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1 L’ALFABETO DELLA NUOVA REVOCATORIA FALLIMENTARE* *Questo scritto è stato redatto prima della conversione in legge del d.l. n.35 del 2005, senza un appropriato apparato di note e con l’inserimento di citazioni essenziali e di contributi recenti nel corpo del testo. ABSTRACT L’autore esamina il nuovo art.67 l.fall. a seguito del d.l. n.35 del 14 marzo 2005 con particolare riferimento ai profili generali e ai primi due commi, ponendo in luce profili di criticità della normativa, fondati essenzialmente sul capovolgimento ideologico fra interventi urgenti sulla revocatoria fallimentare e riforma delle regole per la soluzione delle crisi d’impresa. Attesa. Con il decreto-legge 14 marzo 2005, n.35 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n.62 del 16 marzo 2005 e cioè il giorno del sessantatreesimo anniversario della legge fallimentare), il Governo ha innestato nel corpo del r.d. 16 marzo 1942, n.267 la modifica dell’art.67 l.fall. (oltre che di altre disposizioni in materia di concordato preventivo), con la dichiarata intenzione di inserire, nel percorso di conversione parlamentare, ulteriori norme di revisione dell’originario impianto, alcune delle quali , ancora, in tema di azioni revocatorie (si tratta di un articolato d.d.l. “collegato”). Pur costituendo questo intervento riformatore la più rilevante modifica della legge fallimentare del 1942 che sia mai intervenuta (considerato che a parte talune norme spot, i più profondi cambiamenti del tessuto normativo sono stati determinati dalle plurimi incursioni del giudice delle leggi), è sotto gli occhi di tutti che quanto somministrato dall’Esecutivo, nonostante l’enfasi mediatica che ha accompagnato l’annuncio, nulla ha a che vedere con una – seria – riforma delle procedure concorsuali (si pensi, solo, al fatto che fra le disposizioni del decreto legge non v’è né una nella quale si rammenti la intervenuta riforma del diritto societario, v. G. Lo Cascio, La riforma della società a responsabilità limitata e le procedure concorsuali, in questa Rivista, 2005, 237). Questa considerazione non rileva sul piano politico, atteso che questa maggioranza di governo, come quella della precedente legislatura, si era impegnata nella prima fase dell’attuale legislatura a preparare una riforma delle procedure concorsuali a larghissimo raggio; rileva, invece, sul piano delle scelte posto che una volta sfumata (molto probabilmente non per l’incipiente scadenza elettorale del 2006 ma per la preoccupazione di un eccesso di condivisione sui principi fondamentali della riforma, cfr., M. Fabiani, Riforma <<condivisa>> della legge fallimentare: un’impresa possibile, in Foro it., 2004, V, 125 ) la soluzione dell’abbandono dell’impianto del 1942 per immetterne un altro interamente sostitutivo, sono nettamente prevalse le logiche lobbistiche di quei soggetti che , in presenza di pesanti condizioni di ristagno economico, possono condizionare la leva finanziaria del Paese. Appare allora, opportuno, proprio per spiegare le scelte del Governo in materia revocatoria, fare una sintetica retrospettiva di quanto è accaduto nell’ultimo quinquennio. Nel 2000, nel breve volgere di pochi mesi sono stati presentati ufficialmente tre disegni di legge delega di riforma della legge fallimentare, a cura del Governo, del Gruppo parlamentare dei Democratici di Sinistra, dell’Associazione Bancaria Italiana (tutti raccolti nel volume Nuove regole per le crisi d’impresa, a cura di A. Jorio, Milano, 2001) ; tutti e tre i progetti che si muovevano secondo logiche in gran parte comuni, riflettevano l’esigenza di implementare una riforma di sistema, pur se talora solo abbozzata per alcuni istituti, attesa una certa inespressività della legge delega su alcuni segmenti della legge (si pensi al

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L’ALFABETO DELLA NUOVA REVOCATORIA FALLIMENTARE*

*Questo scritto è stato redatto prima della conversione in legge del d.l. n.35 del 2005, senza un appropriato apparato di note e con l’inserimento di citazioni essenziali e di contributi recenti nel corpo del testo. ABSTRACT L’autore esamina il nuovo art.67 l.fall. a seguito del d.l. n.35 del 14 marzo 2005 con particolare riferimento ai profili generali e ai primi due commi, ponendo in luce profili di criticità della normativa, fondati essenzialmente sul capovolgimento ideologico fra interventi urgenti sulla revocatoria fallimentare e riforma delle regole per la soluzione delle crisi d’impresa.

Attesa. Con il decreto-legge 14 marzo 2005, n.35 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n.62 del 16 marzo 2005 e cioè il giorno del sessantatreesimo anniversario della legge fallimentare), il Governo ha innestato nel corpo del r.d. 16 marzo 1942, n.267 la modifica dell’art.67 l.fall. (oltre che di altre disposizioni in materia di concordato preventivo), con la dichiarata intenzione di inserire, nel percorso di conversione parlamentare, ulteriori norme di revisione dell’originario impianto, alcune delle quali , ancora, in tema di azioni revocatorie (si tratta di un articolato d.d.l. “collegato”).

Pur costituendo questo intervento riformatore la più rilevante modifica della legge fallimentare del 1942 che sia mai intervenuta (considerato che a parte talune norme spot, i più profondi cambiamenti del tessuto normativo sono stati determinati dalle plurimi incursioni del giudice delle leggi), è sotto gli occhi di tutti che quanto somministrato dall’Esecutivo, nonostante l’enfasi mediatica che ha accompagnato l’annuncio, nulla ha a che vedere con una – seria – riforma delle procedure concorsuali (si pensi, solo, al fatto che fra le disposizioni del decreto legge non v’è né una nella quale si rammenti la intervenuta riforma del diritto societario, v. G. Lo Cascio, La riforma della società a responsabilità limitata e le procedure concorsuali, in questa Rivista, 2005, 237).

Questa considerazione non rileva sul piano politico, atteso che questa maggioranza di governo, come quella della precedente legislatura, si era impegnata nella prima fase dell’attuale legislatura a preparare una riforma delle procedure concorsuali a larghissimo raggio; rileva, invece, sul piano delle scelte posto che una volta sfumata (molto probabilmente non per l’incipiente scadenza elettorale del 2006 ma per la preoccupazione di un eccesso di condivisione sui principi fondamentali della riforma, cfr., M. Fabiani, Riforma <<condivisa>> della legge fallimentare: un’impresa possibile, in Foro it., 2004, V, 125 ) la soluzione dell’abbandono dell’impianto del 1942 per immetterne un altro interamente sostitutivo, sono nettamente prevalse le logiche lobbistiche di quei soggetti che , in presenza di pesanti condizioni di ristagno economico, possono condizionare la leva finanziaria del Paese.

Appare allora, opportuno, proprio per spiegare le scelte del Governo in materia revocatoria, fare una sintetica retrospettiva di quanto è accaduto nell’ultimo quinquennio. Nel 2000, nel breve volgere di pochi mesi sono stati presentati ufficialmente tre disegni di legge delega di riforma della legge fallimentare, a cura del Governo, del Gruppo parlamentare dei Democratici di Sinistra, dell’Associazione Bancaria Italiana (tutti raccolti nel volume Nuove regole per le crisi d’impresa, a cura di A. Jorio, Milano, 2001) ; tutti e tre i progetti che si muovevano secondo logiche in gran parte comuni, riflettevano l’esigenza di implementare una riforma di sistema, pur se talora solo abbozzata per alcuni istituti, attesa una certa inespressività della legge delega su alcuni segmenti della legge (si pensi al

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procedimento di accertamento del passivo). L’imminente scadenza della legislatura non ha consentito un adeguato approfondimento delle tematiche che emergevano dalla lettura dei progetti, ma alcune occasioni di riflessione non sono mancate e i contributi diffusi a commento di quelle proposte, rivestono una durevole attualità se è vero che la crisi del fallimento (inteso come istituto di stampo sanzionatorio) affonda le sue radici, in chiave funzionale, nella inadeguatezza dell’impianto alle mutate esigenze dell’impresa e delle ragioni dell’economia nel suo complesso, mentre in un’ottica di armonia sistematica sconta l’irruzione dei principi costituzionali su un modello procedimentale intriso di autoritarismo e votato ad un efficientismo che ben presto si è rivelato un’araba fenice al cospetto di una endemica inefficienza dell’organizzazione giudiziaria.

Nella attuale legislatura, segnata da un cambiamento di maggioranza (che in Spagna ha generato la ley 9 luglio 2003 n.22 <<concurso de acreedores>> - su cui v. J Pulgar Ezquerra, Alcune considerazioni relative alla riforma del diritto concorsuale spagnolo, in la legislazione concorsuale in Europa, a cura di S. Bonfatti e G. Falcone, Milano, 2004, 122; I. Candelario Macias, Aspetti storici ed evolutivi della riforma in tema di risanamento dell’impresa, in questa Rivista, 2003, 1000 - assai lontana dalla normativa anteriore) , il Governo ha ritenuto di intraprendere un percorso con doppio binario presentando un disegno di legge di (mini-)riforma della legge fallimentare che rappresentava, salvo qualche disposizione innovativa, un’opera di maquillage volta a restituire maggiore sistematicità alla normativa a seguito degli interventi manipolativi della Consulta (L. Panzani, La miniriforma della legge fallimentare, in questa Rivista, 2002, 469), e al contempo insediando una (pletorica nelle sue dimensioni) Commissione di studio per la riforma delle procedure concorsuali. Questa Commissione ha partorito un disegno di legge delega che non ha intercettato un consenso diffuso all’interno della medesima Commissione, mentre in epoca più recente un’altra più ristretta Commissione ha redatto un disegno di legge ordinaria di riforma dell’intero sistema concorsuale; tutto ciò accadeva quando, nel frattempo, dopo un lungo sonno in sede parlamentare, il disegno di legge 1243/S (di matrice governativa ma quasi del tutto soppiantato dagli innesti suggeriti in sede di commissione parlamentare) nato dalle ceneri della proposta di miniriforma , sembrava avviato verso un cammino più spedito. Questo quadro, che ai più pareva, già sovrabbondante (ove si consideri la presentazione nelle more di un d.d.l. del Gruppo parlamentare dei Democratici di Sinistra; tutti i testi sono reperibili in La riforma delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio e S. Fortunato, Milano, 2004), non è parso, invece, adeguato all’Esecutivo che ha voluto affidare ad un nuovo manipolo di esperti (peraltro non espressione di pluralismo professionale) un c.d. maxi-emendamento , dal quale sono stati prelevati solo alcuni articoli per essere inseriti nel d.l. n.35 del 2005, ovverosia quello che è stato presentato come provvedimento sulla competitività delle imprese. Evidentemente la riforma delle azioni revocatorie e del concordato preventivo (con l’addendo di una norma sugli <<accordi di ristrutturazione dei debiti>>) è stata valutata come idonea ad elevare la competitività delle nostre imprese (forse si è pensato soprattutto alla mitizzata competizione degli ordinamenti giuridici dell’Unione Europea, ma di questi tempi verrebbe da pensare che il modello debba confrontarsi con quello dei Paesi dell’est asiatico).

