Alexander Puskin - Romanzi E Racconti

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IL NEGRO DI PIETRO IL GRANDE Per ferrea volontà di Pietro La Russia trasfigurata. N. Jazýkov I Sono a Parigi; Ho cominciato a vivere, ma non a respirare. Dmìtriev, Diario di un viaggiatore Fra i giovani mandati da Pietro il Grande in terre straniere, per apprendervi le nozioni indispensabili a uno stato riformato, si trovava il suo figlioccio, il negro Ibrahìm. Aveva studiato alla scuola militare di Parigi, ne era uscito capitano d'artiglieria, si era distinto nella guerra di Spagna e, gravemente ferito, era tornato a Parigi. L'imperatore, pur immerso nelle sue grandi imprese, non smetteva d'informarsi sul suo prediletto, e riceveva sempre apprezzamenti lusinghieri sui suoi progressi e sulla sua condotta. Pietro era molto soddisfatto di lui, e più di una volta lo aveva richiamato in Russia, ma Ibrahìm non aveva fretta. Sfuggiva adducendo diverse scuse, ora una ferita, ora il desiderio di perfezionare le sue conoscenze, ora la mancanza di soldi, e Pietro accondiscendeva alle sue richieste, gli raccomandava di aver cura della propria salute, lo ringraziava per lo zelo negli studi e, estremamente parsimonioso nelle spese personali, non risparmiava per lui il proprio tesoro, aggiungendo alle monete d'oro consigli paterni e premurosi ammonimenti. Secondo la testimonianza di tutte le memorie storiche, nulla era

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IL NEGRO DI PIETRO IL GRANDE

Per ferrea volontà di Pietro

La Russia trasfigurata.

N. Jazýkov

I

Sono a Parigi;

Ho cominciato a vivere, ma non a respirare.

Dmìtriev, Diario di un viaggiatore

Fra i giovani mandati da Pietro il Grande in terre straniere, per apprendervi le nozioni indispensabili a uno stato riformato, si trovava il suo figlioccio, il negro Ibrahìm. Aveva studiato alla scuola militare di Parigi, ne era uscito capitano d'artiglieria, si era distinto nella guerra di Spagna e, gravemente ferito, era tornato a Parigi. L'imperatore, pur immerso nelle sue grandi imprese, non smetteva d'informarsi sul suo prediletto, e riceveva sempre apprezzamenti lusinghieri sui suoi progressi e sulla sua condotta. Pietro era molto soddisfatto di lui, e più di una volta lo aveva richiamato in Russia, ma Ibrahìm non aveva fretta. Sfuggiva adducendo diverse scuse, ora una ferita, ora il desiderio di perfezionare le sue conoscenze, ora la mancanza di soldi, e Pietro accondiscendeva alle sue richieste, gli raccomandava di aver cura della propria salute, lo ringraziava per lo zelo negli studi e, estremamente parsimonioso nelle spese personali, non risparmiava per lui il proprio tesoro, aggiungendo alle monete d'oro consigli paterni e premurosi ammonimenti.

Secondo la testimonianza di tutte le memorie storiche, nulla era

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paragonabile alla spigliata leggerezza, alla follia e al lusso dei francesi di quel tempo. Gli ultimi anni del regno di Luigi XIV, rimasti famosi per l'austera religiosità della corte, la solennità e il decoro, non avevano lasciato alcuna traccia. Il duca d'Orléans, che riuniva in sé molte brillanti qualità e vizi d'ogni genere, disgraziatamente non aveva neanche un'ombra d'ipocrisia. Le orge del Palais Royal non erano un mistero per Parigi; l'esempio fu contagioso. A quel tempo apparve Law; l'ingordigia di danaro si unì alla sete di piaceri e svaghi; si dissipavano i patrimoni; la moralità andava in rovina; i francesi ridevano e facevano i conti, mentre lo stato si sfasciava al suono degli scherzosi ritornelli di vaudevilles satirici.

Nel frattempo la società presentava un quadro interessantissimo. La cultura e la necessità di divertirsi avevano avvicinato tutte le condizioni sociali. Ricchezza, amabilità, gloria, talenti, la stessa stranezza, tutto ciò che offriva alimento alla curiosità o che prometteva godimento era stato accolto con eguale favore. Letteratura, scienza e filosofia lasciavano le loro stanze tranquille e apparivano nei circoli del gran mondo a compiacere la moda, guidandone i giudizi. Le donne regnavano, ma non pretendevano più l'adorazione. Una cortesia superficiale aveva sostituito il profondo rispetto. Le monellerie del duca di Richelieu, Alcibiade di una novella Atene, appartengono alla storia e danno un'idea dei costumi del tempo:

Temps fortuné, marqué par la licence,

Où la folie, agitant son grelot,

D'un pied léger parcourt toute la France,

Où nul mortel ne daigne être dévot,

Où l'on fait tout excepté pénitence.

La comparsa di Ibrahìm, il suo aspetto, la cultura e la naturale intelligenza destarono a Parigi l'attenzione generale. Tutte le

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signore desideravano vedere in casa propria le Nègre du czar e facevano a gara nel contenderselo; il reggente lo aveva invitato più volte alle sue allegre serate; lui partecipava alle cene, animate dalla giovinezza di Arouet e dalla vecchiaia di Chaulieu, dai discorsi di Montesquieu e di Fontenelle; non si perdeva un ballo, una sola festa, né una sola prima di teatro, e si abbandonava al turbine generale con tutto l'ardore dei suoi anni e della sua razza. Ma l'idea di sostituire questi svaghi, questi divertimenti brillanti con l'austera semplicità della corte di Pietroburgo non era la sola che atterrisse Ibrahìm. Altri fortissimi nodi lo legavano a Parigi. Il giovane africano era innamorato.

La contessa D., ormai non più nel primo fiore degli anni, godeva ancora fama per la sua bellezza. A diciassette anni, appena uscita dal convento, l'avevano sposata a un uomo che lei non aveva fatto in tempo ad amare e che, in seguito, non s'era mai preoccupato di essere amato. Voci le attribuivano amanti, ma secondo l'indulgente codice mondano ella godeva di buon nome, poiché non le si poteva rimproverare nessuna ridicola o seducente avventura. La sua era la casa più alla moda. Da lei si riuniva la migliore società parigina. Ibrahìm le fu presentato dal giovane Merville, considerato da tutti il suo ultimo amante, come lui cercava di dare a intendere in ogni modo.

La contessa accolse Ibrahìm con garbo, ma senza nessuna particolare attenzione; questo lo lusingò. Di solito il giovane negro era osservato come un fenomeno, lo circondavano, lo colmavano di omaggi e domande, e questa curiosità, anche se velata da un'aria di benevolenza, feriva il suo amor proprio. La dolce attenzione delle donne, quasi unico scopo dei nostri sforzi, non solo non lo rallegrava, ma addirittura lo riempiva di amarezza e indignazione. Sentiva di essere per loro una specie di bestia rara, un essere particolare, estraneo, casualmente trasportato in un mondo che non aveva nulla in comune con lui. Arrivava a invidiare le persone che nessuno notava, e considerava la loro nullità una fortuna.

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L'idea che la natura non l'avesse creato per una passione ricambiata lo salvava dalla presunzione e da pretese di amor proprio, il che conferiva un raro fascino al suo atteggiamento con le donne. La sua conversazione era semplice e seria; piacque alla contessa D., stanca dei soliti scherzi e delle sottili allusioni dell'esprit francese. Ibrahìm andava spesso a trovarla. A poco a poco lei si abituò all'aspetto del giovane negro e cominciò perfino a trovare qualcosa di gradevole in quella testa ricciuta, nereggiante in mezzo alle parrucche incipriate del suo salotto. (Ibrahìm era stato ferito alla testa e invece della parrucca portava una fasciatura). Aveva ventisette anni; era alto e snello, e più di una bella donna tratteneva lo sguardo su di lui con un sentimento più lusinghiero di una semplice curiosità; ma Ibrahìm, prevenuto, o non si accorgeva di nulla, oppure vi vedeva solo civetteria. Quando invece i suoi sguardi s'incontravano con gli sguardi della contessa, la sua diffidenza spariva. Gli occhi di lei esprimevano una bonarietà così gentile, il suo modo di trattarlo era così semplice, così spontaneo che era impossibile sospettare in lei anche un'ombra di civetteria o di scherno.

L'amore non gli veniva in mente, ma già vedere la contessa ogni giorno era diventato per lui indispensabile. Ovunque cercava d'incontrarla, e l'incontro con lei gli sembrava ogni volta una grazia inattesa del cielo. La contessa aveva intuito prima di lui i suoi sentimenti. Si dica quel che si vuole, ma l'amore senza speranze e pretese tocca il cuore femminile più infallibilmente di qualsiasi calcolo di seduzione. In presenza di Ibrahìm la contessa seguiva tutti i suoi movimenti, porgeva ascolto a tutti i suoi discorsi; senza di lui si faceva pensierosa e ricadeva nella sua solita svagatezza. Merville fu il primo a notare questa reciproca inclinazione e si congratulò con Ibrahìm. Nulla infiamma tanto l'amore, quanto l'osservazione incoraggiante di un estraneo. L'amore è cieco e, poiché non si fida di se stesso, si afferra precipitosamente a qualsiasi sostegno. Le parole di Merville risvegliarono Ibrahìm. La possibilità di possedere una donna

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amata non si era fino ad allora presentata alla sua immaginazione; la speranza d'un tratto illuminò la sua anima; s'innamorò perdutamente. Invano la contessa, spaventata dal furore di quella passione, volle opporle esortazioni di amicizia e consigli di ragionevolezza; lei stessa s'indeboliva. Incaute gratificazioni si susseguivano in fretta una dopo l'altra. E infine, trascinata dalla forza di una passione da lei stessa ispirata, spossata dal suo effetto, si diede all'estasiato Ibrahìm...

Nulla sfugge agli sguardi del mondo osservatore. Il nuovo legame della contessa divenne presto noto a tutti. Qualche dama restava sbalordita della sua scelta, a molte sembrava alquanto naturale. Alcune ridevano, altre vedevano nel suo comportamento un'imperdonabile imprudenza. Nella prima ebbrezza della passione Ibrahìm e la contessa non si accorsero di nulla, ma ben presto le battute a doppio senso degli uomini e i caustici commenti delle donne cominciarono a giungere fino a loro. Col suo atteggiamento grave e freddo, Ibrahìm fino a quel momento si era messo al riparo da simili attacchi; ora li sopportava spazientito senza sapere come respingerli. La contessa, abituata al rispetto del gran mondo, non poteva restare impassibile nel vedersi oggetto di pettegolezzi e di scherni. Ora si lamentava in lacrime con Ibrahìm, ora lo rimproverava amaramente, ora lo scongiurava di non intervenire in suo favore, per non rovinarla completamente con un chiasso inutile.

Una nuova circostanza complicò ancor più la sua situazione. Si manifestarono le conseguenze di un amore incauto. Consolazioni, consigli, proposte: tutto fu esaurito e tutto respinto. La contessa vedeva la rovina inevitabile e con disperazione l'attendeva. Non appena lo stato della contessa divenne noto, le voci ripresero con nuova forza. Le dame sensibili trasalivano dall'orrore; gli uomini facevano scommesse su chi avrebbe partorito la contessa: se un bambino bianco o nero. Gli epigrammi si sprecavano sul conto del marito di lei, che era il solo in tutta Parigi a non sapere e a non

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sospettare nulla.

Il momento fatale si avvicinava. Le condizioni della contessa erano terribili. Ibrahìm era ogni giorno da lei. Vedeva come le forze spirituali e fisiche svanissero in lei a poco a poco. Le sue lacrime, il suo terrore si rinnovavano a ogni istante. Finalmente ebbe le prime doglie. I provvedimenti furono presi in fretta. Si trovò il modo di allontanare il conte. Arrivò il dottore. Due giorni prima avevano persuaso una povera donna a cedere ad estranei il suo neonato; mandarono una persona di fiducia a prenderlo. Ibrahìm si trovava nello studio proprio accanto alla camera da letto ove giaceva l'infelice contessa. Senza osar respirare, udiva i sordi gemiti di lei, il bisbiglio della serva e gli ordini del dottore. Ella tribolò a lungo. Ogni gemito gli dilaniava l'anima; ogni intervallo di silenzio lo inondava di terrore... d'un tratto sentì un debole grido del bambino e, non avendo la forza di trattenere il suo entusiasmo, si precipitò nella stanza della contessa. Un neonato nero giaceva sul letto ai piedi di lei. Ibrahìm si avvicinò a lui. Il cuore gli batteva forte. Benedisse il figlio con mano tremante. La contessa accennò a un sorriso e protese a lui la debole mano... ma il dottore, temendo per la malata emozioni troppo forti, trascinò via Ibrahìm dal suo letto. Il neonato venne messo in una cesta coperta e portato via di casa per una scala segreta. Portarono l'altro bambino, e la sua culla venne posta nella camera da letto della puerpera. Ibrahìm se ne andò un po' tranquillizzato. Aspettavano il conte. Egli ritornò tardi, apprese del felice parto della consorte e ne fu assai contento. In questo modo la gente, che aspettava uno scandalo piccante, fu tradita nelle sue speranze e costretta a consolarsi con la sola maldicenza.

Tutto rientrò nell'ordine consueto, ma Ibrahìm sentiva che la sua sorte doveva cambiare e che la sua relazione presto o tardi sarebbe potuta arrivare a conoscenza del conte D. In tal caso, qualunque cosa avvenisse, la rovina della contessa sarebbe stata inevitabile. Lui amava appassionatamente ed era riamato allo stesso modo; ma

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la contessa era capricciosa e leggera. Non amava per la prima volta. La repulsione, l'odio potevano soppiantare nel suo cuore i sentimenti più teneri. Ibrahìm prevedeva già il momento del suo raffreddamento; finora non aveva conosciuto la gelosia, ma la presentiva con terrore; immaginava che le sofferenze del distacco dovessero essere meno tormentose e già aveva intenzione di rompere il legame infelice, di lasciare Parigi e di recarsi in Russia, ove da tempo lo richiamavano sia Pietro sia l'oscuro senso del proprio dovere.

II

Non delizia con forza la bellezza,

Non esalta tanto la gioia,

Non è tanto spensierata la mente,

Né sono io tanto fortunato...

Dal desiderio di onori tormentato,

Chiama il frastuono della gloria, lo sento!

Deržàvin

I giorni, i mesi passavano e l'innamorato Ibrahìm non poteva risolversi a lasciare la donna da lui sedotta. La contessa sempre di più si attaccava a lui. Il loro bambino veniva cresciuto in una remota provincia. I pettegolezzi mondani si andavano calmando, e gli amanti cominciavano a godere di una maggiore tranquillità, ricordando in silenzio la tempesta passata e cercando di non pensare al futuro.

Una volta Ibrahìm si trovò presente al giorno di ricevimento del duca d'Orléans. Il duca, passandogli accanto, si fermò e gli consegnò una lettera che gli chiese di leggere quando avesse tempo. Era una lettera di Pietro I. Il sovrano, intuendo la vera

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ragione della sua assenza, scriveva al duca che non aveva intenzione di forzare in nulla Ibrahìm, che lasciava alla sua buona volontà di tornare in Russia oppure no, e che in qualsiasi caso non avrebbe mai abbandonato il suo pupillo di un tempo. Questa lettera commosse Ibrahìm nel profondo del cuore. Da quell'istante la sua sorte fu decisa. Il giorno dopo dichiarò al reggente il suo proposito di tornare immediatamente in Russia. «Pensate a quello che fate», gli disse il duca. «La Russia non è la vostra patria; non credo che riuscirete a rivedere un giorno la vostra terra infuocata; ma il vostro prolungato soggiorno in Francia vi ha reso ugualmente estraneo al clima e al modo di vivere della semiselvaggia Russia. Voi non siete nato suddito di Pietro. Credete a me: approfittate del suo magnanimo permesso. Restate in Francia, per la quale avete già versato il vostro sangue, e siate certo che anche qui i vostri meriti e le vostre doti non resteranno privi di una degna ricompensa». Ibrahìm ringraziò sinceramente il duca, ma restò fermo nel suo proposito. «Mi rincresce», gli disse il reggente, «però capisco le vostre ragioni». Gli promise il congedo e scrisse di tutto questo allo zar.

Ibrahìm si preparò in fretta a mettersi in viaggio. Alla vigilia della partenza trascorse, come suo solito, la serata dalla contessa D. Lei non sapeva nulla; Ibrahìm non aveva il coraggio di aprirsi. La contessa era tranquilla e allegra. Diverse volte lo chiamò a sé e scherzò sulla sua aria pensosa. Dopo cena se ne andarono tutti. Restarono in salotto la contessa, suo marito e Ibrahìm. L'infelice avrebbe dato tutto al mondo pur di restare solo con lei, ma il conte D. sembrava essersi accomodato così tranquillamente presso il caminetto che non c'era speranza di farlo uscire dalla stanza. Tacevano tutti e tre. «Bonne nuit», disse infine la contessa. A Ibrahìm si strinse il cuore, e a un tratto egli percepì tutto l'orrore della separazione. Rimase immobile, in piedi. «Bonne nuit, messieurs», ripeté la contessa. Continuava a non muoversi... infine gli occhi gli si oscurarono, la testa prese a girargli; riuscì a stento a uscire dalla stanza. Arrivato a casa quasi privo di sensi scrisse la

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seguente lettera:

«Io parto, cara Leonora, ti lascio per sempre. Ti scrivo perché non ho la forza di spiegarmi altrimenti con te.

La mia felicità non poteva continuare. Io l'ho goduta a dispetto della sorte e della natura. Tu dovevi finire di amarmi; l'incanto doveva svanire. Questo pensiero mi ha perseguitato sempre, perfino nei momenti in cui mi sembrava di dimenticare tutto, quando ai tuoi piedi m'inebriavo del tuo appassionato abbandono, della tua sconfinata tenerezza... Il mondo frivolo perseguita spietatamente nei fatti ciò che consente in teoria: il suo freddo scherno, presto o tardi, ti avrebbe vinta, avrebbe placato la tua anima in fiamme e tu infine ti saresti vergognata della tua passione... che sarebbe stato allora di me? No! Meglio morire, meglio lasciarti prima di quell'orribile istante...

La tua tranquillità mi è più cara di ogni altra cosa: tu non potevi goderne fino a quando gli sguardi del mondo erano puntati su di noi. Ricorda tutto quello che hai patito, tutte le offese all'amor proprio, tutti i tormenti della paura; ricorda la terribile nascita di nostro figlio. Pensa: dovrei forse sottoporti ancora alle stesse ansie e agli stessi pericoli? A che scopo sforzarsi di unire il destino di una così tenera, così magnifica creatura allo sciagurato destino di un negro, essere pietoso, cui viene a stento concesso l'appellativo di uomo?

Perdonami, Leonora, perdonami, cara, unica amica. Lasciando te, lascio le prime e le ultime gioie della mia vita. Non ho né patria né parenti. Parto per la triste Russia, dove mi sarà di conforto il mio totale isolamento. Le severe occupazioni alle quali attenderò d'ora in avanti, se non soffocheranno, almeno dissiperanno i tormentosi ricordi dei giorni d'estasi e di beatitudine... Addio, Leonora - mi stacco da questa lettera come se fosse il tuo abbraccio; addio, sii felice - e pensa qualche volta al povero negro, al tuo fedele Ibrahìm».

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Quella notte stessa partì per la Russia.

Il viaggio non gli sembrò tanto orribile quanto si aspettava. La sua immaginazione trionfò sulla realtà effettiva. Quanto più si allontanava da Parigi, tanto più vive, tanto più vicine si raffigurava le cose da lui abbandonate per sempre.

Senza rendersene conto si ritrovò alla frontiera russa. L'autunno stava già arrivando, ma i postiglioni, nonostante la strada cattiva, lo portavano alla velocità del vento, e al diciassettesimo giorno di viaggio arrivò una mattina a Kràsnoe Selò, dove passava la strada maestra di allora.

Restavano ventotto verste fino a Pietroburgo. Mentre attaccavano i cavalli, Ibrahìm entrò nell'izba del postiglione. In un angolo un uomo di alta statura, in un caftano verde, con la pipa di coccio in bocca e i gomiti appoggiati sul tavolo, leggeva giornali di Amburgo. Udendo qualcuno entrare, alzò la testa. «Ma! Ibrahìm?», gridò, alzandosi dalla panca. «Salve, figlioccio!». Ibrahìm, riconosciuto Pietro, dalla gioia stava per gettarglisi incontro, ma si fermò rispettosamente. Il sovrano si avvicinò, lo abbracciò e lo baciò sulla testa. «Sono stato avvisato del tuo arrivo», disse Pietro, «e ti sono venuto incontro. Ti aspetto qui da ieri». Ibrahìm non trovava le parole per manifestargli la sua gratitudine. «Bene, ordina alla tua vettura di seguirci», continuò il sovrano; «tu invece sali nella mia; andiamo a casa». Fecero avvicinare la carrozza del sovrano; egli vi salì con Ibrahìm e partirono al galoppo. Dopo un'ora e mezzo erano giunti a Pietroburgo. Ibrahìm guardava con curiosità la capitale appena nata, che veniva su dalla palude per volontà dell'autocrate. Dighe scoperte, canali senza strade laterali, ponti di legno ovunque mostravano la recente vittoria della volontà umana sulla resistenza degli elementi. Le case sembravano costruite in fretta. In tutta la città non c'era nulla di grandioso, a parte la Nevà, non ancora adorna della cornice di granito, ma già affollata di navi da guerra e mercantili. La carrozza del sovrano si fermò davanti al palazzo del

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cosiddetto Giardino della zarina. Sulla scalinata venne incontro a Pietro una donna sui trentacinque anni, bellissima, vestita all'ultima moda parigina. Pietro la baciò sulle labbra e, preso Ibrahìm per mano, disse: «Hai riconosciuto, Kàten'ka, il mio figlioccio? Ti prego di amarlo e di trattarlo bene come un tempo». Ekaterìna puntò su di lui gli occhi neri, penetranti, e gli tese benevolmente la manina. Due bellissime giovani, alte, snelle, fresche come rose stavano dietro di lei e si avvicinarono a Pietro con rispetto. «Liza», disse egli a una di loro, «ti ricordi il piccolo negro, che rubava per te le mie mele a Orànienbaum? Eccolo: te lo presento». La granduchessina scoppiò a ridere e arrossì. Andarono in sala da pranzo. In attesa del sovrano la tavola era stata imbandita. Pietro si sedette per pranzare con tutta la sua famiglia, dopo aver invitato anche Ibrahìm. Durante il pranzo il sovrano trattò con lui vari argomenti: gli fece domande sulla guerra di Spagna, sugli affari interni della Francia, sul reggente, al quale voleva bene, pur disapprovando in lui molte cose. Ibrahìm si distinse per un'intelligenza precisa e osservatrice. Pietro fu molto soddisfatto delle sue risposte; rievocò alcuni episodi dell'infanzia di Ibrahìm e li raccontò con una tale bonarietà e allegria che nessuno nell'affettuoso e ospitale padrone di casa avrebbe potuto sospettare l'eroe di Poltàva, il potente e terribile riformatore della Russia.

Dopo pranzo il sovrano, secondo l'usanza russa, andò a riposare. Ibrahìm restò con l'imperatrice e le granduchessine. Cercò di soddisfare la loro curiosità, descrivendo lo stile di vita parigino, le feste di laggiù e le mode capricciose. Nel frattempo alcuni dei personaggi più vicini al sovrano si erano radunati nel palazzo. Ibrahìm riconobbe il magnifico principe Ménšikov, il quale, vedendo un negro chiacchierare con Ekaterìna, lo guardò alteramente di traverso; il principe Jàkov Dolgorùkij, duro consigliere di Pietro; lo scienziato Bruce, che godeva presso il popolo la fama di Faust russo; il giovane Raguzìnskij, suo compagno di un tempo, e altri, venuti dal sovrano a rapporto.

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Il sovrano ritornò all'incirca due ore dopo. «Vediamo un po'», disse a Ibrahìm, «se hai dimenticato il tuo vecchio incarico. Prendi la lavagna e vienimi appresso». Pietro si chiuse nell'officina di tornitore e si occupò degli affari di stato. A turno lavorò con Bruce, con il principe Dolgorùkij, con il generale capo della polizia Devier, e dettò a Ibrahìm alcuni decreti e deliberazioni. Ibrahìm non poteva capacitarsi della velocità e fermezza dell'intelligenza, della forza, dell'elasticità dell'attenzione e della varietà dell'attività del sovrano. Alla fine dei lavori Pietro tirò fuori il taccuino, per controllare se tutto quello che aveva previsto per quel giorno era stato eseguito. Poi, uscendo dall'officina, disse a Ibrahìm: «È già tardi; tu sarai stanco, immagino: passa la notte qui, come ai vecchi tempi. Domani ti sveglierò io».

Ibrahìm, rimasto solo, stentava a tornare in sé. Si trovava a Pietroburgo, vedeva di nuovo il grande uomo accanto al quale, non conoscendone ancora il valore, aveva trascorso la sua infanzia. Quasi con rimorso ammetteva in cuor suo che la contessa D., per la prima volta dopo la separazione, non era stata tutto il giorno il suo unico pensiero. Vide che la nuova vita che lo attendeva, l'attività e le continue occupazioni avrebbero potuto rinvigorirgli l'animo, estenuato dalle passioni, dall'ozio e da un segreto abbattimento. Il pensiero di condividere le imprese di un grande uomo e di poter influire insieme con lui sul destino di un grande popolo suscitò in lui per la prima volta il nobile sentimento dell'ambizione. In questa disposizione d'animo si coricò nel letto da campo preparato per lui, e allora il sogno consueto lo trasportò nella lontana Parigi, fra le braccia della dolce contessa.

III

Come le nubi in cielo,

Così i pensieri in noi cambiano la forma leggera.

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Quello che amiamo oggi, domani odieremo.

V. Kjuchel'bèker

Il giorno dopo Pietro, come aveva promesso, svegliò Ibrahìm e lo salutò capitano-luogotenente della compagnia dei bombardieri del reggimento Preobražènskij, della quale era lui stesso capitano. I cortigiani circondarono Ibrahìm, ognuno cercò alla sua maniera di guadagnarsi la benevolenza del nuovo favorito. L'altezzoso principe Ménšikov gli strinse amichevolmente la mano. Šeremétev s'informò dei suoi conoscenti parigini, e Golóvin lo invitò a pranzo. A quest'ultimo esempio si conformarono anche gli altri, così che Ibrahìm ricevette inviti almeno per un mese intero.

Ibrahìm trascorreva giornate monotone, ma attive: di conseguenza non conosceva la noia. Di giorno in giorno s'affezionava di più al sovrano, ne capiva meglio la grandezza dello spirito. Seguire i pensieri di un grande uomo è la scienza più avvincente. Ibrahìm vedeva Pietro al senato, contraddetto da Buturlìn e da Dolgorùkij, analizzare importanti richieste legislative, nel collegio dell'ammiragliato affermare la potenza marittima della Russia, lo vedeva con Feofàn, con Gavrìl Bužìnskij e con Kopiéviè esaminare nelle ore di riposo le traduzioni di scrittori stranieri, oppure visitare la bottega di un mercante, il laboratorio di un artigiano, lo studio di uno scienziato. La Russia si presentava a Ibrahìm come un enorme cantiere, dove tutto era una macchina in movimento, dove ogni operaio, sottomesso a un ordine stabilito, era impegnato nel proprio lavoro. Riteneva anche se stesso obbligato a faticare al proprio tornio e cercava di rimpiangere il meno possibile i divertimenti della vita parigina. Più difficile per lui era allontanare da sé un altro, caro ricordo: spesso pensava alla contessa D., ne immaginava il giusto sdegno, le lacrime e lo sconforto... ma a volte gli serrava il petto un pensiero terribile: gli svaghi del gran mondo, un nuovo legame, un altro fortunato - rabbrividiva; la gelosia cominciava a ribollire nel suo sangue africano, e cocenti lacrime erano pronte a scorrere sul suo viso

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nero.

Una mattina sedeva nel suo studio, circondato da carte d'ufficio, quando a un tratto sentì un sonoro saluto in francese; Ibrahìm si voltò con prontezza, e il giovane Kórsakov, che aveva lasciato a Parigi, nel turbine del gran mondo, lo abbracciò con esclamazioni gioiose. «Sono appena arrivato», disse Kórsakov, «e sono corso direttamente da te. Tutti i nostri conoscenti parigini ti salutano, rimpiangono la tua assenza; la contessa D. mi ha ordinato d'invitarti assolutamente a Parigi ed eccoti una lettera da parte sua». Ibrahìm la afferrò con trepidazione, e guardava la nota scrittura dell'indirizzo senza osar credere ai propri occhi. «Come sono contento», continuò Kórsakov, «che tu non sia ancora morto di noia in questa barbara Pietroburgo! che cosa si fa qui, di che cosa ci si occupa? chi è il tuo sarto? è stato allestito almeno un teatro dell'opera?». Ibrahìm, distratto, aveva risposto che, probabilmente, il sovrano in quel momento stava lavorando nel cantiere navale. Kórsakov si mise a ridere. «Vedo», disse, «che ora hai altro per la testa; parleremo a sazietà un'altra volta; vado a presentarmi al sovrano». Detto questo piroettò su un piedino e corse via dalla stanza.

Ibrahìm, rimasto solo, dissigillò precipitosamente la lettera. La contessa si lamentava teneramente con lui, rimproverandolo di essere finto e diffidente. «Tu dici», scriveva lei, «che la mia tranquillità ti è più cara di ogni altra cosa al mondo: Ibrahìm! Se questo fosse vero, avresti potuto ridurmi allo stato in cui mi ha condotto la notizia improvvisa della tua partenza? Avevi paura che io ti trattenessi; stai sicuro che avrei saputo sacrificare il mio amore alla tua fortuna e a quello che tu ritieni il tuo dovere». La contessa concludeva la lettera con appassionate conferme d'amore e lo scongiurava di scriverle almeno di tanto in tanto, se per loro non c'era più speranza di rivedersi un giorno.

Ibrahìm rilesse venti volte la lettera, baciando con entusiasmo le righe adorate. Ardeva dall'impazienza di sentire qualcosa sulla

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contessa e si accingeva a recarsi all'ammiragliato, sperando di trovarvi ancora Kórsakov, ma la porta si aprì nuovamente e Kórsakov apparve un'altra volta; si era già presentato al sovrano e, come suo solito, sembrava molto soddisfatto di sé. «Entre nous» disse a Ibrahìm, «il sovrano è una persona assai bizzarra; figurati che l'ho trovato con una specie di camicia di tela addosso, sull'albero di una nuova nave, dove sono stato costretto a arrampicarmi coi miei dispacci. Stavo su una scala di corda e non avevo posto a sufficienza per fargli una dignitosa revérance, e mi sono completamente confuso, cosa che non mi era mai successa da quando son nato. Comunque il sovrano, dopo aver letto le carte, mi ha squadrato dalla testa ai piedi e, probabilmente, è stato piacevolmente sorpreso dal gusto e dall'eleganza del mio abbigliamento; almeno ha sorriso e mi ha invitato all'assemblea di oggi. Ma a Pietroburgo mi sento proprio uno straniero; in sei anni di assenza ho completamente dimenticato le abitudini di qui. Per favore, fammi da guida; passami a prendere e presentami». Ibrahìm acconsentì e si affrettò a volgere il discorso sull'argomento che gli stava più a cuore. «Allora, come sta la contessa D.?». «La contessa? all'inizio, certo, era molto rattristata dalla tua partenza; poi, certo, poco alla volta si è consolata e si è presa un nuovo amante; sai chi? quello spilungone del marchese R.; che spalanchi a fare il bianco dei tuoi occhi negri? o forse tutto questo ti sembra strano? non sai che una lunga tristezza non è della natura umana, in particolare femminile? Pensaci per bene, io intanto vado a riposarmi del viaggio; non ti dimenticare però di passarmi a prendere».

Quali sentimenti empirono l'animo di Ibrahìm? gelosia? furia? disperazione? No, una profonda, opprimente tristezza. Si ripeteva: «L'avevo previsto, doveva succedere». Poi aprì la lettera della contessa, la rilesse di nuovo, chinò la testa e scoppiò amaramente a piangere. Pianse a lungo. Le lacrime gli alleggerirono il cuore. Guardando l'orologio, vide che era tempo di andare. Ibrahìm vi avrebbe rinunciato molto volentieri, ma l'assemblea era un fatto di

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servizio, e il sovrano esigeva la presenza dei suoi collaboratori. Si vestì e andò a prendere Kórsakov.

Kórsakov sedeva in veste da camera, leggendo un libro francese. «Così presto!», disse a Ibrahìm, vedendolo. «Per carità», rispose quello, «sono già le cinque e mezzo; facciamo tardi; su, svelto, vestiti e andiamo». Kórsakov si diede da fare, cominciò a suonare a tutta forza; la servitù accorse; cominciò a vestirsi in gran fretta. Il cameriere francese gli porse le scarpe coi tacchi rossi, i pantaloni azzurri di velluto, il caftano rosa ricamato con lustrini; nell'anticamera incipriarono in fretta la parrucca, e gliela portarono. Kórsakov vi infilò la testolina rapata, chiese la spada e i guanti, si rigirò una decina di volte davanti allo specchio e dichiarò a Ibrahìm di essere pronto. Gli aiduchi porsero loro le pellicce d'orso e i due si avviarono al Palazzo d'inverno.

Kórsakov tempestò Ibrahìm di domande: chi era a Pietroburgo la donna più bella? chi aveva la fama di primo ballerino? che ballo andava di moda adesso? Ibrahìm soddisfaceva assai malvolentieri la sua curiosità. Nel frattempo si erano accostati al palazzo. Una quantità di lunghe slitte, vecchi calessi e carrozze dorate erano già fermi sul prato. Presso la scalinata si affollavano cocchieri in livrea e coi baffi, corrieri scintillanti di orpelli con piume e bastone di comando, ussari, paggi, sgraziati aiduchi, sovraccarichi delle pellicce e dei manicotti dei loro padroni: un seguito indispensabile, secondo la mentalità dei boiari del tempo. Alla vista di Ibrahìm si levò fra loro un bisbiglio generale: «Il negro, il negro, il negro dello zar!». Egli fece passare alla svelta Kórsakov attraverso questo variopinto servitorame. Un lacchè di corte spalancò loro la porta a due battenti ed essi entrarono nella sala. Kórsakov rimase di stucco... In una grande stanza, illuminata da candele di sego, che ardevano fosche in mezzo a nuvole di fumo di tabacco, alti dignitari con fasce azzurre attraverso il busto, ambasciatori, mercanti stranieri, ufficiali della guardia in uniformi verdi, capomastri navali in giubbe e pantaloni a righe si movevano in

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massa avanti e indietro, al suono incessante di una musica di strumenti a fiato. Le dame sedevano lungo le pareti; le giovani brillavano in tutto lo sfarzo della moda. Oro e argento brillavano sui loro abiti; dalle sontuose crinoline s'innalzava, come uno stelo, la loro vita sottile; diamanti brillavano agli orecchi, nei lunghi boccoli e attorno al collo. Si voltavano allegramente a destra e a sinistra, aspettando i cavalieri e l'inizio delle danze. Le signore attempate cercavano con scaltrezza di combinare il nuovo modo di vestire con antichità ripudiata: le cuffie tendevano ad assomigliare al berretto di zibellino della zarina Natàl'ja Kirìlovna, mentre le robes rondies e le mantiglie in qualche modo ricordavano il sarafàn e la dušegréjka. Sembrava che assistessero più con meraviglia che con piacere a queste feste introdotte da poco, e sbirciavano indispettite le mogli e le figlie dei capitani di mercantili olandesi, che nelle loro gonne di canapa e nelle giacchette rosse facevano la calza ridendo e chiacchierando fra loro come se stessero a casa propria. Kórsakov non riusciva a riprendersi. Notati i nuovi ospiti, un servitore si avvicinò a loro con la birra e i bicchieri sul vassoio. «Que diable est-ce que tout cela?», chiese Kórsakov a mezza voce a Ibrahìm. Ibrahìm non poté fare a meno di sorridere. L'imperatrice e le granduchessine, splendide per bellezza e eleganza, passeggiavano fra le file degli ospiti, discorrendo amabilmente con loro. Il sovrano era in un'altra stanza.

Kórsakov, che voleva farsi vedere da lui, a fatica riuscì ad aprirsi un varco attraverso la folla in continuo movimento. Nella sala sedevano per la maggior parte stranieri, che fumavano di tanto in tanto, con aria d'importanza, le loro pipe di coccio, e vuotavano i boccali anch'essi di coccio. Sui tavoli erano state distribuite bottiglie di birra e di vino, sacchi di pelle col tabacco, bicchieri col ponce e scacchiere. A uno di questi tavoli Pietro giocava a dama con il capitano di un mercantile inglese dalle spalle larghe; con gran zelo si scambiavano salve di fumo di tabacco, e il sovrano era rimasto così sconcertato da una mossa imprevista del suo

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avversario che non si accorse di Kórsakov, per quanto lui girasse loro attorno. In quel momento un signore corpulento, con un grosso mazzo di fiori sul petto, entrò con aria affaccendata, annunciò a voce alta che erano iniziate le danze, e uscì subito; lo seguì una quantità di ospiti, fra i quali anche Kórsakov.

Uno spettacolo inatteso lo sbalordì. Per tutta la lunghezza della sala da ballo, al suono di una musica lamentosa, dame e cavalieri stavano in due file le une di fronte agli altri; i cavalieri s'inchinavano profondamente, le dame si piegavano ancor più profondamente, dapprima dritte davanti a sé, poi voltandosi a destra, poi a sinistra, e ancora di nuovo davanti, di nuovo a destra, e così via. Kórsakov, osservando questo ricercato passatempo, sbarrava gli occhi e si mordeva le labbra. Riverenze e inchini continuarono per quasi mezz'ora; finalmente s'interruppero, e il signore corpulento col mazzo di fiori proclamò che le danze di cerimonia erano finite, e ordinò ai musicanti di suonare un minuetto. Kórsakov si rallegrò e si preparò a fare una gran figura. Fra le giovani ospiti una gli era piaciuta in particolare. Aveva all'incirca sedici anni, era vestita riccamente, ma con gusto, e sedeva accanto a un uomo avanti con gli anni, dall'aspetto solenne e austero. Kórsakov volò verso di lei e le chiese di concedergli l'onore di un ballo. La giovane bellezza lo guardava confusa e sembrava non sapesse cosa dirgli. L'uomo seduto al suo fianco s'accigliò ancor più. Kórsakov aspettava una sua decisione, ma il signore col mazzo di fiori gli si accostò, lo condusse nel mezzo della sala e gli disse solennemente: «Signore mio, tu sei in colpa: in primo luogo ti sei avvicinato a questa giovane persona senza farle le tre dovute riverenze; e in secondo luogo ti sei preso il diritto di sceglierla tu, mentre nei minuetti codesto diritto spetta alla dama, e non al cavaliere; in virtù di questo devi essere molto punito e per la precisione devi bere "la coppa dell'aquila grande"». Kórsakov era sempre più sorpreso. In un attimo gli ospiti lo circondarono, esigendo rumorosamente l'immediata esecuzione della legge. Pietro, sentite le risate e le grida, uscì dall'altra stanza,

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visto che amava molto assistere personalmente a punizioni del genere. Davanti a lui la folla si aprì, ed egli entrò nel cerchio in cui stava il condannato, e davanti a lui il maresciallo dell'assemblea, con un'enorme coppa ricolma di malvasia. Questi tentava invano di convincere il colpevole a obbedire spontaneamente alla legge. «Aha», disse Pietro, vedendo Kórsakov, «ci sei cascato, caro mio. E allora favorisci, monsieur, di bere e di non fare smorfie». Non c'era niente da fare. Il povero damerino, senza riprender fiato, vuotò l'intera coppa e la rese al maresciallo. «Senti, Kórsakov», gli disse Pietro, «hai i pantaloni di velluto, come non ne porto neanch'io, e sono molto più ricco di te. È uno sperpero; bada che non debba arrivare con te fino agli insulti». Ascoltato il rabbuffo, Kórsakov voleva uscire dal cerchio, ma prese a barcollare e per poco non cadde, con indescrivibile piacere del sovrano e di tutta l'allegra compagnia. Questo episodio non solo non turbò l'armonia e il divertimento della festa, ma la ravvivò ancor più. I cavalieri cominciarono a strusciare i piedi e a fare inchini, le dame a fare riverenze e a battere i tacchetti con maggiore zelo, ormai senza osservare affatto la cadenza. Kórsakov non riusciva a partecipare all'allegria generale. La dama da lui scelta, per ordine del padre, Gavrìla Afanàs'eviè, si avvicinò a Ibrahìm e, abbassando gli occhi azzurri, gli tese timidamente una mano. Ibrahìm ballò con lei un minuetto e la riportò al suo posto; poi, trovato Kórsakov, lo condusse fuori della sala, lo fece salire in carrozza e lo ricondusse a casa. Lungo la strada Kórsakov all'inizio balbettò indistintamente: «Maledetta assemblea!... maledetta coppa dell'aquila grande!...», ma presto si addormentò di un sonno pesante, non si accorse di come arrivò a casa, di come lo spogliarono e misero a letto; e si risvegliò il giorno dopo col mal di testa, ricordando confusamente lo strusciare dei piedi, le riverenze, il fumo di tabacco, il signore col mazzo di fiori e la coppa dell'aquila grande.

IV

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Senza fretta mangiavano i nostri antenati,

Senza fretta porgevano al vicino

I gotti, i boccali argentati

Con la birra spumeggiante e il vino.

Ruslàn e Ljudmìla

Adesso devo presentare al benevolo lettore Gavrìla Afanàs'eviè Ržèvskij. Discendeva da un'antica stirpe di boiari, possedeva un'immensa tenuta, era ospitale, amava la caccia col falco, aveva una servitù numerosa. In una parola, era un signore russo nel sangue, secondo la sua espressione; non sopportava lo spirito tedesco e si sforzava di conservare nella vita domestica le tradizioni dell'amato tempo antico.

Sua figlia aveva diciassette anni. Ancora bambina aveva perso la madre. Era stata educata all'antica, cioè circondata da balie, bambinaie, amichette e donne di servizio; ricamava con l'oro e non sapeva né leggere né scrivere; suo padre, nonostante la ripugnanza per tutto quello che venisse d'oltremare, non era riuscito a opporsi al desiderio di lei d'imparare i balli tedeschi da un ufficiale svedese prigioniero che abitava in casa loro. Questo emerito maestro di danza aveva una cinquantina d'anni; la gamba destra gli era stata trapassata da una pallottola nella battaglia di Narva, per cui non era molto adatta ai minuetti e alle correnti, mentre la sinistra scandiva con sorprendente arte e leggerezza i più difficili pas. L'allieva faceva onore ai suoi sforzi. Natàl'ja Gavrìlovna alle assemblee godeva fama di essere la migliore ballerina, cosa che aveva in parte causato la trasgressione di Kórsakov, il quale il giorno dopo era venuto a scusarsi con Gavrìla Afanàs'eviè; ma la disinvoltura e la ricercatezza del giovane damerino non erano piaciute al superbo boiaro, che lo soprannominò ironicamente scimmia francese.

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Era un giorno di festa. Gavrìla Afanàs'eviè aspettava alcuni parenti e amici. Nell'antica sala si stava apparecchiando una lunga tavola. Gli ospiti arrivavano con le mogli e le figlie, finalmente liberate dalla clausura domestica in base ai decreti del sovrano e al suo stesso esempio. Natàl'ja Gavrìlovna porse a ogni ospite un vassoio d'argento, pieno di coppette d'oro, e ognuno bevve la propria, rammaricandosi del fatto che il bacio, che nei tempi antichi si riceveva in questa occasione, fosse ormai uscito dalle consuetudini. Si misero a tavola. Il posto d'onore, accanto al padrone di casa, spettò a suo suocero, il principe Borìs Alekséeviè Lýkov, boiaro settantenne; gli altri ospiti, osservando l'antichità della stirpe e rievocando così i tempi felici del méstnièestvo, sedettero, gli uomini da una parte, le donne dall'altra. In fondo, occuparono i posti consueti la dispensiera, in un giubbetto all'antica come l'acconciatura da festa; la nana, una piccolina di trent'anni, affettata e rugosa, e il prigioniero svedese in una consunta uniforme azzurra. Intorno al tavolo, coperto da una quantità di pietanze, si affaccendavano numerosi servitori, in mezzo ai quali si distingueva il maggiordomo per lo sguardo severo, la grossa pancia e la maestosa immobilità. I primi minuti del pranzo furono dedicati esclusivamente ai prodotti della nostra antica cucina; il suono dei piatti e degli alacri cucchiai era l'unico a turbare il silenzio generale. Infine il padrone di casa, vedendo che era tempo d'intrattenere gli ospiti con una piacevole conversazione, si voltò e chiese: «E l'Ekìmovna dov'è? Fatela venire qui». Vari servi stavano per precipitarsi in diverse direzioni, quando in quello stesso istante una donna anziana, imbellettata di bianco e di rosso, adorna di fiori e di orpelli, in robe rondie di damasco, con il collo e il petto scoperti, entrò canterellando e ballonzolando. La sua apparizione suscitò il piacere generale.

«Salve, Ekìmovna», disse il principe Lýkov, «come te la passi?».

«Bene e in salute, compare: cantando e ballando, i fidanzatini aspettando».

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«Dov'eri, scema?», chiese il padrone.

«Ad agghindarmi, compare, per gli ospiti cari, per la santa festa, secondo un decreto dell'imperatore, secondo l'ordine del mio signore, per far ridere il mondo, alla maniera tedesca».

A queste parole si levò una forte risata, e la scema si fermò al suo posto, dietro la sedia del padrone.

«Questa scema, blaterando blaterando, blatera anche il vero», disse Tat'jàna Afanàs'evna, la sorella maggiore del padrone di casa, da lui affettuosamente rispettata. «Veramente, gli abiti di adesso fanno ridere tutto il mondo. Se ormai anche voi, bàtjuški, vi siete rasati la barba e avete indossato il caftano corto, sul ciarpame famminile, certo, non c'è niente da discutere: eppure, davvero, peccato per il sarafàn, il nastro delle fanciulle, e il povójnik. Solo a guardarle, le bellezze di oggi suscitano riso e pietà: i capelli attorcigliati come stoppa, unti, cosparsi di farina francese, il pancino stretto al punto che per poco non scoppia, le sottane tese sopra dei cerchi: in carrozza salgono di fianco; entrano per una porta e devono chinarsi. Non possono né stare in piedi, né sedute, né riprendere il fiato - vere e proprie martiri, le mie colombelle».

«Oh, màtuška, Tat'jàna Afanàs'èvna», disse Kiríla Petróviè T., ex voevóda di Rjazán', dove si era guadagnato tremila anime e una giovane moglie, queste e quella Dio sa come. «Per me mia moglie si vesta pure come le pare: vada pure infagottata o vestita da imperatore cinese; basta che non si ordini ogni mese vestiti nuovi, e non butti via quelli ancora buoni. Una volta alla nipote si dava in dote il sarafàn della nonna; i vestiti di adesso, guarda un po', oggi stanno addosso a una signora, domani a una serva. Che farci? è la rovina della nobiltà russa! Un guaio, e basta». Pronunciando queste parole guardò con un sospiro la sua Mar'ja Il'ìnièna, alla quale, a quanto pareva, non piacevano affatto né gli elogi del tempo passato, né le critiche ai costumi moderni. Tutte le altre

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belle condividevano il suo malcontento, ma tacevano, poiché la riservatezza era considerata allora l'attributo indispensabile di una giovane donna.

«E di chi è la colpa», disse Gavrìla Afanàs'eviè, riempiendosi la scodella di una schiumante minestra di cavolo, «se non nostra? Le giovinette fanno le sceme, e noi diamo loro spago».

«E che dobbiamo fare se non dipende da noi?», ribatté Kiríla Petróviè. «Qualcuno sarebbe ben contento di rinchiudere la moglie nel térem, e invece la richiedono a suon di tamburo all'assemblea; il marito vorrebbe adoperare il frustino, e la moglie invece vuole agghindarsi. Oh, queste assemblee! Ce le ha mandate il Signore a castigo dei nostri peccati».

Mar'ja Il'ìnièna sedeva come sulle spine, le prudeva la lingua; alla fine non ce la fece più e, rivolgendosi al marito, gli chiese, con un sorrisetto agro, che cosa trovasse di male nelle assemblee.

«Di male c'è», rispose il consorte accalorandosi, «che da quando sono state introdotte, i mariti non la spuntano più con le mogli. Le mogli hanno dimenticato il verbo apostolico: che la moglie tema suo marito; non si danno da fare per la casa, ma per i nuovi acquisti; non pensano a compiacere il marito, ma a fare colpo sugli ufficiali-farfalloni. E poi è dignitoso, signora, per la moglie o la figlia di un boiaro, trovarsi in compagnia di tabaccai tedeschi e delle loro lavoranti? Si è mai sentita una cosa simile, fare salti fino a notte fonda e chiacchierare con i giovanotti? E ancora andrebbe bene con dei parenti, ma questi sono estranei, sconosciuti!».

«Direi una parolina, ma il lupo è qui vicino», disse, accigliandosi, Gavrìla Afanàs'eviè; «confesso che le assemblee non vanno a genio neppure a me: se non stai attento vai a sbattere contro un ubriaco, oppure per ridere fanno ubriacare anche te. Se non stai attento un fannullone può combinarne qualcuna con la tua figlia; e oggi la gioventù è così viziata che non se ne ha un'idea. Ecco, per esempio, il figlio del povero Evgràf Sergéeviè Kórsakov alla

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scorsa assemblea ha provocato un tale scandalo con Natàša da farmi arrossire. Il giorno dopo vedo che qualcuno arriva in carrozza direttamente nel cortile; penso: chi mi porta il Signore, non sarà mica il principe Aleksàndr Danìloviè? Macché: Ivàn Evgràfoviè! Non sia mai che si potesse fermare al portone e fare la fatica di arrivare a piedi fino alla scalinata - macché! entrò di volata! strisciò in riverenze a non finire! fece chiacchiere a non finire!... Ekìmovna la scema gli rifà il verso da morire dalle risate; a proposito: scema, facci la scimmia d'oltremare».

Ekìmovna la scema afferrò il coperchio da un piatto di portata, se lo mise sotto l'ascella come se fosse un cappello e cominciò a fare smorfie, a strascicare i piedi e a fare inchini da tutte le parti, intercalando con: «musié... mamsel... assemblea... pardon». Una generale e prolungata risata manifestò nuovamente il divertimento degli ospiti.

«Tale e quale a Kórsakov», disse il vecchio principe Lýkov, asciugandosi le lacrime dal ridere, quando la calma, a poco a poco, si fu ristabilita. «E a che serve nasconderlo? Non è né il primo né l'ultimo che ritorna dalla tedescheria nella santa Russia trasformato in uno skomoróch. Che imparano là i nostri figli? A strisciare i piedi, a chiacchierare Dio sa in che dialetto, a non rispettare i più anziani e a correre appresso alle mogli degli altri. Di tutti i giovani educati in terra straniera (Dio ci perdoni!) il negro dello zar è quello che più di tutti assomiglia a un uomo».

«Certo», osservò Gavrìla Afanàs'eviè, «è un uomo posato e perbene, non fa il paio con quello sventato... Ma chi è entrato ancora dal portone in cortile? Non sarà mica un'altra volta la scimmia d'oltremare? Voi che state a sbadigliare, bestie?», continuò rivolgendosi ai servi: «Correte a mandarlo via, e che d'ora in avanti...».

«Vecchia barba, stai delirando?», lo interruppe Ekìmovna la scema. «Oppure sei cieco? È la slitta del sovrano, è arrivato lo

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zar».

Gavrìla Afanàs'eviè si alzò in fretta dalla tavola; tutti si precipitarono alle finestre, ed effettivamente videro il sovrano che saliva la scalinata appoggiandosi alla spalla del suo attendente. Si creò lo scompiglio. Il padrone di casa si precipitò incontro a Pietro; i servi correvano chi da una parte chi dall'altra, come scimuniti; gli ospiti si spaventarono a morte, alcuni pensarono addirittura come andarsene a casa al più presto. D'un tratto nell'anticamera risuonò la voce tonante di Pietro, tutto si calmò, e lo zar entrò accompagnato dal padrone di casa, che era stordito dalla gioia.

«Salute, signori», disse Pietro con un viso allegro. Tutti s'inchinarono profondamente. Le rapide occhiate dello zar individuarono nella folla la giovane figlia del padrone di casa; egli la chiamò a sé. Natàl'ja Gavrìlovna si avvicinò abbastanza coraggiosamente, ma arrossendo non solo fino agli orecchi, ma addirittura fino alle spalle. «Ti fai d'ora in ora più carina», le disse il sovrano e, come sua abitudine, la baciò sulla testa; poi, rivolgendosi agli ospiti: «Ebbene? Vi ho disturbati. Stavate mangiando; vi prego di sedervi di nuovo; a me invece, Gavrìla Afanàs'eviè, da' un po' di vodka all'anice».

Il padrone di casa si precipitò verso il maestoso maggiordomo, gli strappò dalle mani il vassoio, riempì lui stesso una coppetta d'oro e la porse con un inchino al sovrano. Pietro, dopo aver bevuto, assaggiò una ciambella e invitò per la seconda volta gli ospiti a continuare il pranzo. Tutti ripresero i propri posti, tranne la nana e la dispensiera, che non osavano restare sedute a una tavola onorata dalla presenza dello zar. Pietro si sedette accanto al padrone di casa e chiese della minestra di cavolo. L'attendente gli porse un cucchiaio di legno montato in avorio, un coltello e una forchetta col manico verde d'osso, poiché Pietro non adoperava mai posate che non fossero le proprie. Il pranzo, un minuto prima chiassosamente animato dall'allegria e dalla loquacità, proseguiva

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nel silenzio e nell'imbarazzo. Il padrone di casa, per il rispetto e la gioia, non mangiava niente; anche gli ospiti facevano i cerimoniosi e ascoltavano con venerazione il sovrano conversare in tedesco col prigioniero svedese sulla campagna del 1701. Ekìmovna la scema, varie volte interpellata dal sovrano, rispondeva con una timida freddezza, il che, sia detto di sfuggita, non dimostrava affatto una stupidità congenita. Finalmente il pranzo si concluse. Il sovrano si alzò, e dopo di lui tutti gli ospiti. «Gavrìla Afanàs'eviè!», disse al padrone di casa, «ho bisogno di parlare con te a quattr'occhi», e, dopo averlo preso sottobraccio, lo condusse in salotto e chiuse la porta dietro di sé. Gli ospiti rimasero in sala da pranzo, commentando con mormorii questa visita inaspettata, e, temendo di essere indiscreti, presto se ne andarono uno dopo l'altro, senza aver ringraziato il padrone di casa per la sua ospitalità. Il suocero, la figlia e la sorella li accompagnarono pian piano fino alla soglia e restarono soli nella sala da pranzo, in attesa dell'uscita del sovrano.

V

Ti procurerò una moglie io

Oppure non sarò un mugnaio.

Ablésimov, Il mugnaio

Mezz'ora dopo la porta si aprì e Pietro uscì. Con un grave cenno della testa rispose al triplice inchino del principe Lýkov, di Tat'jàna Afanàs'evna e di Natàša e andò dritto in anticamera. Il padrone di casa gli porse il suo tulùp rosso, lo accompagnò fino alla slitta e sulla scalinata lo ringraziò ancora per l'onore che gli aveva tributato. Pietro ripartì.

Tornato nella sala da pranzo, Gavrìla Afanàs'eviè sembrava molto preoccupato. Rabbiosamente ordinò ai servi di sparecchiare subito la tavola, mandò Natàša nella sua stanza e, dopo aver dichiarato

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alla sorella e al suocero che aveva bisogno di parlare con loro, li condusse nella stanza da letto dove di solito riposava dopo pranzo. Il vecchio principe si sdraiò sul letto di quercia; Tat'jàna Afanàs'evna si sedette su un'antica poltrona di damasco, dopo essersi tirata un panchetto sotto i piedi; Gavrìla Afanàs'eviè chiuse tutte le porte, si sedette sul letto ai piedi del principe Lýkov e iniziò a mezza voce la seguente conversazione:

«Non per nulla il sovrano mi ha onorato di una visita; indovinate di che cosa si è degnato di parlare con me?».

«Come facciamo a saperlo, bàtjuška fratello?», chiese Tat'jana Afanàs'evna.

«Forse lo zar ti ha incaricato di governare qualche provincia?», disse il suocero. «Sarebbe tempo. O ti ha proposto di far parte di un'ambasceria? Cosa credi? anche uomini illustri, mica solo i funzionari, vengono mandati presso i sovrani stranieri».

«No», rispose il genero, accigliandosi. «Io sono un uomo di vecchio stampo, oggi i nostri servigi non servono, anche se, forse, un nobile russo ortodosso vale tutti i novellini di oggi, frittellai e miscredenti, - ma questo è un altro discorso».

«Allora di che cosa, fratello», disse Tat'jàna Afanàs'evna, «si è degnato di discorrere così a lungo con te? Non ti sarà per caso successa una disgrazia? Dio ce ne scampi e sia misericordioso con noi!».

«Proprio una disgrazia non è, ma confesso che mi dà molto da pensare».

«Come sarebbe, fratello? di che si tratta?».

«Si tratta di Natàša: lo zar è venuto a combinarle il matrimonio».

«Dio sia lodato», disse Tat'jàna Afanàs'evna, facendosi il segno della croce. «La ragazza è da marito, e quale è il compare, tale sarà il fidanzato. Che il Signore conceda loro amore e giudizio, e molto

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onore. A chi vuole sposarla lo zar?».

«Hm», si schiarì la voce Gavrìla Afanàs'eviè, «a chi? Proprio così, a chi».

«A chi dunque?», ripeté il principe Lýkov, che incominciava già a sonnecchiare.

«Provate a indovinare», disse Gavrìla Afanàs'eviè.

«Bàtjuška fratello», rispose la vecchietta, «come facciamo a indovinare? Sono forse pochi i pretendenti a corte? Chiunque sarebbe contento di prendersi la tua Natàša. Dolgorùkij, forse?».

«No, non è Dolgorùkij».

«Tanto meglio: è maledettamente spocchioso. Schein, Troekùrov?».

«No, né l'uno né l'altro».

«Non vanno a genio neppure a me: sventati, sono troppo pieni d'aria tedesca. Allora è Miloslàvskij?».

«No, non è lui».

«E meno male: è ricco ma stupido. Allora? Eléckij? L'vóv? No? Possibile che sia Raguzìnskij? Fa' come vuoi, ma io non riesco a capirlo. Dunque lo zar a chi vuol far sposare Natàša?».

«Al negro Ibrahìm».

La vecchietta trasalì e batté le mani. Il principe Lýkov sollevò la testa dai cuscini e sbalordito ripeté: «Al negro Ibrahìm!».

«Bàtjuška fratello», disse la vecchietta con voce lacrimosa, «non rovinare la tua propria creatura, non abbandonare Natàšen'ka nelle grinfie di un diavolo nero».

«Ma come», ribatté Gavrìla Afanàs'eviè, «opporre un rifiuto al sovrano, che in cambio ci promette il suo favore, a me e a tutta la nostra stirpe?».

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«Come», esclamò il vecchio principe, al quale il sonno era completamente passato, «Natàša, la mia nipotina, in sposa a un negro comprato!».

«Non è di umili origini», disse Gavrìla Afanàs'eviè, «è il figlio di un sultano negro. I musulmani lo fecero prigioniero e lo vendettero a Costantinopoli, ma il nostro ambasciatore l'ha riscattato e donato allo zar. Il fratello maggiore del negro era venuto in Russia con un forte riscatto e...».

«Bàtjuška, Gavrìla Afanàs'eviè», interruppe la vecchietta, «abbiamo già sentito la favola del principe Bovà e di Eruslàn Lazàreviè. Raccontaci piuttosto come hai risposto alla richiesta del sovrano».

«Ho detto che il suo potere è sopra di noi, e che il nostro dovere di servi è di sottometterci in tutto a lui».

In quell'istante si sentì un rumore dietro la porta. Gavrìla Afanàs'eviè andò ad aprirla, ma, avvertita una resistenza, la spinse con forza: la porta si aprì, ed essi videro Natàša svenuta, distesa sul pavimento insanguinato.

Quando il sovrano si era rinchiuso con suo padre, il cuore le era venuto meno. Un vago presentimento le aveva mormorato che doveva trattarsi di lei, e quando Gavrìla Afanàs'eviè l'aveva mandata via, dichiarando che doveva parlare alla zia e al nonno, ella non aveva saputo resistere all'impulso della curiosità femminile: piano, attraverso le stanze interne, era scivolata di nascosto fino alla porta della camera da letto, e non aveva perso neanche una parola di tutta la terribile conversazione; quando poi aveva sentito le ultime parole del padre, la povera fanciulla aveva perso i sensi e, cadendo, aveva battuto la testa contro il baule borchiato in cui era riposto il suo corredo.

I servi accorsero; sollevarono Natàša, la portarono nella sua stanza e la distesero sul letto. Dopo qualche tempo ella rinvenne, aprì gli

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occhi, ma non riconobbe né il padre né la zia. Le scoppiò una febbre forte; nel delirio continuava a parlare del negro dello zar, delle nozze - e a un tratto strillò con voce lamentosa e penetrante: «Valeriàn, caro Valeriàn, vita mia! Salvami: eccoli, eccoli!...». Tat'jàna Afanàs'evna guardò con inquietudine il fratello, che impallidì, si morse le labbra e in silenzio uscì dalla stanza. Egli tornò dal vecchio principe, che, non potendo salire la scala, era rimasto dabbasso.

«Come va Natàša?», egli chiese.

«Male», rispose il padre rattristato, «peggio di quanto pensassi: in preda al delirio vaneggia di Valeriàn».

«Chi è questo Valeriàn?», chiese allarmato il vecchio. «Non sarà mica quell'orfano, figlio di uno streléc, che è stato cresciuto in casa tua?».

«Proprio lui», rispose Gavrìla Afanàs'eviè. «Per mia disgrazia suo padre durante una rivolta mi salvò la vita, e il diavolo mi ha fatto prendere in casa quel maledetto lupacchiotto. Quando, un paio d'anni fa, su sua richiesta, venne arruolato nel reggimento, Natàša, salutandolo, scoppiò a piangere, e lui restò come impietrito. Ciò mi parve sospetto e ne parlai a mia sorella. Ma da allora Natàša non lo ha più nominato, e di lui non si è saputo più niente. Pensavo che l'avesse dimenticato, e invece pare di no. È deciso: sposerà il negro».

Il principe Lýkov non lo contraddisse: sarebbe stato inutile. Se ne andò a casa; Tat'jàna Afanàs'evna rimase al capezzale di Natàša; Gavrìla Afanàs'eviè, dopo aver mandato a chiamare il medico, si rinchiuse in camera sua, e tutto in casa divenne silenzioso e triste.

L'improvvisa richiesta di matrimonio sorprese Ibrahìm almeno tanto quanto Gavrìla Afanàs'eviè.

Ecco com'era andata. Pietro, mentre lavorava con Ibrahìm, gli disse:

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«Noto, mio caro, che sei avvilito; parla sinceramente: cos'è che ti manca?».

Ibrahìm assicurò il sovrano di essere contento della sua sorte e di non desiderarne una migliore.

«Bene», disse il sovrano, «se ti annoi senza alcuna ragione, so io come renderti allegro».

Finito di lavorare, Pietro chiese a Ibrahìm:

«Ti piace la ragazza con la quale hai ballato il minuetto alla scorsa assemblea?».

«È molto carina, sire, e sembra una ragazza riservata e buona».

«Allora te la farò conoscere più da vicino. Non la vorresti sposare?».

«Io, sire?...».

«Senti, Ibrahìm, tu sei un uomo solo, senza nascita né famiglia, un estraneo per tutti tranne che per me. Se io morissi oggi, domani che ne sarebbe di te, mio povero negro? Ti devi sistemare, finché c'è ancora tempo; devi trovare un appoggio in nuove relazioni, legarti con la classe dei boiari».

«Sire, sono felice della protezione e dei favori di vostra maestà. Che Dio mi conceda di non sopravvivere al mio zar e benefattore, non desidero nulla di più; ma se anche avessi intenzione di sposarmi, acconsentirebbero la giovane fanciulla e i suoi parenti? Il mio aspetto...».

«Il tuo aspetto! che sciocchezza! che ti manca per essere un bel giovane? La fanciulla deve sottomettersi alla volontà dei genitori, e vedremo cosa dirà il vecchio Gavrìla Ržèvskij quando farò io stesso la richiesta per te!». A queste parole il sovrano ordinò di preparare la slitta e lasciò Ibrahìm immerso in profonde riflessioni.

«Sposarsi!», pensava l'africano, «perché no? possibile che sia

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destinato a trascorrere la vita in solitudine e a non conoscere i piaceri migliori e i più sacrosanti doveri dell'uomo solo perché sono nato sotto non so quale latitudine? Non posso sperare di essere amato: obiezione infantile! Si può forse credere all'amore? esiste esso forse nel leggero cuore femminile? Dopo aver rinunciato per sempre ai dolci inganni, ho scelto altre seduzioni più concrete. Il sovrano ha ragione: devo assicurare la mia sorte futura. Il matrimonio con la giovane Ržèvskaja mi legherà alla fiera nobiltà russa, e io smetterò di essere un forestiero nella mia nuova patria. Da mia moglie non starò a pretendere amore, mi accontenterò della sua fedeltà, e mi guadagnerò la sua amicizia con una costante tenerezza, fiducia e condiscendenza».

Ibrahìm, come d'abitudine, voleva mettersi al lavoro, ma la sua immaginazione l'aveva troppo distratto. Lasciò le carte e andò a gironzolare lungo la riva della Nevà. All'improvviso sentì la voce di Pietro; si voltò e vide il sovrano, che, congedata la slitta, gli camminava dietro con aria contenta. «Tutto è concluso, caro mio», disse Pietro, prendendolo a braccetto. «Ti ho combinato il matrimonio. Domani va' da tuo suocero, ma vedi di soddisfare la sua spocchia boiara; lascia la slitta al portone, passa il cortile a piedi; parla un po' con lui dei suoi meriti e della sua nobiltà, e lui perderà la testa per te. Adesso, invece», continuò, agitando il bastone, «portami da quella birba di Danìlyè, col quale devo fare i conti per le sue nuove malefatte».

Ibrahìm, dopo aver ringraziato affettuosamente Pietro per la sua premura paterna, lo accompagnò fino al magnifico palazzo del principe Ménšikov e tornò a casa.

VI

Ardeva fioca la lampada davanti all'armadio a vetri nel quale brillavano le rivestiture d'oro e d'argento delle icone di famiglia. La sua luce tremolante rischiarava debolmente il letto con le

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cortine e il tavolino ingombro di boccettine con l'etichetta. Presso la stufa sedeva la serva al filatoio, e solo il lieve rumore del fuso rompeva il silenzio della stanza.

«Chi c'è qui?», proferì una debole voce. La serva si alzò immediatamente, si avvicinò al letto e sollevò adagio la tenda. «Farà luce presto?», chiese Natàl'ja.

«È già mezzogiorno», rispose la serva.

«Oh, Dio mio, e perché è così buio?».

«Le finestre sono chiuse, signorina».

«Allora fammi vestire in fretta».

«Non si può, signorina, il dottore l'ha proibito».

«Allora sono malata? da tanto?».

«Sono già due settimane».

«Davvero? A me sembrava d'essermi messa a letto appena ieri...».

Natàša tacque; tentava di raccogliere pensieri sparsi. Qualcosa le era successo, ma che cosa esattamente? Non riusciva a ricordarlo. La serva continuava a starle davanti, in attesa di ordini. In quel momento, dal pianterreno, provenne un rumore sordo.

«Che c'è?», chiese l'ammalata.

«I signori hanno finito di mangiare», rispose la serva; «si stanno alzando da tavola. Adesso verrà qui Tat'jàna Afanàs'evna».

Natàša sembrò rallegrarsi; agitò debolmente una mano. La serva tirò la tenda e si sedette di nuovo al filatoio.

Dopo qualche minuto, da dietro la porta apparve una testa in una larga cuffia bianca con i nastri scuri, che chiese a mezza voce:

«Come sta Natàša?».

«Buongiorno, zietta», disse piano la malata; e Tat'jàna Afanàs'evna

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le si accostò in fretta.

«La signorina è tornata in sé», disse la serva, avvicinando con attenzione la poltrona.

La vecchietta, con le lacrime agli occhi, baciò il volto pallido e languido della nipote, e si sedette al suo fianco. Dopo di lei entrò un medico tedesco, in caftano nero e parrucca da scienziato; tastò il polso a Natàša e dichiarò in latino, e poi anche in russo, che il pericolo era scampato. Chiese carta e calamaio, scrisse una nuova ricetta e se ne andò; la vecchietta si alzò e, dopo aver nuovamente baciato Natàl'ja, con la buona notizia si recò immediatamente giù da Gavrìla Afanàs'eviè.

Nel salotto, in uniforme con la spada, il cappello in mano, sedeva il negro dello zar, conversando rispettosamente con Gavrìla Afanàs'eviè. Kórsakov, disteso su un divano di piume, li ascoltava distrattamente e stuzzicava un levriere a riposo; annoiato di quell'occupazione si avvicinò allo specchio, abituale rifugio del suo ozio, e in esso vide Tat'jàna Afanàs'evna, che da dietro la porta faceva al fratello segni che lui non percepiva.

«Vi stanno chiamando, Gavrìla Afanàs'eviè», disse Kórsakov, volgendosi verso di lui e interrompendo il discorso di Ibrahìm. Gavrìla Afanàs'eviè andò subito dalla sorella e accostò la porta dietro di sé.

«Mi meraviglio della tua pazienza», disse Kórsakov a Ibrahìm. «È un'ora buona che stai a sentire i vaneggiamenti sull'antichità della stirpe dei Lýkov e degli Ržèvskij, e vi aggiungi anche le tue edificanti osservazioni! Al tuo posto j'aurais planté là il vecchio contafrottole e tutta la sua schiatta, ivi inclusa Natàl'ja Gavrìlovna, che fa la smorfiosa, si finge malata, une petite santé... Dimmi in coscienza, sei proprio innamorato di quella piccola mijaurée? Ascolta, Ibrahìm, segui almeno una volta il mio consiglio; ti assicuro che sono più ragionevole di quanto sembro. Lascia perdere quest'idea folle. Non ti sposare. A me sembra che la tua

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fidanzata non abbia alcuna particolare propensione verso di te. Con quello che succede al mondo! Per esempio: io certo non mi presento male, ma mi è successo comunque d'ingannare mariti che, quant'è vero Iddio, non erano affatto peggiori di me. Tu stesso... Ricordi il nostro amico parigino, il conte D.? Non si può sperare nella fedeltà femminile; felice chi considera ciò con indifferenza! Ma tu!... Col tuo carattere focoso, pensieroso e diffidente; col tuo naso schiacciato, le labbra carnose, con questo pelo crespo gettarti in tutti i pericoli del matrimonio?...».

