La tragedia della Polonia in guerra
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Rassegna bibliografica
La tragedia della Polonia in guerradi Giorgio Vaccarino
Dopo una molteplice produzione che lo pone alla testa della storiografia sulla resistenza francese e sulla seconda guerra mondiale, Henri Michel si è ora impegnato in una monografia di vasto respiro, quale soltanto una matura preparazione può consentire, sulla tragedia polacca che culmina — ma non finisce — con l’assedio e la distruzione di Varsavia {Et Varsovie fu t détruite, Paris, Albin Michel, 1984, pp. 455).
Dopo tre spartizioni, la più recente vicenda nazionale polacca trae origine dalla fine della prima guerra mondiale quando, con il trattato di Riga del 1921, il paese riacquista la sua indentità ed i suoi confini, che esso manterrà sino alla duplice occupazione germano-sovietica, conseguenza dell’alleanza contratta dai due potenti vicini nell’agosto 1939.
Germania e Russia sono le due principali potenze che tradizionalmente hanno attentato alla sua indipendenza, spartendosene volta a volta le spoglie, nel confronto delle quali la Polonia deve necessariamente guardarsi, ma in realtà con una ambigua equidistanza, dopo che la Russia oltre che imperialista è divenuta sovietica. E tale condotta essa persegue con mentalità risorgimentale, subordinando al problema primo dell’indenti- tà da salvaguardare quello della modernità delle istituzioni, così come l’attenzione alle sollecitazioni ideologiche e sociali che fermentano nell’Europa nel secondo quarto del secolo.
Simbolo della nuova Polonia del secondo dopoguerra è il maresciallo Josef Pilsudski, il salvatore del paese sulla Vistola nel 1920 contro l’offensiva del rivitalizzato esercito sovietico (J.P. Year 1920 and its climax Battle o f Warsaw, during the Polish-Soviet War 1919-1920, Pilsudski Institute, London-New York, 1972). Dalle originarie convinzioni socialiste egli si converte ad un modello di fierezza nazionalistica che gli appare come la principale garanzia dell’indipendenza del paese, e procede all’idealizzazione dell’esercito nel segno dell’unità della Polonia e ad una organizzazione autoritaria attorno alla sua persona che, anche se non si confonde con i fascismi di moda, suscita un’opposizione nei democratici dei rinati partiti e nei comunisti.
I rappresentanti del centrosinistra, che avevano continuato a sperare che la sollecitazione esercitata attraverso il parlamento avrebbe indotto Pilsudski ad un compromesso, trovarono il 31 ottobre 1929 l’aula occupata da centocinquanta ufficiali armati, penetrativi per ordine del colonnello Beck, allora sottosegretario alla guerra. Peggiore sorte toccò ai comunisti, i quali dopo aver sostenuto il “maresciallo” — per una erronea valutazione moscovita — nel colpo di stato militare del 1926 contro il parlamentarismo borghese, patirono il carcere della Sanacja, o movimento del “risanamento” (cfr. nostro, Storia della Resistenza in Europa 1938-’45, parte IV, Polonia, Milano, Feltrinelli, 1981).
Italia contemporanea”, giugno 1985, n. 159.
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Isolatosi dagli oppositori democratici, che esso accusava di “socialfascismo”, il partito comunista polacco fu sciolto da Stalin nel 1938, sotto l’accusa di “deviazionismo di destra e di sinistra” , di contaminazione fascista e trotzkysta, di nazionalismo borghese. Coloro che per sfuggire alla prigione polacca ripararono in Urss caddero quasi tutti vittime delle purghe staliniane; in particolare coloro che avevano combattuto nelle brigate internazionali di Spagna e che ora venivano accusati da Stalin di aver collaborato con i socialisti. Per singolare ironia, si salvarono tutti quelli che erano rimasti nelle patrie carceri polacche.
Il partito comunista fu così ridotto a piccoli gruppi soprattutto giovanili, che dopo l’aggressione tedesca del settembre ’39 parteciparono alla difesa di Varsavia, nei battaglioni operai creati dai socialisti. Ma sorpresi dal patto di amicizia tedesco-sovietico dell’agosto, che neppure essi avevano conosciuto, venivano ora doppiamente sospettati da Mosca per aver combattuto gli alleati tedeschi e per averlo fatto con i socialisti. Malgrado le purghe, malgrado il patto germano-sovietico, malgrado le condanne formali essi erano rimasti nei circoli degli Amici dell’Urss. “È difficile immaginare — osserva Michel — maggior dedizione ad una causa, ed al paese che l’incarna”. La sofferta vicenda dei comunisti polacchi, costretti ad una permanente condizione minorile dalla loro appassionata sudditanza ideologica, è trattata dal Michel con umana sensibilità, come una faccia pur essa patetica della più grande tragedia polacca.
Nella resistenza opposta ai tedeschi invasori dal settembre ’39 la separazione tra i politici dei partiti democratici (contadino, socialista e democratico-nazionale, oltre ai gruppi minori) e i militari già pilsudskisti pare ora superata dall’invito rivolto ai vecchi politici dell’opposizione di venire a far parte della direzione resistenziale. Il nuovo premier, generale Sikorski, antipilsudskista, rac
comanda al generale Tokarzewski, incaricato della riorganizzazione militare clandestina, di dare largo spazio alle forze politiche, in modo da assicurare una loro posizione di equilibrio, se non di prevalenza, agli occhi di una opinione pubblica che ha bisogno di riconoscersi in un’autorità nazionale, rinvigorita e rinnovata dopo la catastrofe. Ciononostante sono ancora gli ufficiali di carriera soprattutto a ricoprire i quadri della resistenza a dimostrazione di una continuità che è difficile rinnegare d’un tratto.
A sua volta la Chiesa non si riconosce e non ha bisogno di operare in un suo partito cattolico, tanto è forte la sua compenetrazione, a tutti i livelli, nella compagine sociale del paese, e tanto alto l’ascendente, che acquista dal generoso sacrificio dei suoi ministri, a difesa delPintegrità religiosa e dell’identità nazionale: a 2.800 ammontano i preti e i religiosi caduti nella lotta nazionale, tra cui sei vescovi.
Il partito comunista polacco con le sue deboli forze, è ricostituito ora da Stalin a Mosca, ma rappresenta pur sempre l’impopolare occupazione sovietica nelle terre dell’Est, avvenuta dopo l’invasione tedesca della rimanente e più ampia metà occidentale del paese. Anche senza aperti conflitti (tranne che da parte di esigui gruppi dell’estrema destra fascistizzante che non fanno parte dell’esercito resistente), si costituiscono le organizzazioni armate clandestine: assai presto l’Armia Krajova, o forza dell’interno, fedele al governo emigrato a Londra e solo più tardi, nell’aprile ’42, la Gwardia Ludowa dei comunisti. Anche la forza numerica delle due organizzazioni resistenti risponde ai grandi orientamenti del paese nel 1944. A quasi 400.000 unità ammontano le forze della prima (di cui il 10% di donne) e a sole 20.000 quelle della seconda, destinate a salire sensibilmente — osserva l’autore — nelle ultime fasi del conflitto, sotto l’influenza sconvolgente dell’Armata rossa avanzante, che fornisce armamento pesante
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e istruttori e favorisce le possibilità di reclutamento.
Il regime del terrore imposto dall’occupazione tedesca non ha possibilità di confronto con qualsiasi altro, sia nelle terre occidentali, annesse direttamente alla Germania, sia nel centrale “Governatorato generale” (ove sono Varsavia e Cracovia), con le indiscriminate eliminazioni di massa, soprattutto a Varsavia, ancora più largamente perpetrate contro gli ebrei (si pensi ai ghetti e alla loro sistematica eliminazione), con la deportazione al lavoro coatto di due milioni di polacchi (oltre ai 400.000 prigionieri di guerra), con la spoliazione economica, una delle più devastanti in Europa, con la forzata germanizzazione della vita civile, sino alla rieducazione ariana dei fanciulli, razzialmente “adatti” , che vengono a questo fine deportati in Germania.
Anche l’occupazione sovietica nelle terre orientali è pesante, con la sistematica sovie- tizzazione, con la deportazione a più riprese di 1.200.000 cittadini, dissidenti o sospetti, specialmente nella fascia degli intellettuali, docenti, ecclesiastici e funzionari, con la caccia ai militari che ripiegavano nel settembre ’39 sotto la pressione tedesca e che furono catturati al momento in cui tentavano di superare il confine rumeno, per andare a ricostituire i resti dell’esercito in Occidente. Tutti costoro furono deportati nel profondo del- l’Urss, nei deserti del Kazakistan o nelle lande siberiane del Nord, fino alle miniere di Kolima, ove il termometro supera i —50 gradi centigradi, e dove gli inviati del generale Anders andranno a ricercare i pochi sopravvissuti, per costituire — dopo gli accordi di Sikorski con Stalin — un’armata polacca destinata a combattere, almeno secondo l’iniziale progetto, a fianco dell’esercito sovietico. Ma per quanto sia assurdo lo stato di guerra con l’Urss e pesante la sua repressione, questa non è confrontabile con la rabbia razziale e antislava di Hitler. In compenso la polizia segreta sovietica è assai più penetran
te e subdola, quasi da “ingegneri dell’anima”, come è stato detto da Michel Borwicz.
La clandestinità polacca difende soprattutto lo spirito della nazione contro lo smembramento e l’atomizzazione sociale (Jan Tomak Gross, Polish Society under German Occupation. The Generalgovern- ment, 1939-1944, Princeton University Press1981). Le scuole sono chiuse dagli occupanti, tranne le primarie per consentire soltanto quel minimo di conoscenze necessarie ad un popolo destinato a servire. L’insegnamento è allora continuato clandestinamente, sino alle dissertazioni di laurea ed alle non interrotte pubblicazioni scientifiche. Per tutta risposta molti docenti sono imprigionati e uccisi. L’organizzazione resistente si organizza statualmente. Lo “stato clandestino polacco”, che ripete in sé gli stessi ministeri del governo emigrato e si regge sul consenso di un esiguo parlamento in cui sono rappresentati i partiti, è fenomeno unico in Europa. Confrontata con quella francese e con l’autoritarismo di De Gaulle, la clandestinità polacca — riconosce Michel — è retta più democraticamente.
Una tale amministrazione si prepara per uscire allo scoperto, per insediarsi nella capitale una volta liberata dalle armi polacche, e per affermare dinnanzi al mondo l’irrinun- ciabile sua identità nazionale. Ma ciò essa deve fare prima che l’Armata rossa avanzante vi installi un governo del tutto minoritario e allineato, che Mosca tiene in serbo a Lublino. Per queste ragioni l’insurrezione di Varsavia dell’estate ’44, singolarmente sollecitata dalle radio sovietiche, ma non potuta concordare con l’Armata rossa, costituisce un’operazione militarmente antitedesca ma politicamente sovietica, come afferma non a torto la storiografia filorussa (J. Kirchmayer, L ’insurrezione di Varsavia, Editori Riuniti, Roma 1963). Nonpertanto essa rappresenta, con i suoi sessantatré giorni di terrificante battaglia e i suoi 200.000 civili uccisi, oltre ai20.000 caduti delle forze combattenti, la più
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rilevante manifestazione resistenziale in Europa.
Nessuna resistenza — osserva giustamente Michel — è stata così generosamente spesa e così ingiustamente ripagata da tutti gli alleati. L’Urss si trincera a lungo in un assurdo stato di guerra, contro un paese, alleato a pieno diritto, e non ne riconosce ovviamente il governo in quanto esso si ostina a rifiutare la cessione delle terre orientali, già acquisite aH’Urss dal patto (ora impropriamente sconfessato) con Hitler nell’agosto ’39. Ma anche gli anglo-americani, in omaggio alle ragioni della grande alleanza, impongono con mala grazia tale cessione ai polacchi così come gli anglo-francesi, per amore di una pace fitti- zia, hanno imposto nel ’38 ai cecoslovacchi la cessione dei Sudeti alla Germania.
Il continuare a resistere in una battaglia perduta è proprio dell’animo dei polacchi. Fedeli ad un’alleanza che li rinnega, essi intendono affermare, contro tutte le avversità, che la Polonia esiste ancora, convinti che il sacrificio pagherà a termine. Essi hanno perduto militarmente e politicamente — osserva Michel — ma moralmente hanno vinto. Anche Stalin, che ha volutamente ignorato il sacrificio di Varsavia e ha atteso, con le sue forze ferme nei sobborghi della capitale, che questa venisse rasa al suolo dai tedeschi (ed ha poi proditoriamente arrestato e condannato i suoi capi) ha perso un’occasione non ripetibile per fondare, con la riconoscenza dei polacchi, una possibilità tutta nuova di avvicinamento e di accordo fra i due popoli.
Frequente, abbiamo già visto, è il confronto, proposto da Michel, con gli avvenimenti francesi, quasi in un illuminante contrappunto. Che sarebbe similmente accaduto di Parigi insorta, in quelle medesime settimane, se il generale von Choltiz avesse dato ascolto all’ordine di distruzione di Hitler, qualora le forze alleate (e per prime quelle del gollista Ledere) non l’avessero alla fine raggiunta e soccorsa?
Non diversamente la seconda grave tensione con l’Urss, che si identifica nella questio
ne del nuovo potere in Polonia, dopo la soluzione imposta di fatto al problema dei confini, trova ancora una volta drammaticamente isolata la resistenza e il suo governo. Se Churchill tenta alla fine di irrigidirsi con i sovietici, soccombe comunque sotto la imprevedibile capacità negoziatrice di Stalin, forte non soltanto del successo delle sue armate ma del debole sostegno dato da Roosevelt, ingenuamente fiducioso nella democraticità di Stalin, alle tardive intenzioni di Churchill di ovviare alle conseguenze di questa nuova sconfitta diplomatica dell’Occidente.
Sulle lotte per il potere in Polonia e il distacco, non privo di cecità e grettezza, di Roosevelt dai problemi dell’Europa orientale (tutto preso com’egli era dai suoi equilibri elettorali, assai meno pressanti e drammatici invero di quelli dell’Europa sacrificata; e tutto intento a blandire Stalin per averlo solidale nell’ultima fase della guerra contro il Giappone), Henri Michel costruisce la parte più nuova e mediata della sua opera, in cui la franchezza dei giudizi va di pari passo con un costante controllo di obiettività e di informazione. Fra il resto egli contraddice giustamente la ormai generalizzata ipotesi che fosse stata Jalta a dividere l’Europa (in realtà già divisa dagli accordi Churchill-Stalin a Mosca nell’ottobre ’44); mentre fu il tradimento di Jalta a confermare la frattura, e cioè il mancato impegno a consentire a molti paesi la libera scelta dei loro futuri governi.
