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di ALESSANDRO PORTELLI lll John Edgar Hoover è il protagonista di una delle grandi contraddizioni della società americana: quella di una società aperta ossessionata dalla sorveglianza, una società che mentre rivendicava il suo ruolo di avanguardia del mondo libero scrutava ossessivamente le opinioni, le amicizie, le letture di tutti gli americani alla ricerca di sovversivi e nemici interni di ogni genere (ma soprattutto comunisti). Nella storia degli Stati Uniti, fiducia e paranoia sono andate a braccetto. Da un lato, gli Stati Uniti hanno effettivamente costruito una pratica di mobilità sociale e geografica relativamente elevata, fondata sull’espansione e la ricerca della felicità, hanno anticipato diritti di libertà di parola e di agenzia politica – dall’altro, hanno vissuto continuamente sotto l’incubo di nemici e pericoli immanenti – streghe, società segrete (gli “Illuminati” di fine ‘700), congiure papiste, anarchici, comunisti, fondamentalisti islamici… Non è un caso che in Underworld di Don DeLillo, il grande romanzo contemporaneo che fa paranoia la grammatica della nostra postmodernità, John Edgar Hoover sia una figura centrale, e le sue ossessioni e manie nella sfera privata e personale appaiano come metafora ed estensione di quelle che immette nella vita pubblica. L’ossessione securitaria incarnata da Hoover peraltro qualcosa di utile l’ha prodotto: gli inesauribili archivi dell’ Fbi sono una delle fonti fondamentali della storia contemporanea, il luogo dove andare a scovare sia dettagli delle vite di Martin Luther o John Lennon, sia le paranoiche invenzioni dei loro sorveglianti. Anche qui ci viene utile Don DeLillo: in Underworld spesso torna sul fatto che per gli archeologi (e non solo) la fonte principale di conoscenza sono le discariche di rifiuti – e che anche per questo il suo Hoover è terrorizzato dall’idea che qualcuno vada a frugare nella sua spazzatura. Archivi della sorveglianza, depositi di rifiuti: la storia si accumula nell’osceno, nel segreto, nell’indicibile. Il famoso documento dell’amministrazione Bush spiegava che gli Stati Uniti hanno potuto essere colpiti l’11 dicembre perché sono una società aperta – e si affrettava a renderla chiusa con le leggi sulla «sicurezza della patria», le perquisizioni e le intercettazioni senza mandato della magistratura, i processi militari, il carcere di Guantanamo. Né questo vale solo per gli Stati Uniti: la Gran Bretagna, l’altro modello di aperta e democratica società anglosassone, è letteralmente il paese più sorvegliato del mondo, dove non puoi muovere un passo senza qualche videocamera ce ti inquadri. Hoover è morto, ma vive e sorveglia insieme a noi. Sorvegliare e punire. La storia come deposito di immondizia AMERICA IERI E OGGI MUSICA » ARTI » OZIO SATISFICTION INEDITO DI ATTILIO BERTOLUCCI CAPOBIANCO VIDEOGAMES CITAZIONISMO POP GLOBAL FLAMENCO CASALE, FUGA PER LA VITTORIA J. EDGAR HOOVER I SEGRETI DELLA PERSONA PIÙ SEGRETA D'AMERICA IN UN FILM DI CLINT EASTWOOD DA GENNAIO NELLE SALE SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 10 DICEMBRE 2011 ANNO 14 N. 47 1

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di ALESSANDRO PORTELLI

lll John Edgar Hoover è il protagonista di una delle grandi contraddizioni della società americana: quella di una società aperta ossessionata dalla sorveglianza, una società che mentre rivendicava il suo ruolo di avanguardia del mondo libero scrutava ossessivamente le opinioni, le amicizie, le letture di tutti gli americani alla ricerca di sovversivi e nemici interni di ogni genere (ma soprattutto comunisti).Nella storia degli Stati Uniti, fiducia e paranoia sono andate a braccetto. Da un lato, gli Stati Uniti hanno effettivamente costruito una pratica di mobilità sociale e geografica relativamente elevata, fondata sull’espansione e la ricerca della felicità, hanno anticipato diritti di libertà di parola e di agenzia politica – dall’altro, hanno vissuto continuamente sotto l’incubo di nemici

e pericoli immanenti – streghe, società segrete (gli “Illuminati” di fine ‘700), congiure papiste, anarchici, comunisti, fondamentalisti islamici… Non è un caso che in Underworld di Don DeLillo, il grande romanzo contemporaneo che fa paranoia la grammatica della nostra postmodernità, John Edgar Hoover sia una figura centrale, e le sue ossessioni e manie nella sfera privata e personale appaiano come metafora ed estensione di quelle che immette nella vita pubblica. L’ossessione securitaria incarnata da Hoover peraltro qualcosa di utile l’ha prodotto: gli inesauribili archivi dell’ Fbi sono una delle fonti fondamentali della storia contemporanea, il luogo dove andare a scovare sia dettagli delle vite di Martin Luther o John Lennon, sia le paranoiche invenzioni dei loro sorveglianti. Anche qui ci viene utile Don DeLillo: in Underworld spesso torna sul fatto che per gli archeologi (e non solo) la fonte principale di

conoscenza sono le discariche di rifiuti – e che anche per questo il suo Hoover è terrorizzato dall’idea che qualcuno vada a frugare nella sua spazzatura. Archivi della sorveglianza, depositi di rifiuti: la storia si accumula nell’osceno, nel segreto, nell’indicibile. Il famoso documento dell’amministrazione Bush spiegava che gli Stati Uniti hanno potuto essere colpiti l’11 dicembre perché sono una società aperta – e si affrettava a renderla chiusa con le leggi sulla «sicurezza della patria», le perquisizioni e le intercettazioni senza mandato della magistratura, i processi militari, il carcere di Guantanamo. Né questo vale solo per gli Stati Uniti: la Gran Bretagna, l’altro modello di aperta e democratica società anglosassone, è letteralmente il paese più sorvegliato del mondo, dove non puoi muovere un passo senza qualche videocamera ce ti inquadri. Hoover è morto, ma vive e sorveglia insieme a noi.

Sorvegliare e punire. La storia come deposito di immondizia

AMERICA IERI E OGGI

MUSICA » ARTI » OZIO

SATISFICTION INEDITO DI ATTILIO BERTOLUCCI CAPOBIANCO VIDEOGAMES

CITAZIONISMO POP GLOBAL FLAMENCO

CASALE, FUGA PER LA VITTORIA

J. EDGAR HOOVER

I SEGRETI DELLA PERSONA PIÙ SEGRETA D'AMERICA IN UN FILM DI CLINT EASTWOOD DA GENNAIO NELLE SALE

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 10 DICEMBRE 2011 ANNO 14 N. 47

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l In effetti l’inverno scorso, dopo aver letto la sceneggiatura di Dustin Lance Black, avevi rilasciato un memorandum che hai scritto per Eastwood e che conteneva parecchie obiezioni. Avevo avuto modo di incontrare Clint anni fa, per un progetto su cui dovevamo lavorare insieme. Quando gli ho mandato i miei appunti, dalla produzione mi hanno ringraziato ma non ho più sentito niente. Adesso che ho visto il film, il mio parere non è cambiato, perché lo script è rimasto lo stesso. C’è persino la scena in cui Hoover si mette il vestito della madre morta….Da dove viene quell’idea? Lo stesso Dustin Lance Black ha ammesso, la settimana scorsa, in un incontro al sindacato degli sceneggiatori, che non c’erano basi fattuali per una scena del genere. Ma visto che tutti gli chiedevano se Hoover sarebbe apparso vestito da donna….ha risolto in quel modo. Credo sia una scelta assurda, anche un pò malata. E, una volta che sono in una biografia, cose simili diventano Storia. Non c’e modo di provare che sia una bugia. È vero che, da parte sua, Hoover ha danneggiato moltissime persone con false accuse, in nome della crociata contro il comunismo. Ma penso comunque che non sia giusto attribuire accadimenti non veri a

il loro segreto rimanesse tale. In più, faceva le cose sporche che i presidenti gli ordinavano ma non desideravano pubblicizzare. Perchè non era solo Nixon che rubava documenti e spiava le comunicazioni degli avversari politici. Lavoretti di quel tipo risalgono almeno a Franklin D. Roosevelt.

l Visto che citi Roosevelt, al momento dell’uscita di The Private Files… lo storico Arthur Schlesinger ha criticato il modo in cui lo hai ritratto…Schlesinger era un grande fan di Roosevelt. Sfortunatamente per lui, tutto quello che ho messo nel film è realmente successo. Comunque, ai democratici non piaceva come ne uscivano Roosevelt e Kennedy e i repubblicani erano furiosi per Nixon. Nella politica americana devi sempre scegliere da che parte stare, o con un o con l’altro. Se cerchi di dare un quadro onesto è la fine. Detestano essere criticati.

l Nel film mostri molto bene come l’ossessione di Hoover per il controllo, il ricatto e la manipolazione delle persone andasse ben aldilà dei potentati politici. La scena in cui terrorizza un cameriere di ristorante lasciandogli capire di star sorvegliando la sua famiglia è sadica..Era un vero esperto di quel gioco. Anche quando in realtà non aveva nulla in mano insinuava di avere informazioni «pericolose» sulle mogli, I figli, le amanti…di una persona. Nessuno sa cosa ci fosse veramente nei files e non tutti sono stati distrutti. Alcuni li ha tenuti John Mohr, uno dei suoi collaboratori più stretti. Altri li avevano la segreteria di Hoover, Ms. Gandy, e Tolson. Le copie che aveva fatto delle registrazioni di Nixon sono rimaste intatte e sono quelle che alla fine lo hanno seppellito. Trentacinque anni dopo l’uscita del mio film è stato rivelato che «Gola profonda», l’informatore segreto del Watergate, era in realtà Mark Felt il sucessore di Hoover all’ Fbi, dopo la sua morte e il pensionamento di Tolson. Quindi avevo ragione, in The Private Files…, a suggerire che l’informazione che aveva fatto crollare Nixon veniva dal Bureau. Ma allora nessuno voleva credere che due eroi come i giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein fossero stati dei burattini nelle mani dell’ Fbi. In realtà, Hoover voleva

di GIULIA D'AGNOLO VALLAN NEW YORK

lll Girato nel 1977 con tecniche guerrigliere, da un regista di spirito indipendente e credo libertario (in un certo senso come quello di Clint Eastwood), The Private Files of Edgar J. Hoover, è insieme un classico biopic anni quaranta (su musiche di Miklos Rozsa) e un prodotto contro tendenza della controcultura. C’è voluto un regista/sceneggiatore che veniva dall’horror (It’s Alive) e dalla blaxploitation (Black Ceasar, Hell in Harlem) per realizzare il primo film non autorizzato sul temuto direttore dell’ Fbi –con Broderick Crawford nella ruolo di J. Edgar Hoover e Dan Daily in quello dell’inseparabile Clyde Tolson. Abbiamo discusso del film con Larry Cohen.

l Non deve essere stato facile fare un film su Hoover a soli sei anni dalla sua morte…Molti dei suoi uomini erano ancora ai vertici dell’ Fbi. C’era chi sosteneva che sarebbe stato addirittura pericoloso fare un film su di lui. Che ci sarebbero state delle conseguenze –che sarei finito su una nuova «lista nera». Insomma, tutti mi sconsigliavano… Ed è proprio per quello che ho deciso di andare avanti.

l È il tuo unico film non esplicitamente di genere, e su un uomo realmente esistito. Cosa ti interessava in particolare di Hoover?Da piccolo avevo visto molti film sulle gesta dell’ Fbi, che trovavo appassionanti. Ma crescendo mi ero reso conto che in realtà si trattava di operazioni promozionli e che le cose stavano molto diversamente… Hoover è stato al potere quarantotto anni, una cose senza precedenti nella storia Usa. E il suo era un potere quasi totale. Era spietato, astuto, crudele ma anche molto efficace. Il che lo rendeva un grande personaggio.Prima di The Private Files of Edgar J. Hoover qualsiasi cosa si facesse sull’ Fbi necessitava dello stampo di approvazione del Bureau. Leggevano la sceneggiatura e spesso mandavano anche un agente sul set. La serie F.B.I., prodotta dalla ABC (e andata in onda tra il 1965 e il 1974; n.d.r.) aveva un uomo di Hoover sul set per ogni episodio. Non ho sottoposto la mia sceneggiatura a nessuna approvazione e non abbiamo avuto visite ufficiali durante la lavorazione. Anche se un paio di agenti sono venuti

a «salutarci» quando giravamo al ministero di giustizia. Siamo stati cordiali e non hanno chiesto molto. Credo che fossero entrati in possesso del copione e che, visto che Hoover non ne usciva troppo male, avevano deciso per un approccio soft. Ci hanno lasciato anche girare girare a Quantico, e nell’ufficio di Hoover..

l Se ricordo, grazie a un tuo strategemma molto creativo..Dan Daley, che interpreta Clyde Tolson, era una grande passione di Betty Ford. La first lady era stata una ballerina e le piacevano i musical che lui aveva fatto con Betty Grable. Così lo ha invitato a pranzo alla Casa bianca, insieme Broderick Crawford. Ho immediatamente telefonato all’ Fbi dicendo che volevamo fare delle riprese da loro ma non quel giorno perché «le star del film sono a mangiare dal presidente». Si è sparsa la voce e ci hanno spalancato le porte.

l In effetti, il tuo film ha un approccio complesso, ambivalente, nei confronti di Hoover –non quello che ci si aspetterebbe da un filmmaker di tradizione liberal come te. Mi ha fatto pensare a Nixon di Oliver Stone.Il mio riferimento è stato Patton (del 1970, scritto da Francis Coppola, diretto da Franklin Schaffner, con George C. Scott nella parte del protagonista; n.d.r.), un film che non nascondeva i difetti del generale ma riconosceva anche il suo talento. In definitiva, Patton risulta un personaggio accattivante proprio per quel suo essere così oltraggioso. Hoover era un pò simile. Ha fatto cose orribili, ma anche creato un’agenzia federale senza pari al mondo. Ha reso possibile perseguire un crimine aldilà dei confini di uno stato, iniziato il programma d’identificazione con impronte digitali, creato un database delle indagini. Ha combattuto con eguale energia sabotatori nazisti e spie comuniste. Non si può dire che non abbia fatto il suo lavoro… Più di ogni altra cosa, ha protetto il bureau dagli uomini politici. Sotto di lui l’ Fbi era un’agenzia indipendente e, non importa quanto ci hanno provato, nessuno è mai riuscito a sottrarla al suo controllo. Hoover teneva in pugno quasi tutti i presidenti: aveva informazioni che loro non volevano diffuse. Da un lato garantiva che

distruggere Nixon perché lo vedeva come una minaccia. Nixon ambiva a istituire un Bureau tutto suo.

l Il tuo film dedica spazio anche alla questione delle preferenze sessuali di Hoover. Secondo te la relazione tra lui e Tolson non aveva nulla di sessuale.No, non credo proprio. Erano due vecchi scapoli. Andavano insieme alle partite di football e baseball, alle corse dei cavalli, giocavano a carte. Allora c’erano molti uomini single che vivevano soli. Senza per forza essere gay. E Tolson era sempre con lui perché Hoover era il direttore dell’ Fbi. Era normale che non si muovesse da solo. Però non abitavano insieme. Abbiamo girato parte del film nella casa d’appartamenti di Tolson, che era a circa venti minuti dala casa di Hoover. Abbiamo girato nel giardino della casa di Hoover. E la questione del vestirsi da donna, è una cosa da routine comica. Una frottola completa. L’unica persona che ha mai testimoniato su quell’episodio è stata una donna poi finita in prigione a Rikers Island per aver giurato il falso. Ma quella stupida storia è stata perpetuata ovunque. Persino nel nuovo film di Clint Eastwood.

l Ma anche in Private Files suggerisci che la sua sessualità fosse un problema e un qualcosa che condizionava i suoi comportamenti.Credo che Hoover fosse asessuato. Che non avesse contato fisico con nessuno. Ma la pornografia gli piaceva di sicuro e ascoltava assiduamente tutte quelle registrazioni segrete di incontri intimi, come si vede anche nel film. Credo che fosse un modo di punire se stesso, perché il sesso era qualcosa che gli sfuggiva completamente. Il fatto che fosse così represso è in parte il motivo della sua rabbia, del suo comportamento paranoico e del suo desiderio di controllo.

l Sei stato quindi sorpreso quando ti hanno dato il London Gay and Lesbian Critics Award, nel 1978?Molto. Evidentemente hanno dato per scontato che Hoover e Tolson fossero gay. Che lo fossero o meno a me, in definitiva, non importa. Ma detesto il modo in cui il loro rapporto è raffigurato nel film di Eastwood.

CINEMA

INTERVISTA ESCLUSIVA ALARRY COHEN

In alto John Edgar Hoover, 1951, durante la «caccia alle streghe». In basso il fondatore dell'Fbi nel 1935

LA PATTUGLIA DEI SENZA PAURA(William Keighley, 1935)Cagney avvocato che viene dai bassifondi si arruola nell’Fbi per combattere, con metodi brutali, proprio il suo benefattore, il gangster che gli uccise un amico. Film storico: Hollywood smette di glorificare la mala (Little Caesar, Scarface) e passa alla glorificazione dei g-men....

Files privati, gole profondee pubbliche virtù

HOOVER

Ci voleva un classico dell’horror di tradizione liberal per firmare un film su Hoover: «The Private Files of Edgar J. Hoover» (1977), che nella sua filmografia sta tra «Baby Killer» e «It’s Alive». È la prima opera sull’Fbi realizzato senza chiedere l'autorizzazione del Bureau

CACCIA A GANGSTERE SOVVERSIVI

I FILM

Roberto Silvestri

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una persona realmente esistita. Ci sono cose interessantissime da raccontare su Hoover, non capisco perché ricorrere a quelle mai successe. O al rapimento Lindberg, con cui non c’entrava quasi nulla. Purtroppo Clint ha deciso di fare quel film – è un signore testardo- e non ha voluto sentire ragione. Mi dispiace perché avrebbe potuto venire meglio. E il make-up di Tolson è abominevole. Una cosa da non credere in una produzione di quel livello.

l Tra le altre cose indicate in The Private Files è che McCarthy fosse una sorta di marionetta di Hoover.L’House Committee on Un-American Activities è stato alimentato dai files e dalle registrazioni segrete di Hoover, che ha attivamente aiutato e promosso la campagna di McCarthy per istigare la paura del comunismo, ma anche la paura di criticare il governo. Eravamo in guerra con la

Corea, una guerra che non voleva nessuno. La gente sarebbe scesa in strada come è poi successo con il Vietnam ma la «caccia al comunista» spaventava tutti. Temevano di perdere il lavoro, di venire arrestati. Così l’America ha concluso la guerra in Corea come voleva, cosa che non ha potuto fare con il Vietnam.

l E che pensi dell’idea che Hoover sia stato molto soft con la Mafia? Hoover usciva con gente come Frank Costello, frequentava lo Stork Club e altri locali di proprietà del crimine organizzato. Avevano quello che, anche se sembra strano, definirei un gentlemen’s agreement. Hoover chiudeva un occhio su prostituzione, alcol, scommesse e prestiti clandestine, ma la mafia stave alla larga dal commercio della droga. Non a caso il traffico degli stupefacenti è diventato un probleme grave in Usa dopo la sua morte. In quel caso, Hoover ha dato

un contributo positivo… Per quanto lo riguardava, quello che era legale a Las Vegas poteva essere legale anche nel resto del paese. Dopo tutto, il proibizonismo non aveva funzionato… E, quanto ai presititi illegali, gli interessi della mafia erano più vantaggosi del 26% the ti caricano oggi American Express o Visa. In altri tempi li avrebbero chiamati usurai….

l Ms. Gandy e Tolson erano vivi durante la lavorazione del tuo film?Ms. Gandy era viva, ma ci ha risposto che non voleva parlarci. Era troppo legata a Hoover. Abbiamo invece avuto la collaborazione di William Sullivan il numero tre del Bureau. È Sullivan che ha scritto la lettera di ricatto a Martin Luther King in cui gli suggerivano di commettere suicidio. Non Hoover. Anche se sicuramente Hoover l’ha approvata. Non era la prima volta che facevano cose del genere….