«Ti ringrazio per l'amichevole consiglio», lo interruppe freddamente Ibrahìm, «ma sai il proverbio: non è affar tuo cullar bambini altrui...».

«Bada, Ibrahìm», gli rispose ridendo Kórsakov, «che non ti capiti, in futuro, di mettere in pratica questo proverbio alla lettera».

Ma la conversazione nell'altra stanza si stava scaldando.

«La farai morire», disse la vecchietta. «Non sopporterà la sua vista».

«Ma giudica tu stessa», ribatteva il fratello ostinato. «Sono già due settimane che viene da noi in qualità di fidanzato, e finora non ha mai visto la fidanzata. Alla fin fine può pensare che la sua malattia sia una pura invenzione, che noi cerchiamo solo di prendere tempo per disfarci in qualche modo di lui. E poi che dirà lo zar? Già tre volte ha mandato a chiedere della salute di Natàl'ja. Fa' come vuoi, ma io non intendo litigare con lui».

«Signore Iddio», disse Tat'jàna Afanàs'evna, «cosa ne sarà di lei, poverina? Almeno, lascia ch'io vada a prepararla per questa visita».

Gavrìla Afanàs'eviè acconsentì e tornò in salotto.

«Grazie al cielo», disse a Ibrahìm, «il pericolo è scampato. Natàl'ja sta molto meglio; se non fosse una vergogna lasciare qui solo il caro ospite Ivàn Evgràfoviè, ti avrei accompagnato su a dare

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un'occhiata alla tua fidanzata...».

Kórsakov si congratulò con Gavrìla Afanàs'eviè, lo pregò di non preoccuparsi, assicurò che doveva assolutamente andar via e corse in anticamera, senza permettere al padrone di accompagnarlo.

Nel frattempo, Tat'jana Afanàs'evna si era affrettata a preparare la malata all'apparizione del terribile ospite. Entrata nella stanza col respiro affannoso, si sedette accanto al letto e prese Natàša per la mano, ma non fece in tempo a proferire parola che la porta si aprì. Natàša chiese: «Chi è arrivato?». La vecchietta restò di sasso e ammutolì. Gavrìla Afanàs'eviè scostò la tenda, guardò freddamente la malata e chiese come stava. L'ammalata avrebbe voluto sorridergli, ma non ci riuscì. Lo sguardo severo del padre la colpì, e l'agitazione s'impossessò di lei. In quel momento le sembrò che ci fosse qualcuno in piedi al suo capezzale. Con uno sforzo sollevò la testa e all'improvviso riconobbe il negro dello zar. A questo punto ricordò tutto, tutto l'orrore del futuro le si presentò davanti. Ma la sua natura spossata non ne ricevette una scossa molto forte. Natàša lasciò nuovamente ricadere la testa sul cuscino e chiuse gli occhi... il cuore le batteva tormentosamente. Tat'jàna Afanàs'evna fece cenno al fratello che l'ammalata voleva dormire, e tutti uscirono pian piano dalla stanza, tranne la serva, che si sedette di nuovo al filatoio.

La bella infelice aprì gli occhi e, non vedendo più nessuno accanto al letto, chiamò a sé la serva e la mandò a cercare la nana. Ma in quello stesso istante la tonda vecchietta rotolò come una pallina verso il suo letto. Rondinella (così veniva chiamata la nana), con tutta l'agilità delle sue gambette corte si era slanciata su per la scala appresso a Gavrìla Afanàs'eviè e a Ibrahìm, e si era acquattata dietro la porta, non smentendo la curiosità propria al bel sesso. Natàša, vedendola, mandò via la serva, e la nana si sedette su uno sgabellino accanto al letto.

Mai corpo tanto piccolo aveva racchiuso in sé tanta energia dello spirito. La nana s'immischiava in tutto, sapeva tutto, si dava da

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fare per tutto. Con la sua mente scaltra e penetrante sapeva conquistarsi l'amore dei suoi padroni e l'odio di tutta la servitù, che governava dispoticamente. Gavrìla Afanàs'eviè ascoltava le sue spiate, le sue lamentele e le sue minute richieste; Tat'jàna Afanàs'evna s'informava continuamente sui suoi pareri e si lasciava guidare dai suoi consigli; Natàša, invece, aveva per lei uno sconfinato affetto e le confidava tutti i suoi pensieri, tutti i moti del suo cuore sedicenne.

«Lo sai, Rondinella?», disse, «papà mi fa sposare il negro».

La nana sospirò profondamente, e il suo viso rugoso si corrugò ancor più.

«Allora non c'è speranza», continuò Natàša, «allora papà non avrà pietà di me?».

La nana scosse la cuffietta.

«Non prenderanno le mie parti il nonno o la zia?».

«No, signorina. Il negro, durante la tua malattia, è riuscito a stregare tutti. Il signore è pazzo di lui, il principe non delira che per lui, mentre Tat'jàna Afanàs'evna dice: peccato che sia negro, ma un fidanzato migliore sarebbe anche un peccato per noi desiderarlo».

«Dio mio, Dio mio!», gemette la povera Natàša.

«Non ti rattristare, bellezza nostra», disse la nana, baciandole la debole mano. «Se è destino che tu debba sposare il negro, in compenso sarai completamente libera. Adesso non è più come ai vecchi tempi; i mariti non tengono chiuse le mogli; il negro dicono che sia ricco; avrete la casa come una coppa piena, vivrai cantando...».

«Povero Valeriàn», disse Natàša, ma così piano che la nana poté solo indovinare, ma non sentire queste parole.

«Proprio di questo si tratta, signorina», disse ella, abbassando

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misteriosamente la voce; «se avessi pensato meno all'orfano dello streléc, non avresti pronunciato il suo nome nei vaneggiamenti della febbre e tuo padre non sarebbe andato in collera».

«Cosa?», disse spaventata Natàša, «io ho delirato di Valeriàn, il babbo ha sentito, il babbo è in collera?».

«Proprio questo è il guaio», rispose la nana. «Ora, se lo pregherai di non darti in sposa al negro, penserà che Valerián ne sia la causa. Non c'è niente da fare: ormai piegati alla volontà paterna, e quel che sarà sarà».

Natàša non obiettò neppure una parola. Il pensiero che il segreto del suo cuore fosse noto al padre ebbe un forte effetto sulla sua immaginazione. Le restava un'unica speranza: morire prima che si compisse l'odiato matrimonio. Questo pensiero la consolò. Con animo debole e triste si sottomise alla sua sorte.

VII

In casa di Gavrìla Afanàs'eviè, a destra dell'anticamera, si trovava un'angusta cameretta con una sola finestrella. Dentro c'era un letto semplice, sul quale era distesa una coperta imbottita, e davanti al letto un tavolino di abete, sul quale ardeva una candela di sego e si trovavano partiture aperte. Al muro era appesa una vecchia uniforme azzurra e il suo coetaneo, un cappello a tricorno; al di sopra di questo era attaccata con tre chiodini una stampa popolare, che raffigurava Carlo XII a cavallo. Suoni di flauto si diffondevano in quest'umile alloggio. Il maestro di ballo prigioniero, suo abitante solitario, in berretto da notte e veste da camera di nanchino, raddolciva la noia di una serata invernale accennando antiche marce svedesi, che gli ricordavano il tempo allegro della sua giovinezza. Dopo aver dedicato due ore intere a tale esercizio, lo svedese smontò il suo flauto, lo ripose nell'astuccio, e cominciò a spogliarsi.

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In quel momento il saliscendi della porta si sollevò e un bel giovane di alta statura, in divisa, entrò nella stanza.

Sorpreso, lo svedese si alzò davanti all'ospite inatteso.

«Non mi hai riconosciuto, Gustàv Adàmyè», disse il giovane visitatore con voce commossa. «Ti ricordi di quel bambino al quale insegnavi il maneggio svedese delle armi, col quale per poco non avevi provocato un incendio in questa stessa stanzetta, sparando con un cannoncino per bambini...».

Gustàv Adàmyè lo scrutava intensamente...

«E-e-eh», esclamò infine, abbracciandolo, «salfe, è tanto che sei qvi? Sieti, pel purlone che sei, parliamo un po'».

RACCONTI DEL DEFUNTO IVÀN PETRÓVIÈ BÉLKIN

SIGNORA PROSTAKÒVA Eh, bàtjuška mio, fin da piccolo era assetato di storie.

SKOTI'NIN Mitrofàn fa per me.

Il minorenne

DA PARTE DELL'EDITORE

Una volta assunto l'incarico di pubblicare i racconti di I.P. Bélkin, offerti ora al pubblico, desideravamo aggiungervi almeno una breve biografia del defunto autore, per soddisfare così in parte la legittima curiosità degli amatori delle patrie lettere. A questo scopo ci rivolgemmo a Mar'ja Alekséevna Trafìlina, parente prossima ed erede di Ivàn Petróviè Bélkin; ma, purtroppo, non le fu possibile procurarci alcuna notizia su di lui, giacché il defunto

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le era totalmente sconosciuto. Ella ci consigliò di rivolgerci a un uomo rispettabile, che era stato amico di Ivàn Petróviè. Seguimmo tale consiglio e, in risposta alla nostra, ricevemmo la seguente bramata lettera. La inseriamo senza nessuna modifica o nota, quale preziosa testimonianza di un nobile modo di pensare e di un'amicizia commovente, ma allo stesso tempo anche come notizia biografica del tutto sufficiente.

Mio egregio signore***!

Ho avuto l'onore di ricevere, il 23 di questo mese, la vostra stimatissima lettera del 15, nella quale mi manifestate il vostro desiderio di avere notizie particolareggiate sulla data di nascita e di morte, sulla carriera, le vicende familiari, nonché sulle occupazioni e il carattere del defunto Ivàn Petróviè Bélkin, mio amico sincero e confinante. Con mio grande piacere adempio questo vostro desiderio e vi aggiungo, mio egregio signore, tutto quanto, dei suoi discorsi, e anche delle mie osservazioni personali, posso ricordare.

Ivàn Petróviè Bélkin nacque nel villaggio di Gorjùchino da onesti e nobili genitori nel 1798. Il suo defunto padre, maggiore in seconda Pëtr Ivànoviè Bélkin, era sposato con la giovane Pelagéja Gavrìlovna della casa dei Trafìlin. Era un uomo non ricco, ma misurato, e, sotto il profilo dell'amministrazione familiare, assai accorto. Il loro figlio ricevette la prima istruzione dal diacono del villaggio. A quest'uomo rispettabile pare dovesse la passione per la lettura e gli studi di letteratura russa. Nel 1815 prese servizio nel reggimento di fanteria dei Cacciatori (non ricordo la data esatta), nel quale restò fino al 1823. La morte dei genitori, avvenuta quasi contemporaneamente, lo costrinse a dare le dimissioni e a tornare nel villaggio di Gorjùchino, suo luogo natale.

Dopo essersi assunto la gestione della proprietà, Ivàn Petróviè, a causa della sua inesperienza e della sua bontà di cuore, in breve tempo lasciò decadere l'azienda e indebolì il severo ordine instaurato dal suo defunto genitore. Mandò via lo svelto e

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coscienzioso stàrosta, del quale i suoi contadini (come loro abitudine) erano scontenti, e affidò l'amministrazione del villaggio alla vecchia dispensiera, che aveva conquistato la sua fiducia con l'arte di raccontare storie. Questa vecchia sciocca non era mai stata capace di distinguere un biglietto di venticinque rubli da uno di cinquanta; i contadini, dei quali tutti era comare, non la temevano affatto; lo stàrosta da loro scelto li assecondava così tanto, arraffando egli stesso nel contempo, che Ivàn Petróviè fu costretto ad abolire la bàršèina e ad istituire una tassa assai moderata; ma anche così i contadini, approfittando della sua debolezza, per il primo anno finirono con l'ottenere una riduzione considerevole, e per quelli successivi pagarono più di due terzi della tassa in noci, mirtilli e simili; e anche così c'erano arretrati.

Dal momento che ero stato amico del defunto genitore di Ivàn Petróviè, consideravo mio dovere offrire anche al figlio i miei consigli, e più di una volta gli proposi di ristabilire l'ordine precedente, da lui trascurato. A questo scopo un giorno andai da lui, richiesi i libri dei conti, chiamai lo stàrosta imbroglione e, in presenza di Ivàn Petróviè, procedetti al loro esame. Il giovane padrone dapprima cominciò a seguirmi con tutta l'attenzione e lo zelo possibili; ma non appena dai conti venne fuori che negli ultimi due anni il numero dei contadini si era moltiplicato mentre il numero dei volatili da cortile e del bestiame era considerevolmente diminuito, Ivàn Petróviè si accontentò di questa prima indicazione e non mi ascoltò oltre, e nel momento stesso in cui io, con le mie ricerche e i miei severi interrogatori, ridussi lo stàrosta imbroglione a un'estrema confusione e lo costrinsi al silenzio assoluto, con mia grande stizza sentii Ivàn Petróviè russare forte sulla sua sedia. Da allora smisi d'intromettermi nelle sue disposizioni amministrative e rimisi i suoi affari (come faceva lui stesso) alla volontà dell'Altissimo.

Questo tuttavia non guastò affatto i nostri rapporti di amicizia, poiché io, compatendo la sua debolezza e la sua rovinosa

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negligenza, comune ai nostri giovani nobili, amavo sinceramente Ivàn Petróviè; e poi era impossibile non voler bene a un giovane così mite e onesto. Da parte sua, Ivàn Petróviè dimostrava rispetto per i miei anni e mi era affettuosamente devoto. Fino alla morte s'incontrò con me quasi ogni giorno, apprezzando la mia semplice conversazione, sebbene non fossimo molto simili né per abitudini, né per mentalità, né per carattere.

Ivàn Petróviè conduceva una vita estremamente morigerata, rifuggiva ogni tipo di eccessi; non mi succedeva mai di vederlo un po' brillo (cosa che nella nostra regione può considerarsi un fenomeno inaudito); per il sesso femminile aveva, invece, una grande inclinazione, ma c'era in lui un pudore davvero verginale.

Oltre ai racconti, che vi degnate ricordare nella vostra lettera, Ivàn Petróviè ha lasciato una quantità di manoscritti, che in parte si trovano presso di me, in parte sono stati adoperati dalla sua governante per vari usi domestici. Così l'inverno scorso a tutte le finestre della sua dépendance sono state incollate le pagine della prima parte del romanzo che lui non aveva finito. I racconti summenzionati furono, pare, il suo primo esperimento. Sono, come usava dire Ivàn Petróviè, nella maggior parte veritieri e da lui ascoltati da diverse persone.

Tuttavia i nomi in essi contenuti sono quasi tutti inventati da lui, mentre le denominazioni dei villaggi e delle campagne sono prese in prestito dai nostri dintorni, per cui anche la mia campagna è menzionata da qualche parte. Questo non è successo per qualche cattiva intenzione, ma esclusivamente per mancanza d'immaginazione.

L'autunno del 1828 Ivàn Petróviè si prese un raffreddore, che si mutò in febbre maligna, e morì, nonostante gli sforzi infaticabili del nostro medico distrettuale, uomo assai abile, particolarmente nella cura delle malattie croniche, come i calli e simili. Si spense fra le mie braccia all'età di trent'anni, e fu seppellito nella chiesa

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del villaggio di Gorjùchino accanto ai suoi genitori.

Ivàn Petróviè era di statura media, aveva occhi grigi, capelli castano chiaro, naso diritto; quanto al viso era bianco e piuttosto scarno.

Ecco, mio egregio signore, tutto quello che sono riuscito a ricordare circa l'esistenza, le occupazioni, il carattere e l'aspetto del mio defunto vicino e amico. Ma nel caso in cui riteneste opportuno fare qualche uso di questa mia lettera, vi prego umilissimamente di non menzionare in nessun modo il mio nome, poiché, sebbene rispetti e tenga in gran conto i letterati, ritengo tuttavia superfluo, e alla mia età sconveniente, entrare in questa categoria. Con la mia sincera stima ecc.

16 novembre 1830, villaggio di Nenaràdovo

Siccome riteniamo un dovere rispettare la volontà dello stimabile amico del nostro autore, gli porgiamo la più profonda gratitudine per le notizie procurateci, e ci auguriamo che il pubblico ne apprezzi la sincerità e benevolenza.

A.P.

IL COLPO DI PISTOLA

Ci sparammo.

Baratýnskij

Giurai di ucciderlo per diritto di duello

(mi deve ancora il mio colpo).

La sera al bivacco

I

Stavamo di stanza nella cittadina di ***. La vita di un ufficiale

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dell'esercito è nota. Al mattino l'esercitazione, il maneggio; il pranzo dal comandante del reggimento o in una trattoria giudea; la sera il ponce e le carte. A *** non c'era neppure una casa aperta, neppure una ragazza da marito; ci riunivamo l'uno nell'alloggio dell'altro, dove, oltre alle nostre uniformi, non vedevamo nulla.

Una sola persona apparteneva alla nostra compagnia senza essere un militare. Aveva all'incirca trentacinque anni, e noi perciò lo consideravamo un vecchio. L'esperienza gli dava molti vantaggi su di noi; inoltre la sua abituale cupezza, il carattere brusco e l'abitudine alla maldicenza esercitavano un forte potere sulle nostre giovani menti. Un certo alone di mistero circondava il suo destino: sembrava russo, ma portava un nome straniero. Un tempo aveva prestato servizio negli ussari, e persino con successo; nessuno conosceva la ragione che lo aveva spinto a dare le dimissioni e a stabilirsi in una povera cittadina, dove viveva allo stesso tempo poveramente e dissipatamente: andava sempre a piedi, in un logoro soprabito nero, ma teneva la tavola a disposizione di tutti gli ufficiali del nostro reggimento. È vero che il suo pranzo consisteva in due o tre pietanze, preparate da un soldato a riposo, ma lo champagne vi scorreva a fiumi. Nessuno sapeva quale fosse l'entità del suo patrimonio, né delle sue rendite, e nessuno osava chiederglielo. Aveva dei libri, per la maggior parte di argomento militare, ma anche romanzi. Li dava in prestito volentieri, senza mai chiederli indietro; in compenso non restituiva mai al proprietario un libro da lui preso in prestito. Il suo principale esercizio consisteva nel tiro alla pistola. Le pareti della sua stanza erano tutte crivellate di pallottole, tutte a buchi come i favi delle api. Una ricca collezione di pistole era l'unico lusso della povera casupola in cui viveva. La perizia che aveva raggiunto era inverosimile, e se si fosse offerto di colpire con una pallottola una pera sul berretto di qualcuno, nessuno nel nostro reggimento avrebbe esitato a mettervi sotto la propria testa. La conversazione fra noi toccava spesso i duelli; Silvio (lo chiamerò così) non vi s'intrometteva mai. Alla domanda se gli fosse successo di battersi,

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rispondeva seccamente che gli era successo, ma non entrava in particolari, e si vedeva che domande del genere gli riuscivano sgradite. Noi supponevamo avesse sulla coscienza qualche disgraziata vittima della sua terribile maestria. Del resto non ci veniva neanche in mente di sospettare in lui qualcosa di simile al timore. Ci sono persone il cui solo aspetto esteriore allontana tali sospetti. Un fatto inaspettato ci strabiliò tutti.

Un giorno una decina dei nostri ufficiali stavano pranzando da Silvio. Si bevve come di consueto, cioè moltissimo; dopo pranzo ci mettemmo a convincere il padrone di casa a tenerci il banco. Continuò a rifiutarsi a lungo, visto che non giocava quasi mai; infine si fece portare le carte, rovesciò sul tavolo un mezzo centinaio di ducati, e si sedette a tener banco. Noi lo circondammo, e si entrò nel gioco. Silvio aveva l'abitudine, durante il gioco, di mantenere un silenzio assoluto: non discuteva mai e non dava spiegazioni. Se a chi puntava succedeva di sbagliare il conto, lui o saldava il resto, o segnava l'eccedenza. Noi lo sapevamo e non gli impedivamo di spadroneggiare a modo suo; ma in mezzo a noi si trovava un ufficiale trasferito da poco tempo. Egli, nel corso della partita, per distrazione raddoppiò la posta. Silvio prese il gesso e pareggiò il conto come sua abitudine. L'ufficiale, pensando che si fosse sbagliato, chiese spiegazioni. Silvio, zitto, continuava a tenere il banco. L'ufficiale, persa la pazienza, prese la spazzola e cancellò quello che gli sembrava segnato inutilmente. Silvio prese il gesso e scrisse di nuovo. L'ufficiale, scaldato dal vino, dal gioco e dal riso dei compagni, si ritenne crudelmente offeso e, afferrato dal tavolo, nella furia, un candeliere di rame, lo scagliò addosso a Silvio, che fece appena in tempo a schivare il colpo. Noi restammo sconcertati. Silvio si alzò, pallido di rabbia, e con gli occhi scintillanti disse: «Caro signore, vogliate uscire, e ringraziate Iddio che questo sia successo in casa mia».

Non avevamo alcun dubbio sulle conseguenze e consideravamo il

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nuovo compagno già morto. L'ufficiale uscì dicendo che era pronto a rispondere dell'offesa nel modo in cui sarebbe piaciuto al signore che teneva il banco. Il gioco proseguì ancora per qualche minuto; ma, sentendo che il padrone non era in vena di giocare, ci ritirammo uno dopo l'altro e ci avviammo ognuno verso il suo alloggio, commentando il prossimo posto vacante.

Il giorno dopo al maneggio già ci chiedevamo se il povero tenente fosse ancora vivo quando lui stesso apparve fra noi; facemmo a lui la stessa domanda. Rispose che di Silvio non aveva ancora nessuna notizia. Questo ci sorprese. Andammo da Silvio e lo trovammo in cortile, che piantava pallottola su pallottola in un asso incollato al portone. Ci accolse come di consueto, senza proferire parola su quanto era accaduto il giorno prima. Passarono tre giorni e il tenente era ancora vivo. Noi, sorpresi, ci chiedevamo: possibile che Silvio non si batta? Silvio non si batté. Si accontentò di una spiegazione molto semplice e si rappacificò.

Questo incidente lo danneggiò estremamente nell'opinione della gioventù. La mancanza di coraggio è perdonata meno di ogni altra cosa dai giovani, che di solito vedono nell'audacia la massima delle umane virtù e la scusante di tutti i vizi possibili. Comunque, a poco a poco, tutto fu dimenticato, e Silvio acquistò nuovamente la sua autorità di un tempo.

Solo io non riuscivo più ad avvicinarmi a lui. Avendo per natura un'immaginazione romanzesca, prima di questo fatto ero legato più fortemente di tutti all'uomo la cui vita era un enigma, e che mi sembrava l'eroe di qualche racconto misterioso. Lui mi voleva bene; per lo meno, con me solo abbandonava la sua abituale aspra maldicenza, e parlava di vari argomenti con semplicità e un'insolita piacevolezza. Ma dopo quella sera disgraziata l'idea che il suo onore fosse macchiato e non lavato per sua stessa colpa, quest'idea non mi abbandonava, e m'impediva di trattarlo come prima; provavo vergogna a guardarlo. Silvio era troppo intelligente ed esperto per non accorgersene e non indovinarne la

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ragione. Sembrava che questo lo addolorasse; per lo meno notai un paio di volte in lui il desiderio di spiegarsi con me, ma evitai tali occasioni, e Silvio si allontanò da me. Da allora lo vidi solo in presenza dei compagni, e i nostri sinceri discorsi di un tempo ebbero fine.

I distratti abitanti della capitale non hanno idea di molte sensazioni tanto note agli abitanti dei villaggi o delle piccole città, per esempio l'attesa del giorno di posta: il martedì e il venerdì la cancelleria del reggimento si riempiva di ufficiali: chi aspettava denaro, chi una lettera, chi i giornali. I pacchi di solito si dissigillavano seduta stante, le notizie venivano comunicate, e il locale della cancelleria presentava un quadro animatissimo. Silvio riceveva le lettere all'indirizzo del nostro reggimento, e di solito si trovava appunto lì. Un giorno gli diedero un plico, dal quale strappò il sigillo con aria di massima impazienza. Scorrendo la lettera, i suoi occhi scintillavano. Gli ufficiali, presi ognuno dalle proprie lettere, non si accorsero di nulla. «Signori», disse loro Silvio, «le circostanze richiedono la mia partenza immediata; partirò nella notte; spero che non rifiuterete di pranzare da me per l'ultima volta. Aspetto anche voi», continuò, rivolgendosi a me, «vi aspetto assolutamente». Detto questo uscì in fretta; e noi, dopo esserci accordati di riunirci da Silvio, ci separammo andando ciascuno per la propria strada.

Arrivai da Silvio all'ora stabilita, e vi trovai quasi tutto il reggimento. Tutti i suoi beni erano già stati messi via; restavano solo le nude pareti crivellate. Ci sedemmo a tavola; il padrone di casa era di uno straordinario buon umore, e presto la sua allegria si fece generale; i tappi scoppiavano ogni momento, i bicchieri spumeggiavano e tintinnavano ininterrottamente, e noi con tutto l'affetto possibile gli auguravamo buon viaggio e ogni bene. Ci alzammo da tavola ormai a tarda sera. Mentre ognuno cercava il proprio berretto Silvio, congedandosi da tutti, mi prese per un braccio e mi fermò proprio nell'istante in cui mi accingevo a

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uscire. «Ho bisogno di parlare con voi», disse piano. Restai.

Gli ospiti se ne andarono; restammo in due, sedemmo l'uno di fronte all'altro e in silenzio ci accendemmo la pipa. Silvio era preoccupato; non c'era più traccia della sua convulsa allegria. Il tetro pallore, gli occhi scintillanti e il fumo denso che gli usciva dalla bocca gli conferivano l'aspetto di un vero diavolo. Passò qualche minuto, e Silvio ruppe il silenzio.

«Forse non ci rivedremo mai più», mi disse: «prima che ci separassimo volevo avere con voi una spiegazione. Avete potuto notare che stimo poco l'opinione degli altri; ma a voi voglio bene, e lo sento: per me sarebbe penoso lasciare nella vostra mente un'impressione ingiusta».

Si fermò e prese a riempire la pipa già spenta; io tacevo, abbassando gli occhi.

«Vi è sembrato strano», continuò, «che non abbia preteso soddisfazione da quell'ubriaco stravagante di R***. Converrete che, avendo il diritto di scegliere l'arma, la sua vita era nelle mie mani, e la mia quasi fuori pericolo: potrei attribuire la mia moderazione alla sola magnanimità, ma non voglio mentire. Se avessi potuto punire R*** senza esporre affatto la mia vita, non lo avrei perdonato a nessun costo».

Guardai Silvio sbalordito. Quella confessione mi aveva completamente sconcertato. Silvio continuò.

«Proprio così: io non ho il diritto di espormi alla morte. Sei anni fa ho ricevuto uno schiaffo, e il mio nemico è ancora vivo».

La mia curiosità fu fortemente eccitata.

«Non vi siete battuto con lui?», chiesi. «Le circostanze, forse, vi hanno separato?».

«Mi sono battuto con lui», rispose Silvio, «ed ecco il ricordo del nostro duello».

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Silvio si alzò e tirò fuori da uno scatolone un berretto rosso con una nappa d'oro, con un gallone (quello che i francesi chiamano bonnet de police); lo indossò; era stato traforato da parte a parte a un veršók dalla fronte.

«Sapete», continuò Silvio, «che ho prestato servizio nel *** reggimento degli ussari. Il mio carattere lo conoscete: sono abituato a primeggiare, ma da giovane questa era per me una fissazione. Ai nostri tempi la turbolenza era di moda: io ero il primo attaccabrighe dell'esercito. Ci vantavamo dell'ubriachezza: io vinsi nel bere il famoso Bùrcov, cantato da Denìs Davýdov. Duelli nel nostro reggimento ne capitavano a ogni istante: io a tutti partecipavo o in qualità di testimone, o di protagonista. I compagni mi adoravano, mentre i comandanti del reggimento, sostituiti continuamente, mi guardavano come un male inevitabile.

«Mi godevo quieto (o inquieto) la mia gloria, quando venne assegnato da noi un giovane di una ricca e illustre famiglia (non voglio farne il nome). Non avevo mai incontrato in vita un fortunato così brillante! Immaginatevi giovinezza, intelligenza, bellezza, l'allegria più indiavolata, il coraggio più incurante, il nome altisonante, il denaro, del quale non teneva il conto e che non si esauriva mai, e immaginatevi che effetto dovesse egli produrre in mezzo a noi. Il mio primato vacillò. Lusingato dalla mia fama, prese a cercare la mia amicizia; ma io lo accolsi freddamente, e lui senza nessun rimpianto si allontanò da me. Presi a odiarlo. I suoi successi nel reggimento e in ambiente femminile mi conducevano a un'assoluta disperazione. Cominciai a cercare con lui il pretesto di un litigio; ai miei epigrammi rispondeva con epigrammi, che mi sembravano sempre più imprevedibili e pungenti dei miei, e che, di certo, erano incomparabilmente più allegri: lui scherzava, mentre io m'incattivivo. Infine un giorno, al ballo di un proprietario polacco, vedendolo oggetto di attenzione di tutte le signore, e in particolare della stessa padrona di casa, che era legata a me, gli dissi

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all'orecchio una banale volgarità. Lui andò su tutte le furie e mi diede uno schiaffo. Ci gettammo sulle sciabole; le signore svennero una dopo l'altra; ci separarono, e quella notte stessa andammo a batterci.

«Era l'alba. Mi trovavo nel luogo convenuto con i miei tre padrini. Con indicibile impazienza attendevo il mio avversario. Il sole primaverile spuntò, e il caldo già stava arrivando. Lo scorsi da lontano. Veniva a piedi, con l'uniforme appesa alla sciabola, accompagnato da un solo padrino. Gli andammo incontro. Lui si avvicinò, tenendo in mano il berretto colmo di ciliegie. I padrini misurarono per noi dodici passi. Toccava a me sparare per primo, ma l'agitazione provocatami dall'ira era così forte che non potei contare sulla fermezza della mano e, per darmi il tempo di raffreddarmi, gli cedetti il primo colpo: il mio avversario non acconsentì. Decidemmo di tirare a sorte: il primo numero toccò a lui, eterno prediletto della fortuna. Mirò e mi trapassò il berretto. Toccava a me. La sua vita finalmente era nelle mie mani; lo guardavo avidamente, tentando di afferrare sia pure un'ombra d'inquietudine... Stava sotto il tiro della pistola; sceglieva dal berretto le ciliegie mature e ne sputava i noccioli, che volavano fino a me. La sua indifferenza mi rese furioso. A che mi serve, pensai, privarlo della vita, quando lui non la tiene in nessun conto? Un pensiero malvagio mi balenò alla mente. Abbassai la pistola. "Sembrate avere altro per la testa che la morte" gli dissi; "fate pure colazione, non ho voglia di disturbarvi". "Voi non mi disturbate affatto" replicò, "sparate pure; del resto, fate come volete; il colpo resta a voi: io sono sempre pronto ai vostri ordini". Mi rivolsi ai padrini, dichiarando che in quel momento non avevo intenzione di sparare, e il duello si concluse così.

«Andai in congedo e mi ritirai in questa cittadina. Da allora non è passato un solo giorno che io non abbia pensato alla vendetta. Adesso è giunta la mia ora...».

Silvio tirò fuori dalla tasca la lettera ricevuta al mattino, e me la

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fece leggere. Qualcuno (mi pare il suo amministratore) gli scriveva da Mosca che una certa persona presto avrebbe dovuto contrarre legittime nozze con una giovane e bellissima fanciulla.

«Indovinerete», disse Silvio, «chi sia questa certa persona. Parto per Mosca. Vedremo se accoglierà la morte con tanta indifferenza prima delle sue nozze, come una volta l'aspettava mangiando le ciliegie!».

A queste parole Silvio si alzò, gettò a terra il berretto e prese a camminare avanti e indietro per le stanza, come una tigre in gabbia. Io lo ascoltavo immobile; strani sentimenti contraddittori mi rendevano inquieto.

Il servo entrò e annunciò che i cavalli erano pronti. Silvio mi strinse forte la mano; ci baciammo. Salì sul carretto, dov'erano due valigie: una con la pistola, l'altra con la sua roba. Ci salutammo ancora una volta, e i cavalli partirono al galoppo.

II

Passarono alcuni anni, e circostanze familiari mi costrinsero a stabilirmi in un povero paesino del distretto di N***. Occupandomi dell'amministrazione della casa, non smettevo di sospirare in silenzio per la mia vita chiassosa e spensierata di un tempo. Più difficile di tutto era per me abituarmi a trascorrere le serate autunnali e invernali in assoluta solitudine. Fino al pranzo riuscivo a far passare ancora il tempo in qualche modo, discorrendo con lo stàrosta, andando di qua e di là per lavoro o visitando le nuove costruzioni; ma non appena cominciava a imbrunire non sapevo assolutamente dove andarmi a cacciare. I pochi libri che avevo trovato sotto gli armadi e in dispensa erano già stati da me imparati a memoria. Tutte le fiabe che riusciva a ricordare la governante Kirílovna mi erano già state raccontate per filo e per segno; i canti delle contadine mi mettevano malinconia. Cominciai a darmi al liquore non addolcito, ma mi faceva venire il

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mal di testa; e poi, lo confesso, avevo paura di diventare un ubriaco per disperazione, cioè il più disperato degli ubriaconi, di cui vedevo molti esempi nel nostro distretto. Vicini non ne avevo, a parte due o tre disperati, la conversazione dei quali consisteva per lo più in singhiozzi e sospiri. La solitudine era più tollerabile.

A quattro verste da me si trovava una ricca proprietà, che apparteneva alla contessa B***; ma vi abitava soltanto l'amministratore, mentre la contessa aveva visitato la sua proprietà solo una volta, il primo anno del suo matrimonio, e anche allora non vi aveva trascorso più di un mese. Tuttavia, nella seconda primavera della mia clausura, si sparse la voce che la contessa sarebbe venuta col marito a passare l'estate nella sua campagna. Effettivamente arrivarono all'inizio di giugno.

L'arrivo di un ricco vicino è un avvenimento importante per gli abitanti della campagna. I proprietari e la loro servitù ne parlano un paio di mesi prima e fino a tre anni dopo. Per quanto mi riguarda, confesso che la notizia dell'arrivo di una giovane e bellissima vicina ebbe su di me un forte effetto; ardevo dall'impazienza di vederla, e perciò, la prima domenica dopo il suo arrivo, mi recai dopo pranzo nel villaggio di *** a presentarmi alle loro eccellenze come vicino confinante e umilissimo servo.

Il lacchè mi introdusse nello studio del conte, e andò lui stesso ad annunciarmi. L'ampio studio era arredato con tutto il lusso possibile; lungo le pareti si trovavano scaffali con i libri, e su ognuno un busto di bronzo; su un camino di marmo c'era un largo specchio; il pavimento era coperto da un panno verde e rivestito di tappeti. Disabituato al lusso nel mio povero cantuccio, senza aver visto da tanto tempo l'altrui ricchezza, m'impaurii, e aspettai il conte con una certa trepidazione, come un postulante di provincia aspetta il ricevimento di un ministro. La porta si aprì, e fece ingresso un uomo sui trentadue anni, di bellissimo aspetto. Il conte mi si avvicinò con fare aperto e amichevole; cercai di farmi coraggio e feci per presentarmi, ma lui mi prevenne. Ci sedemmo.

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La sua conversazione, disinvolta e amabile, ben presto sciolse la mia inselvatichita timidezza; già cominciavo a entrare nel mio stato abituale, quando a un tratto entrò la contessa, e la confusione s'impossessò di me più di prima. Era davvero una bellezza. Il conte mi presentò; io volevo apparire disinvolto, ma quanto più cercavo di assumere un atteggiamento spigliato, tanto più mi sentivo impacciato. Loro, per darmi il tempo di riprendermi e di abituarmi alla nuova conoscenza, si misero a parlare fra di loro, trattandomi da buon vicino e senza complimenti. Nel frattempo cominciai a camminare avanti e indietro, osservando libri e quadri. Di quadri non sono intenditore, ma uno attirò la mia attenzione. Rappresentava un paesaggio svizzero; ma in esso non mi colpì la tecnica della pittura, bensì il fatto che il quadro fosse trapassato da due pallottole, piantate una sull'altra.

«Ecco un bel colpo», dissi, rivolgendomi al conte.

«Sì», rispose lui, «il colpo è assai notevole. E voi tirate bene?», proseguì.

«Discretamente», risposi, rallegrandomi che il discorso avesse infine toccato un argomento a me familiare. «A trenta passi non posso mancare una carta da gioco; naturalmente con pistole che conosco».

«Davvero?», disse la contessa, con aria di grande attenzione; «e tu, amico mio, colpiresti una carta a trenta passi?».

«Una volta», rispose il conte, «ci proveremo. A suo tempo non tiravo male, ma ormai sono quattro anni che non prendo in mano una pistola».

«Oh», osservai, «in tal caso scommetto che vostra eccellenza non colpirebbe la carta neppure a venti passi: la pistola richiede un esercizio quotidiano. Lo so per esperienza. Nel nostro reggimento ero considerato uno dei migliori tiratori. Una volta mi accadde di non prendere in mano la pistola un mese intero: le mie erano in riparazione; che cosa pensereste, eccellenza? La prima volta che

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ripresi a tirare mancai quattro volte di seguito una bottiglia a venticinque passi. Da noi c'era un capitano, un burlone spiritoso; capitò lì per caso e mi disse: vuol dire che a te, caro mio, la mano non ti si alza contro la bottiglia. No, vostra eccellenza, non si deve trascurare quest'esercizio, altrimenti perdi subito l'abitudine. Il miglior tiratore che mi è capitato d'incontrare tirava ogni giorno, almeno tre volte prima di pranzo. Per lui era una consuetudine, come il bicchierino di vodka».

Il conte e la contessa erano contenti che io mi fossi messo a parlare. «E come tirava?», mi chiese il conte.

«Ecco come, vostra eccellenza: capitava che vedesse una mosca posarsi sul muro: ridete, contessa? Giuro che è la verità. A volte vedeva una mosca e gridava: Kùz'ka, la pistola! E Kùz'ka gli portava la pistola carica. Lui, pah, e schiacciava la mosca nel muro!».

«Sorprendente!», disse il conte; «e come si chiamava?».

«Silvio, eccellenza».

«Silvio!», gridò il conte, balzando in piedi; «voi conoscevate Silvio?».

«Altroché, eccellenza; eravamo amici; nel nostro reggimento era trattato da amico fraterno; ma ormai sono quasi cinque anni che di lui non ho nessuna notizia. Così anche vostra eccellenza l'ha conosciuto?».

«L'ho conosciuto, l'ho conosciuto bene. Non vi ha raccontato forse... ma no, non credo; non vi ha raccontato un fatto molto strano?».

«Non sarà lo schiaffo, vostra eccellenza, che ricevette a un ballo da uno scapestrato?».

«E vi ha detto il nome di questo scapestrato?».

«No, vostra eccellenza, non me l'ha detto... Ah! Eccellenza»,

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seguitai, intuendo la verità, «perdonate... non sapevo... siete voi forse?...».

«Io in persona», rispose il conte con un'aria straordinariamente sconvolta, «e il quadro traforato è il ricordo del nostro ultimo incontro...».

«Ah, mio caro», disse la contessa, «in nome di Dio non raccontare; mi fa paura solo a sentirlo».

«No», replicò il conte, «racconterò tutto; lui sa come offesi il suo amico: che sappia come Silvio si vendicò di me».

Il conte mi avvicinò una poltrona, e io con la più viva curiosità ascoltai il seguente racconto.

«Cinque anni fa mi sposai. Il primo mese, the honeymoon, lo trascorsi qui, in questa campagna. A questa casa devo i momenti migliori della mia vita e uno dei ricordi più opprimenti.

«Una sera eravamo usciti insieme a cavallo; il cavallo di mia moglie piantò un capriccio per qualche motivo; lei si spaventò, mi cedette le redini e andò a casa a piedi; io andai avanti. In cortile scorsi una vettura da viaggio; mi dissero che nel mio studio c'era una persona che non aveva voluto dichiarare il suo nome, ma che aveva detto semplicemente di avere una questione da sbrigare con me. Io entrai in questa stanza e nell'oscurità vidi un uomo, impolverato e con la barba incolta; stava qui in piedi davanti al camino. Mi accostai a lui, tentando di riportare alla memoria i suoi lineamenti. "Non mi hai riconosciuto, conte?", disse, con voce tremante. "Silvio!", gridai, e, lo confesso, all'improvviso mi sentii rizzare i capelli. "Proprio così", riprese, "il colpo sta a me; sono venuto a scaricare la mia pistola; sei pronto?". La pistola gli sporgeva dalla tasca laterale. Misurai dodici passi e mi fermai lì nell'angolo, pregandolo di sparare al più presto, prima che mia moglie tornasse. Lui indugiava - chiese della luce. Furono portate le candele. Serrai la porta, ordinai che nessuno entrasse e gli chiesi nuovamente di sparare. Estrasse la pistola e mirò... Io contavo i

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secondi... pensavo a lei... Passò un minuto tremendo! Silvio abbassò il braccio. "Peccato", disse, "che la pistola non sia caricata a noccioli di ciliegie... la pallottola è pesante. Mi pare sempre che il nostro non sia un duello, ma un omicidio: non sono abituato a mirare contro un disarmato. Cominciamo daccapo; tiriamo a sorte chi debba sparare per primo". La testa mi girava... Mi pare che non acconsentissi... Infine caricammo ancora una pistola; arrotolammo due biglietti; lui li mise nel berretto che un tempo avevo traforato; io estrassi di nuovo il numero uno. "Conte, sei diabolicamente fortunato", disse con un sogghigno che non dimenticherò mai. Non capisco che cosa mi fosse successo, e in che modo avesse potuto indurmi a questo... ma sparai e colpii questo quadro». (Il conte indicò col dito il quadro trapassato; il suo viso ardeva come il fuoco; la contessa era più pallida del suo fazzoletto: io non potei trattenere un'esclamazione).

«Sparai un colpo», continuò il conte, «e, grazie a Dio, lo mancai; allora Silvio... (in quel momento era davvero terribile) Silvio puntò contro di me. Improvvisamente la porta si aprì, Maša irruppe e con un grido mi si gettò al collo. La sua presenza mi restituì tutto il coraggio. "Cara", le dissi, "non vedi che scherziamo? Come ti sei spaventata! Va' a bere un bicchier d'acqua e torna qui da noi; ti presenterò un vecchio amico e compagno". Maša stentava ancora a crederlo. "Ditemi, mio marito dice la verità?", chiese, rivolgendosi al minaccioso Silvio, "è vero che scherzate entrambi?". "Lui scherza sempre, contessa", le rispose Silvio; "una volta mi diede per scherzo uno schiaffo, per scherzo ha trapassato questo berretto, per scherzo adesso mi ha mancato; e adesso anche a me è venuta voglia di scherzare...". Detto questo voleva prendere la mira contro di me... davanti a lei! Maša si gettò ai suoi piedi. "Alzati, Maša, è vergogna!" strillai infuriato; "e voi, signore, volete smetterla di farvi beffe di una povera donna? Volete sparare sì o no?". "Non lo farò", rispose Silvio, "sono soddisfatto: ho visto il tuo turbamento, il tuo timore; ti ho costretto a spararmi addosso, questo mi basta. Ti ricorderai di

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me. Ti rimetto alla tua coscienza". A questo punto stava per uscire, ma si fermò alla porta, si volse a guardare il quadro da me traforato, vi sparò contro, quasi senza prendere la mira, e sparì. Mia moglie giaceva svenuta; la servitù non osava fermarlo e lo guardava inorridita; egli uscì sulla scalinata, chiamò con uno strillo il vetturale e ripartì, prima che io facessi in tempo a riprendermi».

Il conte tacque. In questo modo appresi la fine del racconto, il cui inizio un giorno mi aveva tanto colpito. Nel suo eroe non mi sono più imbattuto. Raccontano che Silvio, durante l'insurrezione di Alessandro Ipsilanti, comandasse un reparto di eteristi e rimanesse ucciso in combattimento presso Skuliany.

LA TORMENTA

Sui poggi volano i destrieri,

Calpestano la profonda neve...

Ecco, in disparte un solitario

Tempio di Dio si vede.

.....

A un tratto la tormenta è intorno;

La neve a fiocchi s'abbatte;

Fischiando con l'ala un nero corvo

Volteggia sulla slitta;

Annuncia dolore un profetico lamento!

I frettolosi corsieri

Scrutano l'oscura lontananza attenti

Sollevando la criniera...

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Žukóvskij

Alla fine del 1811, epoca per noi memorabile, viveva nella sua tenuta di Nenaràdovo il buon Gavrìla Gavrìloviè R***. Era famoso in tutto il circondario per l'ospitalità e la cordialità; i vicini si recavano continuamente da lui a mangiare, a bere, a giocare cinque copechi a boston con sua moglie, Praskóv'ja Petróvna, e alcuni a guardare la loro figliola, Mar'ja Gavrìlovna, una snella e pallida fanciulla di diciassette anni. Ella era considerata un buon partito, e molti vi aspiravano per sé o per i propri figli.

Mar'ja Gavrìlovna si era formata sui romanzi francesi e, di conseguenza, era innamorata. L'oggetto da lei prescelto era un povero sottotenente dell'esercito, che si trovava in licenza nel proprio villaggio. Va da sé che il giovane ardesse di uguale passione, e che i genitori della sua bella, al corrente della reciproca inclinazione, avessero proibito alla figlia finanche di pensare a lui, e lo ricevessero peggio di un assessore a riposo.

I nostri innamorati erano in corrispondenza e ogni giorno s'incontravano da soli nella pineta o presso una vecchia cappella. Là si giuravano l'un l'altro eterno amore, si lamentavano della sorte e facevano varie congetture. Scrivendosi e discorrendo in questo modo giunsero (cosa assai naturale) alla seguente conclusione: se non riusciamo a respirare l'una senza l'altro, ma la nostra felicità è ostacolata dalla volontà dei crudeli genitori, non potremmo fare a meno d'assecondarla? S'intende che questa felice idea venne in mente prima al giovane, e che piacque molto all'immaginazione romanzesca di Mar'ja Gavrìlovna.

Venne l'inverno e interruppe i loro incontri, ma la corrispondenza si fece per questo più viva. Vladìmir Nikolàeviè in ogni lettera la scongiurava di affidarsi a lui, di sposarsi in segreto, di nascondersi per qualche tempo, di gettarsi poi ai piedi dei genitori, che certamente sarebbero stati commossi infine dall'eroica costanza e dall'infelicità degli innamorati, e avrebbero detto loro

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immancabilmente: «Figli! venite nelle nostre braccia!».

Mar'ja Gavrìlovna esitò a lungo; molti piani di fuga vennero respinti. Infine acconsentì: il giorno stabilito non doveva cenare, e doveva ritirarsi in camera sua con la scusa di un mal di testa. La sua cameriera faceva parte del complotto; entrambe dovevano uscire in giardino servendosi della scalinata posteriore, dietro il giardino avrebbero trovato una slitta pronta con la quale sarebbero andate a cinque verste da Nenaràdovo nel villaggio di Žàdrino, direttamente in chiesa, dove Vladìmir le avrebbe aspettate.

La vigilia del giorno decisivo Mar'ja Gavrìlovna restò tutta la notte sveglia, sistemando le sue cose, legando in un fagotto la biancheria e i vestiti; scrisse una lunga lettera a una sensibile signorina sua amica, e un'altra ai genitori. Si congedava da loro con le espressioni più commoventi, scusava la colpa con l'invincibile forza della passione e concludeva dicendo che avrebbe considerato l'istante più beato della sua vita quello in cui le sarebbe stato concesso di gettarsi ai piedi dei suoi carissimi genitori. Poco prima dell'alba, dopo aver chiuso entrambe le lettere con un sigillo di Tula, sul quale erano raffigurati due cuori ardenti con un'iscrizione adeguata, si gettò sul letto e si assopì; ma anche allora terribili sogni la svegliavano di continuo. Ora le sembrava che nello stesso istante in cui saliva sulla slitta, per andare a sposarsi, suo padre la fermasse, la trascinasse a una velocità tormentosa sulla neve e la gettasse in un buio sotterraneo senza fondo... e lei volava giù a capofitto con un'indescrivibile stretta al cuore; ora vedeva Vladìmir, steso sull'erba, pallido, insanguinato. Lui, morendo, la pregava con voce penetrante di far presto a sposarlo... altre visioni mostruose, insensate le passavano davanti agli occhi una dopo l'altra. Finalmente si alzò, più pallida del solito e con un mal di testa non simulato. Il padre e la madre notarono la sua inquietudine; la loro tenera premura e le loro domande incessanti: cos'hai, Maša? non sarai malata, Maša? le dilaniavano il cuore. Tentava di calmarli, di apparire allegra, e non ci riusciva. Arrivò la

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sera. Il pensiero di trascorrere ormai l'ultimo giorno in famiglia le stringeva il cuore. Era più morta che viva; segretamente prendeva congedo da tutte le persone, da tutti gli oggetti che la circondavano. Fu servita la cena; il cuore prese a batterle con forza. Con voce tremante dichiarò che non aveva voglia di cenare, e cominciò a salutare il padre e la madre. Loro la baciarono e, come d'abitudine, la benedissero: lei per poco non scoppiò a piangere. Arrivata in camera sua, si gettò sulla poltrona e si sciolse in lacrime. La cameriera tentava di convincerla a calmarsi e a farsi coraggio. Tutto era pronto. Mezz'ora dopo Màša avrebbe lasciato per sempre la casa paterna, la sua camera, la tranquilla vita di ragazza. Fuori c'era la tormenta; il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano; tutto le sembrava una minaccia e un triste auspicio. Presto in casa tutto tacque e si addormentò. Maša si avvolse in uno scialle, indossò un mantello caldo, prese in mano il suo cofanetto e uscì sulla scalinata posteriore. La serva la seguiva portando due fagotti. Scesero in giardino. La tormenta non si calmava; il vento soffiava in senso contrario, come se tentasse di fermare la giovane malfattrice. Giunsero a stento alla fine del giardino. Sulla strada le attendeva una slitta.

I cavalli, intirizziti, non stavano fermi; il cocchiere di Vladìmir passeggiava davanti alle stanghe, trattenendo i più focosi. Egli aiutò la signorina e la cameriera a sedersi e a sistemare fagotti e cofanetto, afferrò le redini, e i cavalli volarono. Affidata la signorina alle cure della sorte e all'arte di Teréška il cocchiere, passiamo al nostro giovane innamorato.

Vladìmir era stato in giro tutto il giorno. La mattina era passato dal prete di Žàdrino; a fatica aveva preso accordi con lui; poi era andato a cercare i testimoni fra i proprietari vicini. Il primo al quale si era presentato, il quarantenne cornetta a riposo Dràvin, accettò volentieri. Continuava a dire che quell'avventura gli ricordava i tempi andati e le marachelle ussare. Convinse Vladìmir a fermarsi a pranzo da lui e lo assicurò che per gli altri due

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testimoni non ci sarebbero stati problemi. In effetti, subito dopo pranzo, apparvero l'agrimensore Šmit, con baffi e speroni, e il figlio del capitano-capo della polizia, un ragazzo sui sedici anni che si era arruolato da poco in un reggimento di ulani. Costoro non solo accettarono la proposta di Vladìmir, ma gli giurarono addirittura di essere pronti a sacrificare la vita per lui. Vladìmir li abbracciò con entusiasmo e andò a casa a prepararsi.

Da tempo ormai imbruniva. Vladìmir mandò il fidato Tereška a Nenaràdovo con la trojka e istruzioni dettagliate, circostanziate, mentre per sé ordinò di attaccare una piccola slitta a un cavallo, e solo, senza cocchiere, si diresse a Žàdrino, ove un paio d'ore dopo sarebbe dovuta arrivare anche Mar'ja Gavrìlovna. La strada gli era nota, e il tragitto non durava che venti minuti.

Ma non appena Vladìmir uscì dalla cinta del villaggio in campagna, si sollevò il vento e una tale tormenta che egli non distinse più nulla. In un attimo la strada si fece ingombra di neve; i dintorni scomparvero in una tenebra torbida e giallognola, attraverso la quale volavano bianchi fiocchi di neve; il cielo si fuse con la terra. Vladìmir si ritrovò nel campo e cercò invano di imboccare nuovamente la strada; il cavallo procedeva alla ventura e, continuamente, ora saliva su un cumulo di neve, ora sprofondava in una fossa; la slitta si rovesciava ogni momento; Vladìmir cercava solo di non perdere la giusta direzione. Ma gli sembrava che fosse già trascorsa più di mezz'ora, e lui non era ancora arrivato al boschetto di Žàdrino. Passò ancora una decina di minuti; il boschetto continuava a non vedersi. Vladìmir andava per un campo solcato da profondi burroni. La tormenta non si placava, il cielo non si rischiarava. Il cavallo cominciava a stancarsi, e lui grondava sudore, sebbene fosse continuamente nella neve fino alla cintola.

Infine si accorse di non andare nella direzione giusta. Si fermò: cominciò a pensare, a ricordare, a raccapezzarsi, e si convinse che doveva prendere a destra. Andò a destra. Il cavallo avanzava a

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stento. Ormai era in viaggio da più di un'ora. Žàdrino non doveva essere lontana. Ma lui andava, andava, e il campo non finiva mai. Sempre cumuli e dirupi; ogni momento la slitta si rovesciava, ogni momento lui la rimetteva in piedi. Il tempo passava, Vladìmir cominciava ad essere molto agitato.

Infine da una parte cominciò a nereggiare qualcosa. Vladìmir voltò in quella direzione. Avvicinandosi vide un boschetto. Grazie a Dio, pensò, adesso è vicino. Costeggiò il boschetto, sperando d'imboccare subito la strada giusta o di aggirare il boschetto tutt'intorno: Žàdrino era subito lì dietro. Presto trovò la strada e si addentrò nella tenebra degli alberi, denudati dall'inverno. Là il vento non poteva infuriare; la strada era piatta; il cavallo riprese coraggio, e Vladìmir si tranquillizzò.

Ma andava, andava, e Žàdrino continuava a non vedersi; il boschetto non finiva mai. Vladìmir si accorse con terrore di essere entrato in un bosco sconosciuto. La disperazione s'impadronì di lui. Colpì il cavallo; la povera bestia si mise al trotto, ma presto cominciò a dare segni di stanchezza, e dopo un quarto d'ora tornò al passo, nonostante tutti gli sforzi dello sventurato Vladìmir.

A poco a poco gli alberi cominciarono a diradarsi, e Vladìmir uscì dal bosco; Žàdrino continuava a non vedersi. Doveva essere quasi mezzanotte. Le lacrime gli sgorgarono dagli occhi; andò alla ventura. Il tempo si era calmato, le nuvole dissipate; davanti a lui si stendeva la pianura, coperta da un bianco tappeto ondulato. La notte era abbastanza chiara. Vide in lontananza un paesetto, composto da quattro o cinque case. Vladìmir vi si diresse. Alla prima capanna saltò giù dalla slitta, corse alla finestra e cominciò a picchiare. Dopo qualche minuto l'imposta di legno si alzò, e un vecchio sporse la sua barba bianca: «Che ti serve?». «È lontano Žàdrino?». «Se Žàdrino è lontano?». «Eh, sì! È lontano?». «No, non è lontano; sarà una decina di verste». A questa risposta Vladìmir si mise le mani nei capelli e restò immobile, come un condannato a morte.

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«E tu di dove sei?», continuò il vecchio. Vladìmir non aveva la forza di rispondere alle domande. «Potresti, vecchio», disse, «procurarmi dei cavalli fino a Žàdrino?». «Quali cavalli vuoi che abbiamo!», rispose il contadino. «Non potrei prendere almeno una guida? La pagherò quanto vorrà». «Aspetta», disse il vecchio, abbassando l'imposta, «ti mando mio figlio; ti accompagnerà lui». Vladìmir si mise ad aspettare. Non era passato un minuto che riprese di nuovo a bussare. L'imposta si alzò, la barba riapparve. «Che ti serve?». «Allora, tuo figlio?». «Ora esce, si sta mettendo le scarpe. Ma ti sei gelato? entra a scaldarti». «Grazie, fa' in fretta a mandare tuo figlio».

La porta cigolò; un giovane uscì fuori con un grosso bastone, e andò avanti, ora indicando, ora cercando la strada, seppellita da cumuli di neve. «Che ore sono?», gli chiese Vladìmir. «Presto farà giorno», rispose il giovane contadino. Vladìmir non disse più una parola.

Cantavano i galli e già era chiaro quando raggiunsero Žàdrino. La chiesa era sbarrata. Vladìmir pagò la guida e andò in cortile dal prete. In cortile la sua trojka non c'era. Che notizia lo attendeva!

Ma torniamo ai buoni proprietari di Nenaràdovo, e vediamo che cosa succede da loro.

Proprio niente.

I vecchi si erano svegliati ed erano andati in salotto. Gavrìla Gavrìloviè in berretto da notte e giacchetta di flanella, Praskóv'ja Petróvna in una veste da camera imbottita d'ovatta. Fu portato il samovàr, e Gavrìla Gavrìloviè mandò una ragazzina a informarsi da Mar'ja Gavrìlovna come si sentisse, e come avesse riposato. La ragazzina tornò annunciando che la signorina aveva dormito male, ma che adesso stava meglio e che sarebbe venuta subito in salotto. Infatti la porta si aprì, e Mar'ja Gavrìlovna si avvicinò a salutare babbino e mammina.

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«Come va la tua testa, Maša?», chiese Gavrìla Gavrìloviè. «Meglio, babbino» rispose Màša. «Ieri, Maša, ti hanno fatto male le esalazioni di carbone», disse Praskóv'ja Petróvna. «Può darsi, mammina», rispose Màša.

Il giorno trascorse felicemente, ma nella notte Maša si sentì male. Mandarono a chiamare un dottore in città. Questi arrivò verso sera e trovò la malata in delirio. Le scoppiò una gran febbre, e la povera ammalata si trovò per due settimane sull'orlo della tomba.

Nessuno in casa sapeva della fuga progettata. Le lettere da lei scritte il giorno prima erano state bruciate; la cameriera non aveva detto niente a nessuno, temendo l'ira dei padroni. Il prete, il sottotenente cornetta a riposo, il baffuto agrimensore e il piccolo ulano erano stati discreti, e non senza ragione. Teréška il cocchiere non aveva detto una sola parola di troppo, neppure nell'ubriachezza. In tal modo il segreto fu mantenuto da più di mezza dozzina di congiurati. Ma Mar'ja Gavrìlovna stessa nel delirio ininterrotto finì per svelare il suo segreto. Tuttavia le sue parole erano talmente slegate che la madre, che non si allontanava un istante dal suo capezzale, riuscì a dedurne solo che sua figlia era mortalmente innamorata di Vladìmir Nikolàeviè, e che, probabilmente, l'amore era la causa della sua malattia. Si consigliò con il marito, con diversi vicini, e infine tutti decisero all'unanimità che evidentemente questa era la sorte di Mar'ja Gavrìlovna, che neanche a cavallo si sfugge a ciò che è predestinato, che la povertà non è un vizio, che non si vive con la ricchezza, ma con un uomo, e così via. Le sentenze morali risultano straordinariamente utili nei casi in cui possiamo escogitare ben poco a nostra giustificazione.

Nel frattempo la signorina cominciava a rimettersi. Da tempo Vladìmir non si vedeva in casa di Gavrìla Gavrìloviè. Temeva di essere accolto nel solito modo. Decisero di mandarlo a chiamare e di annunciargli l'inattesa felicità: il consenso al matrimonio. Ma quale fu lo stupore dei proprietari di Nenaràdovo, quando in

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risposta al loro invito ricevettero da lui una lettera semifolle! In essa dichiarava che non avrebbe mai più messo piede in casa loro, e chiedeva di dimenticare l'infelice, per il quale la morte rimaneva l'unica speranza. Dopo qualche giorno vennero a sapere che Vladìmir si era arruolato nell'esercito. Ciò accadeva nel 1812.

Per molto tempo non osarono rivelarlo a Màša convalescente. Lei non accennava mai a Vladìmir. Alcuni mesi più tardi, trovato il nome di lui fra coloro che si erano distinti ed erano stati gravemente feriti presso Borodinò, cadde svenuta, e temettero che le tornasse la febbre alta. Invece, grazie a Dio, lo svenimento non ebbe conseguenze.

Un altro dolore la visitò: Gavrìla Gavrìloviè morì, lasciandola erede di tutta la proprietà. Ma l'eredità non la confortava; condivideva sinceramente l'afflizione della povera Praskòv'ja Petróvna, giurava che non si sarebbe mai separata da lei; entrambe lasciarono Nenaràdovo, luogo di tristi ricordi, e andarono a vivere nella tenuta di ***.

Anche qui i pretendenti giravano attorno alla graziosa e ricca ragazza da marito, ma lei non dava la minima speranza a nessuno. La madre a volte tentava di convincerla a scegliersi un compagno; Mar'ja Gavrìlovna scuoteva la testa e si faceva pensierosa. Vladìmir non esisteva più: era morto a Mosca, alla vigilia dell'entrata dei francesi. Il suo ricordo a Maša sembrava sacro; quanto meno lei custodiva tutto quello che poteva ricordarglielo: i libri da lui letti un tempo, i suoi disegni, la musica e i versi da lui trascritti per lei. I vicini, venuti a sapere tutto, si meravigliavano della sua costanza e aspettavano incuriositi l'eroe che avrebbe dovuto infine trionfare sulla mesta fedeltà di questa verginale Artemisia.

Frattanto la guerra si era conclusa gloriosamente. I nostri reggimenti tornavano dall'estero. Il popolo correva loro incontro. La musica suonava le canzoni della conquista: Vive Henri-Quatre, valzer tirolesi e arie dalla Joconde. Gli ufficiali, partiti per la

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guerra adolescenti, tornavano, diventati uomini all'aria della battaglia, coperti di croci. I soldati chiacchieravano allegramente fra loro, inserendo continuamente nel discorso parole tedesche e francesi. Tempo indimenticabile! Tempo di gloria e di entusiasmo! Come batteva forte il cuore russo alla parola «patria»! Com'erano dolci le lacrime dell'incontro! Con quale concordia univamo il sentimento di orgoglio nazionale a quello di amore per il sovrano! E per lui, che momento era quello!

Le donne, le donne russe furono allora incomparabili. La loro consueta freddezza era sparita. Il loro entusiasmo era davvero incantevole quando, accogliendo i vincitori, gridavano: urrà!

E lanciavano le cuffiette in aria.

Chi, tra gli ufficiali di allora, non riconoscerà di essere stato debitore alla donna russa della migliore, più preziosa ricompensa?

In questo splendido periodo Mar'ja Gavrìlovna viveva con la madre nel governatorato di *** e non vide come entrambe le capitali festeggiassero il rientro delle truppe. Nei distretti e nei villaggi, poi, l'entusiasmo generale era ancora più forte. Per un ufficiale la comparsa in quei luoghi era un vero e proprio trionfo, e l'amante in frac aveva la peggio accanto a lui.

Abbiamo già avuto occasione di dire che, nonostante la sua freddezza, Mar'ja Gavrìlovna continuava a essere circondata come prima dai corteggiatori. Ma tutti dovettero ritirarsi quando apparve nel suo castello il colonnello degli ussari ferito Burmìn, con la croce di San Giorgio all'occhiello e un pallore interessante, come dicevano le signorine del luogo. Aveva all'incirca ventisei anni. Era venuto in licenza nei suoi possedimenti, che si trovavano vicino alle terre di Mar'ja Gavrìlovna. Mar'ja Gavrìlovna lo distingueva nettamente dagli altri. In presenza di lui la sua abituale pensosità si animava. Non si poteva dire che facesse la civetta con lui; ma un poeta, osservando il suo comportamento, avrebbe detto:

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Se amor non è, che è dunque?...

Burmìn era, in effetti, un giovane molto simpatico. Aveva esattamente quel giudizio che piace alle donne: il giudizio della convenienza e dell'osservazione, priva di qualunque pretesa e spensieratamente canzonatoria. Il suo contegno con Mar'ja Gravrìlovna era semplice e spontaneo; ma qualunque cosa ella dicesse o facesse, l'anima e gli sguardi di lui le andavano appresso. Sembrava avesse un carattere tranquillo e riservato, ma voci assicuravano che un tempo era stato un terribile scapestrato, e questo non lo danneggiava nell'opinione di Mar'ja Gavrìlovna, che (come del resto tutte le giovani dame in generale) perdonava con piacere le monellerie che rivelassero un carattere audace e impetuoso.

Ma più di tutto... (più della sua tenerezza, più della gradevole conversazione, più del pallore interessante, più del braccio fasciato) più di ogni altra cosa il silenzio del giovane ussaro stuzzicava la curiosità e l'immaginazione di lei. Ella non poteva fare a meno di riconoscere di piacergli molto; probabilmente anche lui, con la sua intelligenza ed esperienza, aveva già notato che lei lo prediligeva: come mai dunque non lo aveva ancora visto ai suoi piedi e non aveva ancora ascoltato la sua dichiarazione? Che cosa lo tratteneva? La timidezza, inseparabile da un amore sincero, l'orgoglio, oppure una civetteria da astuto donnaiolo? Questo era per lei un enigma. Dopo averci pensato per bene decise che l'unica ragione poteva essere la timidezza, e decise d'incoraggiarlo con una maggiore premura e, a seconda delle circostanze, anche con la tenerezza. Creò le condizioni per lo scioglimento più inaspettato e attese con impazienza il momento della spiegazione romanzesca. Un segreto, di qualunque genere esso sia, è sempre opprimente per un cuore femminile. Le sue operazioni strategiche ottennero l'effetto desiderato: perlomeno Burmìn sprofondò in una tale pensosità, e i suoi occhi neri si soffermavano con tale fuoco su Mar'ja Gavrìlovna, che il momento decisivo sembrava ormai

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prossimo. I vicini parlavano delle nozze come di una faccenda già conclusa, e la buona Praskóv'ja Petróvna si rallegrava del fatto che sua figlia avesse finalmente trovato un degno fidanzato.

La vecchietta sedeva un giorno da sola in salotto, disponendo le carte per un solitario, quando Burmìn entrò nella stanza e chiese subito notizie di Mar'ja Gavrìlovna. «È in giardino», rispose la vecchietta; «andate da lei, io vi aspetterò qui». Burmìn si allontanò e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: chissà che la cosa non si concluda oggi stesso!

Burmìn trovò Mar'ja Gavrìlovna presso lo stagno, sotto il salice, con un libro in mano e un vestito bianco, come la vera eroina di un romanzo. Dopo le prime domande, Mar'ja Gavrìlovna smise apposta di sostenere la conversazione, rafforzando in tal modo il reciproco imbarazzo, del quale ci si poteva liberare forse solo con una repentina e decisiva dichiarazione. E così avvenne: Burmìn, avvertendo la difficoltà della sua posizione, dichiarò che cercava da tempo l'occasione di aprirle il suo cuore e richiese un minuto di attenzione. Mar'ja Gavrìlovna chiuse il libro e abbassò gli occhi in segno di assenso.

«Vi amo», disse Burmìn, «vi amo appassionatamente...» (Mar'ja Gavrìlovna arrossì e reclinò la testa ancora più in basso). «Mi sono comportato incautamente, abbandonandomi a una dolce consuetudine, alla consuetudine di vedervi e ascoltarvi ogni giorno...» (Mar'ja Gavrìlovna ricordò la prima lettera di St. Preux.) «Adesso ormai è tardi per oppormi alla mia sorte; il ricordo di voi, la vostra cara, incomparabile immagine d'ora in avanti sarà il tormento e la gioia della mia vita; ma mi resta ancora da assolvere un grave dovere, svelarvi un terribile segreto, che porrà fra noi una barriera insormontabile...». «È sempre esistita», lo interruppe con vivacità Mar'ja Gavrìlovna, «io non potrei mai essere vostra moglie...». «Lo so», lui le rispose piano, «so che un tempo avete amato, ma la morte e tre anni di afflizioni... Mia buona, cara Mar'ja Gavrìlovna! Non tentate di privarmi dell'ultima

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consolazione: il pensiero che voi avreste accettato di fare la mia felicità, se... tacete, per amor di Dio, tacete. Voi mi straziate. Sì, lo so, lo sento che sareste mia, ma io sono la più infelice delle creature... sono sposato!».

Mar'ja Gavrìlovna lo fissò meravigliata.

«Sono sposato», continuò Burmìn, «ormai da più di tre anni, e non so chi sia mia moglie, né dove sia, né se è destino che debba rincontrarla un giorno!».

«Cosa dite?», esclamò Mar'ja Gavrìlovna, «che strano! Continuate; vi racconterò dopo... ma continuate, fatemi il favore».

«All'inizio del 1812», disse Burmìn, «mi affrettavo a Vilna, dove si trovava il nostro reggimento. Un giorno, arrivato a una stazione di posta la sera tardi, stavo per ordinare di attaccare al più presto i cavalli, quando a un tratto si alzò una terribile tormenta, e il mastro di posta e i postiglioni mi consigliarono di aspettare che si placasse. Diedi loro retta, ma un'incomprensibile inquietudine s'impadronì di me, come se qualcuno addirittura mi spingesse. Nel frattempo la tormenta non si placava; persi la pazienza, ordinai nuovamente di attaccare i cavalli e partii in piena bufera. Al postiglione venne in mente di passare lungo il fiume, cosa che doveva abbreviarci il cammino di tre verste. Le rive erano ingombre di neve; il postiglione oltrepassò il punto in cui si usciva sulla strada, e così ci ritrovammo in una zona sconosciuta. La tempesta non si calmava; vidi un lumicino e ordinai di andare da quella parte. Arrivammo in un villaggio; una chiesa di legno era illuminata. La chiesa era aperta, dietro lo steccato sostavano alcune slitte; sul sagrato camminava della gente. "Di qua! Di qua!", gridarono alcune voci. Ordinai al postiglione di avvicinarsi. "Di grazia, dove sei andato a finire?", mi chiese qualcuno, "la sposa è svenuta, il pope non sa che fare; stavamo per tornare indietro. Fa' in fretta a scendere!". In silenzio saltai fuori dalla slitta ed entrai nella chiesa, debolmente illuminata da due o tre candele. Una fanciulla sedeva su una panca in un angolo buio

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della chiesa; un'altra le massaggiava le tempie. "Grazie a Dio", disse questa, "ce l'avete fatta a arrivare. Poco mancava che faceste morire la signorina". Il vecchio prete mi si avvicinò chiedendo: "Ordinate di cominciare?". "Cominciate, cominciate, bàtjuška", risposi distrattamente. Sollevarono la ragazza. Mi sembrò attraente... Una sventatezza incomprensibile, imperdonabile... mi misi accanto a lei davanti al leggìo; il prete aveva fretta; tre uomini e la cameriera sostenevano la sposa, e si occupavano solo di lei. Ci unirono in matrimonio. "Baciatevi", ci dissero. Mia moglie voltò verso di me il suo pallido viso. Avrei voluto baciarla... Lei lanciò un grido: "Ah, non è lui! non è lui!", e cadde priva di conoscenza. I testimoni mi puntarono addosso gli occhi spaventati. Mi girai, uscii dalla chiesa senza incontrare alcun ostacolo, mi precipitai nella kibìtka e gridai: "Avanti!"».