Il libro di Henri Michel è forse la più cattivante opera che io abbia letto su tutta la vicenda polacca, poiché il quadro che egli traccia non è soltanto una penetrante sintesi degli avvenimenti e dei complessi problemi, ma anche la storia morale di un popolo, drammatica- mente abbandonato dagli alleati, che pur combattevano nello stesso campo della liberazione dal nazismo, e a cui i polacchi avevano offerto, senza nulla riavere in cambio, la più tragica messe di sacrifici che si ricordi di tutta la Resistenza in Europa.
Giorgio Vaccarino
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“Maestri e compagni” dell’antifascismodi Carlo Francovich
Sono questi (Norberto Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli editore, 1984, pp. 299, lire 25.000; Alessandro Galante Garrone, I miei maggiori, Milano, Garzanti, 1984, pp. 343, lire 18.000) due volumi che si integrano a vicenda, scritti da due autori dalla medesima fede ed entrambi presenti nella lotta antifascista, militanti nelle file del Partito d’azione. Ambedue, tuttora fedeli agli ideali professati ed elaborati negli anni del “roveto ardente”, sotto il mazziniano stimolo di pensiero e azione, fanno adesso i conti di ciò che debbono ai loro “maggiori” , maestri e compagni, scomparsi ora dalla scena politica.
Bobbio in una serie di saggi traccia i profili di coloro che furono i padri e i promotori del rosselliano socialismo liberale, di Giustizia e Libertà, del liberalsocialismo, del socialismo riformista: Rodolfo Mondol- fo, Salvemini, Calamandrei, Omodeo, Capitini, e via di seguito. Campeggiano sullo sfondo, anche se non chiamati direttamente in causa: Piero Gobetti e Benedetto Croce. Su quest’ultimo c’è (pp. 169-170) una vivace e verace pagina, scritta con garbata autoironia, circa la sua grandissima influenza sui giovani, che sullo scorcio degli anni venti si destavano alla vita intellettuale: “L’iniziazione a Croce offriva un criterio indiscutibile per distinguere in modo alquanto settario (non posso negarlo) gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati... L’autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri, che non li avevano accolti o li avevano sdegnosamente rifiutati. Croce era la voce del tempo”. Da parte mia aggiungerei, ma senza autoironia, che Croce aiutò anche molti di noi a passare da un antifascismo generico ed istintivo a
un antifascismo consapevole, fondato sulla filosofia della libertà.
Campeggia sullo sfondo, sebbene non chiamato espressamente in causa, Piero Gobetti, prevalentemente nel saggio su Augusto Monti. Ed è giusto, perché Monti “è stato uno degli interpreti più rigorosi e più convinti del messaggio gobettiano” che trasmise, dalla cattedra del liceo D’Azeglio, a un’intera generazione di giovani, divenuti poi attivi oppositori del regime: da Giancarlo Pajetta a Leone Ginzburg, da Cesare Pavese a Massimo Mila. In questo saggio si può leggere quella che, a mio giudizio, è la più bella e più chiara sintesi di Rivoluzione liberale: “Una formula che comprende tre idee fondamentali: l’idea che una rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma inevitabilmente nel suo contrario; l’idea che la trasformazione dello stato italiano non potrà avvenire se non attraverso un processo rivoluzionario, un processo che altri paesi hanno avuto con la riforma o con la rivoluzione mentre l’Italia ha avuto la Controriforma invece della riforma, e il Risorgimento che invece di una rivoluzione è stato una conquista militare compiuta dall’alto; l’idea che nell’età dell’avvento del quarto stato, la rivoluzione non potrà essere fatta se non dal movimento operaio, non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha dimostrato di avere esaurito il suo compito” (p. 157).
I saggi di Bobbio si dividono in due categorie. Quelli che propriamente spiegano e illustrano filosoficamente il pensiero dei “maestri” . Ed è questo il caso delle lucide analisi dedicate al marxismo di Rodolfo Mondolfo, al revisionismo empirista di Gaetano Salvemini, nonché dei due bellissimi saggi (i migliori, secondo me) su Aldo Capi- tini. Essi enucleano e rendono evidenti le teo
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rie capitiniane, così complesse ed astruse nella loro espressione scritta, quanto erano accessibili nelle parole suasive del nostro indimenticabile Gandhi italico.
Ci sono poi, oltre a quello di Eugenio Co- lorni, filosofo, europeista e vittima della bestialità fascista, i ritratti di uomini più specificamente impegnati nella lotta clandestina e che ora risuscitano nell’appassionata rievocazione dell’autore, che fu loro compagno e amico. Sono costoro, oltre al già ricordato Monti, Leone Ginzburg e l’eroico Antonio Giuriolo. La loro vicenda è narrata con stile che talvolta richiama alla mente le Vite Parallele di Plutarco.
Infine il libro di Bobbio è prezioso non solo per i saggi citati, ma anche per l’affiorare ogni tanto di notizie inedite e comunque utilissime. Valga come esempio (nonché come testimonianza della inadeguatezza del recensore, ahimè, salveminianamente “non-filo- sofo”) la nota a pagina 147, nel saggio dedicato a Calamandrei scrittore politico. Ivi finalmente si trova esattamente elencato l’itinerario di noi ex azionisti — guidati dall’intrepido “Pippo” Codignola — attraverso i vari gruppuscoli minoritari, tra scissioni ed espulsioni, fino all’approdo in Unità proletaria e, per molti di noi anche nel partito socialista, liberato dal dogmatismo marxista e dal patto di unità d’azione.
Con lo stesso spirito di saldare un debito di riconoscenza è scritta l’opera di Galante Garrone, che ricorda i suoi maestri e i suoi compagni con impegno di storico, recando, nello stesso tempo, un notevole contributo su determinati avvenimenti citati nel corso del volume. Ai “vecchi” e venerati maestri, come Francesco Ruffini e Luigi Einaudi, si affiancano Omodeo, Salvatorelli e Jemolo, con i quali l’autore ebbe rapporti di reciproca amicizia, ed altri come Salvemini, Calamandrei, Ernesto Rossi, Parri e Livio Bianco, che furono legati a lui da una assoluta identità di sentire nella vicenda politica e nella convivenza umana. Anche qui si ha una
galleria di personaggi, diversi fra loro ma accomunati dall’avversione al fascismo e dalla volontà di rinnovare l’Italia nelle istituzioni, nel costume morale, attingendo fede e ragione dal nostro Risorgimento: spessissimo in queste pagine ricorre il nome di Mazzini, di Cattaneo, di De Sanctis. I saggi qui raccolti sono in gran parte già stati pubblicati, ma ora integrati e collegati fra loro; pubblicati talvolta su giornaletti partigiani, sfuggiti quindi anche al pubblico specialista, qui trovano la loro giusta collocazione. Saggi ricchi di nuove interpretazioni e di puntualizzazioni inedite, come ad esempio il capitolo Storia dì un giuramento (o piuttosto di un non giuramento) opportunamente inserito fra le pagine dedicate a Francesco Ruffini. Qui per la prima volta viene esposta, in ogni suo dettaglio la vicenda del giuramento imposto dal regime ai professori universitari (p. 32-47). Nuovo ed interessante è quanto l’autore scrive sull’opera storica e sull’attività politica di Adolfo Omodeo, nonché sui rapporti complessi di quest’ultimo con Gentile e con Croce.
Ma le pagine più belle — a mio avviso — sono quelle dedicate a Salvemini e a Calamandrei, cui anche qui soccorrono testimonianze e lettere inedite, provenienti dall’archivio dell’autore. Per Salvemini egli prende le mosse da quella splendida lezione tenuta all’Università di Firenze nel 1949, nel riassumere il posto che dovette abbandonare nel lontano 1926, per rivivere poi tutta l’attività di storico del Medioevo, della Rivoluzione francese, di Mazzini e di Cattaneo; la sua attività di socialista, degli anni dell’ “Unità” e dell’interventismo, del “Non Mollare!” e dell’esilio americano. Ed altrettanto sentite sono le pagine dedicate a Piero Calamandrei — cui è dedicato il saggio più lungo — le quali prendono le mosse dal famoso “Giornalino della domenica”, di Luigi Bertelli (Vamba), che, negli anni dell’interventismo e della prima guerra mondiale, infiammò una intera generazione di patriottismo democra
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tico e repubblicano, affiancato purtroppo dal nazionalismo di padre Pistelli. Con molta delicatezza Galante Garrone tratteggia i rapporti di Piero col padre Rodolfo e quelli ancora più complessi col figlio Franco. Esatta e documentata quella che per alcuni è tuttora una vexata quaestio, della collaborazione alla compilazione dei codici, cosiddetti fascisti. Nessun cedimento di Calamandrei di fronte a Dino Grandi, al quale era ben noto l’antifascismo del suo interlocutore, ma soltanto volontà di migliorare la legislazione della procedura civile, all’insegna del suo maestro Giuseppe Chiovenda; nessun incensamento al fascismo o al duce, come del resto ben sanno coloro che furono suoi allievi, e che non gli hanno mai sentito nemmeno pronunziare, nel corso delle sue lezioni, il nome di Mussolini o del fascio: dalla sua scuola uscirono molti che si cimentarono nella lotta antifascista e nella guerra di liberazione, come “Pippo” Codignola, Enzo Enriques Agnoletti, Carlo Fumo...
Né sfugge all’autore la finezza letteraria del suo protagonista, nel cui Diario rivivono alcune preziose pagine dell’Inventario di una casa di campagna, laddove si parla degli ozi forzati nel rifugio di Corcello. L’autore inoltre pone giustamente in risalto come Calamandrei per primo intuisse la “spontaneità” del moto resistenziale e cita quella pagina famosa (p. 217) in cui Calamandrei definisce la Resistenza come “quel misterioso e miracoloso moto di popolo, questo miracoloso accorrere di gente umile, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di prendere il fucile... cosicché vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica... come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno”. E tale modo di ragionare Calamandrei lo attinse dalla propria esperienza, vissuta in Toscana, in Umbria, vale a dire nell’Italia mezzadrile, dove realmente ci fu questo concorso attivo dei contadini alla guerra di liberazione. Né sfugge a Galante Garrone quella che si chiama il
fondo dell’anima, cioè la consapevolezza del mistero in cui siamo immersi. Ne è simbolo quella farfalla del Poveromo “che ogni anno tornava, con una puntualità quasi paurosa, latrice di qualche misterioso presagio o messaggio”. Cosicché, se non possiamo parlare di un Calamandrei credente, esiste almeno un Calamandrei “rispettoso di ogni fede religiosa”, poiché, come ebbe a dire in un discorso alla Costituente: “La religione è una cosa seria, poiché la cosa più seria della vita è la morte” (p. 202).
Ma mi dilungherei troppo se dovessi segnalare tutte le pagine interessanti e convincenti. Alcune addirittura attuali, come le inedite parole che Jemolo scrisse all’autore sul caso Reder, parole bellissime, che se non altro trovano il pieno consenso dello scrivente. C’è poi il saggio dedicato ad Ernesto Rossi con una opportuna rivalutazione de II manganello e l’aspersorio e una lettura in positivo del suo anticlericalismo.
Quello però che in questa sede mi preme di porre in rilievo è il capitolo che raccoglie gli scritti dedicati a Ferruccio Parri, in cui si rivendica con nuovi apporti documentari non tanto l’azione militare quanto quella politica, condotta all’insegna dell’unità antifascista. Azione iniziata già da Carlo Rosselli in Francia nei mesi precedenti la sua morte. E viene a questo proposito riesumata la polemica con Indro Montanelli, assai screanzato nei confronti di “Maurizio”, anche se in seguito corresse la sua valutazione, limitandosi — bontà sua — a definirlo “forte nel subire la persecuzione”, ma “debole nell’azione politica” . Molto opportunamente Galante Garrone ricorda come fosse merito di Parri l’avere affermato nel novembre del 1943, di fronte agli emissari alleati, la Resistenza italiana come guerra di popolo e non come organizzazione di pochi nuclei efficienti addestrati al sabotaggio e alle informazioni politico-militari, come essi avrebbero voluto. E anche questa fu una riuscita azione politica, come quando, dopo la liberazione, nei pochi
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mesi in cui resse il governo, egli seppe affrontare, in mezzo ad enormi difficoltà economiche, il separatismo siciliano, e dette l’avvio al cambio della moneta, onde realizzare una perequazione fiscale.
Se i suoi disegni si realizzarono solo in parte, la colpa non fu di “Maurizio”, ma fu ra ffermarsi della politica compromissoria dei tradizionali partiti politici. Fu però valida azione politica l’avere lottato contro l’ege
monia democristiana, capeggiando nel ’53 Unità popolare, ultima propaggine del Partito d’azione, che impedì l’instaurarsi di un regime cattolico.
Non qui finisce l’opera di Galante Garrone. Essa si conclude con brevi ricordi di magistrati “compagni e maestri” dell’autore: Alvazzi Delfrate, Manfredini e Peretti Griva.
Carlo Francovich
Francesco Saverio NittiUn “esperto politico”
di Maria Malatesta
L’imponente biografia su Nitti scritta da Francesco Barbagallo (Nitti, Torino, Utet, 1984, pp. 681, lire 52.500) per la collana “La vita sociale della nuova Italia” fondata da Nino Valeri, colma uno strano vuoto storiografico relativo a questo grande intellettuale ed uomo di stato. La bibliografia specifica su Nitti dalla fine degli anni cinquanta al 1983 comprende meno di quindici titoli, incluse le pubblicazioni di carteggi e di inediti non contenuti nell’edizione nazionale delle sue opere. La contraddittoria e spesso avversa fama, di cui godette Nitti nel corso della sua vita, ha esercitato i suoi influssi anche sul piano storiografico. Il silenzio è stato interrotto da valutazioni spesso parziali, derivate dall’analisi settoriale di alcuni periodi della sua attività politica o di aspetti particolari della sua produzione teorica. Il taglio biografico ha restituito il senso della continuità e della completezza di una vita e di una carriera, consentendo di individuare le linee di persistenza di un tragitto politico ed umano con una precisione dovuta tanto all’ampiezza e pluralità delle fonti utilizzate, quanto alla stessa dimen
sione temporale nella quale si svolge. Il lungo periodo è fondamentale nella valutazione storiografica di Barbagallo. Il giovane Nitti meridionalista, il tecnocrate, l’uomo di stato del primo dopoguerra, il grande vecchio escluso dalla ricostruzione politica ed istituzionale della nuova Italia rivelano un dato comune, sovente sottovalutato o negato dalla storiografia precedente: Nitti fu essenzialmente un politico.