di LUCA CELADALOS ANGELES

lll Nel suo bel libro, An Empire of their own, Neal Gabler racconta di come negli anni ‘30 l’opinione pubblica americana ritenesse gli ebrei «più inaffidabili» di ogni al-tra minoranza etnica con la sola eccezione degli italiani. Il contesto è la cronaca dei «mogul» ebrei che inventarono Hollywood fondan-do i grandi studios. All’inizio della seconda guerra mondiale essi era-no criticati tra gli altri dagli isola-zionisti che consideravano troppo interventisti i messaggi di molti film prodotti all’epoca. Gli ebrei di Hollywood si trovavano in una po-sizione paradossale: da un lato re-clutati alla mobilitazione nazionale dall’ amministrazione Roosevelt per film di propaganda e dall’altro castigati da ambienti filonazisti e antisemiti come quelli rappresen-tati da Joseph Kennedy. Il patriarca della dinastia Kennedy, all’epoca ambasciatore in Inghilterra, non era certo uno straniero a Hollywo-od visto che era stato produttore e padrone della Rko. Gabler narra di una riunione da lui appositamente convocata nella capitale del cine-ma nel 1940 alla presenza dei ca-pi degli studios cui intimò di non produrre film «anti-nazisti» che oltre ad essere «eccessivamente interventisti» avrebbero contribui-to a «promuovere sentimenti anti-semiti». Una minaccia non troppo velata scrisse in seguito lo sceneg-giatore Ben Hecht, secondo cui l’incontro ebbe l’effetto di reprime-re ancor più un’identità ebraica che i mogul avevano già soppresso nel nome dell’assimilazione. Nel caso specifico la fazione di Joseph Ken-nedy finì per trovarsi dalla parte sbagliata della storia (e di Roose-velt), ma il caso è indicativo delle pressioni storicamente esercitate su Hollywood dal potere politico. Pochi anni dopo la guerra presero la forma delle famigerate inchieste della «House Unamerican Activities Committee» (Huac) del senatore McCarthy. Mentre i «mogul» in-fatti temevano lo stigma ebraico e «liberal», l’altro nucleo importante di ebrei a Hollywood, gli scrittori, furono simpatizzanti e attivi prota-gonisti del partito comunista e co-me tali vennero immolati numerosi nella caccia alle streghe del patriot-tico senatore del Wisconsin. Se da un lato McCarthy era alleato e pupillo proprio del vecchio Ken-nedy (nonché fidanzato a un cer-to punto con sua figlia Patricia), dall’altro aveva una naturale affini-tà con J Edgar Hoover che si sareb-be invece poi rivelato nemico natu-rale dei figli del patriarca Kennedy. Hoover, padre del moderno abuso di potere e della sorveglianza po-liziesca, non disdegnava l’interse-

zione col glamour hollywoodiano e addirittura «liasons» come quella che l’avrebbe legato a Dororthy La-mour. Soprattutto però nutriva una profonda diffidenza nei confronti degli «inaffidabili» ebrei e sinistror-si di Hollywood. Fra i primi a incappare nella sua re-te «antisovversiva» fu Charlie Cha-plin, subito sospetto per l’animo antiautoritario dei suoi film popo-lati di poliziotti boriosi e malefici potentati. Refrattario agli inviti a modificare i suoi film, Chaplin si guadagnò all’ Fbi un dossier segre-to di 1900 pagine. Fu poi lo stesso Hoover a decretare il suo esilio, sol-lecitando la revoca del permesso di soggiorno per cui nel 1952 al comi-co venne impedito di rientrare negli Stati Uniti dopo la prima inglese di Luci della Ribalta. Era lo strumen-to che Hoover aveva già usato con-tro Emma Goldman, deportata nel 1932 dopo la revoca illegale della sua cittadinanza americana acqui-sita, orchestrata sempre da Hoover ai tempi della sua prima crociata antibolscevica. Ora degli anni ‘60 e ‘70 gli sforzi dell’ Fbi erano rivolti principalmente contro il movimen-to dei diritti civili con la diffama-zione sistematica di Martin Luther King, quello pacifista e studentesco e quello nazionalista nero. Pacifisti e Pantere Nere divennero le vittime designate del «Cointelpro», l’appa-rato di counter intelligence creato da Hoover per la distruzione dei dissidenti politici che utilizzava la sorveglianza e la diffusione di voci infondate – l’insinuazione che un componenete di un gruppo fosse un informatore ad esempio - per screditare membri di organizzazio-ni politiche e fomentare il dissenso al loro interno. Altre tattiche erano la diffusione di notizie false nella stampa e l’inquinamento delle pro-ve oltre alla repressione armata e la soppressione fisica; tutte erano av-vallate da Hoover e molte anticosti-tuzionali ma, come dice l’Hoover/Di Caprio nel «J Edgar» di Clint Ea-stwood, «per proteggere la patria a volte è necessario sacrificare qual-cosa». E molte furono effettiva-mente le vittime che pagarono ca-ra questa filosofia. La guerra sporca di Hoover venne diretta in maniera particolarmente aggressiva contro i movimenti di liberazione «etnica»: oltre alle «Panthers», Chicanos e il movimento degli Indiani d’Ameri-ca, oggetto questi ultimi di una ve-ra campagna «militare» del Bureau a Wounded Knee e sulla riserva La-kota di Pine Ridge. Le Pantere Nere vennero praticamente annientate, oltre che dai raid e dalle sparatorie, dalla feroce diffamazione e falsità giudiziarie, come le false testimo-nianze, per citare un solo caso, usa-te per condannare Geronimo Pratt

In copertina un poster dal film «I was a communist for the F.B.I.» di Gordon Douglas 1951 con Frank Lovejoy sulle «infiltrazioni» comuniste nei sindacati operai Pittsburgh

SONO UN AGENTE F.B.I.(Mervyn Leroy, 1959)Dal 1924 al 1972 John Edgar Hoover è il vertice di un organismo federale per combattere gangster, mostri, hippies, gay, nazisti, terroristi...La sua agiografia, però è obliqua, un quasi doc in technicolor che scodella la carriera del g-men James Stewart che, a fine carriera, ricorda la caccia al Kkk, Ma’Barker, Dillinger, Machine Gun Kelly...Meglio Larry Cohen, The private files of J. Edgar Hoover....

MANO PERICOLOSA(Sam Fuller, 1953) Guerra fredda, Kgb, microfilm e un borsaiolo newyorkese (Richard Widmark) che, marginale e underground, diventa perfetto eroe fulleriano. Leone di bronzo a Venezia, ma in Italia per non infastidire l’Fbi da antisovietico si trasformò in antinarcotico.

MR. HOOVER AND ME(Emile De Antonio, 1989)Il vertice del cinema di demistificazione di Hoover iniziato da Woody Allen (Prendi i soldi e scappa), Capricorn One, Tutti gli uomini del presidente...Gli americani vogliono la polizia federale, ma non deve tradire l’ideale jeffersoniano della libertà individuale (anche di pensiero).

«Per proteggere la patria è necessario sacrificare qualcosa»: Charlie Chaplin, Martin Luther King, il '68, i Black Panthers...

Un impero tutto loro. J. Edgar e la soluzione finale del capitalismo

AMERICA n CACCIA AI COMUNISTI

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GERENZA

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Clint, il cronista d'assalto di una memoria perduta

di MARIUCCIA CIOTTA

lll «Questo è il presente in cui mi trovo, e verso il quale sono proiettato». Clint Eastwood non ha nostalgia del cinema classico, Ford, Hawks, Wellman, Mann, Capra, non è uno che dice «ma dove sono andati i bei tempi passati?» né un cineasta post-classico dall’estetica malinconica o dai virtuosismi formali. Clint piazza la cinepresa sulla linea che separa la luce dal buio, l’eroe dall’anti-eroe, e sa che quella linea separa l’America dei pionieri, dell’alba e delle grandi speranze, dall’America che uscì sfigurata dal secondo conflitto mondiale. Qualcosa accadde dopo l’epoca F. D. Roosevelt quando l’ideale di libertà, il mito della Frontiera, l’individualismo democratico si dimostrarono illusori. Spazzate via le promesse del New Deal, non risuonavano più le parole del Presidente: «Sappiamo che la felicità e la libertà individuale non significano nulla se il cibo di un uomo equivale al veleno di un altro... Noi sappiamo che la libertà che priva gli altri di questi diritti fondamentali è al di fuori di ogni intesa». E fu «caccia alle streghe». Nel mirino non solo i comunisti ma chiunque si opponesse all’ondata feroce del grande capitale fiancheggiato dai poteri pubblici. Clint s’interroga in ogni suo film su quel punto di rottura e sulla perdita dell’innocenza che seguì all’esperienza infantile dietro un padre girovago, in cerca di lavoro, nomade ed entusiasma di creare un paese nuovo. Tempi di Depressione, «quando tutti vivevano di quello che dava la terra, del whisky fatto in casa o di qualunque cosa ti capitasse per le mani. Era divertente vivere così. Aveva un certo fascino». Clint, nato a San Francisco un anno prima della Grande crisi, si sveglierà adolescente sotto l’atomica di Truman, la Corea, il Vietnam, l’assassinio Kennedy e la persecuzione dell’un-american che etichettava, in un paese sotto sorveglianza, chiunque non fosse sottomesso alla Legge - «io ci piscio sulle macchine della polizia» dirà l’ispettore Callaghan, la giustizia è un’altra cosa. E così Clint infiltrerà ogni inquadratura dell’immagine subliminale

colloca fuori dal crepuscolo. Estatica visione e rivelazione, è qui che accadde. Ed è il mondo interiore dell’epopea western, l’amore per John Ford grande mistificatore che torna in Eastwood, sovrimpresso al John Wayne redento dalla purissima Natalie Wood in Sentieri selvaggi. Sguardo condiviso da un altro cineasta in bilico tra classicità e New Hollywood, Walter Hill, tornato a dirigere dopo dieci anni (Undisputed, 2002) che dal set di Bullet to the Head a New Orleans ci dice come il western da «metafora un po’ logora» diventi «un’astrazione... una sorta di dibattito sul proprio universo morale». Un luogo del passato-presente perché si tratta di «film storici , o comunque in costume anche se chiaramente, come tutti sanno, il West del cinema è lontano un milione di miglia dal vero West americano». Quel «milione di miglia» è lo spazio cosparso di scheletri preferito da Clint, cronista d’assalto di una memoria perduta, pronto a frugare nei diari di bordo e negli archivi secretati dell’Agenzia che schedò tutti i suoi personaggi più cari, bollati come sovversivi. Clint, ectoplasma a servizio dell’americano «trash» (gay compresi, Milk) - unico valoroso modello di un’America autentica e rimossa - nel suo tour «revisionista» non poteva che approdare all’uomo simbolo della «caccia alle streghe», prima e con McCarthy, l’uomo che incarna la demolizione degli ideali del repubblicano Lincoln e del democratico Roosevelt, J. Edgar Hoover, l’ingegnere della «macchina del fango». E a Dirty Harry toccherà schierarsi con i «comunisti», per i mastini dei tribunali d’inquisizione lo erano tutti i democratici, i rooseveltiani innanzitutto, in nome della «guerra fredda». I rossi per una breve stagione erano tornati alla luce del sole, «Era come se fosse spuntato un nuovo giorno.... Non eravamo più solo comunisti, eravamo di nuovo americani» (George Charney – Inquisizione a Hollywood). E con loro i sostenitori dei diritti civili. Ma alla fine della seconda guerra

di una bambina che brucia nel fuoco e nel napalm, coreana o vietnamita, reale o metaforica, da Gunny e a Firefox fino a Gran Torino quando l’ex operaio Ford confessa al piccolo hmong l’omicidio a sangue freddo di un soldato ragazzino sul front coreano, incubo che lo divora perché «nessuno me lo aveva ordinato». Crimini individuali, pensando a Norimberga. Clint resterà tenacemente devoto a Lincoln, americano al cento per cento, per non rinunciare all’idea di riscattarne la memoria e insieme l’America intera degenerata nella persecuzione dei rossi e del neri. E questo sua febbre del vendicatore, del revenant «venuto dal nulla» traccia la linea del «revisionismo» eastwoodiano. La Storia va riscritta punto per punto per scovare il marcio che vi si annida. Un cinema della redenzione che richiede violenza e dolcezza ed esige di essere dalla parte del «perdente totale», di «persone lasciate fuori dal mainstream», e di guardare con gli occhi di chi c’era e non è intervenuto per cambiare le cose. «Ma dov’eri quando è accaduto?» gli chiedono in True Crime, il suo film contro la pena di morte, e lui risponde «forse non avrei potuto far niente ma almeno avrei potuto provarci». Clint, uno con la pelle di tutti i colori, che qualcuno vede campione di machismo o di abusi polizieschi quando sempre nel suo corpo iscrive il «colpevole», il doppio che si specchia e si vede serial killer come in Corda tesa. Vale per Dirty Harry, ma per ogni altro personaggio del suo pantheon, ambiguità dell’eroe, sezionato e smascherato. Cosa nasconde l’atroce scena in cui il sergente Highway, Gunny, dà il colpo di grazia a un nemico già a terra e gli prende un sigaro cubano dal taschino, ce lo dice il critico newyorchese Bill Krohn, «è un’idea rubata da Corea in fiamme di Sam Fuller, dove il personaggio che prende il sigaro al morto finisce per impazzire». Ecco il fantasma Clint abitare corpi non suoi, i monumenti dell’epopea americana, aggrediti dall’interno, riportati alla luce dalle tombe nella Mezzanotte del bene e del male, vincitori di guerre miserabili, come quella di Grenada con le sue bandierine sbiadite e

la disapprovazione indignata del Dipartimento della Difesa che gli tolse l’appoggio, a sceneggiatura stravolta, e mise all’indice un film destinato, secondo Reagan, a «restituire al Paese la dignità perduta in Vietnam». «Una sorta di operazione Topolino» commentò Eastwood che deviò Gunny da «battaglia serrata e sanguinosa» a «commedia anti-autoritaria» (Krohn). Film dopo film, la fiducia di Clint nel risarcimento morale dell’americano passato alla storia come paladino di civiltà s’incrina sempre più, e scivola verso un radicale atto di accusa. Unforgiven ridisegna le coordinate del genere e del mito con il suo cowboy in disarmo costretto a misurarsi con un passato di crudele pistolero e che osserva la «morte al lavoro», il ragazzo colpito, gemente nella polvere, «uccidere non è una cosa facile». Il cow boy piange di fronte al razzismo dello sceriffo che massacrerà l’amico nero, piange con la prostituta sfregiata dalla faccia d’angelo. Non è accanto a lei, è lei. Ed è sempre il suo sguardo che Clint declina nelle spirali jazz del suo cinema, omaggio a Bird, Charlie Parker, alla ragazza-pugile di Million Dollar Baby, alle squaw del Texano dagli occhi di ghiaccio, agli indiani dello Straniero senza nome, quando l’implacabile pistolero di Lago/Hell consegna agli «sporchi pellerossa», un vecchio e due bambini cacciati dai notabili, coperte e vasi di caramelle come prezzo del suo ingaggio. Anche qui c’è un backstage, l’aura della vera storia sul set della Sierra Nevada, Lago Mono, terra dei nativi d’America, espropriata e colonizzata dai cercatori d’oro. Non se ne perde uno di «peccato originale» Clint e arriva perfino a stracciare le Bandiere dei nostri padri, nella struggente tournée propagandistica dei valorosi di Iwo Jima, i marines immortalati nel granito, condotti per gli States come pupazzi da avant-spettacolo di fronte alle folle patriottiche. Cosa c’è dietro l’esaltazione della guerra vinta lo dirà nel secondo capitolo, Lettere da Iwo Jima, dove il nemico giapponese è accarezzato dalla cinepresa, aiutato a rimettersi in piedi e reso per la prima volta umano, tanto che il Giappone gli rende tributo nella più commuovente cerimonia di riconciliazione dopo la Bomba. Lo spettro Clint si aggira nel cielo americano e piomba sulla sua falsa coscienza, demolisce ogni statuina orgogliosa e la riconduce al fotofinish. Il suo cinema stagliato nel buio sfila sul carro di un Columbus Day inquinato da un crimine fratricida, Mystic River, ai confini con la capitale dell’indipendenza, Boston, sorgente del «nuovo mondo». Non c’è rimpianto per la figura del cavaliere imbattile del cinema classico, dei suoi padri fondatori ma l’inquietudine che si legge nello sguardo attonito di Monte Hellman quando resuscita il western (La sparatoria, Le colline blu) e lo

Francesco Adinolfi

I Spy (for the Fbi) CINEMA

SPETTRI DI «J. EDGAR»LA CONTROSTORIA DELL'IMPERO

I Spy (for the Fbi) È il pezzo di riferimento dello spy sound. È una fiammata soul del 1966 di Jamo Thomas & His Party Brothers Orchestra. L’hanno incisa, tra gli altri, anche gli Untouchables. Un verso: «I fatti sono tutti nel file, non devo indovinare».

AL RITMO DELL'F.B.I.

mondiale «il termine liberal fu trasformato da quella spilla rossa di coraggio qual era in una parolaccia» scrive lo storico Douglas Brode. Tutti un-american, tutti amici dei comunisti. Eastwood conosce bene il trita-carne Hoover, il boss dell’Fbi che spadroneggiò per quarant’anni coperto dalla legge e che uccise non solo metaforicamente le stelle democratiche dell’arte e dell’impegno sociale. Lo conosce se non altro per la sua relazione ravvicinata con Jean Seberg, amica delle Black Panthers, morta suicida, ufficialmente. Con J. Edgar si scoperchia il vaso di Pandora e ne escono le bambine urlanti di Clint, lo «sporco Harry» dal cuore di ragazza messicana (Blood work), estrema sintesi del suo essere l’altro nell’involucro del duro con la 44 magnum, il ladro-detective

di segreti di stato (Potere assoluto). Cinema palpitante dell’oggi, J. Edgar è in perfetta continuità con la narrazione eastwoodiana che mai rivisita il passato nel rimpianto di un’immagine felice. I tempi dilatati, sospesi, le sue ellissi swingate, il suo humour di cavaliere pallido nel circo della mitologia western (Bronco Bill) e nella metropoli dark dei soprusi impuniti (Coraggio fatti ammazzare) compongono l’istantanea di un paese ancora sotto l’ incantesimo della commissione per le attività anti-americane. Folgorante primo piano delle manifestazioni «Occupy Wall Street», movimento contagioso da New York a Los Angeles, dove J. Edgar è tornato ad arrestare chi scende dal «marciapiede» o forma «assembramenti» nei parchi pubblici.Clint Eastwood un vero (un)american al cento per cento.

«Un-american» al 100%, il regista californianocolloca sempre la cinepresa sulla linea che separa la luce dal buio, l'eroe dall'anti eroe, Jefferson da McCarthy

I DISCHI

Leonardo Di Caprio nel ruolo di Hoover sul set con Clint Eastwood

4

(5)ALIAS 10 DICEMBRE 2011

di R.S.

lll È l’ultimo film di De Antonio (che sarebbe morto a 70 anni pochi mesi dopo), coprodotto nel 1989 dalla casa di produzione di Emile De Antonio Turin Film Corp.) con Channel Four. Una sorta di autobiografia in 85 minuti, montata da George Spyros e fotografata da Morgan Wesson e Matthew Mindlin, di un militante della sinistra marxista con spiccate simpatie radicali e una appassionato desiderio di difendere le libertà civili che nel suo paese, specialmente durante il maccartismo, erano state calpestate. Un film molto semplice, a parte una accuratissima ricerca di materiali di repertorio, che riguarda soprattutto l’ex presidente Richard Nixon (che si giova dell’aiuto di un celebre documentarista «militante» canadese, Ron Mann) e che fa la parodia, nel titolo, di Roger and me, il documentario dell’ «allievo» Michael Moore che aveva appena fatto furore nel mondo. Il grande documentarista parla della sua vita, anche lui in prima persona maschile singolare, mentre la moglie Nancy Mindlin gli taglia i capelli. Discute in cucina, con l’amico John Cage dei suoi anni a Harvard con John Kennedy, di arte, di suoni, di filosofia, mentre il grande esponente della musica «aleatoria» impasta il pane. O tiene una appassionata conferenza in un’aula piena di studenti, raccordando le sue amicizie con Andy Warhol e l’ambiente della nascente rivoluzione pittorica pop con la generazione di Berkeley e che ha combattuto contro l’aggressione americana in Vietnam. Gli argomenti dei suoi discorsi sono infatti soprattutto le relazioni, al limite della persecuzione, che l’Fbi (Federal bureau of Investigation) volle avere per forza con lui e con le sue opinioni politiche. E anche, viceversa, quel che lui ha sempre pensato di J. Edgar Hoover, direttore dell’Fbi fin dall’epoca della caccia al gangster di provincia Dillinger, che servì all’agenzia nascente per ottenere cospicui finanziamenti pubblici, e delle sue stravaganze transessuali. De Antonio ci racconta perché è stato messo sempre sotto stretta sorveglianza Fbi, «pur non essendo una spia», anzi un convinto ‘«americanista» anche se certo era «una persona che parlava troppo, che beveva troppo e che si sposava troppo» (sei volte). E lo può fare a ragion veduta visto che ha potuto accedere ai «files» dell’Fbi che lo riguardavano in base al Freedom of Information Act, che consente a chiunque di consultare, dopo qualche lustro, materiali top secret, compresa la persecuzione all’epoca di un altro film di De Antonio, Underground perché aveva osato dare la parola a un gruppo terrorista entrato in clandestinità, I Weathermen…

I Spy (for the Fbi)

Long Cool Woman in a Black Dress Una canzone del 1972 degli Hollies, storica band del pop inglese. In un bar scoppia l’inferno e lei, vestita di nero, bellissima, è al centro dell’azione. La voce dice: «Sabato sera ero al centro, stavo lavorando per l’Fbi, quando...».

Come Spy with MeUna girandola di spie e agenti segreti scandisce il ritmo di questo disco, tema del film «Vieni a fare la spia con me» con Troy Donahue del ‘67. Smokey Robinson & The Miracles infilano una perla soul con tanto di verso ipersensuale: «Possiamo condividere intrighi di ogni genere».

Teenage Fbi Misteri d'amore al cuore dei Guided By Voices, gruppo Usa all’esordio in ambito lo-fi, ovvero crudi e a bassa fedeltà sonora. Nella canzone del 1999, un loro classico, sono perentori: «Quando sei intorno a me io divento un altro. C’è ancora la ragazzina Fbi che ti insegue?».

Agent Double-O-SoulEdwin Starr, il cantante di War, inno pacifista anti Vietnam, si supera in questo brano del 1965. Non si fa pregare e si trasforma in un agente segreto al servizio del ritmo e dell’amore. Salva un uomo con poco soul e si preoccupa della «baby» citata nel finale.

e proseguito da Obama –consente oggi la criminalizzazione di seg-menti sociali e gruppi etnici e reli-giosi sotto la rubrica di terrorismo interno. Con ampi poteri di deten-zione preventiva e indefinita, tribu-nali militari e tortura legalmente sancita, l’arcipelago della «home-land security» con Guantanamo, le rendition clandestine di «combat-tenti nemici» e deportazioni di im-migrati (oltre un milione solo sotto Obama), è un apparato di controllo che per capillarità e impunità va ol-tre le più ardenti speranze del vec-chio J Edgar. Meccanismi nuova-mente facilmente applicabili anche alla soppresione del dissenso co-me dimostrano le recenti indagini

del’Fbi su Peta, Greenpeace, Earth First e addirittura i pacifisti quac-cheri, tutti all’occasione riclassifi-cabili nel nuovo paradigma come «terrorismo domestico». Allo stes-so modo, scrive sempre Ratner, la gestione del dissenso in piazza con zone rosse, proiettili di gomma e spray urticanti dimostra una esca-lation confermata in questi giorni dalla partecipazione di reparti della «homeland security» agli sgombe-ri degli accampamenti «Occupy». Una realtà che, se fosse ancora vi-vo, avrebbe davvero rinquorato il vecchio leone dell’ Fbi e che la nuo-va sorveglianza totale di era digitale renderà sempre più esposta ai so-prusi.