«Dio mio!», gridò Mar'ja Gavrìlovna, «e voi non sapete cosa sia accaduto della vostra povera moglie?».

«Non lo so», rispose Burmìn, «non so come si chiami il villaggio in cui mi sono sposato; non mi ricordo da quale stazione fossi partito. A quel tempo attribuivo così poca importanza alla mia criminosa monelleria che, allontanatomi dalla chiesa, mi addormentai e mi svegliai la mattina del giorno dopo, ormai alla terza stazione. Il servo che era con me allora è morto in guerra, sicché non ho neppure la speranza di ritrovare colei alla quale ho giocato uno scherzo così crudele, e che ormai è stata così crudelmente vendicata».

«Dio mio, Dio mio!», disse Mar'ja Gavrìlovna, afferrandogli una mano; «allora eravate voi! E non mi riconoscete?».

Burmìn impallidì... e si gettò ai suoi piedi...

IL FABBRICANTE DI BARE

Non vediamo bare ogni giorno,

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Canizie dell'universo che avvizzisce?

Deržàvin

Le ultime masserizie del fabbricante di bare Adriàn Próchorov furono caricate sul carro funebre, e la sparuta pariglia per la quarta volta si trascinò dalla via Basmànnaja alla Nikìtskaja, dove il fabbricante di bare si stava trasferendo con tutta la sua casa. Dopo aver chiuso bottega inchiodò sulla porta l'avviso che la casa si vendeva o si dava in affitto, e si diresse a piedi verso la nuova abitazione. Avvicinandosi alla casina gialla, che da così tanto tempo aveva tentato la sua immaginazione, e che infine era stata da lui acquistata per una discreta somma, il vecchio fabbricante di bare sentiva con sorpresa che il suo cuore non ne gioiva. Varcata la soglia sconosciuta e trovata nella sua nuova dimora una gran confusione, sospirò ricordando la vecchia stamberga, dove per diciotto anni tutto era stato regolato dall'ordine più severo; cominciò a insultare tutte e due le figlie e la lavorante per la loro lentezza, e si mise lui stesso ad aiutarle. L'ordine fu ben presto instaurato; l'armadio a vetri con le icone, la madia con le stoviglie, il tavolo, il divano e il letto occuparono gli angoli loro assegnati nella stanza sul retro; in cucina e in salotto trovarono posto gli articoli del padrone di casa: bare di tutti i colori e di ogni misura, nonché armadi con cappelli da lutto, mantelli e fiaccole. Sul portone fu issata un'insegna che rappresentava un paffuto Amore con una fiaccola rovesciata in mano, e sotto la scritta: «Qui si vendono e si rivestono bare semplici e verniciate, e si affittano e riparano anche quelle vecchie». Le ragazze se ne andarono in camera loro. Adriàn fece il giro dell'abitazione, si sedette alla finestra e ordinò di preparare il samovàr.

Il lettore istruito sa che Shakespeare e Walter Scott hanno entrambi rappresentato i loro becchini come persone allegre e scherzose, al fine di colpire più fortemente la nostra immaginazione con tale contrasto. Per rispetto della verità noi non possiamo seguire il loro esempio e siamo costretti ad ammettere

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che il carattere del nostro fabbricante di bare corrispondeva perfettamente al suo lugubre mestiere. Adriàn Próchorov di solito era tetro e pensoso. Infrangeva il silenzio magari solo per fare una ramanzina alle sue figlie, quando le trovava sfaccendate a occhieggiare alla finestra i passanti, o per chiedere in cambio delle sue opere un prezzo esagerato a coloro che avevano la disgrazia (ma a volte anche il piacere) di doversene servire. E così Adriàn, seduto presso la finestra a bere la settima tazza di tè, come sua abitudine era immerso in tristi riflessioni. Pensava alla pioggia dirotta, che, una settimana prima, aveva sorpreso proprio alla barriera della città i funerali di un brigadiere a riposo. Molti mantelli per questo motivo si erano ristretti, molti cappelli sformati. Prevedeva spese inevitabili, giacché l'antica scorta di indumenti funerari gli si stava riducendo in uno stato pietoso. Aveva sperato di scaricare il danno sulla vecchia mercantessa Trjùchina, che ormai da quasi un anno si trovava in punto di morte. Ma la Trjùchina stava morendo a Razguljàj, e Próchorov temeva che i suoi eredi, nonostante la loro promessa, si sarebbero impigriti all'idea di mandarlo a chiamare così lontano e avrebbero trattato con l'impresario più vicino.

Tali riflessioni furono interrotte inaspettatamente da tre colpi violenti, alla frammassone, alla porta. «Chi è là?», chiese il fabbricante di bare. La porta si aprì, e un uomo, nel quale al primo sguardo si poteva riconoscere un artigiano tedesco, entrò nella stanza e con aria gioiosa si avvicinò al fabbricante di bare. «Scusate, cortese vicino», disse con quel modo di parlare russo che ancora adesso non riusciamo ad ascoltare senza ridere, «scusate se vi ho disturbato... desideravo fare al più presto la vostra conoscenza. Sono calzolaio, il mio nome è Gottlieb Schulz, e abito dall'altra parte della strada, in quella casetta che sta di fronte alle vostre finestre. Domani festeggio le mie nozze d'argento, e invito voi e le vostre figlie a pranzare a casa mia da buoni amici». L'invito fu benevolmente accettato, il fabbricante di bare pregò il calzolaio di sedersi a bere una tazza di tè, e, grazie al

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carattere aperto di Gottlieb Schulz, i due intavolarono ben presto un'amichevole conversazione. «Come va il commercio di vostra signoria?», chiese Adriàn. «E-eh-eh», rispose Schulz, «così così. Non mi posso lamentare. Anche se, certo, la mia merce non è come la vostra: un vivo può fare a meno degli stivali, un morto invece senza bara non vive». «Sacrosanta verità», osservò Adriàn; «però, se un vivo non ha di che comprarsi gli stivali, non averla a male, va in giro anche scalzo; invece un morto povero una bara se la procura anche gratis». La conversazione continuò su questo tenore per qualche tempo; infine il calzolaio si alzò e salutò il fabbricante di bare, rinnovando il suo invito.

Il giorno seguente, alle dodici in punto, il fabbricante di bare e le sue figlie uscirono dal cancelletto della casa appena comprata, e si avviarono dal vicino. Non mi metterò a descrivere né il caftano russo di Adriàn Próchorov, né l'abbigliamento europeo di Akulìna e Dàr'ja, venendo meno in questo caso alla consuetudine dei romanzieri di oggi. Ritengo, tuttavia, non superfluo osservare che tutt'e due le fanciulle indossavano cappellini gialli e scarpe rosse, cosa che capitava loro solo nelle grandi occasioni.

L'angusto appartamentino del calzolaio era stracolmo di ospiti, soprattutto artigiani tedeschi, con le mogli e gli apprendisti. Di funzionari russi c'era solo una guardia municipale, il cuchónec Jurko, che era stato capace di conquistarsi, nonostante il suo grado modesto, il particolare favore del padrone di casa. Per circa venticinque anni aveva servito in quel grado con fedeltà e onore, come il postino di Pogorél'skij. L'incendio del 1812, avendo raso al suolo la prima capitale, aveva distrutto anche la sua garitta gialla. Ma subito dopo la cacciata del nemico al suo posto ne era apparsa una nuova, grigiolina, con colonnine bianche di ordine dorico, e Jurko aveva ripreso a camminarvi su e giù con la scure e una corazza di ruvido panno. Egli conosceva la maggior parte dei tedeschi che abitavano nei pressi della porta Nikìtskaja: ad alcuni di loro era capitato perfino di trascorrere da Jurko la notte fra la

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domenica e il lunedì. Adriàn fece subito conoscenza con lui, come conviene con una persona della quale presto o tardi poteva capitare di aver bisogno, e, non appena gli ospiti si misero a tavola, loro si sedettero vicini. Il signore e la signora Schulz, e la loro figlia, la diciassettenne Löttchen, pranzando con gli ospiti, facevano allo stesso tempo gli onori di casa e aiutavano la cuoca a servire. La birra scorreva in abbondanza. Jurko mangiava per quattro; Adriàn non era da meno; le sue figlie si facevano pregare; la conversazione in tedesco si faceva sempre più chiassosa. A un tratto il padrone di casa richiamò l'attenzione e, sturando una bottiglia chiusa col catrame, brindò a voce alta in russo: «Alla salute della mia buona Luisa!». Lo spumante spumeggiò. Il padrone di casa baciò teneramente il viso fresco della sua compagna quarantenne, e gli ospiti bevvero rumorosamente alla salute della buona Luisa. «Alla salute dei miei cari ospiti!», proclamò il padrone di casa, stappando la seconda bottiglia, e gli ospiti lo ringraziarono, vuotando di nuovo i loro calici. A questo punto i brindisi presero a susseguirsi uno dopo l'altro: si bevve alla salute di ogni singolo ospite, si bevve alla salute di Mosca e di una buona dozzina di cittadine tedesche, si bevve alla salute di tutte le corporazioni in generale e di ognuna in particolare, si bevve alla salute di mastri e sottomastri. Adriàn beveva con impegno e si fece allegro al punto da proporre lui stesso un brindisi scherzoso. All'improvviso uno degli ospiti, un grasso panettiere, alzò il bicchiere ed esclamò: «Alla salute di quelli per cui lavoriamo, unserer Kundleute!». La proposta, come tutte le altre, fu accolta gioiosamente e all'unanimità. Gli ospiti presero a scambiarsi inchini: il sarto al calzolaio, il calzolaio al sarto, il panettiere a entrambi, tutti al panettiere, e così via. Jurko, in mezzo a questi scambievoli inchini, gridò al suo vicino di tavola: «Allora? Tu, batjuška, brinda alla salute dei tuoi morti». Tutti scoppiarono a ridere, ma il fabbricante di bare si considerò offeso e si rabbuiò. Nessuno vi fece caso, gli ospiti continuavano a bere, e già chiamavano a vespro quando si alzarono da tavola.

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Gli ospiti si accomiatarono tardi, e quasi tutti un po' alticci. Il grasso panettiere e un rilegatore, con un viso che pareva rilegato in marocchino rosso, accompagnarono a braccetto Jurko fino alla garitta, rispettando così il proverbio: È bello il debito se vien pagato. Il fabbricante di bare rientrò a casa ubriaco e incollerito. «Che cos'è questa storia? Di fatto», argomentava ad alta voce, «in che cosa il mio mestiere è meno rispettabile degli altri? il fabbricante di bare è forse compare del boia? di che ridono quei miscredenti? il fabbricante di bare è forse un buffone da fiera? Volevo invitarli a festeggiare la casa nuova, offrire loro un banchetto come si deve: non sia mai! Piuttosto convocherò quelli per i quali lavoro: i morti ortodossi». «Che dici, bàtjuška?», disse la lavorante, mentre gli sfilava gli stivali, «che parli a vanvera? Fatti il segno della croce! Invitare i morti a festeggiare la casa nuova! Che spavento!». «Quant'è vero Iddio li inviterò», continuava Adriàn, «e domani stesso. Vi chiedo l'onore, miei benefattori, di banchettare domani sera a casa mia; vi offrirò quel che mi manda Iddio». Detto questo il fabbricante di bare s'avviò a letto e presto cominciò a russare.

Fuori era ancora scuro quando Adriàn fu ridestato. La mercantessa Trjùchina era morta quella notte stessa, e un corriere del suo amministratore arrivò a cavallo da Adriàn con questa notizia. Il fabbricante di bare gli diede dieci copeche di mancia, si vestì in fretta, noleggiò una vettura e andò a Razguljàj. La polizia era già sul portone della morta, e i mercanti passeggiavano su e giù, come corvi che fiutano il cadavere. La defunta giaceva sulla tavola, gialla come cera, ma non ancora sfigurata dalla decomposizione. Intorno a lei si pigiavano parenti, vicini e persone di casa. Le finestre erano tutte aperte; ardevano le candele; i preti recitavano preghiere. Adriàn si accostò al nipote della Trjùchina, un giovane mercante con un soprabito alla moda, dichiarandogli che bara, ceri, drappo, e gli altri accessori funebri gli sarebbero stati forniti subito in ottime condizioni. L'erede lo ringraziò distratto, dicendo che sul prezzo non stava a mercanteggiare, e che si rimetteva in

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tutto alla sua coscienza. Il fabbricante di bare, come suo solito, scongiurò in nome di Dio che non avrebbe preteso niente più del dovuto; scambiò uno sguardo d'intesa con l'amministratore e andò a provvedere. Tutto il giorno fece avanti e indietro da Razguljàj alla porta Nikìtskaja; verso sera aveva sistemato ogni cosa e tornò a casa a piedi, dopo aver mandato via la sua vettura. Era una notte di luna. Il fabbricante di bare giunse felicemente alla porta Nikìtskaja. Alla chiesa dell'Ascensione gli gridò il chi va là il nostro conoscente Jurko e, riconosciuto il fabbricante di bare, gli augurò la buona notte. Era tardi. Il fabbricante di bare si stava ormai avvicinando a casa quando a un tratto gli sembrò che qualcuno si avvicinasse al suo ingresso, aprisse il cancelletto e vi si nascondesse dentro. «Che cosa può essere?», pensò Adriàn. «Chi ha ancora bisogno di me? È forse entrato un ladro in casa? Non saranno gli amanti che vanno dalle mie sciocchine? Ci mancherebbe solo questo!». E il fabbricante di bare già pensava di chiamare in aiuto il suo amico Jurko. In quel momento qualcun altro si avvicinò al cancelletto e stava per entrare, ma, vedendo accorrere il padrone di casa, si fermò e si levò il tricorno. Ad Adriàn il suo viso sembrò conosciuto, ma nella fretta non fece in tempo a scrutarlo come si deve. «Stavate favorendo da me», disse ansimando Adriàn, «entrate pure, vi prego». «Non fare cerimonie, bàtjuška», gli rispose quello con voce sorda, «va' avanti tu; fai strada agli ospiti!». Adriàn certo non ebbe il tempo di fare cerimonie. Il cancelletto era aperto, salì per la scala, e quello appresso. Ad Adriàn sembrò che delle persone camminassero per le stanze. «Che razza di diavoleria è questa!», pensò, e si affrettò a entrare... in quel momento si sentì mancare le gambe. La stanza era piena di morti. Attraverso le finestre la luna rischiarava i loro visi gialli e azzurri, le bocche franate, gli opachi occhi socchiusi e i nasi prominenti... Adriàn inorridito riconobbe in loro le persone che aveva sotterrato con le sue fatiche, e nell'ospite entrato con lui il brigadiere seppellito durante il temporale. Tutti loro, donne e uomini, circondarono il fabbricante di bare con inchini e saluti,

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tranne un poveretto, seppellito poco tempo prima gratis, che, facendosi scrupolo e vergogna dei suoi stracci, non si avvicinava e se ne stava umilmente in un angolo. Tutti gli altri erano vestiti con decenza: le morte con nastri e cuffiette, i cadaveri funzionari in uniforme, ma con le barbe non fatte; i mercanti col caftano della festa. «Vedi, Próchorov», disse il brigadiere a nome di tutta l'illustre compagnia, «tutti ci siamo alzati al tuo invito; sono rimasti a casa solo quelli che ormai non ce la fanno più, che si sono disfatti completamente, e quelli a cui sono rimaste le sole ossa senza pelle, ma anche fra questi uno non ha resistito, tanto aveva voglia di venirti a trovare...». In quel momento un piccolo scheletro si fece largo attraverso la folla e si avvicinò ad Adriàn. Il suo teschio sorrideva carezzevolmente al fabbricante di bare. Lembi di panno verdechiaro e rosso e di vecchia tela gli pendevano da dosso qua e là, come da una pertica, mentre le ossa delle gambe sbattevano dentro alti stivaloni, come piccoli pestelli nei mortai. «Non mi riconosci, Pròchorov?», disse lo scheletro. «Non ti ricordi il sergente della guardia a riposo Pëtr Petróviè Kurìlkin, quello al quale, nel 1799, hai venduto la tua prima bara, e inoltre di pino invece che di quercia?». Detto questo il morto gli protese le braccia ossute, ma Adriàn, raccolte le forze, gettò un grido e lo respinse. Pëtr Petróviè barcollò, cadde e si sparse tutto per terra. Fra i cadaveri si levò un mormorio d'indignazione; tutti intervennero in difesa del loro compagno, si fecero addosso ad Adriàn con insulti e minacce, e il povero padrone di casa, stordito dalle loro grida e quasi soffocato, perse la presenza di spirito, cadde lui stesso sulle ossa del sergente della guardia a riposo e svenne.

Il sole rischiarava ormai da tempo il letto sul quale giaceva il fabbricante di bare. Finalmente egli aprì gli occhi e vide davanti a sé la lavorante, che attizzava il fuoco del samovàr. Adriàn ricordò con raccapriccio tutti i fatti del giorno prima. La Trjùchina, il brigadiere e il sergente Kurìlkin apparvero confusamente alla sua immaginazione. Aspettava in silenzio che la lavorante aprisse

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bocca e gli annunciasse le conseguenze delle avventure notturne.

«Quanto hai dormito, bàtjuška, Adriàn Próchoroviè», disse Aksìn'ja, porgendogli la vestaglia. «È passato a cercarti il vicino sarto, e la guardia municipale ha fatto un salto per annunciarti che oggi è l'onomastico del commissario, ma tu riposavi, e noi non ti abbiamo voluto svegliare».

«E sono venuti a cercarmi da parte della defunta Trjùchina?».

«La defunta? Perché, è morta?».

«Che stupida che sei! Non sei forse tu che mi hai aiutato a sistemare i funerali?».

«Che dici, bàtjuška? sei uscito di cervello, o la sbornia di ieri non t'è ancora passata? Che funerali ci sono stati ieri? Hai banchettato tutto il giorno dal tedesco, sei tornato ubriaco, sei crollato sul letto, e hai dormito fino a adesso, che hanno già suonato per annunciare la messa».

«Davvero!», disse rallegrandosi il fabbricante di bare.

«Certo che è così», rispose la lavorante.

«Be', se è così, fa' presto a portarmi il tè, e chiama le figlie».

IL MASTRO DI POSTA

Il registratore collegiale,

Dittatore della stazione postale.

Principe Vjàzemskij

Chi non ha maledetto i mastri di posta, chi non è venuto a parole con loro? Chi, in un momento di collera, non ha richiesto da loro il fatale registro, per inserirvi la propria inutile lamentela contro angherie, sgarbi e inadempienze? Chi non li considera rifiuti del genere umano, pari agli scrivani di un tempo o, quanto meno, ai

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briganti di Mùrom? Comunque saremo giusti, cercheremo di entrare nei loro panni e, forse, li giudicheremo con molta più condiscendenza. Che cos'è un mastro di posta? Un vero martire della quattordicesima classe, protetto dalle percosse soltanto dal suo grado, e anche questo non sempre (mi rimetto alla coscienza dei miei lettori). Qual è l'incarico di tale dittatore, come lo chiama scherzosamente il principe Vjàzemskij? Non è una vera galera? Pace né di giorno né di notte. Tutta l'irritazione, accumulata durante la noia del viaggio, il viaggiatore la sfoga sul mastro di posta. Il tempo è insopportabile, la strada cattiva, il postiglione testardo, i cavalli non tirano? La colpa è del mastro di posta. Entrando nella sua povera abitazione il passeggero lo guarda come un nemico; andrà ancora bene se gli riuscirà di sbarazzarsi presto dell'ospite indesiderato, ma se non ci fossero i cavalli?... Dio! che insulti, che minacce si riverseranno sulla sua testa! Sotto la pioggia e nel fango è costretto a correre per i cortili; nella bufera, nel gelo dell'Epifania se ne va in anticamera a riposare solo per un momento dalle grida e gli spintoni del cliente irritato. Arriva un generale; il mastro di posta tremante gli dà le due ultime trojke, compresa quella dei corrieri. Il generale parte, senza averlo neanche ringraziato. Dopo cinque minuti - un campanello!... e una staffetta gli getta sul tavolo il suo foglio di via!... Addentriamoci in tutto questo come si deve, e, invece che d'indignazione, avremo il cuore colmo di sincera compassione. Ancora qualche parola: per vent'anni di fila ho attraversato la Russia in lungo e in largo; quasi tutti gli itinerari postali mi sono noti; conosco diverse generazioni di postiglioni; raro il mastro di posta di cui non conosca il volto, raro quello con cui non abbia avuto a che fare; spero di pubblicare fra breve l'interessante raccolta delle mie note di viaggio; per ora dirò soltanto che la classe dei mastri di posta è presentata all'opinione pubblica nell'aspetto più menzognero. Generalmente i tanto calunniati mastri di posta sono uomini pacifici, di indole servizievole, portati alla socievolezza, modesti nel pretendere rispetto e non troppo attaccati al denaro. Dai loro discorsi (che i

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signori viaggiatori inopportunamente disdegnano) si possono ricavare molte cose interessanti e istruttive. Per quanto riguarda me, lo confesso, preferisco la loro conversazione ai discorsi di qualche funzionario di sesta classe, che faccia inchieste per ragioni fiscali.

Si può facilmente indovinare che ho degli amici nell'onorevole classe dei mastri di posta. In effetti, il ricordo di uno di essi mi è prezioso. Le circostanze un tempo ci avvicinarono, e appunto su di lui ho intenzione d'intrattenermi adesso coi gentili lettori.

Nel 1816, nel mese di maggio, mi accadde di passare attraverso il governatorato di ***, lungo un tratto di strada postale ora eliminato. Avevo un grado modesto, viaggiavo con cavalli di posta, e pagavo il percorso per due cavalli. Di conseguenza i mastri di posta non avevano tanti riguardi per me, e spesso prendevo di forza quanto, a parer mio, mi spettava per diritto. Giovane e focoso com'ero mi sdegnavo della bassezza e viltà del mastro di posta, se questi attaccava la trojka destinata a me alla carrozza di un signore di rango elevato. Così pure per molto tempo non riuscii ad abituarmi al fatto che un servo non privo di criterio mi saltasse servendo a tavola al pranzo del governatore. Adesso entrambi i fatti mi sembrano nell'ordine delle cose. Infatti che cosa sarebbe di noi se al posto della regola comoda per tutti: il grado rispetti il grado, ne fosse introdotta un'altra, per esempio: l'intelligenza rispetti l'intelligenza? Che polemiche sorgerebbero! e i servi da chi comincerebbero a servire le pietanze? Ma torno al mio racconto.

Era una giornata calda. A tre verste dalla stazione di *** aveva cominciato a piovigginare, e di lì a un minuto una pioggia torrenziale mi bagnò fino alle ossa. Arrivato alla stazione di posta, la mia prima preoccupazione fu di cambiarmi al più presto, la seconda di chiedere del tè. «Ehi, Dunja!», gridò il mastro di posta, «metti su il samovàr, e va' a prendere la panna». A queste parole uscì da dietro un tramezzo una bambina sui quattordici anni, e

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corse in anticamera. Fui stupefatto della sua bellezza. «È tua figlia?», chiesi al mastro di posta. «Mia figlia, sissignore», rispose con aria di soddisfatto amor proprio; «ed è così giudiziosa, così svelta, tutta la sua povera mamma». A questo punto si mise a trascrivere il mio foglio di via, e io presi a osservare i quadretti che adornavano la sua umile, ma lustra abitazione. Rappresentavano la storia del figliol prodigo. Nel primo un vecchio venerando in berretto da notte e veste da camera congeda un giovane smanioso, che accoglie frettolosamente la sua benedizione e una borsa col denaro. Nell'altro si rappresentava con evidenza il comportamento dissoluto del giovane: sedeva a un tavolo, circondato da falsi amici e donne spudorate. Più avanti il giovane rovinato, in stracci e cappello a tricorno, pascolava i porci e divideva con essi la mensa; sul suo viso erano raffigurati una profonda mestizia e contrizione. Infine era rappresentato il suo ritorno dal padre; il buon vecchio con lo stesso berretto da notte e veste da camera gli corre incontro: il figliol prodigo è in ginocchio; sullo sfondo un cuoco uccide un pingue vitello, e il fratello maggiore chiede ai servi la ragione di tale gioia. Sotto ogni quadretto lessi versi tedeschi riferiti alla storia. Tutto questo mi è rimasto impresso nella memoria fino a oggi, come anche i vasi con la balsamina e il letto con la tenda variopinta, e gli altri oggetti che allora mi stavano intorno. Vedo, come fosse adesso, lo stesso padrone di casa, uomo sulla cinquantina, fresco e vivace, e il suo lungo soprabito verde con tre medaglie dai nastri sbiaditi.

Non feci in tempo a pagare il mio vecchio postiglione che Dunja era già tornata col samovàr. La piccola civetta al secondo sguardo notò l'impressione che aveva prodotto su di me; abbassò i grandi occhi azzurri; cominciai a parlare con lei, ella mi rispondeva senza nessuna timidezza, come una ragazza che avesse visto il mondo. Offrii a suo padre un bicchiere di ponce; a Dunja porsi una tazza di tè, e tutti e tre ci mettemmo a conversare come se ci conoscessimo da un secolo.

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I cavalli erano pronti da un pezzo, ma io continuavo a non aver voglia di separarmi dal mastro di posta e da sua figlia. Alla fine mi congedai da loro; il padre mi augurò buon viaggio, e la figlia mi accompagnò fino al carro. Nell'anticamera mi fermai e le chiesi il permesso di darle un bacio; Dunja acconsentì... Molti ne posso contare di baci

Dal tempo che mi occupo di questo,

ma nessuno ha lasciato in me un ricordo così lungo, così gradevole.

Passarono diversi anni, e le circostanze mi ricondussero sullo stesso tratto di strada postale, negli stessi luoghi. Mi ritornò in mente la figlia del vecchio mastro di posta e mi rallegrai al pensiero di rivederla. Ma, pensai, il vecchio mastro di posta sarà stato ormai sostituito, Dunja ormai sarà sposata. Mi attraversò la mente anche il pensiero della morte dell'uno o dell'altra, e mi avvicinavo alla stazione di *** con un triste presentimento.

I cavalli si fermarono davanti alla casetta della posta. Come fui entrato nella stanza subito riconobbi i quadretti che rappresentavano la storia del figliol prodigo; il tavolo e il letto stavano al solito posto, ma alle finestre non c'erano più fiori, e tutto intorno rivelava vecchiezza e negligenza. Il mastro di posta dormiva sotto una pelliccia di montone; il mio arrivo lo destò; si levò... Era proprio Samsón Výrin, ma quanto invecchiato! Mentre si preparava a trascrivere il mio foglio di via io guardavo la sua canizie, le profonde rughe del viso da tanto tempo non rasato, la schiena incurvata, e non sapevo capacitarmi di come tre o quattro anni avessero potuto trasformare un uomo vivace in un debole vecchio. «Mi hai riconosciuto?», gli chiesi; «tu ed io siamo vecchi conoscenti». «Può darsi» rispose lui tetro; «questa è la strada maestra; molta gente di passaggio si è fermata da me». «Sta bene la tua Dunja?», proseguii. Il vecchio s'incupì. «Lo sa Iddio» rispose. «Allora è sposata?», domandai. Il vecchio finse di non

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aver udito la mia domanda, e andò avanti a leggere borbottando il mio foglio di via. Posi fine alle mie domande e ordinai di preparare il tè. La curiosità cominciava ad agitarmi, e speravo che il ponce avrebbe sciolto la lingua al mio vecchio conoscente.

Non mi ero sbagliato: il vecchio non rifiutò il bicchiere che gli offrivo. Notai che il rum rischiarava la sua cupezza. Al secondo bicchiere divenne loquace; si ricordò o fece finta di ricordarsi di me, e io ascoltai da lui un racconto che allora mi prese e mi commosse molto.

«Così voi conoscevate la mia Dunja?», cominciò. «E chi non la conosceva? Ah, Dunja, Dunja! Che ragazza era! Tutti quelli che capitavano la lodavano, nessuno trovava niente da ridire. Le signore le regalavano chi un fazzolettino, chi degli orecchini. I signori passeggeri si fermavano apposta, come per pranzare, o per cenare, ma di fatto solo per rimirarla più a lungo. Capitava che un signore, per quanto arrabbiato fosse, in sua presenza si calmasse e si mettesse a chiacchierare affabilmente con me. Credetemi, signore: i corrieri, le staffette si trattenevano a parlare con lei mezz'ore intere. Era lei che portava avanti la casa: ci fosse da mettere in ordine, ci fosse da cucinare, faceva in tempo a fare tutto. E io, vecchio scemo, non mi saziavo di guardarla, di rallegrarmene; non amavo forse la mia Dunja, non vezzeggiavo abbastanza la mia bambina? Non era la sua una bella vita? Ma no, contro i guai non ci sono scongiuri; non si scampa a quel ch'è destinato».

A questo punto si mise a raccontarmi nei particolari la sua disgrazia. Tre anni prima una sera d'inverno, mentre il mastro di posta tracciava le righe su un nuovo registro, e la figlia dietro il tramezzo si cuciva un vestito, era arrivata una trojka, e un passeggero in berretto circasso e cappotto militare, avvolto in uno scialle, era entrato nella stanza chiedendo dei cavalli. I cavalli erano tutti fuori. A questa notizia il viaggiatore stava per alzare la voce e lo staffile, ma Dunja, abituata a scene di questo genere,

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corse fuori da dietro il tramezzo e si rivolse amabilmente al passeggero chiedendo: non gradirebbe forse mangiare qualcosa? L'apparizione di Dunja produsse il solito effetto. L'ira del passeggero scomparve; egli accettò di aspettare i cavalli e ordinò la cena. Dopo essersi levato il peloso berretto bagnato, tolto di dosso lo scialle e aver gettato via il cappotto, il passeggero si rivelò un bel giovane ussaro dai baffetti neri. Prese alloggio dal mastro di posta e si mise a chiacchierare allegramente con lui e con sua figlia. Servirono la cena. Nel frattempo i cavalli erano arrivati, e il mastro di posta ordinò che senza dar loro da mangiare, subito, fossero attaccati alla vettura del passeggero; ma, tornando, trovò il giovane quasi privo di conoscenza sdraiato su una panca: si era sentito male, gli era venuto mal di testa, impossibile partire... Come fare? il mastro di posta gli cedette il proprio letto, e si decise che se il malato non si fosse sentito più in forze, l'indomani mattina avrebbero mandato a chiamare un medico a S***.

Il giorno dopo l'ussaro stava peggio. Il suo attendente andò a cavallo in città a chiamare un medico. Dunja gli fasciò la testa con un fazzoletto imbevuto d'aceto, e sedette accanto al suo letto col lavoro di cucito. Il malato davanti al mastro di posta gemeva e non diceva quasi parola, tuttavia bevve due tazze di caffè e fra i gemiti ordinò il pranzo. Dunja non si staccava da lui. Lui ogni momento chiedeva da bere, e Dunja gli porgeva una caraffa di limonata preparata da lei. Il malato s'inumidiva le labbra e ogni volta, restituendo la caraffa, in segno di riconoscenza con la debole mano stringeva la mano di Dùnjuška. Verso l'ora di pranzo arrivò il medico. Tastò il polso del malato, parlò con lui in tedesco, e in russo dichiarò che aveva bisogno solo di tranquillità, e che di lì a un paio di giorni avrebbe potuto rimettersi in viaggio. L'ussaro gli mise in mano venticinque rubli per la visita e lo invitò a pranzo; il medico accettò; mangiarono entrambi con grande appetito, bevvero una bottiglia di vino e si separarono molto soddisfatti l'uno dell'altro.

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Passò un altro giorno, e l'ussaro si ristabilì completamente. Era straordinariamente allegro, scherzava senza posa ora con Dunja, ora col mastro di posta; fischiettava canzoni, chiacchierava coi passeggeri, trascriveva i loro fogli di via nel registro postale, e piacque così tanto al buon mastro di posta che la mattina del terzo giorno gli rincrebbe separarsi dal suo gentile ospite. Era una domenica; Dunja si preparava ad andare a messa. All'ussaro fu approntata la vettura. Egli si congedò dal mastro di posta, dopo averlo generosamente ricompensato del vitto e dell'alloggio; si congedò anche da Dunja e si offrì di accompagnarla fino alla chiesa, che si trovava all'estremità del villaggio. Dunja esitava... «Di che cosa hai paura?», le chiese il padre, «sua eccellenza non è un lupo e non ti mangerà mica: su, fa' una corsa fino alla chiesa». Dunja si sedette in vettura accanto all'ussaro, il servo saltò in serpa, il postiglione fischiò, e i cavalli partirono al galoppo.

Il povero mastro di posta non capiva in che modo avesse potuto permettere lui stesso alla sua Dunja di andare insieme con l'ussaro, come l'avesse preso quell'accecamento, e che cosa fosse successo allora al suo giudizio. Non era passata mezz'ora che il cuore cominciò a a fargli male, male, e l'agitazione s'impossessò di lui al punto che non resistette e andò lui stesso alla messa. Avvicinandosi alla chiesa vide che la gente se ne stava già andando via, ma Dunja non c'era né dentro lo steccato, né sul sagrato. Entrò in fretta in chiesa: il prete stava uscendo da dietro l'altare; il sagrestano spegneva le candele, due vecchiette pregavano ancora in un angolo; ma Dunja in chiesa non c'era. Il povero padre si fece forza e domandò al sagrestano se era stata a messa. Il sagrestano rispose che non c'era stata. Il mastro di posta tornò a casa più morto che vivo. Gli restava una sola speranza: Dunja per la sventatezza dei suoi giovani anni poteva aver pensato, forse, di fare una corsa fino alla stazione successiva, dove abitava la sua madrina. In tormentosa agitazione attendeva il ritorno della trojka sulla quale l'aveva lasciata andar via. Il postiglione non tornava. Finalmente verso sera arrivò solo e

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ubriaco, con la notizia mortale: «Dunja da quella stazione aveva proseguito con l'ussaro».

Il vecchio non resse alla sua sventura: dovette coricarsi subito nello stesso letto in cui il giorno prima giaceva il giovane mistificatore. Ora il mastro di posta, considerando tutte le circostanze, intuiva che la malattia era stata simulata. Il poveretto si ammalò con la febbre alta; lo portarono a S*** e al suo posto assegnarono temporaneamente un altro. Lo stesso medico che era venuto dall'ussaro curava anche lui. Egli assicurò il mastro di posta che il giovane era perfettamente sano, e che fin da allora aveva intuito le sue cattive intenzioni, ma aveva taciuto, temendo il suo frustino. Che il tedesco dicesse la verità o desiderasse soltanto vantarsi della sua perspicacia, comunque sia non consolò affatto in questo modo il povero malato. Non appena si riprese dalla malattia, il mastro di posta riuscì a ottenere dal direttore del servizio di S*** una licenza di due mesi e, senza manifestare a nessuno le sue intenzioni, si avviò a piedi alla ricerca di sua figlia. Dal foglio di via sapeva che il capitano di cavalleria Minskij si recava da Smolénsk a Pietroburgo. Il postiglione che l'aveva portato diceva che per tutta la strada Dunja aveva pianto, sebbene sembrava andasse di propria volontà. «Magari», pensava il mastro di posta, «riporterò a casa la mia pecorella smarrita». Con questo pensiero arrivò a Pietroburgo, si fermò al reggimento Izmàjlovskij, in casa di un sottufficiale a riposo, suo vecchio compagno d'armi, e cominciò le ricerche. Presto venne a sapere che il capitano di cavalleria Minskij era a Pietroburgo, e abitava all'albergo Demùtov. Il mastro di posta decise di presentarsi a lui.

La mattina presto entrò nel suo ingresso e pregò di riferire a sua eccellenza che un vecchio soldato chiedeva di vederlo. L'attendente, che stava pulendo uno stivale sulla forma, dichiarò che il signore stava riposando, e che prima delle undici non riceveva nessuno. Il mastro di posta andò via e tornò all'ora stabilita. Minskij in persona gli uscì incontro in vestaglia e

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papalina rossa. «Che ti serve, amico?» gli chiese. Il cuore del vecchio cominciò a palpitare forte, gli spuntarono le lacrime agli occhi, ed egli con voce tremante proferì soltanto: «Vostra eccellenza!... fate questa grazia in nome di Dio!...». Minskij gli gettò una rapida occhiata, avvampò tutto, lo prese per un braccio, lo condusse nello studio e chiuse la porta dietro di sé. «Vostra eccellenza!», continuò il vecchio, «quel ch'è caduto dal carro è perduto; restituitemi, almeno, la mia povera Dunja. L'avete goduta; ora non la rovinate inutilmente». «Quel che è fatto è fatto», disse il giovane estremamente confuso; «sono colpevole davanti a te e sono contento di chiederti perdono, ma non pensare che io possa abbandonare Dunja: sarà felice, ti do la mia parola d'onore. Che te ne fai di lei? Mi ama, ha perso l'abitudine a vivere come prima. Né tu né lei dimentichereste quanto è successo». Poi, dopo avergli ficcato qualcosa nel risvolto della manica, aprì la porta, e il mastro di posta, senza ricordarsi neanche come, si ritrovò per strada.

A lungo se ne stette lì immobile; infine vide dietro il risvolto della manica un pacchetto di fogli di carta; li tirò fuori e svolse alcune banconote sgualcite da cinque e da dieci rubli. Gli tornarono le lacrime agli occhi, lacrime d'indignazione! Strinse i fogli di carta facendone una pallottola, li gettò a terra, li pestò col tacco e andò via... Allontanatosi di qualche passo si fermò, ci pensò su... e tornò indietro... ma le banconote non c'erano più. Un giovanotto ben vestito, vedendolo, corse verso una vettura di piazza, vi salì in fretta e gridò: «Avanti!...». Il mastro di posta non lo inseguì. Decise di tornarsene a casa, alla sua stazione di posta, ma prima voleva rivedere almeno un'altra volta la sua povera Dunja. Per questo un paio di giorni dopo tornò da Minskij, ma l'attendente gli disse seccamente che il padrone non riceveva nessuno, col petto lo sospinse fuori dell'anticamera e gli sbatté la porta in faccia. Il mastro di posta stette lì per un po', stette ancora, e poi se ne andò.

Quel giorno stesso, la sera, camminava lungo la Litéjnaja, dopo

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aver assistito alla funzione nella chiesa di Tutti gli Afflitti. A un tratto sfrecciò avanti a lui una carrozza molto elegante, e il mastro di posta riconobbe Minskij. La carrozza si fermò davanti a una casa a tre piani, proprio all'entrata, e l'ussaro salì di corsa su per la scalinata. Un'idea felice balenò nella mente del mastro di posta. Tornò indietro e, raggiunto il cocchiere: «Di chi è, amico, il cavallo?», chiese, «non è di Minskij?». «Proprio così», rispose il cocchiere, «ma tu che vuoi?». «Ecco qua: il tuo padrone mi ha ordinato di portare alla sua Dunja un bigliettino, ma ho dimenticato dove abita la sua Dunja». «Proprio qui, al secondo piano. Hai fatto tardi, amico, col tuo biglietto; ormai c'è già lui da lei». «Non importa», replicò il mastro di posta con un indescrivibile tuffo al cuore, «grazie di avermi informato, farò quello che devo». E detto questo andò su per la scala.

La porta era chiusa; suonò, passarono alcuni secondi in un'attesa per lui estenuante. La chiave cigolò, gli fu aperto. «Sta qui Avdótja Samsónovna?», chiese. «Sì, è qui», rispose la giovane serva; «Che cosa vuoi?». Il mastro di posta, senza rispondere, entrò in una sala. «Non si può, non si può!», gli gridò appresso la serva, «Avdót'ja Samsónovna ha degli ospiti». Ma il mastro di posta, senza ascoltarla, andava avanti. Le prime due stanze erano buie, nella terza c'era luce. Si avvicinò alla porta spalancata e si fermò. Nella stanza, magnificamente arredata, Minskij era seduto soprappensiero. Dunja, vestita in tutto lo sfarzo della moda, sedeva sul bracciolo della poltrona di lui, come un'amazzone sulla sua sella inglese. Guardava Minskij con tenerezza, avvolgendo i riccioli neri di lui alle proprie dita scintillanti. Povero mastro di posta! Mai sua figlia gli era parsa tanto bella; non poteva fare a meno di ammirarla. «Chi è là?», chiese lei, senza alzare la testa. Lui continuava a tacere. Non ricevendo risposta, Dunja alzò la testa... e con un grido cadde sul tappeto. Minskij spaventato si precipitò a sollevarla e, scorgendo a un tratto sulla porta il vecchio mastro di posta, lasciò Dunja e si avvicinò a lui, tremante di collera. «Che ti serve?» gli disse, stringendo i denti, «perché mi

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vieni appresso dappertutto nascondendoti come un brigante? vuoi forse sgozzarmi? Fuori di qui!», e, afferrato con mano forte il vecchio per il bavero, lo spinse fuori sulla scala.

Il vecchio tornò al suo alloggio. L'amico gli consigliò di sporgere denuncia, ma il mastro di posta ci pensò su, fece un gesto di diniego con la mano e decise di rinunciare. Due giorni dopo ripartì da Pietroburgo per la sua stazione di posta, e riprese il suo incarico. «E così è ormai il terzo anno», concluse, «che vivo senza Dunja, e che di lei non ho nessuna notizia. Se sia viva, oppure no, lo sa Iddio. Ne succedono tante. Non è né la prima né l'ultima che uno scapestrato di passaggio abbia sedotto, tenuto lì per un po' e piantato. Ce ne sono molte a Pietroburgo, di giovani sciocchine, oggi in raso e velluto, e domani le vedi che scopano la strada insieme a straccioni da bettola. Quando penso a volte che anche Dunja, magari, va a finire così, arrivo a commettere peccato senza volere, e ad augurarle la tomba...».

Tale fu il racconto del mio amico, il vecchio mastro di posta, racconto più di una volta interrotto dalle lacrime che pittorescamente asciugava con la falda, come lo zelante Terént'iè nella bellissima ballata di Dmìtriev. Queste lacrime erano in parte provocate dal ponce, di cui aveva sorseggiato cinque bicchieri durante il racconto; ma comunque sia esse commossero molto il mio cuore. Separatomi da lui, a lungo non potei dimenticare il vecchio mastro di posta, a lungo pensai alla povera Dunja...

Di recente, passando per la cittadina di ***, mi ricordai del mio amico; venni a sapere che la stazione della quale era titolare era stata soppressa. Alla mia domanda: «È vivo il vecchio mastro di posta?», nessuno fu in grado di dare una risposta soddisfacente. Decisi di andare in visita nel luogo che conoscevo; presi dei cavalli a nolo e mi diressi al villaggio di N.

Questo successe in autunno. Nuvole grigiastre coprivano il cielo; un vento gelido soffiava dai campi falciati, portando via dagli alberi foglie rosse e gialle. Arrivai nel villaggio all'ora del

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tramonto e mi fermai alla casetta della posta. Nell'ingresso (dove un giorno mi aveva baciato la povera Dunja) mi venne incontro una donna grassa, e alle mie domande rispose che il vecchio mastro di posta faceva un anno ch'era morto, che a casa sua s'era stabilito un birraio, e lei era sua moglie. Mi rincrebbe del mio viaggio a vuoto e dei sette rubli spesi per niente. «E di che cosa è morto?», chiesi alla moglie del birraio. «Era diventato un ubriacone, bàtjuška», rispose lei. «E dove è stato seppellito?». «Fuori della barriera, accanto alla moglie morta». «Non mi si potrebbe accompagnare alla sua tomba?». «Come no! Ehi, Van'ka! Smettila di gingillarti col gatto. Accompagna piuttosto il signore al cimitero e indicagli la tomba del mastro di posta».

A queste parole un ragazzino stracciato, rosso di capelli e guercio, mi venne incontro di corsa e mi portò subito al di là della barriera del villaggio.

«Conoscevi il defunto?», gli domandai strada facendo.

«Come non conoscerlo! Mi ha insegnato a intagliare gli zufoli. A volte (pace all'anima sua!) tornava dalla bettola, e noi dietro: "Nonno, nonno! Le noci!", e lui ci distribuiva le noci. Stava tutto il tempo a giocare con noi».

«E i passeggeri se lo ricordano?».

«Ora ce ne sono pochi di passeggeri; a meno che capiti l'assessore, ma quello non sta a pensare ai morti. D'estate invece è passata una signora; quella sì, ha chiesto del vecchio mastro di posta, ed è andata alla sua tomba».

«Che tipo di signora?».

«Una signora bellissima», rispose il ragazzetto; «viaggiava in una carrozza a sei cavalli, con tre piccoli signorini e la balia, e un cagnolino nero; e appena le dissero che il vecchio mastro di posta era morto si mise a piangere, e disse ai bambini: "State buoni, io vado al cimitero". Allora mi offrii di accompagnarla, ma la signora

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disse: "Conosco la strada". E mi diede cinque copechi d'argento - una signora così buona!...».

Arrivammo al cimitero, un luogo spoglio, privo di recinto, cosparso di croci di legno, non ombreggiate neppure da un alberello. Non avevo mai visto in vita mia un cimitero così triste.

«Ecco la tomba del vecchio mastro di posta» mi disse il ragazzino, saltando su un mucchio di sabbia nel quale era piantata una croce nera con un'immagine sacra di rame.

«E la signora è venuta qui?», domandai.

«Sì, c'è venuta», rispose Van'ka; «io la guardavo da lontano. Si distese qui e ci rimase a lungo. E poi la signora andò in paese e chiamò il pope, gli diede del denaro e ripartì, e a me dette cinque copechi d'argento - una bravissima signora!».

Anch'io diedi al ragazzetto un cinquino e non mi rincrebbe più né del viaggio, né dei sette rubli che avevo spesi.

LA SIGNORINA-CONTADINA

In tutte le vesti, Dùšen'ka, sei bella.

Bogdanóviè

In uno dei nostri lontani governatorati si trovava la proprietà di Ivàn Petróviè Bérestov. In giovinezza aveva prestato servizio nella guardia, aveva dato le dimissioni all'inizio del 1797, e, partito per la sua campagna, da allora non se n'era più allontanato. Era stato sposato con una nobile povera, morta di parto mentre lui si trovava in un campo lontano da casa. L'esercizio dell'amministrazione domestica lo consolò presto. Costruì una casa su suo progetto, allestì in proprio una fabbrica di panno, triplicò i proventi e cominciò a considerarsi la persona più intelligente di tutto il circondario, cosa in cui non lo contraddicevano i vicini, che venivano a trovarlo con le loro famiglie e i cani. Nei giorni feriali

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andava in giro con un giubbotto di fustagno, in quelli di festa portava un soprabito di panno di fabbricazione casalinga; annotava lui stesso le spese e non leggeva nulla all'infuori de «Il notiziario del senato». In genere era amato, anche se veniva considerato orgoglioso. Non andava d'accordo con lui solo Grigórij Ivànoviè Mùromskij, il suo vicino confinante. Questi era un autentico signore russo. Dopo aver dissipato la maggior parte dei suoi averi, rimasto vedovo in quel periodo, era partito per la sua ultima proprietà, dove continuava a far stramberie, ma ormai di nuovo genere. Si mise a coltivare un giardino inglese, per il quale spendeva quasi tutti i redditi rimanenti. I suoi stallieri erano vestiti da jockey inglesi. Sua figlia aveva una madame inglese. I campi li coltivava secondo un metodo inglese:

ma alla maniera altrui il pane russo non nasce,

e nonostante la considerevole diminuzione delle spese, le entrate di Grigórij Ivànoviè non aumentavano; anche in campagna trovava il modo di fare nuovi debiti; con tutto ciò era considerato un uomo nient'affatto stupido, giacché, primo fra i proprietari del suo governatorato, aveva pensato di ipotecare la tenuta al Consiglio di tutela: iniziativa che a quel tempo sembrava oltremodo complicata e coraggiosa. Fra le persone che lo giudicavano male, Bérestov si dimostrava il più severo di tutti. L'odio per le innovazioni era una caratteristica peculiare del suo carattere. Non riusciva a parlare con indifferenza dell'anglomania del suo vicino e coglieva ogni istante l'occasione per criticarlo. Se mostrava a un ospite i suoi possedimenti, in risposta alle lodi per la sua organizzazione aziendale: «Sissignore!», diceva con un sorrisetto maligno, «da me non è come dal mio vicino Grigórij Ivànoviè. Abbiamo altro che da rovinarci all'inglese! Fossimo almeno sazi alla russa». Tali e simili frecciate, grazie alla premura dei vicini, venivano riferite a Grigórij Ivànoviè con aggiunte e spiegazioni. L'anglomane tollerava le critiche con la stessa insofferenza dei nostri giornalisti. Saltava su tutte le furie e al suo Zoilo aveva dato il soprannome di

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orso e provinciale.

Tali erano i rapporti fra questi due possidenti, quando il figlio di Bérestov arrivò da lui in campagna. Aveva studiato all'università di *** e aveva intenzione d'intraprendere la carriera militare, ma il padre non la approvava. Per la carriera civile il giovane non si sentiva affatto portato. Nessuno cedeva all'altro, e il giovane Alekséj si mise a condurre nel frattempo la vita del signore, lasciandosi crescere i baffi per ogni eventualità.

Alekséj era effettivamente un bel giovane. Davvero sarebbe stato un peccato se la sua vita slanciata non fosse mai stata stretta da un'uniforme militare e se lui, invece di esibirsi a cavallo, avesse trascorso la giovinezza curvo su carte d'ufficio. Guardando come a caccia galoppasse sempre in testa, incurante della strada, i vicini si trovavano d'accordo nel sostenere che non ne sarebbe mai uscito un buon capoufficio. Le signorine gli lanciavano uno sguardo, e alcune non glielo levavano di dosso; ma Alekséj vi faceva poco caso e loro presumevano che la ragione della sua scarsa sensibilità fosse un legame amoroso. Infatti girava di mano in mano la copia dell'indirizzo di una delle sue lettere: «Ad Akulìna Petróvna Kùroèkina, a Mosca, di fronte al monastero di Sant'Alekséj, in casa del calderaio Savél'ev, con l'umile preghiera di recapitare questa lettera a A.N.R.».

Chi, tra i miei lettori, non ha mai vissuto in campagna non si può immaginare che incanto siano queste signorine di provincia! Educate all'aria pura, all'ombra dei meli del loro giardino, attingono la conoscenza del mondo e della vita dai libri. Isolamento, libertà e lettura maturano presto in loro sentimenti e passioni sconosciuti alle nostre bellezze distratte. Per una signorina il tintinnio di un sonaglio è già un'avventura, un viaggio nella città vicina fa epoca nella vita, e la visita di un ospite lascia un lungo, a volte anche eterno ricordo. Certo, ognuno è libero di ridere di qualche loro stranezza, ma i motteggi di un osservatore superficiale non possono negare le loro doti effettive, prima fra

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tutte la peculiarità del carattere, la personalità (individualité), senza la quale, come dice Jean-Paul, grandezza umana nemmeno esiste. Può anche darsi che nelle capitali le donne ricevano una migliore istruzione; ma la pratica mondana ben presto livella il carattere e rende le anime uniformi come le acconciature. Ciò non sia detto come un giudizio o come una condanna; comunque nota nostra manet, come scrive un antico commentatore.

È facile immaginare quale effetto dovette produrre Alekséj nella cerchia delle nostre signorine. Era il primo che davanti a loro si mostrava tenebroso e disincantato, il primo che parlava loro delle gioie perdute e della sua giovinezza sfiorita; per di più portava un anello nero con l'immagine di un teschio. Tutto questo era straordinariamente nuovo in quella provincia. Le signorine impazzivano per lui.

Ma più di tutte si interessava a lui la figlia del mio anglomane, Liza (o Betsy, come la chiamava di solito Grigórij Ivànoviè). I padri non si frequentavano, lei Alekséj ancora non l'aveva visto, mentre tutte le giovani vicine non facevano che parlare di lui. Aveva diciassette anni. Gli occhi neri le ravvivavano il viso dall'incarnato scuro e molto gradevole. Era figlia unica e, di conseguenza, viziata. La sua vivacità e le continue monellerie estasiavano il padre e facevano disperare la sua madame miss Jackson, un'affettata signorina quarantenne, che si dava il belletto e si tingeva di nero le sopracciglia, due volte all'anno rileggeva la Pamela, riceveva per questo duemila rubli e moriva di noia in questa barbara Russia.

A Liza badava Nastja; aveva qualche anno più di lei, ma era sventata tanto quanto la sua signorina. Liza la amava molto, le svelava tutti i suoi segreti, insieme a lei progettava i suoi spassi; in una parola, Nastja nel villaggio di Prilùèino era un personaggio molto più importante del confidente di una tragedia francese.

«Permettetemi oggi di andare a fare una visita», disse un giorno

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Nastja, mentre vestiva la signorina.

«Va' pure; ma dove?».

«A Tugìlovo, dai Bérestov. È l'onomastico della moglie del loro cuoco, e ieri è venuta a invitarci a pranzo».

«Ecco!», disse Liza, «i signori sono in lite, e i servi si scambiano inviti».

«E a noi che ce ne importa dei signori!», ribatté Nastja; «e poi io sono vostra, non del vostro babbo. Voi non avete mica litigato ancora col giovane Bérestov; che i vecchi si azzuffino pure, se questo li diverte».

«Cerca, Nastja, di vedere Alekséj Bérestov, e poi raccontami per bene come si presenta e che tipo di persona è».

Nastja promise, e Liza aspettò ansiosamente tutto il giorno il suo ritorno. La sera Nastja ricomparve.

«Allora, Lizavéta Grigór'evna», disse, entrando nella stanza, «ho visto il giovane Bérestov; l'ho guardato a sazietà; siamo stati insieme tutto il giorno».

«Come sarebbe? Racconta, racconta con ordine».

«Sissignora: siamo andate io, Anìs'ja Egórovna, Nenìla, Dun'ka...».

«Va bene, lo so. E poi?».

«Permettete, racconterò tutto per ordine. Siamo arrivate che era proprio l'ora di pranzo. La stanza era piena di gente. Ce n'era di Kólbino, di Zachàr'evo, la moglie dell'amministratore con le figlie, di Chlùpino...».

«Be', e Bérestov?».

«Aspettate, signorina. Ci siamo messi a tavola, la moglie dell'amministratore al posto d'onore, io accanto a lei... e le figlie

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hanno fatto il broncio, ma io ci sputo sopra...».

«Ah, Nastja, come sei noiosa coi tuoi continui particolari!».

«E voi come siete impaziente! Allora, ci siamo alzati da tavola... ci saremo rimasti un tre ore, e il pranzo era eccezionale: un pasticcio dolce blanc-manger blu, rosso e a strisce... Bene, ci siamo alzati da tavola e siamo andati in giardino a giocare a rincorrersi, e il giovane signore è apparso proprio lì».

«Allora? È vero che è così bello?».

«Incredibilmente bello; una bellezza, si può dire. Magro, alto, le guance tutte colorite...».

«Davvero? E io che pensavo fosse pallido. E allora? Come ti è sembrato? Triste, soprapensiero?».

«Che dite? Un indiavolato come lui non l'ho mai visto in vita mia. Gli è saltato in mente di giocare con noi a rincorrersi».

«Giocare con voi a rincorrersi! Non è possibile!».

«Possibilissimo! E che cos'altro si è inventato! Ti acchiappa, e giù a dare baci!».

«Come ti pare, Nastja, ma tu menti».

«Come vi pare, non mento. Mi sono staccata a forza da lui. Tutto il giorno ci è stato intorno così».

«Ma se dicono che è innamorato e che non guarda nessuno!».

«Non lo so; me, però, mi guardava anche troppo, e anche Tanja, la figlia dell'amministratore, e anche Paša di Kólbino, e a dirla tutta non ha fatto torto a nessuna, un tale birichino!».

«È straordinario! E che si sente dire di lui in casa?».

«Il padrone, dicono, è ottimo: così buono, così allegro. Solo una cosa non va: gli piace troppo correre appresso alle ragazze. Ma per me in fondo non è un guaio: col tempo si calmerà».

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«Quanto mi piacerebbe vederlo!», disse Liza sospirando.

«E che c'è di complicato? Tugìlovo non è lontana da noi, tre verste in tutto: andate a farvi una passeggiata da quelle parti, oppure andateci a cavallo; lo incontrerete di sicuro. Ogni giorno, la mattina presto, va a caccia col fucile».

«Ma no, non sta bene. Potrebbe pensare che io gli corra appresso. E poi i nostri padri sono in lite, per cui anche per me sarà impossibile fare la sua conoscenza... Ah, Nastja! Sai cosa? Mi vestirò da contadina!».

«Davvero: mettetevi una camicia pesante, il sarafàn, e andatevene senza paura a Tugìlovo; vi garantisco che Bérestov non vi lascerà scappare».

«E poi so parlare benissimo il dialetto di qui. Ah, Nastja, cara Nastja! Che trovata magnifica!». E Liza andò a dormire con l'intenzione di attuare a tutti i costi il suo progetto divertente.

L'indomani stesso si accinse a realizzare il suo piano; mandò a comprare al mercato tela grossa, nanchino azzurro e bottoni di rame; con l'aiuto di Nastja si tagliò camicia e sarafàn, costrinse a cucire tutta la servitù, e a sera tutto era pronto. Liza si provò il vestito nuovo e ammise davanti allo specchio di non essere mai apparsa così carina a se stessa. Ripassò la sua parte: camminando s'inchinava profondamente e poi scuoteva la testa varie volte, come fanno certi gatti di terracotta; parlava il dialetto dei contadini, rideva coprendosi con la manica, ed ebbe la piena approvazione di Nastja. Una cosa sola la metteva in difficoltà: aveva provato ad attraversare il cortile scalza, ma le zolle d'erba pungevano i suoi teneri piedi, e la sabbia e i sassolini le sembravano intollerabili. Nastja l'aiutò anche in questo: prese la misura del piede di Liza, corse nei campi da Trofìm il pastore e gli ordinò un paio di làpti di quella misura. Il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Liza si era già svegliata. Tutta la casa dormiva ancora. Nastja dietro la porta aspettava il pastore. Suonò il corno,

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e il gregge del villaggio cominciò a sfilare davanti al cortile padronale. Trofìm, passando davanti a Nastja, le diede i piccoli làpti colorati e ricevette da lei mezzo rublo di compenso. Liza indossò pian piano la veste da contadina, diede sottovoce a Nastja le istruzioni riguardo a miss Jackson, uscì sulla scala posteriore e, attraversato l'orto, corse nei campi.

L'alba splendeva a oriente, e file dorate di nuvole sembrava attendessero il sole, come i cortigiani attendono il signore; cielo chiaro, freschezza mattutina, rugiada, venticello e canto degli uccellini riempivano il cuore di Liza di un'allegria infantile; poiché temeva d'incontrare qualche persona conosciuta, non sembrava camminare, ma volare. Avvicinandosi al boschetto che stava sul confine della proprietà paterna, Liza rallentò il passo. Qui doveva aspettare Alekséj. Il cuore le batteva forte, senza sapere lei stessa perché; ma la paura che accompagna le nostre marachelle giovanili ne costituisce anche il fascino principale.

Liza entrò nella penombra del boschetto. Un sordo, echeggiante fruscìo salutò la fanciulla. La sua allegria si acquietò. A poco a poco si abbandonò a un dolce fantasticare. Pensava... ma si può forse definire con esattezza a cosa pensa una signorina di diciassette anni, sola, in un boschetto, alle sei di un mattino di primavera? E così camminava, assorta, per la strada ombreggiata su entrambi i lati da alberi alti, quando a un tratto un bellissimo bracco da punta le abbaiò contro. Liza si spaventò e gettò un grido. In quel momento echeggiò una voce: tout beau, Sbógar, ici... e un giovane cacciatore apparve da dietro un cespuglio. «Non aver paura, cara», disse a Liza, «il mio cane non morde». Liza fece in tempo a riprendersi dallo spavento e seppe subito approfittare dell'occasione. «Ma no, signore», disse, fingendosi mezzo spaventata, mezzo timida, «ho paura: lo vedi quant'è cattivo; mi si avventerà contro un'altra volta». Alekséj (il lettore l'ha già riconosciuto) nel frattempo guardava fisso la giovane contadina. «Ti accompagno, se hai paura», le disse; «mi permetterai di

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camminarti vicino?». «E chi te lo impedisce?», rispose Liza, «padronissimo, la strada è di tutti». «Di dove sei?». «Di Prilùèino; sono la figlia del fabbro Vasìlij, vado per funghi». (Liza portava un canestrino attaccato a uno spago). «E tu, signore? Sei di Tugìlovo, no?». «Proprio così», rispose Alekséj, «sono il cameriere del giovane padrone». Alekséj voleva che i loro rapporti fossero alla pari. Ma Liza lo guardò e si mise a ridere. «Sei un bugiardo», disse, «mica hai trovato una scema. Lo vedo, che proprio tu sei il padrone». «E che te lo fa pensare?». «Ma, tutto». «Per esempio?». «Come si fa a non riconoscere un signore da un servo? Sei vestito diverso, discorri in un altro modo, e il cane non lo chiami alla nostra maniera».

Liza piaceva sempre più ad Alekséj. Abituato a non fare complimenti con le belle campagnole, avrebbe voluto abbracciarla, ma Liza spiccò un salto per allontanarsi da lui e assunse improvvisamente un'aria così severa e fredda che, pur facendo ridere Alekséj, lo trattenne da ulteriori passi. «Se volete che d'ora in avanti siamo amici», disse ella con aria d'importanza, «siete pregato di non lasciarvi andare». «Chi ti ha insegnato questa gran saggezza?», domandò Alekséj, scoppiando a ridere. «Non sarà mica Nàsten'ka, quella che conosco, la ragazza della vostra signorina? Ecco per quali strade si diffonde l'istruzione!». Liza sentì di essere uscita dalla sua parte e si corresse subito. «Che ti credi?», disse, «che non vado mai nel cortile dei padroni? non aver paura: ne ho sentite e viste di tutte. Comunque», continuò, «chiacchierando con te funghi non se ne raccolgono. Vattene, signore, da una parte, e io andrò dall'altra. Con permesso...». Liza voleva allontanarsi, Alekséj la trattenne per una mano. «Come ti chiami, anima mia?». «Akulìna», rispose Liza, tentando di liberare le sue dita dalla mano di Alekséj; «lasciami, signore, per me è anche ora di tornare a casa». «Be', amica mia Akulìna, verrò assolutamente a trovare il tuo bàtjuška, Vasìlij il fabbro». «Che dici?», obiettò vivacemente Liza, «in nome di Cristo, non venire. Se a casa sapranno che ho parlato a quattr'occhi con un signore nel

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boschetto, mi succederà un guaio; mio padre, Vasìlij il fabbro, mi picchierà a morte». «Ma io voglio assolutamente rivederti». «Allora qualche volta verrò ancora qui per funghi». «Quando?». «Anche domani». «Cara Akulìna, ti riempirei di baci, ma non oso. Allora a domani, a quest'ora, non è vero?». «Sì, sì». «E non m'ingannerai?». «Non t'ingannerò». «Giura». «Allora ti giuro sul venerdì santo che verrò».

I due giovani si separarono. Liza uscì dal bosco, attraversò il campo, entrò furtivamente in giardino e corse a perdifiato alla fattoria, dove Nastja l'aspettava. Là si cambiò, rispondendo distrattamente alle domande dell'ansiosa confidente, e apparve in salotto. La tavola era apparecchiata, la colazione pronta, e miss Jackson, già imbellettata e stretta nel busto come un calice, tagliava sottili tartine. Il padre la lodò per la passeggiata mattutina. «Non c'è niente di più sano», disse, «che svegliarsi all'alba». A questo punto riportò vari esempi di longevità umana, raccolti da riviste inglesi, osservando che tutte le persone vissute più di cento anni non avevano l'abitudine di bere vodka e si alzavano all'alba d'inverno e d'estate. Liza non lo ascoltava. Riandava col pensiero a tutte le circostanze dell'incontro mattutino, ripeteva fra sé tutto il dialogo di Akulìna col giovane cacciatore, e la coscienza cominciava a rimorderle. Invano obiettava a se stessa che la loro conversazione non aveva superato i limiti della convenienza, che quel capriccio non poteva avere nessuna conseguenza; la coscienza brontolava più forte della ragione. La promessa che aveva dato per il giorno successivo l'agitava più di ogni altra cosa: aveva quasi definitivamente deciso di non rispettare il solenne giuramento. Ma Alekséj, dopo averla aspettata invano, poteva andar a cercare nel villaggio la figlia di Vasìlij il fabbro, la vera Akulìna, una ragazza grassa, butterata, scoprendo così la sua monelleria sconsiderata. Questo pensiero terrorizzò Liza, che decise di ripresentarsi la mattina dopo nel boschetto come Akulìna.

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Da parte sua Alekséj era estasiato, tutto il giorno pensò alla nuova conoscente; di notte la visione della bella di carnagione scura perseguitò anche in sogno la sua immaginazione. L'alba era appena spuntata che lui era già vestito. Senza darsi il tempo di caricare il fucile, uscì nei campi col suo fedele Sbògar e corse al luogo dell'appuntamento convenuto. Circa mezz'ora trascorse in un'attesa per lui insopportabile; infine vide balenare fra i cespugli il sarafàn azzurro, e si precipitò incontro alla cara Akulìna. Lei sorrise al grato entusiasmo di lui, ma Alekséj notò subito sul suo volto tracce di afflizione e di turbamento. Voleva apprenderne la causa. Liza confessò che il proprio comportamento le sembrava sventato, che se n'era pentita, che per questa volta non aveva voluto venir meno alla parola data, ma che quell'appuntamento sarebbe stato l'ultimo e che lei lo pregava di porre fine a una conoscenza che non poteva condurli a nulla di buono. Tutto questo, si capisce, fu detto in dialetto contadino; ma i pensieri e i sentimenti, insoliti in una ragazza semplice, sorpresero Alekséj. Lui usò tutta la sua eloquenza per distogliere Akulìna dai suoi propositi; e garantì l'innocenza dei propri desideri, promise che non le avrebbe mai dato motivo di pentimento, che si sarebbe sottomesso a lei in tutto, la scongiurò di non privarlo dell'unica gioia: quella di vedersi con lei da soli, magari a giorni alterni, magari anche solo due volte alla settimana. Parlava la lingua di una sincera passione e in quel momento era davvero innamorato. Liza lo ascoltava in silenzio. «Dammi la parola», disse lei infine, «che non mi cercherai mai in paese né andrai a chiedere di me. Dammi la parola che non cercherai di avere con me altri incontri, oltre a quelli che fisserò io stessa». Alekséj stava per giurarglielo sul venerdì santo, ma lei con un sorriso lo fermò. «A me non servono giuramenti», disse Liza, «mi basta la tua sola promessa». Dopo di che chiacchierarono amichevolmente, passeggiando insieme nel bosco, fino a quando Liza gli disse: è ora. Si separarono, e Alekséj, rimasto solo, non riusciva a capire in che modo una semplice ragazzina di campagna in due incontri fosse

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riuscita a conquistarsi un vero potere su di lui. I suoi rapporti con Akulìna avevano per lui l'incanto della novità, e anche se le ingiunzioni della strana contadina gli sembravano incresciose, non gli venne neanche in mente l'idea di non mantenere la parola. Il fatto è che Alekséj, nonostante l'anello fatale, la misteriosa corrispondenza e l'aria tenebrosa da disincantato, era un ragazzo buono e impetuoso e aveva il cuore puro, capace di provare i godimenti dell'innocenza.

Se dessi ascolto al mio solo desiderio, comincerei a descrivere immancabilmente e in ogni dettaglio gli incontri dei giovani, la crescente inclinazione reciproca e confidenza, le occupazioni, i discorsi, ma so che la maggior parte dei miei lettori non condividerebbe il mio piacere. Questi particolari, in genere, devono sembrare stucchevoli, per cui li tralascerò, dopo aver detto in breve che non erano ancora trascorsi neppure due mesi che il mio Alekséj era già perdutamente innamorato, e Liza non era più indifferente di lui, anche se più silenziosa di lui. Entrambi erano felici del presente e pensavano poco al futuro.

Il pensiero di legami indissolubili balenava loro in mente piuttosto spesso, ma fra loro non ne parlavano mai. La ragione era evidente: Alekséj, per quanto fosse attaccato alla sua cara Akulìna, rammentava sempre la distanza che correva fra lui e una povera contadina; Liza invece sapeva quale odio esistesse fra i loro padri, e non osava sperare in una riconciliazione. Inoltre il suo amor proprio era segretamente eccitato dalla vaga, romanzesca speranza di vedere infine il proprietario di Tugìlovo ai piedi della figlia del fabbro di Prilùèino. A un tratto un avvenimento importante poco mancò che mutasse i loro rapporti.

In una chiara, fredda mattina (di quelle di cui abbonda il nostro autunno russo) Ivàn Petróviè Bérestov uscì a fare una passeggiata a cavallo, prendendo con sé, per ogni eventualità, tre coppie di levrieri, un palafreniere e vari ragazzini della servitù con le raganelle. In quello stesso momento Grigòrij Ivànoviè Mùromskij,

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allettato dal bel tempo, si fece sellare la sua piccola giumenta dalla coda mozza e andò a girellare al trotto nei suoi possedimenti anglicizzati. Avvicinandosi al bosco vide il proprio vicino, fieramente a cavallo in cekmén' foderato di pelliccia di volpe, in attesa di una lepre, che i ragazzini con grida e raganelle tentavano di stanare da un cespuglio. Se Grigórij Ivànoviè avesse potuto prevedere quest'incontro, certamente avrebbe voltato in un'altra direzione; ma egli si era imbattuto in Bérestov in modo assolutamente inaspettato, e all'improvviso si era ritrovato alla distanza di un tiro di schioppo da lui. Non c'era niente da fare. Mùromskij, da europeo colto, si avvicinò al suo nemico e lo salutò garbatamente. Bérestov rispose con la stessa premura con cui un orso alla catena s'inchina ai signori al comando del suo domatore. In quel momento la lepre saltò fuori dal bosco e si mise a correre per i campi. Bérestov e il palafreniere si misero a gridare a squarciagola, sguinzagliarono i cani e galopparono al suo inseguimento a briglia sciolta. La cavalla di Mùromskij, che non era mai stata a caccia, si spaventò e si mise a correre all'impazzata. Mùromskij, che si era proclamato un ottimo cavaliere, la lasciava fare e dentro di sé era soddisfatto del caso, che lo salvava da uno sgradevole interlocutore. Ma la cavalla, arrivata al galoppo fino a un burrone che prima non aveva visto, di colpo scartò, e Mùromskij non si mantenne in sella. Caduto piuttosto pesantemente sulla terra gelata, vi rimase steso, maledicendo la sua giumenta dalla coda mozza che, come tornata in sé, si fermò immediatamente non appena avvertì di aver perso il cavaliere. Ivàn Petróviè gli si avvicinò al galoppo, per informarsi se non si fosse fatto male. Nel frattempo il palafreniere riportò indietro la cavalla colpevole, tenendola per le redini. Aiutò Mùromskij a rimontare in sella, e Bérestov lo invitò a casa sua. Mùromskij non poté rifiutare, giacché si sentiva obbligato, e in questo modo Bérestov tornò a casa gloriosamente dopo aver catturato la lepre e recando con sé il proprio nemico ferito e quasi prigioniero di guerra.