“Animale politico” , piuttosto che tecnocrate o “uomo del capitale” . La sua tormentata carriera di uomo di stato, i fallimenti che gli sono stati imputati, non sono riconducibili ad una presunta incapacità di progettazione politica globale, dovuta alla sopravvalutazione di un’ottica produttivistica ed efficientistica. Nitti fu un grande progettatore, un elaboratore di piani proiettati nel futuro, con una rara prerogativa di anticipare tempi politici e sviluppi economici. Gli mancò la capacità contingente di calcolare nel presente il peso reale di quei fattori che ostacolavano la realizzazione delle direttive da lui individuate per realizzare la crescita del paese.
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Capacità intellettuali, rigore morale e passione disinteressata per la politica. Ma anche “io” ipersviluppato, tanto da ritenersi sempre “l’artefice” di ogni situazione. Carattere fortemente polemico, oltre che ipercritico, con una decisa propensione alla lotta, quando non alla rissa. Uomo dai grandi odi e dai titanici rifiuti. Il personaggio Nitti emerge in tutta la sua corrucciata complessità: dalla sua proiezione nel futuro, durante il periodo liberale, al ripiegarsi, dagli anni del fascismo, nel mitico passato di un’Europa scandita da un armonico sviluppo del capitalismo, arroccato su di una concezione squisitamente liberale basata sulla competizione individuale.
Se non fu solo un tecnocrate, l’essere stato un “esperto politico”, un politico della competenza, fa di Nitti un personaggio singolare nel contesto italiano dell’epoca, assai più vicino a realtà europee più avanzate. Economista, professore di scienza delle finanze, avvocato consulente di banche e grandi imprese: la sua per certi versi spettacolare carriera è molto diversa da quella dei politici avvocati di formazione umanistica o dai politici burocrati. La cultura è per lui un business. Professionalità e politica si uniscono all’organizzazione culturale in un grande managering. Pagò duramente il prezzo per le sue molteplici attività che lo misero a contatto con il mondo degli affari e dell’industria. Barbagallo ha smontato puntualmente l’accusa che sia stato “uomo del capitale” , che abbia cioè favorito, quando era ministro e capo del governo, gli interessi dei gruppi economici con i quali aveva avuto rapporti professionali come consulente di diritto commerciale e societario. Resta il dato sociologico di una concezione ed una pratica di una carriera svolta su molteplici piani, all’insegna dell’utilizzazione di una forte competenza tecnica e professionale. In questo può essere forse rintracciato un altro punto di contatto con Keynes, oltre ai più noti elementi di accordo sulle “conseguen
ze economiche della pace” . Keynes sfruttò infatti le sue competenze di economista soprattutto come attento e fortunato giocatore in borsa. Nitti alternava i periodi in cui fu ministro alla professione di avvocato commercialista, entrando personalmente anche in imprese industriali e finanziarie.
Formatosi nell’ambiente della Napoli di fine Ottocento, si distacca per il suo attivismo dalla tipologia dell’intellettuale meridionale. L’homo novus, lo studente-lavoratore che in brevissimo tempo raggiunge con la sua intelligenza ed abilità, ma anche con dure lotte, i più alti gradi accademici e politici, elabora un grande modello di sviluppo economico e politico del paese, la cui forza dinamica ha una rispondenza antropologica con il suo autore. Dalla “questione meridionale” alla “questione industriale” . La produzione di Nitti economista si snoda nella direzione di attribuire un ruolo centrale allo stato nel determinare le condizioni dello sviluppo industriale: il raggiungimento cioè dell’autonomia energetica attraverso lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, realizzabile solo tramite la nazionalizzazione del settore. Il modello di sviluppo nittiano presuppone una borghesia industriale produttiva e progressista, uno stato interventista nei settori cruciali dell’economia e della previdenza sociale, una classe operaia riformista ed un regime di alti salari. Si configura anche come un progetto politico di ampio respiro, all’interno del quale emerge il ruolo dello stato come propulsore (non come sovvenzionatore) di una crescita economica basata sulla priorità dell’industria e finalizzata al raggiungimento di un equilibrio economico nazionale che colmi gli scarti tra Nord e Sud.
All’interno di questo progetto politico il governo dell’economia ha un posto determinante. In questo settore Nitti eserciterà la sua competenza tecnica prima come ministro di agricoltura, industria e commercio,
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poi come ministro del tesoro durante la guerra, accentrando in quest’ultimo dicastero poteri assai vasti, forte della consapevolezza dei mutamenti che si stavano verificando all’interno della direzione pubblica dell’economia. La tecnocrazia di Nitti si rivela, alla luce degli eventi bellici e postbellici, non un limite delle sue strategie politiche ma piuttosto uno strumento per individuare i problemi economici da risolvere con urgenza: la riconversione industriale, l’arresto dell’ascesa dei cambi, la ricerca di crediti all’estero. La valenza della sua strategia di ricostruzione economica, basata sempre su di un accentuato produttivismo e su di un ulteriore potenziamento dell’interventismo statale, deve comunque essere colta alla luce delle altre componenti che qualificano la sua politica nei tre ministeri che, dal 1919 al 1920, lo videro capo del governo.
L’intensa attività di politica internazionale, tutta volta alla ricerca di nuove forme di cooperazione politica ed economica, che lo misero in aperto contrasto con la Francia e su posizioni filo-britanniche, costituisce il complemento della linea politica che tentò di svolgere all’interno. Ma allo stesso modo in cui il suo modello di sviluppo industriale era troppo avanzato per imporsi sui compromessi con i ceti parassitari tipici dell’età giolittia- na, così nel periodo postbellico la cooperazione ed il produttivismo non riescono a trovare nel paese interlocutori adatti, a differenza di quanto stava avvenendo sul piano internazionale. La realizzazione del progetto di ricostruzione nittiano necessitava una collaborazione tra capitale e lavoro che avrebbe dovuto esprimersi in una mediazione social- democratica “con forti caratteri tecnocratici, tendenzialmente corporativi” . Le spinte rivoluzionarie della classe operaia, la crescita inarrestabile dei nazionalismi, il rifiuto delle forze economiche di abbandonare la visione dello “Stato-strumento” per quella di “Stato-coordinatore” di problemi sociali ed economici, provocarono il fallimento della sua
linea. In essa la difesa dello stato liberale dagli opposti estremismi avrebbe dovuto realizzarsi attraverso il passaggio dallo “stato conteso” allo “stato mediatore” .
Progetto politico ancora una volta troppo proiettato verso il futuro, anticipatore di mutamenti che si sarebbero verificati molto tempo dopo. È forse su questo terreno che può essere valutata meglio la capacità di Nitti di individuare le tendenze evolutive delle società contemporanee. Lo stato mediatore, la politica di orchestrazione degli interessi, che ermergeranno nella fase di definitiva affermazione del capitalismo maturo, definiscono una linea che distacca profondamente Nitti da Giolitti e dalla politica dell’età liberale, ancora basata su di una concezione ed una realtà dello stato conteso tra i vari gruppi di interesse. L’abuso stesso del decreto-legge che, quando era primo ministro, gli fu imputato dai socialisti, costituisce un’altra anticipazione di una delle caratteristiche dei sistemi politici attuali: il predominio dell’esecutivo sul legislativo.
Nitti teorico e politico del capitalismo maturo? È impossibile dare a questa domanda una risposta totalmente affermativa, dato che per certi aspetti restò profondamente segnato dal liberalismo otto-novecentesco. Prova ne è il suo pervicace rifiuto, anche dopo la seconda guerra mondiale, di riconoscere il ruolo assunto dai partiti di massa all’interno del sistema politico. Un singolare cocktail tra un’irriducibile fedeltà aH’elitarismo politico e una pragmatica opzione per il socialismo di stato. Questi aspetti ambivalenti gli resero difficile la coabitazione con gli uomini del suo tempo: Nitti, se così si può dire, produsse nemici su scala industriale. Anche questo dato è forse attribuibile a quello che Barbadoro definisce come il suo “positivismo totalizzante”, un realismo cioè che assunse sovente la forma di un’incapacità di valutare il peso effettivo degli avversari. Il radicalismo fu una sua caratteristica personale, oltre che politica, che si trasformò, a
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partire dal 1921, in quell’atteggiamento di “sdegnoso salvatore della patria in attesa di richiamo che non avrebbe più abbandonato, in un duro quanto inefficace scontro con la realtà”.
Su queste posizioni, non comprendendo lui pure — come molti altri — agli inizi la vera natura del fascismo, gli si oppone immediatamente in quanto governo fondato sulla violenza antistituzionale. Nel 1923, dopo i ripetuti assalti fascisti, sceglie la via dell’esilio; nei ventun anni passati all’estero prosegue il suo percorso individuale, mantenendosi staccato dai gruppi resistenti riparatisi come lui in Francia. Fatto prigioniero nel 1943 dai tedeschi, torna in Italia senza aver potuto comprendere il significato del movimento di liberazione e assume puntigliose posizioni politiche che lo isolano irrimediabilmente. Escluso con Orlando dalla commissione preparatoria del progetto della carta costituzionale, non riesce a portare a termine l’incarico di formare il governo datogli nel 1947, nonostante l’appoggio di socialisti e comunisti. Forte
mente avverso al nascente regime democristiano, favorevole al piano Marshall ma contrario al carattere militare del Patto atlantico, diventa l’artefice della lista di sinistra a Roma, per le elezioni amministrative del 1952. La distanza ideologica che lo separava dai comunisti viene superata in nome di una cooperazione volta a superare i blocchi contrapposti e a fornire una fase efficace per la ricostruzione della nuova Italia.
A pochi mesi dalla morte, avvenuta il 20 febbraio 1953, il vecchio parlamentare esprime in una lettera a Togliatti una rinnovata apertura verso il futuro, un progetto di collaborazione tra movimento operaio, ceti medi democratici ed intellettuali. La battaglia per le amministrative conclude una vita dedicata alla politica, segnando al tempo stesso la fine di quella “chiusura individualistica” e il superamento della “difficoltà a comprendere le profonde trasformazioni avvenute nella società italiana dopo la caduta del fascismo”.
Maria Malatesta
Didattica della storia e riforma della scuoladi Biagio Passaro
La prospettiva di un’imminente riforma della scuola secondaria suscitò, verso la fine degli anni settanta, un coraggioso e originale dibattito sull’insegnamento della storia. Vengono allora proposti concetti come quelli di un più stretto rapporto tra ricerca e didattica, della critica al manuale e ai programmi ministeriali, del laboratorio di storia, della valenza scientifica e didattica di un nuovo tipo di storia locale, dell’apporto delle fonti orali e delle scienze sociali: tematiche tutte
ben radicate nei più fecondi indirizzi storiografici contemporanei.
S’intravedeva allora un rinnovamento della didattica della storia che investiva l’intera scuola e tale da richiedere l’apporto di considerevoli forze culturali e politiche.
Ora, a pochi anni di distanza, la riforma della scuola secondaria sembra suscitare minore eco e la sua elaborazione si inquadra in un contesto politico mutato. A molti infatti appare improbabile un rinnovamento radica
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le della scuola con una classe politica che tende a presentare come impraticabile qualsiasi alterazione dei tradizionali equilibri di potere e poiché la scuola è certamente un anello importante di tali equilibri, se proprio non la si può utilizzare attivamente, si preferisce lasciarla decadere.
In nome di un realismo, forse giustificabile, vengono avanzate proposte compatibili con gli attuali livelli di competenza del personale docente, con le intramontabili certezze del manuale e della storia generale con le sue classiche periodizzazioni. Ci si ritiene soddisfatti di qualche correttivo, se grazie ad esso l’insegnamento viene impostato in maniera più problematica, arricchito con esercizi sull’uso delle fonti, come operazioni di smontaggio e decodificazione di un testo storiografico.
Sono, certo, acquisizioni qualificate e necessarie, ma parziali e inclini a far considerare il rinnovamento solo una questione interna alla scuola e non un problema di rapporto diverso tra scuola e società.
Proprio su questo argomento il libro di Francesco De Bartolomeis Scuola e territorio. Verso un sistema formativo allargato, (Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 150, lire 12.500) mostra di non subire l’influenza di siffatti ripiegamenti; anzi la chiave di volta di tutte le argomentazioni è indicata nella fine della “centralità” dell’istituzione scolastica e la nascita di un “sistema formativo allargato” . Alla scuola, ormai trasformata in un sistema di laboratori, l’autore vede la necessità di affiancare, con piena dignità educativa, le informazioni e le competenze professionali di enti e istituzioni pubbliche e private, amministrative e culturali, produttive e ricreative, che operano sul territorio.
Un insegnamento, anche se metodologicamente rinnovato, che si risolvesse esclusiva- mente nel chiuso della scuola, inevitabilmente rappresenterebbe un grave ridimensionamento dei propositi riformatori. Le stesse realtà sociali riportate a misura scolastica, ri
sultano “fittizie, snaturate, irriconoscibili, private dei caratteri e dei nessi vitali che le determinano. Sono produttivi invece i rapporti con le cose a dimensione reale, anche se pochissimi aspetti di essi possono essere compresi” (p. 37).
A ciò è dovuto l’inaridirsi di tante esperienze didattiche innovative ma ancora inserite in una scuola chiusa e autosufficiente. Anche nella pratica delle ricerche simulate, gli oggetti della realtà risultano falsi e fittizi; la realtà esterna viene rappresentata in maniera snaturata e irriconoscibile.
Per l’autore non si tratta di portare la realtà nella scuola, né al limite “fare scuola fuori della scuola” , come in altre occasioni egli stesso ha sostenuto; pur senza riconoscersi tra i fautori di una descolarizzazione, l’autore preferisce ora affermare che “non si deve fare scuola, né dentro né fuori la scuola” (p. 3).