Una vita perseguitata L'ultimo film di Emile De Antonio

HOOVER AND I

CLINT, IL LIBRO

lll Clint Eastwood sorride dalla copertina del volume che porta il suo nome (Alberto Castellano, Gremese, 30 euro) nell’età dei capelli bianchi e segnala l’aggiornamento del libro (prima edizione, 1988) che comprende «Hereafter» (2010) in attesa dell’ultima opera dedicata al mastino dell’Fbi, «Hoover». L’autore introduce con un lungo saggio sul «Gigante solitario» e inanella film dopo film la carriera. Ogni scheda, illustrata con magnifiche foto, è corredata da credits completi, un approfondito testo sul soggetto e una lettura delle recensioni dell’epoca. Preziosa guida al mondo in evoluzione continua del cineasta, il libro affronta l'«enigma» Eastwood, la sua storia artistico-politica e propone uno studio cinefilo sullo «sguardo» dell’ispettore Callaghan che non saetta, però, da «occhi azzurri penetranti». Clint ha gli occhi verdi, e abita in un ranch nella valle di Carmel, non nella cittadina Carmel-by-the-Sea, della quale non «accettò con entusiasmo la carica di sindaco», ma si batté per ottenere l’incarico con l’obiettivo di preservare la costa dalla speculazione edilizia, e di mantenere intatta Mission Ranch. Dettagli che stanno molto a cuore al boss della Malpaso e ai suoi fans.

SEGUE DA PAGINA 3

delle pantere di L.A. per un omici-dio non commesso a Santa Monica. Ci sono in seguito voluti 27 anni per scagionare l’innocente Pratt, scar-cerato nel 1997 prima di morire di infarto lo scorso giugno nel paese adottato, la Tanzania. Assieme al maccartismo, «Cointel-pro» rimane l’esempio più fami-gerato di abuso interno del pote-re del secolo americano; si trattò a tutti gli effetti, di due golpe capaci, nel nome della sicurezza interna, di sovvertire in modo fondamenta-le la legalità democratica ed espri-mere al peggio la paranoia del pae-se sconfinando a volte nell’assurdo e nel tragico. La diffidenza e l’anti-patia profonda per Hollywood per-corre tutta la carriera del «poliziotto più potente d’America», e nel 1970 il capo dell’Fbi intraprese una ope-razione particolarmente meschina contro una «pericolosa sovversiva» hollywodiana: Jean Seberg. L’at-trice, scoperta adolescente da Ot-to Preminger, era tornata nel 1970 a lavorare a Hollywood (per girare Paint Your Wagon con Clint Eastwo-od). Precedentemente aveva passa-to alcuni anni in Francia dove ave-va recitato in À bout de souffle per Godard e sposato François Moreu-il prima, e in seguito Romain Gary. Al suo ritorno venne «attenziona-ta» da Hoover per il suo appoggio dichiarato sia all’«Aim» (American Indian Movement) che al «Black Panther Party». L’ufficio «Coin-telpro» di Los Angeles, che aveva l’incarico di neutralizzare elemen-ti «devianti» del cinema organizzò contro di lei una «operazione» ap-provata, come mostrano documen-ti interni successivamente ottenu-ti tramite il «freedom of informa-tion act», dall’ufficio di Hoover, in cui venne «suggerito» a Newsweek e al Los Angeles Times che il padre del bambino di cui Seberg all’epoca era incinta non fosse il marito ben-sì Raymond Hewitt, militante delle Pantere Nere. Una storia falsa che ripresa dai giornali ebbe comunque l’effetto di destabilizzare psicolo-gicamente l’attrice, specie dopo la morte della bambina, bianca, due giorni dopo la nascita. Un evento determinante secondo alcuni della depressione che non l’avrebbe più abbandonata fino al suicidio com-messso nel 1979 (suicida morì, 15 mesi dopo anche Gary). Una storia che contiene tutto il gratuito sopru-so alla base della pratica dell’Fbi di Hoover, tantopiù cinico in questo caso per la natura delle allusioni, un tono ammiccante fondato sul ta-bù originale capace di ispirare mille linciaggi: l’unione fra donna bianca e uomo nero, paura fondamentale dell’America razzista e un registro significativo per un uomo la cui vita era volta a proteggere, sopra a tutti gli altri segreti, quello della propria identità sessuale. L’episodio di Seberg fu fra quelli specificamente indagati dalla com-missione Church che dopo Water-gate venne istituita per fare chiarez-za sugli abusi di potere e per rifor-mare Fbi e Cia. Il «Church Commit-tee», illuminò tra l’altro i tentativi della Cia di assassinare leader di pa-esi «nemici» come Patrice Lumum-ba, Rafael Trujillo, Rene Schneider e naturalmente Fidel Castro e le vaste operazioni di sorveglianza interne dell’Fbi. Il suo rapporto provocò, se non lo smantellamento, il ridimen-sionamento degli abusi che per 30 anni erano diventati istituzionaliz-zati in una guerra politica condotta in particolare dal governo ombra di Hoover. Ma i limiti che all’autono-mia e l’impunità delle due agenzie apposti allora dal congresso sono stati in gran parte spazzati via nei postumi dell’11 settembre. La lotta al terrorismo ha varato una nuova guerra segreta e istituzionalizzata di matrice come nota Michael Ratner nel suo «Hell No! Your Right to Dis-sent in the 21st Century», del tutto hooveriana. L’arcipelago repressivo del «Patriot Act», varato da Bush –

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(6) ALIAS10 DICEMBRE 2011

ANTICIPAZIONI

LE RICENSIONI

UN INEDITOlll Quando nel 1925 il (non ancora) poeta parmigiano Attilio Bertolucci vide Aurora di Murnau ne rimase profondamente colpito. La scoperta del cinema attraverso alcune delle sue opere e dei suoi autori supremi (Chaplin, Dreyer, Stroheim, Hawks, Murnau) avvenne quand’era giovanissimo e non solo segnò l’inizio di un’attività, quella di critico cinematografico, portata avanti con costanza, come una malattia, e che arriverà a contagiare anche il primogenito Bernardo, ma influenzerà anche la sua opera poetica, dove lo scorrere di volti e luoghi nel tempo e l’improvviso apparire di figure epifaniche ha una chiara matrice cinematografica. Collaboratore della Gazzetta di Parma prima, e poi, trasferitosi a Roma, del Giovedì, il settimanale diretto da Giancarlo Vigorelli, Bertolucci si fece assiduo spettatore e cronista. È del 2009 il volume Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema di Gabriella Palli Baroni, che raccogliendo le recensioni apparse dal 1945 al ’53, fa luce su un’attività editoriale fino a quel momento considerata marginale nella vita dell’artista.Assente nel massiccio corpo di articoli cinematografici raccolti dalla studiosa, e qui oggi proposta in veste inedita, è una recensione apparsa all’inizio del 1952 sul Giovedì. Oggetto dello sguardo cinefilo di Bertolucci è un film diretto da René Clément, Jeux Interdits, tratto da un romanzo di François Boyer e vincitore della XVII Mostra del Cinema di Venezia. A essere rappresentato è «un paese delle meraviglie» al contrario, l’avventura di due bambini che usciti dalla strada maestra della storia s’isolano in un universo tutto loro, dove la libertà sfuma in follia e ci si diverte a giocare «giochi proibiti».Quale sia la responsabilità del mondo adulto, impegnato in una guerra che fa da sfondo come una cattiva maestra, è l’interrogativo che si rivolge il «cronista». Con una lingua appassionata e rigorosa allo stesso tempo, Bertolucci si sofferma sugli eventi, sul senso e il valore della favola, senza dimenticare la grammatica del film di cui parla. (Marta Dosi)

lll Diretto da Pier Paolo De Iulis e Anthony Ettorre, il «Road To Ruins», che esisteva già come festival musicale, diventa un Film Festival dedicato al rock. Tra cinema e musica. Parliamo con Ettorre dell'edizione che si è svolta a Roma dal 18 al 24 novembre:Perché un Film Festival completamente dedicato al rock?Perché in Italia non c’era ancora. Si vuole focalizzare l’attenzione su un fenomeno culturale che, nelle sue infinite sfaccettature, è stato il mezzo di una delle più importanti rivoluzioni giovanili del novecento. Il cinema è sempre stato uno strumento privilegiato attraverso il quale il rock potesse esprimersi. Da Rock Around The Clock di Sears del 1956, attraverso opere seminali come This Is Spinal Tap, esordio di Reiner (1983) per arrivare al più recente Pearl Jam Twenty di Cameron Crowe, è stato tracciato un percorso fittissimo di stimoli e proposte, da quelle più autoriali a quelle più puramente agiografiche. Quando poi il linguaggio filmico diventa «rock» gli orizzonti da esplorare diventano molti di più. L’idea di base del «Road To Ruins» nasce dal desiderio di offrire cinema e musica, proiezioni e concerti. La realizzazione di un festival così articolato lo dobbiamo soprattutto al contributo di sponsor privati, per ora unici finanziatori di questo progetto.Come si è effettuata la selezione?L’edizione 2011 parte da una ricerca low budget che ci ha costretto a raccogliere buona parte delle produzioni italiane degli ultimi anni. La rete e il passaparola sono stati i principali strumenti di ricerca. Il risultato è stato interessante e ha rappresentato una panoramica sulle più recenti e significative produzioni italiane. Purtroppo, salvo le dovute eccezioni, il format televisivo e la totale assenza di produttori «sensibili», rendono faticoso il futuro del documentario e delle opere ispirate al rock. Sviluppare una sezione internazionale sin dalla prossima edizione è una delle nostre priorità.Perché riproporre Orfeo 9 di Tito Schipa Jr nel 2011?Orfeo 9, nei primi anni settanta, rappresentò una sorta di corto circuito per il cinema italiano. Una straordinaria opera rock che fu vittima di un clamoroso caso di censura da parte della stessa Rai che lo produsse. Riproporlo non è solo un atto di riscatto verso un lavoro da troppi ancora ignorato ma resta di sicuro l’unico film italiano in cui cinema e rock di qualità si fondono in assoluta armonia. Non averlo nella nostra prima edizione sarebbe stato un errore imperdonabile.Ci sono sempre più rockstar che diventano poi professionisti delle colonne sonore...Il soundtrack affidato a mostri sacri del rock offre spesso risultati superlativi. Copeland e Byrne in particolar modo si sono nutriti di musica e cinema da sempre. Fantastico è poi quando i fans si appassionano al cinema musicato (o meglio diretto) dai propri beniamini; penso al cinema di Madonna o a quello di Rob Zombie… Il rock aiuta il cinema a non invecchiare… Cosa sarebbe The Social Network di Fincher senza la straordinaria colonna sonora di Trent Reznor?

di ATTILIO BERTOLUCCI

lll Una favola, Giuochi proibi-ti, un’amara favola dei tempi non lontani ma remotissimi che c’era la guerra, e la legge un bambino più grande, facciamo otto anni, a una bambina di cinque. I due, che sono bellini, puliti e ravviati, e indossano freschi abiti di gusto inglese, se-condo il giudizioso snobismo delle madri, si inoltrano per un’incante-vole parco naturale, si seggono su un vecchio tronco difeso dall’acqua (anche questa lettura, un «gioco proibito?»); ed ecco che dalle parole della finzione la favola si svolge da-vanti ai loro, e nostri, occhi. È tut-to il film, sino alla sequenza finale, che ci restituisce i due bambini, lei presa dallo spavento del racconto, lui preoccupato di consolarla.Cosa vorrà dire che gli interpreti della «cornice», della «lezione d’a-more infantile in un parco» sono gli stessi della storia? Appena un inganno prospettico che assolve al suo intento spaziale, o qualcosa di più sottile e voluto? O forse appe-

IL ROAD TO RUINS, TRA CINEMA E ROCK

ENNIO& CO.

DI GABRIELLE LUCANTONIO

na un piccolo trucco per svelenire il film, per renderlo accettabile alle (ritenute) pallide platee?Era il 1940, verso la dolce svolta dell’anno che la primavera cede all’estate, e succedevano strane co-se, ad esempio che una famiglia pa-rigina, padre madre e figlioletta uni-ca, si trovasse d’improvviso ingolfa-ta in una colonna di profughi; che aeroplani segnati da una croce nera fischiando vi si abbattessero sopra, lasciando una bambina orfana; che essa, stringendo al petto il cagnoli-no morto, lasciasse i genitori diste-si a capo di un ponte e si dirigesse fuori della strada, verso i campi e i loro strani abitatori, i contadini. Questo pezzo di cronaca è di una grande bellezza, nella sua rapidità, nel suo fatale, insensato movimen-to e silente, quasi misterioso con-cludersi. Uscita dunque dalla stra-da maestra, e insieme dalla guerra e dalla famiglia, la piccola incontra il ragazzino un pò selvaggio ma ca-ro che la introdurrà in quell’univer-so a parte che è la Francia rurale e nell’avventura dei «giochi proibiti». I giochi, anche i più semplici, sono sempre un’avventura per i bambini, ma qui, dal seppellimento del pic-colo cane, nasce e si ingrandisce un gioco a tema unico con variazioni infinite, il cimitero degli animali, che non sapremmo più chiamare avventura, ma piuttosto mania, os-sessione. Mentre intorno i grandi si amano, si azzuffano, muoiono, dando orribile spettacolo, i piccoli si isolano, accaniti a scavare fosse e piantare croci: a corto di bestiole morte naturalmente, se ne procu-

ziante nota di simpatia umana, dei bambini arcanamente riuniti dal-la sciagura e separati ottusamente dalla società, contrasta il pesan-te vivere e morire dei contadini, gente di una rusticità buia, senza speranza. Nel rapporto fra i due mondi, vagheggiato l’uno, descritto impietosamente l’altro, sta la forza e la debolezza di questo film am-mirevole, imbarazzante. Il ricorso agli abissi della follia, del delitto, dell’inversione, ai limiti estremi e celesti dell’infanzia, è moneta cor-rente nella cultura di evasione in cui siamo coinvolti, ma qui, nel linguaggio diretto delle immagini, prenède un’evidenza, una possi-bilità di persuasione da lasciarci sbigottiti. Non si dice che il cine-ma debba restare in perpetuo stato di minorità, che non possa venire impegnato in quella lotta contro l’i-pocrisia che dà nobiltà a tanta let-teratura, anche ingrata, della nostra epoca. Ma veramente, inoltratasi di alcune centinaia di metri fuori d’u-na strada del reale, che gli stukas in picchiata datano con crudele esat-tezza, la piccola protagonista entra in una sorta di «paese delle mera-viglie» alla rovescia, d’una brutalità eccessiva. Nessuno pretendeva una egloga pastorale, ma in certi punti la quasi medievale rozzezza scade in grottesco. Siamo d’accordo: tutti ci consoliamo del presente storcen-do il collo all’indietro, verso il para-diso perduto, anche se non verde, degli amori e dei giochi infantili. Una maggiore comprensione per la triste condizione dei grandi, però, avrebbe giovato alla verità uma-na del racconto. Come in altri film francesi di questi anni, da Clouzot in giù, una certa compiacenza per l’orrore è il carattere dominante, la singolarità e il limite. Il primo reali-smo cinematografico francese, nato dalla deviazione in senso dramma-tico dell’idillio comico, fra Chaplin e Utrillo, di Clair, quella scuola che ci diede i Banditi della Casbah, le Albe tragiche e I porti delle nebbie, sfuma ormai, vicino alle ultime co-se, in una sorta d’amabile Arcadia.Nella sua sconsolata, ben contem-poranea «assurdità», Giuochi proi-biti è uno dei film più significativi di questi anni. In esso, infatti, il dato letterario non resta tale, ma diventa cinema e del più autentico, capace di scorci di un’efficacia che il testo d’origine, siamo certi, non aveva. Nella nostra memoria c’è or-mai un posto per la fillette spaurita che abbiamo conosciuto sul ponte bianco, nella luce del bombarda-mento, che abbiamo seguito nella sua straordinaria vacanza, lasciata sola al limitare di un’esistenza dif-ficile.

Un gioco proibitoper Attilio Bertolucci,un poeta al cinema

LA RECENSIONE n GIOCHI PROIBITI

In alto la famiglia Bertolucci, Attilio e Ninetta con i figli Bernardo a destra e Giuseppe a sinistra

di S.S.

lll Una rivista nata non per twittare, non per divertire, ma, come dice il suo ideatore Gian Paolo Serino, per disturbare, aggiungendo: «ai lettori chiediamo lo sforzo della lettura».«SatisFiction» esce il 15 dicembre distribuita gratuitamente nelle librerie Feltrinelli (e nelle maggiori librerie indipendenti italiane), rivista free press di inediti e recensioni, di cui diamo qui accanto un’attraente anticipazione. Si tratta di una recensione cinematografica inedita di Attilio Bertolucci, di un film che fece scalpore nel dopoguerra, Giochi proibiti, scritto che, come scrive Marta Dosi, non trova posto in «Riflessi da un paradiso», l’ampia raccolta di recensioni del poeta. Nel numero della rivista, completamente rinnovata, piattaforma multimediale (un blog, il sito www.satistaction.me) si possono leggere tra gli altri, inediti di Doctorow, Michel Foucault con un saggio inedito su Sade, Kurt Vonnegut, l’autore di Mattatoio numero cinque con una risposta al presidente del consiglio della scuola di Drake che diede fuoco al libro, bandito dall’America, Sebastiano Vassalli riflette sul paesaggio come schermo, Luigi Comencini con un soggetto originale di un film mai realizzato, Io sono un ladro, Giuseppe Berto con un racconto americano, Fernanda Pivano in una ancora più inedita (per lei) stroncatura di un celebre scrittore.

L'amara favola di guerra che metteva in scena reperti di morte nella campagna francese ci mostra ancora lo specchio vivido del mondo ipocrita dei grandi attraverso il candore infantile

rano uccidendole, a corto di croci vanno a prendersele dove sono, in chiesa o al camposanto. In questo gioco la femmina è, come vuole la tradizione, ispiratrice, il maschio esecutore intrepido, del male. Ma il male dov’è, ci dice il film, qui nella libertà, o non piuttosto nell’ipocrito ordine dei grandi? Che si vendica-no della muta rivolta distaccando i compagni, ponendo fine ai loro giochi empi e candidi. Alla favola, tenuta su una lunga, acuta, stra-

Gratisin libreriaSatisFictionrivista di inediti 0 e recensioni

LA RIVISTA

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(7)ALIAS 10 DICEMBRE 2011

ARTE

serrato. Quasi tutte sono scom-parse, o hanno cambiato anima. Da Cesaretto, via della Croce, Capobianco entrò presentato da un medico, cliente importante. Grazie al suo «sponsor», il gio-vane artista mangerà gratis per lungo tempo. Erano gli anni del Caffè Rosati di piazza del Popo-lo, quando nessuno avrebbe mai creduto che a diventarne padrone sarebbe stato Giuseppe Ciarrapi-co. Erano gli anni del Gruppo ’63 di Mario Schifani, dell’astrattismo di Forma 1, del genio corroso da alcol e droga di Tano Festa. Erano i tempi della speranza comunista, cui l’arte dava il suo contributo anche economico. Racconta Ca-pobianco «Una volta al mese, i responsabili del PCI passavano a prendere un nostro lavoro da do-nare al partito». Sebastiano dedi-ca le sue prime opere all’Olocau-sto. Tra il ’59 e il ’60 realizza una composizione fatta di trentamila fiammiferi, la grata in ferro di una finestra e centinaia di minuscole svastiche; un’altra avrà come ma-teriali i chiodi dei ferri da caval-lo, le svastiche e il filo spinato. La falce e il martello entreranno sul-la scena creativa di Capobianco dopo gli scontri fra studenti e po-lizia a Valle Giulia, il primo marzo del 1968. «Fu proprio il ’68 a de-cretare la fine dell’unione tra arte e politica. Il Movimento ci accusò di essere legati al capitalismo, di avere una visione elitaria. Ci se-parammo, ci perdemmo. Chiusi nei nostri studi». Sebastiano, il suo studio/abitazione lo ha die-tro Campo dèFiori. Dovrà abban-donarlo alla fine degli anni ’90, sfrattato dal padrone di casa, che in cambio gli offrirà un alloggio a Mostacciano, periferia romana accanto al Raccordo Anulare. Lui ci va, per scappare quasi subito a Roccascalegna. Nello studio del Campo prendono forma le gran-di composizioni che accostano la fragilità di decine e decine di uo-va (vere) alla durezza del ferro di falci e martelli, o a quella del filo spinato. La morte di Salvador Al-lende durante il golpe cileno del 1973 è una sfera sospesa, disegna-ta, nuovamente, da un groviglio di falci e martelli. E man mano che i muri di Roma divengono tele, su cui disegnare e scrivere i ri-chiami alle tante forme di rivolta nell’Italia tra il 1970 e il 1980, Ca-pobianco li fotografa, trasforman-doli in acqueforti: l’espressione artistica da lui prediletta, lasciata di recente per lo sforzo fisico che comporta realizzarla. Roccascale-gna è il punto di arrivo, la quie-te, il Buen Retiro? Se guardi, anzi ammiri, i lavori realizzati qui, ti verrebbe da azzardare un’ipotesi di pacificazione dell’artista con il mondo e con la vita. Dentro le casette intorno all’abitazione di Capobianco ci sono splendide composizioni nate dalle erbe, dal grano, dai semi, dal legno, dai ra-mi, dalle radici della terra abruz-zese. Ma Capobianco è un Nativo ribelle. Dice: «Lo sguardo delle amministrazioni pubbliche è cor-to, miope. Un sindaco di sinistra ha smontato un’opera firmata da un nome importante, e adesso è abbandonata in una discarica. Un’altra, mia, intitolata «Solida-rietà», è stata rimossa definitiva-mente dalla piazza del paese con la scusa di una sagra. Loro non capiscono, e io non mi arrendo. Arte Natura diventerà una fon-dazione». Nostalgia di Roma e di Campo dèFiori, di Cesaretto e dell’altra vita? Sebastiano lancia una sfida «Quale tra le mie ope-re ha per soggetto Berlusconi?», domanda a sua volta. Risposta impossibile. E allora mostra una grande scatola lignea verticale, che contiene i fiori tondi di una pianta selvatica. «Eccola. Da noi, questi fiori si chiamano Balle». Il vecchio combattente alza il bic-chiere di vino. Gli occhi sorridono dietro le lenti degli occhiali.