Da autorevoli rappresentanti del Governo la ragione della microriforma della legge fallimentare è stata spiegata con “le ragioni della politica” (fra le tante l’impossibilità di coniugare l’ambizione di una riforma complessiva con l’inclinazione vertiginosa del piano della residua legislatura, cfr., M. Vietti, Diritto fallimentare e prospettive di riforma: da

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disciplina della crisi dell’impresa a regola della relazione commerciale, in questa Rivista, 2004, 603); nondimeno l’interprete che voglia svolgere il suo compito con indipendenza e senza indulgere alla critica preconcetta deve però confrontarsi con un dato inconfutabile: si è preferito non affrontare la riforma delle procedure concorsuali per favorire una supposta revanche verso giudici e curatori ripetutamente considerati coautori della deriva concorsuale panpubblicista e antiliberista (in verità degiurisdizionalizzazione e finalità del recupero dei crediti secondo modalità liquidative non sono un ossimoro come accade in Portogallo; cfr., L.A. De Carvalho Fernandes, Profili generali del nuovo regime dell’insolvenza nel diritto portoghese, in Dir.fall., 2004, I, 1418; per contro neppure conservazione dell’impresa e sopravalutazione del ruolo dei creditori, lo sono, visto che nella procedura di amministrazione straordinaria l’impronta conservativa è data dalla autorità amministrativa ed i creditori sono spogliati da ogni opzione al riguardo; cfr. L.Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv.dir.comm., 2004, 1059).

L’impianto che è stato offerto alla comunità delle imprese dovrà essere valutato nel tempo, ma fin da ora si può ragionevolmente osservare che nessuna riforma normativa della legge fallimentare potrà mai risolvere i problemi connessi al dissesto dell’impresa se non muta (e quindi se non si creano le condizioni perché si modifichi) il costume e l’etica dell’imprenditore (V. Buonocore, Etica degli affari e impresa etica , in Giur.comm., 2004, 181) e in particolare se non si costruisce una rete di regole da collocare in un momento ben anteriore al manifestarsi dell’insolvenza; è inutile nascondersi che si corre il rischio che l’occhio alla comparazione sia stato dischiuso in ritardo e che ci si avvii verso una deregulation dell’insolvenza, proprio nella materia degli atti compiuti prima dell’apertura del fallimento, quando oltreoceano, ancora una volta, nel rituale ondivago atteggiarsi del legislatore nelle fasi emergenziali, il disegno riformatore sembra andare nella direzione opposta a quella intrapresa dall’Esecutivo.

Il pericolo è che l’attesa della riforma sia destinata a protrarsi ancora per lungo tempo, specie se coloro che sono portatori di spinte “più forti” si sentiranno appagati.

Beneficio. Le censure alle tecnicalità dell’art.67 l.fall. riformato non sono di poco momento e pur tuttavia, prima di valutarne alcune, quelle più evidenti che non sfuggirebbero neppure al lettore occasionale, è doveroso soffermarsi sull’equivoco di fondo alimentato dalle scelte contenute nel decreto legge.

Come è stato assai autorevolmente rammentato, anche di recente, il fallimento della legge fallimentare non è l’effetto dell’impianto revocatorio (che pure in alcune distorsioni applicative ha generato ulteriori rigidità extra-giuridiche), ma semmai è l’esatto contrario (A. Maffei Alberti, Conservazione dell’attività d’impresa e revocatoria fallimentare, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, a cura di S. Pacchi Pesucci, Milano, 2001, 34); la questione revocatoria è stata drammatizzata perché non si è creato un sistema di regole di protezione dell’impresa in crisi volte a sollecitare l’imprenditore ad accedere con tempestività ad una procedura non afflittiva in grado di contemperare l’interesse del sistema economico alla conservazione del valore dell’impresa e al risanamento (per lo più da conseguire all’esito della sostituzione nella titolarità dell’impresa) con l’interesse dei creditori a valutare la preferenza per la reimmissione dell’impresa nel circuito del mercato ovvero per la soddisfazione della pretesa creditoria insoddisfatta; sistema di protezione che non può essere avulso a pena di inefficienza, laddove l’imprenditore non acceda alla soluzione virtuosa anticipatoria, dal consentire anche ai creditori (tendenzialmente

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all’esito dell’apertura di un procedimento sotto il controllo della autorità giudiziaria) di proporre una soluzione per il superamento della crisi.

E’ ben vero che è stata rimodulata la procedura di concordato preventivo cui può accedere anche l’imprenditore in crisi (pur se da nessun indice qualitativo o quantitativo è possibile desumere a quale nozione di crisi ci si sia voluti riferire) , ma ciò è accaduto senza il corollario – decisivo – della previsione di una qualche sollecitazione (debitamente correlata a sanzioni; solo per fare un esempio si può pensare che, istituite misure di allerta endogene all’impresa, il mancato ricorso dell’imprenditore alla procedura anticipatoria faccia scattare la legittimazione ai creditori o a un terzo) per il debitore ad utilizzare questo strumento , non senza trascurare che a fronte di una maggiore flessibilità sulle modalità del soddisfacimento dei creditori, è rimasta inalterata la regola dell’integrale soddisfazione dei creditori privilegiati, ciò che rende per molti versi anelastici i criteri di formazione delle classi.

In questa cornice, il valore aggiunto non sembra poter essere rappresentato dal nuovo istituto degli accordi per la ristrutturazione del debito (art.182 bis l.fall.) per la semplice ragione che mezzi e fine risultano rovesciati; l’accordo – pur costruito sul telaio della domanda di concordato – pare rivolto essenzialmente a precostituire una causa di esenzione dalla revocatoria , con il che si è riusciti a cogliere un risultato inaspettato: non si organizza una procedura per cercare di risolvere la crisi (si pensi, solo al fatto che restano ignoti i confini del procedimento e in particolare se in quale misura siano compatibili gli effetti protettivi di cui agli art.167, 168 e 169 l.fall.) , ma si pensa di risolverla allontanando lo spettro delle azioni revocatorie (questa è, invece, la tesi di G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, Milano, 2004, 64, non a caso uno degli ispiratori della Novella) .

Tutto ciò, all’evidenza, non sdrammatizza il fenomeno revocatorio, ma , al più, lo attenua perché i parametri di esenzione dall’azione sono così labili e sfumati da lasciare negli operatori economici che contrattano con l’imprenditore in crisi una tale incertezza (dovuta ad un eccesso di aggettivazione nelle categorie esonerative) da rendere comunque rischioso l’approccio con il debitore potenzialmente assoggettabile al fallimento. Dunque una scelta che pare essere un beneficio per alcuni più che un valore aggiunto per tutti i soggetti coinvolti nella crisi.

Caleidoscopio. Il morso attorno all’azione revocatoria fallimentare risale ormai a qualche decennio fa e va collocato, grosso modo, in epoca coeva alla crescente insoddisfazione del mondo economico per le procedure concorsuali di amministrazione controllata e concordato preventivo alle quali, per un periodo non breve, si accedeva “in modo alternativo” per perseguire risultati ben lontani da quelli prefigurati dal legislatore (l’amministrazione controllata in funzione liquidatoria e per paradosso il concordato preventivo in funzione conservativa; L. Lanfranchi, Uso «alternativo» delle procedure concorsuali, amministrazione controllata e prededucibilità dei crediti, in Riv.dir.civ., 1985, I, 133). E’ in quel contesto temporale che dalla combinazione della teoria della consecuzione delle procedure con quella della revocabilità delle rimesse in conto corrente secondo canoni interpretativi “civilistici” e non “commercialistici” (il grand arret di Cass. 18 ottobre 1982, n.5413, in questa Rivista, 1983, 428) , è scaturita una profonda insoddisfazione per l’uso, talora spregiudicato quando non distorto, dello strumento revocatorio da parte di talune procedure. Dal particolare (situazioni nelle quali l’esercizio delle azioni è stato ispirato non solo per “fare cassa” ma anche come mezzo di pressione rispetto a potenziali conflitti sulla

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illiceità del sostegno offerto alla impresa conclamatamene in crisi, tecnica non nuova, persino accarezzata dal legislatore nel d.l. 23 dicembre 2003, n.347; cfr., M. Fabiani-M.Ferro, Dai tribunali ai ministeri: prove generali di degiurisdizionalizzazione della gestione delle crisi d’impresa, in questa Rivista, 2004, 147; A. Castello D’Antonio, Prime riflessioni sull’amministrazione straordinaria delle macroimprese in crisi reversibile, in La legislazione concorsuale in Europa, cit., 96 ) si è ben presto transitati al generale, con il risultato di favorire l’emersione nel mondo accademico (così come fra talune categorie di creditori), di una diffusa cultura antirevocatoria che è sfociata nell’attuale assetto dell’art.67 l.fall., disposizione oggi di disagevole lettura in quanto l’istituto, come si vedrà, è stato destrutturato con modalità tali da renderne davvero complessa una non superficiale esegesi.

Se è vero che il “comune sentire” spingeva fortemente verso il depotenziamento dell’istituto revocatorio, questo poteva essere calibrato in misura inversamente proporzionale alla introduzione di strumenti di risoluzione o composizione della crisi d’impresa quanto più possibile tempestivi; come si è accennato, l’incentivo a far emergere la crisi poteva accompagnarsi alla conservazione di un regime revocatorio non eccessivamente ammorbidito (se non sul fronte di una sensibile abbreviazione del periodo sospetto per gli atti e i pagamenti “normali”), quale presidio a garanzia della corretta condotta del debitore ponendo al riparo dal rischio della inefficacia atti compiuti in una situazione di “controllo” esterno. Si è preferito agire sull’altra leva, quella della forte compressione dell’ambito di operatività dell’istituto, con la conseguenza che ad un sistema privo di mezzi efficaci (tale, come si è accennato non può essere considerato l’accordo di cui all’art.182 bis l.fall.) di allerta e di prevenzione dell’insolvenza (M. Fabiani, Misure di allarme per la crisi d’impresa, in questa Rivista, 2004, 825), si accompagna un regime di apparente libertà nella conduzione dell’impresa, pur in presenza di manifesta insolvenza; l’effetto non confutabile è che i creditori meno organizzati o poco strategici rischiano seriamente di essere abbandonati al loro destino.