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I vicini, a colazione, si misero a chiacchierare piuttosto amichevolmente. Mùromskij chiese a Bérestov una carrozza confessando che, per le contusioni, non era in condizioni di arrivare a casa a cavallo. Bérestov lo accompagnò fino alla scalinata, e Mùromskij se ne andò non senza che prima questi gli desse la parola d'onore di tornare il giorno dopo (anche con Alekséj Ivànoviè) a pranzare da buoni amici a Prilùèino. In questo modo un'ostilità antica e profondamente radicata sembrava fosse sul punto di finire per l'ombrosità di una cavallina dalla coda mozza.

Liza uscì di corsa incontro a Grigórij Ivànoviè. «Come sarebbe, babbo?», domandò sorpresa, «perché zoppicate? Dov'è il vostro cavallo? Di chi è questa carrozza?». «Non lo indovineresti mai, my dear», le rispose Grigórij Ivànoviè e raccontò tutto quello che era accaduto. Liza non credeva ai propri orecchi. Grigórij Ivànoviè, senza darle il tempo di riaversi, annunciò che l'indomani sarebbero venuti a pranzo da lui tutti e due i Bérestov. «Che cosa dite!», disse lei, impallidendo. «I Bérestov, padre e figlio! Domani a pranzo da noi! No, babbo, fate come vi pare: io non mi farò vedere a nessun costo». «Ma come, sei ammattita?», ribatté il padre, «da quando in qua sei diventata così timida? O forse nutri per loro un odio ereditario, come l'eroina di un romanzo? Basta, non fare la sciocchina...». «No, babbo, per niente al mondo, per tutto l'oro del mondo non mi farò vedere dai Bérestov». Grigórij Ivànoviè si strinse nelle spalle e non stette a continuare la discussione, giacché sapeva che, contraddicendola, non ne avrebbe cavato nulla, e andò a riposarsi dalla memorabile passeggiata.

Lizavéta Grigór'evna andò in camera sua e chiamò Nastja. Insieme valutarono a lungo la visita dell'indomani. Che cosa avrebbe pensato Alekséj, se avesse riconosciuto nella signorina bene educata la sua Akulìna? Che opinione si sarebbe fatto del suo comportamento, dei suoi princìpi e del suo buonsenso? D'altro canto Liza aveva una gran voglia di vedere che effetto avrebbe

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prodotto su di lui un incontro così inatteso... All'improvviso le balenò un'idea. La comunicò subito a Nastja; tutte e due ne furono contente come di una trovata e stabilirono di metterla in pratica a qualunque costo.

Il giorno dopo a colazione Grigórij Ivànoviè chiese alla figlia se era sempre dell'intenzione di nascondersi ai Bérestov. «Babbo», rispose Liza, «li riceverò, se vi fa piacere, ma a una condizione: che in qualsiasi modo io mi presenti a loro, qualunque cosa faccia, voi non mi sgriderete e non darete alcun segno di meraviglia o di scontento». «Ancora delle monellerie!», disse ridendo Grigòrij Ivànoviè. «Va bene, va bene, acconsento; fa' quel che vuoi, birichina mia dagli occhi neri». Detto questo la baciò sulla fronte, e Liza corse a prepararsi.

Alle due in punto una carrozza di fabbricazione casalinga, col tiro a sei cavalli, fece ingresso nel cortile e avanzò lungo un'aiuola verde intenso. Il vecchio Bérestov salì la scalinata con l'aiuto di due lacchè in livrea di Mùromskij. Dietro a lui arrivò suo figlio a cavallo e insieme entrarono nella sala da pranzo, dove la tavola era già stata imbandita. Mùromskij accolse i vicini nel modo più affettuoso possibile, propose loro di visitare prima di pranzo il giardino e la riserva di bestiame e li condusse per viottoli sabbiosi, accuratamente spazzati. Il vecchio Bérestov si rattristava in cuor suo per il lavoro e il tempo perduti in capricci tanto inutili, ma per cortesia taceva. Suo figlio non condivideva né la disapprovazione del possidente parsimonioso, né l'entusiasmo dell'anglomane fiero di sé; aspettava impazientemente la comparsa della figlia del padrone di casa, della quale aveva tanto sentito parlare, e anche se il suo cuore, come sappiamo, era già impegnato, una giovane bellezza vantava sempre diritto sulla sua immaginazione.

Tornando in salotto si misero a sedere tutti e tre: i vecchi rievocarono i tempi trascorsi e gli aneddoti del servizio militare, mentre Alekséj rifletteva sulla parte da recitare in presenza di Liza. Decise che un freddo distacco sarebbe stato comunque il più

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adeguato e si atteggiò di conseguenza. La porta si aprì, e lui volse il viso con una tale indifferenza, con una tale fiera noncuranza che il cuore della civetta più incallita avrebbe dovuto immancabilmente sussultare. Purtroppo invece di Liza entrò la vecchia miss Jackson, imbellettata, serrata nel busto, con gli occhi bassi e una piccola riverenza, e la splendida mossa strategica di Alekséj cadde nel nulla. Non aveva fatto in tempo a riunire nuovamente le proprie forze che la porta si aprì ancora, e questa volta entrò Liza. Tutti si alzarono; il padre stava per procedere alla presentazione degli ospiti, ma si fermò di botto e si morse precipitosamente un labbro... Liza, la sua Liza di carnagione scura, si era fatta bianca fino agli orecchi, e tinta di nero le sopracciglia più ancora di miss Jackson; boccoli falsi, molto più chiari dei suoi capelli veri, erano cotonati all'insù, come la parrucca di Luigi XIV; maniche à l'imbécile si allargavano come il guardinfante di Madame de Pompadour; la vita era stretta come la lettera X, e tutti i brillanti di sua madre non ancora impegnati al monte di pietà le scintillavano sulle dita, sul collo e agli orecchi. Alekséj non poteva riconoscere la sua Akulìna in questa comica e brillante signorina. Suo padre si accostò alla sua manina, e lui ne seguì l'esempio indispettito; quando sfiorò le piccole dita bianche di lei, gli sembrò che stessero tremando. Intanto fece in tempo a scorgere il piedino, sporto in avanti apposta e calzato con tutta la civetteria possibile. Questo lo riconciliò un po' col resto dell'abbigliamento. Per quanto riguarda il belletto bianco e il nero delle sopracciglia, nella sua semplicità di cuore, a dire il vero, al primo sguardo non vi fece caso, e neppure dopo li sospettò. Grigórij Ivànoviè ricordò la sua promessa e tentò di non mostrare neanche una punta di sorpresa, ma la monelleria della figlia gli sembrava tanto divertente che riuscì a malapena a trattenersi dal ridere. Invece non ne aveva nessuna voglia l'affettata inglese. Aveva intuito che il belletto bianco e il nero erano stati sottratti dal suo comò, e un vermiglio rossore di dispetto trapelava attraverso il bianco artificiale del suo viso. Gettava occhiate di fuoco alla giovane birichina che,

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rimandando a un altro momento qualunque spiegazione, fingeva di non accorgersene.

Si sedettero a tavola. Alekséj continuava a recitare la parte del distratto pensieroso. Liza faceva la smorfiosa, parlava fra i denti, cantilenando, e solo in francese. Il padre le puntava continuamente gli occhi addosso, senza capire quale fosse il suo scopo, ma trovando tutto ciò molto spassoso. L'inglese era su tutte le furie e taceva. Solo Ivàn Petróviè era come a casa sua: mangiava per due, beveva a volontà, rideva del proprio riso e chiacchierava e sghignazzava sempre più amichevolmente.

Infine si alzarono da tavola; gli ospiti se ne andarono, e Grigórij Ivànoviè diede sfogo al riso e alle domande. «Come ti è saltato in mente di prenderli in giro?», chiese a Liza. «Sai invece che cosa ti dico? Il belletto ti dona davvero; non entro nei segreti della toilette femminile, ma io al tuo posto mi metterei un po' di bianco; non troppo, si capisce, ma appena appena». Liza era entusiasta del successo della sua pensata. Abbracciò il padre, gli promise di riflettere sul suo consiglio e corse a blandire l'irritata miss Jackson, che a stento accettò di aprirle la porta e di ascoltare le sue giustificazioni. Liza si era vergognata di presentarsi a degli sconosciuti così scura; non aveva avuto l'ardire di chiedere... era sicura che la buona, cara miss Jackson l'avrebbe perdonata... ecc. ecc... Miss Jackson, dopo essersi assicurata che Liza non aveva pensato di metterla in ridicolo, si calmò, baciò Liza e a suggello della riconciliazione le regalò un piccolo contenitore di belletto inglese, che Liza accettò con un'espressione di sincera gratitudine.

Il lettore indovinerà che l'indomani mattina Liza non esitò a riapparire nel boschetto degli appuntamenti. «Signore, ieri sera sei stato dai nostri padroni?», domandò subito ad Alekséj, «come t'è sembrata la signorina?». Alekséj rispose che non l'aveva notata. «Peccato», ribatté Liza. «E perché mai?», domandò Alekséj. «Perché vorrei domandarti se è vero quello che dicono...». «Che cosa dicono?». «È vero, come dicono, che rassomiglio alla

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signorina?». «Che sciocchezza! In confronto a te è un mostro fatto e finito». «Ah, signore, fai peccato a dirlo; la nostra signorina è così bianca, così ben agghindata! Come faccio a paragonarmi a lei?». Alekséj le giurò su Dio che lei era meglio di tutte le signorine bianche possibili, e, per confortarla completamente, si mise a descrivere la sua padrona con tratti così ridicoli che Liza ne rise di cuore. «Comunque», disse con un sospiro, «anche se forse la signorina è ridicola, io di fronte a lei resto sempre una scema analfabeta». «Ih!», disse Alekséj, «c'è proprio di che crucciarsi! Se vuoi t'insegno subito a leggere e a scrivere». «A parte gli scherzi», disse Liza, «ci si potrebbe provare sul serio?». «Prego, cara; cominciamo anche subito». Si sedettero. Alekséj tirò fuori dalla tasca matita e taccuino, e Akulìna imparò l'alfabeto incredibilmente in fretta. Alekséj non riusciva a capacitarsi della sua perspicacia. Il mattino dopo volle provare anche a scrivere; al principio la matita non le obbediva, ma dopo qualche minuto cominciò a tracciare anche le lettere piuttosto discretamente. «Che miracolo!», diceva Alekséj. «Le nostre lezioni sono più veloci del sistema di Lancaster». In effetti alla terza lezione Akulìna sillabava già Natàl'ja, la figlia del boiaro, interrompendo la lettura con osservazioni delle quali Alekséj era sinceramente sbalordito, e scarabocchiò tutto un foglio di aforismi, tratti dal racconto stesso.

Trascorse una settimana, e fra loro ebbe inizio una corrispondenza. L'ufficio postale fu istituito nella cavità di una vecchia quercia. Nastja svolgeva di nascosto le mansioni di postina. Lì Alekséj portava le lettere scritte a grandi caratteri e sempre lì trovava su semplice carta azzurra gli scarabocchi della sua diletta. Akulìna si abituava in modo evidente a organizzare meglio i discorsi, e la sua intelligenza progrediva e apprendeva a vista d'occhio.

Nel frattempo la recente conoscenza fra Ivàn Petróviè Bérestov e Grigórij Ivànoviè Mùromskij si andava sempre più consolidando e ben presto si trasformò in amicizia. Ecco in quali circostanze. Mùromskij si soffermava spesso a pensare che alla morte di Ivàn

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Petróviè tutta la sua proprietà sarebbe passata nelle mani di Alekséj Ivànoviè; che in questo caso Alekséj Ivànoviè sarebbe diventato uno dei più ricchi proprietari di quel governatorato, e che non aveva nessun motivo di non sposarsi con Liza. Invece il vecchio Bérestov, da parte sua, sebbene riconoscesse nel vicino una certa stravaganza (o, secondo una sua espressione, il pallino anglosassone), tuttavia non gli negava anche molte doti eccellenti, per esempio una rara destrezza negli affari; Grigórij Ivànoviè era parente stretto del conte Pronskij, persona nota e influente; il conte poteva risultare molto utile ad Alekséj, e Mùromskij (così pensava Ivàn Petróviè) probabilmente sarebbe stato contento dell'opportunità di maritare la figlia in modo vantaggioso. I vecchi avevano meditato così tanto su tutto questo, ognuno per conto proprio, che alla fine ne parlarono fra loro, si abbracciarono, promisero di combinare la cosa a dovere e si misero a brigare per realizzarla ognuno per la sua parte. A Mùromskij si presentava una difficoltà: convincere la sua Betsy ad approfondire la conoscenza con Alekséj, che non aveva più visto da quel pranzo memorabile. Sembrava che i due non si piacessero molto; almeno Alekséj non era più tornato a Prilùèino, e Liza se ne andava in camera sua ogni volta che Ivàn Petróviè li degnava di una visita. Ma, pensava Grigórij Ivànoviè, se Alekséj verrà da me ogni giorno, Betsy dovrà pure innamorarsi di lui. È nell'ordine delle cose. Il tempo aggiusterà tutto.

Ivàn Petróviè si preoccupava meno del successo dei propri piani. Quella sera stessa chiamò il figlio nel suo studio, accese la pipa e, dopo aver taciuto per un po', disse: «Com'è, Alëša, che non parli più da un pezzo della carriera militare? O l'uniforme da ussaro non t'incanta più?». «No, bàtjuška», rispose con rispetto Alekséj, «vedo che non vi è gradito che io entri negli ussari; il mio dovere è di sottomettermi a voi». «Bene», rispose Ivàn Petróviè, «vedo che sei un figlio obbediente: questo mi consola. Quindi neanch'io voglio forzarti; non ti obbligo a intraprendere... subito... la carriera civile, ma per ora ho intenzione di farti sposare».

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«Con chi, bàtjuška?», chiese stupefatto Alekséj.

«Con Lizavéta Grigòr'evna Mùromskaja», rispose Ivàn Petróviè; «una fidanzata coi fiocchi, non è vero?».

«Bàtjuška, io non penso ancora al matrimonio».

«Tu non ci pensi, così ci ho pensato e ripensato io al posto tuo».

«Come volete. Liza Mùromskaja non mi piace affatto».

«Dopo ti piacerà. Col tempo s'arrangerà tutto».

«Io non mi sento capace di fare la sua felicità».

«Non è compito tuo la sua felicità. Be'? è così che rispetti la volontà paterna? Bene!».

«Fate come credete, ma io non mi voglio sposare e non mi sposerò».

«Tu ti sposi, o io ti maledirò, e la proprietà, quant'è vero Iddio! la vendo e me la gioco, ma a te non lascerò un centesimo. Ti do tre giorni per riflettere, e nel frattempo non ti azzardare a comparirmi davanti agli occhi».

Alekséj sapeva che se il padre si metteva qualcosa in testa, non c'era verso, come dice Taràs Skotìnin, di cavargliela neppure con le tenaglie; ma Alekséj aveva preso dal padre, ed era altrettanto difficile dissuaderlo. Se ne andò in camera sua e si mise a riflettere sui limiti della patria potestà, su Lizavéta Grigór'evna, sul solenne proposito del padre di ridurlo in miseria e infine su Akulìna. Per la prima volta si rendeva conto in modo chiaro di esserne perdutamente innamorato; gli venne in mente l'idea romanzesca di sposarsi una contadina e di vivere del proprio lavoro, e quanto più pensava a quest'atto risoluto, tanto più lo trovava sensato. Da qualche tempo i convegni nel boschetto si erano interrotti a causa del tempo piovoso. Scrisse ad Akulìna una lettera con una scrittura più chiara e lo stile più furente; le annunciava la rovina che li stava minacciando, e le proponeva di sposarla. Portò subito la lettera alla

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posta, nella cavità del tronco, e andò a dormire molto soddisfatto di sé.

Il giorno dopo, di primo mattino, Alekséj, fermo nella sua intenzione, si recò da Mùromskij, per spiegarsi apertamente con lui. Sperava di sollecitare la sua magnanimità e di piegarlo dalla sua parte. «È in casa Grigórij Ivànoviè?», chiese, lasciando il cavallo davanti alla scala del castello di Prilùèino. «Nient'affatto», rispose il servo; «Grigórij Ivànoviè è fuori da stamattina». «Che rabbia!», pensò Alekséj. «È a casa, almeno, Lizavéta Grigór'evna?». «Sissignore, è in casa». E Alekséj balzò giù da cavallo, diede le briglie in mano al lacchè e andò senza farsi annunciare.

«Tutto verrà risolto», pensava, avvicinandosi al salotto; «mi spiegherò direttamente con lei». Entrò... e restò di sasso! Liza... no, Akulìna, la cara Akulìna dall'incarnato scuro, non in sarafàn, ma in un abitino bianco da mattina, sedeva davanti alla finestra leggendo la sua lettera; era così impegnata che non lo sentì neppure entrare. Alekséj non riuscì a trattenere un'esclamazione di gioia. Liza trasalì, alzò la testa, lanciò un grido e avrebbe voluto scappare. Lui si precipitò a trattenerla. «Akulìna, Akulìna!...». Liza tentava di divincolarsi da lui... «Mais laissez-moi donc, monsieur; mais êtes-vous fou?», ripeteva, voltandosi dall'altra parte. «Akulìna, amica mia! Akulìna!», ripeteva lui, baciandole le mani. Miss Jackson, testimone di questa scena, non sapeva che pensare. In quel momento la porta si aprì e Grigórij Ivànoviè entrò.

«Ah!», disse Mùromskij, «allora, a quanto pare, avete già sistemato la cosa ...».

I lettori mi esimeranno dall'obbligo superfluo di descrivere lo scioglimento.

STORIA DEL VILLAGGIO DI GORJÙCHINO

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Se Dio mi darà lettori forse sarà interessante per loro sapere come mai mi sono deciso a scrivere la storia del villaggio di Gorjùchino. A questo scopo devo entrare in qualche dettaglio preliminare. Nacqui da onesti e nobili genitori nel villaggio di Gorjùchino, il 1o aprile 1801, e ricevetti la prima istruzione dal nostro sagrestano. A quest'uomo rispettabile devo la passione, in me sviluppatasi in seguito, per la lettura e in genere per gli studi letterari. I miei progressi, seppure lenti, furono sicuri, giacché a dieci anni sapevo già quasi tutto quello che mi è rimasto finora nella memoria, debole per natura, e che a causa di una salute altrettanto debole non mi fu permesso di affaticare troppo. L'appellativo di letterato mi è sempre sembrato il più invidiabile. I miei genitori, persone rispettabili ma semplici e tirate su all'antica, non leggevano mai niente, e in tutta la casa, oltre al Sillabario acquistato per me, ai calendari e al Nuovissimo manuale di lingua e letteratura, non c'era nessun libro. La lettura del manuale fu per lungo tempo il mio esercizio preferito. Lo conoscevo a memoria e, nonostante questo, ogni giorno vi trovavo nuove attrattive passate prima inosservate. Dopo il generale Plemjànnikov, di cui mio padre era stato aiutante di campo, Kurgànov mi sembrava il più grande fra gli uomini. Chiedevo a tutti informazioni su di lui, e, purtroppo, nessuno era in grado di soddisfare la mia curiosità, nessuno l'aveva conosciuto personalmente; a tutte le mie domande rispondevano solo che Kurgànov aveva scritto il manuale Nuovissimo, cosa che sapevo certamente anche prima. L'oscurità dell'ignoto lo avvolgeva come un antico semidio; a volte arrivavo addirittura a dubitare della sua esistenza. Il suo nome mi sembrava inventato e la leggenda intorno a lui un mito inconsistente in attesa delle ricerche di un nuovo Niebuhr. Comunque continuava a ossessionare la mia immaginazione; tentavo di conferire un volto a questo misterioso personaggio, e infine decisi che doveva

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somigliare all'assessore del consiglio provinciale Korjùèkin, un vecchiettino dal naso rosso e gli occhi luccicanti.

Nel 1812 mi portarono a Mosca e mi iscrissero al collegio di Karl Ivànoviè Mejer dove non trascorsi più di tre mesi, giacché ci dimisero prima dell'invasione del nemico, e io tornai in campagna. Dopo la cacciata dei dodici popoli stranieri volevano condurmi nuovamente a Mosca per vedere se Karl Ivànoviè non fosse tornato al suo vecchio focolare incendiato e, in caso contrario, per affidarmi a un'altra scuola, ma io scongiurai la mamma di lasciarmi in campagna, dato che la mia salute non mi consentiva di alzarmi dal letto alle sette, come si usa di solito nei collegi. In questo modo raggiunsi il sedicesimo anno d'età, fermo alla mia istruzione elementare e al gioco della palla con i miei compagni di giochi, l'unica scienza di cui avevo acquistato una discreta conoscenza durante il mio soggiorno in collegio.

A quell'epoca entrai in servizio come allievo ufficiale nel *** reggimento di fanteria, nel quale restai fino allo scorso anno 18**. La mia permanenza nel reggimento mi ha lasciato poche impressioni gradevoli, oltre quella di essere promosso ufficiale e quella di aver vinto 245 rubli in un momento in cui non mi restavano in tasca che un rublo e sessanta copechi. La morte dei miei amatissimi genitori mi costrinse a chiedere il congedo e a tornare nella mia proprietà avita.

Quest'epoca della mia vita è talmente importante per me che ho intenzione di raccontarla per esteso, chiedendo scusa in anticipo al benevolo lettore se farò cattivo uso della sua indulgente attenzione.

La giornata era autunnale, nuvolosa. Giunto alla stazione postale, dalla quale dovevo deviare per Gorjùchino, presi a nolo una vettura privata e imboccai una strada secondaria. Sebbene per natura io abbia un carattere tranquillo, l'impazienza di rivedere i luoghi nei quali avevo trascorso i miei anni migliori s'impadronì di me con tanta forza, che ogni momento incitavo il postiglione, ora

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promettendogli la mancia, ora minacciandolo di botte, e siccome mi riusciva più comodo urtarlo nella schiena che tirar fuori e slegare la borsa, confesso che lo colpii ben tre volte, cosa che non mi era mai successa in vita mia, dal momento che la categoria dei postiglioni, non so neanch'io perché, mi è particolarmente simpatica. Il postiglione incitava la trojka, ma a me sembrava che, secondo l'abitudine dei postiglioni, pur incitando a voce i cavalli e agitando la frusta, tirasse tuttavia le redini. Finalmente scorsi il boschetto di Gorjùchino, e dieci minuti dopo entravo nella corte padronale. Il cuore mi batteva forte: mi guardavo intorno con indescrivibile emozione. Erano otto anni che non vedevo Gorjùchino. Le piccole betulle, che erano state piantate lungo lo steccato quando c'ero ancora io, erano cresciute e diventate adesso alberi alti, frondosi. Il cortile, una volta abbellito da tre aiuole regolari, in mezzo alle quali passava una strada larga, cosparsa di sabbia, adesso s'era trasformato in un prato incolto, sul quale pascolava una mucca. Il mio calesse si fermò di fronte all'entrata principale. Il postiglione andò ad aprire la porta, ma era inchiodata, anche se le imposte erano aperte e la casa pareva abitata. Una contadina uscì dall'izba dei servi e domandò chi stavo cercando. Saputo che era arrivato il padrone, rientrò di corsa nell'izba, e presto la servitù mi circondò. Ero commosso nel profondo del cuore nel vedere facce conosciute e sconosciute, e scambiare baci amichevoli con tutti: i ragazzini miei compagni di gioco erano ormai diventati uomini, e le ragazzine che una volta sedevano per terra in attesa di commissioni erano già donne maritate. Gli uomini piangevano. Alle donne dicevo senza complimenti: «Come sei invecchiata!», e mi veniva risposto con animazione: «E voi, bàtjuška, come siete diventato brutto!». Mi accompagnarono all'entrata di servizio, e lì mi venne incontro la mia balia, che mi abbracciò con pianti e singhiozzi, come il molto travagliato Ulisse. Corsero a scaldare il bagno. Il cuoco, che ora, nell'ozio, si era lasciato crescere la barba, si offrì di prepararmi il pranzo, o la cena, visto che ormai imbruniva. Mi sgombrarono

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subito le stanze nelle quali viveva la balia con le cameriere della povera mamma, e così mi ritrovai nell'umile dimora paterna, dove mi addormentai nella stessa stanza in cui ero nato ventitré anni prima.

Quasi tre settimane le trascorsi affaccendato in questioni di ogni genere: ebbi a che fare con assessori, rappresentanti della nobiltà, e ogni tipo di funzionario provinciale. Alla fine assunsi l'eredità ed entrai in possesso dei beni paterni; mi calmai, ma presto la noia dell'ozio prese a tormentarmi. Non avevo ancora fatto la conoscenza del mio buono e stimabile vicino ***. Le questioni amministrative mi erano del tutto estranee. I discorsi della mia balia, da me promossa a guardarobiera e amministratrice, consistevano in tutto in quindici aneddoti casalinghi, dilettevoli per me, ma che lei raccontava sempre allo stesso modo, così che diventò per me un altro nuovissimo manuale, nel quale sapevo a quale pagina avrei trovato quella tal riga. Il vero benemerito manuale letterario lo ritrovai in dispensa, in mezzo a ogni sorta di vecchiume, in condizioni pietose. Lo portai alla luce e mi accinsi a leggerlo, ma Kurgànov aveva smarrito ai miei occhi il suo antico fascino; lo lessi un'altra volta e poi non lo aprii più.

In questo frangente estremo mi venne un'idea: perché non provare a scrivere io stesso qualcosa? Il benevolo lettore sa già che avevo ricevuto un'istruzione dappoco, e non avevo avuto modo di acquistarmi da solo quello che avevo perduto, fino a sedici anni giocando coi ragazzi della servitù, e poi viaggiando da una provincia all'altra, da una casa all'altra, ammazzando il tempo con ebrei e osti, giocando sopra logori biliardi o marciando nel fango. Per di più essere scrittore mi sembrava così difficile, così inaccessibile a noi profani, che l'idea di prendere in mano la penna sulle prime mi spaventò. Come potevo sperare di ritrovarmi un giorno nel novero degli scrittori, quando neppure il mio desiderio ardente d'incontrarmi con uno di essi era mai stato esaudito? Ma questo mi ricorda un fatto che voglio raccontare a testimonianza

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della mia passione di sempre per le patrie lettere.

Nel 1820, quando ero ancora allievo ufficiale, mi capitò di trovarmi per questioni burocratiche a Pietroburgo. Mi trattenni una settimana e, sebbene non vi conoscessi neppure una persona, passai il tempo in straordinaria allegria: ogni giorno, zitto zitto, me ne andavo a teatro, in galleria di quart'ordine. Imparai i nomi di tutti gli attori e mi innamorai perdutamente della ***, che una domenica aveva recitato con grande maestria il ruolo di Amalia nel dramma Odio e pentimento. La mattina, di ritorno dallo stato maggiore, passavo di solito in un piccolo caffè, dove davanti a una tazza di cioccolato, leggevo le riviste letterarie. Una volta ero assorto in un articolo del «Benpensante»; un tale in cappotto color pisello mi si avvicinò e da sotto il mio fascicolo tirò fuori pian piano il foglio del «Giornale di Amburgo». Ero così preso che non alzai neanche gli occhi. Lo sconosciuto ordinò una bistecca e si sedette davanti a me; io continuavo a leggere, senza prestargli attenzione; lui nel frattempo fece colazione, insultò stizzito il cameriere per qualcosa che non andava, si bevve mezza bottiglia di vino e uscì. C'erano anche due giovani che stavano facendo colazione. «Lo sai chi era quello?», disse uno di loro all'altro: «Era B., lo scrittore». «Uno scrittore!», esclamai senza volere, e, lasciando la rivista letta a metà e la tazza mezza piena, corsi a pagare il conto e, senza aspettare il resto, mi precipitai in strada. Guardando in tutte le direzioni, scorsi in lontananza un cappotto color pisello, e mi slanciai dietro a questo sulla Prospettiva Nevskij, quasi di corsa. Fatto qualche passo, sentii a un tratto che qualcuno mi stava fermando: mi voltai e un ufficiale della guardia mi fece notare che non avrei dovuto spingerlo giù dal marciapiede, ma piuttosto fermarmi e mettermi sull'attenti. Dopo tale ammonimento mi feci più cauto; per mia disgrazia mi imbattevo ogni momento in ufficiali, e ogni momento ero costretto a fermarmi, mentre lo scrittore continuava ad allontanarsi da me andando sempre avanti. Mai in vita mia il cappotto da soldato mi era parso tanto pesante, mai le spalline da ufficiale mi erano

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sembrate tanto invidiabili. Finalmente, proprio presso il ponte di Ánièkin, raggiunsi il cappotto color pisello. «Permettetemi di domandarvi», dissi, portando la mano alla fronte, «voi siete il signor B., i cui splendidi articoli ho avuto la fortuna di leggere nell"'Emulo della cultura»?». «Assolutamente no», mi rispose, «io non sono scrittore, ma avvocato, ad ogni modo conosco molto bene ***; un quarto d'ora fa l'ho incontrato al ponte della Polizia». Così la mia considerazione per la letteratura russa mi costò trenta copechi di resto perso, un ammonimento in servizio e, quasi quasi, gli arresti, - tutto ciò per nulla.

Nonostante tutte le obiezioni del mio giudizio, l'idea temeraria di diventare scrittore mi tornava in mente a ogni istante. Infine, non essendo più in condizioni di oppormi a un'inclinazione naturale, mi cucii un grosso quaderno con la ferma intenzione di riempirlo di qualsiasi cosa. Tutti i generi della poesia (visto che all'umile prosa non avevo neppure pensato) furono da me passati in rivista e valutati, finché mi decisi senz'altro per un poema epico tratto dalla storia della nostra patria. Non cercai a lungo il mio eroe: scelsi Rjùrik e mi misi al lavoro.

Di versi avevo acquisito una certa pratica ricopiando i quaderni che giravano di mano in mano fra i nostri ufficiali, e precisamente: Il vicino pericoloso, Critica al boulevard di Mosca, e Critica agli stagni della Presnja, ecc. Ciò nonostante, il mio poema procedeva con lentezza, e lo abbandonai al terzo verso. Pensai che il genere epico non facesse per me, e cominciai la tragedia Rjùrik. La tragedia non andò avanti. Provai a trasformarla in ballata, ma anche la ballata per qualche motivo non mi riusciva. Finalmente l'ispirazione m'illuminò: cominciai e conclusi felicemente un'epigrafe al ritratto di Rjùrik.

Anche se la mia epigrafe non era del tutto indegna di attenzione, specialmente come opera prima di un giovane verseggiatore, intuii di non essere nato poeta, e mi accontentai di questa prima prova. Ma i miei esperimenti creativi mi avevano così legato al lavoro

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letterario che ormai non potevo più staccarmi dal quaderno e dal calamaio. Volli abbassarmi alla prosa. Per cominciare, siccome non volevo occuparmi dello studio preliminare, della stesura del progetto, della concatenazione delle parti ecc., mi proposi di scrivere pensieri sparsi, senza nesso, senza ordine alcuno, nella forma in cui mi si fossero presentati. Purtroppo idee in testa non me ne venivano, e in due giornate intere riuscii a formulare solo la seguente osservazione:

«L'uomo che non sottostà alle leggi della ragione e che si abitua a seguire i suggerimenti delle passioni cade spesso in errore e si espone a un tardivo pentimento».

L'idea era certamente giusta, ma tutt'altro che nuova. Lasciando perdere le idee mi diedi ai racconti, ma, visto che non ero capace, perché disavvezzo, a esporre un fatto inventato, scelsi i meravigliosi aneddoti che avevo sentito in passato da diverse persone, tentando di ornare la verità con la vivacità della narrazione, e a volte anche con le fioriture della mia fantasia. Componendo questi racconti, poco a poco mi formai un mio stile e imparai a esprimermi correttamente, in modo piacevole e disinvolto. Ma ben presto la mia riserva si esaurì, e mi misi alla ricerca di un nuovo soggetto per la mia attività letteraria.

L'idea di lasciar perdere quei mediocri e incerti aneddoti per raccontare avvenimenti veri e grandi mi riscaldava da tempo l'immaginazione. Essere giudice, osservatore e profeta di secoli e popoli mi sembrava la vetta più alta alla quale uno scrittore potesse arrivare. Ma che potevo scrivere con la mia miserabile istruzione, dove non mi avessero preceduto uomini eruditissimi e coscienziosi? Che genere di storia non era già stato trattato in modo esauriente da loro? Mettermi a scrivere la storia universale - ma non esiste già forse l'immortale lavoro dell'abate Millot? Dedicarmi alla storia della patria? che cosa dirò dopo Tatìšèev, Bóltin, Gólikov? e spetta a me rovistare nelle cronache e arrivare al significato arcano di una lingua caduta in disuso, quando non

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sono riuscito a imparare le cifre slave? Pensai a una storia di minor volume, per esempio alla storia del nostro capoluogo di governatorato; ma anche qui quanti ostacoli per me insormontabili! Il viaggio in città, le visite al governatore e all'arcivescovo, la domanda di accesso agli archivi e ai depositi dei monasteri ecc. La storia della città del nostro distretto per me sarebbe stata più adatta, ma non era interessante né per un filosofo, né per un pragmatico, e offriva scarso alimento all'eloquenza: *** fu nominata città di provincia nel 17**, e l'unico avvenimento degno di nota conservato nei suoi annali è un terribile incendio, avvenuto dieci anni fa, che distrusse il bazar e gli uffici pubblici.

Un fatto inaspettato risolse le mie perplessità. Una contadina, stendendo i panni in soffitta, scovò una vecchia cesta piena di trucioli, spazzatura e libri. Tutta la casa era al corrente della mia passione per la lettura. La dispensiera, proprio nel momento in cui, col mio quaderno davanti, rosicchiavo la penna e pensavo di cimentarmi nelle prediche di villaggio, trascinò trionfante la cesta in camera mia, gridando gioiosa: «libri! libri!». «Libri!», ripetei con entusiasmo e mi gettai sulla cesta. Infatti vidi un bel mucchio di libri rilegati in carta verde e blu. Era una collezione di vecchi calendari. Questa scoperta smorzò il mio entusiasmo, comunque ero contento del ritrovamento inatteso; erano pur sempre libri, e io ricompensai generosamente la premura della lavandaia con un mezzo rublo d'argento. Rimasto solo presi a esaminare i calendari, e presto la mia attenzione ne venne fortemente assorbita. Formavano una catena ininterrotta dal 1744 al 1799, cioè coprivano 55 anni esatti. I fogli azzurri di solito inseriti nei calendari erano tutti coperti di una scrittura all'antica. Scorrendo queste righe, notai con sorpresa che non contenevano soltanto osservazioni sul tempo e sull'amministrazione della casa, ma anche brevi notizie storiche sul villaggio di Gorjùchino. Mi misi immediatamente a decifrare tali preziosi appunti, e presto scoprii che offrivano una storia completa del mio villaggio natale nel corso di quasi un secolo intero secondo il più rigoroso ordine

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cronologico. Includevano inoltre una messe inesauribile di osservazioni economiche, statistiche, metereologiche, e di altre scienze. Da allora lo studio di questi appunti mi assorbì completamente, poiché vidi la possibilità di ricavarne un racconto armonioso, interessante e istruttivo. Dopo essermi familiarizzato abbastanza con questi documenti preziosi, mi misi a cercare nuove fonti della storia del villaggio di Gorjùchino. E presto l'abbondanza di queste mi strabiliò. Dopo aver dedicato sei interi mesi allo studio preliminare, mi apprestai finalmente a intraprendere il lavoro sospirato da tempo, e con l'aiuto di Dio lo condussi a termine il 3 novembre del 1827.

Adesso, come uno storico che mi somiglia, del quale non ricordo il nome, completata la mia difficile impresa poso la penna e con tristezza vado nel mio giardino a riflettere su quanto ho compiuto. Anche a me sembra, dopo aver scritto la storia di Gorjùchino, di non essere più necessario al mondo, di aver adempiuto il mio dovere, e che sia giunto per me il momento di riposare per sempre!

Allego qui l'elenco delle fonti di cui mi sono servito per la stesura della storia di Gorjùchino:

1. La collezione di vecchi calendari. 54 parti. Le prime venti parti sono scritte in una grafia all'antica con abbreviazioni. Di questa cronaca l'autore è il mio bisnonno Andréj Stepànoviè Bélkin; si distingue per chiarezza e stringatezza di stile. Per esempio: 4 maggio. Neve. Triška picchiato per insolenza. 6. Crepata vacca bruna. Sen'ka picchiato per ubriachezza. 8. Tempo sereno. 9. Pioggia e neve. Triška picchiato a causa del maltempo. 11. Tempo sereno. Nevischio. Cacciate tre lepri, e così via, senza nessuna riflessione... Le altre 35 parti sono scritte in varie grafie, per lo più in quella detta da bottegaio, con e senza abbreviazioni, generalmente in stile prolisso, slegato, e senza rispetto per l'ortografia. Da qualche parte si nota una mano femminile. Di questa sezione fanno parte le memorie di mio nonno Ivàn Andréeviè Bélkin e di mia nonna sua moglie Evpràksija

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Alekséevna, nonché gli appunti dell'amministratore Garbovìckij.

2. La Cronaca del sagrestano di Gorjùchino. Tale curioso manoscritto fu rinvenuto da me in casa del pope, sposato con la figlia del cronachista. I primi fogli sono stati strappati e usati dai figli del pope per i cosiddetti aquiloni. Uno di questi cadde in mezzo al mio cortile; lo raccolsi e volevo restituirlo ai bambini, quando mi accorsi che era tutto coperto di scrittura. Fin dalle prime righe vidi che l'aquilone era stato fatto con pagine della Cronaca; per fortuna feci in tempo a salvare il resto. Questa Cronaca, acquistata per un sacco d'avena, si distingue per una profondità di pensiero e una magniloquenza fuori dell'ordinario.

3. Le leggende orali. Non ho trascurato nessuna notizia, ma sono in particolar modo debitore ad Agraféna Trìfonova, madre dello stàrosta Avdéj, che era, dicono, l'amante dell'amministratore Garbovìckij.

4. Le liste di censimento, con le note degli stàrosta precedenti (libri dei conti e delle spese) relative alla moralità e alle condizioni economiche dei contadini.

La regione, che prende il nome di Gorjùchino dal suo capoluogo, occupa sulla sfera terrestre più di 240 desjatìne. Il numero degli abitanti arriva a 63 anime. A nord essa confina con i villaggi di Deriùchovo e Perkùchovo, i cui abitanti sono poveri, smunti e di bassa statura, mentre i fieri proprietari sono dediti alle esercitazioni bellicose della caccia alla lepre. A sud il fiume Sivka la separa dai possedimenti dei liberi agricoltori di Karàèevo - vicini irrequieti, famosi per la veemente crudeltà dei loro costumi. A ovest la circondano i campi fiorenti di Zachàrino, prosperosi sotto la guida di saggi e illuminati proprietari. A est confina con luoghi selvaggi, inabitati; con una palude inaccessibile dove cresce solo la mortella e risuona soltanto il monotono gracidare delle rane, e dove una leggenda superstiziosa vuole che si trovi il rifugio di un certo demonio.

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N.B. Questa si chiama appunto palude del Demonio. Si racconta che una pastorella seminferma di mente custodisse un branco di porci poco lontano da questo luogo solitario. Restò incinta e non seppe dare in alcun modo una spiegazione plausibile del fatto. La diceria popolare accusò il demonio della palude, ma questa favola è indegna della considerazione di uno storico, e dopo Niebuhr sarebbe imperdonabile prestarvi fede.

Fin dai tempi antichi Gorjùchino era famosa per la fertilità e la salubrità del clima. Segala, avena, orzo e grano saraceno crescono nei suoi campi fecondi. Un boschetto di betulle e una foresta di abeti provvedono gli abitanti di tronchi e assi per la costruzione e il riscaldamento delle case. Non mancano noci, mortella, mirtillo rosso e nero. I funghi vi crescono in straordinaria abbondanza; messi a cuocere nella panna acida costituiscono un cibo gustoso, anche se poco sano. Lo stagno è pieno di carassi, mentre nel fiume Sivka si trovano lucci e bottatrici.

Gli abitanti di Gorjùchino sono nella maggior parte di statura media, corporatura robusta e virile; hanno occhi grigi, capelli castano-chiaro o rossi. Le donne si distinguono per il naso un po' all'insù, gli zigomi sporgenti e la corpulenza.

N.B. Baba robustissima, tale espressione s'incontra spesso nelle note dello stàrosta alle liste di censimento.

Gli uomini sono di buon carattere, amanti del lavoro (specialmente quando lavoravano il proprio campo), arditi e combattivi: molti di loro affrontano gli orsi da soli e vantano nel circondario la reputazione di pugilatori; tutti in genere tendono al godimento sensuale dell'ubriachezza. Le donne, oltre alle faccende domestiche, dividono con gli uomini la maggior parte dei lavori, e non sono loro da meno in fatto di ardimento; raramente se ne trova una che abbia paura dello stàrosta. Esse formano una potente guardia pubblica, che sorveglia instancabilmente il cortile padronale, e vengono chiamate «portatrici di lancia». Il loro

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dovere principale è quello di battere quanto più spesso con una pietra su una lastra di ghisa per intimorire qualsiasi malintenzionato. Sono altrettanto caste quanto belle; agli attacchi di un insolente rispondono con espressivo contegno.

Gli abitanti di Gorjùchino fin da tempi antichissimi hanno dato vita a un intenso commercio di fibra di corteccia, panieri e calzature di tiglio. In questo sono favoriti dal fiume Sivka, che in primavera traversano su barchette, come gli antichi scandinavi, e che nelle altre stagioni traversano a guado, dopo essersi prima rimboccati i pantaloni fino al ginocchio.

La lingua di Gorjùchino è decisamente una derivazione dello slavo antico, ma da questo si differenzia quanto il russo. Abbonda di abbreviazioni e troncature; alcune lettere sono state abolite del tutto o sostituite da altre. Comunque un russo capirà facilmente uno di Gorjùchino, e viceversa.

Gli uomini sposavano di solito a tredici anni ragazze di venti. Le mogli picchiavano i propri mariti per quattro o cinque anni, dopo di che erano i mariti che cominciavano a picchiare le mogli, e in questo modo entrambi i sessi avevano il loro periodo di predominio, e l'equilibrio era rispettato.

Le cerimonie funebri avvenivano nel modo seguente: nel giorno stesso della morte il defunto veniva portato al cimitero, affinché il cadavere non occupasse inutilmente del posto nell'izba. Per cui succedeva talvolta che, con indescrivibile gioia dei parenti, il morto starnutisse o sbadigliasse proprio mentre lo stavano portando nella bara fuori dal recinto del villaggio. Le mogli piangevano i mariti ripetendo fra i lamenti: «Luce mia, testolina ardita! a chi mi hai lasciato? con che cosa potrò commemorarti?». Al ritorno dal cimitero cominciava il banchetto in onore del defunto, e parenti e amici si ubriacavano per due, tre giorni o addirittura per una settimana intera, a seconda dell'attaccamento alla sua memoria. Tali antichi rituali si sono conservati fino a oggi.

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L'abbigliamento degli abitanti di Gorjùchino consisteva in una camicia indossata sopra i pantaloni, che è il segno distintivo della loro origine slava. D'inverno portavano una giacca di montone, ma più per bellezza che per reale necessità, dal momento che di solito se la gettavano su una spalla e se la sfilavano al minimo lavoro che richiedesse movimento.

Scienze, arti e poesia fin dai tempi più remoti sono state a Gorjùchino piuttosto fiorenti. Oltre al prete e ai diaconi, c'erano sempre persone che sapevano leggere e scrivere. Le cronache ricordano lo scrivano Teréntij, vissuto intorno al 1767, che sapeva scrivere non solo con la mano destra, ma anche con la sinistra. Quest'uomo straordinario aveva acquistato gran fama nei dintorni per la composizione di ogni tipo di lettere, suppliche, passaporti privati, e così via. Dopo aver avuto diverse noie per la sua maestria, la sua sollecitudine e la sua partecipazione a vari avvenimenti importanti, morì in tarda vecchiaia, proprio mentre stava imparando a scrivere con il piede destro, visto che la scrittura con entrambe le mani era ormai troppo conosciuta. Egli ha un ruolo importante, come il lettore vedrà in seguito, anche nella storia di Gorjùchino.

La musica è sempre stata l'arte preferita degli abitanti colti di Gorjùchino: la balalàjka e la zampogna, deliziando i cuori sensibili, ancora oggi risuonano nelle loro abitazioni, specialmente nell'antico edificio pubblico, rivestito di legno d'abete e dell'immagine dell'aquila a due teste.

La poesia un tempo fioriva nell'antica Gorjùchino. Ancora adesso le poesie di Archìp il Calvo si sono conservate nel ricordo dei posteri.

Per soavità esse non sono da meno delle egloghe del famoso Virgilio, per la bellezza dell'immaginazione superano di gran lunga gli idilli del signor Sumarókov. E seppure per la ricercatezza dello stile restino inferiori alle ultime produzioni delle nostre

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muse, le eguagliano per ingegnosità e per spirito.

Riportiamo a esempio questa poesia satirica:

Alla casa del boiaro

Va lo stàrosta Antón,

Stringendosi sul petto le tabelle dei conti.

Le porge al boiaro,

Il boiaro guarda attento,

Non intende niente.

Eh tu, stàrosta Antón,

Hai derubato i boiari tutt'intorno,

Al verde il villaggio hai lasciato,

Tua moglie di regali hai colmato.

Dopo aver fatto in tal modo conoscere al mio lettore la situazione etnografica e statistica di Gorjùchino, nonché gli usi e costumi dei suoi abitanti, passiamo adesso alla narrazione propriamente detta.

I TEMPI LEGGENDARI

LO «STÀROSTA» TRÌFON

La forma di governo a Gorjùchino è cambiata diverse volte. Il villaggio si è trovato via via in potere degli anziani, eletti dalla comunità, degli amministratori, nominati dal proprietario, e, infine, è passato nelle mani degli stessi proprietari. Vantaggi e svantaggi di queste diverse forme di governo saranno da me esposti nel corso della narrazione.

La fondazione di Gorjùchino e il suo insediamento iniziale restano avvolti nelle tenebre del mistero. Oscure leggende tramandano che una volta Gorjùchino era un villaggio ricco ed esteso, che tutti i suoi abitanti vivevano nell'agiatezza, che l'imposta veniva raccolta

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una sola volta all'anno e inviata non si sa a chi su vari carri. A quel tempo tutto si comprava a poco, e si vendeva a caro prezzo. Amministratori non ne esistevano, gli stàrosta non facevano male a nessuno, la gente del posto lavorava poco, e se la spassava, e i pastori custodivano il gregge calzando stivali. Non dobbiamo però lasciarci trarre in inganno da questo quadro di delizie. L'idea dell'età dell'oro è comune a tutti i popoli e dimostra soltanto che gli uomini non sono mai contenti del presente e, riponendo per esperienza poca speranza nel futuro, ornano l'irreversibile passato di tutti i fiori della loro immaginazione. Ecco quanto è degno di fede:

Il villaggio di Gorjùchino anticamente apparteneva all'illustre casata dei Bélkin. Ma i miei antenati, in possesso di molte altre tenute ereditarie, non prestavano alcuna attenzione a questa lontana contrada. Gorjùchino pagava un piccolo tributo e veniva governato dagli anziani, eletti dal popolo in un'assemblea chiamata adunanza della comunità.

Ma, con il passare del tempo, i poderi ereditari dei Bélkin furono smembrati e decaddero. I nipoti impoveriti del ricco nonno non riuscivano però a perdere la loro abitudine al lusso, e pretendevano per intero l'antica rendita da una proprietà che ormai era diminuita di dieci volte. Minacciose disposizioni si susseguivano una dopo l'altra. Lo stàrosta le leggeva all'assemblea; gli altri anziani si dilungavano in bei discorsi, la comunità si agitava, e i signori, invece dell'imposta raddoppiata, ricevevano astute giustificazioni e umili lamentele, scritti su carta unta e sigillati con una monetina.

Una nube minacciosa incombeva su Gorjùchino, ma nessuno se ne dava pensiero. Nell'ultimo anno di governo di Trìfon, l'ultimo stàrosta eletto dal popolo, proprio il giorno della festa del patrono, quando tutto il popolo circondava rumorosamente l'edificio ricreativo (chiamato osteria nel linguaggio corrente) o vagabondava per le strade, abbracciandosi e intonando a squarciagola le canzoni di Archìp il Calvo, nel villaggio fece

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ingresso un calesse coperto, di vimini intrecciati, attaccato a una coppia di ronzini più morti che vivi; a cassetta sedeva un ebreo cencioso, mentre dal calesse si sporse una testa col berretto, che pareva guardasse incuriosita il popolo che se la spassava. Gli abitanti accolsero il carro con risate e lazzi volgari. (N.B. Arrotolando a tubo l'orlo della veste, i folli schernivano il vetturino ebreo e lo burlavano esclamando: «Giudeo, giudeo, mangiati un orecchio di porco!...» Cronaca del sagrestano di Gorjùchino). Ma quale non fu la loro meraviglia quando il calesse si fermò in mezzo al villaggio e il nuovo arrivato, saltato a terra, con voce imperiosa chiese dello stàrosta Trìfon. Il dignitario si trovava nell'edificio ricreativo, da dove due anziani lo accompagnarono rispettosamente fuori sottobraccio. Lo sconosciuto, dopo averlo guardato con aria minacciosa, gli porse una lettera e gli ordinò di leggerla immediatamente. Gli stàrosta di Gorjùchino avevano l'abitudine di non leggere mai niente da soli. Lo stàrosta era analfabeta. Mandarono a chiamare lo scrivano Avdéj. Lo trovarono poco lontano, che dormiva in un vicolo ai piedi d'uno steccato, e lo condussero dallo sconosciuto. Ma, fosse per lo spavento improvviso, o per un triste presentimento, i caratteri della lettera, scritta con chiarezza, gli apparvero annebbiati, ed egli non fu in grado di decifrarli. Lo sconosciuto, spediti a dormire con terribili maledizioni lo stàrosta Trìfon e lo scrivano Avdéj, rimandò la lettura della lettera all'indomani e andò nell'izba dell'amministrazione, dove l'ebreo gli portò anche la piccola valigia.

Gli abitanti di Gorjùchino avevano assistito con muta meraviglia a quell'insolito avvenimento, ma presto calesse, ebreo e sconosciuto furono dimenticati. La giornata si concluse chiassosa e allegra, e Gorjùchino si addormentò, senza prevedere quello che l'attendeva.

Al sorgere del sole mattutino gli abitanti furono svegliati da colpi bussati alle finestre e dal richiamo all'adunanza generale. I paesani uno dopo l'altro si presentarono nel cortile dell'izba

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dell'amministrazione, adibito a luogo d'assemblea. Avevano gli occhi rossi e turbati, le facce gonfie; sbadigliando e grattandosi guardavano l'uomo col berretto, con un vecchio caftano azzurro indosso, che stava solennemente in cima alla scaletta dell'izba dell'amministrazione, e tentavano di ricordarsi i suoi tratti, che sembrava loro di aver già visto. Lo stàrosta Trìfon e lo scrivano Avdéj stavano in piedi accanto a lui senza berretto, con un'espressione di servilismo e di profonda tristezza. «Sono tutti qui?», chiese lo sconosciuto. «Ci sono proprio tutti?», ripeté lo stàrosta. «Tutti quanti», risposero i presenti. Allora lo stàrosta annunciò che era arrivata una lettera da parte del padrone, e ordinò allo scrivano di leggerla, affinché tutti la udissero. Avdéj venne avanti e ad alta voce lesse quel che segue. (N.B. «Questa lettera minatoria l'ho copiata dallo stàrosta Trìfon, che l'ha conservata nel reliquiario delle icone insieme con altri ricordi del suo dominio su Gorjùchino». Io però non sono riuscito a ritrovare questa curiosa lettera).

Trìfon Ivànov!

Il latore della presente, mio fiduciario ***, viene nel mio podere del villaggio di Gorjùchino per assumerne l'amministrazione. Fate immediatamente riunire i contadini al suo arrivo e comunicate loro i miei voleri di padrone, e precisamente: i contadini devono obbedire agli ordini del mio fiduciario come se fossero i miei, e fare tutto quello che egli esigerà senza obiezioni; in caso contrario *** ha il diritto di trattarli con il massimo rigore. A questo mi ha costretto la loro sfrontata disobbedienza e la tua, Trìfon Ivànov, furbesca connivenza.

Firmato: N.N.

Allora ***, allargando le gambe a forma di X, e mettendosi le mani sui fianchi a forma di f, pronunciò il seguente discorso, breve ma significativo: «State attenti con me, non fate troppo i furbi; voi, lo so, siete gente viziata, ma io vi leverò i grilli dalla testa prima che vi passi la sbornia di ieri». La sbornia non era più in nessuna

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testa. Gli abitanti di Gorjùchino, come colpiti da un fulmine, a capo chino se ne tornarono terrorizzati alle loro case.

L'AMMINISTRAZIONE DEL FATTORE ***

*** prese in mano le redini dell'amministrazione e procedette all'applicazione del suo sistema politico; esso merita un'analisi particolareggiata.

Suo principio fondamentale era la seguente massima: il contadino, quanto più è ricco, tanto più è corrotto; quanto più povero, tanto più è obbediente. Di conseguenza *** teneva all'obbedienza della tenuta ritenendola la principale virtù contadina. Impose ai contadini un inventario, e li divise in ricchi e poveri. 1) Le imposte arretrate furono suddivise fra tutti i contadini benestanti e riscosse con la massima severità. 2) I poveri e i fannulloni furono immediatamente assegnati all'aratura, e se, stando ai suoi calcoli, il loro lavoro si dimostrava scarso, li vendeva come braccianti ad altri contadini, e questi gli pagavano un tributo volontario; quelli che erano stati venduti come servi avevano pieno diritto di riscattarsi, pagando oltre agli arretrati una doppia tassa annuale. Ogni obbligo della comunità ricadeva sui contadini ricchi. Il reclutamento obbligatorio poi era un trionfo del famelico amministratore, poiché tutti i contadini ricchi se ne riscattavano a turno, finché la scelta cadeva su un poco di buono o su un contadino caduto in miseria.* Le adunanze della comunità furono soppresse. Egli riscuoteva il tributo un poco alla volta, lungo tutto l'arco dell'anno. Non solo, ma introdusse le riscossioni straordinarie. I contadini pare non pagassero molto di più rispetto al passato, ma non riuscivano in alcun modo né a guadagnare, né a mettere da parte denaro a sufficienza. In tre anni Gorjùchino cadde completamente in miseria.

Gorjùchino intristì, il bazar venne disertato, le canzoni di Archìp il Calvo cessarono. I ragazzini andarono in giro elemosinando. Metà

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dei contadini lavorava all'aratura, l'altra metà erano braccianti; e il giorno della festa del patrono diventò, secondo le parole del cronista, non più un giorno di gioia e di giubilo, ma un anniversario di mestizia e di afflitta memoria.

ROSLÀVLEV

Leggendo Roslàvlev mi sono accorta con sorpresa che l'intreccio è fondato su un avvenimento reale a me fin troppo noto. Un tempo ero stata amica dell'infelice donna scelta dal signor Zagóskin come eroina del suo racconto. Egli ha indirizzato nuovamente l'attenzione del pubblico su un avvenimento dimenticato, ridestato sentimenti d'indignazione sopiti dal tempo, e turbato la quiete di una tomba. Io prenderò le difese di un'ombra, e il lettore perdonerà la debolezza della mia penna in considerazione degli impulsi del cuore. Sarò costretta a parlare molto di me stessa, poiché il mio destino è stato legato a lungo alle sorti della mia povera amica.

Mi fecero debuttare in società l'inverno del 1811. Non mi metterò a descrivere le mie prime impressioni. È facile immaginare che cosa dovesse provare una fanciulla di sedici anni nel sostituire maestri e mezzanini con balli incessanti. Mi abbandonavo al turbine del divertimento con tutta la vivacità dei miei anni, e ancora non riflettevo... Peccato: quell'epoca avrebbe meritato di essere osservata.

Fra le fanciulle che avevano fatto il loro ingresso in società insieme con me spiccava la principessina *** (il signor Zagóskin l'ha chiamata Polina, e io le lascerò questo nome). Stringemmo presto amicizia; ecco in quale occasione.

Mio fratello, giovane di ventidue anni, apparteneva alla categoria dei damerini del tempo; prestava servizio nel Collegio di stato degli affari esteri e viveva a Mosca, ballando e facendo lo

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scapestrato. S'innamorò di Polina e mi pregò di avvicinare le nostre due famiglie. Era l'idolo di tutta la nostra famiglia, e di me faceva quel che voleva.

Avvicinata Polina per compiacere lui, presto mi ci affezionai sinceramente. C'era in lei molto di strano e ancor più di attraente. Non la capivo ancora, ma già le volevo bene. Inavvertitamente cominciai a guardare coi suoi occhi e a pensare con la sua testa.

Il padre di Polina era una persona di grandi meriti, cioè andava in carrozza con due o tre coppie di cavalli attaccati in fila e portava la chiave e la stella come decorazioni; a parte questo era frivolo e sempliciotto. La madre, invece, era una donna posata e si distingueva per sussiego e buon senso.

Polina appariva dappertutto; era contornata da ammiratori; la colmavano di premure, ma lei si annoiava, e la noia le conferiva un'aria fredda e orgogliosa. Questo si addiceva straordinariamente al suo profilo greco e alle sue sopracciglia nere. Esultavo quando le mie osservazioni sarcastiche imprimevano un sorriso su quel volto regolare e annoiato.

Polina leggeva moltissimo, e senza nessun discernimento. La chiave della biblioteca del padre era affidata a lei. La biblioteca era composta per la maggior parte da opere di scrittori del XVIII secolo. La letteratura francese, da Montesquieu ai romanzi di Crébillon, le era familiare. Rousseau lo conosceva a memoria. Nella biblioteca non c'era neppure un libro russo, a parte le opere di Sumarókov, che Polina non apriva mai. Mi diceva che riusciva a malapena a decifrare i caratteri russi, e, probabilmente, non leggeva nulla in russo, inclusi i versi che le venivano donati in omaggio dai rimatori moscoviti.

A questo punto mi permetterò una piccola digressione. Sono ormai, se Dio vuole, quasi trent'anni che ci rimproverano, poverette noi, di non leggere in russo e di non saperci (dicono) esprimere nella nostra lingua. (NB.: fa male l'autore di Jurij

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Miloslàvskij a ripetere accuse banali. Tutte noi lo abbiamo letto e mi sembra che debba a una di noi la traduzione del suo romanzo in francese). Il fatto è che noi leggeremmo volentieri in russo, ma la nostra letteratura pare non sia più vecchia di Lomonòsov, e ancora oltremodo limitata. Essa, certo, ci offre diversi ottimi poeti, ma non si può pretendere da tutti i lettori una passione esclusiva per i versi. In prosa abbiamo soltanto la Storia di Karamzìn; i primi due o tre romanzi sono apparsi due o tre anni fa, mentre in Francia, in Inghilterra e in Germania i libri si susseguono, uno più straordinario dell'altro. Noi non ne vediamo neanche le traduzioni; e anche se le vediamo, che volete, io preferisco comunque gli originali. Le nostre riviste hanno grande interesse per i nostri letterati. Noi siamo obbligati ad attingere tutto, notizie e concetti, dai libri stranieri; così pensiamo anche in lingua straniera (almeno tutti quelli che pensano e che s'interessano al pensiero umano). Questo me l'hanno confessato i nostri letterati più famosi. Le eterne lamentele dei nostri scrittori sulla trascuratezza alla quale abbandoniamo i libri russi somigliano alle lamentele delle mercantesse russe, indignate del fatto che compriamo i nostri cappellini da Sichler e non ci accontentiamo delle creazioni delle modiste di Kostromà. Ritorno al mio argomento.

I ricordi di vita mondana abitualmente sono pallidi e inconsistenti, anche in epoca storica. Tuttavia l'apparizione a Mosca di una certa viaggiatrice ha lasciato in me una profonda impressione. Questa viaggiatrice è M.me de Staël. Arrivò d'estate, quando la maggior parte dei moscoviti si era distribuita per le campagne. L'ospitalità russa si mise in fermento; non si sapeva come rendere gli onori di casa alla famosa straniera. Ovviamente si dettero pranzi in suo onore. Uomini e dame accorrevano per darle un'occhiata, e nella maggior parte dei casi ne restavano delusi. Vedevano in lei una grassa cinquantenne, vestita in un modo che non si confaceva alla sua età. Le sue maniere non piacquero; i suoi discorsi apparvero troppo lunghi, le sue maniche troppo corte. Il padre di Polina, che aveva già conosciuto M.me de Staël a Parigi, offrì in suo onore un

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pranzo al quale invitò tutte le nostre menti moscovite. In quest'occasione vidi l'autrice di Corinna. Sedeva al posto d'onore, coi gomiti appoggiati al tavolo, intenta ad avvolgere e svolgere con le bellissime dita un rotolino di carta. Sembrava di cattivo umore; diverse volte cominciò a parlare, ma non riusciva a imbastire una conversazione. I nostri cervelloni mangiavano e bevevano a più non posso, e sembravano molto più soddisfatti della zuppa di pesce del principe che non della conversazione di M.me de Staël. Le signore erano tutte compunte. Queste e quelli interrompevano il silenzio solo di tanto in tanto, convinti della nullità delle proprie idee e intimiditi davanti alla celebrità europea. Per tutta la durata del pranzo Polina sembrava stare sulle spine. L'attenzione degli ospiti era divisa fra lo storione e M.me de Staël. Ogni momento ci si aspettava da lei un bon-mot; finalmente le scappò un doppio senso, e anche piuttosto audace. Tutti lo afferrarono, si misero a ridere, si levò un mormorio di sorpresa; il principe era fuori di sé dalla gioia. Lanciai uno sguardo a Polina. Il suo viso ardeva, le spuntarono le lacrime agli occhi. Gli ospiti si alzarono da tavola, completamente riconciliati con M.me de Staël: aveva detto un calembour che si precipitarono a diffondere per la città.

«Che cosa ti è successo, ma chère?», chiesi a Polina, «possibile che uno scherzo un po' audace ti abbia sconvolta fino a tal punto?». «Ah, cara», rispose Polina, «sono disperata! Come dev'essere sembrato insignificante il nostro gran mondo a questa donna straordinaria! È abituata a essere circondata da persone che la capiscono, per le quali un'osservazione brillante, un forte slancio del cuore, una parola ispirata non vanno mai perduti; è abituata alla seducente conversazione della cultura più raffinata. Qui invece... Dio mio! Neppure un'idea, neppure una parola rimarchevole nel corso di tre ore! Facce ottuse, un'ottusa alterigia e basta! Come si annoiava! Come sembrava affaticata! Ha visto che cosa ci voleva per loro, quello che potevano capire, queste scimmie della sapienza, e ha gettato loro un calembour. E loro

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come si sono precipitati! Ardevo dalla vergogna e stavo quasi per mettermi a piangere... Ma che porti pure», continuò Polina accalorata, «via con sé della nostra plebaglia mondana l'opinione che si merita. Comunque ha visto il nostro popolo buono e semplice, e lo capisce. Hai sentito che cosa ha detto a quel vecchio buffone insopportabile, che per compiacere una straniera ha pensato di burlarsi delle barbe russe: "Il popolo che cent'anni fa difese la sua barba, ai nostri tempi difenderà anche la sua testa". Com'è simpatica! Come le voglio bene! Come detesto il suo persecutore!».

Non fui soltanto io a notare il turbamento di Polina. Altri occhi penetranti si fermarono su di lei in quello stesso istante: gli occhi neri di M.me de Staël. Non so che cosa avesse pensato, ma dopo pranzo si avvicinò alla mia amica e prese a conversare con lei. Qualche giorno dopo M.me de Staël le scrisse il seguente biglietto:

Ma chère enfant, je suis toute malade. Il serait bien aimable à vous de venir me ranimer. Tâchez de l'obtenir de M.me votre mère et veuillez lui présenter les respects de votre amie de S.

Questo biglietto l'ho conservato. Polina non mi spiegò mai i suoi rapporti con M.me de Staël, nonostante tutta la mia curiosità. Aveva perso la testa per quella donna in gamba, tanto buona quanto geniale.

A che punto può portare il gusto della maldicenza! Raccontavo di recente tutto questo in un ambiente molto scelto. «Forse», mi fecero notare, «M.me de Staël non era altro che una spia di Napoleone, e la principessina*** le procurava le informazioni necessarie». «Per carità», dissi, «M.me de Staël, perseguitata per dieci anni da Napoleone, la nobile, buona M.me de Staël, rifugiatasi a stento sotto la protezione dell'imperatore russo, M.me de Staël, amica di Chateaubriand e di Byron, M.me de Staël sarebbe una spia di Napoleone!...». «Può darsi benissimo», replicò la contessa B. dal naso appuntito. «Napoleone era un furbo

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matricolato, e M.me de Staël la sapeva lunga!».

Parlavano tutti della guerra imminente e, a quanto ricordo, in modo piuttosto fatuo. Andava di moda l'imitazione dei modi francesi dell'epoca di Luigi XV. L'amore per la patria sembrava una pedanteria. Gli intelligentoni di allora esaltavano Napoleone con fanatico servilismo e scherzavano sui nostri insuccessi. Purtroppo i difensori della patria erano un po' sempliciotti; venivano derisi in modo piuttosto divertente e non avevano alcuna influenza. Il loro patriottismo si limitava alla feroce condanna dell'uso del francese in società, dell'introduzione di parole straniere, con uscite minacciose contro il Kuznéckij Most e cose simili. I giovani parlavano con disprezzo e indifferenza di tutto quanto fosse russo, e scherzando predicevano alla Russia la sorte della Confederazione renana. Insomma, la società era piuttosto ripugnante.

La notizia improvvisa dell'invasione e l'appello del sovrano ci sbalordirono. Mosca entrò in agitazione. Apparvero i manifestini destinati al popolino del conte Rastopèìn; il popolo s'incrudelì. I burloni mondani si diedero pace; le dame s'impaurirono. I persecutori della lingua francese e del Kuznéckij Most presero in società il sopravvento decisivo, e i salotti si riempirono di patrioti: chi vuotò la tabacchiera del tabacco francese e si mise a fiutare quello russo; chi bruciò decine di opuscoli francesi, chi rinunciò a bere il Lafitte e si mise a mangiare la minestra di cavoli. Tutti giurarono di astenersi dal francese; tutti si misero ad acclamare Požàrskij e Mìnin e a propagandare la guerra popolare, preparandosi a partire in fretta per le loro terre di Saràtov senza fermarsi a cambiare i cavalli.

Polina non riusciva a celare il proprio disprezzo, come prima non aveva celato la propria indignazione. Quel cambiamento così repentino e quella vigliaccheria la facevano uscire dai gangheri. Sui boulevards, agli stagni di Presnja parlava a bella posta in francese; a tavola in presenza della servitù metteva apposta in

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discussione quello sfoggio di patriottismo, parlava apposta delle numerose truppe di Napoleone e del genio militare di quest'ultimo. I presenti impallidivano, temendo una denuncia, e s'affrettavano a rimproverarla di sostenere il nemico della patria. Polina sorrideva con aria di disprezzo. «Volesse Iddio», diceva, «che tutti i russi amassero la patria come la amo io». Mi sorprendeva. Avevo sempre conosciuto Polina discreta e silenziosa e non capivo da dove le venisse un simile coraggio. «Misericordia», le dissi una volta, «hai proprio voglia d'immischiarti in fatti che non ci riguardano. Lascia gli uomini azzuffarsi e sbraitare di politica; le donne non vanno in guerra, e non hanno niente a che fare con Bonaparte». I suoi occhi mandarono scintille. «Vergognati», disse, «le donne forse non hanno patria? Non hanno forse padri, fratelli, mariti? Il sangue russo ci è forse estraneo? O pensi che siamo nate solo perché ci facciano volteggiare ai balli e a casa ci obblighino a ricamare cagnolini sulla tela? No, io so quale influenza possa avere una donna sull'opinione pubblica o anche sul cuore di una sola persona. Io non accetto l'umiliazione alla quale ci condannano. Guarda M.me de Staël: Napoleone si è scontrato con lei, come con una forza nemica... E lo zio osa ancora farsi beffe di lei e del suo timore all'approssimarsi dell'esercito francese! "State tranquilla, signora: Napoleone combatte contro la Russia, non contro di voi...". Sì! Se lo zio capitasse fra le mani dei francesi, lo lascerebbero passeggiare per il Palais-Royal; ma M.me de Staël in questo caso morrebbe in una prigione di stato. E Charlotte Corday? e la nostra Marfa Posàdnica? e la principessa Daškóva? in che cosa io sono da meno di loro? Certo non per fierezza d'animo e decisione». Ascoltavo Polina sbalordita. Mai avevo sospettato in lei un simile ardore, una simile ambizione. Ahimè! A che cosa la condussero le straordinarie qualità dell'anima e una virile altezza di intelletto? La verità l'ha detta il mio scrittore preferito: Il n'est de bonheur que dans les voies communes.*

L'arrivo del sovrano accrebbe l'agitazione generale. L'esaltazione patriottica s'impossessò finalmente anche dell'alta società. I salotti

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si trasformarono in aule di dibattito. Si discuteva ovunque delle donazioni per la patria. Si ripeteva il discorso immortale del giovane conte Mamónov, che aveva rinunciato a tutti i suoi averi. Qualche mammina dopo questo fatto osservò che il conte non era più un partito tanto invidiabile, ma noi eravamo tutte entusiaste di lui. Polina delirava per lui. «Voi che cosa sacrificherete?», domandò una volta a mio fratello. «Io non sono ancora in possesso dei miei beni», rispose il mio bontempone. «Ho in tutto trentamila rubli di debito: sacrificherò quelli sull'altare della patria». Polina s'inquietò. «Per certa gente», disse, «onore, patria, sono tutte cose da nulla. I loro fratelli periscono sul campo di battaglia, e quelli fanno gli stupidi nei salotti. Non so se si troverebbe una donna spregevole al punto da permettere a simili buffoni di recitare l'amore davanti a lei». Mio fratello prese fuoco. «Voi siete troppo esigente, principessina», replicò. «Pretendete che tutti vedano in voi M.me de Staël e vi recitino delle tirate dalla Corinna. Sappiate che chi scherza con una donna può non scherzare di fronte alla patria e ai suoi nemici». Detto questo le voltò le spalle. Pensavo che avessero litigato per sempre, ma mi sbagliavo: a Polina piacque l'impertinenza di mio fratello, gli perdonò la battuta fuori posto per il nobile scatto d'indignazione e, saputo una settimana dopo che egli si era arruolato nel reggimento di Mamónov, mi pregò lei stessa di riconciliarli. Mio fratello fu entusiasta. Le offrì subito la sua mano. Lei acconsentì, ma rimandò le nozze alla fine della guerra. Il giorno dopo mio fratello partì per il fronte.