mare sospeso nell’aria, che uni-sce due alture; La Parabola, di Giuliano Giuliani, a Torricella Pe-ligna, ricorda un ciclopico leggio abbandonato in mezzo a un alto-piano; Sasso, di Marisa Albanese è un fazzoletto di alluminio aperto sulla sommità di una formazione rocciosa nei dintorni di Pizzofer-rato. Queste e altre installazioni fanno parte di un progetto, Arte Natura, iniziato da Capobianco nel 1985. L’arte legata alla natura è connubio ricorrente in gran par-te del lavoro creativo di un uomo che deve il suo soprannome alla chioma divenuta precocemente canuta. Soprannome evocativo di irriducibili Nativi americani, per-fetto per questo settantenne bat-tagliero fin dai tempi in cui, dal paesello di Roccascalegna, arrivò a Roma. Allora, lì, il connubio era fra arte e politica. Sebastiano De Laurentiis, così al registro ana-grafico, lo fece immediatamente suo. Nella casa dove è tornato, e dove ha ammassato mezzo secolo di opere, ricordi, delusioni e osti-nazione mai sopita, Capobianco racconta di una Roma che non esiste più. O meglio: continua a esistere fisicamente (piazza del Popolo, via del Babuino, via Mar-gutta, via dei Greci, via di Ripetta, Campo dèFiori), ma ha fermato il cuore che negli anni ’60 del se-colo scorso pulsava tra il Partito Comunista e l’anarchia, l’impe-gno rigoroso e le cene a eterno credito nelle trattorie: Peppino lo zozzone in via dei Greci, Otello alla Concordia, Giulio in via Mon-

di LUCIANO DEL SETTE

lll Capobianco interrompe il cammino lungo il sentiero, alza un braccio, e la indica. La Biscia, immobile, candida, sembra gal-leggiare sullo stagno. Girandoci intorno, cambia forma, mostra spirali, curve, il dorso arcuato. La Biscia è una scultura in marmo firmata dall’artista italiano Nun-zio. A circondarla sono soltanto le piante acquatiche, il verde e il si-lenzio della Riserva Naturale Lago Serranella, Abruzzo, provincia di Chieti. Il fuoristrada si ferma ac-canto a una casa senza tetto, po-co sotto il ciglio della carreggiata. Capobianco impreca contro i cac-ciatori, che hanno lasciato i buchi delle loro cartucce sulle piastrelle policrome delle due facciate di Ceramica, opera di Massimo Bar-zagli. A piedi, in mezzo agli albe-ri. Fino a raggiungere una fonta-na di pietra e sassi. Capobianco si china per bere da uno dei sottili getti d’acqua. Escono, i getti, da tre bocche femminili in bronzo: Le bocche di Tamara, calchi delle labbra di Tamara Grcic, scultrice tedesca. Nei giorni a seguire, sarà sempre lui, Capobianco, la guida per scoprire altre opere, sparse su un territorio fatto di paesi e bor-ghi distesi lungo la schiena delle colline e delle montagne; di vi-gneti, boschi, ulivi, pale eoliche sotto cui pascolano le mucche; di-stante due passi dalla costa. Ecco La morgia, a Gessopalena, dell’a-teniese Costas Varotsos: enorme lastra di vetro azzurro, quasi un

A Roccascalegna, campagna di Chieti, è nato, vive e lavora, Sebastiano De Laurentiis, in arte Capobianco. Nei suoi racconti, la Roma anni ’60, dove pittura e scultura erano anche politica. la scelta del ritorno, il progetto di una Fondazione

AGRITURISMO IL NESPOLO

MARIANGELA CUSTODElll Cinque minuti a piedi è la distanza tra la casa di Capobianco e l’agriturismo Il nespolo di Mariangela e Gabriele, in contrada Capriglia. Anche loro fanno di cognome De Laurentiis, cosa piuttosto comune a Roccascalegna. Non comune, invece, l’accoglienza dei padroni di casa: lei cuoca dispensatrice di delizie, lui scienziato e scrittore in tema di tartufi. Capobianco è presenza abituale ai tavoli della trattoria, accanto alla casa rurale ristrutturata per accogliere otto persone. Mariangela vizia Sebastiano e i suoi ospiti (lo ha stesso ha fatto con chi scrive, sia detto per limpidezza di cronaca) proponendo menu a base di antipasti di salumi e formaggi, verdure grigliate, polpette di formaggio o di melanzane, bruschette; paste con pomodorini e basilico, ragù vegetariano o di carne, lasagne, tagliatelle ai funghi e tartufi, zuppe di farro, polenta rossa o bianca; agnello alle erbe, tacchino all’arancio, coniglio o pollo ripieno; pizzelle al profumo di anice, ciambelline al vino o alla passata d’uve, torta di farro e carote. L’orto e il frutteto danno composte di ver dure, confetture di frutta e verdura, che vengono servite in tavola e si possono acquistare. I prezzi della trattoria e dell’agriturismo sono di grande onestà. La natura è bella e piena di pace. Per saperne di più, 0872/987439, 339/3691161. Dite che vi manda Il manifesto (lds)

lll «Ogni inquadratura è la possibilità di ripensare il cinema, ripensare la struttura narrativa – come raccontare una storia con un’immagine». Così Martin Scorsese cristallizza il senso della sua avventura in 3D, Hugo Cabret, un viaggio indietro nel tempo, verso l’alba dello spettacolo da grande schermo, sulle ali della più visionaria, evoluta, tecnologia digitale. A caccia di luoghi, superfici, luminosità, punti di vista ed emozioni inesplorate, Scorsese scava dentro al fotogramma come non aveva mai fatto prima. In un labirinto di gallerie, scale e nascondigli segreti (perfetta dreamland di un bambino), ma soprattutto di viti, rotelle e meccanismi vari, il regista di Mean Streets, Raging Bull e Taxi Driver (ma anche di Kundun, The King of Comedy e The Last Temptation of Christ) insegue l’anima più magnifica ed elusiva del cinema (quella che non separa i fratelli Lumière e il coprotagonista di Hugo, Georges Méliès, come le storie del cinema pedanti): il punto d’incontro tra trascendenza e tecnologia. Storia di un bimbo orfano di nome Hugo, che vive dentro ai muri della stazione ferroviaria della Parigi dei tardi anni venti dove incontra Georges Méliès, caduto in disgrazia e diventato gestore di un piccolo negozio di giocattoli, Hugo Cabret, è (come hanno scritto in molti) uno dei film più personali e autobiografici di Scorsese. Non tanto perché rivisitando la storia del pioniere del cinema fantastico e dei suoi fantasmagorici capolavori perduti (insieme a «classici» dell’abc delle origini come L’arrivée du train a La Ciotat dei Lumière e The Great Train Robbery di Edwin Porter), Hugo ci ricorda quanto sia importante preservare il cinema, che è poi la missione della scorsesiana Film Foundation. In questo suo ultimo, ricercatissimo lavoro, più o meno tacitamente dedicato alla figlia minore, che oggi ha dodici anni, Scorsese torna infatti alla sua stessa infanzia, come descritta in tante interviste - quella di un bambino malato di asma e quindi costretto a stare molto solo, a guardare il mondo da lontano, o a immaginarlo, in bianco e nero su un piccolo schermo tv, come filtrato attraverso le repliche infinite del Million Dollar Movie della settimana (un rituale condiviso, più o meno nello stesso periodo, ma a molti isolate di stanza, su nel Bronx, da George Romero). Invisibile al traffico innarrestabile della stazione, la sua ombra fugace perseguitata da un minaccioso ferroviere che, dickensianamente, sogna di mandarlo all’orfanatrofio, piccolo, malinconico, gli occhi due pozzi di blu, Hugo (come Scorsese bambino) guarda, e vive il mondo da lontano, «inquadrato» da finestrini, sportelli e grate di ogni tipo. Suo unico compagno (insieme agli orologi della stazione che cura e carica con devozione), un automatone rotto lasciatogli dal padre, un meccanismo della meraviglia, che il bambino sogna - rotella dopo rotella - di riportare in vita. Hugo è l’ incarnazione di quella che Scorsese chiama «la patologia del cinema», la possibilità di vivere le emozioni della vita reale

IL 3D SECONDOGEORGES MELIES

OTHERWORLDUSA

DI GIULIA D'AGNOLO VALLAN

attraverso l’incantesimo di una macchina. In quel senso, Hugo Cabret (per cui Scorsese ha detto di essersi ristudiato tutta la pittura cubista), in ogni sua inquadratura, non ripensa solo il cinema ma anche lo sguardo.Sono pochi, oggi, gli autori che come lui osano sovvertire il «baricentro» dell’immagine. James Cameron, ovviamente, che adora Hugo Cabret («il miglior film in 3D mai realizzato») e che a Martin Scorsese, grazie al suo Avatar, ha più o meno fornito le macchine per girarlo. Tra i più sottovalutati sono Joe Dante (The Hole) e Robert Zemeckis, nel cui Christmas Carol, si anticipavano già alcune delle sequenze più spericolate di Hugo. Grande avventuriero della steroscopia (il suo lavoro e quello dei colleghi del New American Cinema oggi attuale come non mai), Ken Jacobs, prima ancora di Scorsese, non a caso, è tornato alle origini per esplorare la terza dimensione in The Guests (2009), studio su un fremmento di Entre’ d’une noce a’ l’eglise, dei Lumière. E continua a decostruire la percezione Steven Spielberg, il suo immaginario schizofrenicamente sdoppiato tra l’iperbole del detestato (e detestabile, ma spesso affascinante) Michael Bay (che il regista di ET produce) o e il cinema piu «serio» che porta la sua firma – Tin Tin ma soprattutto l’ultimo lavoro, non in 3D, War Horse, che completamente controtendenza, è un omaggio all’inquadratura, ai ritmi e ai valori di John Ford.Appartiene al gruppo anche John Carpenter, poco affascinato dalla terza dimensione, ma studioso inesauribile dello spazio dell’inquadratura in scope. E ha stupito (per tornare al 3D) la grazia visiva e lo spirito romanzesco con con cui (su una sceneggiatura orrenda e con attori ancora peggio) Paul Anderson ha rispolverato I Tre Moschettieri di Dumas. L’integrale Pixar, l’ultimo, austero e perversissimo Cronenberg, il recente programma di film di Ernie Gehr presentato durante lo scorso New York Film Festival…. a Hollywood e dintorni un cinema che ricerca (l’immagine) si continua a fare. È la corrente vitale opposta alla leziosità e al vuoto sostanziale di un «omaggio» alla storia del mezzo come il pot-pourri franco/belga/americano The Artist, di Michael Hazanavicious – applauditisismo a Cannes, e oggi uno dei canditati più quotatati dell’Oscar per il miglior film. E’ la corrente irriducibile che sceglie The Driver (1978, Walter Hill) invece di Drive. E che non si appiattisce sul cinema «piccolo», iperscritto, dei buoni sentimenti, visivamente poco curioso, di cui si raccontano facilmente «le storie» e di cui si può scrivere che sono «bravi» gli attori. Quel cinema rassicurante e un po’ ipocrita, che ci fa sentire tutti un po’ imperfetti, ma sostianzialmnente molto tranquilli.è

Arte contemporaneaa cielo apertonella Riserva naturale

INCONTRI n CAPOBIANCO, L’ETERNO RIBELLE

Legno, semi, erbe, piante, sono le materie prime delle opere di Capobianco. In basso. Un suo ritratto. Foto di Roberta Vozza

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(8) ALIAS10 DICEMBRE 2011

di FEDERICO ERCOLE

lll Giocare Uncharted 3 è un’e-sperienza rivelatrice perché, seb-bene sia un gioco d’avventura e azione dove la riflessione cede ai riflessi delle dita e alla coordina-zione tra queste e l’occhio, è un monumento ai videogiochi intesi come spettacolo e un segnale del crepuscolo del cinema hollywo-odiano d’avventura. Un pò come la quarta sinfonia di Brahms, nel cui finale intuiamo l’estinzione della sinfonia classica, intesa dal musicista con sublime e tragico senso di orrore, in Uncharted 3, videogioco ispirato a centinaia di pellicole d’avventura, percepiamo la fine del genere o meglio la sua trasfigurazione nel regno elettro-nico dei videogiochi. Non si trat-ta di un passaggio traumatico, a meno che non lo si consideri una catastrofe per il mercato hollywo-odiano anche se tutte le grandi major ormai producono videogio-chi, ma naturale, come se il cine-ma d’avventura –in questo senso sono emblematici i film indiani di Fritz Lang- fosse stato inventato proprio per divenire videogioco. Non è solo una questione di inte-rattività, poiché Uncharted 3, se «interpretato» da un giocatore ca-pace, può stupire anche un appas-sionato di cinema che non abbia mai tenuto un joypad in mano. É invece di una questione di tempo. Hollywood non ha il «tempo» dei videogiochi e non si tratta della

durata dell’esperienza, due ore che diventano dodici, altrimenti si potrebbe parlare di serie televi-sive, ma di dilatazione dell’emo-zione e del linguaggio attraverso cui viene espressa. Se, ad esem-pio, la sparatoria di un film duras-se più di un’ora svolgendosi nello stesso scenario (ci sono Rambo 2 e Commando, ma non sono pro-prio capolavori…), nell’economia di un lungometraggio sarebbe disastroso. In un videogioco no. Oppure se un personaggio di una pellicola camminasse e basta per oltre mezzora tra i vicoli fatiscen-ti di una città, scalando qualche tetto durante il percorso, il pub-blico in cerca d’azione si spazien-tirebbe dopo poco. Magari non gli spettatori abituati al cinema sperimentale, perché la durata delle scene di un gioco è, anche se può sembrare irriverente, più simile a quella dilatata e estrema di Warhol o Bela Tarr.In Uncharted un piano sequenza o una panoramica possono esse-re amplificati a dismisura, così i piani fissi e i segmenti d’azione, dipende dalla volontà del gioca-tore e dal suo intuito estetico. E’ così per moltissimi videogiochi ma nessuno fino a d’ora ( tranne quelli di un autore come Hideo Kojima, ma le sue opere vanno ol-tre al cinema e al videogioco, gra-zie al genio davvero unico con cui sono concepite) possiede il ca-rattere stupefacente e iperbolico, capace di meravigliare fino ad un

VIDEOGAME

L'attesissima prova di Naughty Dogcrea vertigine e stupore, attraverso la corsa del suo personaggio Nathan Drakefino alle sabbie che ardono in alta definizione

MONARCHY OF ROSESUSA, 2011, 4’10»MUSICA: RED HOT CHILI PEPPERSREGIA: MARK KLASFELD FONTE: MTV

Le sagome fotografiche dei Red Hot Chili Peppers, ritagliate e animate a passo uno, sono

inserite sugli sfondi disegnati (e altrettanto animati) ispirati all’estetica di Raymond Pettibon, già musicista per band come i Sonic Youth, e dagli anni ’90 artista nonché autore di fumetti. In bianco e nero con pochi tocchi di colore e caratterizzato da un tratto graficamente molto incisivo, contrappuntato anche da alcune frasi enigmatiche (che non c’entrano col testo della canzone), Monarchy of Roses è un riuscito clip che fonde playback e sperimentazione. Il brano è il secondo singolo tratto dall’album I’m with You realizzato dalla band californiana. Il clip del primo singolo – The Adventures of Rain Dance Maggie – diretto sempre da Klasfeld, vedeva Kiedis e compagni suonare sul tetto di un palazzo di Venice Beach, come i Beatles o gli U2.

BRUCERO’ PER TEITALIA, 2011, 4’MUSICA: NEGRITA,REGIA: FABIO D’ORTAFONTE: MTV

Sorprendente questo clip dei Negrita dove la band aretina non compare mai in carne e ossa ma solo sotto forma di

fotografie: a parte le immagini fisse e i collage, le sequenze più interessanti sono quelle composte da assemblaggi di dettagli fotografici che, grazie all’effettistica digitale, ricostruiscono tridimensionalmente i corpi in alcuni interni filmati con carrellate in avanti. Fabio D’Orta confeziona un clip molto raffinato, ennesima variazione sul connubio tra immagine fissa e immagine in movimento, molto in voga da quando il digitale ha praticamente riunificato i due medium in un solo dispositivo.

CLUB FOOTUK, 2004, 3’40» MUSICA: KASABIANEGIA: W.I.Z.FONTE: YOUTUBE.COM

Dedicato alla memoria di Jan Palak, il giovane che si diede fuoco per protestare

contro l’invasione sovietica dela Cecoslovacchia, Club Foot racconta appunto degli avvenimenti della Primavera praghese: mentre le strade della città sono presidiate dai carri armati, ragazzi e ragazze fanno controinformazione e si preparano alla Resistenza. Protagonista di Club Foot è soprattutto una ragazza ceca che, per fermare un blindato, si sdraia per terra (una sequenza che evoca il famoso episodio di Tien an men del 1989). W.I.Z. gira tutto il video in un bianco e nero che evoca perfettamente l’atmosfera e l’iconografia dell’epoca, inserendo il playback della band in quel contesto, con risultati davvero eccellenti.

NEW SENSATIONAUSTRALIA, 1988, 3’30»MUSICA: INXSREGIA: RICHARD LOWENSTEINFONTE: MTV CLASSICS

Bello l’incipit con la musica degli orffiani Carmina burana. Poi la camera carrella fino

a riprendere la band australiana sul terrazzo di un vecchio edificio. Ma a rendere originale e visivamente seducente questo clip di playabck sono le scie astratte luminose e colorate che, in diversi momenti, circondano rapidamente le sagome dei musicisti: un effetto creato frame by frame senza alterare il lip synch. Per questo New Sensation Lowenstein, che ha poi debuttato come regista cinematografico ed è autore anche di altri music video per gli Inxs, ricevette una nomination agli Mtv Award. Il montaggio è di Bruce Ashley.

TUBE ATTACK

Uncharted 3: la finedel film d'avventuracomincia adesso

GIOCHI n AZIONE

A FINE ANNOI GIOCHI PIÙ ATTESI

di FRANCESCO MAZZETTA

lll Matteo Bittanti, su Rolling Stones di novembre li definisce «il dodice simo sequel dello sparacchino terroristico di Activision/Electronic Arts/Whatever» ma tale atteggiamento nei confronti di Battlefield 3 e di Call of Duty: Modern Warfare 3 (abbrevviato in MW3 dove la M si ribalta in W a indicare che quella in cui verremo immersi è nientemeno che la terza guerra mondiale) che già al momento del loro lancio hanno frantumato tutti i record videoludici di vendite (nella settimana di lancio sono state vendute 5 milioni di copie di Battlefield 3 mentre MW3 ha venduto un milione di copie in 24 ore) sembra, più che un giudizio equanime, lo sdegno del critico snob nei confronti di un genere - di cui pure lui stesso in passato aveva scritto cose illuminanti - premiato dal successo commerciale. Un pò la stessa cosa che succede ai critici rock delle fanzine... Ma si tratta in realtà di due giochi che non solo - ciascuno a suo modo - deliziano gli appassionati ma che parlano anche delle paure del mondo contemporaneo. Entrambi infatti, ambientati pochi anni avanti nel futuro, parlano di un mondo sconvolto dallo scontro tra americani e russi fomentato dal terrorismo internazionale. In Battlefield 3 (sviluppato e pubblicato da Electronic Arts) il casus belli sono due testate atomiche russe trafugate da una base militare iraniana e inviate a Parigi e a New York dai terroristi internazionali che sostengono l’esercito iraniano contro l’invasione americana. In MW3 (sviluppato da Infinity Ward e pubblicato da Activision) prosegue la linea narrativa dei precedenti episodi, con gli Stati Uniti invasi dalle truppe russe dopo che un militare americano aveva partecipato ad una strage di civili in un attacco terroristico contro un aeroporto russo. In realtà il responsabile dell’attacco era il russo Makarov che sfrutta l’ondata di sdegno per manovrare i vertici politici e fa esplodere nelle principali capitali europee ordigni al gas nervino

per impedire un’efficace discesa in campo degli alleati europei. Come nel secondo episodio MW3 sfrutta biecamente, ma in modo assolutamente efficace, le proprietà empatiche della soggettiva mettendoci nei panni del padre di una bambina dilaniata dall’esplosione dei terroristi a Parigi.Il gameplay è molto diverso nonostante siano entrambi sparatutto in prima persona: alla fluidità e alla relativa libertà d’approccio di MW3, Battlefield 3 risponde con una grafica stupefacente, in particolare nell’episodio del lancio col paracadute dall’aereo o durante la guida di un mezzo corazzato nel deserto iracheno, e con la necessità di posizionarsi correttamente all’interno dello scenario. Si può parlare per Battlefield 3 di una vera e propria coreografia che il giocatore deve scoprire ed interpretare per poter uscire vivo negli scontri a fuoco più affollati. Nondimeno l’impressionante somiglianza nella trama è un segnale dei timori che serpeggiano per l’Occidente e che non sono suscitati da qualche «stato canaglia» ma dalla volontà di potenza delle superpotenze tradizionali in balia di criminali internazionali o di politici senza scrupoli in grado di utilizzare tutto il vasto arsenale disseminato per il mondo.

estatico stordimento, di quest’o-pera di Naughty Dog per PS3. Giocare nei panni di Nathan Dra-ke, il protagonista, è come vedere quattro film di Indiana Jones di seguito illudendosi, un pò psico-ticamente, di essere sia il protago-nista che il regista. Uncharted 3 crea vertigine e stu-pore livello dopo livello, set dopo set. Trascorriamo dai sotterranei di Londra fino ai tetti di Cartage-na in Colombia, viaggiamo fino ad una selva francese dove un castello diroccato prende fuoco trasformando la nostra fuga in un caleidoscopio fiammeggiante. Veniamo sommersi da una tsu-nami che precipita la sua furia acquatica in un cimitero di rude-ri navali, scampiamo al naufragio di una nave da crociera mentre liquido e lamiere si confondono, precipitiamo da un aereo fino a cadere in mezzo alla desolazione sabbiosa di un deserto. Qui, tra il nulla rovente di quelle terre gialle e azzurre, vaghiamo tra le dune in uno stato allucinatorio crescen-te, mentre una voce fuori campo cadenza i nostri passi sfiancati re-citando i versi di The Waste Land di T.S. Eliot: uno dei momenti più affascinanti della storia dei videogiochi in grado di smarri-re chi gioca, chi viene giocato e chi guarda in un abisso di parole bruciante quanto la sabbia del de-serto che arde in alta definizione sullo schermo.