Si è spesso e quasi stucchevolmente ricordato che l’interpretazione rigorosa della giurisprudenza in punto revocabilità degli atti e dei pagamenti normali (per vero condivisa dal giudice delle leggi che, non a caso, non è mai intervenuta con decisioni demolitive sull’istituto, cfr., da ultimo Corte cost., 27 luglio 2000, n. 379, in Foro it., 2000, I, 2722) determinava la formazione di un dannoso “cordone sanitario” attorno all’impresa, sì che l’obiettivo principale di una riforma andava individuato, anche, nella riduzione o eliminazione del rischio revocatorio per offrire all’impresa in crisi una chance in più, ove i finanziatori fossero stati al riparo dal rischio di dover restituire quanto erogato e poi percepito. Posto che potrà essere solo il mercato a confortare una simile concezione ora che la revocatoria è stata davvero ridimensionata , non è al momento possibile pronosticare quanti salvataggi di imprese saranno praticabili; certo è, però, che l’esperienza francese, pur ricca di strumenti di prevenzione, segnala come i procedimenti che evolvono in liquidazione rappresentino circa il 90-95% dei casi (J.M. Campana, L’impresa in crisi: l’esperienza del diritto francese, in questa Rivista, 2003, 988 ; ma anche per la Spagna, A. Rojo, La reforma del derecho concursal espanol, in questa Rivista, 2003, 958, rileva che nella grandissima parte dei casi non si può fare a meno di una soluzione giudiziale), sì che aver voluto divellere l’azione revocatoria inseguendo il mito del risanamento potrebbe rivelarsi un uso sproporzionato al fine, salvo che il fine non fosse, soltanto, ottenere proprio il beneficio dell’esenzione dalla revocatoria.

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Ma se sul fronte del sostegno alle imprese in crisi, pur con tutte le critiche sopra evidenziate le misure adottate, almeno astrattamente rappresentano una strategia, è difficile negare che tanto l’obiettivo di assicurare la stabilità dei rapporti giuridici quanto quello di abbreviare i tempi delle procedure appaiono sin da ora obiettivi non perseguibili (fra quelli dichiaratamente sottesi all’opera di depotenziamento della revocatoria esposti da S. Pacchi Pesucci, La revocatoria concorsuale, in questa Rivista, 2004, All. fasc.12, 17, nessuno pare sicuramente raggiunto)

Quanto alla esigenza, assolutamente condivisibile, di assicurare una ben maggiore certezza sulla stabilità dei traffici commerciali (anche per assecondare la giusta aspettativa di allineare il nostro ordinamento a quello degli ordinamenti europei, nei quali l’inefficacia per gli atti normali è condizionata ad un periodo sospetto molto breve), occorre osservare che la certezza è un valore che è geometricamente proporzionato alla buona tecnica legislativa; una norma che non crea conflitti interpretativi è anche quella norma che impedisce che si sviluppino conflitti nelle sedi giudiziarie. Il legislatore ne è stato in parte consapevole laddove ha stabilito - nell’art.67 1° comma n.1 l.fall. – una misura predeterminata cui ancorare la nozione di sproporzione nelle prestazioni (pur se una misura fissa rischia come si avrà modo di osservare, di risultare più un handicap che un vantaggio) , ma subito dopo (nella scrittura del 3° comma) dimentico. L’aver voluto creare come categoria generale esonerativa, applicabile a tutte le fattispecie anche in giustapposizione rispetto alle esenzioni specifiche, quella che coinvolge <<i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso>> , significa lasciare nella assoluta incertezza la declamata stabilità dei traffici commerciali, sia perché l’espressione <<nei termini d’uso>> non trova riscontro, salvo evocare l’espressione <<uso>> che compare, ma a tutt’altri fini nell’art.1183 c.c., sia perché è difficile comprendere a cosa ci si voglia riferire, ovvero se alla scadenza dei termini di pagamento (di talché il pagamento effettuato con un giorno di ritardo si esporrebbe alla revoca), oppure alla tolleranza del creditore (ciò che aprirebbe il varco alle più opinabili letture giudiziarie). Tutto ciò nella assoluta dimenticanza che l’art. 7 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n.231 sui ritardi nei pagamenti sanziona con la nullità accordi sulla data del pagamento (in tal senso la tolleranza verso il ritardo, ai fini dell’esonero dalla revocatoria potrebbe confliggere con norme di legge). La scarsa sensibilità verso formule precise riecheggia, però anche a proposito di espressioni quali <<giusto prezzo>> o <<ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria>>, in un caleidoscopio di aggettivi che non è chiaro come si concili con il dichiarato intento di rendere più stabili i rapporti.

Questo effetto di incertezza si riflette, naturalmente, anche sul piano giudiziario, visto che formule vaghe se lasciano nell’incertezza l’operatore economico non per questo non risultano ostiche anche al giurista; così v’è da pensare che per un arco di tempo non breve (qualche lustro almeno; le ambiguità del testo, come evidenziato da Gio. Tarzia, Le azioni revocatorie nelle procedure concorsuali, Milano, 2003, 364 renderanno necessario un impegno pressante dei giudici) la giurisprudenza sarà occupata a stabilire la griglia effettiva delle esenzioni, con il risultato che la durata dei processi per l’accertamento della inefficacia di un atto impedirà la chiusura della procedura di fallimento che come è ben noto è esponenzialmente influenzata proprio dalla irragionevole durata dei processi “incidentali” (né pare che nel disegno di legge collegato al decreto legge si faccia menzione della possibilità della cessione delle azioni revocatorie).

A ben vedere l’unica disposizione (quasi a mo’ di cameo) che pur fra non poche perplessità si presta ad assecondare il bisogno di stabilità è quella contenuta nel disegno di

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legge collegato, allorché si stabilisce che l’azione non può essere promossa decorsi cinque anni dal compimento dell’atto; una norma che istituisce un termine di decadenza (peraltro già invocato da una parte della letteratura; cfr. C.Consolo-M.Montanari, La revocatoria ordinaria nel fallimento e le questioni di prescrizione (recte di decadenza) , in Corriere giur., 2005, 398), allo scopo di evitare la critica che la decorrenza della prescrizione dal momento dell’atto pregiudizievole contrastasse con il disposto di cui all’art.2935 c.c., non pare da sola idonea a perseguire l’obiettivo della certezza.

Anche ad una sommaria lettura non sembra, allora, che il bersaglio sia stato centrato.

Destabilizzante. La creazione di un fascio così articolato di esenzioni dall’azione revocatoria, posto che quelle previste nell’art.67, 3° comma e 70, 1° e 3° comma l.fall., si assommano alle altre di matrice “soggettiva” stabilite in una massa informe (perché del tutto priva di sistematicità, cfr. A. Patti, La disciplina della revocatoria, in questa Rivista, 2004, 337) di leggi speciali, non rileva solo in chiave di esegesi dell’istituto così come rivisitato, ma incide in misura pervasiva sulle travi portanti della concorsualità sistematizzata; infatti ove si tenga conto della frammentazione e della pluralità dei privilegi, della molteplicità delle esenzioni dalla revocatoria, della possibilità di organizzare il ceto creditorio per classi, non sembra che residui molto spazio per la par condicio creditorum. Può anche darsi che la par condicio sia ormai un feticcio (cfr., P.G. Jaeger, <<Par condicio creditorum>> in Giur. comm., 1984, I, 88; G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, cit., 32; ma prima di seppellirla come retaggio di un’epoca remota, sarebbe utile la lettura di quegli studiosi anglosassoni – citati da V. De Sensi, L’etica del fallimento, in Riv.dir.impresa, 2003, 170 – che hanno qualificato tale regola come espressione dell’etica nel fallimento) piuttosto che un fine, ma allora bisogna realizzare un sistema di gestione della crisi diverso, nel quale possa essere tutelato anche quel creditore che privo di privilegi (accessori al suo credito) e non beneficiario di esoneri revocatori, intenda comunque difendere la sua posizione, magari sfruttando, individualmente, il rimedio della revocatoria ordinaria o provando ad aggredire singolarmente il bene appartenente al patrimonio del debitore in crisi.

L’aver voluto isolare la riforma della revocatoria senza incidere nell’assetto normativo di contorno pone una infinita serie di questioni interpretative nuove; ad esempio ci si può chiedere quale senso mantenga il divieto (di cui all’art.51 l.fall.) di promuovere azioni esecutive quando il creditore non protetto o non organizzato è esposto al rischio che il patrimonio relitto sia destinato ai creditori privilegiati senza neppure poter aspirare ad un qualche incremento di attivo alla luce dell’assetto revocatorio; l’effetto della modifica è, allora, assai più destabilizzante di quanto non si scruti a prima lettura.

Se il sistema in alcuni traccianti essenziali vira verso una nozione del tutto nuova di concorsualità, occorre prenderne atto ed adottare le misure consequenziali; altrimenti, destrutturato il sistema, dietro l’angolo ci può essere solo il crivello del giudice delle leggi ed invocare l’intervento del giudice costituzionale non è certo un buon viatico per una legge nuova, visto che le pronunce additive o manipolative a loro volta non agevolano a ricostruire un sistema.

