Milano reca a questo obiettivo è considerevole soprat­tutto per la messa a punto filolo­gica sulla giovinezza di Parri (la famiglia, la scuola, l’università). II percorso biografico è accom­pagnato da materiale iconogra­fico spesso di prima mano, e reso con una evidenza che consente di utilizzarlo anche a fini didattici.

Più conosciuta è invece la do­cumentazione su altri periodi, e

in particolare quello della Resi­stenza, dove il ricorso alla “cor­nice” (foto di guerra, riprodu­zione di testate della stampa clandestina ecc.) finisce per por­re il personaggio in secondo pia­no, per scolorirne i tratti più ori­ginali. Ma ciò che suscita le mag­giori riserve (il rilievo è stato svi­luppato, fra gli altri, da Gian­franco Petrillo su “L’Unità” dell’ 11 maggio) è il veder tronca­ta la narrazione all’atto della co­stituzione del governo Parri, co­sì che lo spettatore-lettore si tro­va di fronte ad un percorso in­compiuto, ad una biografia della cui mutilazione non sa spiegarsi le ragioni. Ragioni che non vor­remmo risiedessero in quella proterva tradizione celebrativa secondo la quale il cammino dell’antifascismo e della Resi­stenza conosce un tempo stori­co (concluso e nobilitato dalla Liberazione) ed un successivo tempo politico consegnato alle polemiche ed allo spirito di parte. Con quale coerenza con la reiterata affermazione della Repubblica nata dalla Resisten­za è facile arguire. E con quale rispetto per Parri, “coscienza della democrazia” che tace pro­prio al momento della verifica, è superfluo sottolineare. Ciò su cui appare necessario appro­fondire il discorso non è tutta­via la persistenza di questa tra­dizione quanto l’atteggiamento di coloro che, enti e studiosi, presentandosi come garanti del livello scientifico e culturale dell’iniziativa, abdicano al pro­prio compito se rinunciano a stabilire un corretto rapporto con le istituzioni committenti e a ricusare condizionamenti che distorcano il significato dell’i­niziativa.

m . l .

Spoglio dei periodici italiani 1984a cura di Franco Pedone

Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Bologna), “Annali della Fondazione Gian- giacomo Feltrinelli” (Milano), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino), “Ar­chivio trimestrale” (Roma), “Belfagor” (Fi­renze), “Critica storica” (Napoli), “Econo­mia e lavoro” (Venezia), “Economia e sto­ria” (Milano), “Economia italiana” (Roma), “Giornale degli economisti e annali di econo­mia” (Milano), “Italia contemporanea” (Mi­lano), “The Journal of European Economie History” (Roma), “Movimento operaio e so­cialista” (Genova), “Il Mulino” (Bologna), “Note economiche” (Siena), “Nuova antolo­gia” (Firenze), “Nuova rivista storica” (Mi­lano), “Passato e presente” (Firenze), “Il pensiero economico moderno” (Verona), “Il pensiero politico” (Roma), “Politica del di­ritto” (Bologna), “Il politico” (Pavia), “Il ponte” (Firenze), “Primo maggio” (Milano), “Problemi del socialismo” (Milano), “Qua­

derni costituzionali” (Bologna), “Quaderni piacentini” (Milano), “Quaderni storici” (Bologna), “Rassegna storica del Risorgi­mento” (Roma), “Ricerche storiche” (Napo­li), “Rivista di politica economica” (Milano), “Rivista di storia contemporanea” (Torino), “Rivista di storia dell’agricoltura” (Firenze), “Rivista di storia della Chiesa in Italia” (Ro­ma), “Rivista di storia economica” (Torino), “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali” (Padova), “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna), “Rivista stori­ca italiana” (Napoli), “Storia e politica” (Mi­lano), “Storia urbana” (Milano), “Studi emi­grazione” (Roma), “Studi storici” (Roma).

Lo spoglio, che è stato effettuato da Fran­co Pedone, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano stati, a suo tempo, presi in considerazione.

Storiografia

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146 Rassegna bibliografica

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Luciano Segreto, I m agnifici m ille: b iografie deg li im pren di­to r i inglesi, in “Passato e pre­sente”, n. 6, pp. 165-174 [a pro­posito del “Dictionary of Busi­ness Biography”].

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S toria f in o alla p rim a guerra m on dia le

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Asia

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Seconda guerra mondiale

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Enzo Tagliacozzo, “L 'Ita lia L i­b era ” a N ew Y ork f r a il 1943 e il 1945, in “Nuova antologia”, n. 2151,pp. 101-113.

Europa

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Idee e p ro g ra m m i d em ocra tic i cristian i nella R esistenza: l ’a m ­

bien te, g li au tori, le p ro sp e ttiv e . Testi di De Gasperi, Malvestiti, Olivelli, Taviani, Rumor, Saba- dini, Gui, Dossetti. Con intro­duzione e note di G.B. Varnier, in “Civitas”, a. XXXV, n. 2.

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154 Rassegna bibliografica

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Giovanni Spadolini, R ep u b b li­can i e socia listi, in “Nuova an­tologia”, n. 2149, pp. 117-166.

T oglia tti nella s to ria d ’Ita lia , in “Critica marxista”, a. XXII, n. 4-5 [contiene: i saggi di Aldo Zanardo, Alessandro Natta, Ni­cola Badaloni, Luciano Cafa- gna, Paolo Cantelli, Gerardo Chiaromonte, Vannino Chiti, Michele Ciliberto, Giorgio Na­politano, Giuseppe Prestipino, Paolo Spriano, Aldo Tortorel- la, Giuseppe Vacca; il dibattito “Togliatti e l’Italia moderna” con la partecipazione di Gaeta­no Arfè, Giuseppe Chiarante, Sergio Garavini, Luciano Grup­pi; Ugo Pecchioli, Giovanni Spadolini, Mario Tronti, due discorsi di Paimiro Togliatti del 1944 con una nota introduttiva di Luciano Gruppi; una crono­logia di Paimiro Togliatti ed un

“Contributo per una bibliogra­fia degli scritti su Paimiro To­gliatti (1964-1984)” di Guido Li- guori].

Tre s tu d i su lla m afia , in “Italia contemporanea”, n. 156, pp. 7-67 [contiene: Raimondo Ca­tanzaro, L a m afia com e fe n o ­m eno d i ib ridazion e socia le, Salvatore Lupo, N ei g iardin i della C onca d ’O ro , Rosario Mangiameli, G a b ello tti e n o ta ­b ili nella Sicilia d e l l’in tern o ].

Renato Treves, R iccardo Bauer, l ’U m anitaria e la rinascita delle scien ze socia li, in “Nuova anto­logia”, n. 2149, pp. 180-186.

Leo Valiani, In m em oria d i R ic­cardo L o m b a rd i, in “Nuova an­tologia”, n. 2152, pp. 78-81.

Aldo Zanardo, E nrico B erlin­guer, in “Critica marxista”, a. XXII, n. 3, pp. 5-11.

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Giappone

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Altri paesi

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