Napoleone avanzava su Mosca; i nostri si ritiravano; Mosca era in allarme. I suoi abitanti se ne allontanavano uno dopo l'altro. Il principe e la principessa convinsero mia madre a partire insieme per la loro campagna di ***.

Arrivammo a ***, un immenso villaggio a venti verste da un capoluogo di governatorato. Tutt'intorno avevamo una quantità di vicini, per la maggior parte provenienti da Mosca. Ogni giorno ci si riuniva tutti; la nostra vita di campagna somigliava a quella di

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città. Lettere dal fronte ne arrivavano quasi ogni giorno; le vecchiette cercavano sulla carta geografica la piccola località di Bivacco e s'inquietavano di non trovarla. Polina si occupava esclusivamente di politica, non leggeva niente oltre ai giornali e ai manifestini di Rastopèìn e non apriva neanche un libro. Circondata da persone le cui idee erano limitate, ascoltando di continuo giudizi assurdi e novità infondate, ella cadde in un profondo sconforto; l'afflizione le penetrò nell'anima. Disperava della salvezza della patria, le sembrava che la Russia si avvicinasse rapidamente al crollo, ogni bollettino accresceva la sua disperazione, i proclami polizieschi del conte Rastopèìn la esasperavano. Il loro stile scherzoso le sembrava il colmo dell'indecenza, e le misure da lui intraprese una barbarie insostenibile. Ella non riusciva a cogliere l'idea dell'epoca, così grandiosa nel suo orrore, idea la cui audace attuazione salvò la Russia e liberò l'Europa. Trascorreva ore intere coi gomiti appoggiati su una carta della Russia, calcolando le verste, seguendo i rapidi spostamenti delle truppe. Le venivano in mente strane idee. Una volta mi annunciò la sua intenzione di partire dalla campagna, di presentarsi all'accampamento francese, di arrivare fino a Napoleone e di ucciderlo con le proprie mani. Non mi fu difficile convincerla della follia di tale impresa. Ma il pensiero di Charlotte Corday l'assillò a lungo.

Suo padre, come già sapete, era un uomo piuttosto leggero; pensava solo a vivere in campagna nel modo più moscovita possibile. Dava pranzi, aveva messo su un théâtre de société, dove recitava proverbes francesi, e cercava in tutti i modi di rendere vari i nostri piaceri. Arrivarono in città alcuni ufficiali prigionieri. Il principe si rallegrò al pensiero di facce nuove e riuscì a ottenere dal governatore il permesso di ospitarli in casa sua...

Erano in quattro - tre individui piuttosto insignificanti, fanaticamente devoti a Napoleone, strilloni insopportabili che, a onor del vero, riscattavano la propria millanteria con onorevoli

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ferite, e un quarto degno di molta attenzione.

Aveva allora ventisei anni. Apparteneva a una buona famiglia. Il suo viso era gradevole. Le maniere ottime. Lo distinguemmo immediatamente. Accettava le cortesie con nobile discrezione. Parlava poco, ma i suoi discorsi avevano del fondamento. A Polina piacque perché fu il primo in grado di spiegarle con chiarezza le operazioni belliche e i movimenti delle truppe. Egli la tranquillizzò assicurandole che la ritirata delle truppe russe non era una fuga insensata e metteva tanto in agitazione i francesi, quanto incattiviva i russi. «Ma allora voi», gli chiese Polina, «non siete convinto dell'invincibilità del vostro imperatore?». Sénicourt (chiamerò anche lui con lo stesso nome che gli ha dato il signor Zagóskin) Sénicourt, dopo una pausa di silenzio, rispose che nella sua posizione la franchezza sarebbe stata imbarazzante. Polina chiese insistentemente una risposta. Sénicourt ammise che l'avanzata delle truppe francesi nel cuore della Russia poteva farsi pericolosa per loro, che la campagna del 1812 a quanto pare era conclusa, ma non presentava nulla di definitivo. «È finita!», obiettò Polina, «ma Napoleone continua ad avanzare, e noi continuiamo a indietreggiare!». «Tanto peggio per noi!», rispose Sénicourt, e cambiò argomento.

Polina, alla quale erano venute a noia sia le vili profezie che la stupida spavalderia dei nostri vicini, ascoltava avidamente giudizi fondati sulla conoscenza dei fatti e imparziali. Da mio fratello riceveva lettere nelle quali era impossibile raccapezzarsi. Erano piene di battute, intelligenti e sciocche, di domande su Polina, di banali promesse d'amore, e così via. Polina, leggendole, s'indispettiva e alzava le spalle. «Ammetti», diceva, «che il tuo Alekséj è un uomo proprio vuoto. Perfino nelle circostanze attuali, dai campi di battaglia, trova il modo di scrivere lettere del tutto insignificanti; quale conversazione mi riserverà dunque nel corso della placida vita familiare?». Si sbagliava. La fatuità delle lettere di mio fratello non derivava dalla sua inconsistenza, ma da un

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pregiudizio peraltro più offensivo per noi: riteneva che con le donne si dovesse usare un linguaggio adeguato alla fiacchezza delle loro idee, e che gli argomenti importanti non ci riguardassero. Un'opinione simile sarebbe dovunque scortese, ma da noi è anche stupida. Non c'è dubbio che le donne russe siano più colte, leggano di più, pensino più degli uomini, impegnati in Dio sa cosa.

Si sparse la notizia della battaglia di Borodinò. Tutti ne parlavano; ognuno aveva la notizia più sicura, ognuno aveva un elenco dei morti e dei feriti. Mio fratello non ci scriveva. Eravamo estremamente preoccupati. Infine uno di questi divulgatori di ogni sorta di notizie venne ad avvisarci che era stato fatto prigioniero, e intanto in un sussurro annunciò a Polina che era morto. Polina ne fu profondamente addolorata. Non era innamorata di mio fratello e si irritava spesso contro di lui, ma in quel momento vedeva in lui un martire, un eroe, e lo piangeva di nascosto da me. Diverse volte la sorpresi in lacrime. Questo non mi stupiva, sapevo come le stesse a cuore la sorte della nostra patria sofferente. Non sospettavo quale fosse l'altro motivo della sua afflizione.

Una mattina passeggiavo in giardino; Sénicourt mi camminava a fianco; si parlava di Polina. Mi accorsi che lui aveva profondamente intuito le doti straordinarie di lei, e che la sua bellezza gli aveva fatto una forte impressione. Ridendo gli feci notare che la sua situazione era assolutamente romanzesca. Prigioniero del nemico, un cavaliere ferito s'innamora della nobile padrona di un castello, tocca il suo cuore e riceve infine la sua mano. «No», mi disse Sénicourt, «la principessina vede in me un nemico della Russia e non accetterà mai di abbandonare la sua patria». In quel momento Polina apparve in fondo al viale, e noi le andammo incontro. Si avvicinava a passi veloci. Il suo pallore mi colpì.

«Mosca è stata presa», mi disse, senza rispondere all'inchino di Sénicourt; mi si strinse il cuore, le lacrime scivolarono a rivoli.

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Sénicourt taceva, tenendo gli occhi a terra. «I nobili, illuminati francesi», ella proseguì con voce tremante d'indignazione, «hanno festeggiato degnamente il loro trionfo. Hanno incendiato Mosca. Mosca sta bruciando ormai da due giorni». «Che cosa dite», gridò Sénicourt, «non può essere». «Aspettate che faccia notte», rispose lei seccamente, «magari ne vedrete il bagliore». «Dio mio! Egli è perduto», disse Sénicourt; «come, forse non vedete che l'incendio di Mosca è la rovina di tutto l'esercito francese, che Napoleone non avrà più luogo e mezzo con cui resistere, che sarà costretto a ritirarsi al più presto attraverso il paese devastato, deserto, con l'avanzare dell'inverno e con un esercito smembrato e scontento! E voi avete potuto pensare che i francesi si siano scavati la fossa con le loro mani! no, no, i russi, i russi hanno incendiato Mosca. Orribile, barbara grandezza! Ormai tutto è concluso: la vostra patria è scampata al pericolo; ma che cosa ne sarà di noi, che cosa ne sarà del nostro imperatore...».

Ci lasciò. Polina ed io non riuscivamo a riprenderci. «È mai possibile», disse, «che Sénicourt abbia ragione e che l'incendio di Mosca sia opera delle nostre mani? Se è così... Oh, posso andar fiera del nome di russa! L'universo sarà sbalordito da un sacrificio così grande! Adesso neanche la nostra sconfitta mi spaventa, il nostro onore è salvo; mai più l'Europa oserà combattere contro un popolo che si tronca da sé le mani e brucia la propria capitale».

I suoi occhi brillavano, e la voce squillava. La abbracciai, confondemmo lacrime di nobile entusiasmo e fervide preghiere per la nostra patria. «Lo sai?», mi disse Polina con aria ispirata; «tuo fratello... è felice, non è prigioniero, gioisci: è stato ucciso per la salvezza della Russia».

Lanciai un grido e caddi priva di sensi nelle sue braccia...

DUBRÓVSKIJ

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PARTE PRIMA

I

Alcuni anni fa in una sua tenuta di campagna viveva un signore russo di antica famiglia, Kirìla Petróviè Troekùrov. La ricchezza, il casato illustre e le relazioni gli davano grande autorevolezza nei governatorati in cui si trovava la sua proprietà. I vicini soddisfacevano volentieri ogni suo minimo capriccio; i funzionari del governatorato tremavano al suo nome; Kirìla Petróviè accettava tutti i segni di deferenza come un tributo che gli fosse dovuto; la sua casa era sempre piena di ospiti, pronti ad allietare il suo ozio signorile, prendendo parte ai suoi divertimenti chiassosi, e a volte anche turbolenti. Nessuno osava rifiutare il suo invito o non presentarsi in certi giorni col debito rispetto nel villaggio di Pokróvskoe. Nella vita domestica Kirìla Petróviè palesava tutte le dissolutezze dell'uomo ignorante. Viziato da tutti quanti lo circondavano, era abituato a dar libero sfogo a tutti gli impulsi del suo carattere focoso e a tutte le fantasie di una mente piuttosto limitata. Nonostante la forza straordinaria delle sue capacità fisiche, un paio di volte alla settimana soffriva d'indigestione e ogni sera era ubriaco. In un'ala della casa vivevano sedici serve, occupate nei lavori manuali adatti al loro sesso. Le finestre in quell'ala erano sbarrate da una grata di legno; le porte venivano chiuse con lucchetti, le cui chiavi erano custodite da Kirìla Petróviè in persona. Le giovani recluse a ore stabilite andavano in giardino a passeggiare sotto la sorveglianza di due vecchie. Di tanto in tanto Kirìla Petróviè maritava qualcuna di loro, e al loro posto ne entravano altre. Con i contadini e i servi era severo e capriccioso, ma questi si gloriavano della ricchezza e della notorietà del padrone, e a loro volta si prendevano molta libertà coi vicini, fidando nel suo potente appoggio.

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Le occupazioni abituali di Troekùrov consistevano in escursioni per i suoi vasti possedimenti, in lunghi conviti e nei tiri, quasi ogni giorno architettati, che prendevano di mira di solito un nuovo conoscente, ma ai quali non sempre riuscivano a sfuggire nemmeno i vecchi amici, eccezione fatta per Andréj Gavrìloviè Dubróvskij. Questo Dubróvskij, luogotenente della guardia a riposo, era suo confinante, e proprietario di settanta anime. Troekùrov, superbo con quelli di rango più elevato, rispettava Dubróvskij, nonostante il suo modesto patrimonio. Un tempo avevano prestato insieme il servizio militare, e Troekùrov conosceva per esperienza l'intransigenza e la risolutezza del suo carattere. Le circostanze li separarono per un pezzo. Dubróvskij, con il patrimonio rovinato, fu costretto a dare le dimissioni e a stabilirsi nel suo ultimo villaggio. Kirìla Petróviè, saputo ciò, gli aveva offerto la sua protezione, ma Dubróvskij l'aveva ringraziato ed era rimasto povero e indipendente. Qualche anno dopo Troekùrov, generale a riposo, era venuto a stare nella sua proprietà e si erano rivisti con reciproco piacere. Da allora stavano insieme ogni giorno, e Kirìla Petróviè, che in vita sua non aveva mai degnato nessuno di una visita, veniva senza complimenti nella casetta del vecchio compagno. Essendo coetanei, appartenenti per nascita alla stessa classe sociale, educati allo stesso modo, essi un poco si assomigliavano sia nel carattere che nelle inclinazioni. Per alcuni aspetti anche la loro sorte era stata simile: entrambi si erano sposati per amore, entrambi erano rimasti presto vedovi, a entrambi era rimasto un solo figlio. Il figlio di Dubróvskij veniva educato a Pietroburgo, la figlia di Kirìla Petróviè cresceva sotto gli occhi del padre, e Troekùrov diceva spesso a Dubróvskij: «Senti, Andréi Gavrìloviè, vecchio mio: se al tuo Volód'ka tornerà buono, io gli darò Maša in moglie, anche se sarà nudo come un falco». Andréj Gavrìloviè scuoteva la testa e abitualmente rispondeva: «No, Kirìla Petróviè: il mio Volód'ka non è un fidanzato per Mar'ja Kirìlovna. Un nobile povero come lui è meglio che si sposi una nobiluccia povera, e che sia il capo in casa, piuttosto che

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diventare l'amministratore di una donnina viziata».

Tutti erano invidiosi dell'accordo che regnava fra l'altezzoso Troekùrov e il suo vicino povero, e si meravigliavano dell'ardire di quest'ultimo, quando alla tavola di Kirìla Petróviè esprimeva apertamente la sua opinione, senza preoccuparsi di contraddire quella del padrone di casa. Alcuni tentarono di imitarlo e di uscire dai limiti del dovuto rispetto, ma Kirìla Petróviè li spaventò al punto da far loro passare per sempre la voglia di simili tentativi, e Dubróvskij rimase il solo escluso dalla norma comune. Un caso inaspettato sconvolse e cambiò tutto.

Un giorno, ai primi d'autunno, Kirìla Petróviè si apprestava ad andare a caccia in un campo fuori mano. Il giorno prima era stato dato l'ordine ai bracchieri e agli staffieri di tenersi pronti per le cinque di mattina. Tenda e cucina erano state mandate avanti, nel luogo in cui Kirìla Petróviè doveva pranzare. Il padrone di casa e gli ospiti raggiunsero il canile, dove più di cinquecento bracchi e levrieri vivevano nell'opulenza e al calduccio, innalzando in lingua canina lodi alla generosità di Kirìla Petróviè. Nello stesso luogo c'era anche un ospedale per cani malati, sorvegliato dal primario Timóška, e un reparto dove le cagne di razza partorivano e allattavano i cuccioli. Kirìla Petróviè era fiero di questa magnifica istituzione e non perdeva occasione di vantarsene di fronte ai suoi ospiti, ciascuno dei quali l'aveva visitata almeno venti volte. Girava per il canile, circondato dai suoi ospiti e accompagnato da Timóška e dai capi bracchieri; si fermava davanti a una o all'altra cuccia, ora informandosi della salute dei malati, ora facendo osservazioni più o meno severe e giuste, ora chiamando i cani che conosceva e rivolgendosi a loro affettuosamente. Gli ospiti si sentivano in dovere di andare in visibilio per il canile di Kirìla Petróviè. Il solo Dubróvskij se ne stava silenzioso e aggrondato. Era un appassionato cacciatore, ma le sue sostanze gli consentivano di tenere solo due bracchi e una coppia di levrieri, e non poteva vincere una certa invidia alla vista di quella magnifica

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istituzione. «Perché ti rabbui, amico?», gli chiese Kirìla Petróviè, «o forse il mio canile non ti piace?». «No», rispose rudemente Dubróvskij, «il canile è meraviglioso; dubito però che i vostri servi abbiano una vita simile a quella dei vostri cani». Uno dei bracchieri si offese. «Noi della nostra vita», disse, «grazie a Dio e al padrone non ci lamentiamo, ma quello che è vero è vero, anche qualche nobile non farebbe male a cambiare la sua casa con una qualunque di queste cucce. Sarebbe più sazio e starebbe più al caldo». Kirìla Petróviè rise forte all'impertinente osservazione del suo servo, e gli ospiti scoppiarono a ridere con lui, pur intuendo che la battuta del bracchiere poteva appuntarsi anche a loro. Dubróvskij impallidì e non disse una parola. In quel momento a Kirìla Petróviè furono portati in un canestro di tiglio dei cuccioli appena nati; egli s'interessò di loro, ne scelse due, e ordinò di affogare gli altri. Nel frattempo Andréj Gavrìloviè era sparito e nessuno se ne accorse.

Tornato con gli ospiti dal canile, Kirìla Petróviè si sedette a cena e solo allora notò l'assenza di Dubróvskij. I servi risposero che Andréj Gavrìloviè era andato a casa. Troekùrov ordinò di raggiungerlo immediatamente e di farlo tornare indietro a qualunque costo. Non era mai andato a caccia in vita sua senza Dubróvskij, esperto e fine intenditore delle qualità dei cani e arbitro infallibile di qualsiasi discussione venatoria. Il servo, corso al galoppo a cercarlo, tornò indietro che tutti erano ancora a tavola, e riferì al suo signore che Andréj Gavrìloviè non gli aveva dato retta e non era voluto tornare. Kirìla Petróviè, come suo solito eccitato dai liquori, s'inquietò e mandò per la seconda volta lo stesso servo a dire ad Andréj Gavrìloviè che se non fosse venuto subito a passare la notte a Pokróvskoe, lui, Troekùrov avrebbe rotto per sempre l'amicizia con lui. Il servo ripartì al galoppo; Kirìla Petróviè, dopo essersi alzato da tavola, congedò gli ospiti e andò a dormire.

Il giorno dopo, la sua prima domanda fu: è qui Andréj Gavrìloviè?

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Invece della risposta gli fu consegnata una lettera, piegata a triangolo; Kirìla Petróviè ordinò al suo scrivano di leggerla ad alta voce e sentì quanto segue:

Mio benevolissimo signore,

Non ho intenzione di tornare a Pokróvskoe fino a che non mi avrete mandato il bracchiere Paramóška a chiedere perdono della sua colpa; e dipenderà dal mio volere punirlo o fargli grazia, ma io non intendo sopportare scherzi dai vostri servi, e non li sopporterò neppure da Voi, perché non sono un buffone, ma un signore d'antica nobiltà. Con questo resto umilmente ai vostri ordini

Andréj Dubróvskij

Stando alle concezioni odierne dell'etichetta questa lettera sarebbe assai sconveniente, eppure essa irritò Kirìla Petróviè non per lo strano stile e l'esposizione, ma solo nella sostanza: «Come!», tuonò Troekùrov, saltando scalzo giù dal letto, «mandargli i miei servi che confessino la loro colpa, lui è libero di graziarli o di punirli! Ma che gli è venuto in mente? Lo sa con chi ha a che fare? Ma io lo... Gliela farò vedere io, saprà che cosa vuol dire mettersi contro Troekùrov!».

Kirìla Petróviè si vestì e andò a caccia col suo solito sfarzo, ma la caccia non riuscì bene. In tutta la giornata videro una sola lepre e anche quella se la lasciarono scappare. Nemmeno il pranzo in campagna sotto la tenda riuscì, o almeno non risultò gradito a Kirìla Petróviè, che picchiò il cuoco, insultò gli ospiti e sulla strada del ritorno con tutta la sua brigata di caccia passò apposta attraverso i campi di Dubróvskij.

Passarono alcuni giorni, e l'inimicizia fra i due vicini non si placava. Andréj Gavrìloviè non era più tornato a Pokróvskoe, Kirìla Petróviè senza di lui si annoiava, e il suo dispetto si sfogava ad alta voce nelle espressioni più offensive, che, grazie allo zelo dei nobili del posto, arrivavano a Dubróvskij rivedute e ampliate. Una nuova circostanza distrusse anche l'ultima speranza di

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riconciliazione.

Dubróvskij un giorno stava facendo il giro della sua piccola tenuta quando, avvicinandosi a un boschetto di betulle, sentì dei colpi d'ascia e, un momento dopo, lo schianto di un albero che crollava. S'affrettò ad entrare nel boschetto e s'imbatté in alcuni contadini di Pokróvskoe, che stavano tranquillamente rubando il suo legname. Quando lo videro scapparono precipitosamente. Dubróvskij col cocchiere ne acchiappò due e li condusse legati nel suo cortile. Intanto tre cavalli dell'avversario rimasero al vincitore. Dubróvskij era particolarmente irritato: prima di allora gli uomini di Troekùrov, noti briganti, non avevano mai osato rapinare entro i confini dei suoi possedimenti, conoscendo l'amicizia che lo legava al loro padrone. Dubróvskij vide che adesso approfittavano della rottura tra lui e il vicino, e decise, contrariamente a tutte le idee sul diritto di guerra, di dare una lezione ai suoi prigionieri con le verghe, di cui avevano fatto provvista nel suo boschetto, e di adibire i cavalli al lavoro, aggiungendoli al bestiame della proprietà.

La notizia di tale avvenimento arrivò lo stesso giorno a Kirìla Petróviè. Egli andò su tutte le furie e nel primo impeto d'ira avrebbe voluto assalire con tutta la sua servitù Kistenëvka (così si chiamava il villaggio del suo vicino), abbatterla e assediare lo stesso proprietario nella sua casa. Simili prodezze per lui non erano una novità. Ma i suoi pensieri presero presto un altro indirizzo.

Andando a passi pesanti avanti e indietro per la sala, si affacciò per caso alla finestra, e vide una trojka ferma al cancello; un uomo piccolo con un berretto di cuoio e un cappotto di lana ruvida uscì dal carro e si diresse nell'ala dell'amministratore; Troekùrov riconobbe l'assessore Šabàškin e lo fece chiamare. Un minuto dopo Šabàškin stava già davanti a Kirìla Petróviè, profondendosi in inchini e aspettando con devozione i suoi comandi.

«Salute, come diavolo ti chiami», gli disse Troekùrov, «perché sei

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qui?».

«Andavo in città, vostra eccellenza», rispose Šabàškin, «e sono passato da Ivàn Dem'jànov a sentire se non ci fosse qualche ordine da parte di vostra eccellenza».

«Sei passato molto a proposito, come diavolo ti chiami; ho bisogno di te. Beviti un po' di vodka e sta' a sentire».

Un'accoglienza così affettuosa sorprese piacevolmente l'assessore. Egli rifiutò la vodka e si mise ad ascoltare Kirìla Petróviè con tutta l'attenzione possibile.

«Ho un vicino», disse Troekùrov, «un piccolo proprietario villanzone; voglio prendergli la tenuta. Che cosa ne pensi?».

«Vostra eccellenza, se ci sono documenti, altrimenti...».

«Storie, caro mio, altro che documenti! I decreti ci sono per questo. La forza sta appunto in questo, nel togliere di mano una proprietà senza nessun diritto. Però aspetta. Quella proprietà una volta apparteneva a noi, fu acquistata da un certo Spìcyn e venduta poi al padre di Dubróvskij. Non ci si potrebbe appigliare a questo fatto?».

«È difficile, vostra eccellenza; probabilmente tale vendita fu effettuata legalmente».

«Pensaci un po', amico mio, cerca per benino».

«Se, per esempio, vostra eccellenza potesse procurarsi dal suo vicino in qualche modo l'atto o il contratto, in forza del quale è in possesso della sua proprietà, allora certo...».

«Capisco, ma questo è il guaio, gli sono bruciate tutte le carte durante un incendio».

«Come, vostra eccellenza, si sono incendiate le carte! Che volete di meglio? In questo caso vogliate agire secondo le leggi, e senza alcun dubbio otterrete la vostra piena soddisfazione».

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«Credi? Mah, vedi un po' tu. Mi affido alla tua sollecitudine, e della mia riconoscenza puoi essere certo».

Šabàškin s'inchinò fin quasi a terra, uscì e da quel giorno cominciò a darsi da fare per la progettata impresa, e, grazie alla sua destrezza, esattamente due settimane dopo Dubróvskij ricevette dalla città l'invito a far pervenire immediatamente le dovute spiegazioni in merito alla proprietà del piccolo villaggio di Kistenëvka.

Andréj Gavrìloviè, sbalordito dalla richiesta inattesa, lo stesso giorno scrisse in risposta un rapporto piuttosto approssimativo, nel quale dichiarava che il paesino di Kistenëvka gli era toccato alla morte del suo defunto genitore, che lui ne era in possesso per diritto ereditario, che Troekùrov con questo non aveva niente a che fare e che qualsiasi pretesa estranea su quella sua proprietà sarebbe stata una calunnia e una truffa.

Questa lettera riuscì assai gradita all'animo dell'assessore Šabàškin. Egli si accorse in primo luogo che Dubróvskij s'intendeva poco di cause, e in secondo luogo che non sarebbe stato difficile mettere nella posizione più svantaggiosa un uomo così impulsivo e avventato. Andréj Gavrìloviè, esaminate a sangue freddo le richieste dell'assessore, vide la necessità di rispondere in modo più circostanziato. Scrisse un documento abbastanza sensato, che in seguito si rivelò però insufficiente.

La cosa cominciò ad andare per le lunghe. Sicuro di essere nel giusto, Andréj Gavrìloviè se ne curava poco, non aveva né la voglia né la possibilità di sciupare soldi di qua e di là, e sebbene fosse sempre il primo a scherzare sulla coscienza venduta della razza dei pennaioli, il pensiero di cadere vittima di una diffamazione non gli veniva neppure in mente. Da parte sua, Troekùrov si preoccupava altrettanto poco di vincere la causa da lui intentata. Šabàškin si dava da fare per lui, agendo a suo nome, intimidendo e corrompendo i giudici e interpretando per diritto o

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per storto tutti i decreti possibili.

Comunque sia, il 9 febbraio del 18**, Dubróvskij ricevette per mezzo della polizia della città l'invito a presentarsi dal giudice *** per ascoltare la risoluzione del medesimo in merito alla proprietà contesa fra lui, luogotenente Dubróvskij, e il generale in capo Troekùrov, e per la firma della sua accettazione o meno. Quel giorno stesso Dubróvskij andò in città; lungo la strada fu superato da Troekùrov. Si guardarono l'un l'altro con superbia, e Dubróvskij notò un sorriso di perfidia sul viso dell'avversario.

II

Arrivato in città, Andréj Gavrìloviè si fermò da un mercante che conosceva, passò la notte da lui e l'indomani mattina si presentò alla sede del tribunale distrettuale. Nessuno gli prestò attenzione. Dopo di lui arrivò anche Kirìla Petróviè. Gli scrivani si alzarono e si misero la penna dietro l'orecchio. Gli impiegati lo accolsero con manifestazioni di profondo ossequio, gli avvicinarono una poltrona per deferenza al suo grado, agli anni e alla corpulenza; egli si sedette a porte aperte. Andréj Gavrìloviè, in piedi, si appoggiò al muro. Scese un profondo silenzio, e il segretario con voce altisonante cominciò a leggere la sentenza del tribunale. Noi la riportiamo integralmente, ritenendo che a chiunque farà piacere conoscere uno dei mezzi con cui in Russia possiamo essere privati di una proprietà, al cui possesso abbiamo diritto incontestabile.

Nell'anno 18** il 27 ottobre il tribunale distrettuale di *** ha preso in esame la causa dell'illegittimo possesso da parte del luogotenente della guardia Andrej, figlio di Gavrìla Dubróvskij, della proprietà appartenente al generale in capo Kirìla, figlio di Pëtr Troekùrov, che comprende il governatorato di ***, nel villaggio di Kistenëvka, costituito da *** anime di sesso maschile, terre coltivabili con prati e annessi non coltivabili di *** desjatìne. Dalla quale causa risulta che il summenzionato generale in capo

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Troekùrov il 9 giugno dello scorso anno 18** si è presentato a questo tribunale con l'istanza che il suo defunto padre, assessore collegiale e cavaliere Pëtr Troekùrov, figlio di Efìm, il 14 agosto del 17**, allora in servizio nella direzione amministrativa come segretario provinciale, acquistò dal nobile cancelliere Fadéj figlio di Egòr Spìcyn una proprietà, di *** nel summenzionato villaggio di Kistenëvka (località che allora, secondo la revisione ***, si chiamava casolari di Kistenëvka), comprendente in tutto, secondo la 4a revisione, *** anime di sesso maschile con tutte le loro proprietà agricole, la fattoria, terra arabile e non arabile, boschi, prati a fieno, impianti per la pesca sul fiumicello, che si chiama Kistenëvka, e con tutti gli accessori appartenenti ad essa proprietà e con la casa padronale di legno, in una parola tutto senza rimanenza, che lui dopo suo padre, nobile sottufficiale Egòr Spìcyn, figlio di Teréntij, ricevette in eredità ed ebbe in suo possesso, senza eccettuare una sola anima della popolazione, né un solo cetverìk di terra, al prezzo di 2500 rubli, per la qual cosa anche il contratto d'acquisto fu stipulato lo stesso giorno nel tribunale di *** e suo padre il giorno 26 dello stesso mese di agosto dal tribunale locale fu immesso in possesso, e la proprietà intestata a suo nome.

Quando infine il 6 settembre 17** suo padre per volontà di Dio morì, il richiedente generale in capo Troekùrov si trovava da quand'era piccolo in servizio presso l'esercito e aveva passato la maggior parte del tempo in campagne di guerra all'estero, per cui non poté aver notizia né della morte del padre, né del patrimonio da lui lasciato. Ora, dopo aver abbandonato definitivamente il servizio dando le dimissioni, e tornato nella tenuta di suo padre, comprendente i governatorati di *** e ***, i distretti di *** e ***, in località varie, per un totale di tremila anime, trova che del numero di tali proprietà, delle sopra elencate *** anime (che secondo l'attuale revisione *** ammontano in questo villaggio a *** anime), con la terra e tutte le appartenenze è in possesso senza alcun conferimento legale il luogotenente della guardia

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sunnominato Andréj Dubróvskij, ragion per cui, presentando insieme a questa istanza l'autentico atto di compravendita, dato a suo padre dal venditore Spìcyn, chiede che la suddetta proprietà sia tolta al possesso illegittimo di Dubróvskij e restituita come di dovere a lui, Troekùrov, in piena disposizione.

E in rivalsa dell'appropriazione indebita, a seguito della quale ha goduto l'usufrutto del possesso, chiede che, fattane l'adeguata stima, ne sia imposto al suddetto Dubróvskij il conseguente pagamento da corrispondere a lui, Troekùrov, a titolo di indennizzo.

Dall'indagine svolta dal tribunale locale di *** a seguito di tale istanza è risultato che: l'attuale proprietario già menzionato della tenuta in contestazione, luogotenente della guardia Dubróvskij, ha fornito sul luogo all'assessore della nobiltà una spiegazione scritta secondo la quale la proprietà attualmente in suo possesso, che consiste nel nominato villaggio di Kistenëvka, in *** anime con terra e annessi, gli è toccata in eredità a seguito della morte di suo padre, sottotenente di artiglieria Gavrìla figlio di Evgràf Dubróvskij, che l'aveva acquistata dal padre dell'istante, già segretario provinciale, e poi assessore di collegio Troekùrov, come attestato dalla procura data da lui il 30 agosto del 17**, testimoniata nel tribunale distrettuale di *** dal consigliere titolare Grigórij figlio di Vasìlij Sóbolev, alla quale procura doveva corrispondere l'atto di compravendita di tale proprietà da parte di Troekùrov a suo padre, perché in esso è appunto detto che egli, Troekùrov, aveva venduto la proprietà acquistata con compravendita dal cancelliere Spìcyn (di *** anime e relativo terreno) al padre di Dubróvskij, dal quale aveva ricevuto la somma di 3200 rubli, fissata nel contratto, per intero e definitivamente e pregava il fiduciario Sóbolev di dare al di lui padre l'atto corrispettivo. E intanto al padre di lui nella stessa procura per quanto riguardava il pagamento di tutta la somma era dato di possedere la tenuta comprata e di disporne fino al perfezionamento

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di tale titolo di proprietà, in qualità di effettivo proprietario, e sia a lui Troekùrov che la vendeva, sia a chiunque altro era tolto ogni diritto sulla tenuta stessa. Ma quando esattamente, e presso quale ufficio pubblico questo atto di compravendita fosse stato dato a suo padre dal fiduciario Sóbolev, questo Andréj Dubróvskij non lo sapeva; a quel tempo, infatti, era ancora in tenerissima età, e dopo la morte di suo padre non riuscì a trovare questo documento.

Suppone, però, che probabilmente era bruciato con le altre carte e gli altri beni al tempo dell'incendio della loro casa nel 17**, fatto risaputo anche dagli abitanti del villaggio. Ma del fatto che di questa tenuta, dal giorno della vendita da parte di Troekùrov o della consegna della procura a Sóbolev, cioè dal 17**, e dopo la morte del padre dal 17** fino ai nostri giorni, abbiano disposto incontestabilmente loro, i Dubróvskij, di questo testimoniano gli abitanti dei dintorni, cinquantadue persone in tutto, i quali, interrogati sotto giuramento, hanno deposto che effettivamente, per quello che possono ricordare, della detta discussa proprietà cominciarono a disporre i summenzionati Dubróvskij ormai settant'anni orsono senza alcuna contestazione, ma per quale documento o titolo a loro non è noto. Essi non ricordano se il summenzionato acquirente di tale proprietà, l'ex segretario provinciale Pëtr Troekùrov, fosse in possesso della stessa. La casa dei Dubróvskij trent'anni fa bruciò a causa dell'incendio avvenuto di notte nel loro villaggio e persone estranee hanno supposto che la detta proprietà in questione possa dare, facendo una media da quell'epoca a ora, un'entrata annuale di non meno di duemila rubli.

In opposizione a questo il generale in capo Kirìla Troekùrov figlio di Pëtr il 3 gennaio di quest'anno ha esibito a questo tribunale un'istanza, secondo la quale, è vero che il suindicato luogotenente della guardia Andréj Dubróvskij aveva presentato nell'istruttoria di questo processo la procura, affidata dal suo defunto padre Gavrìla Dubróvskij al consigliere titolare Sóbolev, circa la vendita della sua tenuta; però non solo non aveva presentato l'autentico atto di

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compravendita, ma neppure le chiare prove che ne fosse mai avvenuto il perfezionamento, come prescritto dal regolamento generale, paragrafo 19 del decreto del 29 novembre 1752. Di conseguenza la procura stessa, in seguito alla morte del suo autore, suo padre, secondo il decreto del ** maggio 1818, viene completamente annullata. E inoltre è stabilito che i beni in contestazione vengano dati in proprietà in base agli atti di compravendita, e in mancanza dei titoli di proprietà vengano assegnati dopo aver esperito adeguate indagini.

Per la detta tenuta appartenente a suo padre è stato già esibito da lui come prova l'atto di compravendita, per il quale consegue, sulla base delle ricordate disposizioni, che l'illegale possesso debba essere tolto al summenzionato Dubróvskij, e restituito a Troekùrov per diritto di eredità. E poiché i detti proprietari, avendo in possesso beni non appartenenti a loro, e senza nessun titolo, hanno usufruito illegalmente anche delle rendite che non spettavano loro, dopo il calcolo del loro ammontare si chiede che dette rendite debbano essere sequestrate al proprietario Dubróvskij e corrisposte a titolo di risarcimento a lui, Troekùrov. Dopo aver esaminato la causa, gli estratti relativi e le leggi il tribunale distrettuale di *** ha stabilito:

Poiché dalla causa risulta che il generale in capo Kirìla Troekùrov figlio di Pëtr, per quanto riguarda la detta proprietà in contestazione, che si trova attualmente in possesso del tenente della guardia Andréj Dubróvskij figlio di Gavrìla, comprendente il villaggio di Kistenëvka, secondo l'attuale revisione di tutte le *** anime di sesso maschile, con la terra e annessi, ha presentato l'autentico atto di vendita di questa proprietà al suo defunto padre, che era allora segretario provinciale, e poi assessore di collegio, nel 17** da parte del cancelliere della nobiltà Fadéj Spìcyn, e che inoltre il detto acquirente, Troekùrov, come risulta dall'annotazione fatta sull'atto di compravendita, fu nello stesso anno 18** immesso dal tribunale locale nel possesso della

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proprietà che era stata già intestata a lui, e sebbene, in opposizione a questo da parte del luogotenente della guardia Andréj Dubróvskij sia stata presentata la procura data dal defunto compratore Troekùrov al consigliere titolare Sóbolev per il perfezionamento dell'atto a nome del padre di lui, Dubróvskij, poiché, per tali transazioni, non solo è proibito secondo il decreto... assegnare beni immobili, ma anche entrarne in temporaneo possesso, la stessa procura per la morte del mandante perde qualsiasi valore. Inoltre non è stata presentata, da parte di Dubróvskij, in tutto il corso del procedimento, cioè dall'anno 18** fino a questo momento, nessuna chiara prova di dove e quando sia stato concluso, in conseguenza di tale procura, per detta tenuta in contestazione, l'atto di compravendita. E perciò questo tribunale decide di assegnare detta proprietà di *** anime, con la terra e annessi, nello stato attuale in cui si trova, secondo l'atto di compravendita esibito, al generale in capo Troekùrov; di toglierne la disponibilità al luogotenente della guardia Dubróvskij, e di incaricare il tribunale locale di *** della dovuta immissione nel possesso del detto Troekùrov, nonché dell'intestazione a suo nome, come bene a lui pervenuto per via ereditaria. E, inoltre, il generale in capo Troekùrov chiede un risarcimento da parte del luogotenente della guardia Dubróvskij per le rendite di cui ha usufruito in base all'illegittimo possesso della sua tenuta ereditaria. Ma poiché essa proprietà, per testimonianza di persone vissute sul posto, fu per alcuni anni in possesso incontestato dei Dubróvskij, e dalla causa non risulta che da parte del signor Troekùrov vi siano state denunce su questo possesso illegittimo da parte dei Dubróvskij, come contemplato dal codice ... viene ordinato che se qualcuno semina la terra altrui o recinta la casa, e contro questo illegittimo possesso viene sporta denuncia, e si sarà appurata la verità della cosa, a chi ne ha il diritto venga restituita la terra anche col grano seminato, la recinzione, e le costruzioni, per cui al generale in capo Troekùrov viene rifiutata la richiesta presentata contro il luogotenente della guardia Dubróvskij, poiché la

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proprietà di sua appartenenza torna in suo possesso, senza esclusione della minima parte. E se entrandone in possesso il generale Troekùrov avrà in questa sua pretesa prove chiare e legittime, potrà rivolgersi all'autorità competente. La presente sentenza sia comunicata tanto all'istante che al convenuto, in base alla legge del diritto di appello, e i suddetti vengano convocati in questo tribunale, tramite la polizia, per ascoltare la sentenza e firmare l'accettazione o meno di questa.

La sentenza è stata firmata da tutti i membri presenti del tribunale.

Il segretario tacque, l'assessore si alzò e con un profondo inchino si rivolse a Troekùrov, invitandolo a firmare il documento, e Troekùrov, trionfante, presa la penna dalle sue mani, sottoscrisse in calce alla sentenza del tribunale la sua completa accettazione. Venne il turno di Dubróvskij. Il segretario gli tese il documento. Ma Dubróvskij restava immobile, a capo chino.

Il segretario gli ripeté l'invito a firmare la sua piena e completa accettazione oppure una dichiarata non accettazione se, contro ogni aspettativa, sentisse in coscienza che la sua causa era quella giusta, ed avesse l'intenzione di ricorrere in appello a chi di dovere entro il periodo prescritto dalla legge. Dubróvskij stava zitto... All'improvviso sollevò la testa, gli lampeggiarono gli occhi, batté un piede in terra, diede una spinta al segretario con una tale forza che questi cadde, e, afferrato il calamaio, lo scagliò contro l'assessore. Furono tutti terrorizzati. «Come! Non rispettare il tempio di Dio! Via, razza di villani!». Poi, rivolgendosi a Kirìla Petróviè: «Si è mai sentito, vostra eccellenza», proseguì, «che i guardiani di cani facciano entrare le loro bestie nella chiesa di Dio! I cani corrono per la chiesa! Ve la darò io una lezione...». Gli uscieri accorsero al rumore e lo agguantarono a fatica. Lo condussero fuori e lo fecero sedere nella slitta. Troekùrov uscì dietro di lui, accompagnato da tutta la corte. L'improvvisa follia di Dubróvskij aveva fortemente colpito la sua immaginazione e avvelenato il suo trionfo.

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I giudici, che avevano sperato nella sua riconoscenza, non furono degnati da lui neppure di una parola gentile. Egli partì il giorno stesso per Pokróvskoe. Dubróvskij, intanto, era a letto; il medico distrettuale, per fortuna non del tutto ignorante, aveva fatto in tempo a fargli un salasso, ad applicargli sanguisughe e cantaridi. Verso sera il malato si sentì meglio, riacquistò coscienza. Il giorno dopo fu condotto a Kistenëvka, che quasi non gli apparteneva più.

III

Passò qualche tempo, e la salute del povero Dubróvskij continuava ad andare male. Gli accessi di follia, per la verità, non si ripetevano più, ma le forze gli venivano meno a vista d'occhio. Tralasciava le occupazioni di un tempo, usciva raramente dalla sua stanza e restava giornate intere sovrappensiero. La Egórovna, una buona vecchia che un tempo si era presa cura di suo figlio, adesso era diventata la sua bambinaia. Gli stava appresso come a un bambino, gli ricordava l'ora di mangiare e di dormire, lo imboccava, lo metteva a letto. Andréj Gavrìloviè le obbediva in silenzio, e a parte lei non aveva rapporti con nessuno. Non era in condizioni di pensare ai propri affari né all'assetto aziendale e Egórovna giudicò indispensabile avvertire di tutto questo il giovane Dubróvskij, che prestava servizio in uno dei reggimenti di fanteria della Guardia, e che si trovava a quei tempi a Pietroburgo. E così, strappato un foglio dal libro della spesa, dettò al cuoco Charitón, l'unico che sapesse leggere e scrivere a Kistenëvka, una lettera, che quello stesso giorno mandò alla posta in città. Ma è ora di presentare al lettore il vero eroe del nostro racconto.

Vladìmir Dubróvskij aveva ricevuto la sua educazione nel corpo dei cadetti e ne era uscito sottotenente della guardia; il padre non lesinava nulla per mantenerlo in modo dignitoso, e il giovane riceveva da casa più di quanto potesse aspettarsi. Dissipatore e ambizioso, si concedeva capricci costosi, giocava a carte e faceva

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debiti, senza preoccuparsi dell'avvenire e prevedendo per sé presto o tardi una fidanzata ricca, sogno di una giovinezza povera.

Una sera, mentre si trovavano da lui alcuni ufficiali, sdraiati sui divani a fumare le sue pipe d'ambra, Griša, il cameriere, gli porse una lettera, la cui intestazione e il sigillo colpirono immediatamente il giovane. Egli ruppe in fretta i sigilli e lesse quanto segue:

Signore nostro, Vladìmir Andréeviè, - io, la tua vecchia bambinaia, mi sono decisa a informarti della salute del babbo. Sta molto male, a volte parla a vanvera, e se ne sta seduto tutto il giorno come un bambino scemo, e la vita e la morte sono nelle mani di Dio. Vieni da noi, falchetto mio chiaro, ti manderemo i cavalli a Pesóènoe. Si dice che il tribunale provinciale sta venendo da noi per metterci alle dipendenze di Kirìla Petróviè Troekùrov, perché noi saremmo suoi, e invece siamo vostri da che mondo è mondo, e in vita nostra non abbiamo mai sentito una cosa simile. Tu che abiti a Pietroburgo, potresti riferirlo allo zar-bàtjuška, e lui non permetterebbe che ci si faccia torto. Resto la tua fedele schiava, njanja

Arìna Egórovna Buzýreva

Mando la mia benedizione materna a Griša, ti serve bene? Da noi sono già due settimane che piove, e Rodja il pastore è morto intorno al giorno di San Nicola.

Vladìmir Dubróvskij rilesse varie volte di seguito queste righe piuttosto sconclusionate con incredibile agitazione. Aveva perso la madre da piccolo e, quasi senza conoscere il padre, era stato portato a Pietroburgo all'età di otto anni; con tutto ciò era romanticamente legato a lui, e amava tanto più la vita familiare, quanto meno aveva fatto in tempo a goderne le gioie tranquille. Il pensiero di perdere il padre gli dilaniava il cuore, ma lo stato del povero malato, che intuiva dalla lettera della njanja, lo terrorizzava. Immaginava il padre, rimasto in un villaggio

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sperduto, in mano a una vecchia sciocca e alla servitù, minacciato da qualche sventura e che si spegneva senza aiuto, fra tormenti fisici e spirituali. Vladìmir si rimproverava di criminosa negligenza. Era tanto che non riceveva lettere dal padre e non aveva pensato a informarsi di lui, credendolo in viaggio o preso in faccende amministrative.

Decise di recarsi da lui e addirittura di dare le dimissioni, se lo stato di malattia del padre avesse imposto la sua presenza. I compagni, notata la sua agitazione, se ne andarono. Vladìmir, rimasto solo, scrisse la richiesta per una licenza, si accese la pipa e sprofondò in riflessioni.

Quel giorno stesso cominciò a darsi da fare per la licenza e tre giorni dopo era già sulla strada maestra.

Vladìmir Andréeviè si avvicinava alla stazione di posta dalla quale avrebbe dovuto svoltare per Kistenëvka. Aveva il cuore pieno di tristi presentimenti, temeva di non trovare vivo il padre, immaginava la triste esistenza che lo attendeva in campagna, il luogo sperduto, l'assenza di esseri umani, la povertà e il brigare per affari dei quali non aveva la minima idea. Arrivato alla stazione entrò dal mastro di posta e chiese di noleggiare dei cavalli. Il mastro di posta s'informò dove dovesse andare e gli annunciò che i cavalli mandati da Kistenëvka lo attendevano già da quattro giorni. Di lì a poco si presentò a Vladìmir Andréeviè il vecchio cocchiere Antón, che un tempo lo guidava su e giù per la stalla e badava alla sua piccola cavalla. Antón, vedendolo, versò qualche lacrima, s'inchinò fino a terra, gli disse che il suo vecchio padrone era ancora vivo, e corse ad attaccare i cavalli. Vladìmir Andréeviè rifiutò la colazione offerta e ripartì in fretta. Antón lo portò per strade traverse, e fra loro si svolse questa conversazione.

«Di' un po', per favore, Antón, che causa ha mio padre con Troekùrov?».

«Dio lo sa, bàtjuška Vladìmir Andréeviè... Il signore, si dice, non

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si è inteso con Kirìla Petróviè, e quello l'ha citato in tribunale, anche se spesso e volentieri giudica tutto da solo. Non è affar nostro di servi giudicare la volontà dei signori, ma, quant'è vero Iddio, non è servito a niente che vostro padre sia andato contro Kirìla Petróviè; con la frusta non spacchi una scure».

«Allora, a quanto sembra, questo Kirìla Petróviè da voi fa quello che gli pare?».

«E certo, signore: dicono che non stima un soldo l'assessore, e che il commissario di polizia gli fa da galoppino. I signori vanno tutti a ossequiarlo; tanto, quando c'è un trogolo, arrivano anche i porci».

«Ma è vero che ci toglie la proprietà?».

«Oh, signore, l'abbiamo sentito anche noi. Giorni fa il sagrestano di Pokróvskoe a un battesimo ha detto al nostro stàrosta: avete finito di spassarvela; vi prenderà nelle sue mani Kirìla Petróviè. Nikìta il fabbro allora gli ha detto: basta, Savél'iè, non affliggere il compare e non agitare gli ospiti. Kirìla Petróviè si fa i fatti suoi, Andréj Gavrìloviè pure, mentre noi siamo figli di Dio e dell'imperatore; del resto sulla bocca altrui non cuci bottoni».

«Quindi voi non volete passare in proprietà a Troekùrov?»

«In proprietà di Kirìla Petróviè? Dio ce ne scampi e liberi: con lui a volte stanno male anche i suoi; se gli arriveranno degli estranei non solo li spellerà, ma toglierà loro perfino la carne. No, Dio conceda lunga salute ad Andréj Gavrìloviè, e se Dio se lo prenderà, non avremo bisogno di nessuno oltre a te, nostro benefattore. Non ci dare via, e noi staremo dalla tua parte». Dette queste parole Antón agitò la frusta, diede uno strappo con le redini, e i suoi cavalli presero un trotto serrato.

Commosso dalla devozione del vecchio cocchiere, Dubróvskij tacque e si abbandonò nuovamente alle riflessioni. Passò più di un'ora; all'improvviso Grìša lo scosse esclamando: «Ecco Pokróvskoe!». Dubróvskij alzò la testa. Stava andando lungo la

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riva di un ampio lago, dal quale scaturiva un fiumicello che si snodava in lontananza fra i colli; su uno di essi, sopra il verde fitto di un boschetto, si ergeva un tetto verde e il belvedere di un'immensa casa di pietra, su un altro una chiesa a cinque cupole e un campanile antico; intorno erano disseminate le izbe del villaggio, con i loro orti e i loro pozzi. Dubróvskij riconobbe quei posti; ricordò che su quella stessa collina aveva giocato con la piccola Maša Troekùrova, che aveva due anni meno di lui e che già allora prometteva di diventare una bellezza. Avrebbe voluto chiedere notizie su di lei ad Antón, ma una certa timidezza lo trattenne.

Avvicinandosi alla casa padronale vide un vestito bianco balenare fra gli alberi del giardino. In quel momento Antón colpì i cavalli e, cedendo a un'ambizione comune tanto ai cocchieri di campagna che ai vetturini di piazza, si slanciò a perdifiato attraverso il ponte e lungo il villaggio. Usciti dal paese salirono su per un monte, e Vladìmir vide un boschetto di betulle e a sinistra, in una radura, una casetta grigia col tetto rosso; il cuore prese a battergli forte. Davanti a lui era Kistenëvka e la povera casa di suo padre.

Dieci minuti dopo faceva ingresso nel cortile padronale. Si guardava attorno con un'emozione indescrivibile. Erano dodici anni che non vedeva il luogo in cui era nato. Le piccole betulle, che ai suoi tempi erano state appena piantate lungo lo steccato, erano cresciute e diventate adesso alti alberi frondosi. Il cortile, un tempo ornato da tre aiuole regolari, fra le quali passava un largo sentiero diligentemente spazzato, si era trasformato in un prato incolto, sul quale pascolava un cavallo con le pastoie. I cani cominciarono a abbaiare, ma, riconosciuto Antón, tacquero e agitarono le folte code. La servitù si sparse fuori dalle izbe e circondò il giovane signore con chiassose dimostrazioni di gioia. A stento riuscì a farsi strada attraverso la folla affettuosa e corse su per la vecchissima scalinata; nell'ingresso gli venne incontro Egórovna, che piangendo abbracciò il suo pupillo. «Salve, salve,

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njanja», ripeteva lui, stringendosi al cuore la vecchierella, «come va il babbo, dov'è? Come sta?».

In quel momento entrò nella sala, trascinando a stento le gambe, un vecchio alto, pallido e magro, in vestaglia e berretto da notte.

«Salve, Volód'ka!», disse con voce flebile, e Vladìmir abbracciò con calore suo padre. La gioia aveva dato al malato una scossa troppo forte; egli s'indebolì, le gambe gli vennero meno, e sarebbe caduto se il figlio non l'avesse sostenuto.

«Perché ti sei alzato dal letto?», gli diceva Egórovna, «non ti reggi sulle gambe, e vuoi andare dove vanno gli altri!».

Il vecchio fu riportato in camera da letto. Si sforzava di parlare col figlio, ma i pensieri gli si confondevano in testa, e le parole mancavano completamente di nesso. Tacque ed entrò in uno stato di assopimento. Vladìmir restò colpito dalle condizioni del padre. Si stabilì nella sua stanza da letto e chiese di essere lasciato solo con lui. La gente di casa obbedì, e allora tutti rivolsero le proprie attenzioni a Grìša e lo portarono nella stanza della servitù, dove gli fu offerto da mangiare e da bere all'uso campagnolo, in tutta cordialità, dopo averlo estenuato di domande e saluti.

IV

Dov'era il tavolo delle vivande, la c'è una bara.

Qualche giorno dopo il suo arrivo il giovane Dubróvskij avrebbe voluto mettere ordine agli affari, ma suo padre non era in condizione di dargli le istruzioni necessarie; Andréj Gavrìloviè non aveva un procuratore. Esaminando le sue carte il figlio trovò soltanto la prima lettera dell'assessore e la brutta copia della risposta a questa; non poté farsi un'idea chiara della contesa e decise di aspettare le conseguenze, confidando nella giustezza del proprio diritto.

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Nel frattempo la salute di Andréj Gavrìloviè peggiorava di ora in ora. Vladìmir prevedeva il suo crollo imminente e non si allontanava dal vecchio, che era completamente rimbambito.

Intanto scadette il termine stabilito e il ricorso in appello non fu presentato. Kistenëvka apparteneva ormai a Troekùrov. Šabàškin gli si presentò con inchini e congratulazioni, e con la preghiera di stabilire quando a sua eccellenza sarebbe piaciuto di entrare in possesso della proprietà di nuovo acquisto, e se l'avrebbe fatto personalmente o si sarebbe degnato di dare la procura a qualcuno. Kirìla Petróviè si turbò. Di natura non era venale, il desiderio di vendetta l'aveva condotto troppo lontano, si sentiva in preda ai rimorsi. Sapeva in che stato si trovasse il suo avversario, antico compagno della sua giovinezza, e la vittoria non allietava il suo cuore. Piantò minacciosamente lo sguardo su Šabàškin, cercando qualcosa a cui appigliarsi per insultarlo, ma non avendo trovato un pretesto sufficiente, gli disse arrabbiato: «Vattene, ho altro per la testa».

Šabàškin, vedendo che era di cattivo umore, s'inchinò e s'allontanò in fretta. Kirìla Petróviè, rimasto solo, prese a passeggiare avanti e indietro, fischiettando: Tuono della vittoria, echeggia, cosa che denotava sempre in lui una particolare confusione d'idee.

Infine egli ordinò di attaccare i cavalli al carrozzino da corsa, si vestì con indumenti pesanti (era già la fine di settembre) e, guidando da sé, uscì dal cortile.

Presto intravide la casetta di Andréj Gavrìloviè e l'animo gli si riempì di sentimenti contrastanti. La vendetta soddisfatta e la brama di potere soffocavano fino a un certo punto sentimenti più nobili, ma questi ultimi infine trionfarono. Decise di rappacificarsi col vecchio vicino, di cancellare qualsiasi traccia della lite restituendogli la sua proprietà. Dopo essersi alleviato l'animo con questo buon proposito, Kirìla Petróviè si slanciò al trotto verso la casa del vicino, e fece ingresso direttamente nel cortile.

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In quel momento il malato era seduto presso la finestra della camera da letto. Egli riconobbe Kirìla Petróviè, e un terribile turbamento gli si dipinse sul volto: un rossore acceso sostituì il solito pallore, gli occhi sfavillarono, pronunciò suoni inarticolati. Suo figlio, seduto lì con i libri dei conti, alzò la testa e restò sconvolto dal suo stato. Il malato additava il cortile con aria di sdegno e orrore. Raccolse in fretta e furia i lembi della vestaglia, accingendosi ad alzarsi dalla poltrona, si levò... e all'improvviso cadde. Il figlio si precipitò verso di lui, il vecchio giaceva svenuto, senza respirare; era stato colto da una paralisi. «Presto, presto, in città a chiamare un medico!», gridò Vladìmir. «Kirìla Petróviè chiede di voi», disse un servo entrando. Vladìmir gli lanciò un'occhiata spaventosa.

«Di' a Kirìla Petróviè di andarsene via subito, prima che lo cacci fuori dal cortile... via!». Il servo corse tutto contento a eseguire l'ordine del padrone; Egórovna batté le mani. «Bàtjuška nostro!», disse con voce stridula, «perderai la tua testolina! Kirìla Petróviè ci mangerà». «Zitta, njanja», disse con irritazione Vladìmir, «manda subito Antón in città a chiamare un medico». Egórovna uscì.

Nell'anticamera non c'era nessuno, tutta la servitù era accorsa in cortile a vedere Kirìla Petróviè. Ella uscì sul terrazzino e sentì la risposta che dava il servo da parte del giovane signore. Kirìla Petróviè l'ascoltò, seduto nel carrozzino. Il suo viso si fece più scuro della notte, egli sorrise con disprezzo, guardò con aria minacciosa la servitù e ripartì al passo lungo il cortile. Gettò un'occhiata anche alla finestrella ormai vuota, davanti alla quale un minuto prima sedeva Andréj Gavrìloviè. La njanja, dimenticato l'ordine del padrone, stava sul terrazzino. La servitù commentava rumorosamente l'accaduto. All'improvviso Vladìmir apparve fra i servi e disse con voce spezzata: «Non c'è bisogno del medico, il babbo è morto».

Scoppiò una gran confusione. La servitù si precipitò nella stanza

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del vecchio padrone. Questi giaceva nella poltrona in cui l'aveva trasportato Vladìmir; il braccio destro gli pendeva fino a terra, la testa era abbandonata sul petto, non c'era più alcun segno di vita in quel corpo non ancora raffreddato, ma già sfatto dalla morte. Egórovna diruppe in singhiozzi, i servi circondarono il cadavere, affidato alle loro cure; lo lavarono, lo vestirono con la divisa cucita nel lontano 1797, e lo distesero su quella stessa tavola alla quale per tanti anni avevano servito il loro padrone.

V

I funerali si svolsero il terzo giorno. Il corpo del povero vecchio giaceva sulla tavola, coperto dal sudario e attorniato di candele. La sala da pranzo era piena di servi. Si preparavano al trasporto. Vladìmir e tre servi sollevarono la bara. Il prete andò avanti; il sagrestano lo accompagnava, intonando orazioni funebri. Il padrone di Kistenëvka oltrepassò per l'ultima volta la soglia della sua casa. La bara fu portata attraverso il boschetto. La chiesa si trovava dietro di questo. Il giorno era chiaro e freddo. Foglie autunnali cadevano dagli alberi.

All'uscita del boschetto videro la chiesa di legno di Kistenëvka e il cimitero, ombreggiato da vecchi tigli. Là riposava il corpo della madre di Vladìmir; là, accanto alla sua tomba, il giorno prima era stata scavata una fossa fresca.

La chiesa era piena di contadini di Kistenëvka, venuti a rendere l'ultimo omaggio al loro signore. Il giovane Dubróvskij si mise accanto al coro; non piangeva e non pregava, ma aveva un viso spaventoso. Il triste rito si concluse. Vladìmir andò per primo a prendere congedo dalla salma, seguito da tutti i servi. Portarono il coperchio e la bara fu inchiodata. Le donne singhiozzavano forte; gli uomini di tanto in tanto si asciugavano le lacrime col pugno. Vladìmir e gli stessi tre servi trasportarono la bara al cimitero, accompagnati da tutto il villaggio. La bara fu calata nella tomba,

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tutti i presenti vi gettarono un pugno di terra, colmarono la fossa, fecero un inchino davanti a questa e si dispersero. Vladìmir si allontanò in fretta, superò tutti e sparì nel boschetto di Kistenëvka.

Egòrovna, a nome del padrone, invitò il pope e tutto il clero della chiesa al pranzo funebre, dichiarando che il giovane Vladìmir non intendeva prendervi parte, e così padre Antón, la moglie Fedótovna e il sagrestano si avviarono a piedi verso la casa padronale, diffondendosi con Egórovna sulle virtù del defunto e su quello che, a quanto pareva, attendeva il suo erede. L'arrivo di Troekùrov e l'accoglienza che gli era stata fatta erano già a conoscenza di tutto il vicinato e i politicanti locali preannunciavano gravi conseguenze.

«Sarà quello che sarà», disse la moglie del pope, «ma peccato se non sarà Vladìmir Andréeviè il nostro padrone. È un bravo giovane, niente da dire».

«E chi, se non lui, deve essere il nostro padrone?», interruppe Egórovna. «È inutile che Kirìla Petróviè si scaldi tanto. Mica si è imbattuto in un pavido: il mio falchetto si difenderà anche da solo e, se Dio lo concederà, i benefattori non lo abbandoneranno. È troppo arrogante Kirìla Petróviè! Ma come ha messo la coda fra le gambe, quando il mio Griška gli ha gridato: via, vecchio cane! fuori dal cortile!».

«Oddio, Egórovna», disse il sagrestano, «ma come ha fatto Grigórij a trovare il coraggio di dirlo! Io potrei abbaiare contro il reggente piuttosto che guardare di traverso Kirìla Petróviè. Solo a vederlo ti prende una paura da tremare e ti pieghi in giù, e la schiena si curva da sola, si curva...».

«Vanità delle vanità», disse il prete, «anche per Kirìla Petróviè si canterà eterna memoria, come oggi per Andréj Gavrìloviè; magari i funerali saranno un po' più ricchi e raduneranno più ospiti, ma per Dio non fa lo stesso?».

«Ah, padre! Anche noi volevamo invitare tutto il vicinato, ma

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Vladìmir Andréeviè non ha voluto. Non aver paura, che da noi c'è quanto basta di ogni cosa, abbiamo di che offrire agli ospiti. E poi che vuoi fare? Se non altro, visto che non c'è gente, tratterò bene voi, cari ospiti».

Tale promessa affettuosa e la speranza di trovare una torta appetitosa fecero affrettare il passo agli interlocutori, che giunsero felicemente alla casa padronale, dove la tavola era già apparecchiata e la vodka servita.

Nel frattempo Vladìmir si era inoltrato nel folto degli alberi, cercando di soffocare col movimento e la stanchezza l'afflizione dell'anima. Camminava incurante della strada; ogni momento ramoscelli lo sferzavano e graffiavano, i piedi affondavano ogni istante nel pantano, ma lui non si accorgeva di niente. Infine raggiunse un piccolo burrone, circondato ovunque dal bosco; un ruscello si snodava silenzioso lungo gli alberi, resi semispogli dall'autunno. Vladìmir si fermò, sedette sull'erba fredda, e i pensieri, uno più cupo dell'altro, si assieparono nella sua anima... Sentiva violentemente la sua solitudine. Il futuro gli appariva coperto da nubi minacciose. L'inimicizia con Troekùrov gli presagiva nuove disgrazie. Il suo povero patrimonio poteva passare dalle sue mani a quelle d'altri; in tal caso lo attendeva la miseria. Restò a lungo seduto immobile nello stesso luogo, a contemplare la quieta corrente del ruscello, che trascinava via qualche foglia appassita e gli restituiva nella realtà una fedele similitudine della vita, similitudine assai consueta. Infine si accorse che cominciava a imbrunire; si alzò e andò a cercare la strada di casa, ma vagò ancora a lungo per il bosco sconosciuto, fino a quando non capitò su un sentiero che lo condusse direttamente all'ingresso di casa sua.

Incontro a Dubróvskij arrivò il pope con tutto il clero. L'idea di un presagio funesto gli attraversò la mente. Senza volere a un certo punto deviò e si nascose dietro un albero. Loro non si erano accorti di lui e parlavano accoratamente, mentre gli passavano

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accanto.

«Allontanati dal male e fa' del bene», diceva il pope a sua moglie, «non abbiamo ragione di restare qui. Non sono guai tuoi, comunque la faccenda vada a finire». La moglie del pope rispose qualcosa, ma Vladìmir non riuscì a sentirla.

Avvicinandosi vide una quantità di gente; contadini e servitù si affollavano nel cortile padronale. Da lontano Vladìmir sentì un insolito fracasso e brusio di voci. Accanto alla rimessa c'erano due trojke. Sulla scalinata, alcuni sconosciuti in soprabiti di uniforme sembravano discutere intorno a qualcosa.

«Che significa tutto ciò?», chiese arrabbiato ad Antón, che gli correva incontro. «Chi sono costoro, e che cosa vogliono?».

«Ah, bàtjuška Vladìmir Andréeviè», rispose il vecchio trafelato. «È arrivato il tribunale. Ci danno a Troekùrov, ci sottraggono alla tua grazia...».

Vladìmir chinò la testa, i servi circondarono il loro sventurato signore. «Padre nostro», gridavano, baciandogli le mani, «non vogliamo altro padrone che te; comanda, signore, e col tribunale ce la vedremo noi. Morremo, ma non ti tradiremo». Vladìmir li guardava, e strani sentimenti lo rendevano inquieto. «State tranquilli», disse loro, «parlerò coi cancellieri». «Parlaci, bàtjuška», gli gridarono dalla folla, «e fa' pentire quei dannati».

Vladìmir si accostò ai funzionari. Šabàškin, col berretto in testa, stava fermo con le mani sui fianchi e si guardava intorno altezzosamente. Il commissario di polizia, un uomo alto e grosso sulla cinquantina, con la faccia rossa e i baffi, vedendo avvicinarsi Dubróvskij si schiarì la gola e scandì con voce rauca: «È così, vi ripeto quel che ho già detto: secondo la decisione del tribunale distrettuale da adesso voi appartenete a Kirìla Petróviè Troekùrov, la cui persona è qui rappresentata dal signor Šabàškin. Obbedite a tutti i suoi ordini, e voi, donne, amatelo e rispettatelo, che lui è un vostro grande ammiratore». A questa battuta mordace il

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commissario di polizia scoppiò a ridere, e Šabàškin e gli altri membri del tribunale lo seguirono. Vladìmir fremeva di sdegno. «Consentitemi di chiedere che cosa vuol dire ciò», chiese con simulata freddezza al vivace commissario. «Ciò vuol dire» rispose il funzionario in vena di scherzi, «che noi siamo venuti per far entrare in possesso di tutto questo Kirìla Petróviè Troekùrov, e ad invitare certi altri ad andarsene con le buone». «Ma avreste potuto, magari, rivolgervi a me prima che ai miei contadini, e annunciare al proprietario la destituzione dal potere...». «E tu chi saresti?», domandò Šabàškin con un'occhiata insolente. «L'ex proprietario Andréj Dubróvskij, figlio di Gavrìla, è deceduto per volontà di Dio; noi non vi conosciamo, e non vi vogliamo conoscere».

«Vladìmir Andréeviè è il nostro giovane padrone», disse una voce dalla folla.

«Chi ha osato aprire il becco laggiù?», disse con aria minacciosa il commissario, «quale padrone, quale Vladìmir Andréeviè? Il vostro padrone è Kirìla Petróviè Troekùrov, se ci sentite, zucconi!».

«Come no!», disse la stessa voce.

«Ma questa è una rivolta!», gridò il commissario. «Ehi, stàrosta, vieni qua!».

Lo stàrosta si fece avanti.

«Trova immediatamente quello che ha osato parlare con me, gliela faccio vedere io!».

Lo stàrosta si rivolse alla folla, chiedendo: chi ha parlato? Ma tutti tacevano; presto nelle ultime file si levò un mormorio, cominciò a farsi più forte, e in un attimo si trasformò in urla spaventose. Il commissario abbassò la voce e cercò di persuaderli. «Che state lì a guardare», gridarono i servi, «ragazzi! buttateli fuori!». E tutta la folla avanzò. Šabàškin e gli altri membri si precipitarono nell'ingresso e chiusero a chiave la porta dietro di loro.

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«Ragazzi, leghiamoli», gridò la stessa voce, e la folla cominciò a spingere... «Fermi!», gridò Dubróvskij. «Stupidi! Che fate? Rovinate voi stessi e me. Tornate alle vostre case e lasciatemi in pace. Non abbiate paura, il sovrano è clemente, io mi appellerò a lui. Lui non ci farà torto. Siamo tutti suoi figli. Ma come farà a prendere le vostre difese se vi mettete a fare i ribelli e i briganti?».

Il discorso del giovane Dubróvskij, la sua voce altisonante e l'aspetto maestoso sortirono l'effetto desiderato. La gente si calmò, si disperse, il cortile si vuotò. I membri del tribunale restavano nell'ingresso. Finalmente Šabàškin aprì pian piano la porta, uscì sul terrazzino e con umili inchini prese a ringraziare Dubróvskij per la sua misericordiosa intercessione. Vladìmir lo ascoltava sprezzante e non rispondeva niente. «Abbiamo deciso», continuò l'assessore, «di fermarci col vostro permesso a passare la notte qui; è già buio, e i vostri contadini ci potrebbero assalire per strada. Fateci questo piacere: date ordine che ci stendano almeno della paglia in salotto; appena farà giorno ce ne andremo a casa nostra».

«Fate quel che volete», rispose seccamente Dubróvskij, «io qui non sono più il padrone». Detto questo si ritirò nella stanza di suo padre e richiuse a chiave la porta dietro di sé.

VI

«E così, tutto è finito», disse a se stesso; «stamattina avevo ancora un angolo mio e un pezzo di pane. Domani dovrò abbandonare la casa in cui sono nato, e dov'è morto mio padre, al colpevole della sua morte e della mia miseria». E i suoi occhi si arrestarono sul ritratto di sua madre. Il pittore l'aveva rappresentata appoggiata coi gomiti a una ringhiera in abito bianco da mattina e una rosa rossa fra i capelli. «Anche questo ritratto passerà al nemico della mia famiglia», pensò Vladìmir, «sarà gettato in un ripostiglio insieme alle sedie rotte o sarà attaccato in anticamera, oggetto di scherno e di battute da parte dei suoi guardiani di cani; nella camera da letto

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di lei, invece, la stanza dov'è morto mio padre, si stabilirà il suo amministratore o prenderà posto il suo harem. No! No! Che non tocchi neppure a lui la triste casa dalla quale mi scaccia». Vladìmir strinse i denti, dalla sua mente scaturivano orribili pensieri. Le voci dei cancellieri arrivavano fino a lui; essi spadroneggiavano, pretendevano questo e quello, e lo distoglievano spiacevolmente dalle sue tristi meditazioni. Infine tutto tacque.