Da questa affermazione consegue la necessità di una stretta connessione tra teoria e pratica, tra comprensione e produzione: “c’è rinnovamento educativo se non solo gli studenti ma anche gli insegnanti diventano produttori di cultura” (p. 52). L’autore è da sempre favorevole all’assunzione di una metodologia della ricerca che agevoli la trasformazione della scuola in una “struttura di laboratori”, culturalmente produttiva e che necessariamente conduca all’uso sistematico dell’esterno e del territorio.
E ancora, tiene a precisare De Bartolomeis, che ciò che si considera “esterno” alla scuola è in realtà “interno'” all’individuo studente; i due termini risultano complementari: la centralità spetta agli studenti e alla loro esperienza.
Allo stesso modo è evidente che una didattica come ricerca non deve essere soffocata da un’eccessiva normativa delle tecniche, da rigide tassonomie, da esercizi solo di tipo applicativo, insomma da un insegnamento di tipo “grammaticale”.
E questo è più che evidente per una didattica della storia imperniata sulla ricerca. In
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realtà il libro non parla specificamente di storia, ma della storia dice cose che pochi storici saprebbero dire. “Il passato è un modo di essere dell’attualità”; e ancora: “il passato agisce in noi, nelle cose di cui facciamo esperienza, nei modi di organizzazione della società e della vita privata, nelle leggi e nei costumi. Ha senso parlare di cause, di resistenza e di viscosità dei fenomeni, di strati..., di obiettivi di lotta, proprio perché il passato non è svanito” (p. 33).
La storia è quindi considerata una sostanza vitale di cui siamo costruiti; ed è rilevante il posto che essa occupa nel “sistema formativo” . Si prospetta la necessità di un insegnamento “forte” della storia, praticato attraverso ricerche didattiche che, a partire da ciò che è vicino nel tempo e nello spazio, utilizzino fonti e realtà presenti nel territorio. Non è pensabile un rinnovamento, fondato peraltro sull’uso del laboratorio di storia, che eluda la questione della storia locale.
De Bartolemeis ritorna sul concetto di “locale” e di “cultura locale” e sostiene che sono termini che non stanno affatto ad indicare chiusura e limitazione, ma l’opposto. Il “locale” è individuabile in “area prossima a quella in cui vivono gli studenti, nei servizi della città, nei luoghi di produzione, nella campagna, nei cosiddetti servizi culturali”, ma anche “in altre città con cui le classi stabiliscano rapporti di scambio” (p. 2) e ancora nelle “realtà lontane che esercitano influenze pressanti” (p. 38). Quando si studiano a fondo queste realtà locali, se ne scopre “la molteplicità di piani storici e di connessioni spaziali” (p. 32).
Ne è un esempio ciò che avviene quando si studia la storia della propria città, grande o piccola che sia, che non è possibile delimitare entro un determinato territorio senza cogliere la rete di relazioni che l’attraversa e la collega a realtà più ampie e significative.
Non vale la pena ripetere qui le critiche e le perplessità che accompagnano ogni discorso
sull’uso didattico della storia locale. L’autore, per evitare fraintendimenti riduttivi, prescrive raffronti, analogie, comparazioni che allarghino il campo di indagine evidenziando le connessioni e gli intrecci. Oltre a ciò, è comunque decisivo che le ricerche sul territorio possano guidare verso aree avanzate della cultura.
È inutile nascondersi dietro la sicurezza dei programmi attuali, troppo estesi “in osservanza a falsi criteri di coerenza storica e di completezza” (p. 32) e che già da tempo non garantiscono una formazione e un’istruzione adeguate, né rispetto ai bisogni del sistema produttivo, né rispetto alle esigenze di una società democratica.
Non sarà necessario né utile fornire agli studenti una massa di informazioni, quanto piuttosto gli strumenti mentali e operativi per cercare queste informazioni e imparare ad usarle nella realtà. Non basta inoltre conoscere il presente e scoprirne lo spessore storico; è importante che la scuola insegni ad operare e a progettare il futuro, a predisporre progetti operativi capaci di incidere sulla realtà.
È qui riaffermata la valenza trasformatrice e politica di un insegnamento e di una scuola che si fanno soggetti educativi concreti e adeguati. La nascita del “sistema formativo allargato” richiede che la collaborazione tra la scuola e le realtà politico-amministrative del territorio diventi sistematica e produttiva.
De Bartolomeis confida in un’estensione e in una precisazione delle competenze degli enti locali in materia di diritto allo studio, criticando come arbitraria la distinzione che assegnerebbe all’ente locale compiti assistenziali e solo all’amministrazione scolastica centrale, e alle sue articolazioni periferiche, le funzioni educative. Gli eccessivi timori di indebite invasioni (per lo più attribuite agli enti locali), denotano una mentalità che per “occuparsi di” intende tout court: “occupare”, “impadronirsi di ” . Questo potrebbe essere il
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punto di vista dell’amministrazione centrale, ma non è ciò che si intende quando si parla di funzioni educative anche degli enti locali.
Un altro elemento che l’autore ritiene decisivo — accogliendo la lezione degli storici delle “Annales” — è l’ampliamento del campo d’indagine anche agli aspetti materiali e quotidiani della vita (capitoli XIX e XX). Già nell’introduzione, De Bartolomeis si compiace che ormai “alla cultura come letteratura, poesia, saggistica, arti, scienza s’intreccia la cultura materiale, un insieme di elementi che, pur avendo un peso enorme nella nostra esistenza, viene considerata indegna di attenzione culturale” . L’ambito della cultura materiale gli appare privilegiato anche per ristabilire un corretto rapporto tra scuola e territorio; un campo che senza forzature riapre la comunicazione tra l’esperienza scolastica e l’esperienza sociale e familiare degli studenti, cosa che invano si era cercato di attivare con gli asfittici organi collegiali.
In conclusione, un serio rinnovamento della didattica della storia deve poggiare per l’autore su un modello storiografico che per la varietà dei temi si presti ad indagini ravvicinate, si serva di fonti e realtà vicine a noi, ai nostri studenti; fonti che sono sotto gli occhi di tutti, nella nostra memoria, in quella
dei nostri parenti, nelle vie e nei palazzi delle nostre città e paesi. Non le solite ricerche d’ambiente — mette in guardia l’autore — intese come raccolta insignificante di notizie da enciclopedie, manuali, libri di storia campanilistica, che poi non è “ricerca” , ma inutile perdita di tempo.
Se il sottotitolo di un precedente libro di De Bartolomeis (Sistema dei laboratori, Milano, Feltrinelli, 1978), diceva: Per una scuola nuova necessaria e possibile, questo Scuola e territorio ha il merito di fare intravedere questa scuola nuova e non solo come progetto di un pedagogista, ma come una tendenza già in atto, già operante in tante parti del nostro paese, anche se non ancora organica- mente strutturata e generalizzabile.
Le esperienze più valide vanno configurando non una scuola chiusa in se stessa, con pretese di autosufficienza, ma un sistema formativo allargato.
Una scuola che, se perde la sua astratta centralità, può acquistare quella funzione di laboratorio in cui i dati raccolti sul territorio vengono elaborati culturalmente, scientifica- mente per divenire ipotesi interpretativa, conoscenza della realtà, progetto operativo.
Biagio Passaro
Storia dell’educazione, storia sociale e storia d’Italia
di Gaetano Bonetta
Alcuni anni fa, quando in molti auspicarono una crescita di interesse e un arricchimento metodologico degli studi di storia della scuola e dell’educazione non mancò chi espresse incredulità, scetticismo e indifferenza. Ma a
scorrere la produzione storiografica di questi ultimi tempi c’è da ricredersi: parecchie di quelle aspettative non sono andate deluse. Molti infatti sono stati i saggi dedicati ai problemi storici dell’educazione, dall ’ancien ré-
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girne ai nostri giorni, che hanno non solo arricchito il panorama degli studi storico-educativi, ma sulla scia epistemologica della “geografia storica dell’educazione” hanno perfezionato e valorizzato una strumentazione metodologica multidisciplinare e hanno fornito ulteriori elementi di chiarificazione di quel complesso universo socio-culturale, nonché politico ed economico, che è stata la storia dell’Italia contemporanea. Dei tanti lavori apparsi, per i quali sarebbe anche difficoltoso solo compilare un elenco, in questa sede se ne vogliono prendere in esame alcuni che si sono mossi nelPambito della cosiddetta “storia locale” ed altri ancora che hanno tentato una riconsiderazione storiografica ed una riconsiderazione sintetica delle vicende scolastiche del nostro paese dal 1860 ad oggi.
Con Pane e grammatica. L ’istruzione elementare in Romagna alla fine dell’800 (Milano, Angeli, 1983, pp. 176, lire 10.000) di Stefano Pivato la ricerca storico-educativa compie senz’altro un passo avanti sia dal punto di vista metodologico che da quello storiografico. Dal primo punto di vista, l’autore ha scavato con sicura perizia in quelle aree disciplinari (antropologia, sociologia, quotidianità, geografia storica ecc.) spesso eluse dalla storia delle istituzioni scolastiche e da quella pedagogica in genere. Dal secondo, l’autore risponde in pieno, senza ipostatizzazioni di sorta, alle sollecitazioni emerse di recente circa l’esigenza di restringere ad un “campus” le ricerche storico-educative per fare chiara luce sull’articolato, diversificato e composito mondo “culturale” italiano di quegli anni, quando venivano avviati i primi seri tentativi per creare la “nazione” nelle sue strutture politiche, economiche, sociale e culturali.
La ricerca di Pivato — condotta prevalentemente su fondi archivistici locali, sulle carte del ministero della Pubblica Istruzione (depositate presso l’Archivio centrale dello stato di Roma), su una abbondante pubblicistica coeva, e corredata di grafici e statisti
che varie — prende le mosse dall’eredità scolastico-istituzionale, e culturale, dello Stato pontificio e da quanto nei primi anni post unitari si pose contro l’introduzione della nuova istruzione nazionale tendenzialmente laica e religiosamente positivista. Di qui per arrivare: in primo luogo, all’analisi dell’insorgenza dei molteplici fattori politici, culturali ed economici che ostacolarono la realizzazione della speranza liberale e positivista di una generalizzata scolarizzazione popolare per una non molto vaga crescita civile del paese; in secondo luogo, allo studio di quelle istanze ideali e pratiche politiche, da un lato reazionarie e da un altro lato rivoluzionarie, che proprio a livello locale vollero orientare ed egemonizzare con carica e contenuti alternativi la “nuova” variabile socio-politica che venne ad essere la scuola elementare; le prime contenendo e clericalizzando l’istruzione, le seconde diffondendola e finalizzandola all’emancipazione culturale e politica delle classi subalterne.
E proprio dall’analisi di questa progettualità politico-culturale emergente ed alternativa, benché di segno opposto — e da quanto potrebbe scaturire da una futura comparazione con quanto avvenne politicamente in tante altre zone d’Italia — ci viene fornito un aspetto saliente e peculiare, generalizzato e ben strutturato nelle popolazioni della Romagna, ove i più generali fenomeni sociali acquistano una forte valenza politica. Infatti qui, più che altrove, dove pure con una conflittualità in atto permaneva una certa dissociazione fra politica e società in genere, i processi educativi di socializzazione vengono più facilmente e naturalmente proiettati nella sfera del politico, la quale a sua volta va assumendo una autonomia non meramente so- vrastrutturale. Ciò naturalmente non sta a significare che 1’esistenza della scuola in Romagna fu un’esistenza “depedagogizzata” , quanto invece la rilevanza che nei processi educativi romagnoli ha assunto la loro naturale componente politica, nonché i condizio
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namenti negativi o positivi che economia in genere, sistemi produttivi, sistema di valori culturali, stratificazione, mobilità, interazione sociale hanno su di essi esercitato.
In questa “obbligata” direzione di ricerca, quindi, il lavoro di Pivato si snoda nell’individuazione dei momenti e dei fenomeni diacronici, relativi anche all’istruzione informale, che contribuirono con forza a dialettizzare il ruolo politico, economico e sociale della scuola primaria, nel suo aspetto istituzionale come pedagogico-culturale. In particolare l’attenzione dell’autore si posa sulla formazione e sull’analisi del progetto sempre più organico di una educazione anticlericale, sullo scontro politico e ideale di questo con il mondo e con il movimento cattolico, per giungere all’attività educativa delle società di mutuo soccorso e al programma del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, per il quale l’educazione rivestiva, come detto, una funzione ideologica e politica di fondamentale importanza per la rigenerazione delle masse popolari. Ad illustrare inoltre più compiutamente il panorama ideologico-culturale e pedagogico concorre la ricca appendice documentaria, fondata per lo più su inediti, dove oltre ad essere ripresi i vari orientamenti politici in tema di istruzione elementare vengono esposte quelle che furono le grandi direttive pedagogiche e didattiche che animarono le scuole primarie con alterno successo.
Utilizzando una omologa strumentazione metodologica, i medesimi paradigmi storiografici, sfruttando i fondi archivistici del Centrale di Roma e altri di livello provinciale e comunale, consultando una cospicua pubblicistica coeva, Angelo Semeraro con Cattedra, altare, foro. Educare e istruire nella società di Terra d ’Otranto tra Otto e Novecento (Lecce, Milella, 1984) ci porta nell’“universo educativo” del tacco d’Italia, ovvero in un territorio con perimetri culturali, sociali, economici, istituzionali ben individuabili ove la “vicenda” scolastica, educativa che ci viene raccontata sfuma, si integra, si confonde
con la più generale “vicenda” sociale ed umana. Cattedra, altare e foro ci fanno intendere tout court la caratterizzazione classista dei processi educativi in Terra d’Otranto nel declinare del secolo diciannovesimo, la detenzione egemonica, ideologica e istituzionale, degli apparati di gestione dell’improrogabile diffusione delle abilità fondamentali, saper leggere scrivere e far di conto, e della selettiva formazione dei quadri dirigenti locali e non, delle élites politiche ed economiche.