Equivoco. L’approccio dichiaratamente ideologico alla riforma nella proiezione di una difesa quasi ridondante della funzione creditizia a mo’ di contrappasso rispetto alle

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iniziative – magari petulanti e non selettive - delle curatele (basti pensare al fatto che a paralizzare le azioni dei curatori per la revoca delle rimesse, in una sorta di vena bulimica sono state messe in campo le esenzioni di cui alle lettere a), b) d) e) dell’art.67 3° comma e quelle di cui ai commi 1° e 3° dell’art.70 l.fall. riformato, oltre che quelle di matrice soggettiva di cui alle leggi speciali, senza per questo avere espunto la fattispecie così da renderla meno appetibile ma ancora praticabile per un curatore munito di doti “acrobatiche” ad onta delle certezze), sembra riflettere una visione panbancaristica della crisi e quindi di conseguenza una visione nella quale le ragioni dell’economia prevalgono nettamente sulle ragioni del diritto (salvo prospettare che, come accaduto in Francia secondo quanto segnalato da J.M. Campana, L’impresa in crisi: l’esperienza del diritto francese, cit., 978, non ci si possa attendere, in futuro, un ritorno alla tutela preminente dei creditori) Questa scelta non è il frutto di una opzione estemporanea del Governo ma di un percorso ormai risalente tracciato sul solco di una analisi economica del diritto che dovrebbe condurre il legislatore (F.D’Alessandro, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e “accanimenti terapeutici”, in Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, a cura di M.Santaroni e C.Piccininni, Roma, 2002, 31 ) , in occasione di riforme sistemiche, a valutare l’impatto delle norme sull’economia in modo da adattare il diritto alle esigenze dell’economia onde evitare una crisi di rigetto dell’assetto giuridico. Per restare al tema delle azioni revocatorie, l’analisi economica del diritto porta a considerare, con specifico riferimento alle azioni intraprese nei confronti delle aziende di credito, se le somme restituite ai fallimenti comportino in misura più o meno proporzionale un aumento del costo del denaro presso la clientela e quindi anche presso la clientela professionale degli imprenditori che potrebbero preferire, in luogo di ipotetiche ripartizioni fallimentari (qualora incappassero nel dissesto di un loro debitore) , un accesso al credito più vantaggioso. Secondo questa lettura (A. Borgioli, La revocatoria: un autogol, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 228), ove si dimostrasse che il costo delle revocatorie bancarie viene circolarizzato attraverso un aumento del costo del denaro, anche i creditori non bancari potrebbero avere interesse ad una previsione esonerativa a favore degli istituti di credito. In tale prospettiva, la stessa esenzione dalla revocatoria si rivelerebbe, paradossalmente, uno strumento di socializzazione delle perdite, quale è stato considerato in passato proprio l’azione revocatoria secondo la teoria antindennitaria. I sempre più diffusi intrecci fra diritto ed economia hanno però generato anche una prospettiva diversa e cioè quella dell’analisi dell’economia con la lente del giurista ed è in questo contesto che ci si deve chiedere se un ridimensionamento così accentuato dell’istituto della revocatoria non rischi di incentivare condotte eticamente riprovevoli sul fronte della correttezza commerciale, ma giuridicamente irreprensibili; si può pensare al caso dell’imprenditore che assolva con perfetta puntualità ai pagamenti di debiti pregressi alla scadenza e poi contragga nuove obbligazioni nella consapevolezza del proprio irreversibile dissesto. Gli atti solutori sarebbero esenti dalla revocatoria ai sensi dell’art.67, 3° comma lett. a) l.fall., e i creditori dell’ultimo periodo non potrebbero aspirare alla formazione di un attivo con iniziative recuperatorie pur essendo stati dolosamente pregiudicati. E’ evidente che con l’equivoco del primato dell’economia sul diritto si corre il pericolo di incentivare l’uso della ruota di scorta della tutela penale (un autore certo non incline al furore revocatorio come S. Fortunato, La revocatoria concorsuale nei progetti di riforma, in questa Rivista, 2004, 345, lancia l’allarme affinché il corretto sostegno alle imprese in difficoltà non si traduca in occasione di fuga dalle responsabilità per i soliti

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“furbi”; nella stessa direzione, M. Costanza, La disciplina della revocatoria nelle aspettative di riforma, in questa Rivista, 2004, 457).

Favor. Il mito del primato delle ragioni dell’economia sulle ragioni del diritto è emblematicamente rappresentato , con riferimento alle soluzioni della crisi d’impresa, dalla teoria del going concern (enfatizzata da G. Santoni, I sistemi di allerta e prevenzione e le procedure anticipatorie della crisi nel progetto di riforma della legge fallimentare, in Dir.fall., 2004, I, 740) secondo la quale una impresa “in movimento” è destinata a creare molta più ricchezza di quanto possa ricavarsi da una liquidazione concorsuale (ma un sistema come quello francese, prima della riforma del 1994, nel quale il risanamento era la risposta naturale al dissesto, i creditori chirografari raccoglievano solo le briciole, in misura di circa il 5% delle loro pretese). Questa logica sottintende anche il fatto, sicuramente percepito pur se forse non del tutto dimostrato, che le mutazioni che hanno coinvolto il sistema produttivo delle imprese hanno visto degradare la concezione patrimonialistica dell’impresa per far avanzare quella fondata sulla ipervalutazione dei valori immateriali, notoriamente meno aggredibili; ciò che comporterebbe la recessività di una procedura che volesse imprimere lo stampo liquidatorio su un terreno così friabile. E’ difficile contrastare l’esattezza, più volte dimostrata, di una siffatta teoria (per una analisi matematica, L.Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, cit., 1057); il problema è dato però dal fatto che, come l’esperienza francese insegna, le imprese che vengono attratte nel circuito virtuoso della “prevenzione” o della tempestiva cura , sono poche unità al cospetto delle migliaia che accedono ad una procedura concorsuale quando non v’è più nulla né da risanare (o salvare) né da collocare sul mercato unitariamente. Per converso, se davvero il valore dell’impresa si condensa tutto nel funzionamento, in sé e per sé dell’azienda, allora non sarebbero dovuti mancare istituti di protezione sugli atti dispersivi del valore aziendale. Proprio le statistiche sulla soddisfazione (quasi infinitesimale , cfr. G.Zadra, Crisi d’impresa e nuove regole: le esigenze dell’economia, in Nuove regole per le crisi d’impresa, cit., 188) del ceto creditorio chirografario all’esito della procedura e sulla molteplicità dei fallimenti che vengono chiusi per insufficienza di attivo, dimostrano che anche nel nostro Paese, se non si muta la cultura d’impresa, non ci si può attendere effetti taumaturgici da una riforma dell’azione revocatoria, perché le tesi , sicuramente suggestive e intrise di glamour della preferenza per il risanamento o per la ristrutturazione con allocazione dell’azienda a terzi, collidono frontalmente con una realtà che segnala picchi elevatissimi di imprese che si accostano ai tribunali (o ai ministeri) quando ogni ipotesi di conservazione è puro velleitarismo o “accanimento terapeutico”.

Il favor verso le soluzioni stragiudiziali (ma che tale sia davvero il procedimento di cui all’art.182 bis l.fall. è lecito dubitare) potrebbe da un lato allentare la ritrosia dell’imprenditore ad agire con tempestività, ma al contempo, proprio perché si debbono prima costruire le fondamenta di un nuovo modo di essere imprenditori, è difficile pensare che l’imprenditore voglia rinunciare al governo della sua impresa prima di avere tentato tutte le vie endogene di soluzione della crisi; in tale contesto una – prudente – apertura verso forme di co-gestione della crisi da parte dei creditori, pur nel rispetto dei principi costituzionali di cui agli artt.41 e 42 cost., è forse divenuta ineludibile (per simili valutazioni, M. Sandulli, Le soluzioni stragiudiziali per la composizione della crisi d’impresa, in La “riforma urgente” del diritto fallimentare e le banche, a cura di S. Bonfatti e G. Falcone, Milano, 2003, 249; P. Schlesinger, Proposta per una nuova procedura concordataria di soluzione

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di crisi aziendali, in Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, cit., 20); certo è che in assenza di uno statuto che renda estremamente conveniente per l’imprenditore la esternalizzazione del proprio stato di crisi, l’emersione tempestiva può oggi essere garantita (o solo favorita) con il presidio di norme sanzionatorie.

Gradimento. Se il miraggio del risanamento e della ristrutturazione coinvolgono ben poche imprese (un altro segnale in questa direzione è marcato da quanto sta accadendo nell’ambito delle procedure di amministrazione straordinaria che stanno evolvendo quasi tutte verso le forme di cui all’art.27, comma 2° lett.a; dalla consultazione della pagina web http://www.minindustria.it/pdf_upload/documenti/phpOGrG81.pdf effettuata in data 4 aprile 2005, a parte la Parmalat, solo in un caso è stato avviato il programma di ristrutturazione), posto che non solo è opportuno ma è anche doveroso che gli strumenti di conservazione dei valori residui dell’impresa vengano adeguatamente irrobustiti ed intensificati, un legislatore attento deve prenderne atto per realizzare una rete di regole che pongano in primo piano la volontà dei creditori che divengono i veri titolari dell’impresa quando la stessa entra in uno stato di crisi. Devono essere i creditori ( se si crede che un liberismo non ottuso del mercato sia più proficuo di un dirigismo pubblico) a stabilire se è preferibile la conservazione (in senso lato, ivi compresa la ristrutturazione in funzione del ricollocamento a terzi) dell’impresa ovvero se i valori residui siano tali da rendere antieconomica la presenza sul mercato e dunque più vantaggiosa la liquidazione del patrimonio (magari condotta in forma “intelligente” ma pur sempre in un’ottica liquidatoria; F.D’Alessandro, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e “accanimenti terapeutici”, cit., 34 ricorda come la liquidazione dell’azienda debba essere preferita solo se consente un ricavato maggiore di quello ritraibile dalla alienazione dei singoli cespiti,). Qualora dovesse legittimamente prevalere la logica liquidatoria non v’è ragione di negare l’applicazione dei principi della liquidazione concorsuale , uno dei quali dovrebbe restare quello della par condicio creditorum il cui presidio è costituito, anche , dalla visione della revocatoria come mezzo di socializzazione del rischio d’impresa per effetto di una redistribuzione degli “utili” secondo le logiche del divieto del patto leonino (art.2265 c.c.). In sostanza, al cospetto di una soluzione di going concern che però sia stata condivisa dai creditori (con tutte le cautele possibili sul fronte della composizione delle maggioranze, in modo da contemperare le posizioni dei creditori aderenti con quelle dei dissenzienti senza che possano prevalere condotte ostruzionistiche) è coerente che vi sia una espansione dell’area di esenzione dalla revocatoria proprio al fine di consentire tutte le manovre necessarie al successo dell’operazione (con effetto di resistenza in caso di successivo fallimento). Diversamente, se questo consenso non si forma e l’impresa si avvia verso la china della liquidazione, la costruzione di un regime di esonero diviene non più un mezzo al fine di sostenere l’impresa ma una mera condizione di esonero dal concorso che per essere giustificata deve trovare una sponda nei principi costituzionali se non si vuole alterare il precetto di cui all’art.3 cost. (G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, cit., 72 ); in questo senso, una eliminazione o una residualizzazione della revocatoria come già accade nell’amministrazione straordinaria, è coerente con la spinta verso la conservazione del valore residuo dell’impresa (art.49 d.lgs. n.270 del 1999, cfr., S. Pacchi Pesucci, L’azione revocatoria fallimentare nelle prospettive di riforma, cit., 73), ma terminata l’inerzia conservativa, devono riemergere regole che trovano il fondamento in principi costituzionali solidaristici.