NI NO KUNI

lll Ni No Kuni: Wrath of the White Witch uscirà in Europa distribuito da Namco-Bandai durante i primi mesi del 2012. Si tratta di un gioco di ruolo sviluppato da Level 5 che vanta il design dello Studio Ghibli e solo mirarne le splendide immagini da "anime” suscita un’ emozione di meraviglia soprattutto in chi ama l’opera dei maestri giapponesi dell’animazione. La colonna sonora è composta da Joe Isaishi, muscista di tanti capolavori di Hayao Miyazaki e Kitano Takeshi.Miyazaki, che non ama i videogiochi, non ha partecipato allo sviluppo.

Due sparatutto appena usciti sbaragliano tuttele classifiche

GIOCHI n SIMULAZIONI DI GUERRA

Criminaliinternazionli,armi nucleari,politicisenza scrupoli.E l'azione in soggettiva:sono i giochi di guerracontro la pauracontemporanea

Al centro «Uncharted 3» e sotto «Call of Duty Modern Warfare 3 Paris»

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(9)ALIAS 10 DICEMBRE 2011

poemetto dedicato a Idrissa (Blondin Miguel) un ragazzino africano sbarcato da un container. Kaurismaki disegna le coordinate dell'avventura «extracomunitaria», Idrissa nascosto nell'armadio, dentro un carretto, dietro una porta mentre il lustrascarpe, malvisto fino a quel momento dal vicinato, diventa la primula rossa di Le Havre e come in un musical orchestra l'opera di soccorso corale. Il film lievita nel suo esilarante tocco. Con i tratti leggeri di matita, Kaurismaki disegna il suo presepe laico - il miracolo è tutto umano - e dà il via a un thriller emozionante, gioco di equivoci e tranelli, «realismo poetico» con humour. (m.c.)

LE NEVI DEL KILIMANGIARODI ROBERT GUÉDIGUIAN, CON ARIANE ASCARIDE, JEAN-PIERRE DARROUSSIN, GÉRARD MEYLAN. FRANCIA 2011.

Robert Guédiguian torna al quartiere dell’Estaque di Marsiglia dove ambientò i suoi

primi film con gli stessi protagonisti che vediamo ora alla soglia della pensione. La fabbrica è in crisi e si sorteggia chi sarà licenziato, ma una rapina segna la vita di alcuni di loro. In questa parabola non a caso ispirata a una poesia di Victor Hugo (Les peuvres gens) il regista riporta la situazione indietro di più di cento anni, in epoca precedente al Capitale di Marx, all’epoca dei «miserables» di Hugo e dei diseredati di Dickens,, mostrando la debolezza della sinistra, di come siano state azzerate tutte le conquiste raggiunte, annientata la coscienza di classe. Bisogna venire fuori dal gelo dellle «neiges du Kilimandjaro» come cantava Pascal Danel nel ’66. (s.s.)

LO SCHIACCIANOCI 3DDI ANDREJ KONCHALOVSKIJ; CON ELLE FANNING, JOHN TURTURRO. GB UNGHERIA 2010

Dalla favola di Hoffmann, divenuta un classico del balletto con le musiche di

Cajkovskij, con un lato horror ha la meglio sull’elemento sempre ottimista che avevano i colossal Usa in technicolor. Si fronteggiano splendente come una stella Elle Fanning e un agghiacciante John Turturro come re dei topi. La presa del potere dei topi usciti dalle fogne è talmente difficile da abbattere che la lotta prende il sopravvento, monito contro tutte le dittature. E i tempi felici sono brevissime parentesi, il tempo di un Natale. (s.s.)

SETTE OPERE DI MISERICORDIADI GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO; CON OLIMPIA MELINTE, ROBERTO HERLITZKA. ITALIA 2011

I gemelli De Serio nascono nel documentario, si muovono tra cinema e

arte e narrano storie di migranti In questa coproduzione italo rumena siamo nel mondo dei «clandestini», lo è la protagonista (Olimpia Melinte) che ruba nelle borse di pazienti all’ospedale, e si accorda per altri affari poco puliti con un infermiere che in cambio le promette il passaporto. Poi c'è un vecchio (Roberto Herlitzka) la ragazza lo segue, può servirle al suo piano. Lei ritrova un lampo di umanità, passando dalla condizione di ladra a quella di badante (le sette opere di misericordia del titolo). La realtà viene sopraffatta dalla preoccupazione costante per il proprio stile che impedisce quella «generosità» di sguardo necessaria. (c.pi.)

117, uno e due, prequel popolare di James Bond, che riesce a sbalordire solo per la collezione di banalità e sviste filologiche. The Artist, incursione nelle profondità del silent movie alla ricerca, tutt'altro che anacronistica, di un facile battimani. In questo allegro calderone, dove i «vecchi film» sono tutti la stessa cosa, non c'è traccia del film muto. Così l'«omaggio» di Hazanavicius perde fascino e umorismo, gioca solo sul grottesco dei fotogrammi accelerati (24 al secondo e non 16) e sulle bocche che macinano aria. Hazanavicious invece piace, incapace di rinverdire il glamour dei pionieri, ma bravo a pacificare l'occhio, senza nostalgia e curiosità per il mai visto. (m.c.)

IL GIORNO IN PIÚDI MASSIMO VENIER, CON FABIO VOLO, ISABELLA RAGONESE, ITALIA 2011

Giacomo galleggia tra una pupa e l’altra. Fantastico, ma ogni volta che al lavoro bisogna

fare qualcosa in orari improbabili, tocca sempre a lui. Si inventa allora una fidanzata. Finché sul tram vede una ragazza che lo intriga. Dal romanzo di Fabio Volo che ha venduto un’esagerazione di copie, la storia dal retrogusto autobiografico arriva su grande schermo, costruita attorno al suo protagonista. Che ha un grande pregio: è quel che è. A voler guardare bene il racconto è fragilino, e anche un pò troppo pensato a tavolino, ma si può anche trovare garbato, diretto con disinvoltura (a.c.)

IO SONO LIDI ANDREA SEGRE CON ZHAO TAO, RADE SERBEDZIJA, ITALIA - 2011

Le problematiche dell'emigrazione qui hanno un sapore tutto speciale, tenute

nascoste da divieti o da dolori troppo grandi per essere espressi. Eppure l'incontro avviene, tra l'indifferenza e il chiacchiericcio, la battuta e la bevuta, tra due lontanissimi individui, la donna cinese con il figlio lontano e lo slavo con l'anima da poeta. Gli avventori del bar, magnifici da frequentare anche solo al cinema: Marco Paolini, Giuseppe Battiston, Roberto Citran. Ha appena ricevuto il premio Fac (comitato per la diffusione del film d'arte e di cultura). (Si può vedere dall'11 al 18 a Chioggia, il 13 serata speciale a Prato alla presenza degli attori e del regista, A Torino nel corso del festival Sottodiciotto il 14 i bellissimi documentari, il 15 il film alla presenza del regista. (s.s.)

MIDNIGHT IN PARISDI WOODY ALLEN; CON OWEN WILSON, MARION COTILLARD, USA/SPAGNA 2011

Tour del regista newyorkese attraverso la mitologia di un «americano a Parigi», l’amore

dei grandi narratori d’oltre Atlantico, i bohémien che hanno fatto Hollywood. New York si modella su Parigi e viceversa negli occhi di Woody Allen che incontra al Polidor, bistrò mitico del quartiere latino, Francis Scott Fitzgerald e Zelda, Salvador Dalì (Adrien Brody), Luis Buñuel, Pablo Picasso, Paul Gauguin. Il passaggio dallo schermo alla platea di La rosa purpurea del Cairo si apre di nuovo in questa mezzanotte parigina per Gil (Owen) scrittore incompreso e sforna le sue divinità in carne e ossa, amici da bar, compagni di avventure. (m.c.)

MIRACOLO A LE HAVREDI AKI KAURISMÄKI, CON ANDRÉ WILMS, KATI OUTINEN. FRANCIA 2011

Marx, scrittore bohémien in esilio volontario al suo banchetto di lustrascarpe,

in una Francia perfetta per il

LIGABUE CAMPOVOLO - 3DDI E CON LUCIANO LIGABUE. ITALIA 2011 0Il Il concerto di Luciano

Ligabue al Campovolo di Reggio Emilia, svoltosi il 16

luglio 2011 innanzi a 120.000 fan, è stato immortalato in un film in 3D. Le immagini del concerto e la parte documentaria, svelano un in edito Ligabue, che racconta la storia di un sogno nato vent'anni prima, ed ora realizzatosi.

BLOODLINEDI EDO TAGLIAVINI, CON FRANCESCA FAIELLA, VIRGILIO OLIVARI. ITALIA 2011

Sandra e Marco sono due giornalisti che, per evitare il licenziamento sono sul

backstage di un film pornografico. Sandra scopre con orrore che proprio in quel luogo, 15 anni prima, fu uccisa sua sorella da un serial killer, «Il Chirurgo». Sta a lei scoprire adesso chi si cela dietro il copycat che emula il serial killer, e soprattutto perché i corpi da lui mutilati tornano in vita, assetati di sangue.

CAMBIO VITADI DAVID DOBKIN, CONRYAN REYNOLDS E OLIVIA WILDE. USA 2011

Mitch e Dave da piccoli erano inseparabili, poi si sono persi di vista. Dave adesso

è un avvocato, sposato e con tre figli. Mitch invece è rimasto single, non ha un lavoro fisso e non ha voluto mai prendersi una responsabilità nella vita. Dopo aver trascorso insieme una nottata alcolica, i due si risvegliano uno nel corpo dell'altro.

ENTER THE VOIDDI GASPAR NOÉ, CON NATHANIEL BROWN E PAZ DE LA HUERTA. FRANCIA 2010.

Oscar e sua sorella Linda abitano da poco a Tokyo. Per sopravvivere, lui spaccia droga

e lei fa la spogliarellista in un night club. Una sera, durante una retata di polizia, Oscar rimane ferito. Prima di morire, il suo spirito, memore della promessa fatta alla sorella di non abbandonarla mai, si rifiuta di lasciare il mondo dei vivi, ed inizia a vagabondare per la città.

MOSSE VINCENTIDI THOMAS MCCARTHY, CON PAUL GIAMATTI E AMY RYAN. USA 2011

Mike Flaherty è un avvocato e fa anche l’allenatore di una squadra di lotta di un liceo

newyorchese. Mike è nominato tutore legale di un suo anziano cliente, ma quando la nipote di quest'ultimo, fugge da casa e si rifugia dal nonno, la sua vita e quella dei ragazzi che allena subiranno delle brusche conseguenze.

ANCHE SE È AMORE NON SI VEDEDI E CON FICARRA E PICONE, ITALIA 2011

Il duo comico palermitano riprende i modi e le situazioni comiche di Franco

e Ciccio anche se notevolmente imborghesiti. Questo è il loro primo film da registi assoluti, ed è una totale delusione, perché da Ficarra e Picone ci aspettavamo qualcosa di più sostanzioso. La storia è blanda, set e musiche uguali a quelli di altri mille film, ma non si ride come si dovrebbe. È vero che è un film senza volgarità, ma compaiono battute antipatiche sulle donne e situazioni copiate da sitcom inglesi o spagnole. (m.gi.)

THE ARTISTDI MICHEL HAZANAVICIUS; CON JEAN DUJARDIN, BÉRÉNICE BÉJO. FRANCIA 2011

Fatuo minuetto muto in bianco e nero del quarantenne francese

Michel Hazanavicius, noto per Oss-

CULT LETALE SOPORIFERO BELLOINSOSENIBILE RIVOLTANTE COSI' COSI' MAGICOCLASSICO

A CURA DI: FILIPPO BRUNAMONTI, ANTONELLO CATACCHIO, MARIUCCIA CIOTTA, GIULIA D'AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO, ROBERTO SILVESTRI, SILVANA SILVESTRI

I FILM

IL FILM

LA FILOSOFIA

LA MOSTRA

IL PRESEPE DELL'AVENTOTORINO PIAZZA CASTELLO, FINO AL 15 GENNAIOIl calendario di manifestazioni inaugurate a Piazza Castello il 1° dicembre andranno avanti fino al 15 gennaio. Sono state realizzati dal teatro Regio i lavori di conservazione e di allestimento del Presepe di Emanuele Luzzati e il Calendario dell’Avvento: il Presepe, realizzato nel ’97, presentava i segni del tempo: sono stati riprodotti i 342 metri quadri di fondale, ognuna delle cento figure è stata ritoccata, i 30 alberi totalmente ricostruiti. Accanto alla struttura semiellittica del presepe (32 metri x 65) è stato posizionato il Calendario dell’Avvento, libro pop-up di Làstrego&Testa ispirato al Presepe di Luzzati. Accanto alle istallazioni si aggiunge un percorso spirituale che coinvolge tutte le comunità religiose della città in quattordici diversi luoghi di culto tra cui il Tempio valdese con concerti, letture e gospel mentre, l’aula dei Tempio della Mole Antonelliana dove il 21 si celebrerà la cerimonia ebraica delle Luci, una speciale festa di Channukkah. Quindi, in omaggio alla tradizione musulmana dei Sufi presente a Torino, con il concerto mistico dei dervisci Sam’A nel Centro culturale Taiba e nella Chiesa di San Pietro e Paolo cuore di San Salvario, quartiere multietnico. La comunità ortodossa, il 26 dicembre festeggerà in piazzale Valdo Fusi con due grandi cori e una mostra di icone nella Chiesa di via Accademia Albertina. (s.s.)

ALMANYA - LA MIA FAMIGLIA VA IN GERMANIADI YASEMIN SAMDERELI, CON VEDAT ERINCIN, FAHRI OGÜN YARDIM. GERMANIA 2011Esordio autobiografico di Yasemin Samdereli, cosceneggiatrice con la sorella Nesrin, commedia campione di incassi in Germania, racconta tre generazioni di una famiglia turca trasferitasi da 40 anni in Germania e riunita per un viaggio nella terra natia, voluto dal capostipite, Huseyin, omaggiato da Angela Merkel come milionesimo-e-uno lavoratore turco immigrato. Tra passato e presente, paure, speranze e differenze culturali si svolgono piccoli drammi dell’adolescenza, crisi di identità e scoperte. Cosa sarebbe il cinema europeo senza turchi, curdi e armeni? Come immaginare il cinema italiano privo di Gianikian e delle spezie aromatiche «Ozpetek»? O quello tedesco senza la vitalità rock di Fathi Akin o l’umorismo leggiadro delle sorelle Samdereli? Vista la crisi economica qui e il boom non solo economico ma anche politico di Istanbul (è un modello, per mahgreb e mashreq, di libertà religiosa e separazione neo-ottomana tra stato e chiesa) prima o poi ci toccherà sbarazzarci definitamente di stereotipi e pregiudizi e sperare di poter «entrare in Turchia» (e non più viceversa). (r.s.)

IL FILOSOFO COME PERSONAGGIOROMA, ACCADEMIA DI FRANCIA, VILLA MEDICI13 DICEMBRE, ORE 19.30Per il ciclo «Letteratura, oggi» all’Accademia di Francia a Villa Medici, si incontrano autori italiani e francesi. Organizzata dallo scrittore e antropologo borsista di Villa Medici, Philippe Artières, questa serata si terrà con i tre scrittori Benoit Peeters, Mathieu Lindon (vincitore del Prix Médicis) e Toni Negri, sul tema del «Filosofo come personaggio». Benoît Peters, filosofo, appassionato di Hergé, ha pubblicato da Flammarion Derrida, prima biografia del filosofo, con il saggio, Trois ans avec Derrida. Les carnets d'un biographe. Mathieu Lindon è gionalista e critico letterario di Libération. Nel 1987, da parte del Ministero degli Interni, è stata vietata la pubblicazione del suo romanzo, Prince et Léonardours, che racconta lo stupro e le torture subite da due adolescenti innamorati. Una mobilitazione di intellettuali gli ha consentito di continuare ad essere pubblicato. Alla fine degli anni '70 alcuni intellettuali francesi come Gilles Deleuze, Felix Guattari, Jean-Pierre Faye, Michel Foucault hanno offerto solidarietà a Toni Negri che in Francia e nei paesi anglosassoni è diventato un punto di riferimento vendendo oltre un milione di copie di Impero scritto con Michael Hardt. (s.s.)

ANDY WARHOLALL TOMORROW’S PARTIESBOLOGNA, ONO ARTE CONTEMPORANEA (VIA S. MARGHERITA 10)15 DICEMBRE - 3 FEBBRAIO 2012Giovedì 15 (ore 18) si inaugura alla Ono Arte Contemporanea la mostra «All Tomorrow’s Parties - Andy Warhol, la Factory e i Velvet Underground». Racconta per la prima volta il personaggio e l’uomo, descritto attraverso più di 85 scatti a opera di fotografi di fama internazionale allo stesso tempo amici, artisti e membri della Factory, fulcro creativo della New York degli anni ‘60. Le opere, documentano anche il suo rapporto di amicizia con i Velvet Underground, un sodalizio che va dal 1965 al 1970 anno in cui Lou Reed lascia il gruppo. Quando nel ’65 al «Café Bizarre» al Greenwich il gruppo è licenziato in tronco per licenziosità, Warhol li adotta e produce il lor primo Lp «The Velvet Underground and Nico» di cui «All Tomorrow’s parties» è una delle tracce. Gli artisti in mostra: Anton Perich pittore, videoartista e fotografo per «Interview» la rivista di Warhol, Fred McDarrah documentarista ufficiale di quell’avanguardia degli anni ’50 e ’60, David McCabe che documenta per un anno (il 1964) la vita privata di Andy Warhol), Ugo Mulas e molti altri tra cui Ron Spencer, Elliot Landy, Jarry Schatzembergher, Lisa Law e Adam Ritchie. (s.s.)

SINTONIE

lll Incas - C’era un vanto, uno dei pochi nel nostro paese, che potevamo sbandierare davanti agli amici americani, uno dei pochi dati di misurazione del livello di civiltà raggiunto: la sanità pubblica. Naturalmente non ha mai funzionato in piena efficienza ma comunque seguiva i precetti costituzionali. Tutti aldilà delle condizioni economiche di cittadinanza o di classe o di sesso avevano il diritto a essere curati, tutti in quanto esseri umani nessuno escluso. Un dato di grande civiltà in una nazione così scombinata come la nostra, una nazione gestita, a voler essere generosi, da una compiacente compromissione tra legalità e illegalità di cui ogni volta fa finta di sorprendersi, come fosse una sonnambula che si sveglia di soprassalto in bilico sul cornicione ed elenca inutilmente alla luna improperi e richieste d’aiuto quel tanto che basti a svegliare chi le tappi quel urlo e la riconduca alla ragione, al silenzio, alla normalità del suo letto e così noi cittadini urliamo indignati ogni tanto contro le mafie, le speculazioni, le ingiustizie, la cancellazione dei diritti essenziali, i furti, gli inutili sprechi e tutto il non detto; ma l’urlo si perde e si disperde nel cielo malato delle nostre città. Così era un vanto la sanità pubblica finché chi questo stato lo ha fatto fallire non ha deciso che era troppo costosa e allora giù con i tagli, giù a cancellar letti e pannoloni e infermieri e coperte e giorni di degenza e decenza , giù con la guerra tra poveri, con la guerra ai poveri, che poi alla fine sempre di questo si tratta, in un crescendo nervoso per cui se la paziente è demente ci vuol la badante e la badante viene severamente controllata dalle indispettite, sovraccariche di lavoro, infermiere o caposala , in questo caso, italiane, in ogni caso superiori nella gerarchia, che le indottrinano velocemente su come cambiare, pulire, imboccare; e ignorate dai medici che non si danno pena di dar loro informazioni come se non fossero in grado di capirle. Nel reparto ce ne sono tre una rumena, una Tamil, molto simpatica e generosa e Matilde anni 62, 5 figli, 7 nipoti peruviana Incas compatta come una scultura bellissima con i suoi capelli nerissimi parla spagnolo ma capisce l’italiano e lo parla solo se costretta, è fiera e molto orgogliosa. Intelligente, osserva e chiede, nulla le sfugge e, nonostante alcuni scontri causati dai caratteri forti di tutte e due, sa curare la madre con affetto e poi ama i gatti. L’ho trovata scura in volto e offesa perché era stata maltrattata le chiesto perché è esplosa «yo soy buena pero si tengo que responder a un racista me salen todos los Incas de Atahualpa» come per magia Papillon, mia madre, la chiamo così perché nei rarissimi momenti di veglia, ovviamente notturni,ha tentato la fuga dalla cayenna ospedaliera scavalcando barriere di letti trascinandosi dietro rovinosamente tubi flebo ed altre propaggini, Papillon, dicevo, si è svegliata e ci ha regalato 10 minuti di allegria certamente grazie alla protezione degli Incas.

SANITÀ PUBBLICAE INCAS DI ATAHUALPA

VAIVIAVIVADI ALESSANDRA VANZI

IL NATALE

9

(10) ALIAS10 DICEMBRE 2011

Qualcuno mi può giudicare. Da Amyal «tenero» Boss

di GUIDO MARIANI

«Roy Orbison canta per i solitari», è uno dei versi di Thunder Road di Bruce Springsteen, una delle canzoni più famose della storia del rock. Tra i numerosissimi fan del Boss probabilmente c’è qualcuno che non ha mai saputo chi fosse Orbison né ha tantomeno mai ascoltato il brano a cui il rocker del New Jersey faceva riferimento, la malinconica Only the Lonely, un successo datato 1960. Quando il giovane Springsteen scrisse i versi non avrebbe mai pensato che un giorno il suo astro avrebbe oscurato quello di Orbison. Springsteen pagava pegno a un patriarca del rock e gli ha regalato forse un pò di immortalità. «Nel 1975 – ha spiegato – quando andai a incidere Born to Run, volevo fare un disco con le parole alla Bob Dylan e il suono alla Phil Spector, ma più di tutto volevo cantare come Roy Orbison». Spesso gli artisti si divertono, un pò per riconoscenza un pò per vezzo poetico, a citare i loro idoli nei testi delle canzoni. In altri casi gli esiti non sono stati così imperituri, ma ci sono esempi degni di essere ricordati. Escludendo la musica rap, in cui sia l’autocelebrazione che la citazione di colleghi, anche in contesti offensivi, è la regola, ecco alcuni eccellenti casi di artisti che hanno dedicato i propri versi ad altri autori.