I ceti più abbienti, quelli in genere dominanti, si davano, infatti, un gran da fare per lo sviluppo dell’istruzione popolare “perché attraverso questa passasse una educazione a sistema di valori che trovavano nell’immobi- lismo la possibilità della sopravvivenza” . La scuola andava assumendo “così sempre più esclusivamente il compito di educare alla legalità e alla sopportazione del proprio stato. E i suoi tratti selettivi-cooptativi diventavano via via rigidissimi, giacché costituivano per i ceti popolari l’imbuto attraverso il quale si accedeva all’altra società” (pp. 19-20).
In tale disegno l’opzione educativa più che quella istruttiva dominò l’orientamento dello sviluppo scolastico lento ma continuo che era in corso. E benché non fossero mancati forze, gruppi, disegni che avrebbero voluto privilegiare nettamente per una diversificazione e crescita economica l’aspetto istruttivo della scuola, questa divenne “la santa scuola dell’educazione” , tutta tesa a moralizzare gli individui e la società, le relazioni interpersonali, parentali, pubbliche e sociali, e poi ancora il mondo del lavoro, della produzione, i rapporti di produzione, i rapporti di potere. Nettezza morale divenne quindi sinonimo di passività e neutralità sociale e politica per coloro i quali si erano da poco affacciati al mondo della cultura scritta.
Una scuola così caratterizzata non poteva nei suoi ordini superiori non condurre ad una istruzione tendenzialmente ed esclusiva- mente letteraria che trovava ragion d’essere anche in un peculiare tessuto economico,
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piuttosto univoco. La città che altrove, e segnatamente in parecchie zone settentrionali, stava a significare urbanesimo ed industrialismo, qui nel Salento “trae vita dal numero straordinario di enti collettivi che vi fioriscono” . “Certo — commenta un amministratore provinciale — noi vorremmo che accanto a quel po’ di floridezza che danno le amministrazioni pubbliche e gli stabilimenti educativi, vi fosse una vera e propria attività industriale; ma noi siamo ancora lontani dallo sperare tanto bene in un prossimo avvenire (...) non dobbiamo perciò perdere il vantaggio che ci viene dalle indicate istituzioni” (p. 119).
Questo universo scolastico si fa più chiaro, la sua natura si rende più manifesta quando la narrazione di Semeraro prende a trattare delle tante altre vicende scolastiche, quali i tentativi di introduzione dell’istruzione agraria, dell’istituzione degli asili infantili, ancora “fra beneficienza privata e assistenza pubblica”, della vita e dei problemi dei seminari, educandati, convitti, collegi e delle scuole di ordine secondario; e ancora delle vicende degli operatori scolastici, in particolare degli ispettori, “non solo inutili, ma dannosi”, e dei maestri, protagonisti di “storie di marginalità”. Per finire con le vicende di particolare interesse che riguardano l’editoria scolastica, i libri di testo, il metodo d’insegnamento, la didattica attraverso cui la giornata scolastica veniva riempita e i processi educativi acquistavano concretamente contenuti e valori.
Ancor più ispirato alla microstoria è il volume di Simonetta Ulivieri, Gonfalonieri, maestri e scolari in Val di Cornia. Storia locale di istruzione popolare (Angeli, Milano, 1985). Anche la Ulivieri quindi con questo suo nuovo saggio cerca e trova nuove frontiere, considerato il lento ed irreversibile esaurirsi della storia dell’educazione intesa come esclusiva storia delle idee e del dibattito pedagogico e la legittima diffidenza che va nutrita verso una storia delia legislazione e
delle istituzioni scolastiche troppo concentrata sullo svolgimento nazionale, sulle medie statistiche, sull’aggregazione di dati e fatti poco omogenei. L’autore, infatti, ferma la propria attenzione su una zona abbastanza ristretta, la piccola città di Piombino e il territorio ad essa circostante, con il deliberato scopo di arricchire la mappa nazionale dell’istruzione post unitaria, indispensabile per comprendere fino in fondo e nella loro precipua natura i nodi storici e reali della scuola del nostro paese.
Attraverso l’utilizzazione di materiale archivistico inedito viene messa a fuoco la vita scolastica piombinese sia nelle componenti fisiche che culturali in senso lato. Emerge netta una “meridionalizzazione” di tutto l’apparato scolastico: mancanza di edifici, di suppellettili e materiale didattico, livelli igienici inaccettabili, mancanza di aria e di luce negli ambienti scolastici. Altrettanto nette sono la subordinazione diffusa dei maestri, la loro scarsa professionalità e il loro scarso prestigio sociale; l’incompletezza e l’improvvisazione dei metodi d’insegnamento, della didattica in genere, e la mancanza quasi totale della ginnastica educativa e dell’istruzione agraria; infine la scarsa frequenza scolastica, ovvero la notevole evasione dell’obbligo scolastico determinata per gran parte dal lavoro minorile. Questo quadro si completa e si arrichisce con una singolare appendice ragionata di regolamenti, rapporti, relazioni, note, bandi, lettere ecc. che animano e vivificano la narrazione della Ulivieri.
Spesso per simili percorsi disciplinari, giovani e probabilmente scientificamente “incompiuti” , si esigono sia da un punto di vista metodologico che cognitivo, tematico, momenti di riflessione, di analisi retrospettive su quanto finora emerso e, perché no, di generali riconsiderazioni teoriche. Ciò è quanto si è avvertito per la nostra complessiva e giovane storiografia sulla scuola italiana e ciò è quanto è stato fatto da Giorgio Canestri con Centoventanni di storia della scuola 1861-
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1983 (Torino, Loescher, 1983, pp. 96, lire 7.500) e da Dario Ragazzini con Storia della scuola italiana. Linee generali e problemi di ricerca (Firenze, Le Monnier, 1983), i quali tra l’altro hanno redatto volumi di sicuro successo per Faggiornamento degli insegnanti e dato un contributo ragguardevole alla divulgazione dei temi e dei nodi storici della nostra scuola dall’Unità in poi.
I due volumi, tuttavia, quantunque siano omologhi per la legittima esigenza di fare il punto su quanto finora prodotto, per l’aver avvalorato certi paradigmi storiografici e per il loro carattere pedagogicamente e professionalmente “militante”, differiscono non poco nella loro conformazione, nella loro struttura.
II libro di Canestri, che si distingue per rara sinteticità e tecnica espositiva, pone forse la parola fine alle riemergenti e spesso accademiche discussioni circa la più pertinente periodizzazione storica della scuola italiana. Infatti per Canestri da un punto di vista politico e culturale tre sono i grandi periodi di spiccata caratterizzazione ideale, educativa ed istituzionale della nostra storia scolastica, vale a dire quelli liberale, fascista e repubblicano. Per ognuno di questi tre periodi scorre una veloce e chiara narrazione dei momenti, delle leggi, dei personaggi, dei problemi, dei
movimenti ideali e politici, dei fenomeni sociali ed economici, delle correnti filosofiche e pedagogiche che hanno fatto la cosiddetta storia “pluri-evenemenziale” della scuola italiana, per la comprensione della quale inoltre sono utilissime la “cronologia” dei momenti legislativi e politici più salienti e la “nota bibliografica” ordinata per periodi e temi che il Canestri ci ha apparecchiato.
Il volume di Ragazzini è composto diversa- mente. Nella prima parte “è proposta una sintesi di storia della scuola in Italia dagli intenti espositivi, nella seconda è proposto il tema delle relazioni intercorrenti fra storiografia educativa, teoria della scuola e teoria della storia” (p. 5). In particolare Ragazzini con questo suo nuovo lavoro ci vuole dare un ragguaglio “sullo stato degli studi storici in campo educativo, una illustrazione dei dibattiti in corso e delle nuove tendenze della ricerca, una riflessione sul significato che la storia dell’educazione ha per la comprensione degli odierni problemi educativi” (ivi). In questa direzione vengono ribaditi i nuovi orizzonti proposti dalla più recente storiografia, il bisogno di una necessaria multidisciplinarità e precisati i comparti tematici interessati ad una composita ricostruzione storica dei processi educativi.
Gaetano Bonetta
R assegna della sta m p a su l X L della liberazione
“Il Corriere della Sera”
Lucio Colletti ha aperto un dibattito (L ’a lib i d e l l’an tifascism o , 24 marzo) sul tema dell’identità tra antifascismo e democrazia affermando che “la tesi è in apparenza ovvia; in realtà, cela un equivoco”, giacché “se la democrazia... non può non essere antifascista, non
sempre è vera l’affermazione inversa”. L’unità d’azione realizzatasi durante la Resistenza avrebbe pertanto rivestito un carattere puramente operativo, tanto è vero, prosegue Colletti, che nel dopoguerra “chi teneva ai valori della democrazia occidentale e sul fondamento di essi intendeva ricostruire il Paese... fu costretto a rompere l’unità antifascista per uscire dall’equivoco della collaborazione con quanti guardavano all’Unione Sovietica come allo
Stato-guida e alla dittatura del partito unico come al fine ultimo”. Alle affermazioni di Colletti, Paolo Spriano {Il germ e p lu ra lista nel cuore d e l C L N , 26 marzo) replica sottolineando che l’unità antifascista “fu realizzata su una piattaforma di principio e problematica che era quella della ‘democrazia’ (e ribadendo che “nessuno dei ‘mondi’ nei quali si raccoglievano le forze fondamentali della società italiana era di per sé acquisito alla democrazia poli
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tica nel 1943” . Su una linea in parte analoga si muove anche l’intervento di Pietro Scoppola (I veri m eriti d e l C L N , 3 aprile), secondo il quale se “è vero che l’antifascismo non è uguale alla democrazia”, è “vero anche che l’unità antifascista... è stata una scuola di democrazia” e che in ogni caso “non si può rovesciare la giusta distinzione tra antifascismo e democrazia in una identificazione tra anticomunismo e democrazia”. Gli articoli di Adrian Lyttelton (D im en tica re T oglia tti, 2 aprile) e di Piero Melograni (M asoch ism o s to r ico , 2 aprile) sviluppano a loro volta tematiche parallele al quesito sollevato da Colletti. Lyttelton affaccia il discorso sul nodo di interessi sociali che, al di là delle contrapposizioni ideologiche, portarono all’esaurimento dell’unità antifascista; Melograni accomuna antifascismo e fascismo in un’unica condanna in quanto serbatoi di “idee antimoderne” e proclama la necessità di “capire che l’Italia chiede ancora alla sua classe politica quella modernizzazione che né il fascismo né l’antifascismo seppero darle”.
Non mette naturalmente conto di sottolineare i risvolti che collegano il dibattito di allora all’attualità politica ed in particolare a quanto è definibile come “questione comunista”. L’uso del passato, anche nelle sue forme più esasperate, costituisce la condizione stessa della discussione e ne determina la potenziale ricchezza. Ciò che colpisce, in questo ambito, è piuttosto il perpetuarsi di una tendenza (esemplarmente documentata dall’articolo di Colletti) a frapporre nel rapporto tra passato e presente un ieri fittizio
che proprio perché tale ottunde anziché chiarire le posizioni a confronto. Le diversità e contrapposizioni ideologiche interne allo schieramento antifascista sono da sempre un minimo comun denominatore della storiografia in materia; ma il problema storico, che è anche di oggi, consiste appunto nel chiedersi come queste diversità e contrapposizioni sono state vissute dentro e fuori gli stati maggiori dei partiti, come si sono intersecate con le altre molteplici spinte che hanno governato il movimento di resistenza e quale peso queste esperienze abbiano esercitato sulla fondazione dell’Italia repubblicana. Fuori di tale contesto (richiamato intonazioni diverse da Spriano, Scoppola e Lyttelton) l’appello alle certezze democratiche è solo un mortificante invito all’ignoranza delle tensioni reali che percorrevano la società italiana di fronte agli interrogativi scaturiti dalla crisi del 1943. E per lo scioglimento dei quali sembra davvero riduttivo immaginare uno sbocco da incontro di Teano.
m . l .
“Il Manifesto”
“Il Manifesto” del 25 aprile, in occasione del quarantennale della Resistenza, ha scelto di analizzare quella vasta operazione culturale, oggi in corso, di ripensamento del fascismo e della resistenza, che ha aperto un vero e proprio conflitto sul “controllo politico del passato nazionale”: sono articoli che si caratterizzano per l’impegno sul piano storiografico e tendono a
prospettare linee interpretative nuove e problematiche. La rubrica Il f i lo fa sc is ta ha come nucleo centrale di riflessione l’articolo di Luigi Ganapini sugli indirizzi dell’ultima storiografia (L ’occu pan te a fascista): mentre per qualche decennio la storiografia antifascista aveva permeato largamente le espressioni della cultura nelle forme e nelle sedi più varie, negli ultimi anni è andata emergendo una tendenza interpretativa ‘afascista’ che, pur non fondandosi su di un impianto teorico rigoroso, costringe chi non la condivide su posizioni esclusivamente difensive. Secondo Ganapini l’unica strategia per contrapporsi a questa tendenza non è la guerriglia tra storici, ma “una sorta di furore muratoriano” fatto di studi severi tendenti a raccogliere la più vasta documentazione e che consenta di conoscere la variegata e contraddittoria realtà del ventennio. Marcello Flores (M em oria d i f in e seco lo) si propone di analizzare come le categorie di ‘consenso’ e di ‘privato’, di solito feconde per la conoscenza della coscienza collettiva e della dimensione della quotidianità, abbiano potuto alimentare atteggiamenti di nostalgia e di indulgenza verso il fascismo. Accanto ad una vera e propria mistificazione del concetto di ‘privato’, viene sottolineata la responsabilità degli storici marxisti dediti a ricerche troppo specialistiche, dei giornalisti spesso approssimativi e dei mass media, preoccupati esclusivamente da esigenze di mercato. Guido Quazza (30 aprile) sottolinea la specificità (Un 25 aprile m usso- liniano) di questo 25 aprile caratterizzato da una “pseudocultura della riabilitazione” e da
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una storiografia che in nome dell’“oggettività” si appella ad ideali di conciliazione tra gli italiani occultando le ragioni storiche della conflittualità sociale e politica di un sessantennio di lotte. La proposta avanzata da Quazza, in linea con gli studi condotti dagli Istituti delle resistenza, si orienta verso una revisione della storia del dopo 1945, nella direzione di una prospettiva interdisciplinare che ponga la società in tutte le sue componenti al centro dell’analisi e, nella metodologia, dia largo spazio alle fonti orali che arricchiscono i dati storici con il vasto apporto dello studio delle mentalità. Claudio Pavone nel numero del 4 maggio (G uerra civile, m a non ‘b u o n a ’) propone la non facile e in genere molto discussa definizione della Resistenza come guerra civile e analizza nel contempo le ragioni di natura psicologica tendenti a configurarla esclusivamente come lotta patriottica e antitedesca, risalendo sia alla valenza negativa attribuita al termine sia all’esigenza degli italiani di costituirsi un’identità come popolo, di fronte al crollo delle istituzioni e alla duplice sconfitta. Pavone respinge la qualificazione di “buona guerra civile”, così come viene definita da Massimo Ilardi sulle tracce di Henry di Montherlant (L a buona guerra civile. G li italiani, la guerra, la resistenza. Un C onvegno a M ilano, 26 aprile), richiamandosi alla tragicità del momento storico.