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Secondo questa lettura mentre possono essere astrattamente condivise le esenzioni di cui all’art.67 l.fall. 3° comma lett.e) e g), purché formulate con una tecnica normativa diversa, tale da assicurare che siano i creditori (e non il debitore o un terzo come invece sembra capitare nella previsione di cui alla lett.d, quanto meno nell’ipotesi in cui la società in crisi sia una s.r.l. - visto che se la società è una s.p.a. in ordine alla quale la relazione dell’esperto, nominato dal tribunale, è assistita dalle garanzie civili e penali di cui all’art.64 c.p.c. e conseguenti rinvii - salvo voler accreditare la tesi, possibile, che il richiamo contenuto nell’art.2501 bis all’art.2501 sexies c.c. sia “mobile”) a esprimere il gradimento se coltivare iniziative concordate di soluzione della crisi ovvero se prediligere la soluzione liquidatoria, le altre esenzioni possono risultare giustificate soltanto se allineate ai precetti costituzionali o se fondate su una concezione della revocatoria diversa da quella sino ad ora prevalentemente praticata.

Hard . La struttura dell’art.67 l.fall. è rimasta apparentemente immutata, nel senso che nel 1° e nel 2° comma vengono disciplinate le fattispecie per le quali si applica l’azione revocatoria, mentre i commi successivi sono destinati a regolare le cause di esenzione. In verità, ad una prima lettura, la pervasività delle cause di esenzione “oggettiva” dall’azione revocatoria sembra così imponente da suggerire una interpretazione rovesciata quasi che la regola fossero le esenzioni e l’eccezione i casi per i quali l’istituto trova residua applicazione. Una lettura così impulsiva (quasi hard) va sicuramente rifiutata sia perché nella costruzione della norma è rimasta inalterata la scansione dei commi, sia perché le stesse esenzioni (peraltro in parte collocate anche nell’art.70 l.fall.) vanno necessariamente collegate alle fattispecie di cui al 1° e al 2° comma. Da questo punto di vista, dunque, la distinzione fra regola ed eccezione va mantenuta secondo l’interpretazione tradizionale, anche se la profondità della lesione inferta alla funzione della revocatoria, deve indurre a valutare se il legislatore non abbia imboccato la via del ritorno alla teoria indennitaria che negli anni più recenti è riemersa prepotentemente anche alla luce di effetti distorsivi e quasi perversi connessi alle iniziative promosse, determinati spesso dalla mancanza di sufficiente chiarezza sulla normativa civilistica di contorno (B. Inzitari, L’effetto della revocatoria fallimentare sulle categorie civilistiche, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 268).

Indennitaria. Proprio una certa insistenza della letteratura verso il ritorno alla teoria indennitaria (G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, cit., 127; E. Granata, Dalla “miniriforma” alla “riforma” della legge fallimentare: le istanze del sistema bancario, in La “riforma urgente” del diritto fallimentare e le banche, cit., 238; G.U.Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 345; A.Bregoli, Effetti e natura della revocatoria, Milano, 2001, 76) e dunque per un più sensibile riaccostamento alla actio pauliana poteva lasciare intendere una virata del legislatore verso la tesi che vuole ancorare l’inefficacia di un atto o di un pagamento alla incisione sul patrimonio del debitore, così da far riemergere il profilo del danno, evocato nella rubrica della Sezione III (del capo III) della legge fallimentare (questa è stata la scelta del legislatore spagnolo, pur se, una volta provato il pregiudizio, l’unica causa di esenzione è costituita da <<las operaciones

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ordinarias del tràfico a que se dedicara el deuor sempre que se realizaran en condiciones normales>>). Ebbene, nessuna delle ipotesi di esonero dalla revocatoria sembra conformarsi al principio per il quale l’atto non è revocabile perché non è dannoso, salvo voler assumere, come esclusione di effetto pregiudizievole, il fatto che un determinato atto perché compiuto in relazione alla esecuzione di un piano (lett.d) dell’art.67, 3° comma, l.fall.) sarebbe per definizione non dannoso a fronte del beneficio collettivo costituito dalla apertura della procedura concordata. E’ evidente che l’esenzione dalla revocatoria è qui giustificata dalla preferenza per la scelta di sostenere l’impresa in crisi e non per la natura non pregiudizievole al patrimonio dell’impresa, posto che l’atto in sé pur potendo risultare depauperatorio resterebbe esonerato dalla revocatoria in quanto funzionale all’esecuzione del piano. La stessa previsione di cui all’art.70 3° comma l.fall., laddove si stabilisce che nei rapporti continuativi il terzo deve restituire solo la differenza fra il picco massimo raggiunto dal credito e quello finale, più che armonica con la teoria indennitaria sembra partorita da un rispettabile intento equitativo volto a piegare la giurisprudenza tradizionalmente insensibile a questa opzione interpretativa (si vedano le opposte soluzioni di Cass., 8 aprile 2004, n.6943 e App. Firenze, 28 gennaio 2004, entrambe in Foro it., 2004, I, 1714). Che la teoria indennitaria nella sua astratta concezione non sia penetrata nella riforma lo si ricava dal fatto, modesto in sé, ma dalla valenza importante, che il Governo ha omesso di inserire fra le cause di esenzione, gli atti e i pagamenti che rappresentano una prestazione del debitore a fronte della quale sia stata acquisita contestualmente al suo patrimonio una controprestazione di eguale valore (è questa una disposizione che trova eco nel § 142 della InsolvezOrdnung con il corollario della deroga alla esenzione se vi è stato un intento di danneggiare altri creditori e che costituisce, proprio l’emblema indennitario secondo A. Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria fallimentare, Padova, 1970, 275). Questa scelta apprezzabilmente coerente in una ottica sistematica, è però tradita dal coevo rifiuto di far propria al contempo tutta la portata della opposta teoria antindennitaria svilita dalla pluralità delle cause di esenzione che di fatto smentiscono la volontà di ridistribuire le perdite fra una collettività di creditori più ampia di quella esistente al momento della dichiarazione di fallimento (cfr., E.Gallesio-Piuma, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, parte speciale, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 2000, 156 secondo la quale il rifiuto per la revocatoria si autoalimenta anche in relazione all’esubero di cause di esenzione).

Lavoratori. Le esenzioni come spesso si è precisato in occasione delle censure mosse alle leggi speciali richiamate nell’art.67 3° comma (vecchio testo) l.fall., sono state giustificate in relazione alla peculiarità soggettiva del titolare del credito con una specifica attenzione ai valori costituzionali (ex multis, Cass., 13 agosto 1999, n. 8634, in questa Rivista, 2000, 429 a proposito della eccezionalità del regime di esenzione). Verosimilmente il Governo non ha misconosciuto tale rilievo quando ha previsto che l’esonero competa anche a soggetti deboli quali sono i lavoratori, sostituendo con una disposizione di legge quell’orientamento interpretativo secondo il quale la revoca di pagamenti effettuati a favore di creditori privilegiati dovesse arrestarsi , per difetto di interesse ad agire – ogniqualvolta vi fosse capienza nell’attivo per la loro soddisfazione (Cass., 28 aprile 1981, n. 2559, in Giur. it., 1982, I, 1, 356 ).

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L’apparente favore per la classe dei lavoratori (fermo restando l’assoluta vaghezza del termine <<altri collaboratori>> che lascia margini di opinabilità assai estesi) viene immediatamente mitigato ove si consideri che la norma stabilisce una esenzione tout court, del tutto avulsa dalla posizione assunta da altri creditori di pari grado, sì che non consentire la redistribuzione delle risorse pare un effetto ben più grave perché diffuso fra una comunità di più persone, di quello di garantire al creditore la conservazione della somma percepita, in violazione non solo dell’art.3 ma anche dell’art.2 cost. Infatti rispetto ad altri progetti non è stata neppure inserita una clausola generale di chiusura quale avrebbe potuto essere la necessità di individuare il pregiudizio per i creditori, anche dalla accresciuta difficoltà di soddisfacimento (F.S.Martorano, La revocatoria dei conferimenti in società di capitali, Milano, 2000, 154, osserva che il concetto da assumere quale presupposto funzionale della revoca dell’atto è la dannosità, ma la valutazione delle conseguenze va improntata all’esigenza di garantire un’equa ripartizione della perdita subita).

Mosaico. Poiché il Governo non ha sposato la teoria indennitaria né ha tratto le conseguenze dalla adesione alla teoria antindennitaria (ex multis, Cass., 14 novembre 2003, n. 17189, in questa Rivista, 2004, 449), l’interprete alla ricerca del fil rouge che dia luce all’intero art.67 l.fall., deve rilevare come il tratto qualificante che permea l’intero impianto è rimasto quello della frode da intendersi come “compartecipazione soggettiva degli effetti lesivi di un atto”. Gli atti e i pagamenti non sono revocabili perché hanno pregiudicato la consistenza patrimoniale (è evidente che la revoca dei pagamenti anomali non è affatto prova del pregiudizio ma è fonte di prova presuntiva sulla conoscenza dello stato di insolvenza) , ma lo sono in quanto siano stati posti in essere con un terzo consapevole; così la stessa revoca di un atto sproporzionato (fattispecie emblematica di pregiudizio patrimoniale puro) non viene disposta automaticamente perché il terzo può dimostrare la sua inscientia decoctionis , a conferma del fatto che per gli atti a titolo oneroso il profilo della frode, come sopra descritta (in sostanza equipollente alla consapevolezza di essersi avvantaggiati rispetto ai concorrenti), è decisamente quello che prevale ; questa lettura risulta poi sintonica anche con la struttura dell’actio pauliana dal momento che l’atto asseritamene pregiudizievole viene ricostituito nella garanzia patrimoniale del creditore insoddisfatto soltanto se sussiste la partecipatio fraudis (sul tema E. Lucchini Guastalla, Danno e frode nella revocatoria ordinaria, Milano, 1995, 268). Ecco, allora, che se il disvalore dell’atto come tale qualificato soggettivamente si rivela la trave portante della revocatoria restaurata in un mosaico di tasselli disarmonici, è nella condotta delle parti che vanno ricercati gli strumenti per riequilibrare un sistema pencolante.