I loro nomi evocano spesso un movimento musicale, altrevolte servono alla storia, altre ancora stigmatizzano un'influenza. Regole e avvertenze per una citazione perfetta. Attenti agli Eagles

Da The Royal Scam.Una torbida passione scandisce i versi di questa canzone che mette in scena un litigio per gelosia, pieno di tensione erotica («Ora devi dirmi tutto quello che hai fatto, baby,/ o prendo la pistola (…)/ Farai con me tutto quello che hai fatto, baby»). La musica degli Eagles diventa la perfetta copertura per quello che sta accadendo: «Alza gli Eagles/ i vicini ci stanno ascoltando». La scelta cadde sugli Eagles perché erano la band preferita della fidanzata del chitarrista Walter Becker. Un anno dopo gli Eagles restituirono il favore agli Steely Dan alludendo a loro in un verso del loro classico Hotel California.

GIMME INDIE ROCK(1992)

SEBADOH

STEELY DAN

Da You Could Have It So Much Better.Quale migliore canzone per scandire un addio di Everybody Hurts dei R.E.M.? Così la pensa la band di Glasgow: «Sto partendo/ sì ti lascio tutto/ tu sei la ragione per cui sto andando via./ E mentre viaggiamo sotto un sole radioso/ la radio suona quella canzone Everybody dei R.E.M./ e io combatto, combatto per non piangere». E dire che per la band Usa il brano doveva essere non un invito alle lacrime, ma un’esortazione a risollevarsi nei momenti difficili. Nel 1994 anche i Pavement omaggiarono i R.E.M. Avevano pubblicato Unseen Power of the Picket Fence, in cui raccontavano la storia della band elencando i titoli degli album e dei loro pezzi migliori, ma ripetendo un po' crudelmente per ben due volte che Time after Time era la canzone che amavano di meno. Nel brano Let Her Cry degli statunitensi Hootie & the Blowfish compare una ragazza fan sfegatata dei R.E.M.: «Dice che suo padre è la persona che ama di più/ ma Stipe viene subito dopo».

YOU'RE THE REASON I'M LEAVING (2005)

FRANZ FERDINAND

Dall’EP Rocking the Forest.In pieno fiorire della scena grunge e alternative rock, la band di Lou Barlow costruisce una vera e propria canzone enciclopedica in cui tra qualche tirata e feedback ricorda le origini del nuovo movimento indie, dagli Stooges passando per i Sonic Youth fino agli Hüsker Dü, citando anche la sua ex-band, i Dinosaur Jr. «C’è una nuova generazione/ è il nuovo blues elettrico dei ragazzi bianchi./ Forza indie rock/ è diventato grande». Si permette anche un’azzardata rima tra Pussy Galore (un’altra band di riferimento) e Thurstone Moore. Sulla falsariga, ci sono altri casi di brani che hanno tentato di raccontare la storia del rock alternativo americano, in primis proprio i Sonic Youth che in Screaming Skull del 1994 elencano fasti, artisti e successi dell’eroica etichetta indipendente Sst.

Da Chief.L’artista country Eric Church è balzato quest’anno al primo posto della classifiche di vendita americane con il suo nuovo album in cui è contenuta la storia di un amore ormai finito, ma che torna in vita attraverso le canzoni di Bruce Springsteen. Il brano ha come ritornello il nome del Boss: «È divertente come una melodia possa diventare un ricordo/ la colonna sonora di un sabato di luglio/ Springsteen (…)/ Anche se sarai un milione di miglia lontano/ quando sentirai Born In The Usa/ rivivrai quei giorni di gloria di tanto tempo fa». Ha spiegato Church: «Ho vissuto questa canzone. È una storia vera, avevo 15 anni e lei 16. Abbiamo avuto una di quelle storie d’amore in cui si entra subito in sintonia. E l’artista che ascolti è la colonna sonora della relazione. Non siamo rimasti insieme, ma anche oggi quando ascolto Bruce Springsteen penso a lei e spero che lei pensi ancora a me».

SPRINGSTEEN(2011)

ERIC CHURCH

EVERYTHING YOU DID (1976)

STORIE n QUINDICI CANZONI CHE MENZIONANO ISPIRATORI O RIVALI

10

(11)ALIAS 10 DICEMBRE 2011

SWEET SOUL MUSIC(1967`)

In grande Amy Winehouse sul palco mentre pensa si suoi idoli Ray Charles e Donny Hathaway

Da John Lennon/Plastic Ono Band.Una delle canzone più amare di Lennon. Conclusasi malamente l’esperienza dei Beatles, rimanevano le ruggini. John si sfogava contro i simboli della società e rivendicava il suo amore per Yoko Ono. Nel testo contestava le religioni, i profeti e i leader politici e smontava il suo glorioso passato e i suoi idoli di gioventù. Era ora di voltare pagina, Elvis Presley, Bob Dylan (qui chiamato con il suo vero nome) e i Beatles erano ormai residui di un’altra stagione. Canta Lennon: «I don’t believe in Elvis, I don’t believe in Zimmerman, I don’t believe in Beatles». Un’amarezza a cui risponderanno gli U2 nel 1988 con un loro ideale seguito, ottimista, intitolato God part II.

GOD (1970)

REHAB(2006)

Da Bedtime for Democracy.I padrini del punk Usa meno conformista si scagliarono in questo brano contro gli stereotipi dei ribelli rock, contro i sopravvissuti e contro gli artisti «svenduti». Il cantante Jello Biafra, caustico come al solito, urla: «Il punk non è morto/ merita solo di morire/ quando diventa solo una vignetta ammuffita». E chiama in causa una delle icone più diffuse del movimento, Sid Vicious, offrendo l’immagine di un eroe punk invecchiato: «The joy and hope of an alternative/ Have become its own cliché/ a hairstylès not a lifestyle/ imagine Sid Vicious at 35» («La gioia e la speranza di un’alternativa/ è diventata solo un cliché/ un taglio di capelli non è uno stile di vita/ immaginate Sid Vicious a 35 anni»).

CHICKENSHIT CONFORMIST (1986)

DEAD KENNEDYS

JOHN LENNON

AMY WINEHOUSE

Da Face Dances.Gli Who sono dei mostri sacri del rock, ma non si sono dimenticati di altri miti della loro epoca. Così decisero di ricordare in questo brano i T-Rex, formazione guidata da Marc Bolan, artista ispiratore del glam che era scomparso pochi anni prima, nel 1977. Nella canzone, per supplire all’assenza della donna che ama e di cui sembra ossessionato, Rogel Daltrey proponeva un’alternativa: «I drunk myself blind to the sound of old T-Rex... » («mi ubriacherò allo stremo ascoltando i vecchi T-Rex»). Per civetteria, la band nel verso successivo si concedeva anche una narcisistica autocitazione chiosando: «e ascoltando Whòs Next». Uno dei rari casi in cui una formazione ha avuto la sfacciataggine di citare un proprio album in una canzone. Una piccola precisazione: i «vecchi» T-Rex erano in realtà più giovani degli Who.

YOU BETTER YOU BET (1981)

THE WHO

Da Rattle and Hum.La band irlandese incise il brano negli storici Sun Studios di Memphis con l’accompagnamento dei Memphis Horns nel corso del tour americano del 1987. È un ricordo di Billie Holiday, «l’angelo di Harlem». Tuttavia la cantante non viene mai nominata se non con il suo soprannome Lady Day. Compaiono però altri protagonisti della leggendaria scena jazz newyorkese che si esibivano nel locale Birdland, John Coltrane e Miles Davis: «Birdland on 53/ the street sounds like a symphony./ We got John Coltrane and A love supreme/ Miles and she has to be an angel» («Birdland sulla 53esima/ la strada suona come una sinfonia./ Abbiamo John Coltrane e A love supreme/ c’è Miles ma lei è proprio un angelo»).

ANGEL OF HARLEM (1988)

U2

Da Modern Times. Non sono molte le donne che hanno avuto l’onore di vedersi dedicare un brano da Dylan. Ma la cantante Alicia Keys si è addirittura trovata adulata apertamente dal grande Bob: «Stavo pensando ad Alicia Keys/ e non ho potuto trattenermi dal pianto./ Quando lei è nata ad Hell’s Kitchen/ io vivevo a sud del confine/ mi chiedo dove diavolo potrebbe essere ora Alicia Keys/ l’ho cercata persino in tutto il Tennessee». Una vera dichiarazione d’amore da parte del mito vivente che in un’intervista non ha nascosto questa passione: «Non c’è nulla di quella ragazza che non mi piaccia». Alicia Keys, che non ha mai conosciuto di persona Dylan, scoprì il tutto quando il disco era già uscito. «Non l’ho mai incontrato – ha dichiarato dopo aver ascoltato il brano -. È davvero pazzesco. Non ci potevo credere. Il fatto che mi abbia preso solo in considerazione è davvero esaltante».

THUNDER ON THE MOUNTAIN (2006)

BOB DYLAN

Da Ripe. II cantautore pop australiano di fronte al proprio sentimento di inadeguatezza si chiede come si comporterebbe il rapper superstar Jay-Z, un artista che non sbaglia mai un colpo né con le donne né con la musica: «Voglio sembrare elegante/ voglio che tu sappia il mio nome/ voglio la donna più sexy che ci sia/ (…) Cosa si fa quando si è persi e confusi?/ Come si comporterebbe Jay-Z?». Ben Lee può anche contare su una canzone dedicata a lui, l’irriguardosa Ben Lee Sucks («Ben Lee fa schifo») della band punk Ataris: «Fai schifo, i tuoi 15 minuti di fama sono passati (…) stai lontano dalla mia città». L’artista non solo non si è offeso, ma ne ha fatto una cover assai migliore dell’originale.

WHAT WOULD JAY-Z DO (2007)

BEN LEE

Da Back to Black. Concepita come canzone ironica e dissacrante, oggi fa venire i brividi lungo la schiena. Amy Winehouse, morta a soli 27 anni dopo una vita di trasgressioni, con questo brano apriva l’album che la rese una star internazionale. La canzone proclamava la sua resistenza all’andare in «rehab» cioè in cura di disintossicazione: «Hanno provato a mandarmi in rehab/ ma io ho detto no, no, no (…) Non ho tempo e mio padre dice che devo farlo./ Vuole che io vada/ ma io non ci vado, non ci vado, non ci vado». Ma Amy più che l’amore per le droghe e l’alcol confessava nel brano l’amore per il soul citando due maestri come Ray Charles e Donny Hathaway: «Preferisco stare a casa con Ray/ non ho settanta giorni liberi./ Non c’è nulla che loro possano insegnarmi/ che io non possa imparare da Mr. Hathaway». Alla fine il soul non è riuscito a salvarle la vita e gli eccessi hanno avuto la meglio sul suo talento e sulla sua passione per la musica.

Da August and Everything after.È probabilmente Bob Dylan l’artista più citato in canzoni altrui. Essendo un grande è stato citato dai grandi dai Beatles (Yer Blues) a Syd Barrett (Bob Dylan Blues), da David Bowie (Song for Bob Dylan) agli Who (The Seeker). Neil Young lo nomina in due brani diversi (Bandit e Flags of Freedom). Ma una delle canzoni più belle che cita il menestrello è la hit che consacrò la band Usa Counting Crows. Il ritornello invoca: «I wanna be Bob Dylan!» («Voglio essere Bob Dylan!»). Ha spiegato il cantante Adam Duritz: «È una canzone che parla delle cose che si sognano quando si è giovani musicisti. Di come sia stupido e triste pensare che un giorno ti ameranno tutti solo perché sei famoso».

MR. JONES(1993)

COFFEE SHOP(1995)

COUNTING CROWS

RED HOT CHILI PEPPERS

PENNYROYAL YEA(1994)

NIRVANA

Da In Utero. Sono innumerevoli i cantautori che hanno rubato idee a Leonard Cohen, che però è finito citato in un pezzo grunge dei Nirvana: «Distill the life that’s inside of me/ sit and drink Pennyroyal Tea/(…) give me a Leonard Cohen afterworld/ so I can sigh eternally» («Distillo la vita che è dentro di me/ Siedo e bevo il tè Pennyroyal/ Datemi il mondo di Leonard Cohen/ e sospirerò in eterno»). In un’intervista Cobain scherzò sul significato del testo, ma oggi le sue parole, pronunciate pochi mesi prima del suicidio, suonano tristi e premonitrici: «Il Pennyroyal tea è un’erba abortiva. La canzone parla di una persona che è oltre la depressione, sul letto di morte o quasi. Era la mia terapia quando ero depresso e malato. Leggevo Malone muore di Beckett o ascoltavo Leonard Cohen, e ovviamente le cose peggioravano!»

Da One Hot Minute.L’album che segue la grande consacrazione al successo avuto con Blood Sugar Sex Magik, rappresentò per la band californiana un passaggio difficile e sofferto. Il cantante Anthony Kiedis, dopo cinque anni di sobrietà, era ricaduto pesantemente nella tossicodipendenza e i pezzi di One Hot Minute fanno spesso riferimento alle droghe e allo sballo. Così accade in questo lisergico brano, in cui il Coffee Shop del titolo richiama i locali di Amsterdam dove si può fumare erba in libertà. In caso di dubbi ci pensa il ritornello. Canta Kiedis: «Meet me at the Coffee shop/ We can dance like Iggy Pop» («Incontrami al Coffee shop/ balleremo come Iggy Pop»), chiunque abbia visto ballare il grande Iggy, sa di che cosa si sta parlando.

Come avere un successo soul nel periodo d’oro della musica soul? Semplice, citando tutti i grandi del genere. Conley, che è ricordato ormai solo per questa canzone, scrisse il brano con un’altra leggenda, Otis Redding che ai tempi era il suo mentore. Il brano andò in vetta alle classifiche e riprendeva la melodia dal brano Yeah Man di Sam Cooke. Il testo pagava pegno a tutti i fuoriclasse chiamandoli idealmente alla ribalta. «Vi piace la musica?/ La dolce musica soul?/ Riflettori su Lou Rawls» è l’incipit e via via, come invocati da un maestro di cerimonie, scorrono Sam & Dave, Wilson Pickett, James Brown, e anche il maestro Otis Redding. Conley non ha più avuto grandi hit e nessuno l’ha mai citato in un brano.

ARTHUR CONLEY

11

(12) ALIAS10 DICEMBRE 2011

RITMI

ROMA Caffè PropagandaVia Claudia 15 (tel. 06 94534255)Era l’esordio più atteso dell’anno e ha mantenuto (quasi) tutte le promesse. Mettendo da parte la cucina di qualità di Arcangelo Dandini e i macaron di Stèphane Betmon, a noi preme segnalare l’esordio di una delle prime carte con presenza ampia e soddisfacente di vini naturali. Ovvero quei vini che fanno a meno di aggiunte chimiche e interventi da plastica del gusto. Il Caffè Propaganda si giova di un ambiente straordinario, con le piastrelle della metrò francese, ma a due passi dal Colosseo, e di una musica bifronte: l’ottimo Miles Davis, a volume discreto, all’orario di pranzo. E un devastante sottofondo quasi da deejay set, nelle cene, che impedisce di sentire l’interlocutore. Il che a volte può essere un vantaggio, ma spesso produce paralisi del cervello e delle papille gustative. Bonus: macaron francesi, il paradiso. Malus: tredici euro per una carbonara non sono pochi, anche se la carbonara è ottima. Voti: cucina 7; ambiente 8; servizio 7.

ROMAEnoteca FerraraPiazza Trilussa 41 (tel. 06 58333920)Il brunch è parola già antipatica e spesso è sinonimo di un confuso affastellarsi di parmigiane fredde, di insalate di riso malinconiche e di ammassi di dolci naufragati nello zucchero. Il tutto condito da prezzi alle stelle. Però, scegliendo con cura, il brunch può essere un’esperienza piacevole. Lo è nella trasteverina Enoteca Ferrara, che lo organizza saltuariamente e lo accoppia con la vendita di prodotti locali. Ristorante chic da cento euro a testa, l’Enoteca riesce a riconvertirsi la domenica in luogo da brunch sofisticati e rurali al tempo stesso, con prezzi decenti (20 euro): frittate, ricotte fresche, polpette al sugo, pastelle straordinarie. Uscendo ci si può mettere in tasca una piccola mela (annurca) e canticchiare De Gregori. A pochi passi, si può fare un giro a via della Scala, che è sempre là, anche se Stefano Rosso non è più nel letto 26. Bonus: ambiente spettacolare nel cuore di Trastevere. Malus: servizio confuso. Voti:cucina 7; ambiente 8; servizio 5.

LA SPEZIA Il ristorantino di BayonVia Felice Cavallotti 23 (tel. 0187 732209) I calamari all’acqua pazza, per esempio. Alessandro Sarnataro, giovane chef spezzino, il pesce lo va a prendere di mattino presto, al mercato. Poi lo cucina, alla grande. E tra una portata e l’altra dà un’occhiata al ristorantino, di cui è anche proprietario. Piccolo, silenzioso, curato, di bianco vestito, offre straordinarie carrellate di pesce (ma non solo). A casa lo chef si diletta preparando gelato all’azoto e altre prelibatezze (?) di cucina molecolare. Per ora, però, nel ristorantino fa prevalere la cucina del territorio. Con una regola: massimo tre ingredienti per piatto. Esempio: filetto di spigola con pomodorini e capperi. In sottofondo, per fortuna, non si rispetta il territorio: niente Toto Cutugno e Alexia (spezzini) ma Chopin. Bonus: menu degustazione a 20 e 40 euro. Malus: un ambiente un po’ troppo formale. Voti: cucina 7,5; ambiente 6; servizio 6,5.

(www.puntarellarossa.it)

PASTELLE E MACARONRIPENSANDO A MILES

PUNTARELLAROSSADI PI ERRE

alla nascita dell’industria della musica, si è dunque da qualche tempo dischiusa una nuova vita: i generi urbani, infatti, forgiati da complessi processi di ibridazione musicale favoriti dall’ambiente cittadino, hanno poi vissuto, in seguito all’esplosione e alla successiva egemonia della popular music angloamericana (e in particolare del rock), un processo di «territorializzazione», assumendo connotati fortemente tipizzati che hanno consentito loro di sopravvivere ma che hanno finito per farli identificare con realtà strettamente locali (la canzone napoletana, il fado lisbonese), minoranze etniche (il tango degli immigrati italiani in Argentina), repertori impegnati ed intellettuali (la canzone francese e quella tedesca da cabaret) o con particolari sensibilità «etniche» (la «passionalità» andalusa, appunto, del flamenco). Al flamenco, in più, è toccata a lungo anche l’associazione con una certa immagine turistica voluta dalla quasi quarantennale dittatura franchista, come del resto è accaduto al fado con l’altrettanto duratura stagione del salazarismo, nonché il mito di una musica esclusivamente zigana e a carattere familiare. La «deterritorializzazione» del flamenco è avvenuta con l’esplosione che le musiche popolari e popolaresche hanno avuto grazie al fenomeno della world music, di cui hanno beneficiato anche i generi urbani delle origini che hanno ritrovato nuovo splendore e rinnovato vigore nei circuiti internazionali del mercato della musica. Ecco allora che, quasi come per una sorta di nemesi storica, il flamenco (ma, per esempio, anche il tango, non a caso anch’esso presente ogni due anni a Roma con un proprio festival) ritrova a distanza la propria autentica «natura» commerciale una volta trovato un luogo disposto ad ospitarlo stabilmente: nello stesso tempo, sganciatisi dagli angusti vincoli autorappresentativi imposti dalla loro stessa esigenza di sopravvivenza, i suoi esecutori guardano in tutte le direzioni, assumendo da altri orizzonti tutto ciò che serve per allargare e ridefinire il genere in funzione delle nuove esigenze di una musica ormai «globale». Perché poi resti ancora ineguagliabile la forza espressiva e la qualità artistica delle vecchie incisioni del flamenco (ma anche di quelle della stessa epoca di altri generi urbani) è un enigma ancora tutto da risolvere; e che si nasconderà probabilmente ancora a lungo nel ventre di quella belle époque che, con tutte le sue contraddizioni, fu il crogiuolo della modernità.