Vladìmir aprì i comò e i cassetti, si mise a smistare le carte del defunto. Per la maggior parte si trattava di conti domestici e di lettere d'affari. Vladìmir le strappò, senza leggerle. Fra queste gli capitò un plico con la scritta: lettere di mia moglie. Con un'intensa emozione Vladìmir si mise a scorrerle: erano state scritte al tempo della campagna turca, ed erano indirizzate all'esercito da Kistenëvka. Lei descriveva la sua vita desolata, le occupazioni domestiche, si lamentava teneramente della lontananza e lo richiamava a casa, fra le braccia della sua buona compagna; in una gli manifestava la sua preoccupazione riguardo alla salute del piccolo Vladìmir; in un'altra si rallegrava delle sue precoci capacità e prevedeva per lui un avvenire felice e brillante. Vladìmir sprofondò nella lettura e dimenticò tutto al mondo, con l'anima assorta nell'universo della felicità familiare, e non si accorse di come passò il tempo. L'orologio a muro batté le undici. Vladìmir mise le lettere in tasca, prese la candela e uscì dallo studio. In sala i cancellieri dormivano per terra. Sul tavolo c'erano i bicchieri che avevano vuotato, e un forte odore di rum era diffuso in tutta la stanza. Con disgusto Vladìmir passò accanto a loro per andare in anticamera. La porta era chiusa a chiave. Non trovando la chiave, Vladìmir tornò in sala: la chiave stava sul tavolo, Vladìmir aprì la porta e urtò contro un uomo, stretto in un angolo; una scure gli brillò fra le mani, e, volgendosi verso di lui con la candela, Vladìmir riconobbe Archìp il fabbro. «Che ci fai qui?», chiese. «Ah, Vladìmir Andréeviè, siete voi», rispose in un sussurro Archìp, «misericordia e salvezza divina! Meno male che avevate una candela!». Vladìmir lo guardava sbalordito: «Perché ti sei

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nascosto qui?», chiese al fabbro.

«Volevo... Sono venuto... a verificare se in casa ci fosse tutto», rispose piano Archìp impappinandosi.

«E perché hai preso la scure?».

«Perché la scure? Ma come si fa adesso ad andare in giro senza la scure? Questi cancellieri sono così insolenti che se non te ne guardi...».

«Sei ubriaco: lascia perdere la scure e vattene a dormire».

«Io ubriaco? Bàtjuška Vladìmir Andréeviè, Dio mi è testimone, non ho bevuto neanche una goccia... E si può proprio avere in mente il vino, si è mai sentita una cosa simile, i cancellieri che si sono messi in testa di diventare nostri padroni, i cancellieri che scacciano i nostri signori dalla casa padronale... Senti come russano, i maledetti; tutti in una volta bisognerebbe farli fuori, e chi s'è visto s'è visto».

Dubróvskij si aggrottò. «Ascolta, Archìp», disse, dopo essere stato zitto per un po', «lascia perdere i tuoi progetti. La colpa non è dei cancellieri. Accendi un po' la lanterna e seguimi».

Archìp prese la candela dalle mani del padrone, trovò la lanterna dietro la stufa, l'accese, ed entrambi scesero pian piano la scalinata e fecero il giro del cortile. Il guardiano cominciò a battere sulla tavola di ghisa, i cani abbaiarono. «Chi è di guardia?», chiese Dubróvskij. «Noi, bàtjuška», rispose una voce fioca, «Vasilìsa e Lukér'ja». «Andatevene a casa» disse loro Dubróvskij, «non c'è bisogno di voi». «Riposo», proferì Archìp. «Grazie, benefattore», risposero le donne, e si avviarono subito a casa.

Dubróvskij andò avanti. Due persone gli si avvicinarono; lo chiamarono. Dubróvskij riconobbe la voce di Antón e di Griša. «Perché non dormite?», chiese loro. «Altro che dormire», rispose Antón. «A che siamo arrivati, chi lo avrebbe pensato...».

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«Silenzio!», interruppe Dubróvskij, «dov'e Egórovna?».

«Nella casa padronale, nella sua stanzetta», rispose Griša.

«Va', portala qui e fa' uscire dalla casa tutti i nostri, che non resti anima viva, oltre ai cancellieri, e tu, Antón, attacca il carro».

Griša si allontanò, e dopo un minuto apparve con sua madre. La vecchia quella notte non si era spogliata; a parte i cancellieri, nessuno in casa aveva chiuso occhio.

«Sono tutti qui?», chiese Dubróvskij, «non è rimasto nessuno in casa?».

«Nessuno, a parte i cancellieri», rispose Griša.

«Datemi qui del fieno o della paglia», disse Dubróvskij.

La servitù corse nella stalla e tornò con bracciate di fieno.

«Mettetelo sotto la scalinata. Ecco, così. Su, ragazzi, del fuoco!».

Archìp aprì la lanterna. Dubróvskij accese una scheggia di legno.

«Aspetta», disse ad Archìp, «nella fretta mi pare di aver chiuso la porta dell'anticamera, va' presto, aprila».

Archìp corse all'ingresso: la porta era aperta. Archìp la chiuse a chiave, soggiungendo a mezza voce: «Aprila, come no!», e tornò da Dubróvskij.

Dubróvskij avvicinò la scheggia, il fieno prese fuoco, la fiamma si levò in alto e illuminò tutto il cortile.

«Oddio», gridò lamentosamente Egórovna, «Vladìmir Andréeviè, che fai?».

«Zitta», disse Dubróvskij. «Be', figlioli, addio; vado dove mi porterà Iddio; siate felici col vostro nuovo signore».

«Padre nostro, benefattore», rispose la servitù, «morremo, ma non ti abbandoneremo, noi veniamo con te».

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Furono portati i cavalli; Dubróvskij salì con Griša nel carro e fissò per loro come luogo d'incontro il boschetto di Kistenëvka. Antón diede una frustata ai cavalli, e uscirono dal cortile.

Si alzò il vento. In un momento le fiamme avvolsero tutta la casa. Un fumo rosso serpeggiava sul tetto. I vetri scricchiolarono e si ruppero, spargendosi a pezzetti; travi in fiamme cominciarono a cadere, si diffusero urla lamentose e grida: «Al fuoco, aiuto, aiuto». «Come no!», disse Archìp, guardando l'incendio con un sorriso maligno. «Archìpuška», gli diceva Egórovna, «salvali, i dannati, e Dio te ne renderà merito».

«Come no», rispose il fabbro.

In quell'istante i cancellieri apparvero alle finestre, tentando di svellerne il telaio. Ma a quel punto il tetto crollò con uno schianto, e gli urli tacquero.

Poco dopo tutta la servitù si riversò in cortile. Le donne si affrettavano gridando a mettere in salvo le proprie cianfrusaglie, i ragazzini saltavano, estasiandosi dell'incendio. Le scintille volarono via come in una tempesta di fuoco, le izbe si incendiarono.

«Adesso va tutto bene», disse Archìp, «come brucia, eh? da Pokróvskoe deve essere bello lo spettacolo».

In quel momento un caso nuovo attirò la sua attenzione; un gatto correva sul tetto di una rimessa incendiata, senza sapere da dove saltare; era circondato ovunque dalle fiamme. Il povero animale con un pietoso miagolio invocava aiuto. I ragazzini morivano dal ridere, assistendo alla sua disperazione. «Di che ridete, piccoli diavoli?», disse loro rabbiosamente il fabbro. «Non avete timor di Dio: muore una creatura di Dio, e voi stupidi vi divertite», e, appoggiando una scala al tetto incendiato, si arrampicò a prendere il gatto. Questo intuì il suo proposito, e con un'aria di frettolosa riconoscenza s'aggrappò alla sua manica. Il fabbro mezzo

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bruciacchiato scese giù con la sua preda. «Be', ragazzi, addio», disse alla servitù sconvolta, «qui non mi resta nulla da fare. State bene, non serbate un cattivo ricordo di me».

Il fabbro se ne andò; l'incendio infuriò ancora per qualche tempo. Finalmente si calmò, e mucchi di carboni senza fiamma ardevano nell'oscurità della notte; accanto ad essi erravano gli abitanti di Kistenëvka, privati di tutto dall'incendio.

VII

Il giorno seguente la notizia dell'incendio si diffuse in tutti i paesi vicini. Tutti ne parlavano supponendo le più diverse ipotesi. Alcuni assicuravano che i servi di Dubróvskij, dopo essersi ubriacati ai funerali, avevano incendiato la casa per imprudenza; altri davano la colpa ai cancellieri, che avevano alzato il gomito per inaugurare la casa nuova; molti erano sicuri che lo stesso Dubróvskij fosse bruciato coi membri del tribunale e con tutta la servitù. Altri intuivano la verità e sostenevano che il colpevole di quell'orribile disgrazia fosse Dubróvskij stesso, spinto dalla rabbia e dalla disperazione. Troekùrov arrivò il giorno dopo sul luogo dell'incendio e condusse da solo l'inchiesta. Risultò che il commissario, l'assessore del tribunale distrettuale, l'avvocato e lo scrivano, come anche Vladìmir Dubróvskij, la njanja Egórovna, il servo Grigórij, il cocchiere Antón e il fabbro Archìp erano scomparsi non si sa dove. Tutti i servi testimoniarono che i cancellieri erano bruciati nel momento in cui era crollato il tetto; furono rinvenute le loro ossa carbonizzate. Le donne Vasilìsa e Lukér'ja dissero di aver visto Dubróvskij e Archìp il fabbro pochi minuti prima dell'incendio. Il fabbro Archìp, secondo la testimonianza generale, era vivo e probabilmente il principale, se non l'unico, responsabile dell'incendio. Su Dubróvskij gravavano forti sospetti. Kirìla Petróviè mandò al governatore la descrizione dettagliata di tutto quanto era accaduto e s'aprì una nuova inchiesta

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giudiziaria.

Presto altre notizie diedero nuovo alimento alla curiosità e alle chiacchiere. A *** erano apparsi dei briganti che spargevano il terrore in tutta la regione. Le misure adottate contro di loro dalle autorità si rivelarono insufficienti. Le rapine si susseguivano, una più considerevole dell'altra. Non c'era sicurezza né sulle strade né nei villaggi. Diverse troike, piene di briganti, scorrazzavano di giorno per tutto il governatorato, fermavano i viaggiatori e la posta, facevano incursioni nei villaggi, depredavano le case dei proprietari e le incendiavano. Il capo della banda era celebre per intelligenza, ardimento e una certa magnanimità. Di lui si raccontavano prodigi; il nome di Dubróvskij era sulla bocca di tutti; tutti erano convinti che lui, e nessun altro, capeggiasse gli ardimentosi malfattori. Ci si meravigliava di una cosa sola: le proprietà di Troekùrov venivano risparmiate; i briganti a lui non avevano saccheggiato neppure una rimessa, non avevano fermato neppure un carro. Con la sua solita arroganza Troekùrov attribuiva tale eccezione al terrore che aveva saputo suscitare in tutto il governatorato, come anche alla polizia efficiente che aveva introdotto nei suoi villaggi. All'inizio i vicini ridevano fra loro della presunzione di Troekùrov, e ogni giorno aspettavano che gli ospiti indesiderati visitassero Pokróvskoe, dove avrebbero avuto di che provvedersi, ma infine furono costretti a riconoscere che anche i briganti gli mostravano un incomprensibile rispetto... Troekùrov trionfava, e ad ogni annuncio di una nuova rapina di Dubróvskij si metteva a ironizzare sul conto del governatore, dei commissari e dei comandanti di compagnia, ai quali Dubróvskij sfuggiva sempre incolume.

Frattanto arrivò il primo ottobre, giorno della festa del patrono nel villaggio di Troekùrov. Ma prima di passare alla descrizione di tale solennità e degli avvenimenti successivi, dobbiamo presentare al lettore dei personaggi nuovi per lui, o dei quali abbiamo accennato solo di sfuggita all'inizio del nostro racconto.

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VIII

Il lettore, probabilmente, ha già indovinato che la figlia di Kirìla Petróviè, della quale finora abbiamo detto solo qualche parola, è l'eroina del nostro racconto. All'epoca da noi descritta aveva diciassette anni, ed era nel pieno fiore della sua bellezza. Il padre l'amava fino alla follia, ma la trattava con la bizzarria che gli era propria, ora cercando di assecondare ogni suo minimo capriccio, ora spaventandola con un comportamento rigido, e a volte anche spietato. Sicuro dell'attaccamento di lei, non era mai riuscito a conquistarne la fiducia. Ella era abituata a celargli i propri sentimenti e pensieri, poiché non poteva mai sapere con certezza come sarebbero stati accolti. Non aveva amiche, ed era cresciuta in solitudine. Le mogli e le figlie dei vicini si recavano di rado da Kirìla Petróviè, i cui abituali discorsi e divertimenti richiedevano la compagnia degli uomini, non la presenza delle signore. Raramente la nostra bellezza appariva in mezzo agli ospiti che banchettavano da Kirìla Petróviè. Un'immensa biblioteca, composta per la maggior parte di opere di scrittori francesi del XVIII secolo, era stata messa a sua disposizione. Suo padre, che non aveva mai letto niente oltre a La perfetta cuoca, non poteva orientarla nella scelta dei libri, e Maša, spontaneamente, dopo aver rovistato opere di ogni genere, si era fermata ai romanzi. In questo modo perfezionava la sua educazione, iniziata un tempo sotto la guida di M.lle Mimì, verso la quale Kirìla Petróviè aveva mostrato grande fiducia e benevolenza, e che infine era stato costretto ad allontanare alla chetichella in un'altra proprietà, quando le conseguenze di questa amicizia erano apparse troppo evidenti. Mamzel' Mimì aveva lasciato dietro di sé un ricordo abbastanza gradevole. Era una brava ragazza, e non aveva mai usato a fin di male l'ascendente che, visibilmente, esercitava su Kirìla Petróviè, distinguendosi in questo dalle altre favorite che egli sostituiva continuamente. Lo stesso Kirìla Petróviè, a quanto pare, l'amava

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più delle altre, e il bambino dagli occhi neri, un birichino sui nove anni, che ricordava i lineamenti meridionali di mamzel' Mimì, veniva cresciuto in casa sua ed era stato riconosciuto come suo figlio, benché una quantità di ragazzini scalzi, simili a Kirìla Petróviè come due gocce d'acqua, scorrazzassero davanti alle sue finestre e venissero trattati da servi. Kirìla Petróviè aveva fatto venire da Mosca per il suo piccolo Saša un maestro francese, che arrivò appunto a Pokróvskoe durante gli avvenimenti da noi ora descritti.

Tale maestro piacque a Kirìla Petróviè per il suo gradevole aspetto e la semplicità di modi. Presentò a Kirìla Petróviè i suoi certificati e una lettera da parte di un parente di Troekùrov, presso il quale aveva lavorato quattro anni come precettore. Kirìla Petróviè esaminò il tutto e rimase scontento solo della giovane età del suo francese - non perché ritenesse questo amabile difetto incompatibile con la pazienza e l'esperienza tanto necessarie al disgraziato mestiere di maestro, ma perché aveva dei dubbi che decise di esporgli subito. A questo scopo fece chiamare Maša presso di sé (Kirìla Petróviè non parlava francese, e lei fungeva da interprete).

«Vieni qui, Maša: di' a questo mus'é che sia pure, lo prendo, ma a patto che non si sogni di correre appresso alle mie ragazze, altrimenti, figlio di un cane, io lo... traduciglielo, Maša».

Maša arrossì e, rivolgendosi al maestro, gli disse in francese che il padre confidava nella sua discrezione e nel suo comportamento corretto.

Il francese le fece un inchino e rispose che sperava di meritarsi il rispetto, anche se gli fosse stata negata la benevolenza.

Maša tradusse parola per parola la sua risposta.

«Bene, bene», disse Kirìla Petróviè, «non gli servono né benevolenza, né rispetto. Il suo compito è di stare dietro a Saša e

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di insegnargli la grammatica e la geografia. Traduciglielo».

Mar'ja Kirìlovna addolcì nella traduzione le rudi espressioni del padre, e Kirìla Petróviè lasciò andare il francese nell'ala della casa in cui gli era stata assegnata una stanza.

Maša non rivolse la minima attenzione al giovane francese; cresciuta nei pregiudizi aristocratici, un maestro per lei era una sorta di servo o di artigiano, e un servo o un artigiano non le pareva un uomo. Non fece caso neppure all'impressione da lei prodotta su Monsieur Deforges, né al suo turbamento, né al suo tremito, né al cambiamento della sua voce. Per diversi giorni di seguito lo incontrò poi piuttosto spesso, senza degnarlo di un'attenzione maggiore. Inaspettatamente se ne fece un'idea del tutto nuova.

Kirìla Petróviè aveva l'abitudine di allevare in cortile qualche orsacchiotto, che costituiva uno dei divertimenti principali del proprietario di Pokróvskoe. Nella loro prima giovinezza gli orsacchiotti venivano portati ogni giorno in salotto, dove Kirìla Petróviè si trastullava con loro ore intere, aizzandoli contro gatti e cagnolini. Quando diventavano adulti erano messi alla catena, in attesa di una vera battuta di caccia. Di quando in quando li si portava davanti alle finestre della casa padronale e gli si faceva rotolare davanti una botte da vino vuota, costellata di chiodi; l'orso l'annusava, poi la sfiorava pian piano, si pungeva le zampe, infuriandosi la spingeva più forte, e più forte diventava il dolore. S'inferociva completamente, si slanciava ruggendo sulla botte, finché alla povera belva non veniva sottratto l'oggetto del suo vano furore. Succedeva che attaccassero a un carro una coppia di orsi, vi facessero salire, volenti o nolenti, gli ospiti, e li lasciassero poi galoppare alla ventura. Ma Kirìla Petróviè considerava lo scherzo migliore il seguente.

Si chiudeva un orso affamato in una stanza vuota, dopo averlo legato con la corda a un anello conficcato nel muro. La corda era lunga quasi come tutta la stanza, così che solo l'angolo opposto

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potesse essere sicuro dall'assalto della terribile belva. Di solito il malcapitato veniva condotto alla porta di questa stanza, e spinto inavvertitamente verso l'orso; la porta veniva richiusa, e la disgraziata vittima veniva lasciata sola con l'irsuto eremita. Il povero ospite con una falda strappata e graffiato a sangue, scopriva presto l'angolo sicuro, ma a volte era costretto a starsene tre ore intere addossato al muro a guardare la belva infuriata a due passi da lui che ruggiva, saltava, si rizzava sulle zampe, dava strattoni per liberarsi e si sforzava di raggiungerlo. Questi erano i nobili divertimenti di un signore russo! Qualche giorno dopo l'arrivo del maestro, Troekùrov si ricordò di lui ed ebbe l'idea di deliziarlo con la stanza dell'orso: a tale scopo, dopo averlo convocato una mattina, lo condusse con sé per bui corridoi; all'improvviso una porta laterale si aprì, due servi vi spinsero dentro il francese e lo chiusero a chiave. Tornato in sé, il maestro vide l'orso legato; la belva cominciò a sbuffare, annusando da lontano il suo ospite, e all'improvviso, levatasi sulle zampe posteriori, gli si slanciò contro... Il francese non si turbò, non sfuggì e attese l'assalto. L'orso si avvicinò, Deforges tirò fuori dalla tasca una piccola pistola, la premette sull'orecchio della belva affamata e sparò. L'orso stramazzò. Fu un accorrere generale, la porta si aprì. Kirìla Petróviè entrò, sbalordito dall'epilogo del suo scherzo. Kirìla Petróviè volle assolutamente una spiegazione dell'accaduto: chi aveva avvertito Deforges dello scherzo che gli avevano preparato, e come mai aveva in tasca una pistola carica? Mandò a chiamare Maša, Maša accorse e tradusse al francese le domande del padre.

«Non avevo sentito parlare dell'orso», rispose Deforges, «ma porto sempre con me la pistola, perché non sono disposto a sopportare un'offesa di cui, vista la mia condizione, non potrei chiedere soddisfazione».

Maša lo guardava trasecolata e tradusse le sue parole a Kirìla Petróviè. Kirìla Petróviè non rispose nulla, ordinò di trascinare

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fuori l'orso e di scuoiarlo; poi, rivolto ai servi, disse: «Che giovane coraggioso! non ha avuto paura, quant'è vero Iddio, non ha avuto paura». Da quel momento Deforges entrò nelle sue simpatie, e non pensò più di metterlo alla prova.

Ma questo fatto impressionò ancor più Mar'ja Kirìlovna. La sua immaginazione ne restò colpita: aveva visto l'orso morto e Deforges che gli stava tranquillamente sopra e che chiacchierava tranquillamente con lei. Capì che il coraggio e il fiero amor proprio non appartengono esclusivamente a una classe sociale, e da allora in poi cominciò a dimostrare al giovane maestro un rispetto che si faceva sempre più riguardoso. Fra loro si instaurarono dei rapporti. Maša aveva una bellissima voce e grandi doti musicali; Deforges si offrì di darle lezioni. Dopo di che il lettore non tarderà a indovinare che Maša si innamorò di lui, senza ancora confessarlo a se stessa.

PARTE SECONDA

IX

Alla vigilia della festa gli ospiti presero ad arrivare da ogni parte; alcuni erano alloggiati nella casa padronale e negli edifici annessi, altri presso l'amministratore, altri dal prete, altri dai contadini agiati. Le scuderie erano piene di cavalli da viaggio, i cortili e le rimesse erano ingombri di vetture di ogni specie. Alle nove di mattina suonarono le campane per la messa, e fu tutto un procedere alla nuova chiesa di pietra, costruita da Kirìla Petróviè e abbellita ogni anno dalle sue offerte. Si riunì una tale quantità di devoti di riguardo, che i semplici contadini non riuscirono a trovar posto in chiesa, e rimasero sul sagrato e dentro lo steccato. La messa tardava a incominciare; si aspettava Kirìla Petróviè. Arrivò su una carrozza con un tiro a sei e si avviò trionfalmente al suo posto, accompagnato da Mar'ja Kirìlovna. Gli sguardi degli uomini e delle donne si volsero verso di lei; i primi si stupivano

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della sua bellezza, le seconde esaminavano attentamente i suoi vestiti. Ebbe inizio la messa, i cantori di casa cantavano nel coro, Kirìla Petróviè stesso li accompagnava, pregava, senza guardare né a destra né a sinistra, e con fiera umiltà s'inchinò fino a terra, quando il diacono ricordò a voce alta anche il fondatore di quel tempio.

La messa si concluse. Kirìla Petróviè andò per primo a baciare la croce. Tutti si mossero appresso a lui, poi i vicini gli si avvicinarono con espressione di rispetto. Le signore circondarono Maša. Kirìla Petróviè, uscendo dalla chiesa, invitò tutti a pranzo da lui, salì in carrozza e s'avviò verso casa. Tutti lo seguirono. Le stanze si riempirono di ospiti. Ogni momento entravano nuove persone, e riuscivano e stento a farsi strada fino al padrone di casa. Le signore si accomodarono in un cerimonioso semicerchio, vestite secondo una moda antiquata, in abiti logori e costosi, tutte cariche di perle e brillanti, gli uomini si accalcavano intorno al caviale e alla vodka, chiacchierando fra loro in uno strepitoso contrasto di voci. La tavola in sala veniva imbandita per ottanta coperti. I servi si affaccendavano, disponendo bottiglie e caraffe, e aggiustando le tovaglie. Infine il maggiordomo annunciò: «Il pranzo è servito», e Kirìla Petróviè si avviò a sedersi a tavola per primo; al suo seguito si mossero le dame che occuparono con sussiego i loro posti, rispettando un certo ordine di anzianità; le signorine si strinsero fra loro come un timido gregge di caprette, e si scelsero i posti l'una accanto all'altra. Di fronte a loro si disposero gli uomini. In fondo alla tavola si sedette il maestro a fianco del piccolo Saša.

I servitori cominciarono a distribuire i piatti a seconda dei gradi, lasciandosi guidare, in caso d'incertezza, dalle ipotesi di Lavater, e quasi sempre senza sbagliare. Il risuonare dei piatti e dei cucchiai si unì al rumoroso vocio degli ospiti; Kirìla Petróviè abbracciava con uno sguardo allegro la sua mensa e si godeva appieno la felicità dell'ospite generoso. In quel momento entrò in cortile una

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carrozza tirata da sei cavalli. «E questo chi è?», chiese il padrone di casa. «Antón Pafnùt'iè Spìcyn», risposero diverse voci. La porta si aprì, e Antón Pafnùt'iè Spìcyn, un grosso cinquantenne, dal viso tondo e butterato, guarnito d'un triplo mento, fece irruzione nella sala da pranzo, inchinandosi, sorridendo, e già in procinto di chiedere scusa... «Qua un coperto», gridò Kirìla Petróviè, «favorisci, Antón Pafnùt'iè, siediti e dicci come mai non sei venuto alla mia messa e hai tardato al pranzo. Non è da te: tu sei religioso e ti piace mangiare». «Chiedo scusa», rispose Antón Pafnùt'iè annodando il tovagliolo all'occhiello di un caftano verde pisello, «chiedo scusa, bàtjuška Kirìla Petróviè, mi sono messo in viaggio per tempo, ma non avevo percorso neppure dieci verste che a un tratto il cerchio della ruota davanti si spezza in due - che farci? Per fortuna non si era lontani da un villaggio; ma finché ci siamo trascinati fin lì, e abbiamo trovato un fabbro, e aggiustato tutto alla meglio, sono passate esattamente tre ore, c'era poco da fare. Di passare per la strada più breve attraverso il bosco di Kistenëvka non me la sono sentita, per cui ho fatto tutto il giro...».

«Eh!», interruppe Kirìla Petróviè, «vuol dire che non hai coraggio da vendere; e che cosa temi?».

«Come, che cosa temo, bàtjuška Kirìla Petróviè? Ma Dubróvskij! Fai presto a capitargli fra le grinfie. È uno che la sa lunga, il ragazzo; non la fa passare liscia a nessuno, e a me, magari, è capace di scorticarmi due volte».

«E perché mai, amico, un simile privilegio?».

«Come perché, bàtjuška Kirìla Petróviè? Per la causa col povero Andréj Gavrìloviè. Non sono stato io, forse, che per il piacer vostro, cioè secondo coscienza e giustizia, ho dimostrato che i Dubróvskij possedevano Kistenëvka senza averne alcun diritto, esclusivamente per vostra compiacenza? Il defunto (gli sia concesso il regno dei cieli) promise che avrebbe fatto i conti con me a modo suo, e il figlioletto, magari, manterrà la parola del babbo. Finora Dio mi ha graziato; complessivamente mi hanno

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saccheggiato un solo granaio, ma sta' a vedere che arriveranno anche alla mia casa».

«E in casa troveranno il ben di Dio», osservò Kirìla Petróviè, «il cofanetto rosso sarà pieno zeppo...».

«Macché, bàtjuška Kirìla Petróviè. È stato pieno, ma ora s'è svuotato del tutto!».

«Smettila di dire bugie, Antón Pafnùt'iè. Vi conosciamo, noi: dov'è che spendi i soldi? A casa vivi come un porco nel porcile, non ricevi nessuno, i tuoi contadini li scortichi, pensi ad accumulare e basta».

«Vi compiacete di scherzare sempre, bàtjuška Kirìla Petróviè», borbottò con un sorriso Antón Pafnùt'iè, «ma noi, quant'è vero Iddio, siamo rovinati», e Antón Pafnùt'iè ingoiò la dispotica battuta del padrone di casa, insieme al pasticcio di pesce. Kirìla Petróviè lo lasciò stare e si rivolse al nuovo commissario, che era suo ospite per la prima volta, e che sedeva all'altra estremità della tavola, accanto al maestro.

«Allora, signor commissario, lo catturerete almeno voi Dubróvskij?».

Il commissario si spaventò, fece un inchino, sorrise, s'inceppò nel parlare e proclamò infine: «Faremo di tutto, vostra eccellenza».

«Hm, faremo di tutto. È un pezzo, è un pezzo che fanno di tutto, ma non serve a niente. E poi in effetti perché catturarlo? Le rapine di Dubróvskij sono la manna per i commissari: viaggi, indagini, vetture, e denaro in tasca. Come si fa a levare di mezzo un simile benefattore? Non è vero, signor commissario?».

«Sacrosanta verità, vostra eccellenza», rispose il commissario totalmente confuso.

Gli ospiti si misero a ridacchiare.

«Il ragazzo mi piace per la sua sincerità», disse Kirìla Petróviè,

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«ma rimpiango il nostro povero commissario Taràs Alekséeviè; se non lo avessero bruciato, nei dintorni ci sarebbe più calma. Ma che cosa si sente dire di Dubróvskij? Dove si è visto l'ultima volta?».

«Da me, Kirìla Petróviè», mormorò una pastosa voce femminile, «martedì scorso ha pranzato in casa mia...».

Tutti gli sguardi si diressero su Anna Sàvišna Glóbova, una vedova piuttosto semplice, amata da tutti per il suo buon carattere allegro. Tutti, incuriositi, si prepararono ad ascoltare il suo racconto.

«Bisogna sapere che tre settimane fa avevo mandato l'amministratore alla posta coi soldi per il mio Vanjùša. Mio figlio non lo vizio, né sono in condizione di viziarlo, se anche lo volessi; comunque lo sapete anche voi: un ufficiale della guardia deve mantenersi in modo decoroso, ed io divido con Vanjùša, come posso, le mie piccole rendite. E così gli ho mandato duemila rubli. Anche se Dubróvskij mi era venuto in mente più di una volta, pensavo: la città è vicina, appena sette verste, forse Dio me la manderà buona. Ma ecco che la sera vedo tornare il mio amministratore pallido, stracciato e a piedi. Mi lasciai sfuggire un grido: "Che c'è? Che ti è successo?". E lui a me: "Màtuška Anna Sàvišna, mi hanno derubato i briganti; mancava poco che mi ammazzassero! C'era Dubróvskij in persona, voleva impiccarmi, ma si è impietosito e mi ha lasciato andare; in compenso mi ha depredato di tutto, mi ha tolto anche il cavallo e il carro". Mi sentii mancare; o re del cielo, che ne sarà del mio Vanjùša? C'era poco da fare: scrissi a mio figlio una lettera, gli raccontai tutto e gli mandai la mia benedizione senza un soldo.

«Passò una settimana, un'altra - tutto d'un colpo ecco che entra nel mio cortile una carrozza. Un certo generale chiede di vedermi: favorisca pure; entra un uomo sui trentacinque anni, di carnagione scura, capelli neri, baffi e barba, un vero e proprio ritratto di Kul'nëv, mi si presenta come amico e compagno d'armi del mio povero marito Ivàn Andréeviè; stava passando da quelle parti e

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non aveva potuto fare a meno di passare dalla sua vedova, sapendo che abitavo lì. Io gli offrii quel che Dio mi aveva concesso, parlammo di questo e di quello, e infine anche di Dubróvskij. Gli raccontai la mia disgrazia. Il mio generale aggrottò le sopracciglia. "È strano", disse, "ho sentito dire che Dubróvskij non assale chiunque, ma solo persone notoriamente ricche, e anche allora spartisce con loro, e non li spoglia del tutto. E di assassinio non lo accusa nessuno; non ci sarà un imbroglio? Fate chiamare il vostro amministratore". Andarono a chiamare l'amministratore, lui si presentò; non appena vide il generale restò di sasso. "Raccontami un po', amico, in che modo Dubróvskij ti ha derubato e come voleva impiccarti". Il mio amministratore prese a tremare e si gettò ai piedi del generale. "Bàtjuška, perdonate, sono stato indotto in tentazione, ho mentito". "Se è così", rispose il generale, "fa' il favore di raccontare alla signora com'è andata tutta la faccenda, e io starò a sentire". L'amministratore non riusciva a riprendersi. "Allora", continuò il generale, "racconta: dove hai incontrato Dubróvskij?". "Sotto i due pini, bàtjuška, sotto i due pini". "E che ti ha detto?". "Mi ha chiesto di chi sei, dove vai e perché?". "Be', e poi?". "E poi ha preteso la lettera e i soldi". "Be'?". "Gli ho dato la lettera e i soldi". "E lui?... Be', e lui?". "Bàtjuška, perdonate". "Be', e lui che cosa ha fatto?...". "Mi ha restituito i soldi e la lettera, e mi ha detto: vattene con Dio, e consegna tutto alla posta". "Be', e tu?". "Bàtjuška, perdonate". "Con te, golùbèik, farò i conti io", disse minaccioso il generale, "e voi, signora, fate perquisire il baule di questo mascalzone e consegnatelo nelle mie mani, che gli darò io una lezione. Sappiate che Dubróvskij in persona è stato ufficiale della guardia, e non vorrebbe fare torto a un compagno". Immaginavo chi fosse sua eccellenza, non c'era ragione che mi mettessi a discutere con lui. I cocchieri legarono l'amministratore alla cassetta della carrozza. Il denaro fu trovato; il generale pranzò da me, poi ripartì subito portando via con sé l'amministratore. Il mio amministratore fu trovato il giorno dopo nel bosco, legato a una quercia, spogliato di tutto come un giovane tiglio».

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Tutti ascoltavano in silenzio il racconto di Anna Sàvišna, in particolare le signorine. Molte di loro simpatizzavano segretamente per lui, considerandolo un eroe da romanzo, specialmente Mar'ja Kirìlovna, ardente sognatrice, sazia degli orrori misteriosi della Radcliffe.

«E tu, Anna Sàvišna, credi che fosse proprio Dubróvskij?», domandò Kirìla Petróviè. «Invece ti sei sbagliata di grosso. Non so chi sia stato a farti visita, ma certo non Dubróvskij».

«Come, bàtjuška, non era Dubróvskij? Ma chi, se non lui, uscirebbe sulla strada e si metterebbe a fermare i passanti e a perquisirli?».

«Non lo so, ma certo non Dubróvskij. Lo ricordo da bambino; non so se gli si sono scuriti i capelli, ma allora era un ragazzo ricciuto, biondo, e so di sicuro che Dubróvskij ha cinque anni più della mia Maša e che, di conseguenza, non ha trentacinque anni, ma circa ventitré».

«Proprio così, vostra eccellenza», proclamò il commissario, «in tasca ho anche i connotati di Vladìmir Dubróvskij. Vi è detto con esattezza che ha ventitré anni».

«Ah!», disse Kirìla Petróviè, «a proposito: leggeteli, e noi staremo a sentire; non è male che noi conosciamo i suoi connotati; se ci capiterà sott'occhio non la scamperà».

Il commissario tirò fuori dalla tasca un foglio di carta piuttosto sudicio, lo dispiegò con aria d'importanza e prese a leggere con la cantilena: «Connotati di Vladìmir Dubróvskij, redatti su dichiarazione dei suoi ex servi: ventitré anni, statura media, viso liscio, barba rasata, occhi castani, capelli castano-chiaro, naso diritto. Segni particolari: nessuno».

«E basta?», chiese Kirìla Petróviè.

«E basta», rispose il commissario, ripiegando il foglio.

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«Complimenti, signor commissario. Che bel documento! Con questi connotati non vi sarà difficile scovare Dubróvskij. Ma chi non è di statura media, chi non ha capelli castano-chiaro, naso dritto e occhi castani! Scommetto che potresti parlare per tre ore di seguito con Dubróvskij in persona, senza accorgerti con chi Dio ti ha fatto incontrare. Non c'è che dire, testoline intelligenti quelle dei cancellieri!».

Il commissario si mise umilmente in tasca la carta e si accinse in silenzio a mangiare l'oca col cavolo. Nel frattempo i servi avevano già avuto il tempo di fare diverse volte il giro degli invitati, riempiendo a ognuno il bicchierino. Parecchie bottiglie di gorskij e di cimljànskij erano già state sturate con lo scoppio e accolte benevolmente col nome di champagne, i visi cominciavano a farsi rossi, i discorsi più sonori, più slegati e più vivaci.

«No», continuò Kirìla Petróviè, «non lo vedremo più un commissario come il defunto Taràs Alekséeviè! Non era uno che falliva il colpo, né uno sbadato. Peccato che l'abbiano bruciato, quel giovane in gamba, altrimenti non gliene sarebbe sfuggito uno di tutta la banda. Li avrebbe pescati tutti fino all'ultimo, e lo stesso Dubróvskij non se la sarebbe cavata neppure riscattandosi. Taràs Alekséeviè i soldi da lui l'avrebbe presi, ma non lo avrebbe lasciato scappare: aveva quest'abitudine il defunto. Niente da fare, si vede che in questa faccenda devo intervenire io attaccando i briganti con i miei uomini. Tanto per cominciare ne manderò una ventina a ripulire il boschetto dei ladri; non è gente vigliacca, ognuno è capace di attaccare un orso da solo; non si tireranno indietro davanti ai briganti».

«Sta bene il vostro orso, bàtjuška Kirìla Petróviè?», domandò Antón Pafnùt'iè, ricordando a queste parole il suo velloso conoscente e alcuni scherzi, di cui anche lui un tempo era stato vittima.

«Miša è passato a miglior vita», rispose Kirìla Petróviè. «È morto

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di gloriosa morte, per mano del nemico. Ecco il suo vincitore!». Kirìla Petróviè accennò Deforges; «prendi esempio dal mio francese. Ha vendicato la tua... con rispetto parlando... Ricordi?».

«Come fare a non ricordarlo», disse Antón Pafnùt'iè grattandosi la nuca, «me lo ricordo bene. Così Miša è morto. Mi dispiace per Miša, quant'è vero Iddio mi dispiace! Era così divertente! Così intelligente! Un altro orso così non lo trovi. Ma perché musié l'ha ucciso?».

Kirìla Petróviè con grande piacere prese a raccontare l'atto eroico del suo francese, giacché aveva la felice dote di vantarsi di tutto quel che lo circondava. Gli ospiti ascoltarono attentamente il racconto della morte di Miša e guardarano con stupore Deforges, il quale, ignorando che si parlava del suo coraggio, sedeva tranquillamente al suo posto, e faceva edificanti osservazioni al suo vivace discepolo.

Il pranzo, che era durato quasi tre ore, si concluse; il padrone di casa posò il tovagliolo sul tavolo, tutti si alzarono e andarono in salotto, dove li aspettava il caffè, le carte e il seguito della bevuta, così gloriosamente iniziata in sala da pranzo.

X

Verso le sette di sera alcuni invitati avrebbero voluto andar via, ma il padrone di casa, messo in allegria dal ponce, comandò di chiudere il portone, e dichiarò che fino alla mattina dopo non avrebbe lasciato uscire nessuno di casa. Presto risuonò la musica, le porte della sala furono aperte, ebbe inizio il ballo. Il padrone di casa e i suoi intimi stavano seduti in un angolo, bevendo un bicchiere dietro l'altro, e godendosi l'allegria della gioventù. Le vecchiette giocavano a carte. Di cavalieri, come del resto ovunque non sia acquartierato un reparto di ulani, ce n'erano meno che di dame; tutti gli uomini in grado di ballare erano stati reclutati. Il maestro si distingueva danzando più di tutti, tutte le signorine lo

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sceglievano e trovavano che con lui si ballava molto bene il valzer. Fece qualche giro con Mar'ja Kirìlovna, e le signorine li seguivano maliziosamente con lo sguardo. Infine, verso mezzanotte, il padrone di casa, stanco, fece interrompere le danze, ordinò di servire la cena, e se ne andò a dormire.

L'assenza di Kirìla Petróviè conferì alla compagnia maggiore libertà e vivacità. I cavalieri osarono prender posto accanto alle dame. Le fanciulle ridevano e bisbigliavano coi loro vicini; le dame discorrevano a voce alta da un capo all'altro della tavola. Gli uomini bevevano, discutevano e ridacchiavano - in una parola, la cena fu straordinariamente gaia, e lasciò dietro di sé molti ricordi gradevoli.

Una sola persona non partecipava alla gioia generale: Antón Pafnùt'iè sedeva al suo posto, rannuvolato e taciturno, mangiava distrattamente e sembrava estremamente inquieto. I discorsi sui briganti avevano turbato la sua immaginazione. Vedremo presto che aveva una ragione fondata per temerli.

Antón Pafnùt'iè, invocando il Signore a testimonianza del fatto che la sua cassetta rossa era vuota, non aveva mentito né peccato: la cassetta rossa era proprio vuota; i denari che vi erano custoditi un tempo erano stati trasferiti in una borsa di cuoio che portava sul petto sotto la camicia. Solo con questa precauzione riusciva a placare la sua diffidenza verso tutti, e il suo eterno timore. Costretto a passare la notte in casa altrui, temeva che gli assegnassero un posto per dormire in qualche stanza isolata, dove potessero introdursi facilmente i ladri; cercò con gli occhi un compagno fidato e scelse infine Deforges. Il suo aspetto, che rivelava forza, e ancor più il coraggio da lui dimostrato nell'incontro con l'orso, che il povero Antón Pafnùt'iè non poteva ricordare senza un fremito di terrore, decisero la sua scelta. Quando si alzarono da tavola Antón Pafnùt'iè cominciò a girellare attorno al giovane francese, raschiandosi la gola e tossicchiando, e infine gli si rivolse con una dichiarazione.

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«Hm, hm! Non potrei, musié, passare la notte nella vostra stanzetta? perché vedete...».

«Que désire monsieur?», chiese Deforges, inchinandosi a lui cortesemente.

«Eh, che guaio! Tu, musié, non hai ancora imparato il russo. Je ve muà scé vu cuscé, capisci?».

«Monsieur, très volontiers», rispose Deforges, «veuillez donner des ordres en conséquence».

Antón Pafnùt'iè, molto soddisfatto della sua conoscenza del francese, andò subito a dare disposizioni.

Gli ospiti cominciarono a salutarsi, e ognuno si diresse nella stanza a lui assegnata. Antón Pafnùt'iè, invece, andò col maestro in un'ala della casa. La notte era buia. Deforges illuminava la strada con una lanterna. Antón Pafnùt'iè lo seguiva abbastanza all'erta, premendo di tanto in tanto contro il petto la borsa nascosta per assicurarsi d'avere ancora addosso il denaro.

Arrivati nell'ala della casa il maestro accese una candela, e cominciarono entrambi a spogliarsi; nel frattempo Antón Pafnùt'iè passeggiava su e giù per la stanza, ispezionando serrature e finestre, e scrollando la testa in quest'esame poco rassicurante. La porta si chiudeva solo col paletto, le finestre non avevano ancora la doppia vetrata. Tentò di lamentarsene con Deforges, ma la sua conoscenza del francese era troppo limitata per una spiegazione così complessa; il francese non lo capì, e Antón Pafnùt'iè fu costretto a lasciar perdere le sue lamentele. I loro erano posti uno di fronte all'altro; entrambi si coricarono, e il maestro spense la candela.

«Purquà vu tuscé, purquà vu tuscé», gridò Antón Pafnùt'iè, coniugando alla meglio il verbo russo tušu alla maniera francese. «Non riesco a dormir al buio». Deforges non capì le sue esclamazioni e gli augurò la buona notte.

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«Maledetto miscredente!», borbottò Spìcyn, arrotolandosi nella coperta. «Doveva spegnere la candela! Peggio per lui. Io non riesco a dormire senza luce».

«Musié, musié», continuò, «je ve avec vu parlé». Ma il francese non rispondeva, e presto cominciò a russare.

«Russa quella birba di un francese», pensò Antón Pafnùt'iè, «e a me non passa neanche per la testa di dormire. Da un momento all'altro i ladri possono entrare dalla porta aperta, o intrufolarsi dalla finestra, e quella birba non la svegli neanche a cannonate».

«Musié! Ehi, musié! Che il diavolo ti porti».

Antón Pafnùt'iè tacque; la stanchezza e i fumi del vino a poco a poco prevalsero sulla sua pusillanimità; si assopì, e ben presto un sonno profondo s'impossessò di lui completamente.

Gli si preparava uno strano risveglio. Sentiva nel sonno che qualcuno lo tirava dolcemente per il collo della camicia. Antón Pafnùt'iè aprì gli occhi e alla pallida luce del mattino autunnale si vide davanti Deforges: il francese teneva in mano una pistola da tasca, e con l'altra slacciava la borsa segreta. Antón Pafnùt'iè si sentì mancare.

«Kes ke sè, musié, kes ke sè», balbettò con voce tremante.

«Silenzio, zitto», rispose il maestro in un russo perfetto, «zitto o siete perduto. Sono Dubróvskij».

XI

Adesso chiederemo al lettore il permesso di spiegare gli ultimi avvenimenti del nostro racconto con circostanze precedenti, che non abbiamo ancora fatto in tempo a raccontare.

Alla stazione di ***, in casa del mastro di posta, di cui abbiamo già parlato, sedeva in un angolo un viaggiatore dall'aria umile e

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paziente, che denotava in lui un raznoèìnec o uno straniero, vale a dire una persona che non ha voce in capitolo sulle strade postali. Il suo calesse stava in cortile, in attesa di essere lubrificato. Conteneva una piccola valigia, magra testimonianza di una condizione non troppo benestante. Il viaggiatore non aveva chiesto per sé né tè, né caffè; guardava fuori della finestra e fischiettava, con grande disapprovazione della moglie del mastro, seduta dietro il tramezzo.

«Hai visto, Dio ci ha mandato un fischiatore», diceva a mezza voce. «Come fischietta! Che possa scoppiare, dannato miscredente».

«E perché?», disse il mastro di posta, «che c'è di male? Lascialo fischiare».

«Che c'è di male?», ribatté la consorte in collera. «Non sai, forse, che segno è?».

«Che segno è? Che il fischio scaccia il denaro. Ih! Pachómovna, da noi che si fischi o meno, denari non ce ne sono lo stesso».

«Ma lascialo andare, Sìdoryè! Hai proprio voglia di trattenerlo? Dagli i cavalli, e che se ne vada al diavolo».

«Aspetterà un po', Pachómovna; nella stalla ci sono solo tre trojke, la quarta riposa. Da un momento all'altro possono arrivare buoni passeggeri; non voglio rimetterci il collo per un francese. Ascolta! È proprio così! Arrivano al galoppo. Eh, eh, e a che velocità! Che sia un generale?».

Una carrozza si fermò accanto alla scalinata. Un servo saltò giù da cassetta, aprì lo sportello, e un minuto dopo un giovane in cappotto militare e berretto bianco entrò dal mastro di posta; appresso a lui il servo portò dentro un cofanetto e lo posò sul davanzale.

«Dei cavalli!», disse l'ufficiale con voce imperiosa.

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«Subito!», rispose il mastro di posta. «Favorite il foglio di via».

«Non ho il foglio di via. Viaggio per conto mio. Non mi riconosci, forse?».

Il mastro di posta cominciò a darsi da fare e si precipitò a sollecitare i postiglioni. Il giovane si mise a passeggiare avanti e indietro per la stanza, passò dietro il tramezzo e chiese piano alla moglie del mastro di posta: chi è quel viaggiatore?

«Dio lo sa», rispose la moglie del mastro di posta, «è un francese. Sono già cinque ore che aspetta i cavalli e fischietta. Mi ha stancato, maledetto».

Il giovane attaccò discorso col viaggiatore in francese.

«Dove vi state recando?», gli domandò.

«Nella città più vicina», rispose il francese, «e da lì mi dirigerò da un proprietario, che mi ha assunto per corrispondenza come maestro. Pensavo di arrivare oggi stesso sul posto, ma il signor mastro di posta pare abbia stabilito altrimenti. In questo paese è difficile procurarsi dei cavalli, signor ufficiale».

«E da quale dei proprietari locali siete stato assunto?», chiese l'ufficiale.

«Dal signor Troekùrov», rispose il francese.

«Da Troekùrov? E chi è questo Troekùrov?».

«Ma foi, mon officier... non ne ho sentito parlare un granché bene. Dicono che è un signore fiero e bizzoso, crudele nel modo di trattare la gente di casa, che nessuno riesce ad andarci d'accordo, che tutti tremano al suo nome, che con i maestri (avec les outchitels) non fa complimenti e ne ha già frustati due a morte».

«Per carità! E voi avete deciso di farvi assumere da un simile mostro?».

«Che devo fare, signor ufficiale? Mi offre un buon stipendio,

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tremila rubli all'anno, vitto e alloggio. Può essere che io sia più fortunato degli altri. Ho una mamma vecchia, le manderò metà dello stipendio per il suo mantenimento; col resto del denaro posso accumulare un piccolo capitale, sufficiente per la mia futura indipendenza, e allora bonsoir, partirò per Parigi e mi darò alle imprese commerciali».

«Vi conosce qualcuno a casa di Troekùrov?», domandò.

«Nessuno», rispose il maestro. «Mi ha fatto venire da Mosca attraverso un suo amico, al quale ero stato raccomandato dal suo cuoco, mio connazionale. Dovete sapere che io non avevo l'intenzione di fare il maestro, ma il pasticciere; mi dissero però che nel vostro paese la professione di maestro era infinitamente più redditizia...».

L'ufficiale si fece pensieroso.

«Sentite», disse interrompendo il francese, «che cosa ne direste se invece di questo avvenire vi offrissero diecimila rubli in contanti a condizione che ve ne tornaste immediatamente a Parigi?».

Il francese guardò sbalordito l'ufficiale, sorrise e scosse la testa.

«I cavalli sono pronti», disse entrando il mastro di posta.

Il servo confermò la stessa cosa.

«Subito», rispose l'ufficiale, «uscite fuori un momento». Il mastro di posta e il servo uscirono. «Io non scherzo», continuò in francese, «ve li posso dare diecimila rubli; mi serve solo che ve ne andiate lasciandomi le vostre carte». Così dicendo aprì il cofanetto e ne tirò fuori diversi pacchi di banconote.

Il francese strabuzzò gli occhi. Non sapeva che pensare.

«Che me ne vada... e vi dia le mie carte», ripeteva sbalordito. «Ecco le mie carte... Ma voi scherzate: a che cosa vi servono le mie carte?».

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«Questo non vi riguarda. Vi domando, siete d'accordo o no?».

Il francese, continuando a non credere ai propri orecchi, porse le sue carte al giovane ufficiale, che le scorse rapidamente.

«Il vostro passaporto... va bene. La lettera di raccomandazione, vediamo. Il certificato di nascita, splendido. Eccovi qui i vostri soldi, tornate indietro. Addio».

Il francese restò come impalato.

L'ufficiale ritornò.

«Dimenticavo la cosa più importante. Datemi la parola d'onore che tutto questo rimarrà fra noi, la vostra parola d'onore».

«Parola d'onore», rispose il francese. «Ma le mie carte, come farò senza di esse?».

«Nella prima città dichiarerete di essere stato derubato da Dubróvskij. Vi crederanno e vi daranno i certificati necessari. Addio, il Signore vi conceda di arrivare a Parigi al più presto e di trovare la mamma in buona salute».

Dubróvskij uscì dalla stanza, salì in carrozza e partì al galoppo.

Il mastro di posta guardava dalla finestra, e quando la carrozza si fu allontanata, si rivolse alla moglie esclamando: «Pachómovna, sai cosa? Quello era proprio Dubróvskij».

La moglie del mastro di posta si precipitò a rotta di collo alla finestra, ma era già tardi: Dubróvskij era ormai lontano. Si mise a insultare il marito: «Non hai timor di Dio, Sìdoryè. Perché non me l'hai detto prima? Almeno avrei dato un'occhiata a Dubróvskij, adesso hai voglia a aspettare che ripassi! Non hai coscienza, non hai proprio coscienza!».

Il francese stava lì impalato. Il patto con l'ufficiale, i soldi, tutto gli sembrava un sogno. Ma i pacchi di banconote erano lì, nella sua tasca, e gli confermavano eloquentemente la realtà dell'incredibile

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avvenimento.

Decise di prendere a nolo dei cavalli fino alla città. Il postiglione lo condusse al passo, e di notte alla fin fine la raggiunse.

Prima di arrivare alla barriera della città, presso la quale invece della sentinella c'era un casotto caduto in rovina, il francese fece fermare il calesse, scese e proseguì a piedi, dopo aver spiegato a cenni al postiglione che gli regalava calesse e valigia come mancia. Il postiglione rimase altrettanto sbalordito della sua generosità, quanto il francese lo era stato della proposta di Dubróvskij. Ma, avendo concluso da questo che il tedesco era impazzito, il postiglione lo ringraziò con un compito inchino e, non ritenendo saggio entrare in città, si diresse verso una casa di piacere a lui nota, della quale conosceva bene il padrone. Vi trascorse tutta la notte, con i suoi tre cavalli, senza carico, e se ne tornò a casa il mattino dopo senza calesse e senza valigia, col viso gonfio e gli occhi rossi.

Dubróvskij, venuto in possesso delle carte del francese, si era presentato coraggiosamente, come abbiamo già visto, da Troekùrov, e si era stabilito in casa sua. Quali che fossero le sue segrete intenzioni (le sapremo poi), il suo comportamento era del tutto irreprensibile. È vero che si occupava poco dell'educazione del piccolo Saša, gli dava piena libertà di fare monellerie e non era severo nel pretendere i compiti, assegnati solo per la forma; in compenso seguiva con grande assiduità i progressi musicali della sua allieva, e sedeva spesso ore intere con lei al pianoforte. Tutti volevano bene al giovane maestro: Kirìla Petróviè per la sua coraggiosa destrezza a caccia, Mar'ja Kirìlovna per lo zelo sconfinato e la timida premura, Saša per l'indulgenza alle sue birichinate, la gente di casa per la sua bontà e la sua generosità, apparentemente incompatibili con la sua condizione. Lui stesso sembrava affezionato a tutta la famiglia e sentiva già di farne parte.

Era passato all'incirca un mese dalla sua assunzione come maestro

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alla festa memorabile, e nessuno sospettava che nel modesto giovane francese si celasse un terribile brigante, il cui nome seminava il terrore fra tutti i proprietari dei dintorni. In tutto quel tempo Dubróvskij non si era allontanato da Pokróvskoe, ma la fama delle sue scorrerie non si placava grazie all'immaginazione inventiva degli abitanti di campagna; poteva anche essere, però, che la sua banda continuasse le proprie imprese anche in assenza del capo.

Passando la notte nella stessa stanza con un uomo, che poteva considerare suo nemico personale e uno dei principali responsabili della sua sciagura, Dubróvskij non aveva potuto resistere alla tentazione. Sapeva dell'esistenza della borsa e aveva deciso di entrarne in possesso. Abbiamo visto come fece trasecolare il povero Antón Pafnùt'iè con la sua improvvisa trasformazione da maestro in brigante.

Alle nove di mattina gli ospiti che avevano trascorso la notte a Pokróvskoe si raccolsero uno dopo l'altro in salotto, dove già bolliva il samovàr, davanti al quale, in abito da mattina, sedeva Mar'ja Kirìlovna; Kirìla Petróviè, invece, in un giaccone di flanella ruvida e pantofole, beveva dalla sua larga tazza, simile a quella per gli sciacqui. L'ultimo ad apparire fu Antón Pafnùt'iè; era così pallido, e sembrava così sconvolto che il suo aspetto stupì tutti, e Kirìla Petróviè si informò della sua salute. Spìcyn dava risposte senza alcun senso e guardava terrorizzato il maestro, seduto lì anche lui come se niente fosse. Dopo qualche minuto entrò un servo, e annunciò a Spìcyn che la carrozza era pronta; Antòn Pafnùt'iè si affrettò a congedarsi e, nonostante le esortazioni del padrone di casa, uscì in fretta e furia dalla stanza e partì immediatamente. Non si capiva che cosa gli fosse capitato, e Kirìla Petróviè concluse che doveva aver mangiato troppo. Dopo il tè e la colazione di commiato gli altri ospiti cominciarono ad andarsene e ben presto Pokróvskoe tornò deserta, e tutto rientrò nell'ordine abituale.

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XII

Passarono alcuni giorni, e non accadde niente di rimarchevole. La vita degli abitanti di Pokróvskoe era monotona. Kirìla Petróviè ogni giorno andava a caccia; letture, passeggiate e lezioni di musica tenevano occupata Mar'ja Kirìlovna, specialmente le lezioni di musica. Ella cominciava a intendere il proprio cuore e ammetteva con involontario dispetto ch'esso non era indifferente alle qualità del giovane francese. Lui, da parte sua, non oltrepassava i limiti del rispetto e di una rigida convenienza, tranquillizzando in questo modo l'orgoglio e le timorose esitazioni di lei. Ella si abbandonava con una fiducia sempre maggiore alla seducente consuetudine. Si annoiava senza Deforges; in sua presenza s'occupava continuamente di lui, voleva sapere il suo parere a proposito di tutto ed era sempre d'accordo con lui. Forse non era ancora innamorata, ma al primo impedimento del caso, o alla prima improvvisa contrarietà del destino la fiamma della passione sarebbe divampata nel suo cuore.

Un giorno, entrata nella sala in cui il maestro la stava aspettando, Mar'ja Kirìlovna notò stupefatta un certo turbamento sul volto pallido di lui. Aprì il pianoforte, intonò alcune note, ma Dubróvskij, col pretesto di un mal di testa, si scusò, interruppe la lezione e, chiudendo lo spartito, di nascosto le porse un biglietto. Mar'ja Kirìlovna, senza avere il tempo di rendersene conto, lo prese e se ne pentì immediatamente, ma Dubróvskij non era più in sala. Mar'ja Kirìlovna andò in camera sua, dispiegò il biglietto e lesse quel che segue: «Trovatevi oggi alle sette nel padiglione accanto al ruscello. Devo assolutamente parlarvi».

La sua curiosità fu violentemente eccitata. Da tempo aspettava una dichiarazione, desiderandola e temendola. Le avrebbe fatto piacere ascoltare la conferma di quello che intuiva, ma sentiva che sarebbe stato sconveniente per lei accogliere tale dichiarazione da un uomo

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che per la sua condizione non poteva sperare di ottenere un giorno la sua mano. Decise di andare all'appuntamento, ma esitava su un punto: in che modo avrebbe accolto la dichiarazione del maestro, se con aristocratico sdegno, con esortazioni di amicizia, con battute allegre, o con tacita simpatia. Intanto guardava continuamente l'orologio. Scese il crepuscolo, furono portate le candele, Kirìla Petróviè si sedette a giocare a boston coi vicini passati a trovarlo. L'orologio da tavola batté le sei e tre quarti, e Mar'ja Kirìlovna uscì pian piano sul terrazzino d'ingresso, si guardò intorno da tutte le parti e corse in giardino.

La notte era scura, il cielo coperto di nuvole, non si vedeva niente a due passi di distanza, ma Mar'ja Kirìlovna camminava al buio per sentieri familiari e in un momento si ritrovò accanto al padiglione; lì si fermò per riprendere fiato e apparire a Deforges con un'aria indifferente e non precipitosa. Ma Deforges stava già davanti a lei.

«Vi ringrazio», le disse con voce triste e sommessa, «di non aver respinto la mia richiesta. Sarei disperato, se non aveste acconsentito».

Mar'ja Kirìlovna rispose con una frase preparata:

«Spero che non mi farete pentire della mia condiscendenza».

Lui taceva, e sembrava prender coraggio.

«Le circostanze richiedono... devo lasciarvi», disse infine... «presto, forse, sentirete dire... ma prima di separarci, vi devo io stesso una spiegazione...».

Mar'ja Kirìlovna non rispondeva niente. In quelle parole vedeva una premessa dell'attesa dichiarazione.

«Io non sono colui che credete», continuò, chinando la testa, «non sono il francese Deforges, sono Dubróvskij».

Mar'ja Kirìlovna lanciò un grido.

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«Non abbiate paura, per amor di Dio, non dovete aver paura del mio nome. Sì, io sono quell'infelice che vostro padre ha privato di un tozzo di pane, scacciato dalla casa paterna, e mandato a commettere rapine sulle strade maestre. Ma non avete nulla da temere - né per voi stessa, né per lui. È finito tutto. Io l'ho perdonato. Ascoltate, siete voi che l'avete salvato. La mia prima impresa sanguinosa doveva essere compiuta su di lui. Stavo camminando intorno alla sua casa, per stabilire dove appiccare l'incendio, da quale parte entrare nella sua stanza da letto, come precludergli ogni via di scampo; in quel momento voi mi siete passata accanto, come una visione celeste, e il mio cuore si è rappacificato. Ho capito che la casa in cui abitate voi è sacra, che nessun essere legato a voi da vincoli di sangue poteva essere soggetto alla mia maledizione. Ho rinunciato alla vendetta ritenendola una follia. Dei giorni interi ho vagato attorno ai giardini di Pokróvskoe nella speranza di scorgere da lontano il vostro vestito bianco. Nelle vostre incaute passeggiate vi seguivo, passando furtivamente da un cespuglio all'altro, felice al pensiero di proteggervi, al pensiero che per voi non ci fosse pericolo lì dov'ero presente in segreto. Finalmente è capitata l'occasione. Mi sono stabilito in casa vostra. Queste tre settimane sono state per me giorni di felicità. Il loro ricordo sarà di conforto alla mia triste vita... Oggi ho ricevuto una notizia, dopo la quale non posso più trattenermi qui. Mi separo da voi oggi... subito... Ma prima dovevo aprirmi a voi, affinché non mi malediceste, non mi disprezzaste. Pensate qualche volta a Dubróvskij, sappiate che era nato per un altro destino, che la sua anima sapeva amarvi, che mai...».

A questo punto echeggiò un fischio leggero e Dubróvskij tacque. Le afferrò la mano, e la premette contro le labbra ardenti. Il fischio si ripeté.

«Addio», disse Dubróvskij, «mi chiamano, un minuto potrebbe rovinarmi». Si allontanò; Mar'ja Kirìlovna restava immobile. Dubróvskij tornò e le prese nuovamente la mano.

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«Se un giorno», le disse con voce tenera e toccante, «se un giorno vi dovesse colpire una sventura, e non aveste nessuno da cui aspettarvi aiuto, o protezione, mi promettete che in tal caso ricorrereste a me, pretendereste tutto da me per la vostra salvezza? Mi promettete di non rifiutare la mia devozione?».

Mar'ja Kirìlovna piangeva in silenzio. Il fischio echeggiò per la terza volta.

«Voi mi rovinate!», gridò Dubróvskij. «Non vi lascerò finché non mi avrete dato una risposta. Lo promettete o no?».

«Lo prometto», mormorò la povera bella fanciulla.

Turbata dall'incontro con Dubróvskij, Mar'ja Kirìlovna stava tornando dal giardino. Le sembrò che tutti i servi corressero di qua e di là, la casa era tutta in movimento, in cortile c'era molta gente, una trojka sostava davanti alla scalinata, da lontano sentì la voce di Kirìla Petróviè e si affrettò a rientrare, temendo che la sua assenza fosse notata. In sala s'imbatté in Kirìla Petróviè; gli ospiti circondavano il commissario di nostra conoscenza, e lo tempestavano di domande. Il commissario in abito da viaggio, armato dalla testa ai piedi, rispondeva loro con aria misteriosa e affaccendata.

«Dov'eri, Maša?», domandò Kirìla Petróviè, «non hai incontrato per caso monsieur Deforges?». Maša riuscì faticosamente a rispondere di no.

«Pensa un po'», continuò Kirìla Petróviè, «il commissario è venuto ad arrestarlo e mi assicura che è Dubróvskij in persona».

«Ci sono tutti gli indizi, vostra eccellenza», disse ossequiosamente il commissario.

«Ehi, amico», lo interruppe Kirìla Petróviè, «vattene, sai tu dove, coi tuoi indizi. Non te lo darò il mio francese, finché non avrò chiarito io stesso la faccenda. Come si può prendere in parola Antón Pafnùt'iè, che è un vigliacco e un bugiardo? Se l'è sognato,

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che il maestro voleva derubarlo. Perché quella mattina stessa non mi ha detto neanche una parola del fatto?».

«Il francese lo aveva spaventato, vostra eccellenza», rispose il commissario, «e si era fatto giurare il silenzio...».

«Sciocchezze», concluse Kirìla Petróviè, «adesso metterò tutto in chiaro io. Dov'è il maestro?», domandò al servo che era entrato.

«Non si trova da nessuna parte», rispose il servo.

«Cercatelo, allora», gridò Troekùrov, che cominciava ad avere dubbi.

«Fammi vedere i tuoi famosi connotati», disse al commissario, che gli porse immediatamente il foglio. «Hm, hm, ventitré anni... è così, ma questo non dimostra ancora niente. E il maestro?».

«Non si trova», fu nuovamente la risposta. Kirìla Petróviè cominciava a entrare in agitazione, Mar'ja Kirìlovna era più morta che viva.

«Sei pallida, Maša», le fece notare il padre, «ti hanno spaventata».

«No, babbo», rispose Maša, «mi fa male la testa».

«Va' in camera tua, Maša, e non ti preoccupare». Maša gli baciò la mano e corse via in camera sua, dove si gettò sul letto e cominciò a singhiozzare in un attacco isterico. Le serve accorsero, la spogliarono, a fatica riuscirono a calmarla con l'acqua fredda e ogni sorta di sali, la misero a letto, e lei cadde addormentata.

Intanto il francese non si trovava. Kirìla Petróviè andava su e giù per la sala, fischiettando minacciosamente Tuono della vittoria, echeggia. Gli ospiti bisbigliavano fra loro, il commissario era stato gabbato, il francese non fu trovato. Probabilmente aveva fatto in tempo a scappare, dopo essere stato preavvertito. Ma da chi e in che modo? Questo restava un mistero.

Suonarono le undici, e nessuno pensava di andare a dormire.

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Infine Kirìla Petróviè disse rabbiosamente al commissario:

«Ebbene? Mica rimarrai qui fino all'alba! Casa mia non è una bettola. Non è con la tua abilità, amico, che si acchiappa Dubróvskij, ammesso che sia Dubróvskij. Vattene a casa, e d'ora in avanti sii più in gamba. E anche per voi è ora di tornarvene a casa», continuò, rivolto agli ospiti. «Fate attaccare i cavalli, ho voglia di andare a dormire».

Così poco graziosamente Troekùrov si congedò dai suoi ospiti.

XIII

Passò qualche tempo senza nessun fatto degno di nota. Ma all'inizio dell'estate successiva avvennero molti cambiamenti nella vita familiare di Kirìla Petróviè.

A trenta verste dal suo si trovava il ricco possedimento del principe Veréjskij. Il principe aveva soggiornato a lungo in terre straniere, tutta la sua proprietà era amministrata da un maggiore a riposo, e non esisteva alcun rapporto fra Pokróvskoe e Arbàtovo. Ma alla fine di maggio il principe ritornò dall'estero e arrivò nella sua campagna, che non aveva ancora mai visto in vita sua. Abituato agli svaghi, non riusciva a sopportare la solitudine e tre giorni dopo il suo arrivo si recò a pranzare da Troekùrov, suo conoscente di un tempo.

Il principe era prossimo ai cinquant'anni, ma sembrava molto più vecchio. Eccessi di ogni genere avevano spossato la sua salute, e impresso su di lui il loro marchio indelebile. Nonostante questo, il suo aspetto era gradevole, si faceva notare, e l'abitudine a stare sempre in società gli conferiva una certa amabilità, soprattutto con le donne. Aveva un'incessante necessità di distrarsi, e si annoiava incessantemente. Kirìla Petróviè fu straordinariamente contento della sua visita, che accolse come un segno di rispetto da parte di un uomo esperto del mondo; secondo la sua abitudine, fece gli

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onori di casa proponendo una visita ai suoi allevamenti, e lo condusse nel canile. Ma il principe per poco non restò soffocato da quell'atmosfera canina, e ne uscì fuori in fretta, tappandosi il naso con un fazzoletto spruzzato di profumo. L'antico giardino con i suoi tigli potati, lo stagno quadrangolare e i viali regolari non gli piacque; lui amava i giardini all'inglese e la cosiddetta natura, ma lo lodò e lo ammirò comunque; un servo venne ad annunciare che il pranzo era in tavola. Andarono a mangiare. Il principe zoppicava un po', stanco della passeggiata, e si pentiva già della sua visita.

Ma in sala li accolse Mar'ja Kirìlovna, e il vecchio cascamorto restò impressionato dalla sua bellezza. Troekùrov fece sedere l'ospite accanto a lei. Il principe, rianimato dalla sua presenza, era allegro e riuscì diverse volte a richiamare la sua attenzione coi suoi curiosi racconti. Dopo pranzo Kirìla Petróviè propose una passeggiata a cavallo, ma il principe si scusò, mostrando le sue scarpe di velluto e scherzando sulla sua podagra; preferì una passeggiata in carrozza, per non separarsi dalla sua cara vicina. La carrozza fu attaccata. I vecchi e la bella fanciulla vi salirono tutt'e tre e partirono. La conversazione non si interrompeva. Mar'ja Kirìlovna ascoltava con piacere i lusinghieri e vivaci complimenti di quell'uomo di mondo, quando a un tratto Veréjskij, rivolgendosi a Kirìla Petróviè, gli domandò che cosa fosse quella costruzione bruciata, e se appartenesse a lui... Kirìla Petróviè si accigliò; i ricordi risvegliati in lui dalla casa incendiata gli riuscivano sgradevoli. Rispose che la terra adesso era sua e prima apparteneva a Dubróvskij.

«A Dubróvskij?», ripeté Veréjskij, «come, a quel famoso brigante?...».

«A suo padre», rispose Troekùrov, «ma anche il padre comunque era un bel brigante».

«E dov'è andato a finire il nostro Rinaldo? È vivo? L'hanno

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acchiappato?».

«È vivo e in libertà, e fintanto che i nostri commissari se l'intenderanno coi ladri non verrà catturato; a proposito, principe, Dubróvskij sarà pur passato da te ad Arbàtovo?».

«Sì, l'anno scorso mi sembra abbia incendiato o saccheggiato qualcosa... Non è vero, Mar'ja Kirìlovna, che sarebbe interessante conoscere più da vicino quest'eroe romantico?».

«Altro che interessante!», disse Troekùrov. «Lei lo conosce: le ha insegnato musica per tre settimane di seguito, ma, grazie a Dio, non ha preso niente per le lezioni». A questo punto Kirìla Petróviè si mise a raccontare la storia del maestro francese. Mar'ja Kirìlovna stava sulle spine. Veréjskij ascoltò con profonda attenzione, tutto questo gli sembrò assai strano e cambiò discorso. Al rientro dalla gita fece preparare la sua carrozza e, nonostante le incalzanti preghiere di Kirìla Petróviè di fermarsi a passare la notte lì, partì subito dopo il tè. Ma prima pregò Kirìla Petróviè di venirlo a trovare con Mar'ja Kirìlovna, e il superbo Troekùrov lo promise, perché, dopo aver preso in considerazione il titolo di principe, le due decorazioni e le tremila anime di patrimonio, considerava in una certa misura il principe Veréjskij suo pari.