Nullità. In questa cornice, certo non allettante, per i creditori insoddisfatti, l’espunzione del principio di parità di trattamento dall’alveo dell’azione revocatoria non può essere tollerato, con particolare riferimento alle ipotesi di cui alle lett.a) ed f) del 3° comma dell’art.67 l.fall. Ma se si vuole credere nella rilevanza costituzionale della par condicio, quando non derogata da altri valori meritevoli di tutela nella carta fondamentale, perché espressione del principio di solidarietà sociale e di eguaglianza sostanziale e non si vuole deflettere dal bisogno di assicurare tutela, la spinta verso l’area di esenzione dall’azione revocatoria

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intercetta una controspinta verso l’area della tutela penale. Il legislatore secondo una nobile tradizione civilistica ha rifiutato la concezione della revocatoria come illecito (pur se tale visione è stata occasionalmente contraddetta dai giudici in riferimento a capi accessori delle pronunce di accoglimento delle domande revocatorie; cfr., Cass., 4 aprile 1997, n. 2936, in questa Rivista, 1998, 32; Cass., 14 febbraio 1997, n. 1411, in questa Rivista, 1998, 17), ma non ha negato che la situazione sostanziale deducibile “in revocatoria” potesse rappresentare anche una concorrente violazione di norme imperative per effetto della violazione proprio del principio di pari trattamento il cui presidio è rappresentato dall’art.216 3° comma l.fall. (sui rapporti fra azione revocatoria e bancarotta fraudolenta “preferenziale”, Cass., 17 gennaio 1983, Minozzi, in Riv. pen., 1984, 729; nel senso che revocatoria e bancarotta preferenziale sono due cerchi che possono sovrapporsi o solo intersecarsi C.Pedrazzi(-F.Sgubbi), Reati commessi dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1995, 122). Se in un sistema articolato nel quale la sanzione di inefficacia è sufficiente per garantire i diritti dei creditori pretermessi dai pagamenti effettuati dall’insolvente (cfr., G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, cit., 132 ad avviso del quale la teoria indennitaria non si sovrappone alla logica risarcitoria atteso che le azioni revocatorie vanno ascritte al modello delle impugnative), in un sistema privo di questi meccanismi di riequilibrio, appare evidente che occorre recuperare altrove strumenti di tutela secondo una logica sanzionatoria-risarcitoria (per equivalente con restituzione di somme di denaro ma al prezzo di un debito di valore) che non può che essere quella dell’illecito civile sottostante l’illecito penale.

In questo senso, se la frode connota tutte le ipotesi di cui all’art.67 l.fall. è corretto ritenere che la sanzione di nullità (invocabile anche per i pagamenti per effetto della clausola di cui all’art.1324 c.c.) debba colpire i pagamenti e gli atti compiuti allo scopo di favorire un terzo in danno degli altri creditori con la partecipazione consapevole del terzo, da valutarsi alla stregua della conoscenza del criterio di preferenza (Cass., 22 aprile 1981, Bura, in Giust. pen., 1983, II, 25; contra, C.Pedrazzi(-F.Sgubbi), Reati commessi dal fallito, cit., 133). Rispetto alla tradizione del nostro ordinamento questa soluzione appare quasi eversiva, ma tale non è, ad una più compiuta indagine, se si osserva che una soluzione simile era stata già suggerita nel testo del d.d.l. presentato dal Gruppo parlamentare dei D.S. nel corso della precedente e della attuale legislatura (ribadito nell’art.7, comma 5°; cfr. anche Giu.Tarzia, la revocatoria dei pagamenti nei progetti di riforma delle procedure concorsuali, in Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, cit., 212 ); previsione di nullità che compariva anche nella abrogata legge spagnola e che appare in sintonia con le regole in tema di preference nell’ordinamento inglese e in quello statunitense (sul rilievo di rimedio alla par condicio, cfr. R.Mangano, La revocatoria fallimentare negli Stati Uniti d’America, in Riv.dir.comm., 2002, I, 751; S. Ambrosiani, Gestione ordinaria e revocatoria: un nodo irrisolto dei recenti progetti di riforma, in Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, cit., 294 osserva che il sistema inglese è fortemente differenziato dal nostro – ma può comunque essere importato se si vuole non demolire la ratio costituzionale della par condicio -; sulla necessità di non alimentare flessioni recuperatorie di fronte ad atti volutamente preferenziali, v. A. Jorio, La <<funzione>> della revocatoria: la disciplina italiana nel contesto europeo, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 27).

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Ostacolo. La disamina delle tecnicalità del provvedimento emanato dal Governo non è meno critica, per quanto, soffermando l’attenzione essenzialmente sui precetti di cui al 1° e al 2° comma art.67 l.fall., le modifiche apportate siano meno demolitive. Il dato che accomuna 1° e 2° comma è rappresentato dalla dimidiazione del termine del periodo sospetto, posto che dal biennio si passa all’anno e dall’anno al semestre. Ma se l’opzione di ridurre la durata del periodo sospetto, la cui lunghezza poteva costituire un ostacolo alla stabilità dei traffici giuridici, era comunemente sentita con riguardo ad atti e pagamenti normali, assai meno condivisa era l’idea di troncare il periodo sospetto anche per gli atti sproporzionati quelli che addirittura risultano lesivi della garanzia patrimoniale specifica e che sono manifestazione di un danno al patrimonio dell’impresa. Se, su altri versanti il Governo ha voluto modellare le riforme su istituti o tradizioni presenti in altri Paesi, così non è accaduto per questa particolare forma di revocatoria che altrove è soggetta all’azione di inefficacia con margini di tempo superiori all’anno. E’ evidente, allora, che se non si vorrà consegnare l’atto pregiudizievole alla sola parte beneficiaria, il curatore dovrà utilizzare lo strumento dell’actio pauliana che nel d.d.l. collegato non è stato modificato (salvo che per l’introduzione dell’espressione <<sono revocati>> in luogo di <<dichiarati inefficaci>> che non si comprende a quale logica corrisponda visto che diviene disarmonica con quella di cui all’art.2901 c.c. e certo non può voler significare che l’azione revocatoria ordinaria ha natura costitutiva perché questa era e resta una delle poche certezze che l’ordinamento concorsuale conosce), con la conseguenza che si porranno tutti quei problemi di coordinamento che la dottrina e la giurisprudenza – dopo un lungo letargo – hanno posto in luce e che possono divenire ancor più attuali (App. Bari, 28 aprile 2004, in Corriere giur., 2005, 395; Trib. Milano, 30 gennaio 2000, in questa Rivista, 2001, 323; C.Consolo-M.Montanari, La revocatoria ordinaria nel fallimento e le questioni di prescrizione, cit., 398; in particolare vanno considerate attuali le critiche alla perdita di legittimazione del singolo creditore ) , considerata la demolizione della par condicio creditorum. Pur tuttavia, al cospetto di un atto pregiudizievole per il quale sussistano i presupposti di cui all’art.2901 c.c., l’indebolimento dell’azione revocatoria fallimentare dovrebbe provocare un ampliamento dei casi di applicazione della revocatoria ordinaria.

Procedura preventiva. Sempre per restare alla questione della riduzione dei termini, va osservato che il Governo, pur interessato a recepire alcune costruzioni dogmatiche volte ad ammorbidire numerose fattispecie di revocatoria non ha minimamente considerato che da parte di quella dottrina era stata avanzata la preoccupazione di non flettere la tensione su atti potenzialmente lesivi compiuti con parti “correlate” (secondo il modello tedesco, cfr., § 138 InsolvenzOrdnung); ma di revocatoria aggravata non si parla né nel decreto legge, né nel d.d.l. collegato; così lo sbilanciamento tutto rivolto alla formazione di aree di esenzione ha provocato un allentamento della tensione revocatoria anche al cospetto di atti decisamente pregiudizievoli (si veda l’art.91 del d.lgs. 8 luglio 1999, n.270 in tema di amministrazione straordinaria), in netta controtendenza rispetto al modello tedesco che pure ha visto assottigliato il periodo sospetto (cfr. § 133 InsolvezOrdnung). Poiché l’art.67 l.fall. si applica anche alle procedure di amministrazione straordinaria per effetto del rinvio di cui all’art.49 del d.lgs. n.270 del 1999 – estensibile alle imprese di cui al d.l. 23 dicembre 2003 n.347 e successive modificazioni - , ne consegue che risulta assai sproporzionato, ed a questo punto irragionevole, il periodo sospetto per le

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revocatorie aggravate di cui all’art.91 del d.lgs. n.270 del 1999 che è divenuto il quintuplo delle revocatorie “normali”. Nel d.l. n.35 del 2005, nonostante si sia declamata l’intenzione di favorire la stabilità degli atti, non si è composta alcuna norma sul termine di prescrizione; solo nel d.d.l. collegato si è inserita (sub art.71 l.fall. di nuovo conio) una previsione del tutto nuova e cioè quella della decadenza quinquennale dal compimento dell’atto revocabile. Come si è già anticipato la scelta può trovare una ragionevole spiegazione nella volontà di aggirare la regola di cui all’art.2935 c.c., opzione allineata alla concezione dell’azione revocatoria come azione tipicamente costitutiva derivante dall’esercizio di un diritto potestativo più volte ribadita negli ultimi anni anche dal giudice di legittimità (Cass., sez. un., 15 giugno 2000, n. 437, in Foro it., 2000, I, 2724 ). La scelta di inserire un termine di decadenza si può anche spiegare con l’esigenza di fissare un termine certo di instabilità dell’atto pur quando alla procedura di fallimento si pervenga dopo l’esaurimento di una (o più se dovesse resistere l’istituto della amministrazione controllata) procedura “minore” precedente. Questa decisione appare in sé condivisibile, pur se andrà considerata dai creditori quando dovessero trovarsi ad esprimere una preferenza sulla procedura di concordato preventivo, posto che è verosimile che in queste situazioni il termine della decadenza venga quasi integralmente assorbito dalla durata della procedura preventiva.