Flamenco globale. Il senso del tacco che scotta

di GIOVANNI VACCA

La quarta edizione del festival İFlamenco!, tenutosi all’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 5 al 16 ottobre, ha confermato che anche i generi musicali all’apparenza più tipici e localizzati sono ai nostri giorni sottoposti a una torsione tale da sradicarli definitivamente dai loro territori di origine e metterne in circolo le potenzialità creative: è possibile, dunque, che Roma «capitale mondiale del flamenco», significhi qualcosa in più di un semplice slogan che ormai dal 2005 accompagna questa grande kermesse biennale? A giudicare da ciò che si è visto nella capitale pare che agli stessi protagonisti stia sempre più stretta quella che convenzionalmente si pensa come la forma «classica» del flamenco, un linguaggio formalizzato costituitosi

sulla base di una rete di interazioni estremamente eterogenee (il folklore andaluso, le musiche provenienti dalle colonie spagnole in America, l’influenza dell’opera italiana, l’apporto dei suonatori gitani) e che trovò la propria «maturità» nei primi decenni del Novecento, come testimoniano le strepitose registrazioni d’epoca. Se Paco De Lucia, che ha aperto il festival, è da sempre musicista poco disponibile a stare in qualsiasi tipo di confine, l’ansia di sganciamento dal flamenco come comunemente lo si pensa si è vista subito nello sperimentalismo coreografico di Israel Galvàn, che ha incanalato entro limiti precisi la straordinaria voce «tradizionale» della grande cantante gitana Inés Bacán, o nella non sempre convincente musica del chitarrista Vicente Amigo (spesso sconfinante con la più trita world

music, nonostante la prodigiosa tecnica strumentale). Se ne è poi avuta conferma nell’affollatissimo spettacolo della ballerina Rafaela Carrasco, rielaborazione delle celebri Canciones populares españolas incise da Federico Garcia Lorca nel 1931, e nel virtuosismo pianistico di Dorantes, che ha duettato con la voce «velata» di Arcángel. Lo stesso Arcángel, una star internazionale del flamenco, ha poi contribuito a una delle esibizioni più interessanti del festival, quella dell’Accademia del Piacere, ensemble che si dedica da tempo a rileggere le radici del genere da antiche partiture che documentano i continui scambi che le musiche spagnole hanno avuto con quelle americane. Decisamente più «jondo», invece, il bellissimo recital di Carmen Linares, che ha riproposto in musica i lavori di celebri poeti di lingua spagnola (Alberti, Jimenez, Hernández, Lorca, tra gli altri). Da segnalare, infine, la notevole performance di Dave Holland (contrabbassista di Miles Davis nello storico Bitches Brew) insieme al chitarrista Pepe Habichuela con il suo Flamenco Quintet e Josemi Carmona: un concerto tenuto l’8 novembre e che si è intrecciato con il Roma Jazz Festival. Per quel genere formatosi sulle tavole dei café cantantes sivigliani di fine Ottocento, in analogia con altre musiche urbane sviluppatesi nello stesso periodo in seguito

Nell'immagine centrale Carmen Linares; in basso, da sinistra, Galvàn e la grande assente del festival, Eva Yerbabuena. In alto a destra la copertina di un cd di Ines Bacan

Il festival di Roma è stato una occasione per rileggere il genere tradizionale andaluso.Sempre più aperto a sollecitazioni e ibridazioni altre

POP, LA SCOPERTA DEL FUOCO

Il rock da sempre utilizza il fuoco come metafora di sensualità, distruzione, rigenerazione. In Light My Fire dei Doors, scritta in origine da Robbie Krieger per omaggiare uno dei quattro elementi della filosofia greca, la fiamma diventa un inno psichedelico. «Ragazza, non potremmo arrivare

più in alto», sentenzia Morrison. Fire della Jimi Hendrix Experience celebra, a sorpresa, il calore fisico di un caminetto: quello della casa della mamma di Noel Redding in cui Jimi e la fidanzata Kathy Etchingham erano stati invitati. Per i fan quel fuoco è però ben altro. Cinico e ironicamente demoniaco il Fire del Crazy World Of Arthur Brown. Brown, ispiratore di Kiss e Alice Cooper, canta: «Per quanto ti

sforzi, tutto finirà bruciato». In Cat People (Putting out Fire), tema del film Il bacio della pantera, David Bowie allude al mondo ferino-incestuoso raccontato sullo schermo. E canta: «Sto spegnendo il fuoco con la benzina». Put Out My Fire è una splendida botta funky che attizza più che spegnere. L'autore è Lamont Dozier dell'Holland-Dozier-Holland, trio che ha scritto la maggior parte dei pezzi della Motown.

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ultrasuonati daSTEFANO CRIPPAGIANLUCA DIANASIMONA FRASCALUCA GRICINELLAGUIDO MICHELONEBRIAN MORDENROBERTO PECIOLA

Sono di Barcellona, esistono dal 2008 e garantiscono produzioni funk altam ente esplosive, esattamente come avviene nel singolo appena uscito: Slingfunk/The Sooner (Lovemonk LMNKMSF 7). Gli Slingshots sono otto elementi (canadesi, brasiliani, spagnoli) scatenati al cuore del new funk, derivativi come tanti altri colleghi (il vento di James Brown e cloni vari spira ad ogni angolo) eppur capaci di estatici coinvolgimenti (si veda youTube per capire cosa succede a un loro concerto). Sia il lato A che il B si nutrono di ampie dosi di Hammond e una voce che taglia. Importante il lavoro svolto fin qui dalla Lovemonk, etichetta tra le più attive del genere, situata a Madrid nel quartiere di Malasaña. È la la label di Gecko Tuner, Cardova, Banda Achilifunk ecc. Insomma il meglio di quello che bolle nella pentola del soul spagnolo. Sulla stessa linea soul ma con un piglio molto più da club, il duo Nev Scott & Waynessential che debuttano con il remix di Hold on I’m Comin’, il classico del ‘66 di Sam & Dave. Il pezzo si trova nell’ep Slamdog Billioner (Big M Productions BIGMP 16; 2011). Va da sé che la materia su cui intervenire già garantisce effetti sicuri, cè però un valore aggiunto: un gusto duro, ghetto funk, che i due hanno ben rodato in oltre 15 anni di dj set. Tra aspersioni hip hop e gusti retrò.

¶¶¶Occhio alla raccolta ispirata e imperdibile I Have My Liberty! Gospel Songs from Accra, Ghana (Dust To Digital DTD23CD; 2011). Il cd contiene registrazioni effettuate nelle chiese cristiane della capitale ganese tirando una specie di filo rosso con le realtà gospel Usa. Su youTube c’è un esplicativo frammento di cerimonia (http://www.youtube.com/watch?v=0Ru0HwskZiM). Con la congregazione in movimento perpetuo mentre chitarre e percussioni aggiungono fisicità alle singole eruzioni di spiritualità. Come sottolineato da curatori e recensori, I Have My Liberty! mescola le procedure non convenzionali che caratterizzarono le registrazioni sul campo di Alan Lomax con le nuove pratiche tecnologiche delle nuove congregazioni africane. Gustoso anche Nippon Guitars-Instrumental Surf, Eleki & Tsukau Rock 1966-1974 (Big Beat International CDWIKD 297; 2012), prima retrospettiva seria e organica dedicata a Takeshi Tearuchi, uno dei maggiori chitarristi giapponesi surf & roll. Tra strumentali 60’s e funky groove va in scena una vertigine di suoni irresistibili. È il re della eleki (chitarra elettrica) che - insieme agli amplificatori - si costruiva da solo.

NIPPO-CHITARREFOREVER

MONDOEXOTICA

DI FRANCESCO ADINOLFI

IN USCITA A DICEMBRE

ON THE ROAD A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI (JAZZ) n SEGNALAZIONI: [email protected] n EVENTUALI VARIAZIONI DI DATE E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ

Acid Mother Temple & The Meltin Pot Paraiso U.F.O.The Ripper at the Heaven's Gates of Dark (Riot Season/Goodfellas)Eraldo Bernocchi/Harold Budd/Robin GuthrieWinter Garden (RareNoise/Goodfellas)Big BlueBig Blue (Cam Jazz/Goodfellas)Black CobraInvernal (Southern Lord/Goodfellas)Nino Bruno e le Otto TracceSei corvi contro il sole (Goodfellas)Stiv CantarelliInnerstate (El Cortez/Goodfellas)Class ActressRapprocher (Carpark/Goodfellas)Cuckoo ChaosWoman (Lefse/Goodfellas)DimliteGrimm Reality (Now Again/Goodfellas)Ital NoizEveryday Jungle (Universal Egg/Goodfellas)Steve HauschildtTragedy and Geometry, (Kranky/Goodfellas)Lewis Floyd HenryOne Man & His 30w Pram (Adjust/Audioglobe)JontiTwirlgig (Stones Throw/Goodfellas)King Midas Sound Without You (Hyperdub/Goodfellas)Ben LeeDeeper into Dream (Lojinix/Goodfellas)Little AxeIf You Want Loyalty Buy a Dog(On-U Sound/Goodfellas)MagazineNo Thyself (Wire Sound/Goodfellas)NightwishImaginaerum (Nb/Audioglobe)Noholy-NagyLike Mirage (Lefse/Goodfellas)Gary NumanDead Son Risin (Mortal/Goodfellas)Lee «Scratch» PerryNu Sound & Version (On-U Sound/Goodfellas)Picchio dal PozzoPicchio dal Pozzo (Goodfellas)Damo Suzuki's NetworkSette modi per salvare Roma (Goodfellas)Teen DazeA Silent Planet (Lefse/Goodfellas)ThomasMr. Thomas's Travelogue Fantastic (automatic/Goodfellas)Devin Townsend ProjectContain Us, box set (Century Media/Emi)The UnthanksDiversions Vol. 1: The Song of Robert Wyatt an Antony and The Johnsons, (Rough Trade/Self)Bill WellsLemondale (Double Six-Domino/Self)

le ge ndannnnn NAUSEANTEnnnnn INSIPIDOnnnnn SAPORITOnnnnn INTENSOnnnnn UNICO

YOUNG GABBY WE’RE ALL IN THIS TOGETHER (WORLD CONNECTION/EGEA)nnnnn Enfant prodige - chiamata dal teatro dell’opera nazionale della gioventù di Londra ad appena dodici anni - Young Gabby arriva al disco d’esordio carica di un bagaglio artistico e tecnico di primordine. E sorprendente, perché la ragazza sa mescolare pop e folk con gusto originale, contaminando i pezzi con sezioni fiati e improvvisi squarci jazz. Lo definiscono «swing circus», un circo di musiche dove trovano spazio suoni etnici, canti popolari e musica colta. Vero esempio di globalità del pentagramma... (s.cr.)

ED LAURIECATHEDRAL (MOONPAINTER-V2/SELF) nnnnn Gran bella voce quella di Ed Laurie, musicista emerso dal mondo senza confini del download digitale. Qui prende forma e sostanza la visione del sentimento ondivago dell’amore da parte di un songwriter viaggiatore che da Londra approda in Italia e ispirato dalla visione del duomo di Bolzano dà vita a un ottimo album «europeo» per rimandi a stili e tradizioni molteplici. Ricorda Jonathan Richman per il suo atteggiamento apolide e per il fine artigianato della sua musica ma lui è inglese e la mestizia si insinua con il tratto crepuscolare del suo canto che suona sempre come un addio. (s.fr.)

WATERMELON SLIM & SUPER CHIKANOKIESIPPI BLUES (NORTHERNBLUES RECORDS)nnnnn Che talenti ambedue. E come funzionano. Un disco eccelso. tra i migliori del 2011. Undici incisioni in cui i talenti vocali e strumentali dei due si amalgamano senza nessuna increspatura. Ancor più. Si esaltano. Spoken word (Trucking Blues, Northwest Regional M.C.B.), strumentali (Diddley-Bo Jam), evocazioni spiritual (Keep Your Lamp Trimmed and Burning) e tantoaltro. Un lavoro senza tempo. Memorabile. (g.di.)

STEVEN WILSONGRACE FOR DROWNING (KSCOPE/AUDIOGLOBE)nnnnn Nick Beggs, Tony Levin, Theo Travis, Trey Gunn, Pat Mastelotto, Dave Stewart, Steve Hackett. Questi signori sono tra quelli che hanno partecipato al nuovo album solista del leader dei Porcupine Tree. Un doppio cd che riprende la grande tradizione prog a livelli davvero eccellenti. Grace for Drowning rappresenta un passo in avanti anche rispetto al già di per sé notevole Insurgentes. Un gran disco, di pura bellezza! (r.pe.)

RECEN

SIONI

REGGAE

Il fischio del dj.Vertigini in levareReggae classico, ragga, dub step, dub in tutte le altre possibili declinazioni: c’è l’imbarazzo della scelta (e un leggero senso di vertigine) ad ascoltare di fila le diciassette tracce contenute in Clash of the Titans (Collision) progetto di Dubmatix (ossia il premiato giramanopole canadese Jesse King) e affidato a produttori di tutto il pianeta. Il materiale di base proviene da System Shakedown, e già era una faccenda piuttosto calda. Si parlava di vertigine: immaginate Morricone e il suo «fischiatore» western preferito Alessandro Alessandrini in session con un gruppo a metà fra amore spassionato per lo ska, il levare del reggae, e virate ultrasoniche surf, e avrete la ricetta di Return of Gringo (Mr Bongo), cd che in copertina dichiara «original sountrack recording». Tutto falso, ovviamente. Gli autori sono Prince Fatty (ovvero Mike Prelanconi) e The Mutant Hifi (Nick Coplowe). Tutto vero invece il roots reggae di Madness (Soulbeat Records), primo progetto solistico per il «professore» Harrison Stafford dei Groundation: nato dopo una visita nei Territori Occupati. (Guido Festinese)

JAZZ

Desmond, il bianco che suonava «cool»Ha avuto il suo momento di eclissi, ma breve. Perché la grandezza di Paul Desmond, di quel suo viaggiare con l’altosax negli spazi aerei di un urbano magnifico loft dove si sorseggiano Martini e ogni squisitezza alcolica, di quel suo costruire melodie di perduta terrestre levità con la grazia di un’implacabile passione per la lirica blues, la sua grandezza è stata riconosciuta e, oggi, risplende. Charles Parker e Mingus amavano quel bianco che suonava cool. E il maestro delle avanguardie post-jazzistiche, Anthony Braxton, ha sempre detto: io sono cresciuto musicalmente con Paul Desmond. Escono per la prima volta in cd col titolo Audrey, Live in Toronto (Domino/Egea) alcuni brani di concerti che Desmond tenne nella città canadese il 25 ottobre e il 1 novembre 1975. Un Desmond diverso, più instabile, di quello che si ascolta col quartetto di Dave Brubeck (di cui era la voce più convincente) in due preziose ristampe: Jazz Goes to Junior College (Ejc/Egea), del 1957, e Brubeck Plays Bernstein (Ejc/Egea), del 1960, con l’aggiunta del poco conosciuto Jazz Impressions of Japan dello stesso anno. (Mario Gamba)

METAL

Che gli Slipknot siano una delle band più amate dai fan del metal è cosa risaputa, una fama meritata e cresciuta nel tempo, grazie a dischi senza fronzoli e a uno dei live set pìù «devastanti» immaginabili, con i nove musicisti nascosti dietro maschere inquietanti. Dieci anni fa usciva il loro secondo disco, quello che li ha consacrati definitivamente nell’Olimpo rock, Iowa, dallo stato americano da cui arrivano, oggi la Roadrunner celebra l’evento con una 10th Anniversary Edition che contiene, oltre alla reissue dell’intero album completo di bonus track (My Plague), anche il cd audio della performance alla London Arena del 2002 - già pubblicata in video come Disasterpiece - e un dvd con immagini e interviste inedite proprio sul «making of» di Iowa. Da non perdere! Sempre in fatto di live esce un doppio cd dei Rush, storico trio canadese tra rock, progressive e derive pop. Time Machine-Live in Cleveland 2011 (Roadrunner/Warner) li vede impegnati nel loro ultimo tour in cui hanno ripercorso una quasi quarantennale carriera. Ci sono le loro hit più note ma anche le ultime, non memorabili, produzioni. (Roberto Peciola)

Anniversarida temere

In Put Out the Fire i Queen utilizzano il fuoco come metafora anti-militarista e anti-armi. Fire Woman dei Cult è la storia di una signora sensualissima che accende la mente e il corpo di Ian Astbury. In Italia le fiamme preferiscono la metropoli: Massimo Ranieri (Se bruciasse la città) e Irene Grandi (Bruci la città). E alla fine resta solo tanto Smoke on the Water (Deep Purple). (f.ad.)

ModeselektorTorna il duo elettronico tedesco per presentare il nuovissimo album, Monkeytown.Roma GIOVEDI’ 15 DICEMBRE (PIPER)Milano VENERDI’ 16 DICEMBRE (DA ANNUNCIARE)Bologna SABATO 17 DICEMBRE (LINK)

A Hawk and a HacksawUn miscuglio di musiche popolari da tutti i paesi del mondo, o quasi, per il progetto di Jeremy Barnes, ex membro dei Broadcast. Per l’occasione sonorizzano il film Shadows of Forgotten Ancestors del regista russo Sergei Parajanov, ospiti della rassegna «C(h)orde. Suoni tra cielo e terra».Roma SABATO 10 DICEMBRE (CHIESA EVANGELICA METODISTA)

She Keeps BeesIl duo composto da Jessica Larrabee e Andy LaPlant arriva da Brooklyn e si pone sulla scia di White Stripes, The Kills etc.Verona SABATO 17 DICEMBRE (INTERZONA)

Red Hot Chili PeppersPer la band californiana, capostipite del crossover, parla il successo crescente ottenuto in tutto il mondo.Torino SABATO 10 DICEMBRE (PALAOLIMPICO ISOZAKI)Assago (MI) DOMENICA 11 DICEMBRE (MEDIOLANUMFORUM)

Peter HookIl bassista e cofondatore dei Joy Division prima e dei New Order poi in versione solista.Bologna SABATO 10 DICEMBRE (ESTRAGON)Pordenone DOMENICA 11 DICEMBRE (DEPOSITO GIORDANI)

The Wave PicturesLa band indie folk rock inglese di David Tattersall dal vivo.Bologna SABATO 10 DICEMBRE (COVO)Osimo (AN) DOMENICA 11 DICEMBRE (LOOP)

Damo Suzuki's NetworkIl progetto dell’ex voce dei teutonici Can. Con lui Manuel Agnelli.Mezzago (MB) SABATO 10 DICEMBRE (BLOOM)

Alexi MurdochUnica data italiana per il cantante e autore di origine anglo-franco-greche ma formatosi negli States.Roma VENERDI’ 16 DICEMBRE (AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA)

Lewis Floyd HenryIl sanguigno one-man band inglese, live on stage e nel Busking Tour.Firenze SABATO 10 DICEMBRE (BUSKING ORE 18 VIA CERRETANI/SAN LORENZO, FLOG )Roma DOMENICA 11 E LUNEDI' 12 DICEMBRE (BIG MAMA, BUSKING DA DEFINIRE)

Big Sexy NoiseIn Italia la vocalist e autrice Lydia Lunch con questo nuovo progetto che la vede al fianco dei Gallon Drunk e agli italiani Avvolte. Brescia SABATO 10 DICEMBRE (LATTE+)

Gogol BordelloDa New York, un mix di punk, gypsy music, cabaret, questa volta in versione acustica.Ciampino (RM) SABATO 10 DICEMBRE (ORION)

Richard Youngs + Damon & NaomiSperimentazioni e folktronica per il musicista britannico e per il duo ex Galaxy 500.Madonna Dell’albero (RA) GIOVEDI’ 15 DICEMBRE (BRONSON)Firenze VENERDI’ 16 DICEMBRE (SALA VANNI)Cavriago (RE) SABATO 17 DICEMBRE (CALAMITA)

Frank TurnerIn Italia per un unico concerto il cantante e autore inglese, accompagnato da The Sleeping Souls.Madonna Dell’albero (RA) VENERDI’ 16 DICEMBRE (BRONSON)

Badly Drawn BoyTorna di nuovo in Italia l’artista britannico.Firenze SABATO 10 DICEMBRE (VIPER)

Kamikaze QueensIl singolare punk cabaret della band berlinese.Roma SABATO 10 DICEMBRE (MICCA CLUB)Savignano Sul Rubicone (FC) DOMENICA 11 DICEMBRE (SIDRO)

Pat JordacheLo-fi pop per l’artista canadese.Faenza (RA) LUNEDI’ 12 DICEMBRE (CLANDESTINO)Pisa MARTEDI’ 13 DICEMBRE (CARACOL)

SubsonicaTour invernale per la band torinese.Brindisi SABATO 10 DICEMBRE (TEATRO IMPERO)Brescia SABATO 17 DICEMBRE (LATTE+)

CaparezzaIl rapper di Molfetta dà il via al suo tour invernale.Napoli SABATO 10 DICEMBRE (PALAPARTENOPE)Bassano Del Grappa (VI) VENERDI’ 16 DICEMBRE (PALASPORT CA’ DOLFIN)Ancona SABATO 17 DICEMBRE (PALAINDOOR)

Paolo BenvegnùIl cantautore si conferma tra i più ispirati della scena italica con l'ultimo lavoro, Hermann.Milano LUNEDI’ 12 DICEMBRE (TEATRO MARTINITT)Conegliano Veneto (TV) VENERDI’ 16 DICEMBRE (APARTAMENTO HOFFMAN)

VerdenaPrende forma il tour invernale della rock band bergamasca.Napoli SABATO 17 DICEMBRE (CASA DELLA MUSICA FEDERICO I)

Le Luci della Centrale ElettricaIl giovane cantautore Vasco Brondi in tour per presentare l'ultimo lavoro discografico.Castiglioncello (LI) DOMENICA 11 DICEMBRE (CASTELLO PASQUINI)Acquaviva Delle Fonti (BA) GIOVEDI’ 15 DICEMBRE (OASI SAN MARTINO)Pescara VENERDI’ 16 DICEMBRE (ZU BAR)

Musiche PossibiliIl festival piemontese chiude i battenti e per gli ultimi appuntamenti propone i concerti di Full Blast e Luminance Ratio.Ivrea (TO) SABATO 10 E SABATO 17 DICEMBRE (ANTICA SINAGOGA)

Roma Burlesque FestivalSettima edizione per il festival, a ingresso gratuito, dedicato all’antenato dello strip-tease. Nel club capitolino a fare da contorno alle artiste del Burlesque sono previste le performance musicali di Joe Black accompagnato dai Velvettoni e di Suri Sumatra con Benoit Viellefon & His Orchestra.Roma DA GIOVEDI’ 15 A SABATO 17 DICEMBRE (MICCA CLUB)

LAMISS FOLLIA AMATORIALE (TRUMEN RECORDS/SAIFAM) nnnnn Secondo album per LaMiss, vero nome Luana Corino (1984), da Treviso. La sua musica in bilico tra r’n’b e nu soul con testi leggeri e in italiano ha un suono internazionale anche grazie all’apporto di produttori come il newyorkese 88-keys, B-Money e il team Invicible. Un suono black urbano che ammicca con equilibrio al pop. E il rap di Amir, Baby K e Nottini Lemon dà un ulteriore tocco urban al disco. (l.gr.)

PETER KERNELWHITE DEATH BLACK HEART (AFRICANTAPE/GOODFELLAS)nnnnn Il nome potrebbe far pensare all’ennesimo cantautore in quota folk. Niente di più lontano! Peter Kernel è un classico trio chitarra-basso-batteria che nulla ha a che fare con il folk mentre molto deve al post punk e all’indie rock dei primi Novanta. Dietro la loro musica si celano ricordi di Sonic Youth e Blonde Redhead, ma White Death Black Heart vive di vita propria, e ci regala un’ottima band. (b.mo.)