Due giorni dopo questa visita Kirìla Petróviè si recò con la figlia in visita dal principe Veréjskij. Avvicinandosi ad Arbàtovo non poté fare a meno di ammirare le izbe pulite e allegre dei contadini e la casa padronale di pietra, costruita nello stile dei castelli inglesi. Davanti alla casa si stendeva un prato d'un verde intenso, sul quale pascolavano mucche svizzere che facevano risuonare i loro campanacci. Un vasto parco circondava la casa da ogni parte. Il padrone di casa accolse gli ospiti presso la scalinata d'ingresso, e diede il braccio alla bella fanciulla. Entrarono in una splendida sala, dove la tavola era stata imbandita per tre persone. Il principe condusse gli ospiti alla finestra, e a loro si aprì una vista incantevole. Il Volga scorreva davanti alle finestre; vi passavano barconi carichi sotto le vele tese, e scivolavano barche da pesca,

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così espressivamente soprannominate «ammazzagente». Oltre il fiume si stendevano colline e campi; diversi villaggi ravvivavano i dintorni. Poi si misero a guardare la galleria dei quadri, acquistati dal principe in terra straniera. Il principe spiegava a Mar'ja Kirìlovna il loro diverso contenuto, la storia dei pittori, ne mostrava qualità e difetti. Parlava dei quadri non nel linguaggio convenzionale del conoscitore pedante, ma con sentimento e immaginazione. Mar'ja Kirìlovna lo ascoltava con piacere. Sedettero a tavola. Troekùrov rese pienamente giustizia ai vini del suo anfitrione e all'arte del suo cuoco; Mar'ja Kirìlovna non avvertiva il minimo imbarazzo o soggezione nel conversare con un uomo che vedeva solo per la seconda volta in vita sua. Dopo pranzo il padrone di casa propose agli ospiti di andare in giardino. Bevvero il caffè in un padiglione sulla riva di un vasto lago, costellato di isole. All'improvviso si diffuse una musica di strumenti a fiato, e una barca a sei remi approdò proprio accanto al padiglione. Fecero un giro sul lago, attorno alle isole, ne visitarono alcune, trovarono su un'isola una statua di marmo, su un'altra una grotta isolata, su una terza un monumento con una misteriosa iscrizione, che destò in Mar'ja Kirìlovna una curiosità fanciullesca non del tutto soddisfatta dalle cortesi reticenze del principe. Il tempo passò quasi senza accorgersene, cominciò a imbrunire. Il principe, col pretesto del fresco e della rugiada, si affrettò a tornare a casa; il samovàr li aspettava. Il principe pregò Mar'ja Kirìlovna di fare da padrona nella sua casa di vecchio scapolo. Lei versò il tè, ascoltando gli inesauribili racconti dell'amabile chiacchierone; a un tratto echeggiò uno sparo, e un razzo rischiarò il cielo. Il principe porse a Mar'ja Kirìlovna uno scialle e invitò gli ospiti sul balcone. Davanti alla casa, nell'oscurità, si accesero fuochi multicolori, cominciarono a girare, si levarono in alto formando spighe, palme, fontane; si spargevano a pioggia, a stelle; si spegnevano e si accendevano di nuovo. Mar'ja Kirìlovna si divertiva come una bambina.

Il principe Veréjskij gioiva del suo entusiasmo e Troekùrov era

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straordinariamente soddisfatto di lui, perché prendeva tous les frais del principe come segni del suo rispetto e desiderio di compiacergli.

La cena, quanto ai pregi, non fu in nulla da meno del pranzo. Gli ospiti raggiunsero le stanze loro assegnate, e l'indomani mattina si congedarono dal gentile padrone di casa, dopo essersi promessi scambievolmente di rivedersi presto.

XIV

Mar'ja Kirìlovna sedeva in camera sua ricamando al telaio, davanti alla finestra aperta. Non confondeva le sete come l'amante di Konrad che, nella sua distrazione d'amore, ricamò una rosa con la seta verde. Sotto il suo ago la tela ripeteva senza errori i disegni dell'originale; nonostante questo, i suoi pensieri non tenevano dietro al lavoro, erano lontani.

All'improvviso nella finestra si allungò pian piano una mano, qualcuno posò sul telaio una lettera e sparì prima che Ma-r'ja Kirìlovna facesse in tempo a riaversi. In quello stesso istante entrò un servitore e la chiamò da parte di Kirìla Petróviè. Lei nascose con trepidazione la lettera sotto il fazzoletto e si affrettò nello studio del padre.

Kirìla Petróviè non era solo. Il principe Veréjskij era seduto accanto a lui. Non appena apparve Mar'ja Kirìlovna il principe si alzò e s'inchinò in silenzio, con un imbarazzo insolito da parte sua.

«Avvicinati, Maša», disse Kirìla Petróviè, «ho per te una notizia che, spero, ti farà piacere. Eccoti il fidanzato: il principe chiede la tua mano».

Maša restò di sasso, un pallore mortale le coprì il viso. Taceva. Il principe le si avvicinò, le prese una mano e con aria commossa domandò se acconsentiva di fare la sua felicità. Maša taceva.

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«Acconsente, certo che acconsente», disse Kirìla Petróviè, «ma sai, principe, per una fanciulla è difficile pronunciare questa parola. Su, figlioli, baciatevi e siate felici».

Maša restava immobile, il vecchio principe le baciò la mano; all'improvviso le lacrime scesero lungo il suo volto pallido. Il principe increspò leggermente le ciglia.

«Vai, vai, vai», disse Kirìla Petróviè, «asciugati le lacrime e torna da noi bella allegra. Piangono tutte all'annuncio del fidanzamento», continuò, rivolgendosi a Veréjskij, «per loro ormai è la regola... Adesso, principe, parliamo un po' di cose serie, cioè della dote».

Mar'ja Kirìlovna approffittò con prontezza del permesso di allontanarsi. Corse in camera sua, vi si rinchiuse e diede sfogo alle sue lacrime, immaginandosi moglie del vecchio principe; le parve a un tratto repellente e odioso... il matrimonio la spaventava, come il patibolo, come la tomba... «No, no», ripeteva disperatamente, «piuttosto morire, piuttosto il convento, piuttosto sposo Dubróvskij». In quel momento si ricordò della lettera e si precipitò affannosamente a leggerla, presentendo che veniva da lui. Effettivamente era stata scritta da lui e conteneva solo le seguenti parole: «Stasera alle dieci, allo stesso posto».

XV

La luna brillava, la notte di luglio era calma, di tanto in tanto si alzava un venticello, e un leggero fruscio correva per tutto il giardino.

Come un'ombra leggera, la giovane bellezza si avvicinò al luogo dell'appuntamento. Non si vedeva ancora nessuno; a un tratto, da dietro il padiglione, Dubróvskij apparve davanti a lei.

«So tutto», le disse con voce sommessa e triste. «Ricordate la

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vostra promessa».

«Mi offrite la vostra protezione», rispose Maša, «ma non vi adirate: essa mi spaventa. In che modo mi verrete in aiuto?».

«Potrei liberarvi dell'uomo che vi è odioso».

«Per amor di Dio, non lo toccate, non osate toccarlo, se mi amate. Non voglio essere la causa di qualche orrore...».

«Non lo toccherò, la vostra volontà per me è sacra. Vi deve la vita. Mai un misfatto sarà compiuto in vostro nome. Voi dovete restare pura anche nei miei delitti! Ma come vi salverò da un padre crudele?».

«C'è ancora speranza. Spero di commuoverlo con le mie lacrime e la mia disperazione. È ostinato, ma mi vuole così bene!».

«Non sperate invano: in queste lacrime vedrà solo la solita paura e ripugnanza, comune a tutte le ragazze giovani che si sposano non per passione, ma per un calcolo avveduto; se però si mettesse in testa di fare la vostra felicità a dispetto di voi stessa? Se vi conducesse a forza all'altare, per affidare una volta per tutte la vostra sorte al potere di un marito vecchio?».

«Allora, allora non c'è niente da fare, venite a prendermi, e sarò vostra moglie».

Dubróvskij ebbe un tremito, il suo pallido viso si coprì di rossore e nello stesso momento divenne ancora più pallido. Tacque a lungo, a capo chino.

«Raccogliete tutte le forze dell'anima vostra e supplicate vostro padre, gettatevi ai suoi piedi, rappresentategli tutto l'orrore del futuro, la vostra giovinezza che appassirà accanto a un vecchio malaticcio e perverso, risolvetevi a una spiegazione crudele: ditegli che se resterà inflessibile, voi, voi ricorrerete a una difesa tremenda, ditegli che la ricchezza non vi darà neppure un istante di felicità; che il lusso conforta la sola povertà, e anche questo per un

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attimo a causa della novità; non vi arrendete, non vi spaventate né della sua ira, né delle minacce; fintanto che vi resterà anche un'ombra di speranza, per amor di Dio, non cedete. E se non ci sarà nessun altro mezzo...».

A questo punto Dubróvskij si coprì il viso con le mani, sembrava che soffocasse. Maša piangeva.

«Miserabile, miserabile la mia sorte», disse il giovane, sospirando amaramente. «Per voi darei la vita; vedervi da lontano, sfiorarvi la mano m'inebriava. E quando mi si apre la possibilità di stringervi al mio cuore tormentato e di dirvi: angelo mio, moriamo insieme! povero me, devo guardarmi dalla beatitudine, e allontanarla con tutte le mie forze. Non oso cadere ai vostri piedi, ringraziare il cielo per questa inconcepibile immeritata ricompensa. Oh, come devo odiare colui... ma sento che adesso nel mio cuore non c'è posto per l'odio».

Abbracciò delicatamente la vita snella di lei, e l'attrasse piano al suo cuore. Lei appoggiò fiduciosa la testa sulla spalla del giovane brigante. Tacevano entrambi.

Il tempo volava. «È ora», disse infine Maša. Dubróvskij parve destarsi dal sonno. Le prese la mano e le infilò al dito un anello.

«Se deciderete di ricorrere a me», disse, «portate qui l'anello e fatelo cadere nel cavo di questa quercia. Saprò io che cosa fare».

Dubróvskij le baciò la mano e sparì fra gli alberi.

XVI

La richiesta di matrimonio del principe Veréjskij non era più un segreto per il vicinato. Kirìla Petróviè riceveva le congratulazioni; si facevano i preparativi per le nozze. Maša rimandava di giorno in giorno l'annuncio definitivo. Frattanto il suo contegno col vecchio fidanzato era freddo e forzato. Il principe non se ne preoccupava.

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Non cercava di ottenere l'amore, soddisfatto del tacito consenso di lei.

Ma il tempo passava. Maša decise finalmente di agire e scrisse una lettera al principe Veréjskij; cercava di destare nel cuore di lui un sentimento di generosità, confessava apertamente di non provare per lui il minimo affetto, lo scongiurava di rinunciare alla sua mano e di difenderla lui stesso dall'autorità del padre. Consegnò di nascosto la lettera al principe Veréjskij, questi la lesse quando restò solo e non fu affatto commosso dalla sincerità della sua fidanzata. Al contrario, giudicò necessario affrettare le nozze e a questo scopo ritenne di dover mostrare la lettera al futuro suocero.

Kirìla Petróviè s'infuriò; a stento il principe riuscì a convincerlo di non far neppure sospettare a Maša di essere al corrente della lettera. Kirìla Petróviè acconsentì a non farne parola, ma decise di non perdere tempo e fissò le nozze per il giorno dopo. Il principe trovò la cosa assai ragionevole, andò dalla sua fidanzata, le disse che la lettera l'aveva molto rattristato, ma che sperava col tempo di meritare il suo affetto, che il pensiero di perderla era troppo penoso per lui, e che non aveva la forza di accettare la propria condanna a morte. Quindi le baciò rispettosamente la mano e se ne andò, senza dirle neanche una parola della decisione di Kirìla Petróviè.

Ma non fece in tempo a uscire dal cortile che entrò il padre e le ordinò chiaro e tondo di trovarsi pronta per il giorno dopo. Mar'ja Kirìlovna, già turbata dalla spiegazione del principe Veréjskij, si sciolse in lacrime e si gettò ai piedi del padre.

«Babbino», gridò con voce lamentosa, «babbino, non mi rovinate, io non amo il principe, non voglio essere sua moglie...».

«Che vuol dire questo», disse minacciosamente Kirìla Petróviè, «finora sei stata zitta e acconsentivi, e adesso, che tutto è deciso, ti viene in mente di fare i capricci e di rinnegare. Non ti permettere di fare sciocchezze; così non hai nulla da guadagnare con me».

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«Non mi rovinate», ripeteva la povera Maša, «perché mi mandate via da voi e mi date a un uomo che non amo? Vi ho forse stancato? Io voglio restare con voi come prima. Babbino, senza di me sarete triste, e ancor più lo sarete al pensiero che sono infelice, babbino: non mi costringete, io non mi voglio sposare...».

Kirìla Petróviè era commosso, ma nascose il suo turbamento e, respingendola, disse severamente:

«Sono tutte sciocchezze, hai sentito? Io so meglio di te quel che ti occorre per la tua felicità. Le lacrime non ti aiuteranno, il tuo matrimonio sarà dopodomani».

«Dopodomani!», gridò Maša, «Dio mio! No, no, è impossibile, questo non succederà. Babbo, ascoltate, se ormai avete deciso di rovinarmi mi troverò un difensore che neanche ve lo credete e vedrete, proverete orrore di quello a cui mi avete spinta».

«Cosa? Cosa?», disse Troekùrov, «minacce! Minacce a me, ragazzina insolente! Ma lo sai o no che farò di te quello che non t'immagini neppure? Osi farmi paura con un difensore! Vedremo chi sarà questo difensore».

«Vladìmir Dubróvskij», rispose Maša disperata.

Kirìla Petróviè pensò che fosse diventata matta, e la guardò sbalordito.

«Bene», le disse, dopo un breve silenzio. «Aspettati chi vuoi come salvatore, ma per ora resta in questa stanza, non ne uscirai fino al matrimonio». Così dicendo Kirìla Petróviè uscì e chiuse la porta a chiave dietro di sé.

La povera fanciulla pianse a lungo, immaginando tutto quello che l'attendeva, ma la burrascosa spiegazione le aveva alleggerito l'anima, e poté ragionare più tranquillamente sulla propria sorte e su quello che le conveniva fare. La cosa principale per lei era liberarsi da quell'odioso matrimonio; il destino di moglie di un brigante le sembrava un paradiso al confronto della sorte che le era

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stata preparata. Guardò l'anello che le aveva lasciato Dubróvskij. Desiderava ardentemente rivederlo a quattr'occhi e consultarsi ancora una volta a lungo con lui prima del momento decisivo. Un presentimento le diceva che quella sera avrebbe trovato Dubróvskij in giardino, presso il padiglione; decise di andare ad aspettarlo lì, non appena si fosse fatto buio. Scese il crepuscolo. Maša si preparò, ma la sua porta era chiusa a chiave. La cameriera le rispose da dietro la porta che Kirìla Petróviè aveva dato l'ordine di non lasciarla uscire. Era in arresto. Profondamente offesa, si sedette alla finestra e fino a notte fonda rimase lì senza spogliarsi, guardando immobile il cielo scuro. All'alba si assopì, ma il suo sonno leggero fu turbato da tristi visioni, e i raggi del sole nascente presto la destarono.

XVII

Si svegliò, e col primo pensiero le si presentò tutto l'orrore della sua situazione. Suonò il campanello, la cameriera entrò e alle sue domande rispose che Kirìla Petróviè la sera prima era andato ad Arbàtovo ed era rientrato tardi, aveva dato l'ordine perentorio di non lasciarla uscire dalla sua stanza e di sorvegliare che nessuno le parlasse e, comunque, non si vedevano speciali preparativi per le nozze, tranne che era stato ordinato al prete di non allontanarsi dal villaggio per nessun motivo. Dopo queste notizie la cameriera lasciò Mar'ja Kirìlovna e chiuse di nuovo la porta a chiave.

Le sue parole esasperarono la giovane reclusa; aveva la testa in fiamme, il sangue in agitazione; decise di far sapere tutto a Dubróvskij e cominciò a cercare il modo di far arrivare l'anello nel cavo della quercia segreta; in quel momento un sassolino batté contro la finestra, il vetro tintinnò, e Mar'ja Kirìlovna guardò fuori e vide il piccolo Saša che le faceva dei segni misteriosi. Sapeva che le era affezionato e fu contenta di vederlo. Aprì la finestra.

«Salve, Saša», disse, «perché mi chiami?».

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«Sono venuto, sorellina, per sapere se avete bisogno di qualcosa. Il babbo è adirato e ha proibito a tutti in casa di obbedirvi, ma ordinate a me di fare quello che volete, e io per voi farò tutto».

«Grazie, mio caro Sàšen'ka, ascolta: conosci la vecchia quercia cava che sta accanto al padiglione?».

«Sì, sorellina».

«Allora, se mi vuoi bene, corri là presto e metti nel cavo quest'anello qui, ma bada che nessuno ti veda».

Detto questo gli gettò l'anello e richiuse la finestra.

Il bambino raccolse l'anello, si mise a correre a perdifiato e in tre minuti fu presso l'albero segreto. Là si fermò col fiato grosso, si guardò intorno da tutte le parti e mise l'anello nel cavo. Svolto felicemente il suo compito, voleva informarne subito Mar'ja Kirìlovna quando a un tratto un ragazzino stracciato, rosso di capelli e strabico, guizzò da dietro il padiglione, si precipitò verso la quercia e infilò il braccio dentro al cavo. Saša, più veloce di uno scoiattolo, si gettò su di lui e gli si aggrappò con tutte e due le mani.

«Che ci fai qui?», disse minaccioso.

«Che te n'importa?», rispose il ragazzino, cercando di liberarsi da lui.

«Lascia quell'anello, lepre rossa», gridò Saša, «o ti do una lezione come dico io».

Invece di rispondere quello lo colpì con un pugno sul viso, ma Saša non lo lasciò e si mise a gridare a squarciagola: «Al ladro, al ladro! Correte...».

Il ragazzino si sforzava di divincolarsi. Aveva, apparentemente, un paio d'anni più di Saša, ed era molto più forte di lui, ma Saša era più agile. Lottarono per qualche minuto, infine il ragazzo rosso

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ebbe il sopravvento. Rovesciò Saša in terra e lo afferrò per la gola.

Ma in quel momento una mano forte lo agguantò per i capelli rossi e ispidi, e il giardiniere Stepàn lo sollevò a mezzo braccio da terra...

«Ah, furbacchione rosso», disse il giardiniere, «come ti permetti di picchiare il padroncino?...».

Saša aveva fatto in tempo a saltar su e a rimettersi in ordine.

«Mi hai preso per le ascelle», disse, «altrimenti non mi avresti mai messo a terra. Ridammi subito l'anello e fila».

«Come no», rispose il rosso e, fatto all'improvviso un giro su se stesso, liberò le sue setole dalla mano di Stepàn. A quel punto si mise a correre, ma Saša lo raggiunse, gli diede uno spintone nella schiena e il ragazzino cadde lungo disteso. Il giardiniere l'acchiappò di nuovo e lo legò con la cintura.

«Restituisci l'anello!», gridava Saša.

«Aspetta, signore», disse Stepàn, «portiamolo a farlo punire dall'amministratore».

Il giardiniere condusse il prigioniero nella corte padronale e Saša lo accompagnò, guardando con apprensione i propri pantaloni a sbuffo, strappati e macchiati di verde. All'improvviso tutti e tre si ritrovarono davanti a Kirìla Petróviè, che andava a ispezionare la scuderia.

«Che sarebbe?», chiese a Stepàn.

Stepàn in poche parole descrisse tutto l'accaduto. Kirìla Petróviè lo ascoltò attentamente.

«Tu, birbante», disse, rivolgendosi a Saša, «perché ti sei accapigliato con lui?».

«Ha rubato l'anello dal cavo dell'albero, babbo; comandategli di restituire l'anello».

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«Che anello, da quale cavo?».

«Mar'ja Kirìlovna me l'ha... quell'anello...».

Saša si turbò, si confuse. Kirìla Petróviè si rabbuiò e disse, scuotendo il capo: «Qui c'entra Mar'ja Kirìlovna. Confessa tutto, oppure ti darò tante di quelle frustate che non riconoscerai più neanche i parenti».

«Quant'è vero Iddio, babbo, io, babbo... Mar'ja Kirìlovna non mi ha ordinato nulla, babbo».

«Stepàn, va' a tagliarmi una bella verga fresca di betulla...».

«Un momento, babbo, vi dirò tutto. Oggi correvo nel cortile quando la sorellina Mar'ja Kirìlovna ha aperto la finestra, e io sono accorso da lei, e la sorellina ha lasciato cadere per sbaglio un anello, e io l'ho nascosto nel cavo, e... e... questo ragazzino rosso voleva rubarlo...».

«L'ha fatto cadere per sbaglio, e tu lo volevi nascondere. Stepàn, va' a prendere le verghe».

«Babbino, aspettate, dirò tutto. La sorellina Mar'ja Kirìlovna mi ha ordinato di andare di corsa alla quercia e di mettere l'anello nel cavo, allora sono corso alla quercia e vi ho messo l'anello, ma questo ragazzaccio...».

Kirìla Petróviè si rivolse al ragazzaccio e gli chiese con fare minaccioso: «A chi appartieni?».

«Appartengo alla servitù dei signori Dubróvskij», rispose il ragazzino rosso.

Il volto di Kirìla Petróviè si rabbuiò.

«Dunque non mi riconosci come padrone», rispose. «E che facevi nel mio giardino?».

«Rubavo i lamponi», rispose il ragazzino del tutto indifferente.

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«Aha, il servo assomiglia al padrone, quale il prete tale la parrocchia. E crescono forse sulle querce a casa mia i lamponi?».

Il ragazzino non rispondeva niente.

«Babbo, ordinategli di restituire l'anello», disse Saša.

«Zitto, Aleksàndr», rispose Kirìla Petróviè, «non ti dimenticare che sto per fare i conti con te. Vattene in camera tua. Tu, strabico, mi sembri uno che la sa lunga. Restituisci l'anello e vattene a casa».

Il ragazzino aprì il pugno e mostrò che non aveva niente in mano.

«Se mi confesserai tutto non ti frusterò, e ti darò anche cinque copechi per le noci; altrimenti farò di te quello che neanche t'aspetti. Allora?».

Il ragazzino non rispondeva una parola e stava fermo, a testa bassa, con l'aria di un perfetto scemo.

«Bene», disse Kirìla Petróviè, «lo si rinchiuda da qualche parte e si stia attenti che non scappi, o scorticherò tutta la casa».

Stepàn portò il ragazzino nella colombaia, ve lo rinchiuse e mise a sorvegliarlo la vecchia guardiana degli uccelli Agàf'ja.

«Adesso bisogna andare in città a chiamare il commissario», disse Kirìla Petróviè, accompagnando il ragazzino con gli occhi, «e al più presto».

«Qui non c'è alcun dubbio. Ha mantenuto i rapporti con quel maledetto Dubróvskij. Ma è possibile che l'abbia chiamato davvero in suo aiuto?», pensava Kirìla Petróviè, passeggiando per la stanza e fischiettando irosamente Tuono della vittoria. «Forse mi sono imbattuto finalmente in sue tracce recenti, e non ci sfuggirà. Approfitteremo dell'occasione. Senti, senti! Un sonaglio, grazie a Dio; questo è il commissario».

«Ehi, sia condotto qui il ragazzino che è stato acchiappato».

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Intanto una carretta fece ingresso nel cortile, e il commissario che già conosciamo entrò nella stanza tutto impolverato.

«Una bella notizia», gli disse Kirìla Petróviè, «ho catturato Dubróvskij».

«Dio sia lodato, vostra eccellenza», disse il commissario con aria soddisfatta, «e dov'è?».

«Cioè, non Dubróvskij, ma uno della sua banda. Adesso verrà portato qui. Ci aiuterà ad acchiappare il suo capo. Ecco che lo stanno portando».

Il commissario, che si aspettava un terribile brigante, rimase stupefatto nel vedere un ragazzino di tredici anni, piuttosto gracile d'aspetto. Si voltò sconcertato verso Kirìla Petróviè in attesa di spiegazioni. Kirìla Petróviè si mise subito a raccontare quello che era successo la mattina, senza nominare però Mar'ja Kirìlovna.

Il commissario lo ascoltò con attenzione, gettando ogni momento un'occhiata al piccolo furfante, che, fingendosi stupido, sembrava non prestare alcuna attenzione a quello che gli succedeva intorno.

«Permettete, vostra eccellenza, che io vi parli a quattr'occhi», disse infine il commissario.

Kirìla Petróviè lo condusse in un'altra stanza, e chiuse la porta dietro di sé.

Dopo mezz'ora rientrarono nella sala dove il prigioniero aspettava che si decidesse la sua sorte.

«Il signore», gli disse il commissario, «voleva farti rinchiudere nella prigione della città, farti frustare e poi mandarti al confino, ma io ho preso le tue difese e ho ottenuto che ti perdonasse. Slegatelo!».

Il ragazzino fu slegato.

«Ringrazia dunque il padrone», disse il commissario. Il ragazzino

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si accostò a Kirìla Petróviè e gli baciò la mano.

«Vattene a casa», gli disse Kirìla Petróviè, «e d'ora in avanti non rubare i lamponi nei cavi degli alberi».

Il ragazzino uscì, saltò allegramente giù dal terrazzino e si mise a correre per i campi senza voltarsi, in direzione di Kistenëvka. Giunto di corsa al villaggio si fermò a una piccola izba semicadente, la prima all'estremità del villaggio, e picchiò a una finestrella; la finestrella si sollevò, e apparve una vecchia.

«Nonna, del pane», disse il ragazzino, «da stamattina non ho mangiato niente, muoio di fame».

«Ah, sei tu, Mitja; ma dov'eri andato a finire, diavoletto?», rispose la vecchia.

«Te lo racconterò dopo, nonna; in nome di Dio, dammi del pane».

«Ma entra in casa».

«Non ho tempo, nonna, devo correre ancora in un altro posto. Del pane, in nome di Dio, del pane».

«Che indemoniato», brontolò la vecchia, «to', eccotene una fettina», e gli passò dalla finestra una fetta di pane nero. Il ragazzino lo addentò avidamente e, masticando, riprese immediatamente la sua corsa.

Cominciava a imbrunire. Mitja si faceva largo, attraverso aie e orti, verso il boschetto di Kistenëvka. Arrivato ai due pini che si ergevano come sentinelle di prima linea del boschetto, si fermò, si guardò in giro da tutte le parti, emise un fischio acuto e intermittente e restò in ascolto; in risposta si udì un fischio leggero e prolungato; qualcuno uscì dal boschetto e gli si avvicinò.

XVIII

Kirìla Petróviè andava avanti e indietro per la sala fischiettando

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più forte del solito la sua canzone; tutta la casa era in movimento, i servi correvano, le cameriere s'affaccendavano; nella rimessa i cocchieri attaccavano la carrozza, in cortile gente faceva ressa. Nella toletta della signorina, davanti allo specchio, una signora, circondata da servette, acconciava la pallida, immobile Mar'ja Kirìlovna; la sua testa s'inclinava languidamente sotto il peso dei brillanti, lei sussultava leggermente quando la mano disattenta la pungeva, ma taceva guardandosi imbambolata allo specchio.

«Avete finito?», si udì alla porta la voce di Kirìla Petróviè.

«Subito!», rispose la signora. «Mar'ja Kirìlovna, alzatevi e guardatevi, va bene?».

Mar'ja Kirìlovna si alzò e non rispose niente. La porta si aprì.

«La sposa è pronta», disse la signora a Kirìla Petróviè, «date ordine di salire in carrozza».

«Che Dio ci assista», rispose Kirìla Petróviè e, presa dal tavolo l'immagine sacra, «avvicinati, Maša», le disse con voce commossa, «ti benedico...». La povera fanciulla gli cadde ai piedi e si mise a singhiozzare.

«Babbino... babbino...», diceva fra le lacrime, e la voce le si smorzava. Kirìla Petróviè si affrettò a benedirla, poi la fanciulla fu sollevata e quasi portata di peso in carrozza. Con lei presero posto la madrina di nozze e una delle cameriere. Andarono in chiesa. Lo sposo era già lì ad aspettarli. Uscì incontro alla sposa e restò colpito dal suo pallore e dal suo strano aspetto. Entrarono insieme in una chiesa fredda, vuota; la porta fu richiusa dietro di loro. Il prete uscì da dietro l'altare e subito cominciò la cerimonia. Mar'ja Kirìlovna non vedeva nulla, non sentiva nulla, pensava a una cosa sola, fin dal mattino aspettava Dubróvskij, la speranza non l'aveva abbandonata neppure un istante, ma, quando il prete le si rivolse con le domande di rito, lei trasalì e si sentì mancare; eppure ancora indugiava, ancora aspettava; il prete, senza attendere la sua

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risposta, pronunciò le parole irrevocabili.

La cerimonia era finita. Lei sentì il freddo bacio del consorte non amato, udì le allegre felicitazioni dei presenti e continuò a non poter credere che la sua vita fosse vincolata per sempre, che Dubróvskij non si fosse precipitato a liberarla. Il principe si rivolse a lei con parole affettuose, lei non le capì, uscirono dalla chiesa, i contadini di Pokróvskoe si accalcavano sul sagrato. Il suo sguardo li scorse rapidamente e tornò assente. I novelli sposi salirono insieme in carrozza e andarono ad Arbàtovo; Kirìla Petróviè era andato avanti ad accoglierli. Rimasto solo con la giovane moglie il principe non fu affatto turbato dalla sua freddezza. Non si mise a molestarla con dichiarazioni sdolcinate e ridicoli entusiasmi, le sue parole erano semplici e non esigevano risposte. In questo modo percorsero circa dieci verste, i cavalli volavano veloci sugli avvallamenti della strada di campagna, e la carrozza quasi non ondeggiava sulle sue molle inglesi. All'improvviso si udirono le grida di un inseguimento, la carrozza si fermò, una folla di uomini armati la circondò, e un uomo mascherato aprì lo sportello dalla parte dov'era seduta la giovane principessa e le disse: «Siete libera, scendete». «Che significa questo?», gridò il principe, «chi sei?...». «È Dubróvskij», disse la principessa. Il principe, senza perdere la presenza di spirito, trasse dalla tasca laterale una pistola da viaggio, e fece fuoco contro il brigante mascherato. La principessa diede un grido e si coprì atterrita il viso con le due mani. Dubróvskij era stato ferito a una spalla: il sangue cominciò a scorrere. Il principe, senza perdere un attimo, tirò fuori un'altra pistola, ma non gli fu dato il tempo di sparare, lo sportello si spalancò, e molte braccia robuste lo trascinarono fuori della carrozza e gli strapparono la pistola. Su di lui lampeggiarono coltelli.

«Non lo toccate!», gridò Dubróvskij, e i suoi tenebrosi complici si ritrassero.

«Siete libera», continuò Dubróvskij, rivolgendosi alla pallida

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principessa.

«No», rispose lei. «È tardi, sono sposata, sono la moglie del principe Veréjskij».

«Che dite!», gridò Dubróvskij disperato, «no, voi non siete sua moglie, voi siete stata costretta, non è possibile che abbiate mai acconsentito...».

«Ho acconsentito, ho prestato giuramento», replicò lei con fermezza, «il principe è mio marito, fatelo liberare e lasciatemi con lui. Io non vi ho ingannato. Vi ho aspettato fino all'ultimo momento... Ma adesso, vi dico, adesso è tardi. Lasciateci andare».

Ma Dubróvskij non la sentiva più, il dolore della ferita e le violente emozioni l'avevano privato delle forze. Cadde vicino a una ruota, i briganti gli si fecero intorno. Egli fece in tempo a dir loro qualche parola, lo misero a cavallo, due di loro lo sostenevano, il terzo prese il cavallo per le briglie, e deviarono tutti da una parte, lasciando la carrozza in mezzo alla strada, le persone legate, i cavalli staccati, ma senza aver saccheggiato nulla e senza aver sparso una sola goccia di sangue per vendicare il sangue del loro capo.

XIX

In mezzo a un bosco impenetrabile, in una stretta radura, si levava una piccola fortificazione, che consisteva in un vallo e in un fossato dietro ai quali si trovavano alcune capanne e rifugi sotterranei. Fuori una quantità di persone, che per la varietà del vestiario e l'armamento generale si potevano subito riconoscere per briganti, pranzavano, a testa scoperta, intorno a una pentola comune. Sul terrapieno accanto a un piccolo cannone sedeva la sentinella, con le gambe ripiegate sotto di sé; stava mettendo una toppa in una certa parte del suo vestiario, adoperando l'ago con una destrezza che rivelava il sarto esperto, e guardava

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continuamente in tutte le direzioni.

Sebbene una specie di attingitoio fosse passato diverse volte di mano in mano, un insolito silenzio dominava quella folla; i briganti finirono di pranzare, a turno si alzarono e pregarono Dio, alcuni rientrarono nelle loro capanne, altri si sparsero per il bosco o si coricarono a fare un sonnellino secondo l'abitudine russa. La sentinella finì il suo lavoro, scosse i suoi cenci, contemplò il rattoppo, si appuntò l'ago alla manica, sedette a cavallo del cannone e intonò a squarciagola la vecchia malinconica canzone:

Non stormire, madre verde foresta di querce,

Non impedire a me, giovane prode, di pensare un pensiero.

In quel momento la porta di una delle capanne si aprì, e una vecchina in cuffia bianca, vestita con linda ricercatezza, apparve sulla soglia. «Smettila, Stëpka», disse irritata, «il signore sta riposando, e tu non smetti di strillare; non avete né coscienza né pietà». «Scusate, Egórovna», rispose Stëpka, «va bene, non lo farò più; che riposi pure, il nostro bàtjuška, e si rimetta in salute». La vecchietta se ne andò, e Stëpka cominciò a passeggiare avanti e indietro sul terrapieno.

Nella capanna dalla quale era uscita la vecchia, al di là di un tramezzo, Dubróvskij ferito giaceva in un letto da campo. Le sue pistole erano su un tavolino accanto a lui, la sciabola pendeva al capezzale. Il rifugio aveva il pavimento e le pareti coperti di ricchi tappeti; in un angolo c'erano una toletta femminile d'argento e una specchiera. Dubróvskij teneva in mano un libro aperto, ma aveva gli occhi chiusi, e la vecchietta, che di tanto in tanto lo guardava da dietro il tramezzo, non poteva sapere se si fosse addormentato o stesse meditando.

A un tratto Dubróvskij trasalì: nel forte fu dato l'allarme, e Stëpka sporse il capo verso di lui dentro la finestrella. «Bàtjuška, Vladìmir Andréeviè», gridò, «i nostri danno il segnale, ci cercano». Dubróvskij balzò su dal letto, afferrò le armi e uscì dalla

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capanna. I briganti si accalcavano fuori rumorosamente; al suo apparire calò un profondo silenzio. «Siete tutti qui?», chiese Dubróvskij. «Tutti, tranne quelli di ronda», gli fu risposto. «Ai vostri posti!», gridò Dubróvskij. E ognuno dei briganti prese il posto assegnato. In quel momento tre uomini che erano di ronda accorsero verso l'ingresso della trincea. Dubròvskij andò loro incontro. «Che succede?», domandò loro. «Ci sono soldati nel bosco», risposero, «ci stanno circondando». Dubróvskij fece chiudere la porta e andò lui stesso a ispezionare il cannone. Per il bosco echeggiarono delle voci e cominciarono ad avvicinarsi; i briganti aspettavano in silenzio. All'improvviso tre o quattro soldati apparvero dal bosco e si ritirarono subito, avvertendo con degli spari i compagni. «Prepararsi al combattimento», disse Dubróvskij, e fra i briganti vi fu un brusio, poi tutto tacque di nuovo. Allora si sentì il rumore del reparto che si avvicinava, le armi brillarono fra gli alberi, circa centocinquanta soldati uscirono dal bosco e con un grido si slanciarono verso il terrapieno. Dubróvskij accostò la miccia, il colpo fu buono: a uno fu staccata via la testa, due rimasero feriti. Fra i soldati si produsse lo scompiglio, ma l'ufficiale si slanciò in avanti, i soldati lo seguirono e scesero di corsa nel fossato; i briganti spararono su di loro coi fucili e le pistole e si accinsero a difendere con le scuri in mano il terrapieno, sul quale si arrampicavano i soldati furibondi, che avevano lasciato nel fossato una ventina di compagni feriti. Cominciò una lotta corpo a corpo, i soldati erano già sul terrapieno, i briganti cominciarono a ritirarsi, ma Dubróvskij, avvicinatosi all'ufficiale, gli puntò la pistola al petto e sparò, l'ufficiale stramazzò a terra. Alcuni soldati lo raccolsero fra le braccia e lo portarono via in fretta nel bosco, gli altri, rimasti senza il comandante, si fermarono. I briganti, rincorati, approfittarono di quel momento di sconcerto, ruppero le file degli avversari, li spinsero nel fossato, gli assedianti fuggirono, i briganti si slanciarono gridando appresso a loro. La vittoria era decisa. Dubróvskij, contando sulla completa disfatta del nemico, fermò i

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suoi e si rinchiuse nel forte, dopo aver ordinato di raccogliere i feriti, fatto raddoppiare le sentinelle e proibito a chicchessia di allontanarsi.

Gli ultimi avvenimenti fecero rivolgere ormai seriamente l'attenzione del governo sugli sfrontati saccheggi di Dubróvskij. Furono raccolte informazioni sul luogo in cui viveva. Fu mandata una compagnia di soldati per catturarlo vivo o morto. Furono presi diversi uomini della sua banda dai quali si apprese che Dubróvskij non era più fra loro. Qualche giorno dopo l'attacco aveva radunato tutti i suoi complici, aveva loro dichiarato che intendeva lasciarli per sempre, e aveva consigliato anche a loro di cambiare vita. «Vi siete arricchiti sotto il mio comando, ognuno di voi ha un passaporto col quale può ritirarsi senza pericolo in qualche remota provincia e lì trascorrere il resto della vita nel lavoro onesto e nell'abbondanza. Ma voi siete tutti furfanti e, probabilmente, non vorrete abbandonare il vostro mestiere». Dopo questo discorso li lasciò, prendendo con sé il solo ***. Nessuno sapeva dove fosse andato a finire. Al principio si dubitò della verità di queste deposizioni: era famosa la fedeltà dei briganti al loro capo. Si suppose che stessero cercando di salvarlo. Ma i fatti successivi diedero loro ragione; le terribili incursioni, incendi e rapine si interruppero. Le strade divennero libere. Da altre informazioni si seppe che Dubróvskij si era rifugiato all'estero.

LA DAMA DI PICCHE

La dama di picche indica una malevolenza segreta.

L'ultimo libro dei sortilegi

I

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E nei giorni piovosi

Si riunivano spesso;

Raddoppiavan la posta - dio li perdoni! -

Da cinquanta

A cento,

E vincevano,

E segnavano la perdita

Col gesso.

Così, nei giorni piovosi,

Svolgevano la loro

Occupazione.

Un giorno si giocava a carte dall'ufficiale della guardia a cavallo Narùmov. La lunga notte invernale passò inavvertitamente; ci si sedette a cena intorno alle cinque del mattino. Quelli che avevano vinto mangiavano con grande appetito; gli altri, distratti, sedevano davanti ai piatti vuoti. Ma apparve lo champagne, la conversazione si animò, e tutti vi presero parte.

«Tu che hai fatto, Sùrin?», chiese il padrone di casa.

«Ho perso, come al solito. Bisogna ammettere che sono sfortunato: gioco a mirandole, non mi scaldo mai, non c'è verso di scompormi, eppure perdo sempre!».

«E non ti sei lasciato tentare neanche una volta? non hai puntato neanche una volta ruté?... La tua fermezza per me è sorprendente».

«E Hermann, allora», disse uno degli ospiti, indicando un giovane ufficiale del genio. «Non ha mai preso le carte in mano in vita sua, non ha mai raddoppiato una posta, ma resta con noi fino alle

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cinque a guardarci giocare!».

«Il gioco m'interessa molto», disse Hermann, «ma non sono in condizioni di sacrificare l'indispensabile nella speranza di procurarmi il superfluo».

«Hermann è tedesco: è parsimonioso, ecco tutto!», osservò Tomskij. «Invece se c'è qualcuno che non capisco è mia nonna, la contessa Anna Fedótovna».

«Come! cosa?», gridarono gli ospiti.

«Non riesco a concepire», continuò Tomskij, «per quale motivo mia nonna non giochi d'azzardo!».

«E che c'è di sorprendente», disse Narùmov, «nel fatto che una vecchia di ottant'anni non giochi d'azzardo?».

«Allora non sapete nulla di lei?».

«No! Davvero, nulla!».

«Oh, allora ascoltate:

«Bisogna sapere che mia nonna, una sessantina d'anni fa, andava a Parigi, secondo la moda di allora. La gente le correva dietro, per vedere la Vénus moscovite; Richelieu la corteggiava, e la nonna assicura che lui fu sul punto di spararsi per la crudeltà di lei.

«A quell'epoca le signore giocavano al faraone. Un giorno a corte ella perse sulla parola una somma enorme col duca d'Orléans. Arrivata a casa, la nonna, staccandosi i nei dal viso e slegandosi la crinolina, annunciò al nonno la perdita e gli ordinò di pagare.

«Il povero nonno, per quello che mi ricordo, era una specie di maggiordomo della nonna. La temeva come il fuoco, ma, sentendo di una perdita così terribile, andò fuori di sé, portò i conti, le dimostrò che in sei mesi avevano speso mezzo milione, che vicino Parigi non avevano né la tenuta moscovita, né quella di Saràtov, e si rifiutò categoricamente di pagare. La nonna gli diede uno

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schiaffo e andò a dormire sola, per dimostrargli il suo sfavore.

«Il giorno dopo fece chiamare il marito, sperando che la punizione domestica gli avesse fatto effetto, ma lo trovò inflessibile. Per la prima volta in vita sua arrivò con lui fino ai ragionamenti e alle spiegazioni; pensava di fare appello alla sua coscienza dimostrandogli con bonarietà che c'è debito e debito, e che esiste una differenza fra un principe e un carrozzaio. Macché! Il nonno insorgeva. No, e basta! La nonna non sapeva che cosa fare.

«Conosceva da vicino una persona molto importante. Avete sentito parlare del conte di Saint-Germain, del quale si raccontano tante meraviglie. Sapete che si faceva passare per l'Ebreo Errante, per l'inventore dell'elisir di lunga vita e della pietra filosofale, e così via. Lo prendevano in giro come se fosse un ciarlatano, ma Casanova nelle sue Memorie dice che era una spia; ad ogni modo Saint-Germain, nonostante la sua aria di mistero, aveva un aspetto molto rispettabile, e in società era un uomo assai cortese. La nonna tuttora lo ama alla follia e si irrita se ne sente parlare con irriverenza. Ella sapeva che Saint-Germain poteva disporre di grandi denari. Decise di ricorrere a lui. Gli scrisse un biglietto e lo pregò di passare immediatamente da lei.

«Il vecchio bizzarro si presentò all'istante e la trovò terribilmente afflitta. Lei gli descrisse a tinte foschissime la crudeltà del marito e disse infine che riponeva ogni speranza nella sua amicizia e cortesia.

«Saint-Germain si mise a riflettere.

«"Io posso mettere a vostra disposizione questa somma», disse, "ma so che voi non sarete tranquilla fintanto che non me l'avrete restituita, e io non vorrei procurarvi nuove ambasce. C'è un altro mezzo: potete prendervi la rivincita". "Ma, caro conte", rispose la nonna, "vi dico che di denaro non ne abbiamo affatto". "Qui il denaro non serve", replicò Saint-Germain: "vogliate ascoltarmi". A questo punto le svelò il segreto, per il quale chiunque di noi

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darebbe chissà che...».

I giovani giocatori raddoppiarono l'attenzione. Tomskij accese la pipa, aspirò e continuò.

«Quella sera stessa la nonna si presentò a Versailles, au jeu de la Reine. Il duca d'Orléans teneva il banco; la nonna si scusò appena di non aver portato quanto gli doveva, inventò a sua giustificazione una storiella e si mise a puntare contro di lui. Scelse tre carte, le giocò una dopo l'altra: tutte e tre la fecero vincere al primo giro, e la nonna riguadagnò tutto quello che aveva perduto».

«Un caso!», disse uno degli ospiti.

«Una favola!», osservò Hermann.

«Forse le carte erano truccate?», soggiunse un terzo.

«Non credo», rispose Tomskij con aria solenne.

«Come!», disse Narùmov, «hai una nonna che indovina tre carte di seguito, e tu non ti sei ancora impadronito della sua cabala?».

«Sì, per tutti i diavoli!», rispose Tomskij. «Ha avuto quattro figli, fra i quali anche mio padre: tutti e quattro giocatori accaniti, e a nessuno ha svelato il suo segreto, sebbene non sarebbe stato male per loro, e neppure per me. Ma ecco quel che mi ha raccontato mio zio, il conte Ivàn Il'ìè, e di cui ha garantito sul suo onore. Il defunto Èaplìckij, lo stesso che morì in miseria dopo aver sperperato milioni, una volta da giovane perse - Zóriè se lo ricorda - circa trecentomila rubli. Era disperato. La nonna, che è sempre stata severa verso la sventatezza dei giovani, chissà come mai s'impietosì di Èaplìckij. Gli indicò tre carte da puntare una dopo l'altra, e si fece dare da lui la parola d'onore che in avvenire non avrebbe mai più giocato. Èaplìckij si presentò dal vincitore: si sedettero a giocare. Èaplìckij puntò sulla prima carta cinquantamila rubli e vinse al primo giro; raddoppiò la posta, la raddoppiò ancora - riguadagnò tutto e vinse anche qualcosa...».

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«Comunque è ora di andare a dormire: sono già le sei meno un quarto».

In effetti stava già albeggiando: i giovani vuotarono i loro calici e si separarono.

II

«Il parait que Monsieur est décidément pour les suivantes».

«Que voulez-vous, Madame? Elle sont plus fraîche».

Conversazione mondana

La vecchia contessa *** sedeva davanti allo specchio nella sua stanza da toletta. Tre cameriere le stavano attorno. Una teneva in mano un contenitore di rossetto, un'altra una scatola con le forcine, la terza una cuffia alta con nastri rosso fuoco. La contessa non aveva la minima pretesa a una bellezza da tempo sfiorita, ma conservava tutte le abitudini della sua giovinezza, si atteneva severamente alla moda degli anni settanta e si vestiva sempre a lungo, sempre con la stessa cura di sessant'anni prima. Presso la finestra sedeva al telaio una signorina, la sua pupilla.

«Buon giorno, grand'maman», disse un giovane ufficiale, entrando. «Bonjour, mademoiselle Lise. Grand'maman, giungo da voi con una preghiera».

«Che cosa c'è, Paul?».

«Permettetemi di presentarvi un mio amico e di portarlo da voi venerdì al ballo».

«Portamelo direttamente al ballo, e me lo presenterai lì. Sei stato ieri dai ***?».

«Altroché! È stato molto divertente; abbiamo ballato fino alle cinque. Com'era bella la Eléckaja!».

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«Ih, caro mio! Che ci trovi di bello? Ben altro era sua nonna, la principessa Dar'ja Petróvna!... A proposito: sarà invecchiata molto ormai la principessa Dar'ja Petróvna?».

«Come, invecchiata?», rispose distrattamente Tomskij. «Saranno sette anni che è morta».

La signorina alzò la testa e fece un cenno al giovane. Lui ricordò che alla vecchia contessa si nascondeva la morte delle sue coetanee, e si morse il labbro. Ma la contessa ascoltò la notizia, per lei nuova, con grande indifferenza.

«È morta!», disse, «e io neanche lo sapevo! Siamo state nominate insieme damigelle d'onore, e quando venimmo presentate l'imperatrice...».

E per la centesima volta la contessa raccontò al nipote il suo aneddoto.

«Be', Paul», disse poi, «adesso aiutami ad alzarmi. Lizàn'ka, dov'è la mia tabacchiera?».

E la contessa andò con le cameriere dietro il paravento a finire la sua toilette. Tomskij restò con la signorina.

«Chi è che volete presentare?», domandò sottovoce Lizavéta Ivànovna.

«Narùmov. Lo conoscete?».

«No! È un militare o un borghese?».

«Un militare».

«Del genio?».

«No! Di cavalleria. Ma perché pensavate che fosse del genio?».

La signorina scoppiò a ridere e non rispose una parola.

«Paul!», gridò la contessa da dietro il paravento, «mandami qualche romanzo nuovo, ma, per piacere, non di quelli moderni».

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«Come sarebbe, grand'maman?».

«Vale a dire un romanzo in cui il protagonista non strangoli né il padre né la madre, e in cui non ci siano corpi di annegati. Ho una paura terribile degli annegati!».

«Oggi non ci sono romanzi del genere. Non ne volete forse uno russo?».

«Perché, esistono forse romanzi russi?... Mandameli, bàtjuška, mandameli, per favore!».

«Scusate, grand'maman: ho fretta... Scusate, Lizavéta Ivànovna! Perché mai credevate che Narùmov fosse nel genio?».

E Tomskij uscì dalla stanza da toletta.

Lizavéta Ivànovna restò sola: lasciò il lavoro e si mise a guardare dalla finestra. Presto, su un lato della strada, da dietro la casa d'angolo comparve un giovane ufficiale. Il rossore le coprì le guance: riprese il lavoro e chinò la testa sulla tela. In quel momento entrò la contessa, vestita di tutto punto.

«Da' ordine, Lizàn'ka», disse, «di attaccare la carrozza; andiamo a fare una passeggiata».

Lizàn'ka si alzò dal telaio e cominciò a riporre il suo lavoro.

«Ma che fai, madre mia! Sei sorda o che?», gridò la contessa. «Fa' attaccare presto la carrozza».

«Subito!», rispose piano la signorina, e corse in anticamera.

Entrò un servitore e porse alla contessa dei libri da parte del principe Pàvel Aleksàndroviè.

«Bene! Ringraziate», disse la contessa. «Lizàn'ka, Lizàn'ka! Ma dove corri?».

«A vestirmi».

«Hai tempo, màtuška. Siediti qui. Apri un po' il primo volume;

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leggi ad alta voce...».

La signorina prese il libro e lesse qualche riga. «Più forte!», disse la contessa. «Che hai, madre mia? Hai perso la voce, forse?... Aspetta: accostami lo sgabello, più vicino... su!».

Lizavéta Ivànovna lesse ancora due pagine. La contessa sbadigliò.

«Lascia perdere questo libro», disse, «che sciocchezza! Rimandalo al principe Pàvel e fallo ringraziare... Ma la carrozza?».

«La carrozza è pronta», disse Lizavéta Ivànovna, dopo aver gettato un'occhiata in strada.

«E come mai non sei vestita?», disse la contessa. «Ti si deve sempre aspettare! È insopportabile, màtuška».

Liza corse in camera sua. Non erano trascorsi due minuti che la contessa cominciò a scampanellare a tutta forza. Le tre cameriere accorsero da una porta, il cameriere da un'altra.

«Com'è che da voi non c'è verso di farsi sentire?» disse loro la contessa. «Dite a Lizavéta Ivànovna che la sto aspettando».

Lizavéta Ivànovna entrò col mantello e il cappellino.

«Finalmente, madre mia!», disse la contessa. «Che razza di eleganza! Ma a che scopo?... Chi devi sedurre?... E com'è il tempo? Mi sembra ci sia vento».

«Non ce n'è affatto, vostra eccellenza! L'aria è calmissima!», rispose il cameriere.

«Parlate sempre a vanvera! Aprite il finestrino. Proprio così: vento! e freddissimo! Staccate la carrozza! Lizàn'ka, non usciamo più: non c'era niente da mettersi in ghingheri».

«Ecco qui la mia vita!» pensò Lizavéta Ivanovna.

In verità Lizavéta Ivànovna era un'infelicissima creatura. Amaro è il pane altrui, dice Dante, e pesanti i gradini delle altrui scale; ma chi può conoscere l'amarezza della dipendenza se non la povera

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pupilla di una vecchia d'alto rango? La contessa ***, indubbiamente, non aveva un animo cattivo; ma era capricciosa come una donna viziata dalla vita mondana, avara e immersa in un freddo egoismo, come del resto tutti i vecchi, che hanno dato tutto il loro amore al loro tempo e che restano estranei al presente. Partecipava a tutte le futilità del gran mondo, si trascinava ai balli, dove restava seduta in un angolo, tutta imbellettata di rosso e vestita secondo la moda antica, come un mostruoso e inevitabile orpello della sala da ballo; gli ospiti in arrivo si avvicinavano a lei con profondi inchini, come seguendo un rito d'obbligo, e poi nessuno più si occupava di lei. In casa sua riceveva tutta la città, osservando un'etichetta rigorosa e non riconoscendo mai nessuno di persona. La numerosa servitù, che era diventata grassa e canuta nella sua anticamera e nella stanza delle cameriere, faceva quel che voleva, derubando a turno la vecchia decrepita. Lizavéta Ivànovna era la martire di casa. Serviva il tè e riceveva rimbrotti per l'eccessivo consumo di zucchero; leggeva ad alta voce i romanzi ed era colpevole di tutti gli errori dell'autore; accompagnava la contessa nelle sue passeggiate e rispondeva del tempo e del selciato. Le era stato fissato uno stipendio, che non veniva mai pagato per intero; nonostante questo da lei si pretendeva che fosse vestita come tutte, cioè come pochissime. In società aveva il ruolo più misero. Tutti la conoscevano, e nessuno faceva caso a lei; ai balli danzava solo quando mancava un vis-à-vis, e le signore la prendevano a braccetto ogni volta che avevano bisogno di andare alla toletta per riassettare qualcosa nell'abbigliamento. Era orgogliosa, capiva perfettamente la sua situazione e si guardava intorno aspettando con impazienza colui che l'avrebbe liberata; ma i giovani, calcolatori nella loro sventata vanità, non la degnavano di attenzione, anche se Lizavéta Ivànovna era cento volte più graziosa delle fredde e sfacciate ragazze da marito intorno alle quali ronzavano. Quante volte, lasciando pian piano il noioso e fastoso salotto, se ne andava a piangere nella sua povera stanza, dove c'era un paravento coperto

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di tappezzeria, un comò, un piccolo specchio, un letto verniciato, e dove una candela di sego bruciava fioca in un candeliere di rame!

Una volta - accadde due giorni dopo la serata descritta all'inizio di questo racconto, e una settimana prima della scena sulla quale ci siamo fermati - una volta Lizavéta Ivànovna, sedendo al telaio presso la finestra, gettò per caso un'occhiata sulla strada e vide un giovane ufficiale del genio, immobile con gli occhi fissi alla sua finestra. Chinò la testa e si rimise al lavoro; dopo cinque minuti guardò ancora: il giovane ufficiale stava fermo allo stesso posto. Non avendo l'abitudine di civettare con gli ufficiali che passavano, smise di guardare in strada e ricamò per quasi due ore senza sollevare la testa. Fu servito il pranzo. Ella si alzò, cominciò a metter via il suo telaio e, dando involontariamente un'occhiata alla strada, vide di nuovo l'ufficiale. Questo le parve piuttosto strano. Dopo pranzo si avvicinò alla finestra con un certo senso d'inquietudine, ma l'ufficiale non c'era più, e lei se ne dimenticò...

Un paio di giorni dopo, uscendo con la contessa per salire in carrozza, lo rivide. Stava proprio accanto all'ingresso, col viso nascosto in un bavero di castoro: i suoi occhi neri scintillavano da sotto il cappello. Lizavéta Ivànovna si spaventò, senza sapere lei stessa di che cosa, e salì in carrozza con un'inspiegabile trepidazione.

Tornata a casa corse alla finestra - l'ufficiale stava al posto di prima, con gli occhi fissi su di lei: ella si scostò, tormentata dalla curiosità e agitata da un sentimento per lei totalmente nuovo.

Da quel momento non era passato giorno senza che il giovane, a una certa ora, non apparisse sotto le finestre di casa. Fra lui e lei si stabilirono rapporti indeterminati. Mentre sedeva al suo posto a lavorare lo sentiva avvicinarsi - alzava la testa, lo guardava ogni giorno più a lungo. Il giovane sembrava essergliene grato: lei vedeva con lo sguardo acuto della giovinezza un rapido rossore ricoprirgli le pallide guance ogni volta che i loro sguardi

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s'incontravano. Dopo una settimana gli sorrise...

Quando Tomskij aveva chiesto alla contessa il permesso di presentarle un suo amico, il cuore della povera ragazza aveva cominciato a battere. Quando però seppe che Narùmov non era ufficiale del genio, ma della guardia a cavallo, si dispiacque di aver svelato con una domanda indiscreta il suo segreto al futile Tomskij.

Hermann era figlio di un tedesco russificato, che gli aveva lasciato un piccolo capitale. Fermamente convinto della necessità di consolidare la propria indipendenza, Hermann non sfiorava neppure gli interessi, viveva del suo solo stipendio, non si permetteva il minimo capriccio. Del resto era chiuso e ambizioso, e i compagni avevano raramente l'occasione di scherzare sulla sua eccessiva parsimonia. Aveva forti passioni e un'ardente immaginazione, ma la fermezza l'aveva salvato dai soliti errori di gioventù. Così, per esempio, pur essendo nell'anima un giocatore, non aveva mai preso le carte in mano, poiché aveva calcolato che il suo patrimonio non gli consentiva (come diceva lui) di sacrificare l'indispensabile nella speranza di procurarsi il superfluo, e intanto passava nottate intere ai tavoli da gioco e seguiva con febbrile trepidazione le varie vicissitudini del gioco.

L'aneddoto delle tre carte ebbe un forte effetto sulla sua immaginazione e non gli uscì dalla testa per tutta la notte.

«E se», pensava la sera del giorno dopo, gironzolando per Pietroburgo, «e se la vecchia contessa mi svelasse il suo segreto! O m'indicasse le tre carte sicure! Perché non tentare la fortuna?... Presentarsi a lei, entrare nelle sue grazie, magari diventare il suo amante; ma per tutto questo ci vuole del tempo, e lei ha ottantasette anni; può morire fra una settimana, fra due giorni!... E quell'aneddoto?... Ci si può credere?... No! Economia, moderazione e amore per il lavoro: ecco le mie tre carte sicure, ecco quello che triplicherà, settuplicherà il mio capitale e mi

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procurerà pace e indipendenza!».

Ragionando in questo modo si ritrovò in una delle strade principali di Pietroburgo, davanti a una casa di architettura antica. La strada era ingombra di vetture; le carrozze scivolavano una dietro l'altra verso l'ingresso illuminato. Dalle carrozze si allungavano fuori ogni momento ora la gamba snella di una bella giovane, ora uno stivalone rumoroso, ora una calza rigata, o uno scarpino diplomatico. Pellicce e mantelli volteggiavano davanti al maestoso portiere. Hermann si fermò.

«Di chi è questa casa?», domandò alla guardia che era all'angolo della strada.

«Della contessa ***», rispose la guardia.

Hermann ebbe un fremito. Lo stupefacente aneddoto si ripresentò alla sua immaginazione. Cominciò a camminare lungo la casa, pensando alla sua padrona e alla sua prodigiosa facoltà. Ritornò tardi nel suo umile cantuccio; per molto tempo non riuscì ad addormentarsi, e, quando il sonno s'impadronì di lui, gli apparvero in sogno le carte, il tavolo verde, fasci di biglietti di banca e mucchi di monete d'oro. Giocava una carta dietro l'altra, raddoppiava con risolutezza la posta, vinceva ininterrottamente, rastrellava l'oro verso di sé, e metteva i biglietti in tasca. Svegliatosi tardi, sospirò per la perdita della sua favolosa ricchezza, tornò a gironzolare per la città e ricapitò davanti alla casa della contessa ***. Una forza misteriosa sembrava che ve lo attirasse. Si fermò e si mise a guardare le finestre. A una di esse vide una testolina dai capelli neri, china, probabilmente, su un libro o su un lavoro. La testolina si sollevò. Hermann vide un visino fresco e degli occhi neri. Quest'attimo decise la sua sorte.

III

Vous m'écrivez, mon ange, des lettres de quatre

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pages plus vite que je ne puis les lire.

Corrispondenza

Lizavéta Ivànovna aveva appena fatto in tempo a togliersi il mantello e il cappello che già la contessa la mandò a chiamare e fece attaccare di nuovo la carrozza. Si preparavano a salirvi. Nel momento stesso in cui due lacchè sollevarono la vecchia e la infilarono dentro lo sportello, Lizavéta Ivànovna vide proprio accanto a una ruota il suo ufficiale del genio; lui le afferrò una mano; lei non fece in tempo a riaversi dallo spavento che il giovane scomparve: le restò in mano una lettera. La nascose nel guanto e per tutta la strada non udì e non vide nulla. La contessa aveva l'abitudine di fare continuamente domande in carrozza: chi è che abbiamo incontrato? Come si chiama questo ponte? Che cosa c'è scritto su quell'insegna? Lizavéta Ivànovna questa volta rispondeva a casaccio e a sproposito, e fece adirare la contessa.

«Che ti è successo, madre mia! Sei caduta in catalessi, o cosa? Non mi senti o non mi capisci? Grazie a Dio non sono blesa e non sono ancora uscita di cervello!».

Lizavéta Ivànovna non l'ascoltava. Tornata a casa corse in camera sua, tirò fuori dal guanto la lettera: non era sigillata. Lizavéta Ivànovna la lesse. La lettera conteneva una dichiarazione d'amore: era tenera, rispettosa, e presa parola per parola da un romanzo tedesco. Ma Lizavéta Ivànovna non sapeva il tedesco e ne fu molto contenta.

Tuttavia la lettera da lei accettata l'inquietava enormemente. Per la prima volta entrava in rapporti segreti, intimi, con un giovane. La sfrontatezza di lui la terrorizzava. Lei si rimproverava una condotta imprudente e non sapeva che cosa fare: smettere di star seduta alla finestra e con l'indifferenza raffreddare nel giovane ufficiale la voglia di perseguitarla ulteriormente? Rimandargli la lettera? Rispondergli in modo freddo e deciso? Non aveva con chi consigliarsi, né un'amica né una maestra. Lizavéta Ivànovna decise

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di rispondere.

Si sedette allo scrittoio, prese penna, carta, e si mise a riflettere. Cominciò parecchie volte la lettera e la strappò: ora le espressioni le parevano troppo indulgenti, ora troppo crudeli. Infine le riuscì di scrivere alcune righe delle quali restò soddisfatta. «Sono sicura», scriveva, «che voi avete intenzioni oneste e che non volevate offendermi con una condotta avventata; la nostra conoscenza, però, non dovrebbe cominciare in questo modo. Vi restituisco la vostra lettera e spero che d'ora in avanti non avrò motivi di lamentarmi di una immeritata mancanza di rispetto».

Il giorno dopo, vedendo che arrivava Hermann, Lizavéta Ivànovna si alzò dal telaio, passò nella sala, aprì lo sportellino di una finestra e gettò la lettera in strada, confidando nella prontezza del giovane ufficiale. Hermann accorse, la raccolse ed entrò in una bottega di pasticceria. Strappato via il sigillo, trovò la propria lettera e la risposta di Lizavéta Ivànovna. Era quello che si aspettava e tornò a casa, molto preso dal suo intrigo amoroso.

Tre giorni dopo una mamzelle giovinetta, dagli occhi vispi, portò a Lizavéta Ivànovna un bigliettino dalla bottega di modista. Lizavéta Ivànovna l'aprì con inquietudine, prevedendo richieste di soldi, e a un tratto riconobbe la mano di Hermann.

«Vi siete sbagliata, anima mia», disse, «questo biglietto non è per me».

«Ma no, è proprio per voi!», rispose l'audace fanciulla, senza nascondere un sorriso malizioso. «Fate la cortesia di leggerlo!».

Lizavéta Ivànovna scorse il biglietto. Hermann esigeva un appuntamento.

«Non può essere!», disse Lizavéta Ivànovna, spaventata sia dalla fretta delle richieste che dai modi da lui usati. «Questo biglietto sicuramente non è stato scritto a me!». E strappò la lettera in minuscoli pezzetti.

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«Se la lettera non era per voi perché l'avete strappata?», disse la mamzelle. «Io l'avrei restituita a colui che l'ha mandata».

«Per piacere, anima mia!», disse Lizavéta Ivànovna, infiammandosi alla sua osservazione, «d'ora in poi non mi portate più biglietti. E a colui che vi ha mandata dite che si dovrebbe vergognare...».

Ma Hermann non si arrese. Lizavéta Ivànovna ogni giorno riceveva lettere da lui, ora in un modo ora in un altro. E non erano più tradotte dal tedesco. Hermann le scriveva ispirato dalla passione, e parlava nella lingua che gli era propria: vi trovavano espressione sia l'implacabilità dei suoi desideri che il disordine di un'immaginazione sfrenata. Lizavéta Ivànovna non pensava ormai più a rimandarle indietro: se ne inebriava, aveva cominciato a rispondervi, e i suoi biglietti si facevano sempre più lunghi e più teneri. Infine gli gettò dalla finestra la seguente lettera:

Oggi c'è un ballo dall'ambasciatore di ***. La contessa ci sarà. Noi vi resteremo fin verso le due. Eccovi un'occasione di vederci a quattr'occhi. Non appena la contessa sarà uscita, i domestici, probabilmente, si ritireranno; nell'atrio rimarrà il portiere, ma anche lui di solito se ne va nel suo stanzino. Venite alle undici e mezzo. Salite direttamente per la scala. Se troverete qualcuno in anticamera, domandategli se la contessa è in casa. Vi diranno di no, e non ci sarà niente da fare. Dovrete tornare indietro. Ma, probabilmente, non incontrerete nessuno. Le ragazze stanno in camera loro, che è la stessa per tutte. Dall'anticamera andate a sinistra, continuate sempre dritto fino alla camera da letto della contessa. Nella camera da letto dietro il paravento vedrete due piccole porte: quella di destra dà in uno studio, dove la contessa non entra mai; quella di sinistra in un corridoio, e lì c'è una stretta scala a chiocciola che porta alla mia stanza.

Hermann fremeva come una tigre, in attesa dell'ora stabilita. Alle dieci di sera era già davanti alla casa della contessa. Il tempo era

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orribile: il vento ululava, la neve bagnata cadeva a fiocchi; i fanali davano una luce fioca; le strade erano deserte. Di tanto in tanto un cocchiere si trascinava sul suo ronzino sparuto, alla ricerca di un cliente ritardatario. Hermann stava fermo col solo soprabito indosso, senza sentire né il vento né la neve. Finalmente la carrozza della contessa fu portata davanti all'ingresso. Hermann vide i lacchè accompagnare sottobraccio la vecchia ingobbita, imbacuccata in una pelliccia di zibellino, e dietro di lei, in un leggero mantello, con la testa adorna di fiori freschi, balenare per un istante la sua pupilla. Gli sportelli sbatterono. La carrozza si mosse pesantemente sulla neve molle. Il portiere chiuse il portone. Le finestre si oscurarono. Hermann cominciò a camminare lungo la casa ormai vuota: si avvicinò a un fanale, guardò l'orologio, erano le undici e venti. Rimase sotto il fanale, con gli occhi fissi sulla lancetta dell'orologio, a contare i minuti che mancavano. Alle undici e mezzo precise Hermann mise piede sulla scalinata della contessa ed entrò nel vestibolo fortemente illuminato. Il portiere non c'era. Hermann corse su per la scala, aprì la porta che dava nell'anticamera e vide un servo che dormiva sotto la lampada, su un'antica, sudicia poltrona. Con passo leggero e sicuro Hermann gli passò accanto. Il salone e il salotto erano al buio. La lampada li illuminava debolmente, dall'anticamera. Hermann entrò nella stanza da letto. Davanti alla vetrina piena di antiche icone ardeva debolmente una lampada d'oro. Poltrone e divani di damasco sbiadito, con cuscini di piuma e la doratura scrostata, erano disposti in mesta simmetria lungo le pareti ricoperte di tappezzerie cinesi. A una delle pareti erano attaccati due ritratti, dipinti a Parigi da M.me Lebrun. Uno di essi raffigurava un uomo sui quarant'anni, rosso in viso e grasso, in uniforme verde chiara con una decorazione; l'altro una giovane bellezza dal naso aquilino, le tempie pettinate e una rosa nei capelli incipriati. Da tutti gli angoli venivano fuori pastorelle di porcellana, orologi da tavolo opera del famoso Leroy, scatolette, roulettes, ventagli e diversi giochi per signora, inventati alla fine del secolo scorso insieme al pallone di

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Montgolfier e al magnetismo di Mesmer. Hermann andò dietro al paravento. Dietro a questo c'era un piccolo letto di ferro; a destra si trovava la porta che conduceva nello studio; a sinistra quella che dava sul corridoio. Hermann l'aprì, vide la stretta scala a chiocciola che portava nella stanza della povera pupilla... Ma tornò indietro ed entrò nello studio buio.

Il tempo trascorreva lentamente. Tutto taceva. In salotto batterono le dodici; in tutte le stanze gli orologi, uno dopo l'altro, suonarono le dodici, e tutto tacque di nuovo. Hermann stava in piedi, addossato a una stufa fredda. Era tranquillo; il cuore gli batteva con regolarità, come batte quello di una persona decisa a qualcosa di pericoloso, ma indispensabile. Gli orologi batterono l'una e le due del mattino, e lui udì il lontano rumore di una carrozza. Un'involontaria agitazione s'impossessò di lui. La carrozza si avvicinò e si fermò. Egli udì il rumore secco del predellino che veniva abbassato. In casa cominciarono a darsi da fare. I servi si misero a correre, echeggiarono delle voci e la casa s'illuminò. Nella stanza da letto entrarono di corsa le tre vecchie cameriere, e la contessa, mezza morta, entrò e si sprofondò in una poltrona alla Voltaire. Hermann guardava da una piccola fessura: Lizavéta Ivànovna gli passò accanto. Hermann sentì i passi frettolosi di lei lungo i gradini della scala. Nel cuore gli riecheggiò qualcosa di simile a un rimorso ma si spense subito. Egli impietrì.

La contessa cominciò a spogliarsi davanti allo specchio. Le staccarono la cuffia adorna di rose, appuntata con le spille; le sfilarono la parrucca incipriata dalla testa canuta coi capelli rasati a zero. Le spille piovevano intorno a lei. Il vestito giallo, ricamato d'argento, cadde ai suoi piedi gonfi. Hermann fu testimone dei ripugnanti misteri della sua toilette; finalmente la contessa restò in mantellina e cuffia da notte: in questo abbigliamento, più consono alla sua vecchiaia, sembrava meno orrenda e deforme.

Come tutte le persone vecchie in genere, la contessa soffriva d'insonnia. Una volta spogliata si sedette presso la finestra nella

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poltrona alla Voltaire e mandò via le cameriere. Le candele furono portate via, la stanza rimase di nuovo illuminata dalla sola lampada. La contessa sedeva tutta gialla, movendo le labbra pendenti e dondolandosi a destra e a sinistra. Nei suoi occhi torbidi si rifletteva una totale assenza di pensiero; guardandola si poteva pensare che il dondolio della terribile vecchia non dipendesse dalla sua volontà, ma dall'effetto di un occulto galvanismo.

A un tratto quel viso smorto cambiò in modo inspiegabile. Le labbra smisero di muoversi, gli occhi si ravvivarono: in piedi davanti alla contessa c'era uno sconosciuto.