Quantificazione. Per ciò che attiene alla modifica dell’art.67, 1° comma n.1) l.fall., va osservato che l’Esecutivo ha voluto stabilire un criterio di maggiore certezza sulle dimensioni quantitative della sproporzione fissandola nella misura del 25%. Questa misura non è stata indicata a caso visto che coincide con quella che si era affermata, nella prevalenza dei casi, nella giurisprudenza pretoria (Trib. S. M. Capua Vetere, 26 ottobre 1991, in Dir. fall., 1992, II, 1121; Trib. Milano, 9 ottobre 1986, in Dir. fall., 1986, II, 858 ), atteso che il giudice di legittimità, salvo qualche risalente precedente (Cass., 30 maggio 1962, n.1323, in Foro it., 1962, I, 2023 ), non si è mai voluto addentrare nel merito della questione (fra le tante, Cass., 11 giugno 2004, n.11083, in questa Rivista, 2004, 1279). In tale cornice una scelta di questo tenore (già percorsa dal legislatore ad esempio con riferimento all’azione di rescissione) non può essere censurata, pur se resta da chiedersi se la scelta sia anche felice oppure se l’introduzione di una soglia rigida non si presti a decisioni inesatte sia per eccesso che per difetto; infatti è difficile negare che per l’alienazione di beni per i quali il prezzo è segnato da listini, più o meno ufficiali (si pensi ad una partita d’oro), anche uno scostamento del 10/15 % può rivelarsi sproporzionato; mentre, per converso, rispetto a contratti para-aleatori, anche una differenza di prezzo del 30% può apparire giustificata. Ed ancora bisogna interrogarsi sulla relazione che corre fra l’art.67 1° comma n.1 e l’art.67 3° comma lett.c) l.fall. e cioè se il prezzo non sproporzionato di cui alla prima disposizione equivalga al giusto prezzo della seconda , ovvero se non esista una zona grigia rappresentata da un prezzo che si scosta da quello giusto ma in misura inferiore al 25%. Il prezzo è giusto (se si vuole ricordare il refrain di una nota trasmissione televisiva) se corrisponde a quello di listino o di mercato e quindi se il prezzo di listino o di mercato è determinato in una misura fissa, non si può neppure ipotizzare una tolleranza; visto che la norma di cui alla lett.c) non vuole solo rappresentare una forma di esenzione ma anche una valvola di affidamento per una peculiare tipologia di “creditore”, cioè di colui che

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vantava un diritto alla casa, faticosamente conquistato, e che deve essere tutelato per la sua posizione di parte debole, come è testimoniato dal faticoso cammino dell’iter parlamentare della legge delega prima e del decreto legislativo poi , certo non favorito dal ceto bancario timoroso di perdere le garanzie del proprio credito.

Ora - a parte il singolare ingorgo normativo rappresentato dal fatto che la previsione di cui alla lett.c) si sovrappone all’art. 9 del d.lgs in itinere in attuazione della legge delega n.210 del 2004, sì che, trattandosi di due norme sicuramente omogenee ma non perfettamente speculari se non si elide l’aporia dei tratti distintivi, l’art.67 l.fall. riformato rischia di restare in vigore per poche settimane, sino alla promulgazione del decreto legislativo per poi forse ritornare vigente all’esito della legge di conversione - se l’interprete volesse assecondare la volontà del legislatore di assegnare una priorità selettiva al valore costituzionale del diritto alla “prima casa” (che si può raccogliere dall’insieme degli art.2, 31, 42 cost.) , dovrebbe accreditare una lettura meno rigida della norma in modo che la formula <<giusto prezzo>> non si riveli un cappio attorno al collo del piccolo neo-proprietario.

In particolare mentre va sicuramente sottoscritta, in quest’ottica di tutela del “diritto alla casa”, la scelta (prevista nello schema di d.lgs.) di retrodatare la valutazione della congruità del prezzo al momento della stipulazione del contratto preliminare (purché vi siano garanzie sulla anteriorità dello stesso al fallimento; cfr., già in questo senso M. Fabiani, Nuove aspettative di tutela per i promissari acquirenti coinvolti nel fallimento dell’impresa costruttrice in una recente legge delega, in Foro it., 2004, I, 2849) visto che la giurisprudenza sulla base di un diverso tessuto normativo non poteva che adottare l’opposta soluzione assai più rigorosa ( Cass., 30 marzo 1994, n.3165, in questa Rivista, 1994, 1036; per la consimile ipotesi dell’opzione, Cass., 10 ottobre 2003, n. 15142, in Foro it., 2004, I, 3163 ), i margini di interpretazione sulla formula del <<giusto prezzo>> paiono ben più risicati, talché in una proiezione propositiva, posto che ben difficilmente per determinare il giusto prezzo si potrà prescindere da una consulenza tecnica, ci si deve attendere che muti la consuetudine della redazione delle relazioni peritali e che per giusto prezzo venga quantificato un range per favorire una certa tolleranza.

Ciò posto, alla risposta al quesito se esista una zona grigia, occorre fornire una risposta positiva nel senso che il prezzo non giusto non per questo è sproporzionato; la conseguenza in termini di lettura dell’art.67 l.fall. è che se il prezzo è giusto ricorre una ipotesi di esenzione dalla revocatoria; se il prezzo è sproporzionato in misura superiore al quarto opera la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza; se il prezzo è sproporzionato ma in misura inferiore, l’atto è revocabile ma l’onere della prova sulla scientia decoctionis grava sul curatore.

Regolarità. Analoghe questioni, tutto sommato, si pongono anche in relazione alla previsione di cui all’art.67, 1° comma n.2 l.fall. che è stato modificato solo nella parte in cui è fissata la durata del periodo sospetto, ridotta ad un anno.

Peraltro la previsione della revoca infrannuale per i pagamenti anomali va confrontata con l’esenzione di cui alla lett.a), secondo la quale non sono assoggettati ad azione revocatoria << i pagamenti effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso>>.

Questa esenzione disposta per i soli atti solutori (e non per altre tipologie di atti unilaterali o negoziali, sì che questa fattispecie deve essere tenuta ben distinta da quella che in progetti preliminari era stata proposta come riferita al compimento di atti coerenti

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con la gestione dell’impresa) compiuti nell’esercizio dell’attività economica (espressione che verosimilmente ripropone il dilemma se l’attività di liquidazione possa considerarsi ancora attività d’impresa; v., Cass., 13 dicembre 2000, n. 15716, in Dir. e pratica società, 2001, fasc. 14, 86) fa riferimento ai <<termini d’uso>>, formula di cui già si è censurata la vaghezza.

In questa cornice sembra persistere un’area grigia alla quale appartengono atti estintivi del debito che pur effettuati con i normali mezzi di pagamento (e quindi sottratti al regime presuntivo di cui all’art.67 1° comma n.2 l.fall), nondimeno non essendo stati effettuati <<nei termini d’uso>> (perché ad esempio eseguiti dopo la scadenza), rientrano nel regime generale di cui all’art.67, 2° comma l.fall.

Resta una nozione di anomalia nella tecnica di pagamento (denaro o altri mezzi normali di pagamento) che appare ancorata ad una concezione arcaica delle transazioni commerciali e poco incline a valutare come in una visione evolutiva dei traffici, altre forme di pagamento, perlomeno in taluni segmenti di mercato, siano divenute assolutamente consuete (basti pensare alle cessioni di credito nel campo degli appalti pubblici) e ben poco sintomatiche della conoscenza dello stato di insolvenza (sui risvolti della cessione di credito in funzione solutoria, Cass., 23 aprile 2002, n. 5917, in questa Rivista, 2003, 56). In tale prospettiva non sarebbe stato inutile inserire una formula che allineasse la nozione di normalità o regolarità alla peculiarità della fonte di insorgenza del credito.

Sintesi. Una riforma dell’azione revocatoria che avesse davvero voluto ispirarsi ai principi della certezza e della stabilità, non avrebbe dovuto declinare il compito di risolvere diverse questioni di diritto sostanziale e di diritto processuale che si ripropongono costantemente nei processi per le revocatorie.

Infatti, allo scopo di rendere più certi i confini dell’azione revocatoria in funzione di disincentivare azioni border line o, ancor più, giudizi di impugnazione che provocano l’insostenibile ritardo nella chiusura delle procedure, un legislatore attento aveva il dovere di affrontare e risolvere molte quelle questioni che sono rimaste controverse a dispetto di un impianto strutturale sul quale gli indirizzi della giurisprudenza si sono invece consolidati.

Così, solo per offrire qualche esempio, fra le questioni di natura sostanziale (quelle che in altri progetti di riforma erano state puntigliosamente enucleate) che sono state trascurate possono venire indicate quelle in materia di decorrenza del debito per interessi, quelle di determinazione del tantundem laddove non siano restituibili le cose attribuite al terzo , quelle attinenti agli effetti della proposizione della domanda nei confronti dei subacquirenti ( Cass., 11 giugno 2004, n.11083, in Foro it., 2004, I, 2711; A. Patti, Alcune riflessioni in materia di revocatoria fallimentare nei confronti del terzo subacquirente, in questa Rivista, 2005, 326 ), nonché più in generale quelle in tema di parificazione degli atti ai comportamenti omissivi del debitore (cfr., § 129, 132 InsolvenzOrdnung).

Ed ancora, il Governo ha ritenuto di non spendere neppure una parola sulla scientia decoctionis, nonostante che agire su questa leva avrebbe potuto determinare effetti di depotenziamento straordinari, atteso che la nozione è così labile da aver determinato nell’arco del solo ultimo quarto di secolo circa 500 decisioni edite.

Per ciò che concerne il versante processuale non si sono affrontati i temi della legittimazione nel caso di fallimenti di soci per ripercussione (gli attuali artt.147 e 148 l.fall.) , il tema della possibile legittimazione surrogatoria dei creditori (art.72 ley 9 luglio 2003, n.22), il tema della provvisoria esecutorietà della sentenza non passata in giudicato

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nonché quello più delicato, perché meno esplorato, della disponibilità delle somme provvisoriamente percepite a seguito di una pronuncia di accoglimento della domanda non passata in giudicato (v. Giu.Tarzia, Limiti funzionali della revocatoria fallimentare, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 70 ; M.Fabiani, La gestione dei beni ricavati da azioni revocatorie, in questa Rivista, 2003, 1089).

Consapevolmente il Governo ha dunque rinunciato ad operare una sintesi delle molte questioni controverse, ma questa scelta di self restraint si rivela contraddittoria rispetto all’obiettivo della accelerazione delle controversie.

Titubanza. Nel decreto legge non è contenuta alcuna misura di natura processuale; l’unica è, invece, inserita nel d.d.l. collegato e riguarda l’estensione alle controversie di cui all’art.24 l.fall. del rito del processo di cognizione di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n.5 e successive modificazioni, quello che è dunque destinato a divenire il rito per le controversie d’impresa visto che oltre alle liti societarie ad esso sono già sottoposti giudizi in materia di proprietà industriale. In una stesura precedente a quella definitiva, la revisione dell’art.24 l.fall. era invece stata inserita, sì che vi sarebbe da chiedersi se l’averla elisa all’ultimo momento sia stata una dimostrazione di titubanza sulla effettività della scelta processuale o se la regola processuale sia stata ritenuta comunque subvalente rispetto alle altre riforme.