KRISMACHYBERNATION (NDA PRESS) nnnnn Tra i '70 e gli '80 Christina Moser e Maurizio Arcieri impersonano in Italia il passaggio dal punk al tecno-pop sull’onda delle nuove mode inglesi. A ricordarlo è ora un tributo a più voci (e due inediti degli stessi Krisma) curato da Joyello Triolo con 17 band a ricordare song costruite su poche note minimaliste. Fra dark e alt rock, pescando anche dalle precedenti esperienze del vocalist (Cinque minuti e poi). Finale beat con Gli Avvoltoi in Guardami… da Tommy. (g.mic.)

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di MATTEO LUNARDINI E PAOLO MAGGIONI

A Casale Monferrato, il 3 novembre scorso, è morto Stelvio Della Casa, professione mezz’ala. Classe 1930, visse i tempi in cui il football era giocato soprattutto per passione, per quattro soldi, a volte solo per tre uova e due galline, come accadde proprio a lui durante la guerra. Poi militò nel Casale nerostellato, fu vicinissimo al Grande Torino, e giocò in Serie A nel Novara di Silvio Piola e del «Petisso» Pesaola arrivando a sfidare in amichevole persino il mitico Puskas. Nel suo palmares c’è però una partita unica: quella in cui, appena ragazzo — era l’inverno del 1945 — affrontò le Brigate Nere con le riserve del Casale. Un episodio di cui non narrano i libri di storia, ma che può essere considerato il prodromo sportivo della liberazione dal nazifascismo. Questa è la trascrizione del racconto che ci fece lui, una mattina del giugno del 2004, nello stesso luogo dove si trovava il Bar Ideal di Casale Monferrato, snodo essenziale della storia.«In verità, io non sono di Casale. Nato a Genova, mi trasferisco nel Monferrato con mia madre dopo i bombardamenti inglesi del 1941. Sono un bambino come tanti, con il pallone sempre nella testa. Qui, rispetto a casa, almeno posso giocare senza ansie: le strade non sono in discesa e il pallone non può finire in mare. A Casale, oltretutto, il calcio è una passione sin dai tempi del leggendario scudetto del 1913-1914. Ben presto mi faccio notare per le mie qualità. Quando esordisco nella squadra dell’oratorio, tutti si accorgono che con i piedi sono un fenomeno. In breve divento l’attrazione delle squadre giovanili. C’è la guerra, certo, ma in tutto il Piemonte non si smette mai di giocare. Il Bar Ideal, il ritrovo del paese, è anche la sede del Casale Calcio: al piano terra si beve, al secondo ci sono

gli uffici della società. Tuttavia, ogni volta che ci passo davanti insieme a mia madre, lei affretta il passo. Il colore della squadra è infatti il nero, nero come i fascisti che in quello stesso bar bevono e incrociano le stecche. Le camicie nere ridono, schiamazzano, a volte randellano: sono giocatori del Casale, ma anche fascisti riconosciuti.Nonostante la sua ritrosia, mia madre sarà costretta a entrare in quel bar molto presto. Sono stato notato dal signor Guaschino, l’allenatore del Casale. Tocca a lei ritirare la mia prima maglia nerostellata: è l’autunno del 1942. Però non può essere felice: bombardata, sfollata, impoverita dalla guerra, del fascismo inizia ad averne fin sopra i capelli. Così dopo l’8 settembre decide di ospitare due soldati emiliani fuggiti dalla caserma Nino Bixio, ora in mano ai tedeschi. Il pericolo è alto, ma qualcosa bisogna fare».È durante quel momento convulso della storia d’Italia che al Bar Ideal matura l’idea di una sfida da «fuga per la vittoria». Una partita di pallone durante la guerra, e sotto occupazione. La vuole Guaschino: le Brigate Nere contro il Casale Calcio, i giocatori che hanno vestito la camicia nera contro «gli altri». Una partita che da lì a qualche mese sarà replicata con ben altre armi.«Tuttavia di giocatori pronti ad esporsi ce ne sono pochi: a Casale, dopo l’8 settembre, o entri nelle Brigate Nere o non ti fai più vedere. E gli antifascisti si sono già dati tutti alla macchia. Ecco perché, costretto dalla contingenza, a Guaschino viene in mente che ci sono anch’io: ‘Zena, — come mi chiama lui — vieni un pò qua. Ti va mica di giocare con il Casale?’.Io sono un ragazzo e la politica mi interessa poco: meglio il pallone, meglio una partita, e coi grandi oltretutto. Per di più, di famiglia antifascista, mi risulta naturale essere chiamato a giocare per gli

GUERRA E CALCIO

«Quando noi ragazzidel Casale sfidammole Brigate Nere»

altri. Non ho paura, anche se i nostri avversari fanno i gradassi: si credono invincibili, come se per vincere su un campo da calcio basti far girare il manganello. Per spregio, requisiscono per le Brigate Nere le maglie nerostellate. Agli altri, ai noi ragazzetti del vero Casale Calcio, toccano le magliette della Juventus. È l’ultimo inverno della guerra e la tragedia incombe sull’Italia. Sugli spalti gremiti dello stadio di Casale ci sono 400 persone. C’è anche mia madre nascosta tra gli alberi. Si comincia a giocare. Mi mettono di punta, ho appena quindici anni.Bastano pochi minuti per diventare subito una specie di mascotte. ‘Zena!’ mi urla il pubblico dagli spalti. È chiaro

che urlano il mio nome per non inneggiare le Brigate Nere. A me poco importa. Io guizzo di qua e di là, salto le entrate dei difensori, faccio il diavolo a quattro. I miei compagni non sono da meno. Quando andiamo sotto di un gol non ci scoraggiamo. Pareggiamo subito e poi, appena mi arriva la palla giusta, io segno il 2 a 1. A quel punto nel piccolo stadio di Casale cala il silenzio. Mia madre è terrorizzata. Gli avversari s’innervosiscono e scalciano. E più scalciano e più perdono in lucidità: alla fine vinceremo noi.

Inverno del 1945,una banda di giovani promessesconfigge una squadradi fascistidel Monferrato.Il prodromo sportivodella Liberazionenelle memoriedi Stelvio Della Casache segnò il goldecisivo e giocòcon Silvio Piola

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(15)ALIAS 10 DICEMBRE 2011

Ma non c’è voglia di festeggiare. Appena l’arbitro fischia la fine, mia madre mi preleva e mi porta a casa. Le Brigate sono nere: un gruppo di ragazzini li ha umiliati.Ebbene, io di quella squadra ero il più giovane, ma giovani erano anche tutti gli altri. Ricordo benissimo ognuno di loro, e le infinite partite che giocammo durante la guerra. Giravamo il Monferrato sfidando gente del calibro di Valentino Mazzola, Franco Ossola, Ezio Loik, tutti calciatori del Toro sfollati dalle nostre parti. Ci si incontrava nei campetti di paese, in piccoli tornei i cui premi erano sale, uova, una gallina e del prosciutto. In uno di questi fu proprio Mazzola a notare me e Pietro Operto, i giovani più promettenti. Pietro, che era un bel difensore, passò al Torino nell’estate del 1948. L’anno dopo sarebbe successo anche a me, se non ci fosse stata la maledetta sciagura. Entrambi moriranno a Superga».Una volta finita la guerra, Stelvio Della Casa giocherà un’altra partita speciale. Nel giugno del 1945 il Casale sfida una rappresentativa delle truppe di occupazione alleate, mista di soldati britannici e sudafricani. Vittoria facile dei nerostellati: 5 a 1. In campo con Della Casa ci sono giocatori destinati a carriere importanti: il portiere Filippo Cavalli (Juventus, Torino e Inter), Ercole Rabitti (Juventus, poi allenatore dei bianconeri e del Torino), il terzino Alberto Mazzucco (Novara), il terzino Armando Todeschini (Torino e Genoa) e il Generale Luciano Brovero, un centrocampista di belle speranze che al pallone preferirà la carriera militare negli alpini.Invece dopo la guerra Della Casa verrà convocato da Vittorio Pozzo nell’under azzurra per un torneo in Inghilterra e continuerà a godere di grande notorietà tra i tifosi nerostellati. Dividendo la ribalta con l’altra promettente mezz’ala casalese, Arturo Biagi. Sono i tempi di Coppi e Bartali, e anche Casale ha il suo dualismo. I tifosi sono divisi in due fazioni, quasi due «curve» opposte. La leggenda racconta anche di una rissa sugli spalti per chi dovesse tirare un calcio di rigore: volano pugni tra i sostenitori di Biagi e Della Casa. Poi la nebbia di Superga decide il destino di Stelvio: niente maglia granata, ma quelle di Messina, Novara e ArsenalSpezia, prima di chiudere con il calcio — è il 1957 — ancora con la maglia del Casale. Quel giorno, come nella scena finale de La lunga notte del ‘43, ad aspettarlo al Bar Ideal ci sono sempre le stesse facce: qualcuno ride, altri schiamazzano, nessuno randella più. E chissà che ora, riunita in cielo la truppa, mister Guaschino non stia già organizzando la rivincita tra le Brigate Nere e i ragazzi del Casale. Palla al centro, si rigioca. Chi prende la maglie nerostellate?

Trenta anni fa Pelé, Ardiles, Caine e Stallone beffavano i nazisti di Max von Sydow. Portando sul grande schermo una partita controversa entrata nella leggenda tra propaganda e celluloide

Fc Start vs Flakelf, la foto della discordialll Nella diatriba tra mito e contro-mito della partita della morte, la foto qui a fianco ha un ruolo centrale. Secondo la propaganda sovietica, fu scattata il giorno della sfida tra Fc Start e Flakelf e rappresenterebbe la prova regina dell’attendibilità della leggenda. In realtà già il sorriso rilassato che si scorge sul volto di diversi giocatori suscita più di un dubbio sul fatto che quelli ritratti possano essere davvero i giocatori al termine di una partita tanto drammatica. Inoltre l’ultimo superstite del match, Makar Goncharenko, raccontò che sulla maglia bianca dei tedeschi c’era cucita un aquila nera di cui qui non c’è traccia. Nel suo libro «Dynamo: Defending the honour of Kiev», lo scrittore Andy Dougan afferma che la foto risalirebbe a una partita precedente giocata dalla Start contro una guarnigione tedesca vinta per 6-0.

«Fuga per la vittoria»,storia di un cult movieispirato a un falso mito

CINEMA E CALCIO n IL FILM DI JOHN HUSTON

di MATTEO PATRONO

lll «Prigionieri alleati contro soldati della Wehrmacht. Per giocarci cosa, la guerra?», chiede Michael Caine all’inizio di Fuga per la vittoria. «Sfortunatamente no – risponde Max von Sydow - Diciamo per il morale, di entrambi. La vita qui dentro mi sembra abbastanza noiosa». «E’ un ordine?». «No. Una sfida». Caine è il capitano inglese John Colby e prima della guerra giocava nel West Ham e in nazionale. Von Sydow veste i panni del maggiore tedesco Karl von Steiner e anche lui era stato calciatore prima del conflitto, addirittura ai mondiali del 1934. E’ l’estate del ’42 e la strana coppia organizza una partita di calcio in un campo di prigionia nazista. In palio l’orgoglio certo, ma anche la propaganda e un tentativo di evasione. La sfida si gioca allo stadio Colombes di Parigi, teatro del secondo trionfo mondiale degli azzurri di Pozzo sull’Ungheria. In realtà il film è interamente girato a Budapest, l’erba e gli spalti sono quelli dello stadio Mtk e la squadra di Hitler è composta per lo più da

giocatori di una club ungherese di prima divisione. Quella alleata conta invece su semidei del calibro di Bobby Moore, Mike Summerbee, Osvaldo Ardiles, mezzo Ipswich Town (l’allenatore Bobby Robson conosceva un tipo del casting). E Pelé, che ha appena appeso le scarpe al chiodo ma anche a 40 anni è pur sempre Pelé. Von Sydow si sistema in tribuna, Caine terzino sinistro, in porta un improbabilissimo Sylvester Stallone, fresco di Oscar per Rocky (la produzione gli affianca come maestro personale l’ex numero uno inglese Gordon Banks ma lui fa di testa sua: durante le riprese si sloga una spalla, incrina due costole e si rompe un dito). Alla fine del primo tempo, il Reich è avanti 4-1. Negli spogliatoi al posto del tè c’è un tunnel scavato dalla Resistenza per scappare attraverso il sistema fognario della città ma i prigionieri vogliono giocaserla fino al 90'. Rimontano clamorosamente e segnano il 4-4 con una meravigliosa rovesciata di Pelé. Che dirà poi. «La sceneggiatura prevedeva che fosse Stallone a segnare il gol decisivo ma non riusciva a calciare la palla

nemmeno da fermo. Provai per una settimana a insegnargli la rovesciata, poi si arrese: vabbè falla tu». All’ultimo minuto comunque Stallone para un rigore al nazista Baumann e la folla invade il campo portando in salvo i nostri eroi. Ale-oooh.Uscito nell’estate del 1981, Fuga per la vittoria è forse il film più famoso dedicato al calcio nella storia del cinema. Un cast stellare e dietro la cinepresa un mostro sacro come John Huston. Il produttore Freddie Fields avrebbe voluto al suo posto Brian G. Hutton (regista di Dove osano le aquile) ma Stallone lo convinse a scegliere il vecchio maestro del rinascimento di Hollywood, allora 74enne. «Faccio film solo se mi piace la storia o se mi offrono un sacco di soldi. Questo lo faccio per tutti e due i motivi». Il film costò 5 milioni di dollari e ne incassò più di 27. Tuttavia per la critica fu un mezzo flop, poco credibile per gli amanti del cinema di guerra, troppo prevedibile per il popolo dei tifosi. Eppure, a distanza di 30 anni, Fuga per la vittoria conserva un fascino cult tra gli appassionati. Tre mesi fa «Kicking+Screening», il festival londinese di cinema e calcio ha organizzato una proiezione speciale del film con una piccola reunion di alcuni dei protagonisti. Tutto esaurito. John Wark, 771 partite con Ipswich e Liverpool, era arrabbiatissimo. «La gente mi ferma per strada e mi dice: cavolo, tu sei quello di Fuga per la vittoria. Che affronto alla mia carriera …». David Beckham invece sta cercando di convincere i suoi facoltosi amici di L.A. a finanziare un remake moderno del film preferito della sua infanzia. Ma soprattutto, chiunque abbia giocato a pallone ha tentato almeno una volta nella vita di replicare il colpo di tacco di Ossie Ardiles, la parabola di un

dribbling impossibile sopra la testa dei nazisti. Un’invenzione brasiliana, chiamata la carretilha (il mulinello), l’arcobaleno, la lambretta, l’ala del piccione. Dopo quel film, per tutti il tacco di Ardiles.Anche se nei titoli di coda c’è scritto che storia e personaggi sono inventati, tutti sanno che Fuga per la vittoria è ispirato a un match controverso entrato nella leggenda, la partita della morte giocata a Kiev il 9 agosto 1942 tra una squadra ucraina composta da giocatori della Dynamo e della Lokomotiv e una rappresentativa della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca. Meno noto è che il film di John Huston è a sua volta un remake di due precedenti pellicole del socialismo reale che contribuirono a immortalare il mito di quella partita molto prima di Hollywood. Due tempi all’Inferno (1961) dell’ungherese Zoltán Fábri, che vinse il premio della critica al Festival del cinema di Boston e Il terzo tempo (1962) del russo Yevgeni Karelov. Entrambe si basano su un libro pubblicato nel ’59 dal giornalista ucraino Petro Severov, L’ultimo duello, che porta alla pubblica attenzione l’incredibile storia dell’Fc Start. Una storia sulla quale la propaganda di Mosca mette il suo marchio riscrivendola liberamente nel segno dell’epica sovietica, dopo averla tenuta nascosta nell’immediato dopo guerra quando chiunque avesse avuto a che fare con gli occupanti tedeschi era stato processato per collaborazionismo. Di Due tempi all’inferno si trova qualche traccia su youtube. Per festeggiare il compeanno del Fuhrer, gli ufficiali tedeschi sfidano i prigionieri di un campo di internamento ungherese, che però provano a scappare prima del match e vengono condannati a morte. Sono costretti a giocare comunque, anzi alla fine del primo tempo il generale tedesco offre loro salva la vita in cambio di una sconfitta onorevole. I magiari vincono 4-3, i nazisti li fucilano sul campo.I primi dubbi sull’attendibilità dell’impresa li solleva nel ’66 lo scrittore russo Anatoly Kuznetsov in un libro, censurato, sui massacri eseguiti contro la popolazione ucraina nel fossato di Babi Yar. Si scoprirà in seguito, grazie al lavoro di ricerca di storici e giornalisti (soprattutto inglesi), che la partita di Kiev si giocò davvero, che la Fc Start era davvero composta da giocatori della Dynamo e della Lokomotiv reclutati da un panettiere di false origini tedesche e che davvero sconfisse la Flakelf, la squadra della contraerea nazista. Ma i giocatori non furono giustiziati sul campo per colpa di quello sgarbo. Giocarono ancora una partita, un trionfale 8-0 contro la Rukh. Poi 8 di loro furono arrestati nel corso dei rastrellamenti per la città e 4 morirono nel campo di lavoro di Siretz: Kuzmenko, Klimenko, Putistin e il portiere Trusevich, che ancora indossava la maglia da gioco. La loro colpa, appartenere alla Dynamo, il club del Ministero dell’Interno. Nikolai Korotkikh, che secondo la versione ufficiale sarebbe stato uno degli eroi della partita della morte, fu giustizato una settimana prima del match perché iscritto al Partito comunista. Come lui l’ex allenatore della Dynamo Chernobylsky e il giocatore Kogen, ebrei, uccisi a Babi Yar. Nel corso dell’Operazione Barbarossa, 15 milioni di russi persero la vita per la follia del nazismo, senza possibilità di fuga né di vittoria. Prima di morire nel 1998, Makar Goncharenko, l’ultimo superstite della partita della morte, autore di una doppietta, chiarì la questione una volta per tutte. «I miei compagni morirono dopo una disperata lotta di sopravvivenza, non perché fossero grandi giocatori ma perché due totalitarismi erano in guerra tra loro. Furono vittime di un massacro assurdo come molti altri sovietici. Tutto qui».

Qui sotto il regista americano John Huston e Pelé sul set di «Fuga per la vittoria». In basso, una scena del film ungherese «Due tempi all'inferno»

Peppino Meazza con la maglia del Milan. Nella foto grande a sinistra, Stelvio Della Casa con la divisa del Casale calcio. Più sotto, una formazione e una partita dei nerostellati subito dopo la fine della guerra

Milan-Juventuse i 300 tifosidell'Arenadeportatidai nazistiin curva nord

PARTITE MALEDETTE

di M.L. e P.M.

lll Durante la guerra, quando la passione per il calcio era vissuta a rischio della pelle, si sono giocate molte «partite maledette». Episodi spesso dimenticati che oggi riaffio-rano grazie al lavoro degli storici. A Lutz Klinkhammer dobbiamo il ritrovamento negli anni '90 di un documento inviato a Benito Musso-lini dal presidente della Provincia di Milano, Piero Parini. Oggetto un Mi-lan-Juventus giocato all’Arena di Mi-lano il 2 luglio 1944. Una partita di cui il Corriere della Sera riporta una cronaca di poche righe: La Juventus supera nettamente la squadra di Mi-lano. Omettendo di raccontare quel che è successo.Siamo infatti nel periodo della Re-pubblica di Salò, l’Italia è divisa in due e la Germania ha un disperato bisogno di uomini per continuare la guerra. Tuttavia sono pochi i giovani milanesi che si arruolano spontane-amente per combattere a fianco di Hitler. E siccome preferiscono im-boscarsi aspettando la fine del con-flitto, occorre catturarli e deportarli. I tedeschi lo chiamano «reclutamen-to obbligatorio». Ma come fare per stanarli dai nascondigli? Semplice, facendo leva sui loro principali vizi: i bordelli, le bische e naturalmente il calcio. Al Milan-Juventus del 2 luglio 44 assistono parecchie persone, tra cui molti giovani. Oltretutto nelle fi-le della Juventus gioca Peppino Me-azza. Proprio lui, il Balilla, il calcia-tore che fece esclamare a Mussolini: «La verità è che tra i miei generali non ho mai avuto Meazza».Ecco che cosa successe all’Arena di Milano secondo l’inquietante infor-mativa «Appunto per il Duce» (L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Torino, Bollati-Boringhieri, 1993). «Domenica 2 corrente, alle ore 17, al termine del-la partita di calcio Juventus-Milano all’Arena, alcuni colpi di moschetto sparato in aria allarmarono la gran-de folla che si stipava verso le uscite e subito dopo l’altoparlante dava il seguente avvertimento: 'Per ordi-ne del Comando germanico tutti i giovani delle classi dal 1916 al 1926 che sono presenti nello stadio de-vono radunarsi verso l’uscita nord, mentre tutte le donne e i bambini devono uscire dalle porte a sud e gli altri uomini presentarsi alle porte ovest con i documenti alla mano'. Nel frattempo comparirono grup-pi di soldati tedeschi in divisa kaki col (sic) elmetto e moschetto e ini-ziarono il controllo dei documenti, coadiuvati da alcuni militari italiani che si è saputo poi appartenere al reggimento antiaereo inquadrati dai tedeschi a Monza e quindi alle loro dipendenze. I giovani delle classi indicate si adu-narono secondo l’ordine e risultò che erano circa trecento e furono in-colonnati e poi caricati su quindici autocarri tedeschi e, sotto la scorta di militari tedeschi armati, portati in una specie di campo di concen-tramento che il Comando aveva preparato nei pressi della Bicocca. Fino a questo momento e cioè a 48 ore dall’operazione non mi è stato possibile sapere il numero esatto e il loro destino» .Non si saprà mai. Al contrario, il ri-sultato della partita fu 5 a 0 per la Juventus. Ma almeno il sacrificio di quei tifosi servì a qualcosa. Dopo il ratto dell’Arena, infatti i tedeschi cessarono il reclutamento coatto. Meno di un anno dopo avrebbero abbandonato la città cacciati dai partigiani. Piero Parini, invece salve-rà alcuni ebrei e alla fine della guer-ra avrà le pene condonate. Mentre dei 300 giovani portati via quel gior-no non si seppe più nulla. Pagarono caro il fio di una passione.

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