Tra la memorialistica proposta da “Il Manifesto” (30 aprile), particolarmente suggestivi sono i ricordi del 25 aprile di Rossana Rossanda per la loro freschezza e nel contempo per la
carica problematica che li pervade. La Rossanda ricorda come nel periodo di confusione ideologica in cui si andava dibattendo e per le sue origini borghesi e per le diverse linee dell’antifascismo, “una giovane oca” si presentò ad Antonio Banfi “le cui lezioni erano un’avventura favolosa, una sorta di navigazione tra i marosi cui ci gettava, a diventare grandi senza salvagente”, per domandare la natura della sua fede politica. La risposta fu una bibliografia dei classici del comuniSmo, la cui pronta e febbrile lettura orientò per la vita la giovane studentessa.
p.p.
“Panorama”
L’inserto speciale di “Panorama” del 14 aprile, dopo un lungo articolo di ricostruzione storico-cronachistica del 25 aprile 1945 di Corrado Augias (Q uel m ercoled ì d ’aprile) pubblica alcuni interventi che vale la pena di ricordare. Lucio Villari (M iseria e libertà) mette in evidenza un aspetto forse poco noto all’opinione pubblica, le profonde differenze nella situazione economica tra un Sud, devastato da un’inflazione selvaggia, e un Nord in cui nonostante tutto l’economia industriale aveva tenuto e i programmi di economia di guerra si erano incontrati “con gli interessi complessivi dei gruppi industriali, finanziari e commerciali”. Salvatore Veca (Q uan to dura un m ito ) indaga le cause del mito collettivo della resistenza e del suo perdurare nel tempo tanto che ancor oggi esso mostra una capacità di tenuta, cause che individua nel
modo di formazione dell’unità nazionale “pilotata da élite ristrette, secondo il modello liberale di stampo ottocentesco, che esclude di fatto ampie masse di ‘sudditi’ dalla condizione di cittadini”; successivamente il fascismo “riesce a suo modo a generare questa appartenenza nazionale... costringendo gli italiani a considerarsi una nazione e un popolo, a bastonate magari”. Il mito della resistenza quindi “si pone come mito di rifondazione nazionale con le libertà e anzi grazie ad esse”. “La resistenza è vissuta come termine ideale di un processo di lunga durata avviato nel XIX secolo dalle élite risorgimentali e compiuto, quasi un secolo dopo, con la rivoluzione democratica” e pluralista. Il suo mito è pertanto strettamente legato al mito di fondazione di una Costituzione e in ciò sta la ragione della sua stabilità nel tempo. Interessanti sono le pagine conclusive dedicate in articoli non firmati aH’immagine e al giudizio sulla resistenza dati all’estero dalla stampa e dagli storici (C he ne p en sa lo stran iero). La stampa ignorò a suo tempo quasi totalmente la vicenda italiana, ma il fatto trovava la sua naturale e quasi ovvia spiegazione nell’atmosfera del tempo e nella quasi contemporanea fine del conflitto che oscurò ogni altro avvenimento. Il giudizio degli storici tuttavia ripropone questa mancanza di rilievo e, secondo “Panorama”, “in estrema sintesi concorda su almeno due punti fondamentali: a) la resistenza italiana ha avuto uno scarso peso sulle operazioni militari vere e proprie; b) molto maggiore è stato il suo peso psicologico nel- l’agevolare l’uscita dall’atmo
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sfera della guerra, e della disfatta”. Tra gli storici interpellati sono Mack Smith; Peter Lange dell’Università di Harvard; Stewart Hughes dell’Università di San Diego in California; Victoria De Grazia, una studiosa americana che ha pubblicato un libro su C onsenso e cultura d i m assa n e ll’Ita lia fa sc is ta , tradotto per Laterza; Albrecht Tyrrel, dell’Università di Bonn; Erich Kuby, studioso tedesco autore di un volume che non ha riscosso molti consensi in Germania, I l tra d im en to tedesco , tradotto per Rizzoli, in cui sostiene la tesi che all’interno dell’alleanza italo-tedesca furono i tedeschi a tradire per primi nel 1939 con l’invasione senza preavviso agli alleati della Polonia. Sui due punti di “Panorama” concorda anche Deakin nell’intervista rilasciata a “Repubblica”.
c.r.
“La Repubblica”
La stampa d’opinione ha pubblicato in occasione del quarantennale articoli ed inserti speciali che, cercando anche se non sempre felicemente di evitare l’aspetto meramente celebrativo, si richiamano in linea di massima a due filoni: la ricostruzione storica soprattutto della giornata del 25 aprile e la memorialistica. In genere i due filoni sono spesso affiancati ed intrecciati, ma fine comune — almeno negli interventi più significativi ai quali soli facciamo riferimento — è stato quello di tracciare un bilancio e di chiarire il rapporto tra storia e mito. Su questa linea è ad esempio l’inserto di “Repubblica” del 23
aprile: 2J aprile 1945 quaranta n n i d o p o , con articoli di Giorgio Bocca, Italo Calvino, un’intervista di Edgardo Bartoli a Frederick Deakin, cui seguono le pagine dedicate ai protagonisti: le interviste di Paolo Mieli agli uomini chiave della grande industria — Merzagora, Agnelli, Pirelli — e a Pajetta; l’intervento di Silvia Giacomoni sull’arcivescovo di Milano Schuster; di Sandro Setta su Mussolini e la sua operazione-ponte verso il Psi; di Giuseppe Conti sull’operazione salva-gerarchi. Sia Bocca (O re 10: insurrezione) sia Calvino (T an te s to r ie che abb ia m o d im en tica to ) prendono le mosse dalla loro personale partecipazione agli avvenimenti e all’atmosfera del 25 aprile 1945 per approdare ad un tentativo di bilancio. Per Bocca “il 25 aprile è allo stesso tempo la nascita e la morte di un’epoca’” anche se allora ne mancò la consapevolezza. “La cosa più diversa e penso irripetibile tra l’Italia di allora e di oggi è che allora tutti, non solo i partigiani, sono convinti di essere padroni del destino nazionale”; il significato maggiore della resistenza è stato quello “di ridare al paese la fiducia nel futuro” e avere creato “la prima vera omogeneità nella nostra storia”, omogeneità che nonostante tutto almeno nel fondo è rimasta; ciò che invece è mancato dice Bocca è stato “in notevole parte una cultura moderna” e da questa mancanza sono derivate pesanti conseguenze e una serie di occasioni perdute che sono state e sono tuttora duramente pagate. Anche per Calvino “nonostante tutte le divisioni interne la resistenza è stata nelle grandi linee unita, unita tra le sue compo
nenti attive e unita al sentimento della popolazione nel suo insieme”, il che spiega la difficoltà ad interpretarla dottrinariamente e in senso unidirezionale. L’intervista a Deakin di Bartoli (Q uei p a rtig ian i che non cap im m o) chiarisce la mancanza di comprensione e l’importanza marginale attribuita, allora ed oggi, alla resistenza italiana da parte degli alleati e delle opinioni pubbliche e degli storici di altri paesi, tranne rare eccezioni.
Una sorta di bilancio era stato anche quello tentato qualche settimana prima (“Repubblica”, 30 marzo) da Alberto Asor Rosa (Q u a ra n ta n n i d o p o ), per il quale “il modello italiano” nato dalla guerra e dalla lotta di liberazione ha mostrato al di là delle apparenti continue aspre conflittualità interne “eccezionali caratteristiche di durevolezza e resistenza, o, forse, sarebbe meglio dire, di flessibilità e accomodamento” , permettendo così quarant’anni di stabilità, frutto di una pace e di una sicurezza... che da un certo punto in poi hanno cominciato a produrre frutti intossicati”, dato che alla immutabilità della situazione politica sia delle forme di governo sia di quelle d’opposizione si sono invece contrapposte profonde mutazioni “antropo- logiche” che esigono ora un superamento di “questa democrazia imperfetta”.
Rievocazioni personali (Mario Soldati, Q uella fu c ila zio n e spen se il m io o d io ) e ricostruzione storica (Renato Mieli, T og lia tti non a veva du bb i: da so li non ci sa rem m o liberati) sono i temi che contrassegnano le pagine più significative pubblicate dal “Corriere della sera” del 21
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aprile; lo stesso discorso vale per gli interventi di Alessandro Galante Garrone {M a non p ia n ta va m o bandiere su lle to rr i) e Oreste Del Buono {Da! lager su l cam ion d e i d ispera ti) sulla “Stampa” del 25 aprile.
c.r.
“Rinascita”
Con esplicito riferimento al quarantesimo della Liberazione, “Rinascita” dedica “11 contemporaneo”, inserito nel numero del 20 aprile, ad una serie di interventi su “Il fascismo nella storia d’Italia”. I contributi ospitati sono raggruppabili in due categorie principali: della messa a punto delle ricerche su singoli settori ed aspetti; della discussione sugli orientamenti di studio e di visuale politica emersi negli ultimi anni. Appartengono prevalentemente al primo tipo gli scritti di F. Benvenuto sui fronti popolari; di G. Santomassimo su Togliatti; di E. Garin e C. De Seta sulla cultura e le arti; di G. Toniolo, L. Villari e V. Castronovo, D. Preti e G. Sapelli su politica economica, produzione, classi sociali; di C. Casucci e A. Del Boca sul- l’imperialismo fascista; di M. De Giorgio sulla condizione femminile; di E. Collotti sul raffronto fascismo-nazismo. Rientrano nel secondo gruppo le interviste a P. Ingrao, R. Villari ed E. Hobsbawn; gli interventi di F. Ferraresi e M. Revelli sul neofascismo e di M. Ciliberto, N. Tranfaglia, N. Gallerano e P. Alatri sull’attuale orientamento della produzione tra storiografia e mass media. Anche dalla semplice elencazione di autori e temi emerge l’ampiezza
del quadro e la sua funzione di aggiornamento critico, anche se a questo proposito v’è da lamentare l’assenza di puntuali riferimenti bibliografici. Molti interventi ricapitolano analisi e ri- costruzione che i rispettivi autori hanno da tempo realizzato attraverso pubblicazioni che sarebbe stato opportuno richiamare, anche per dar modo al lettore di risalire alla formulazione di quei giudizi e al contesto storico-politico da cui sono scaturiti. L’osservazione non mi sembra né pedante né marginale, se si tiene conto della necessità di stabilire uno stretto raccordo tra la riesposizione di risultati già acquisiti e l’evoluzione della storiografia più recente. In questa ultima direzione appaiono particolarmente sollecitanti, oltre alle osservazioni di Ingrao, l’invito di Tranfaglia a ricerche di storia comparata ed i riferimenti di Gallerano al ruolo svolto dalle comunicazioni di massa nel deprimere il profilo delle conoscenze sul regime e sulle sue forme di compenetrazione con le varie articolazioni della società italiana. L’impressione complessiva è tuttavia quella di un discorso che deve ancora precisare le sue coordinate di fondo, come si può vedere, ad esempio, dalla intervista di Hobsbawm sulla correlazione fascismo-modernizzazione, intervista francamente deludente data la statura di studioso dell’interlocutore. Segnalerei infine, tra le inevitabile assenze, una che appare particolarmente rilevante proprio in tema di modernizzazione: quella del rapporto fascismo-chiesa-mondo cattolico, che è cerniera indispensabile per impostare il dibattito sulla “modernizza
zione” italiana al di là del fascismo.
m.l.
“L’Unità”
“L’Unità” (21 aprile) ha proposto ai suoi lettori un panorama della Resistenza di carattere divulgativo (25 aprile 1945- 1985 L iberi), legato a canoni interpretativi molto tradizionali: i brevissimi articoli e memorie di P. Spriano, G. Boffa, G. Procacci, S. Rodotà, V. Foa, R. Zangheri, A. Boldrini, R. Scappini, N. Marcellino, M. Lizzerò, G. Brambilla, P. Colajanni, G.C. Pajetta, S. Lenci, G. Petter, U. Pecchioli, G.C. Caselli, L. Violante, A. Savioli, P. Soldini, P. Barile, G. La Malfa, T. Anseimi, N. Jotti, A. Garzia, G. Chiaro- monte, B. Ugolino, G. Carli. M. Martinazzoli, raggruppati per temi {R ivo lu zion e d em o cra tica , Q uel g iorn o in d ire tta , I l m o n d o ieri e oggi, R esisten za non terrorism o , Tragedia indelebile , I l p e rco rso d e i p a r titi, Vita dem ocra tica e S ta to , L e vie dello sv ilu p p o ) propongono una descrizione della lotta di liberazione nei suoi singoli aspetti più che una riflessione problematica.
Alcune sezioni legate a temi di attualità come il terrorismo e il caso Reder offrono spunti critici che smuovono, sia pure in modo parziale, il generale quadro di storia immobile e assorta nella contemplazione di sé che “L’Unità” presenta. Maurizio Ferrara {N on eravam o banditi, fa c e v a m o la guerra), prendendo spunto da un giudizio di Norberto Bobbio (“Europeo”, 20 ottobre 1984)
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che qualifica come terroristica l’uccisione di Giovanni Gentile e dei soldati tedeschi di via Ra- sella in quanto “vittime innocenti perché scelte a caso”, traccia una linea di demarcazione tra questi atti che si rivolgevano contro un capo ideale della Repubblica di Salò e contro soldati appartenenti ad un esercito occupante, e gli attentati delle BR. L’articolo di Enzo Collotti (D ietro a R ed er la vergogna d i tro p p e im punità) mette in luce l’atteggiamento di sostanziale ambiguità politica che alla fine della guerra ha portato alla non volontà di ricercare e di punire i colpevoli dei crimini nazisti.