Senza voler qui entrare nell’agone della polemica ideologica sul modello processuale adottato dal legislatore nel 2003, l’idoneità di quel modello a favorire la celere definizione del processo è ancora tutta da dimostrare; piuttosto va segnalato che mentre quel tipo di processo di cognizione poteva avere un senso perché risultava quasi residuale rispetto ad altre tipologie procedimentali pur innestate nel medesimo contesto normativo (si pensi al processo cautelare svincolato dal merito, al procedimento sommario ed a quello camerale, il tutto condito dall’ambizione di voler favorire il ricorso all’arbitrato) , la stessa formula implementata nell’ambiente concorsuale ma privata dei processi alternativi di supporto, non appare ben calibrata.

In particolare lasciano perplessi sia la mancata previsione della misura cautelare autonoma che appare fortemente condivisa in letteratura, così come non si è pensato che un procedimento sommario adattato alle cause revocatorie per pagamenti, avrebbe potuto alleggerire il peso del giudizio ordinario e svolgere una opportuna efficacia deflattiva (cfr., invece, l’art.78 dello schema di d.d.l. elaborato dalla “Commissione Trevisanato”, in questa Rivista, 2004, allegato al fascicolo 8).

Uguali. Ma anche sul fronte degli effetti della revocazione (questa espressione contenuta nella rubrica dell’art.71 l.fall. che in passato era ai più sembrata atecnica non è stata variata) , le novità che si segnalano appaiono al momento una emblematica manifestazione della fretta con la quale si è voluto legiferare inserendo norme di diritto fallimentare prelevate da una certa collocazione (il c.d. maxi-emendamento presentato dal Governo nel dicembre 2004 per l’innesto nel d.d.l. n.1243/S) in un testo disarmonico (una specie di decreto legge omnibus) nel quale all’evidenza lo spazio dedicato alla disciplina fallimentare non doveva occupare più di qualche articolo.

Il Governo ha infatti riscritto l’art.70 l.fall. sostituendo alla disciplina della presunzione muciana, una disciplina sulla esenzione dalla revoca per alcune operazioni bancarie (le ennesime esimenti additive oltre a quelle di cui all’art.67, 3° comma l.fall.) e

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sugli effetti conseguenti all’accoglimento della domanda revocatoria; in verità non si è fatto che traslare il testo contenuto nell’art.71 l.fall. (<< colui che per effetto della revoca prevista nelle disposizioni precedenti ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito >>) nell’art.70, 2° comma l.fall. (di nuovo conio) , senza avvedersi che l’art.71 l.fall. non veniva abrogato (come invece si prevedeva nel maxi-emendamento, laddove l’art.71 era destinato ad inglobare la norma sulla decadenza). Il risultato paradossale è che la stessa norma compare in due articoli successivi, sì che se non si provvederà a correggere l’errore in sede di conversione, ad un interprete sagace potrebbe venire in mente che il creditore revocato abbia diritto ad insinuare il proprio credito da restituzione allo stato passivo, per due volte. Per le medesime considerazioni desta perplessità l’aver voluto ribadire, nel 3° comma dell’art.70 l.fall. che il creditore revocato ha diritto all’insinuazione delle somme restituite anche nella ipotesi della revoca delle rimesse, limitata alla differenza fra il massimo scoperto e il saldo finale, perché comunque si voglia costruire teoricamente questa fattispecie (qualcuno potrebbe leggerla alla luce della ratio sottesa all’art.1227 c.c.) , non v’è ragione di pensare che il creditore possa chiedere l’ammissione al passivo di un credito maggiore delle somme che ha restituito.

I nodi più spinosi che ruotavano attorno all’art.71 l.fall. sono, invece, rimasti irrisolti (G. Fauceglia, Brevi note sulle conseguenze per l’acquirente in seguito all’accoglimento di azione revocatoria fallimentare, in questa Rivista, 2004, 9249). Così, sul versante di diritto sostanziale non si è chiarito se l’ammissione al passivo del credito revocato possa essere disposta con le garanzie originarie che assistevano il credito ( in senso negativo, Cass., 15 novembre 2004, n.21585, in Corriere giur., 2005, 367; Cass., 20 dicembre 2002, n.18156, in Foro it., 2003, I, 770) ; mentre su quello processuale, non si è ritenuto di prevedere un percorso semplificato per l’insinuazione al passivo, né si è pensato di disciplinare la situazione che si verifica quando la restituzione avviene sulla base di una sentenza non passata in giudicato; né, infine si è stabilito se la restituzione a seguito di azione revocatoria costituisca esimente dal colpa da ritardo ai fini dell’art.101 l.fall. (lo esclude, Cass., 3 giugno 2004, n. 10578, in questa Rivista, 2005, 427 con nota di G.Bozza, Ritardo per causa non imputabile al creditore nell’insinuazione tardiva del credito di restituzione).

Ventaglio. Prima delle conclusioni è necessario riportare alla luce il convitato di pietra rappresentato dalla questione della revoca delle rimesse su conto corrente bancario.

Non è una questione, ma “la” questione che, a latere di un necessario ammodernamento della legge fallimentare, ha condizionato tutte le mosse di tutti coloro che si sono trovati ad occuparsi di riforma della normativa concorsuale (il “detonatore” secondo l’espressione di A. Jorio, La riforma della disciplina della revocatoria, in Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, cit., 205).

L’assalto alla diligenza contenente le casseforti delle aziende di credito è una metafora esagerata (le performances delle aziende bancarie quotate sono state pubblicate con risalto su tutti i quotidiani) ma non una vera mistificazione perché in troppe occasioni, davvero, talune iniziative sono state adottate in modo strumentale, sì che ora la riforma appare quasi una rivincita.

Che qualcosa si dovesse rivedere era, dunque, necessario. Il Governo con l’innesto di un ventaglio di almeno sei forme di esenzione ha probabilmente esagerato perché ha così dovuto scompaginare una serie di altri assetti. Il medesimo risultato di attenuare in misura significativa l’impatto revocatorio poteva però essere conseguito ponendo mano ad

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una riforma della disciplina di diritto privato nella regolazione dei rapporti banca-cliente (A. Nigro, Introduzione al tema, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 222) e ad una codificazione con specifiche demarcazioni di taluni principi giurisprudenziali volti ad attenuare le rigidità di una interpretazione divenuta insoddisfacente dopo la riforma del 1992 sui contratti bancari (S. Bonfatti, L’azione fallimentare nelle più recenti applicazioni, in La “riforma urgente” del diritto fallimentare e le banche, cit., 33 ; è sufficiente, poi, leggere M.Obermuller, esperienze di riforma in Germania, in La legislazione concorsuale in Europa, cit., 177 per avvedersi che i rapporti fallimento-banca sono conflittuali anche in Germania e che per ovviarvi sono state elaborate soluzioni interpretative di natura civilistica, per esempio in tema di “poste bilanciate”).

Zattera. L’auspicio che il Parlamento, in sede di conversione, possa rivedere la trama essenziale che pervade la filosofia del decreto legge, è destinato a non essere accolto per la semplice, ma limpida ragione che la modifica dell’azione revocatoria doveva innestarsi sulla revisione del sistema concorsuale in posizione ancillare e non rappresentare, invece la trave portante di una riforma.

E’ facile diffondere sotto la lente mediatica l’impressione che il d.l. n.35 del 2005 segni la svolta per rappresentare <<una riforma di stampo europeo>> (cfr. Il sole 24 ore, 29 marzo 2005, pag.24) , ma se si vuole davvero assolvere al ruolo di comparatisti (sui limiti di una indagine di questo tipo laddove non assistita da valutazioni sociologiche , v. G. Falcone, Trattamento normativo delle crisi e approccio comparatistico, in La legislazione concorsuale in Europa, cit., 100), si dovrebbe segnalare che in Germania, Francia e Spagna il legislatore ha percorso una strada opposta a quella italiana, varando in ogni occasione una “grande riforma”, magari assistita come è accaduto in Spagna da una riforma ordinamentale con la istituzione di giudici specializzati – gli Juzgados de lo Mercantil -(soluzione che in quanto non “a costo zero” è pervicamente osteggiata come si è dimostrato a proposito della riforma societaria; cfr., A. DONDI, Complessità ed adeguatezza nella riforma del processo societario – Spunti minimi di raffronto comparato, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2004, 155 ad avviso del quale bisogna ritornare alle primigenie idee della “Commissione Mirone” e recuperare la specializzazione del giudice cui devolvere le liti commerciali, magari implementate attorno a modelli processuali davvero coerenti con le esigenze delle imprese; F. Corsi, Relazione di sintesi, in L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, cit., 318 ).

Quanto poi alle suggestioni evocate dal Chapter 11 di matrice statunitense occorre rilevare che il Parlamento ha approvato il “Bankrupty Abuse Prevention and Consumer Protection Act of 2005” (un atto che contiene alcune centinaia di emendamenti al United States Code e al Chapter 11 in particolare) che segna una inversione di tendenza rispetto all’anima liberista della normativa precedente, come, a proposito delle azioni latamente revocatorie, si ricava dal S.1402 (<<fraudolent transfers and obligations >>).

Ciò che ancora una volta sembra latitare nel legislatore nazionale è il senso dell’equilibrio (invocato anche da A. Patti, La disciplina della revocatoria, cit., 339); con poche norme si ritiene di realizzare una grande riforma fallimentare in senso liberista e dunque di segno opposto a quello autoritario della legge del 1942, sotto lo scacco di una deregulation che potrebbe consegnare l’economia di una parte del Paese alla criminalità organizzata, dimentichi che comunque il nostro debitore continuerà ad essere appellato “il fallito”, con buona pace della modernità e sempre invece allineati all’espressione che trova

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le sue radici negli statuti delle città mercantili del basso medioevo (U. Santarelli, Fallimento (storia del), in Digesto comm., Torino, 1990, V, 368).

In un primo commento al d.l. n.35 del 2005 nel suo complesso (Lo Cascio, La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in questa Rivista, 2005, 361), le critiche non sono state risparmiate: quelle censure possono essere condivise e la “grande riforma” può rivelarsi, in chiave sistematico-concorsuale, una zattera nel bel mezzo del procelloso mare della crisi d’impresa.

[ Massimo Fabiani]