Le conseguenze delle tattiche assolutorie degli alleati a cui si aggiunse nel periodo della guerra fredda una ulteriore indulgenza al fine di ottenere il consenso dei tedeschi allo schieramento occidentale, pesano ancora sulla nostra storia determinando atteggiamenti giustifica- zionisti tendenti a teorizzare impunibilità e irresponsabilità e provocando stati d’animo contraddittori e ambigui. La dimensione prevalentemente politico-descrittiva di queste pagine, se talora offre qualche apertura critica verso eventi di attualità, tuttavia chiude la resistenza in un orizzonte ormai codificato e concluso, ignorando sia l’apporto dei più recenti orientamenti della storiografia che il dibattito attuale sulle linee interpretative di una rievocazione storica “afascista”.
p.p.
Una mostra su Parri dimezzato
Promossa dal Comune di Milano, dall’Istituto milanese per
la storia della resistenza e del movimento operaio e dal ministero per i Beni Culturali si è tenuta a Milano una mostra su “Parri, la coscienza della democrazia”. L’esposizione è accompagnata dalla pubblicazione, Mazzotta editore, di un catalogo comprendente anche una ricca serie di interventi, in parte dedicati ad illuminare momenti specifici della vita e dell’attività di Parri (con scritti, fra gli altri, di Mario Boneschi e Libero Lenti, Leo Valiani ed Enzo Col- lojtti), in parte a dar conto delle carte raccolte nei fondi versati all’Archivio centrale di Stato e in quelli dell’archivio personale presso la famiglia. L’iniziativa ha un rilievo indiscutibile e si presenta come una tappa importante per la ricostruzione dell’esperienza politica di Parri e della sua collocazione in rapporto alle fasi decisive della storia italiana del Novecento. Quando saranno giunte a compimento altre iniziative in corso (a cominciare da quelle avviate all’Istituto nazionale: ordinamento della documentazione versata alla Biblioteca-Archivio dell’Istituto e pubblicazione di un volume di saggi storico-interpretativi) l’acquisizione degli elementi di base per una completa ricostruzione dell’attività di Parri potrà dirsi realizzata. L’apporto che la mostra di Milano reca a questo obiettivo è considerevole soprattutto per la messa a punto filologica sulla giovinezza di Parri (la famiglia, la scuola, l’università). II percorso biografico è accompagnato da materiale iconografico spesso di prima mano, e reso con una evidenza che consente di utilizzarlo anche a fini didattici.
Più conosciuta è invece la documentazione su altri periodi, e
in particolare quello della Resistenza, dove il ricorso alla “cornice” (foto di guerra, riproduzione di testate della stampa clandestina ecc.) finisce per porre il personaggio in secondo piano, per scolorirne i tratti più originali. Ma ciò che suscita le maggiori riserve (il rilievo è stato sviluppato, fra gli altri, da Gianfranco Petrillo su “L’Unità” dell’ 11 maggio) è il veder troncata la narrazione all’atto della costituzione del governo Parri, così che lo spettatore-lettore si trova di fronte ad un percorso incompiuto, ad una biografia della cui mutilazione non sa spiegarsi le ragioni. Ragioni che non vorremmo risiedessero in quella proterva tradizione celebrativa secondo la quale il cammino dell’antifascismo e della Resistenza conosce un tempo storico (concluso e nobilitato dalla Liberazione) ed un successivo tempo politico consegnato alle polemiche ed allo spirito di parte. Con quale coerenza con la reiterata affermazione della Repubblica nata dalla Resistenza è facile arguire. E con quale rispetto per Parri, “coscienza della democrazia” che tace proprio al momento della verifica, è superfluo sottolineare. Ciò su cui appare necessario approfondire il discorso non è tuttavia la persistenza di questa tradizione quanto l’atteggiamento di coloro che, enti e studiosi, presentandosi come garanti del livello scientifico e culturale dell’iniziativa, abdicano al proprio compito se rinunciano a stabilire un corretto rapporto con le istituzioni committenti e a ricusare condizionamenti che distorcano il significato dell’iniziativa.
m . l .
Spoglio dei periodici italiani 1984a cura di Franco Pedone
Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Bologna), “Annali della Fondazione Gian- giacomo Feltrinelli” (Milano), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino), “Archivio trimestrale” (Roma), “Belfagor” (Firenze), “Critica storica” (Napoli), “Economia e lavoro” (Venezia), “Economia e storia” (Milano), “Economia italiana” (Roma), “Giornale degli economisti e annali di economia” (Milano), “Italia contemporanea” (Milano), “The Journal of European Economie History” (Roma), “Movimento operaio e socialista” (Genova), “Il Mulino” (Bologna), “Note economiche” (Siena), “Nuova antologia” (Firenze), “Nuova rivista storica” (Milano), “Passato e presente” (Firenze), “Il pensiero economico moderno” (Verona), “Il pensiero politico” (Roma), “Politica del diritto” (Bologna), “Il politico” (Pavia), “Il ponte” (Firenze), “Primo maggio” (Milano), “Problemi del socialismo” (Milano), “Qua
derni costituzionali” (Bologna), “Quaderni piacentini” (Milano), “Quaderni storici” (Bologna), “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma), “Ricerche storiche” (Napoli), “Rivista di politica economica” (Milano), “Rivista di storia contemporanea” (Torino), “Rivista di storia dell’agricoltura” (Firenze), “Rivista di storia della Chiesa in Italia” (Roma), “Rivista di storia economica” (Torino), “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali” (Padova), “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna), “Rivista storica italiana” (Napoli), “Storia e politica” (Milano), “Storia urbana” (Milano), “Studi emigrazione” (Roma), “Studi storici” (Roma).
Lo spoglio, che è stato effettuato da Franco Pedone, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano stati, a suo tempo, presi in considerazione.
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Rassegna bibliografica 143
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Corrado Malandrino, I l socia lism o in ternazionalista d i A n to n P an n ekoek tra guerra e r ivo lu zio n e , in “Studi storici”, a. XXV, n. 2, pp. 405-429.
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Cesare Marongiu Buonaiuti, L a San ta Sede e la R ep u b b lica sp a gn o la d o p o la C o stitu z io n e (9 d icem b re 1931-19 n o vem bre 1933), in “Storia e politica”, a. XXIII, n. 4, pp. 600-644.
Roberto Romani, Il p ia n o q u in quennale so v ie tico nel d ib a ttito co rp o ra tivo ita liano, 1928-1936, in “Italia contemporanea”, n. 155, pp. 27-41.
Italia
Gaetano Afeltra, M issiro li e la crisi dello S ta to liberale, in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 184-222.
A lla vigilia della co stitu zio n e d i “G iu stizia e L ib e r tà ”. Le interviste de “L’Italia del Popolo”. Interviste con Spertia, Gaetano Salvemini, Arturo Labriola, Emilio Lussu, Raffaele Rossetti, Carlo Rosselli e con un lavoratore della terra, in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 1-2, pp. 85-119.
Paolo Bagnoli, Ignazio S ilone e C arlo R osselli, in “Nuova antologia”, n. 2150, pp. 239-247.
Sabino Cassese, G li “S ta tu ti” deg li en ti d i B eneduce, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 5, pp. 941-946.
Pietro Cavallo - Pasquale Faccio, C eti m ed i em ergen ti e im m agine della d o n n a nella le tte ratura rosa deg li anni tren ta , in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 6, pp. 1149-1170.
Lucio Ceva, A s p e tt i p o litic i e giurid ic i d e l l’A lto com a n d o m ilitare in Ita lia (1848-1941), in “Il politico”, a. XLIX, n. 1, pp. 81-120.
Maria Luisa Cicalese, Il g iovan e D e G asperi. Idee p o litich e e qu estion e sco lastica tren tina, in “Critica storica”, a. XXI, n. 1, pp. 22-74.
Pietro Codiroli, 1929: il caso Salvem ini, F rancesco Chiesa, libera s ta m p a e a ltro , in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 315- 341.
Dino Cofrancesco, Guerra, f a scism o, in terven tism o . A p r o p o s i to d i una an to log ia , in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 5, pp. 909-939 [a proposito di: Il fa sc ism o . Antologia di scritti critici. A cura di Costanzo Ca- succi].
Arturo Colombo, L ’itinerario d i Franco C lerici, in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 139- 149.
C ulture p o p o la r i negli anni d e l fa sc ism o , in “Italia contemporanea”, n. 157, pp. 30-90.
Rassegna bibliografica 149
D elitto (II) M a tte o tti s e s sa n ta n n i d o p o : il co rdog lio negli inediti 1924-1929. Con introduzione e a cura di Stefano Caretti, in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 5-32.
Michel Dreyfus, L e sce lte in ternazion a li d e l P a rtito socia lista m assim alista , in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 2, pp. 237-259.
Luigi Einaudi, L e tte re a d A r cangelo G hisleri. A cura di Giuseppe Brescia, in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 144-148. [Le lettere si riferiscono al periodo 1918-1930],
E sercito ( L ’J nei g iorn i della “M arcia su R o m a ”: da lle “M e m orie s to r ic h e ” della 16° D iv is ion e d i F anteria d i s ta n za a R o m a nel 1922. A cura di Renzo De Felice, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 6, pp. 1207- 1211.
F ascism o: in terpre tazion i alcrocevia . Interventi di Adrian Lyttelton, Piero Melograni, Aldo Natoli, Giovanni Sabbatuc- ci, José Pirjeved, Theodor Ar- mon, in “Il Mulino”, a. XXXIII, n. 2, pp. 195-221.
Sandro Fontana, P er una storia d e l trasform ism o (1883-1983), in “Il politico”, a. XLIX, n. 2, pp. 303-320.
Alessandro Galante Garrone, P ro filo d i E rn esto R ossi, in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 62-74.
Emilio Gentile, Il p ro b lem a d e l p a r tito n el fa sc ism o ita liano, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 3, pp. 347-370.
G u ido B ergam o. Un p ro ta g o n is ta (Convegno di studi tenuto in Montebelluna il 14 gennaio 1984). Interventi di Giovanni Spadolini, Randolfo Pacciardi, Santi Fedele, Massimo Scioscio- li, in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 3, pp. 261-291.
Renzo Martinelli, l ì P a rtito nazio n a le fa sc is ta com e organism o b u ro cra tico -a m m in istra tivo , in “Passato e presente”, n. 6, pp. 175-188.
Serge Noiret, P e r una biografia d i N ico la B om bacci: con tribu to allo s tu d io d e l p e r io d o 1924- 1936, in “Società e storia”, a. VII, n. 25, pp. 591-631.
Serge Noiret, I l P si e le elezion i d e l 1919. L a n u ova legge e le tto rale. L a con qu ista d e l G ru ppo pa rla m en ta re socia lista da p a rte d e i m assim alisti, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 6 pp. 1093-1146.
Claudio Pogliano, Scienza e stirpe: eugenica in Ita lia 1912- 1939, in “Passato e presente”, n. 5, pp. 61-97.
Sandro Rogari, L e orig in i d e ll ’U nione italiana d e l la vo ro , in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 240-263.
Luigi Salvatorelli - Guglielmo Ferrerò, C arteggio ined ito (1925-1940). Con introduzione e a cura di Virgilio Santato, in “Nuova antologia”, n. 2150, pp. 5-37.
Pasquale Saraceno, D o n ato M enichella e il ra p p o rto B anca-Industria , in “Rivista di storia economica”, n.s., a. I, n. 2, pp. 269-274.
Liliana Senesi, L ettera tu ra sulla sv o lta p o litic a d e l 1933 nella p o litica esterna d i M usso lin i, in “Storia e politica”, a. XXIII, n. l,pp . 19-52.
S ilv io Trentin n e ll’em igrazione antifascista . Contributi di Giovanni Spadolini, Alessandro Pizzorosso, Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Leo Valia- ni. A cura di Giovanni Spadolini, in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 5-45.
Umberto Terracini, C on l ’a b ito bu on o e con blue jea n s. Un co lloqu io con L u ig i M oncon i, in “Belfagor”, a. XXXIX, n. 4, pp. 437-452 [intervista biografica].
Marina Tesoro, L ’itinerario p o litico d i F ernando Schiavetti. D a l p a r tito repu bb lican o a l p a r tito d ’azione, in “Il politico”, a. XLIX, n. 4, pp. 657-709.
Fabio Tomasetti, I p r im i anni d i a ttiv ità urbanistica de! com une d i R iccione, 1922-1932, in “Storia urbana”, a. VIII, n. 29, pp. 105-120.
Gerd Toscani, A n tifa sc ism o e in ternazionalism o. I l P a rtito re- p u b b lica n o negli anni d e ll’esilio (1926-1934), in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 3, pp. 435-456.
Diego Valeri - Manara Valgimi- gli, C arteggio 1928-1963. A cura di Maria Vittoria Ghezzo, in “Nuova antologia”, I, n. 2149, pp. 269-282; II, n. 2150, pp. 198-214; III, n. 2151, pp. 126-137.
Aldo Vallone, G iustino F o rtu nato e B en edetto C roce, in “Nuova antologia”, n. 2151, pp. 80-92.
150 Rassegna bibliografica
Gran Bretagna
Andrea Bosco, L o rd L oth ian e la grande illusione (1928-1930), in “Critica storica”, a. XXI, n. 4, pp. 594-663.
Ronald Munck, C lasse e relig ione a B elfast. Una p ro sp e ttiv a sto rica , in “Movimento operaio e socialista”, a. Vili, n.s., n. 3, pp. 357-371.
Egidio Ortona, L a cadu ta d i E den nel 1938, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 3, pp. 477-491.
Altri paesi
V.N. Bandera, C a p ita l A c c u m ulation a n d G row th in a M ix e d S ocia list E con om y: th e C ase o f S o vie tic N E P , in “The Journal of European Economic History”, voi. 13, n. 1, pp. 7-27.
Francesco Benvenuti, L a “lo tta p e r la re d d itiv ità ” n e ll’industria so v ie tica (1935-1936), in “Studi storici”, a. XXV, n. 2, pp. 461- 510.
Giuliana Gemelli, U n ’istitu zione am biva len te: le orig in i d e l C onseil national économ ique, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 4, pp. 539-577.
Lijubinika Karpowicz, L a M assoneria a F ium e: con tr ib u to p e r la sto ria dello S ta to libero d i F ium e, in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 3, pp. 313-335.
Sergio Piccolo, J .P . G o eb b els e la p rop a g a n d a nazionalsocia lista . P ro p o ste p e r una nuova chiave d i lettu ra a ttraverso testi
e d iscorsi, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 3, pp. 443- 461.
James J. Sadkovich, Il regim e d i A lessan dro in Jugoslavia: 1929-1934. U n ’in terp re ta zio n e , in “Storia contemporanea”, a. XV, n. l,pp . 5-37.
Carlotta Sorba, E dilizia p o p o la re della regione parig ina: il caso d e ll’“O ffice p u b lic d ’h a b ita tio n s à bon m arché du D ép a rte m en t d e la S e in e” (1915-1939), in “Storia urbana”, a. Vili, n. 26, pp. 77-114.
Mario Telò, L a socia ldem ocrazia tra g overn o d e l m u tam en to e crisi d i rappresen tanza. I l la b o ra torio svedese dagli anni trenta a d oggi, in “11 politico”, a. XLIX,n. 2, pp. 277-301.
Ricard Vinyes, L e basi socia li e cu lturali d e l F ron te p o p o la re in C atalogna, in “Studi storici”, a. XXV, n. 2, pp. 431-460.
Africa
Irma Taddia, Sulla p o litica d e lla terra nella C olon ia E ritrea (1890-1950), in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. l,pp . 42-78.
America
Carla Cappetti, S critto ri in terra straniera: il F edera l W riters’ P ro jec t, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 2,pp. 161-188.
Eugenia Scarzanella, L ’A m e r ica latina nei d ib a tti ti e nella s ta m p a d e ll’In ternazionale C o
m unista (1928-1935), in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 1, pp. 39-60.
Enzo Tagliacozzo, R o o seve lt e il “N e w D e a l”, in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 131-138.
Asia
Valeria Camporesi, L aw rence d ’A ra b ia : analisi d i una leggenda , in “Passato e presente”, n. 5, pp. 135-151.
Peter Duns, The R eaction o f Japa n ese B usiness to a S ta te -C o n tro lled E co n o m y in the 1930s, in “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali”, a. XXXI, n. 9, pp. 819- 832.
Seconda guerra mondiale
Pier Marcello Masotti, Il r im patrio d i donne, bam bin i, vecchi e d inva lid i ita lian i d a ll’E tio p ia nel 1942-43, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 3, pp. 463-473.
Enzo Tagliacozzo, “L 'Ita lia L ib era ” a N ew Y ork f r a il 1943 e il 1945, in “Nuova antologia”, n. 2151,pp. 101-113.
Europa
Giorgio Petracchi, L e relazion i tra l ’U nione S o vie tica e il R egno d e l Sud: una riconsiderazione della p o litic a so v ie tica in Italia (1943-1944), in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 6, pp. 1171-1204.
Rassegna bibliografica 151
Italia
Antonio Alosco, Un m o m en to d e l sin dacalism o rosso nel “R e gno d e l S u d ”: il convegno d i Torre A n n u n zia ta della C G IL (5-6 fe b b ra io 1944), in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 3, pp. 417-433.
Aroldo Benini, L a rinascita rep u b b lica n a e la p o lem ica co l P a rtito d ’A z io n e , in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 1-2, pp. 79-84.
Vittore Branca, L a c ittà d e l l ’A r no nella R esis ten za e nella L ib e razion e, in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 96-130.
Diana Carminati Masera, C onta d in i e R esis ten za nelle zo n e libere. R iflession i e ip o tesi d i ricerca, in “Italia contemporanea”, n. 156, pp. 93-98.
C odice (II) d i C am aldoli. Scritti di Paolo Emilio Taviani, M.L. Paronetto Valier, Marco Falciatore, in “Civitas”, a. XXXV, n. 4 [a proposito del testo base, elaborato nel luglio 1943 sul quale si orientarono i democratici cristiani per il loro contributo alla stesura delle norme costituzionali].
Arturo Colombo, D a “G iu stizia e L ib e r tà ” a l P a rtito d ’A z io n e a ttraverso i r icord i in ed iti d i R iccardo B auer, in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 3, pp. 293-312.
Beppino Disertori, G ianantonio M a n ti nel qu aran tesim o d e l sacrific io , in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 4, pp. 505-514.
Idee e p ro g ra m m i d em ocra tic i cristian i nella R esistenza: l ’a m
bien te, g li au tori, le p ro sp e ttiv e . Testi di De Gasperi, Malvestiti, Olivelli, Taviani, Rumor, Saba- dini, Gui, Dossetti. Con introduzione e note di G.B. Varnier, in “Civitas”, a. XXXV, n. 2.
Francesco Margiotta Broglio, R o d a n o : un cristiano d i sin istra , in “Nuova antologia”, n. 2149, pp. 232-236.
Enrico Neri, L a consulta com u nale e le ttiva: un ten ta tivo fa lli to d i d em ocrazia nella R epu bb lica socia le italiana, in “Nuova rivista storica”, a. LXVII (1983), n. 5-6, pp. 576-611.
P er l ’un ità europea: dalla “G io vine E u ro p a ” a l “M a n ifesto d i V en to ten e”. Contributi e testimonianze di Mario Albertini, Norberto Bobbio, Arturo Colombo, Eugenio Colorai, Francesco Compagna, Giovanni Spadolini, Altiero Spinelli, Giovanni Tramarono, Leo Valiani. A cura di Giovanni Spadolini, in “Nuova antologia”, n. 2149, pp. 5-116.
Liliana Picciotto Fargion, P o liz ia tedesca e d eb re i n e ll’Ita lia occu pa ta , in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 3, pp. 456-473.
Carlo Lodovico Ragghiami, Q u e ll’agosto 1944 a F irenze, in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 88-95.
Antonino Repaci, Q u a ra n t’anni f a D u ccio G a lim berti cadeva so tto il p io m b o d e i sicari fa sc is ti, in “Archivio trimestrale”, a. X, n. 4, pp. 497-503.
Umberto Romagnoli, Il P a tto d i R o m a , in “Politica del diritto”,
a. XV, n. 4, pp. 549-553 [a proposito del patto per l’unità sindacale stipulato il 3 giugno 1944],
Enrico Serra, Il P a rtito d ’A z io ne e la qu estion e adria tica , in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 4, pp. 629-640.
Viva Tedesco, L ’altro d o p o guerra. R o m a e il S u d 1943- 1945, in “Italia contemporanea”, n. 156, pp. 87-91.
Leo Valiani, L e m atric i p o li t iche d e l P a rtito d ’a zion e, in “Nuova antologia”, n. 2150, pp. 93-115.
Leo Valiani, Q u el 4 giugno del ’44, in “Nuova antologia”, n. 2151, PP- 51-55 [a proposito della liberazione di Roma].
Leo Valiani, T o g lia tti da Salerno a Y alta , in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 214-218.
Altri paesi
David Astor, L ’u o m o che cosp irò con tro H itler , in “Comunità”, a. XXXVIII, n. 186, pp. 166-183 [a proposito di Adam von Trott],
Giorgio Caredda, L ’opin ion e p u b b lica nella Francia d i Vichy, in “Italia contemporanea”, n. 157, pp. 27-46.
Philippe Marguerat, L a S v izze ra e la neu tralità econom ica, 1940-1944, in “Italia contemporanea”, n. 155, pp. 71-80.
Silvio Pons, L ’a p p ara to del P C U S alla vigilia della guerra (1939-1941), in “Studi storici”, a. XXV, n. 2, pp. 511-546.
152 Rassegna bibliografica
S to ria d o p o la secon da guerra m on dia le
David Collingridge, Il con tro llo p o litic o delle arm i nucleari, in “Problemi del socialismo”, V serie, n. 1, pp. 163-172.
Luigi Cortesi, Un a to m o p e r il socia lism o , in “Belfagor”, a. XXXIX, n. 1 pp. 65-78 [a proposito di Edward P. Thompson, O p zio n e zero . Una p ro p o s ta p e r il d iscorso nucleare).
Giancarlo Cursi, I confin i della d isp u ta cin o-sovie tica , in “Rivista di studi politici internazionali”, a. LI, n. 2, pp. 231-248.
Nicola Di Cosmo, I ra p p o r ti tra S ta ti U niti e C ina (1944-49) nella s to riogra fia am ericana, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 4, pp. 578-605.
Marcello Flores, L ’A m erica e lo sta lin ism o , in “Quaderni piacentini”, I, n. 13, pp. 127-154; II, n. 14, pp. 105-137.
Stefano Levi della Torre, Fine d e l d opogu erra e s in to m i an tisem itic i, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XIII, n. 3, pp. 437-455.
Giovanni Lodi, Tra vecchio e n u ovo: le m o b ilita z io n i p e r la p a c e negli anni ’80, in “Quaderni piacentini”, n. 12, pp. 15-39.
Massimo G. Maliardo, L a d o ttr ina d ’im piego d e ll’arm a atom ica: un riesame, in “Storia e politica”, a. XXIII, n. 3 pp. 393-445.
Pier Paolo Portinaro, Il Terzo m o n d o tra p a ce e guerra, in “Comunità”, a. XXXVIII, n. 186, pp. 135-165.
Cari Sagan, G uerra nucleare e ca ta s tro fe clim atica: im p licazio ni p o litich e , in “Comunità”, a. XXXVIII, n. 186, pp. 1-42.
Enrico Serra, G li equ ilibri nucleari e st-o vest, in “Nuova antologia”, n. 2149, pp. 222-231.
Stefano Vona, N o te p e r u n ’interpre tazion e d e l ru o lo d e l co m m ercio in ternazionale negli anni della crisi (1973-83), in “Economia italiana”, n. 3, pp. 349-396.
Europa
Piero Barrera - Mario Pianta, M o vim en ti p e r la p a ce e alternative d i d ifesa in E u ropa , in “Problemi del socialismo”, V serie, n. 1, pp. 209-229.
Emil Bey, The C m ea in the 1970’s. C om m ercia l A c tiv itie s a n d th e P a ttern s o f Trade, in “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali”, a. XXXI, n. 5 pp. 452-475 [Cmea = Comecon],
Paolo Biscaretti di Ruffia, Il p ro b le m a d e l con tro llo d i co s titu zion alità delle leggi negli “S ta ti so c ia lis ti” europei, in “Il politico”, a. XLIX, n. 1, pp. 5-23.
Leone Cattani, L ’Ita lia p o s t-fa - sc ista v ista d a P arig i e da L o n dra: p ag in e d i d iario , fe b b r a io -m arzo 1947. A cura di Renzo De Felice, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 5, pp. 973-1014.
Jonas Condomines - José Du- rao Barroso, L a d im ension gauch e-dro ite e t la co m p étitio n entre les p a r tis p o litiq u es en E u ro
p e du S u d (P ortugal, E spagne, G rèce), in “Il politico”, a. XLIX, n. 3, pp. 405-438.
André Lebon, L ’E urope e t les m igrations internationales. L a situation en 1983, in “Studi emigrazione”, a. XXI, n. 73, pp. 2-41.
Giovanni Magnifico, L ’esperienza dello SM E: un bilancio, in “Rivista di studi politici internazionali”, a. LI, n. 4, pp. 581-589.
Alan C. Neal, L o sv ilu p p o s to r ico d e i m o v im en ti sindacali in G ran B retagna e nei P aesi scand in avi, in “Economia e lavoro”, a. XVIII, n .2,pp. 119-129.
Giorgio Petracchi, C arlo S forza e il m o n d o so v ie tico . (A p p a ren ze d ip lo m a tich e e realtà p s ico lo giche), in “Il politico”, a. XLIX, n. 3, pp. 381-404.
Renato Sandri, L a C om u n ità eu ropea nel qu a d ro d e i ra p p o r ti in ternazionali, in “Critica marxista, a. XXII, n. 1-2, pp. 21-66 .
Antonio Varsori, B evin e N enn i (o tto b re 1946-gennaio 1947): una fa s e nei ra p p o r ti anglo-ita liani d e l seco n d o dopogu erra , in “Il politico”, a. XLIX, n. 2, pp. 241-275.
Antonio Varsori, L ’incerta rinascita d i una “trad izion a le a m ic iz ia ”: co llo q u i B evin-Sfor- za d e ll’o tto b re 1947, in “Storia contemporanea”, a. XV, n. 4, pp. 593-645.
Francia
Patrice Buffotot, Tra a tlan tism o e d issuasione nazionale. L a p o litica d i d ifesa fra n cese (1944-
Rassegna bibliografica 153
1983), in “Problemi del socialismo, V serie, n. 1, pp. 126- 148.
Carmela De Caro Bonella, Il b icam eralism o nella V R epu bb lica fra n cese , in “Quaderni costituzionali”, a. IV, n. 2, pp. 283- 315.
Diana Pinto, Vive la R ép u b lique!, in “Quaderni piacentini”, n. 14, pp. 185-198.
Giancarlo Santilli, A u to e crisi in Francia, in “Primo maggio”, n. 21, pp. 12-18.
Italia
Falco Accame, l i con tro llo p o litico delle F orze A rm a te in I ta lia, in “Problemi del socialismo”, V serie, n. 1, pp. 173- 191.
Vittorio Enzo Alfieri, F ilippo Jacin i u o m o della vecchia Ita lia , in “Nuova antologia”, n. 2149 pp. 243-248.
Vittorio Barattieri, L a ristru ttu razione d e l se tto re ch im ico in Italia: una analisi d e i p rin c ip a li a vven im en ti d a l 1977 a l 1983, in “Rivista di politica economica, a. LXXIV, serie III, n. 3, pp. 469-506.
Giuseppe Berta, Il declino d i u n ’o rgan izzazion e d i m assa: la F iom - C gil d i T orino a ll’epoca d e l P ian o d e l la vo ro , in “Società e storia”, a. VII, n. 26, pp. 875-907.
Norberto Bobbio, Giovanni Spadolini, C h i era B erlinguer, in
“Nuova antologia”, n. 2151, pp. 56-61.
Paolo Bonetti, Il “C o rriere” d i A fe ltra , in “Nuova antologia”, n. 2152, pp. 342-347.
Paolo Bonetti, L a “q u ere lle” su A ld o M o ro , in “Nuova antologia”, n. 2149, pp. 351-359.
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