«Non vi spaventate, per amor di Dio, non vi spaventate!», disse con voce chiara e sommessa. «Non ho intenzione di farvi del male; sono venuto a implorarvi una grazia».

La vecchia lo guardava in silenzio e sembrava che non lo sentisse. Hermann immaginò che fosse sorda, e, chinandosi sul suo orecchio, le ripeté la stessa cosa. La vecchia taceva come prima.

«Voi potete», continuò Hermann, «garantire la felicità della mia vita, ed essa non vi costerà niente: io so che voi potete indovinare tre carte di fila...».

Hermann si arrestò. La contessa pareva aver capito che cosa le si richiedesse; sembrava cercasse le parole per rispondere.

«Era uno scherzo», disse infine, «ve lo giuro! Era uno scherzo!».

«Su questo non c'è niente da scherzare», obiettó irritato Hermann. «Ricordatevi di Èaplìckij, che aiutaste a recuperare quanto aveva perduto».

La contessa si turbò visibilmente. I suoi tratti espressero una forte agitazione, ma presto ella ricadde nella precedente apatia.

«Potreste», continuò Hermann, «indicarmi le tre carte sicure?».

La contessa taceva; Hermann continuò:

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«Per chi volete custodire il vostro segreto? Per i nipoti? Loro sono ricchi anche senza di questo, e non conoscono neppure il valore del denaro. A un dissipatore non saranno d'aiuto le vostre tre carte. Chi non sa custodire l'eredità paterna morrà comunque in miseria, nonostante qualsiasi sforzo demoniaco. Io non sono un dissipatore; io conosco il valore del denaro. Le vostre tre carte nel mio caso non andranno a vuoto. Su!...».

Si fermò e aspettò trepidante la risposta. La contessa taceva; Hermann si mise in ginocchio.

«Se una volta il vostro cuore ha conosciuto il sentimento dell'amore», disse lui, «se ne ricordate i rapimenti, se almeno una volta avete sorriso al pianto di un figlio neonato, se qualcosa di umano ha mai pulsato nel vostro petto, allora vi scongiuro, per i sentimenti di moglie, di amante, di madre, in nome di tutto quanto vi è di sacro nella vita, non respingete la mia preghiera! Svelatemi il vostro segreto! Che ve ne fate?... Magari è legato a un orribile peccato, alla perdita della beatitudine eterna, a un patto diabolico... Pensateci: voi siete vecchia; ormai non vi è rimasto molto da vivere, io sono pronto a prendere sulla mia anima il vostro peccato. Svelatemi solo il vostro segreto. Pensate che la felicità di una persona si trova nelle vostre mani; che non solo io, ma i miei figli, i nipoti e i pronipoti benediranno il vostro ricordo e l'onoreranno come qualcosa di sacro...».

La vecchia non rispondeva una parola.

Hermann si alzò.

«Vecchia strega!», disse a denti stretti, «allora ti costringerò io a rispondere...».

A questa parola estrasse dalla tasca una pistola.

Alla vista della pistola la contessa manifestò per la seconda volta una forte emozione. Scrollò la testa e alzò un braccio, come per ripararsi dallo sparo... Poi si rovesciò all'indietro... e restò

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immobile.

«Smettetela di fare la bambina», disse Hermann, prendendole una mano. «Ve lo domando per l'ultima volta: volete indicarmi le vostre tre carte? Sì o no?».

La contessa non rispondeva. Hermann si accorse che era morta.

IV

7 mai 18**

Homme sans moeurs et sans religion!

Corrispondenza

Lizavéta Ivànovna sedeva in camera sua, ancora in abito da ballo, immersa in profonde riflessioni. Arrivata a casa si era affrettata a mandar via la servetta sonnolenta, che le offriva di malavoglia i propri servigi; le aveva detto che si sarebbe spogliata da sola, ed era entrata fremente in camera sua, sperando di trovarvi Hermann e desiderando di non trovarvelo. Fin dal primo sguardo si accertò della sua assenza e ringraziò la sorte dell'ostacolo che aveva impedito il loro incontro. Si sedette, senza spogliarsi, e cominciò a ripensare a tutte le circostanze che l'avevano trascinata in un tempo tanto breve così lontano. Non erano passate neppure tre settimane da quando aveva visto per la prima volta il giovane dalla finestra, e già era in corrispondenza con lui, e lui aveva fatto in tempo a carpirle un appuntamento notturno! Lei ne conosceva il nome solo perché alcune delle sue lettere erano firmate; non aveva mai parlato con lui, né udita la sua voce, non aveva mai sentito parlare di lui... fino a quella sera. Che strano! Proprio quella sera, al ballo, Tomskij, imbronciato con la giovane principessa Polina ***, che contrariamente al solito, non civettava con lui, si era voluto vendicare, dimostrando indifferenza: aveva invitato Lizavéta Ivànovna e ballato con lei un'interminabile mazurca. Per tutto il tempo aveva scherzato sulla predilezione di lei per gli

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ufficiali del genio, l'aveva assicurata di saperne molto di più di quanto lei potesse supporre, e alcune battute erano state indirizzate così a proposito che Lizavéta Ivànovna aveva pensato diverse volte che fosse a conoscenza del suo segreto.

«Da chi sapete tutto questo?», aveva domandato lei, ridendo.

«Dall'amico di una persona di vostra conoscenza», aveva risposto Tomskij, «un uomo alquanto straordinario!».

«E chi è quest'uomo straordinario?».

«Si chiama Hermann».

Lizavéta Ivànovna non aveva risposto nulla, ma le mani e i piedi le si erano gelati...

«Questo Hermann», aveva continuato Tomskij, «è un personaggio veramente romantico: ha il profilo di Napoleone, e l'anima di Mefistofele. Penso che abbia almeno tre crimini sulla coscienza. Come siete impallidita!...».

«Mi fa male la testa... E che cosa vi ha detto Hermann, o come si chiama?...».

«Hermann è molto scontento del suo amico: dice che al suo posto si comporterebbe in modo completamente diverso... Suppongo perfino che lo stesso Hermann abbia delle mire su di voi; per lo meno ascolta con assai poca indifferenza le esclamazioni innamorate del suo amico».

«Ma dove mi ha vista?».

«In chiesa, forse; a passeggio!... Lo sa Iddio! Forse nella vostra stanza, mentre dormivate: da lui ci si può aspettare di tutto...».

Le tre dame che si erano avvicinate a loro chiedendo: oubli ou regret?, avevano interrotto la conversazione che si stava facendo tormentosamente interessante per Lizavéta Ivànovna.

La dama scelta da Tomskij era la stessa principessina ***. Ella

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aveva fatto in tempo a spiegarsi con lui facendo un altro giro e volteggiando una volta in più davanti alla propria sedia. Tomskij, tornando al suo posto, non aveva più pensato né a Hermann né a Lizavéta Ivànovna. Questa avrebbe voluto a tutti i costi riprendere la conversazione interrotta; ma la mazurca era finita, e poco dopo la vecchia contessa era andata via.

Le parole di Tomskij non erano altro che chiacchiere da mazurca, ma si erano profondamente impresse nell'anima della giovane sognatrice. Il ritratto abbozzato da Tomskij assomigliava all'immagine che di Hermann si era fatta lei stessa e, grazie ai romanzi più recenti, questo personaggio ormai triviale spaventava e seduceva la sua immaginazione. Ella sedeva con le braccia nude incrociate, inclinando sul petto scoperto la testa ancora adorna di fiori... A un tratto la porta si aprì, e Hermann entrò. Lei trasalì...

«Ma dove eravate?», chiese lei in un sussurro impaurito.

«Nella camera da letto della vecchia contessa», rispose Hermann, «vengo adesso da lei. La contessa è morta».

«Dio mio!... che dite?...».

«E a quanto pare», continuò Hermann, «sono io la causa della sua morte».

Lizavéta Ivànovna lo guardò, e le parole di Tomskij le riecheggiarono nell'anima: quest'uomo ha almeno tre crimini sulla coscienza! Hermann si sedette sul davanzale della finestra accanto a lei e le raccontò tutto.

Lizavéta Ivànovna lo ascoltò fino in fondo inorridita. E così quelle lettere appassionate, quelle ardenti richieste, quella sfrontata, insistente persecuzione, tutto questo non era amore! Il denaro, ecco che cosa bramava la sua anima! Non era lei che poteva saziare il suo desiderio e renderlo felice! La povera pupilla non era nient'altro che la cieca complice di un bandito, dell'omicida della sua vecchia benefattrice!... Pianse amaramente nel suo tardivo,

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tormentoso pentimento. Hermann la guardava in silenzio: anche il suo cuore era straziato, ma né le lacrime della povera fanciulla, né lo stupefacente incanto del suo dolore turbavano la sua anima tetra. Non sentiva rimorsi di coscienza al pensiero della vecchia morta. Una sola cosa lo terrorizzava: la perdita irreparabile del segreto col quale riprometteva di arricchirsi.

«Siete un mostro!», disse infine Lizavéta Ivànovna.

«Io non volevo la sua morte», rispose Hermann, «la mia pistola è scarica».

Tacquero.

Il mattino si avvicinava. Lizavéta Ivànovna spense la candela che stava finendo di consumarsi: una pallida luce illuminò la stanza. Si asciugò gli occhi pieni di lacrime e li alzò su Hermann: lui era sempre seduto sul davanzale della finestra, con le braccia incrociate e un cipiglio minaccioso. In questa posa ricordava in modo sorprendente il ritratto di Napoleone. Da questa somiglianza Lizavéta Ivànovna restò addirittura colpita.

«Come farete a uscire di casa?», disse finalmente Lizavéta Ivànovna. «Pensavo di accompagnarvi per una scala segreta, ma si deve passare accanto alla camera da letto, e io ho paura».

«Spiegatemi come trovare questa scala segreta, ed io uscirò». Lizavéta Ivànovna si alzò, tirò fuori una chiave dal comò, la consegnò a Hermann e gli diede istruzioni dettagliate. Hermann strinse la sua mano fredda, inerte, la baciò sulla testa china ed uscì.

Scese giù per la scala a chiocciola e rientrò nella camera da letto della contessa. La vecchia morta sedeva impietrita; il suo viso esprimeva una profonda quiete. Hermann si arrestò davanti a lei, la guardò a lungo come se desiderasse accertarsi della tremenda verità; infine entrò nello studio, cercò a tastoni la porta dietro la tappezzeria e cominciò a scendere per la scala buia, turbato da strane sensazioni. Per questa stessa scala, pensava, magari una

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sessantina d'anni fa, in questa stessa camera da letto, alla stessa ora, in un caftano ricamato, pettinato à l'oiseau royal, stringendo al cuore il suo tricorno, s'insinuava un giovane fortunato, putrefatto ormai da un pezzo nella tomba, e il cuore della sua vecchissima amante oggi ha smesso di battere...

Ai piedi della scala Hermann trovò una porta che aprì con la stessa chiave, e si ritrovò in un corridoio interno, che lo condusse sulla strada.

V

Questa notte mi è apparsa la defunta baroness

von B***. Era tutta vestita di bianco e mi ha detto:

«Buongiorno, signor consigliere!»

Swedenborg

Tre giorni dopo la notte fatale, alle nove del mattino, Hermann si diresse al monastero di ***, dove si dovevano celebrare i funerali della contessa. Pur non provando rimorso, egli non riusciva però a soffocare del tutto la voce della coscienza, che gli ripeteva: sei tu l'assassino della vecchia! In mancanza di vera fede, aveva una quantità di pregiudizi. Credeva che la contessa morta potesse avere un'influenza malefica sulla sua vita, e s'era deciso ad andare ai suoi funerali per ottenerne il perdono.

La chiesa era piena. Hermann riuscì a stento a farsi largo attraverso una folla di gente. La bara stava su un ricco catafalco, sotto un baldacchino di velluto. La defunta vi giaceva con le braccia incrociate sul petto, in una cuffia di pizzo e un vestito bianco di raso. Intorno c'erano i familiari: i servi in caftani neri guarniti di nastri stemmati sulla spalla, e con i ceri in mano; i parenti in lutto stretto: figli, nipoti e pronipoti. Non piangeva nessuno; le lacrime sarebbero state une affectation. La contessa era

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così vecchia che la sua morte non poteva colpire nessuno e i suoi parenti da tempo la consideravano una sopravvissuta. Un giovane arciprete pronunciò il discorso funebre. Con espressioni semplici e toccanti descrisse il pacifico trapasso della pia donna, per la quale lunghi anni erano stati una quieta, dolce preparazione a una morte cristiana. «L'angelo della morte l'ha colta», disse l'oratore, «mentre vegliava in virtuose meditazioni attendendo lo sposo di mezzanotte». Il servizio fu compiuto con triste decoro. I parenti per primi andarono a congedarsi dalla salma. Poi si mossero anche i numerosi ospiti, venuti a inchinarsi a colei che così tanto tempo prima aveva preso parte ai loro frivoli divertimenti. Dopo di loro anche tutti quelli di casa. Infine si avvicinò la vecchia dama di compagnia, coetanea della defunta. Due giovani cameriere la portavano sottobraccio. Non aveva la forza d'inchinarsi fino a terra, e fu l'unica a versare qualche lacrima, baciando la mano fredda della sua signora. Dopo di lei Hermann si decise ad accostarsi alla bara. S'inchinò a terra e restò per qualche minuto prostrato sul pavimento freddo, cosparso di rami d'abete. Infine si sollevò, pallido come la stessa defunta, salì i gradini del catafalco e s'inchinò... In quel momento gli parve che la morta lo guardasse con aria beffarda, strizzando un occhio. Hermann, indietreggiando in fretta, inciampò e stramazzò supino a terra. Lo sollevarono. In quello stesso istante Lizavéta Ivànovna fu portata fuori sul sagrato svenuta. Quest'episodio turbò per qualche minuto la solennità della tetra cerimonia. Fra gli intervenuti si levò un mormorio sordo, e uno smilzo ciambellano, parente prossimo della defunta, bisbigliò all'orecchio di un inglese ritto accanto a lui che il giovane ufficiale era un figlio naturale della vecchia, al che l'inglese rispose freddamente: Oh!

Per tutta la giornata Hermann rimase oltremodo sconvolto. Pranzò in una locanda solitaria e, contrariamente alla sua abitudine, bevve moltissimo, nella speranza di soffocare l'agitazione che aveva dentro. Ma il vino scatenò ancor più la sua immaginazione. Tornato a casa si gettò, senza spogliarsi, sul letto, e si addormentò

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profondamente.

Si svegliò che ormai era notte: la luna rischiarava la sua stanza. Guardò l'orologio: erano le tre meno un quarto. Il sonno gli era passato; sedette sul letto e pensò ai funerali della vecchia contessa.

In quel momento qualcuno dalla strada gli gettò un'occhiata attraverso la finestra, e se ne discostò subito. Hermann non vi fece alcun caso. Un minuto dopo sentì aprire la porta in anticamera. Hermann pensava che il suo attendente, ubriaco come al solito, stesse tornando da una passeggiata notturna. Ma sentì un passo sconosciuto: qualcuno camminava strascicando leggermente le pantofole. La porta si aprì, entrò una donna in abito bianco. Hermann la prese per la sua vecchia balia e si stupì chiedendosi che cosa potesse averla condotta lì a quell'ora. Ma la donna bianca, scivolando, si ritrovò a un tratto davanti a lui, ed Hermann riconobbe la contessa!

«Sono venuta da te contro la mia volontà», disse con voce dura, «ma mi è stato ordinato di esaudire la tua preghiera. Il tre, il sette e l'asso ti faranno vincere uno dopo l'altro, ma a patto che tu non punti più di una carta al giorno e che poi non giochi più per tutta la vita. Ti perdono la mia morte a patto che tu sposi la mia pupilla Lizavéta Ivànovna...».

Detto questo si voltò pian piano, andò verso la porta e scomparve, strascicando le pantofole. Hermann sentì sbattere la porta all'ingresso e vide che qualcuno lanciò un'altra occhiata dentro la sua finestrella.

Per un pezzo Hermann non riuscì a tornare in sé. Andò nell'altra stanza. Il suo attendente dormiva sul pavimento; Hermann fece molta fatica a svegliarlo. L'attendente come al solito era ubriaco: fu impossibile cavargli qualcosa. La porta d'ingresso era chiusa. Hermann tornò nella sua stanza, accese la candela e trascrisse la sua visione.

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VI

«Atandé!»

«Come avete osato dirmi atandé?»

«Vostra eccellenza, io ho detto: atandé, signore!»

Due idee fisse non possono coesistere nella natura morale, allo stesso modo in cui due corpi non possono occupare nel mondo fisico lo stesso spazio. Tre, sette e asso presto offuscarono nella mente di Hermann l'immagine della vecchia morta. Tre, sette e asso non gli uscivano dalla testa e si agitavano sulle sue labbra. Vedendo una giovane fanciulla diceva: «Com'è snella!... Proprio un tre di cuori». Gli chiedevano: «Che ora è», e lui rispondeva: «il sette meno cinque». Qualsiasi uomo con la pancia gli ricordava un asso. Tre, sette e asso lo perseguitavano in sogno, assumendo tutte le forme possibili: il tre gli fioriva davanti nell'immagine di una pianta rigogliosa con grandi fiori, il sette gli si presentava come un portale gotico, l'asso come un immenso ragno. Tutti i suoi pensieri si fusero in uno solo: mettere a profitto il segreto che gli era costato caro. Cominciò a pensare alle dimissioni e a un viaggio. Voleva strappare il tesoro alla prodigiosa fortuna nelle case da gioco di Parigi. Il caso gli risparmiò tali preoccupazioni.

A Mosca s'era formata una società di ricchi giocatori, presieduta dal famoso Èekalìnskij, che aveva passato tutta la vita dietro le carte e che un tempo aveva accumulato milioni, vincendo cambiali e perdendo denaro in contanti. La lunga esperienza gli aveva fatto meritare la fiducia dei compagni, e la casa aperta, un mirabile cuoco, l'affabilità e l'allegria conquistarono la stima del pubblico. Arrivò a Pietroburgo. La gioventù irruppe a casa sua, dimenticando i balli per le carte e preferendo le tentazioni del faraone alle seduzioni della galanteria. Narùmov gli presentò Hermann.

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Attraversarono una fila di splendide stanze, piene di ossequiosi servitori. Alcuni generali e consiglieri segreti stavano giocando a whist; i giovani sedevano semisdraiati sui divani di damasco, mangiando il gelato e fumando la pipa. In salotto a una lunga tavola, intorno alla quale si accalcavano una ventina di giocatori, stava seduto il padrone di casa, che teneva il banco. Era un uomo sui sessant'anni, dall'aspetto assolutamente rispettabile; aveva la testa coperta da un'argentea canizie; il viso pieno e fresco esprimeva benevolenza; gli occhi brillavano, ravvivati da un costante sorriso. Narùmov gli presentò Hermann. Èekalìnskij gli strinse amichevolmente la mano, lo pregò di non fare complimenti e continuò a distribuire le carte.

Il giro si protrasse a lungo. Sul tavolo c'erano più di trenta carte. Èekalìnskij si fermava dopo ogni distribuzione per dare ai giocatori il tempo di prendere decisioni, appuntava le somme perdute, prestava garbatamente ascolto alle loro richieste, ancora più garbatamente raddrizzava l'angolo superfluo di una carta, piegato da una mano distratta. Finalmente il giro si concluse. Èekalìnskij mescolò le carte e si preparò a distribuirle un'altra volta.

«Permettetemi di puntare una carta», disse Hermann, stendendo un braccio da dietro un grosso signore, che stava puntando anche lui. Èekalìnskij sorrise e s'inchinò silenziosamente, in segno di arrendevole assenso. Narùmov, ridendo, si congratulò con Hermann per aver rotto la sua lunga astinenza e gli augurò un felice inizio.

«Ci sto!», disse Hermann, dopo aver scritto col gesso la posta sulla sua carta.

«Quanto?», domandò, strizzando gli occhi, il banchiere, - scusate signore, non arrivo a vedere».

«Quarantasettemila», rispose Hermann.

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A questa parola tutte le teste si voltarono all'istante, e tutti gli occhi vennero puntati su Hermann. «È impazzito», pensò Narùmov.

«Permettetemi di farvi notare», disse Èekalìnskij con il suo invariabile sorriso, «che il vostro gioco è forte: nessuno qui finora ha puntato più di duecentosettantacinque rubli su una carta sola».

«Allora?», ribatté Hermann, «puntate o no sulla mia carta?».

Èekalìnskij fece un inchino con la stessa aria di umile consenso.

«Volevo soltanto farvi presente», disse, «che, essendo io onorato della fiducia degli amici, non posso tenere il banco altrimenti che per contanti. Da parte mia, certo, sono convinto che la vostra parola sia sufficiente, ma per il regolamento del gioco e dei conti vi prego di mettere il denaro sulla carta».

Hermann tirò fuori dalla tasca un assegno bancario e lo porse a Èekalìnskij, che, dopo averlo scorso rapidamente, lo mise sulla carta di Hermann.

Cominciò a estrarre le carte. A destra uscì un nove, a sinistra un tre.

«Ho vinto!», disse Hermann, facendo vedere la sua carta.

Fra i giocatori si levò un mormorio. Èekalìnskij si accigliò, ma il sorriso riapparve subito sul suo viso.

«Volete riscuotere?», domandò a Hermann.

«Mi fareste un favore».

Èekalìnskij estrasse dalla tasca diversi assegni, e saldò subito. Hermann prese i suoi soldi e si allontanò dal tavolo. Narùmov stentava a realizzare la cosa. Hermann bevve un bicchiere di limonata e s'avviò a casa.

La sera dopo si ripresentò da Èekalìnskij. Il padrone di casa teneva il banco. Hermann si avvicinò al tavolo; i giocatori gli fecero

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subito posto. Èekalìnskij gli fece un amabile inchino.

Hermann attese il nuovo giro e puntò una carta, mettendovi sopra i suoi quarantasettemila rubli e la vincita del giorno prima.

Èekalìnskij cominciò il gioco. A destra uscì il fante, a sinistra il sette.

Hermann scoprì il sette.

Tutti diedero in esclamazioni. Èekalìnskij rimase visibilmente turbato. Contò novantaquattromila rubli e li consegnò a Hermann. Hermann li accettò a sangue freddo e nello stesso istante si allontanò.

La sera successiva Hermann riapparve al tavolo da gioco. Tutti lo aspettavano. Generali e consiglieri segreti lasciarono il loro whist per assistere a un gioco così insolito. I giovani ufficiali saltarono su dai divani; tutti i servitori si raccolsero in salotto. Tutti accerchiarono Hermann. Gli altri giocatori non avevano puntato le loro carte, aspettando impazientemente di vedere come avrebbe concluso. Hermann stava dritto accanto al tavolo, in procinto di puntare da solo contro il pallido, ma sempre sorridente Èekalìnskij. Ciascuno dissuggellò un mazzo di carte. Èekalìnskij mischiò. Hermann estrasse e puntò la sua carta, coprendola con un mucchio di assegni. Sembrava un duello. Intorno regnava un profondo silenzio.

Èekalìnskij cominciò il gioco: gli tremavano le mani. A destra uscì la dama, a sinistra l'asso.

«L'asso ha vinto!», disse Hermann e scoprì la sua carta.

«La vostra dama è uccisa», disse amabilmente Èekalìnskij.

Hermann trasalì: effettivamente invece dell'asso aveva la dama di picche. Non credeva ai propri occhi, non comprendendo come avesse potuto sbagliarsi nell'estrarre la carta.

In quel momento gli sembrò che la dama di picche gli facesse

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l'occhiolino e ridacchiasse. Una straordinaria somiglianza lo colpì...

«La vecchia!», gridò inorridito.

Èekalìnskij tirò a sé gli assegni perduti. Hermann stava lì immobile. Quando si allontanò dal tavolo, si sollevò un brusio di voci. «Ha puntato splendidamente!», dicevano i giocatori. Èekalìnskij mischiò nuovamente le carte: il gioco seguitò il suo corso.

CONCLUSIONE

Hermann è impazzito. Si trova all'ospedale di Óbuchov, al numero diciassette, non risponde a nessuna domanda e borbotta a una velocità incredibile: «Tre, sette, asso! Tre, sette, dama!...».

Lizavéta Ivànovna si è sposata con un giovane molto carino, impiegato da qualche parte e in possesso di un discreto patrimonio: il figlio dell'ex amministratore della vecchia contessa. In casa di Lizavéta Ivànovna viene educata una parente povera.

Tomskij è stato promosso capitano di cavalleria e sta per sposare la principessa Polina.

KIRDŽÀLI

Kirdžàli era di origine bulgara. Kirdžàli in turco significa guerriero, prode. Il suo vero nome non lo conosco.

Kirdžàli coi suoi saccheggi diffondeva il terrore in tutta la Moldavia. Per darne un'idea racconterò una delle sue imprese. Una notte lui e l'arnauta Michajlàki assalirono in due un villaggio bulgaro. Gli appiccarono fuoco da due estremi e cominciarono a fare il giro delle capanne. Kirdžàli sgozzava, e Michajlàki portava

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via il bottino. Entrambi gridavano: «Kirdžàli! Kirdžali!». Tutto il villaggio si disperse.

Quando Alessandro Ipsilanti proclamò l'insurrezione e cominciò a reclutare per sé un esercito, Kirdžàli condusse da lui diversi suoi vecchi compagni. Conoscevano male il vero scopo dell'eteria, ma la guerra offriva l'occasione di arricchirsi a spese dei turchi, e forse anche dei moldavi: questo sembrava loro evidente.

Alessandro Ipsilanti personalmente era coraggioso, ma mancava delle qualità necessarie al ruolo che si era assunto con tanto fervore e tanta imprudenza. Non era capace di andare d'accordo con gli uomini che era costretto a capeggiare. Essi non avevano per lui né rispetto né fiducia. Dopo l'infausta battaglia in cui cadde il fiore della gioventù greca Iordaki Olimbioti gli consigliò di allontanarsi e assunse il suo posto. Ipsilanti fuggì al galoppo verso i confini dell'Austria e di lì scagliò una maledizione contro i propri uomini, che chiamava disobbedienti, vigliacchi e furfanti. Questi vigliacchi e furfanti per la maggior parte morirono entro le mura del monastero di Seku o sulle rive del Prut, difendendosi strenuamente contro un nemico dieci volte più forte.

Kirdžàli si trovava nel reparto di Giorgio Cantacuseno, del quale si può ripetere quanto è stato detto di Ipsilanti. Alla vigilia del combattimento presso Skuliany, Cantacuseno chiese al comando russo il permesso di entrare nel nostro campo di quarantena. Il reparto rimase così senza comandante; ma Kirdžàli, Safianos, Kantagoni e gli altri non vedevano alcuna necessità di un comandante.

La battaglia di Skuliany, a quanto pare, non è stata descritta da nessuno in tutta la sua toccante realtà. Immaginatevi settecento uomini, fra arnauti, albanesi, greci, bulgari e marmaglia d'ogni genere, che non avevano nessuna idea dell'arte militare e che indietreggiavano alla vista di quindicimila soldati di cavalleria turchi. Questo reparto si strinse alla riva del Prut e spinse avanti a sé due piccoli cannoni, trovati a Iasi nel cortile del gospodar e coi

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quali usavano sparare ripetutamente durante i pranzi d'onomastico. I turchi sarebbero entrati volentieri in azione con la mitraglia, ma non osavano senza il permesso del comando russo: i colpi sarebbero sicuramente volati sulla nostra riva. Il comandante del campo di quarantena (oggi ormai defunto), in quarant'anni di servizio presso l'esercito non aveva mai sentito in vita sua il fischio delle pallottole, ma in quel momento il Signore glielo fece sentire. Alcune gli ronzarono accanto agli orecchi. Il vecchietto s'inquietò terribilmente e si mise a insultare il maggiore del reggimento di fanteria dei Cacciatori, che si trovava in quarantena. Il maggiore, non sapendo che fare, corse al fiume, al di là del quale trotterellavano i delibasci, e li minacciò col dito. I delibasci, vedendolo, gli voltarono le spalle e si allontanarono al galoppo, e appresso a loro tutto il reparto turco. Il maggiore che aveva minacciato col dito si chiamava Chorèévskij. Non so che fine abbia fatto.

Il giorno dopo, però, i turchi attaccarono gli eteristi. Non osando ricorrere né alla mitraglia, né alle palle da cannone, decisero, contrariamente alla loro abitudine, di caricare all'arma bianca. Il combattimento fu crudele. Ci si misurava a colpi di atagàn. Dalla parte dei turchi furono notate lance che fino ad allora non avevano mai avuto; le lance erano russe: i soldati di Nekràsa combattevano nelle loro file. Gli eteristi, per concessione del nostro imperatore, potevano attraversare il Prut e nascondersi nel nostro campo di quarantena. Cominciarono ad attraversare il fiume. Kantagoni e Safianos rimasero per ultimi sulla riva turca. Kirdžàli, ferito il giorno prima, giaceva già in quarantena. Safianos fu ucciso. Kantagoni, che era molto grosso, fu ferito da una lancia al ventre. Con una mano egli sollevò la sciabola, con l'altra s'aggrappò alla lancia nemica, se la conficcò ancora più a fondo e in questo modo riuscì a raggiungere con la sciabola il suo uccisore, insieme col quale crollò a terra.

Tutto era finito. I turchi rimasero vincitori. La Moldavia fu

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sgomberata. Circa seicento arnauti si spersero per la Bessarabia; pur non sapendo come sostentarsi, erano grati alla Russia per la sua protezione. Conducevano una vita oziosa, ma non dissoluta. Li si poteva vedere sempre nei caffè della semiturca Bessarabia, coi lunghi cannelli di pipa in bocca, sorbire densi fondi di caffè da piccole tazzine. Le loro giubbe ricamate e le scarpe rosse a punta cominciavano ormai a logorarsi, ma la calotta con la nappa era ancor sempre calzata sulle ventitré, e gli atagàn e le pistole sporgevano ancora dalle larghe cinture. Nessuno si lamentava di loro. Non si poteva neanche pensare che questi pacifici poveretti fossero i famosissimi klefti della Moldavia, compagni del terribile Kirdžàli, e che lui stesso si trovasse in mezzo a loro.

Il pascià, che aveva il comando a Iasi, lo venne a sapere e sulla base di pacifiche trattative pretese dal comando russo la consegna del brigante.

La polizia cominciò a indagare. Si venne a sapere che Kirdžàli si trovava in realtà a Kišinëv. Fu catturato nella casa di un monaco fuggiasco, di sera, mentre cenava, seduto nell'oscurità con sette compagni.

Kirdžàli fu arrestato. Non stette a nascondere la verità e confessò di essere Kirdžàli. «Ma», aggiunse, «da quando ho attraversato il Prut non ho sfiorato neppure con un dito i beni altrui, non ho fatto del male neanche all'ultimo degli zingari. Per i turchi, i moldavi, i valacchi io sono, certo, un brigante; ma per i russi sono un ospite. Quando Safianos, dopo aver esaurito tutta la sua mitraglia, venne da noi in quarantena a togliere ai feriti per le ultime cariche i bottoni, i chiodi, le catenelle e le else dagli atagàn, gli diedi venti bešlýk e restai senza soldi. Dio mi è testimone che io, Kirdžàli, ho vissuto d'elemosina! Allora perché adesso i russi mi consegnano ai miei nemici?». Detto questo Kirdžàli tacque e si mise tranquillamente a aspettare che si decidesse la sua sorte.

Non dovette aspettare a lungo. Il comando, che non era tenuto a considerare i briganti sotto il loro profilo romantico, convinto

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della legittimità della richiesta, ordinò di mandare Kirdžàli a Iasi.

Un uomo d'ingegno e di cuore, allora giovane funzionario sconosciuto, che ora occupa un posto importante, mi ha descritto a tratti vivaci la sua partenza.

Davanti al portone del carcere sostava una caruza postale... (Forse non sapete che cosa sia una caruza. È un carretto basso, tutto intrecciato di vimini, al quale s'attaccavano di solito, fino a poco tempo fa, sei o otto ronzini. Un moldavo coi baffi e un berretto di montone, a cavallo su uno di essi, gridava in continuazione facendo schioccare la frusta, e i suoi ronzini correvano a un trotto abbastanza sostenuto. Se uno di essi cominciava a dar segni di stanchezza, lui lo staccava con tremende maledizioni e l'abbandonava per strada, senza preoccuparsi della sua sorte. Sulla via del ritorno era sicuro di trovarlo nello stesso punto, a pascolare tranquillamente nella verde steppa. Non di rado accadeva che un viaggiatore, partito da una stazione con otto cavalli, arrivasse all'altra con una pariglia. Così era una quindicina d'anni fa. Adesso nella Bessarabia russificata hanno adottato i finimenti russi e la teléga, il carro russo).

Uno degli ultimi giorni del mese di settembre del 1821 una caruza di questo tipo stava ferma davanti al portone del carcere. Le ebree, tirandosi giù le maniche e ciabattando, gli arnauti nei loro costumi stracciati e pittoreschi, le snelle moldave coi bambini dagli occhi neri in braccio circondavano la caruza. Gli uomini mantenevano il silenzio, le donne aspettavano ardentemente qualcosa.

Il portone si aprì, e diversi ufficiali di polizia uscirono sulla strada; appresso a loro due soldati spinsero fuori Kirdžàli incatenato.

Dimostrava una trentina d'anni. I tratti del suo viso bruno erano regolari e austeri. Era alto di statura, con le spalle larghe, e tutto in lui esprimeva un'eccezionale forza fisica. Un turbante variopinto gli copriva di sghembo la testa, una larga cintura gli serrava la vita sottile; il dolman di spesso panno turchino, le pieghe ampie della

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camicia che ricadevano sopra le ginocchia, e le belle scarpe formavano il resto del suo costume. Aveva un aspetto fiero e tranquillo.

Uno dei funzionari, un vecchietto dal muso rosso in un'uniforme scolorita, sulla quale penzolavano tre bottoni, schiacciò con gli occhiali di stagno l'escrescenza vermiglia che gli sostituiva il naso, spiegò un foglio e, parlando col naso, cominciò a leggere in moldavo. Di tanto in tanto guardava con alterigia Kirdžàli incatenato, al quale, evidentemente, si riferiva il foglio. Kirdžàli lo ascoltava con attenzione. Il funzionario terminò la sua lettura, ripiegò il foglio, lanciò uno strillo minaccioso alla folla, ordinandole di farsi da parte, e comandò di portare avanti la caruza. Allora Kirdžàli si rivolse a lui e gli disse qualche parola in moldavo; gli tremava la voce, il viso cambiò; scoppiò in lacrime e crollò ai piedi del funzionario di polizia, facendo risuonare le catene. Il funzionario di polizia, spaventato, balzò indietro; i soldati avrebbero voluto sollevare Kirdžàli, ma lui si alzò da solo, raccolse le sue catene, montò sulla caruza e gridò: «Avanti!». Un gendarme gli sedette a fianco, un moldavo fece schioccare la frusta, e la caruza partì.

«Che cosa vi diceva Kirdžàli?», domandò il giovane funzionario al poliziotto.

«Figuratevi un po'», rispose, ridendo, il poliziotto «mi ha pregato di aver cura di sua moglie e del figlio, che vivono nelle vicinanze di Kilija, in un villaggio bulgaro - teme che anche loro possano soffrire a causa sua. È gente stupida».

Il racconto del giovane funzionario mi commosse profondamente. Mi fece pena il povero Kirdžàli. Per lungo tempo non seppi nulla della sua sorte. Diversi anni dopo rincontrai il giovane funzionario. Ci mettemmo a parlare del passato.

«E il vostro amico Kirdžàli?», chiesi, «non sapete cosa ne è successo?».

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«Altroché!», rispose, e mi raccontò quanto segue:

Kirdžàli, condotto a Iasi, fu presentato al pascià, il quale lo condannò a essere impalato. L'esecuzione fu rimandata a una certa festa. Nel frattempo fu rinchiuso in prigione.

Il prigioniero era sorvegliato da sette turchi (gente semplice e, nell'anima, briganti tanto quanto Kirdžàli); essi lo rispettavano e con l'avidità comune a tutto l'Oriente ascoltavano i suoi meravigliosi racconti.

Fra i custodi e il prigioniero si stabilì uno stretto legame. Un giorno Kirdžàli disse loro: «Fratelli! La mia ora è vicina. Nessuno sfugge alla propria sorte. Presto mi separerò da voi. Vorrei lasciarvi qualcosa in ricordo».

I turchi drizzarono gli orecchi.

«Fratelli», continuò Kirdžàli, «tre anni fa, quando facevo il brigante con il defunto Michajlàki, sotterrammo nella steppa, poco lontano da Iasi, una casseruola piena di monete d'oro. Si vede che né io né loro dovevamo avere questo tesoro. Sia così dunque: prendetevelo e spartitevelo d'amore e d'accordo».

I turchi per poco non impazzirono. Si misero a discutere: come avrebbero trovato il luogo segreto? Pensa e ripensa, decisero che Kirdžàli stesso li avrebbe accompagnati.

Scese la notte. I turchi tolsero i ceppi dai piedi del prigioniero, gli legarono le mani con una corda e insieme con lui si diressero fuori città, nella steppa.

Kirdžàli li guidò, tenendo sempre la stessa direzione, da un kurgàn all'altro. Camminarono a lungo. Alla fine Kirdžàli si fermò accanto a una larga pietra, misurò dodici passi a mezzogiorno, batté un piede in terra e disse: «Qui».

I turchi si misero all'opera. Quattro tirarono fuori i loro atagàn e cominciarono a scavare la terra. Tre rimasero di guardia. Kirdžàli

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sedette sulla pietra e si mise a osservare il loro lavoro.

«Allora? manca poco?», chiedeva, «ci siete arrivati?».

«Non ancora», rispondevano i turchi e faticavano al punto da grondare sudore.

Kirdžàli cominciò a mostrare impazienza.

«Che razza di gente», diceva. «Neanche la terra sanno scavare come si deve. Io avrei concluso tutto in due minuti. Ragazzi! Scioglietemi le mani, datemi un atagàn».

I turchi restarono sovrappensiero e presero a consultarsi.

«Ebbene?», decisero, «sciogliamogli le mani, diamogli l'atagàn. Che male c'è? Lui è solo, noi siamo in sette». E i turchi gli sciolsero le mani e gli diedero l'atagàn.

Finalmente Kirdžàli era libero e armato. Che cosa doveva provare!... Cominciò a scavare di lena, i custodi lo aiutavano... A un tratto conficcò in uno di essi il suo atagàn e, lasciandogli la lama damaschinata in petto, gli strappò dalla cintura due pistole.

Gli altri sei, vedendo Kirdžàli armato di due pistole, se la diedero a gambe.

Kirdžàli adesso esercita il brigantaggio nei pressi di Iasi. Di recente ha scritto al gospodar chiedendogli cinquemila levi, e minacciando, in caso di mancato pagamento, di incendiare Iasi e di arrivare fino al gospodar in persona. I cinquemila levi gli sono stati consegnati.

Che ve ne pare di Kirdžàli?

LE NOTTI EGIZIANE

I

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«Quel est cet homme?»

«Ha, c'est un bien grand talent, il fait de sa voix tout

ce qu'il veut».

«Il devrait bien, madame, s'en faire une culotte».

Èarskij era un pietroburghese incallito. Non aveva ancora trent'anni; non era sposato; l'impiego non gli costava troppa fatica. Uno zio defunto, che era stato vicegovernatore ai bei tempi, gli aveva lasciato un discreto patrimonio. La sua vita avrebbe potuto essere molto gradevole, ma aveva la disgrazia di scrivere e pubblicare versi. Sulle riviste lo chiamavano poeta, nelle anticamere uno che scrive versi.

Nonostante i grandi privilegi di cui godono i verseggiatori (a dire la verità, a parte il diritto di mettere l'accusativo al posto del genitivo e qualche altra cosiddetta licenza poetica, non conosciamo nessun privilegio particolare dei verseggiatori russi) - comunque sia, nonostante i loro più svariati privilegi, queste persone sono esposte a grandi svantaggi e contrarietà. Il male più amaro, più intollerabile per un verseggiatore è il suo titolo e soprannome, col quale viene bollato, e che non gli si stacca mai di dosso. Il pubblico lo considera un bene proprio; ritiene che sia nato per suo utile e diletto. Se sta tornando dalla campagna, il primo che lo incontra gli domanda: non ci avete portato qualcosina di nuovo? Se si fa pensieroso per i suoi affari in dissesto, per la malattia di una persona cara, subito un triviale sorriso accompagna la triviale esclamazione: sicuramente state componendo qualcosa! S'innamora? La sua bella si compra un album al negozio inglese ed ecco che aspetta un'elegia. Se va da una persona che conosce a malapena, per parlargli di un affare importante, ecco che quello chiama il figlioletto e lo costringe a leggere i versi di un tale; e il ragazzino restituisce al verseggiatore le sue stesse rime storpiate. E

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queste sono ancora rose e fiori! Quali devono essere allora gli inconvenienti del mestiere? Èarskij confessava che complimenti, domande, album e ragazzini lo avevano così stancato che era costretto a trattenere ogni istante qualche insolenza.

Èarskij tentava in tutti i modi possibili di scrollarsi di dosso l'insopportabile appellativo. Evitava la compagnia della confraternita dei letterati e a loro preferiva le persone mondane, anche le più vuote. La sua conversazione era la più banale e non sfiorava mai la letteratura. In fatto di abbigliamento seguiva sempre l'ultimissima moda, con la timidezza e l'osservanza di un giovane moscovita arrivato per la prima volta in vita sua a Pietroburgo. Nel suo studio, arredato come la camera da letto di una signora, niente ricordava lo scrittore; non c'erano libri gettati sui tavoli e sotto i tavoli; il divano non era schizzato d'inchiostro; non c'era quel disordine che denuncia la presenza della musa e l'assenza della scopa e della spazzola. Èarskij era disperato se qualcuno dei suoi amici mondani lo sorprendeva con la penna in mano. È difficile credere a quali piccinerie potesse arrivare un uomo dotato, peraltro, d'anima e di talento. S'atteggiava ora ad appassionato di cavalli, ora a furibondo giocatore, ora a raffinato gastronomo; anche se non c'era verso che riuscisse a distinguere la razza montanara da un purosangue arabo, non ricordava mai le briscole e preferiva segretamente una patata alla brace a qualsiasi creazione della cucina francese. Conduceva la vita più dissipata; si faceva vedere a tutti i balli, si rimpinzava a tutti i pranzi diplomatici, e ad ogni ricevimento era inevitabile quanto il gelato di Rezànov.

Eppure era un poeta, e la sua passione era indomabile: quando lo coglieva quella scempiaggine (così chiamava l'ispirazione), Èarskij si rinchiudeva nel suo studio e scriveva dal mattino a notte tarda. Confessava ai suoi sinceri amici che soltanto allora conosceva la vera felicità. Per il resto del tempo se la spassava, assumendo un'aria di circostanza, fingendo, e ascoltando ogni

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istante la famosa domanda: non avete forse scritto qualcosina di nuovo?

Una mattina Èarskij sentiva di avere quella beata disposizione di spirito in cui le fantasie si delineano distintamente ai vostri occhi e voi scoprite parole vive, inaspettate, per incarnare le vostre visioni, in cui i versi si dispiegano con facilità sotto la vostra penna e rime sonore corrono incontro a un pensiero ben ordinato. Èarskij era immerso con tutta l'anima in un delizioso oblio... e il mondo, le opinioni del mondo, con i suoi particolari ghiribizzi, per lui non esistevano. Lui scriveva versi.

A un tratto la porta del suo studio cigolò e si affacciò una testa sconosciuta. Èarskij sussultò e aggrottò le sopracciglia.

«Chi è là?», domandò indispettito, maledicendo fra sé i suoi servi, che non stavano mai in anticamera.

Lo sconosciuto entrò.

Era alto di statura, magro, e dimostrava una trentina d'anni. I tratti del suo viso dall'incarnato scuro erano espressivi: la pallida fronte alta, ombreggiata da nere ciocche di capelli, gli occhi neri sfavillanti, il naso aquilino e la barba folta, che circondava guance infossate giallo-scuro, denotavano in lui lo straniero. Indossava un frac nero, già scolorito lungo le cuciture; pantaloni estivi (sebbene fuori fosse già autunno inoltrato); sotto la logora cravatta nera a farfalla sullo sparato giallognolo brillava un diamante falso; il cappello ruvido sembrava aver visto il bello e il cattivo tempo. Incontrando quest'uomo nel bosco lo avreste preso per un brigante; in società per un cospiratore politico; in anticamera per un ciarlatano che commercia in elisir e arsenico.

«Che cosa volete?», gli domandò Èarskij in francese.

«Signor», rispose lo straniero con profondi inchini, «lei voglia perdonarmi se...».

Èarskij non gli offrì una sedia e si alzò lui stesso, la conversazione

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proseguì in italiano.

«Io sono un artista napoletano», diceva lo sconosciuto, «le circostanze mi hanno costretto a lasciare la patria. Sono venuto in Russia confidando nel mio talento».

Èarskij pensò che il napoletano si preparasse a dare qualche concerto di violoncello e distribuisse i biglietti per le case. Stava già per mettergli in mano i suoi venticinque rubli per disfarsene al più presto, quando lo sconosciuto aggiunse:

«Spero, signor, che darete un, amichevole sostegno a un vostro confratello e m'introdurrete nelle case in cui voi stesso avete accesso».

Non sarebbe stato possibile destare maggiore suscettibilità nel vanitoso Èarskij. Gettò uno sguardo altezzoso a colui che si definiva suo confratello.

«Permettetemi di domandarvi: chi siete voi e per chi mi prendete?», chiese, trattenendo a fatica lo sdegno.

Il napoletano si accorse del suo risentimento.

«Signor», rispose balbettando, «ho creduto... ho sentito... la vostra eccellenza mi perdonerà...».

«Che cosa volete?», ripeté seccamente Èarskij.

«Ho sentito parlare molto del vostro talento straordinario; sono certo che i signori di qui si sentiranno onorati di offrire tutta la protezione possibile a un poeta così eccellente», rispose l'italiano, «e per questo ho osato presentarmi a voi...».

«Vi sbagliate, signor», lo interruppe Èarskij. «Il titolo di poeta da noi non esiste. I nostri poeti non si giovano della protezione dei signori; i nostri poeti sono loro stessi signori, e se i nostri mecenati (che il diavolo se li porti!) non lo sanno, peggio per loro. Da noi non ci sono abati straccioni, che un musicista prenderebbe dalla strada per farsi comporre un libretto. Da noi i poeti non vanno a

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piedi di casa in casa a mendicare un appoggio. Del resto, probabilmente ve l'hanno detto per scherzo che sono un grande poeta. È vero, un tempo ho scritto qualche cattivo epigramma, ma, grazie a Dio, coi signori verseggiatori non ho e non voglio avere niente a che fare».

Il povero italiano restò confuso. Si guardò attorno. I quadri, le statue di marmo, i bronzi, i gingilli costosi disposti sugli scaffali gotici lo colpirono. Capì che fra l'arrogante dandy che gli stava davanti in calotta di broccato con la nappa, veste da camera cinese dorata stretta in vita da uno scialle turco, e lui, povero artista girovago, con una logora cravatta e un frac usato, non c'era nulla in comune. Proferì alcune scuse sconnesse, s'inchinò, e fece per andarsene. Il suo misero aspetto commosse Èarskij, il quale, nonostante la grettezza del carattere, aveva un cuore buono e generoso. Si vergognò dell'irascibilità del suo amor proprio.

«Dove andate?», disse all'italiano. «Aspettate... Avevo il dovere di ricusare un titolo immeritato e di confessarvi che non sono un poeta. Adesso parliamo dei vostri affari. Sono pronto a contentarvi per quanto mi sarà possibile. Siete musicista?».

«No, eccellenza!», rispose l'italiano, «sono un povero improvvisatore».

«Un improvvisatore!», gridò Èarskij, sentendo tutta la crudeltà del suo contegno. «E perché non l'avete detto prima che siete improvvisatore?».

E Èarskij gli strinse la mano con un sentimento di sincero rimorso.

La sua aria amichevole rincuorò l'italiano. Si mise a parlare a cuore aperto dei suoi progetti. Il suo aspetto esteriore non era ingannevole; aveva bisogno di denaro; sperava di sistemare in qualche modo i suoi affari personali in Russia. Èarskij lo ascoltò con attenzione.

«Io spero», disse al povero artista, «che avrete successo: la società

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del luogo non ha ancora mai sentito un improvvisatore. Il fatto desterà curiosità; certo, l'italiano da noi non è una lingua diffusa, non vi capiranno; ma non è una tragedia; l'importante è che voi siate di moda».

«Ma se da voi nessuno capisce l'italiano», disse impensierito l'improvvisatore, «chi verrà a ascoltarmi?».

«Verranno, non vi preoccupate: alcuni per curiosità, altri per passare in qualche modo una serata, altri ancora per far vedere che capiscono l'italiano; ripeto, è necessario soltanto che voi siate di moda, e voi sarete di moda, eccovi la mia mano».

Èarskij si separò affettuosamente dall'improvvisatore, dopo aver preso il suo indirizzo, e quella sera stessa andò a darsi da fare per lui.

II

Io zar, io schiavo, io verme, io dio.

Deržàvin

L'indomani, nel buio e sudicio corridoio di una locanda, Èarskij andava in cerca della stanza 35. Si fermò davanti a una porta e bussò. L'italiano del giorno prima gli aprì.

«Vittoria!», gli disse Èarskij, «l'affare è concluso. La principessa *** vi offre il suo salone; ieri a un ricevimento sono riuscito a reclutare mezza Pietroburgo; fate stampare i biglietti e gli annunci. Vi garantisco se non un trionfo, almeno il guadagno...».

«E questo è l'essenziale!», esclamò l'italiano, manifestando la gioia con gesti vivaci, tipici della sua razza meridionale. «Lo sapevo che mi avreste aiutato. Corpo di Bacco! Voi siete un poeta come me; e, checché se ne dica, i poeti sono gran brave persone. Come esprimervi la mia riconoscenza? Aspettate... volete ascoltare un'improvvisazione?».

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«Un'improvvisazione!... Vuol dire che potete fare a meno del pubblico, della musica, e dello scoppio di applausi?».

«Sciocchezze, sciocchezze! Dove potrei trovare un pubblico migliore? Voi siete un poeta, mi capirete meglio di loro, e la vostra silenziosa approvazione mi è più cara di tutta una tempesta di applausi... Sedetevi da qualche parte e datemi un tema».

Èarskij si sedette su una valigia (di due sedie, che si trovavano nell'angusta topaia, una era rotta, l'altra ingombra di carte e di biancheria). L'improvvisatore prese dal tavolo una chitarra e si piantò davanti a Èarskij, sfiorando una per una le corde con le dita ossute in attesa di una richiesta.

«Eccovi un tema», gli disse Èarskij: «"il poeta sceglie da sé l'argomento dei suoi canti: la folla non ha il diritto di guidare la sua ispirazione»».

Gli occhi dell'italiano sfavillarono; trasse qualche accordo, alzò fieramente la testa, e strofe ardenti, espressione di un sentimento istantaneo, presero armoniosamente il volo dalle sue labbra... Eccole, come ce le ha riferite liberamente uno dei nostri amici dalle parole conservatesi nella memoria di Èarskij.

Il poeta va - le palpebre aperte,

Ma non vede nessuno avanti;

Per l'orlo del vestito in quel mentre

Lo tira un passante...

«Di': perché senza scopo tu vaghi?

La cima hai appena raggiunto,

Ed ecco già in basso lo sguardo rivolgi

E aspiri a discenderne tu.

Alle armonie del mondo guardi confusamente;

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Sterile febbre ti fa soffrire;

Un soggetto da nulla continuamente

Ti agita e ti attira.

Al cielo il genio deve aspirare,

Il vero poeta è costretto

Per i suoi canti ispirati

A scegliersi un sublime soggetto».

Perché nel burrone turbina il vento,

Solleva foglie, la polvere spinge via,

Mentre la nave nell'acqua senza movimento

Un suo soffio attende con bramosia?

Perché giù dai monti e sfiorando le torri

Vola l'aquila, pesante e torva,

Su un tronco secco? Domandaglielo tu.

Perché il negro suo

Ama la giovane Desdemona,

Come la luna ama della notte il tenebrore?

Perché l'aquila, il vento e il cuore

Di fanciulla le norme disdegnano.

Tale è il poeta: come Aquilone

Trascina egli quel che vuole;

Simile all'aquila volteggia

E, senza chiedere il consenso a nessuno,

Come Desdemona si elegge

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L'idolo del cuore suo.

L'italiano tacque... Èarskij taceva, trasecolato e commosso.

«Allora?», domandò l'improvvisatore.

Èarskij gli afferrò la mano e gliela strinse forte.

«Dunque?», chiese l'improvvisatore, «che ve ne pare?».

«Sorprendente», rispose il poeta. «Come! Il pensiero di un altro ha sfiorato appena il vostro udito ed è già diventato di vostro possesso, come se l'aveste portato appresso, vezzeggiato, coltivato incessantemente. Dunque per voi non esiste né il lavoro, né il raffreddamento, né quell'inquietudine che precede l'ispirazione?... Sorprendente, sorprendente!...».

L'improvvisatore rispose:

«Qualsiasi talento è inspiegabile. In che modo lo scultore in un blocco di marmo di Carrara vede celato Giove e lo mette alla luce, frantumandone con martello e scalpello l'involucro? Perché un pensiero esce dalla testa di un poeta già armato di quattro rime, scandito in piedi uguali, armoniosi? Così nessuno, salvo l'improvvisatore stesso, può capire questa rapidità d'impressioni, questo stretto legame fra la propria ispirazione e l'esterna volontà di un altro - sarebbe inutile che io stesso tentassi di spiegarlo. Piuttosto... bisogna pensare alla mia prima serata. Di che parere siete? Quale prezzo si può fissare per un biglietto, che non sia gravoso per il pubblico e che mi consenta, nel contempo, di non rimetterci? Dicono che la signora Catalani prendesse venticinque rubli. È un buon prezzo...».

Fu sgradevole per Èarskij cadere di botto dalle altezze della poesia sotto il banco del contabile, ma capiva benissimo le impellenze della vita, e si lanciò con l'italiano in calcoli mercantili. L'italiano in tale occasione rivelò un'avidità così selvaggia, un amore così scoperto per il lucro che Èarskij ne restò contrariato e si affrettò a lasciarlo per non perdere del tutto il sentimento d'entusiasmo

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suscitato in lui dal brillante improvvisatore. Assorbito dalle preoccupazioni, l'italiano non si accorse di questo cambiamento e lo accompagnò lungo il corridoio e per le scale con profondi inchini e dichiarazioni di eterna riconoscenza.

III

Prezzo del biglietto 10 rubli; inizio alle ore 7.

Locandina

Il salone della principessa *** fu messo a disposizione dell'improvvisatore. Fu eretto un palco; le sedie disposte in dodici file; il giorno stabilito, alle sette di sera, la sala fu illuminata, e sulla porta, davanti a un tavolino per la vendita e il ritiro dei biglietti, era seduta una vecchia donna dal naso lungo, con un cappellino grigio dalle penne spuntate e anelli a tutte le dita. All'ingresso c'erano dei gendarmi. Il pubblico cominciò ad affluire. Èarskij fu tra i primi ad arrivare. S'era dato molto da fare per il successo dello spettacolo e voleva vedere l'improvvisatore per sapere se fosse soddisfatto di tutto. Trovò l'italiano in un camerino laterale, che guardava con impazienza l'orologio. L'italiano era vestito in modo teatrale, tutto di nero dalla testa ai piedi; il colletto di pizzo della camicia era gettato da una parte, il collo nudo per la sua strana bianchezza si staccava nettamente dalla folta barba nera, i capelli a ciocche spioventi gli ombreggiavano la fronte e le sopracciglia. Tutto questo spiacque molto a Èarskij, al quale non riusciva gradito vedere un poeta in abbigliamento da guitto di passaggio. Dopo una breve conversazione tornò nella sala, che si andava riempiendo.

Presto tutte le file delle poltrone furono occupate da brillanti dame; gli uomini in una cornice compatta si sistemarono in piedi presso il palco, lungo le pareti e dietro le ultime sedie. I suonatori con i loro leggii occupavano entrambi i lati del palco. Un vaso di porcellana stava al centro su un tavolo. Il pubblico era numeroso.

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Tutti aspettavano impazientemente l'inizio; finalmente alle sette e mezzo i suonatori cominciarono a darsi da fare, prepararono gli archetti e si misero a suonare l'ouverture del Tancredi. Tutti presero posto e si azzittirono, rimbombarono gli ultimi accordi dell'ouverture... e l'improvvisatore, accolto da un applauso assordante che si levava da ogni parte, con profondi inchini si avvicinò all'estremo limite del palco.

Èarskij aspettava con inquietudine l'impressione che avrebbe prodotto il primo istante, ma si accorse che l'abbigliamento, a lui sembrato tanto sconveniente, non aveva prodotto lo stesso effetto sul pubblico. Èarskij stesso non vi trovò niente di ridicolo quando lo vide sul palco, col volto pallido vivamente illuminato da una quantità di lampade e candele. Gli applausi si calmarono, il mormorio si spense... L'italiano, esprimendosi in un cattivo francese, pregò i signori intervenuti di assegnargli diversi temi scrivendoli su singoli pezzetti di carta. A questo invito inatteso si guardarono tutti in silenzio l'un l'altro e nessuno rispose. L'italiano, dopo aver aspettato un po', ripeté la sua preghiera con voce timorosa e umile. Èarskij stava in piedi proprio sotto il palco; l'inquietudine s'impadronì di lui; ebbe il presentimento che la cosa senza di lui non sarebbe andata liscia e che era costretto a scrivere un suo tema. Infatti varie testoline di signore si voltarono verso di lui e si misero a chiamarlo dapprima a mezza voce, poi più forte e sempre più forte. Sentendo il nome di Èarskij, l'improvvisatore si mise a cercarlo con lo sguardo ai propri piedi e gli tese una matita e un pezzetto di carta con un sorriso amichevole. Recitare un ruolo in questa commedia a Èarskij sembrava molto sgradevole, ma non c'era niente da fare; prese carta e matita dalle mani dell'italiano, e vi scrisse qualche parola; l'italiano, presa dal tavolo l'urna, scese dal palco e la porse a Èarskij, che vi gettò dentro il suo tema. L'esempio fece effetto; due giornalisti, in qualità di letterati, si sentirono in dovere di scrivere ognuno un tema; un segretario dell'ambasciata napoletana e un giovane tornato di recente da un viaggio, in delirio per Firenze, misero nell'urna i loro bigliettini

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arrotolati; infine una giovane non bella, su ordine della madre, con le lacrime agli occhi scrisse alcune righe in italiano e, arrossendo fino agli orecchi, le porse all'improvvisatore, mentre le signore la guardavano in silenzio, con un sorrisetto appena percettibile. Ritornato sul palco l'improvvisatore poggiò l'urna sul tavolo e si mise a estrarre i bigliettini uno dopo l'altro, leggendoli ad alta voce:

La famiglia dei Cenci.

L'ultimo giorno di Pompei.

Cleopatra e i suoi amanti.

La primavera veduta da una prigione.

Il trionfo di Tasso.

«Che cosa ordina il rispettabile pubblico?», domandò umile l'italiano, «mi assegnerà lui stesso uno dei soggetti proposti oppure lascerà decidere alla sorte?...».

«A sorte!...», disse una voce dalla folla.

«A sorte, a sorte!», ripeté il pubblico.

L'improvvisatore scese di nuovo dal palco, con l'urna in mano, e domandò: «Chi si degnerà di estrarre un tema?». L'improvvisatore, fece con sguardo supplichevole il giro delle prime file di sedie. Neanche una delle brillanti dame lì sedute si mosse. L'improvvisatore, che non era abituato all'indifferenza nordica, sembrava soffrirne... a un tratto notò da un lato una manina sollevata in un piccolo guanto bianco; si voltò vivacemente da quella parte e si avvicinò alla bella e sontuosa giovane, seduta all'estremità della seconda fila. Ella si alzò senza alcun imbarazzo, con la massima semplicità affondò nell'urna l'aristocratica manina e ne trasse un rotolino.

«Abbiate la cortesia di svolgerlo e di leggere», le disse l'improvvisatore. La bella svolse il bigliettino e lesse ad alta voce:

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«Cleopatra e i suoi amanti».

Queste parole furono scandite a bassa voce, ma nella sala regnava un tale silenzio che tutti le udirono. L'improvvisatore fece un grande inchino alla bellissima dama con aria di profonda riconoscenza e tornò al suo palco.

«Signori», disse, rivolgendosi al pubblico, «la sorte mi ha assegnato come argomento d'improvvisazione Cleopatra e i suoi amanti. Prego umilmente la persona che ha scelto questo tema di chiarirmi il suo pensiero: di quali amanti qui si tratta, perché la grande regina n'aveva molti...».

A queste parole molti uomini risero forte. L'improvvisatore si confuse un po'. «Vorrei sapere», continuò, «a quale momento storico alludeva la persona che ha scelto questo tema... Le sarò molto grato se vorrà spiegarsi».

Nessuno si affrettava a rispondere. Diverse dame diressero lo sguardo sulla fanciulla non bella, che aveva scritto il tema su ordine della madre. La povera fanciulla si accorse di questa malevola attenzione e si confuse al punto che le lacrime inumidirono le sue ciglia... Èarskij non lo poté tollerare e, rivolgendosi all'improvvisatore, gli disse in italiano:

«Il tema è stato proposto da me. Mi riferivo alla testimonianza di Aurelio Vittore, il quale scrive che Cleopatra avrebbe fatto della morte il prezzo del suo amore e che si trovarono degli adoratori a cui questa condizione non fece spavento, né valse a dissuaderli... Mi sembra, comunque, che l'argomento sia un po' complicato... non potreste sceglierne un altro?...».

Ma l'improvvisatore sentiva già l'approssimarsi del dio... fece un cenno ai musicanti di suonare... Il suo viso impallidì terribilmente, fremette come assalito dalla febbre; gli occhi gli sfavillarono d'un fuoco incantato; sollevò con la mano i capelli neri, s'asciugò col fazzoletto la fronte alta, ricoperta di gocce di sudore... e

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all'improvviso fece un passo in avanti, incrociò le braccia sul petto... la musica tacque... L'improvvisazione cominciò.

La corte splendeva. In coro echeggiavano

I cantori al suono dei flauti e delle lire.

Il suo banchetto sontuoso animava

La regina con la voce e il suo guardare,

Ma all'improvviso si fece pensierosa,

E chinò sulla coppa d'oro

La testa meravigliosa...

E il sontuoso banchetto sonnecchia,

Son muti gli ospiti. Tace il coro.

Ma di nuovo la fronte ella solleva

E domanda con volto chiaro:

Trovate beatitudine nel mio amore?

Beatitudine potete comprare...

Ascoltatemi allora: è in mio potere

Fra di noi la parità decretare.

Al mercato delle passioni chi accederà?

Il mio amore io lo metto in vendita;

Dite; fra di voi chi acquistare vorrà

Una mia notte al prezzo della vita? -

Lo giuro... - o madre dei godimenti,

In modo inaudito ti servirò,

Sull'alcova di appassionati allettamenti

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Come umile mercenaria salirò.

Ascolta dunque, o potente Cipride,

E anche voi, sovrani dell'oltretomba,

Voi tutti, dei del minaccioso Ade,

Giuro che fino al sorgere dell'alba

Ogni desiderio dei miei signori

Voluttuosamente sazierò

E svelando il bacio in tutti i suoi misteri

Con divina tenerezza placherò.

Ma non appena di mattutina porpora

L'eterna aurora brillerà,

Giuro che sotto la scure della morte

La testa ai fortunati cadrà.

Disse, e il terrore tutti avvolge,

Sussultarono i cuori di passione...

Ella ascolto al mormorio confuso porge

Con fredda arroganza di espressione,

E con sguardo sprezzante circuisce

Uno per uno gli adoratori suoi...

A un tratto dalla folla uno esce,

E altri due appresso a lui.

Ardito è il loro incedere; chiari gli occhi;

Ella a loro si fa incontro;

È deciso: son comprate tre notti,

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E li chiama all'alcova della morte.

Benedette dai sacerdoti,

Adesso dalla fatale urna

Davanti agli immobili ospiti

Vengono estratte le sorti una per una.

E il primo è Flavio, guerriero ardito,

Nelle regioni romane incanutito;

Sopportare dalla donna non poteva

Il disprezzo arrogante;

Accettò la sfida del godimento,

Come nei giorni di guerra accoglieva

La sfida del furioso combattimento.

Appresso a lui Critone, giovane luminare

Nato nei boschetti di Epicuro,

Critone, adoratore e cantore

Delle Cariti, di Cipride e Amore...

Amabile agli occhi e al cuore,

Come fiore primaverile appena sbocciato,

L'ultimo ai secoli il suo nome

Non ha lasciato. Le sue gote

La prima peluria tenera ombreggiava;

Nei suoi occhi l'entusiasmo brillava;

Delle passioni la forza inesperta

Nel giovane cuore ribolliva...

Page 281: Alexander Puskin - Romanzi E Racconti

Con commozione la regina

Su di lui arrestò lo sguardo.(1)

(1) È possibile che la continuazione di questi versi sia costituita dal seguente frammento: «Ed ecco che s'è ormai nascosto il giorno, / Sorge la luna dalle corna d'oro. / I palazzi di Alessandria / Erano avvolti da dolce penombra. / Le fontane zampillano, ardono i lucernari, / L'incenso leggero sta bruciando / E voluttuosi refrigeri / Per gli dei terreni son già pronti. / Nella semioscurità della sontuosa dimora / In mezzo a meraviglie seducenti / All'ombra di porporine tende / Luccica l'alcova d'oro.» (n.d.A.)

LA FIGLIA DEL CAPITANO

Tieni da conto l'onore fin da giovane.

Proverbio

I • SERGENTE DELLA GUARDIA

Sarebbe domani capitano della guardia.

Non è necessario: che serva nell'armata.

Assai ben detto! Soffrire un po' non guasta...

...

Ma chi è suo padre?

Knjažnìn

Mio padre Andréj Petróviè Grinëv da giovane aveva prestato servizio presso il conte Münnich e si era ritirato col grado di primo

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maggiore nel 17... Da allora viveva nella sua tenuta di Simbìrsk, dove aveva sposato la signorina Avdót'ja Vasìl'evna Ju., figlia di un nobile povero del posto. Eravamo nove figli. Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell'infanzia.

Ero ancora nel ventre di mia madre che già fui iscritto al reggimento Semënovskij col grado di sergente, grazie alla bontà del maggiore della guardia principe B., nostro parente stretto. Se, al di là di ogni aspettativa, la mamma avesse partorito una figlia, mio padre avrebbe annunciato a chi di dovere la morte del sergente che non si era presentato, e la cosa sarebbe finita lì. Io ero considerato in licenza fino al termine degli studi. Allora non si veniva educati come oggi. Dall'età di cinque anni fui affidato al bracchiere Savél'iè, che per la sobria condotta era stato nominato mio precettore. Sotto la sua tutela a dodici anni imparai a leggere e scrivere in russo, e fui in grado di giudicare molto sensatamente le qualità di un levriere. A quel tempo il babbo assunse per me un francese, Monsieur Beaupré, fatto venire da Mosca insieme con la provvista annuale di vino e d'olio d'oliva. Il suo arrivo dispiacque moltissimo a Savél'iè. «Grazie a Dio», borbottava fra sé, «mi sembra che il bambino sia lavato, pettinato, ben nutrito. C'era proprio bisogno di sprecare soldi e assumere un musié, come se le persone di casa non bastassero!».

Beaupré nel suo paese era stato parrucchiere, poi soldato in Prussia, e quindi era venuto in Russia pour être outchitel, senza capire molto il significato di questa parola. Era un bravo ragazzo, ma sventato e privo di principi all'eccesso. La sua debolezza principale era la passione per il bel sesso; per le sue effusioni riceveva spesso degli spintoni, che lo facevano gemere per giornate intere. Inoltre non era neppure (come si esprimeva lui) nemico della bottiglia, cioè (per dirla in russo) gli piaceva alzare il gomito. Ma poiché il vino da noi era servito solo a pranzo, e anche allora un bicchierino a testa, e per di più il maestro di solito veniva saltato, il mio Beaupré si abituò molto presto all'acquavite russa e

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cominciò addirittura a preferirla ai vini del suo paese, in quanto di gran lunga più benefica per lo stomaco. Ci intendemmo subito, e sebbene per contratto dovesse insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scienze, preferì imparare alla svelta da me a chiacchierare alla meglio in russo, e poi ciascuno si occupò dei fatti suoi. Vivevamo d'amore e d'accordo. Non desideravo un mentore diverso. Ma presto la sorte ci separò, ed ecco in quali circostanze.

La lavandaia Palàška, una ragazza grossa e butterata, e la vaccaia guercia Akùl'ka non so come si misero d'accordo di gettarsi insieme ai piedi di mia madre, confessandosi colpevoli di imperdonabile leggerezza e lamentandosi piangendo di musié, che aveva profittato della loro inesperienza. La mamma non amava scherzare su queste cose e se ne lagnò` con mio padre. Lui era molto sbrigativo nel far giustizia. Ordinò di chiamare immediatamente quella canaglia di un francese. Gli fu riferito che musié mi stava facendo lezione. Il babbo entrò nella mia stanza. In quel momento Beaupré dormiva sul letto il sonno dell'innocenza. Io ero impegnato in faccende mie. Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta geografica. Stava attaccata al muro senza venire mai usata e da tempo mi tentava per le ampie dimensioni e la buona qualità della carta. Avevo deciso di farne un aquilone e, approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo al lavoro. Il babbo entrò proprio nell'istante in cui stavo attaccando una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza. Vedendo i miei esercizi di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse da Beaupré, lo svegliò senza alcun riguardo e si mise a coprirlo di rimproveri. Beaupré, nello scompiglio, avrebbe voluto sollevarsi ma non ci riuscì: il povero francese era ubriaco fradicio. Così la pagò per tutte. Il babbo lo tirò giù dal letto per il bavero, lo spinse fuori della porta e quel giorno stesso lo cacciò di casa, con indescrivibile gioia di Savél'iè. E con ciò ebbe fine la mia educazione.

Vivevo da minorenne, inseguendo i colombi e giocando alla

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cavallina coi ragazzini della servitù. Nel frattempo avevo compiuto sedici anni. A quel punto il mio destino cambiò.

Un giorno d'autunno la mamma faceva cuocere in salotto della marmellata al miele, ed io, leccandomi le labbra, contemplavo la schiuma che bolliva. Il babbo alla finestra leggeva l'Almanacco di corte, che riceveva ogni anno. Questo libro gli faceva sempre un grande effetto: non lo rileggeva mai senza un'intensa partecipazione, e quella lettura gli provocava sempre un incredibile rimescolio di bile. La mamma, che conosceva a memoria tutte le sue abitudini e manie, cercava sempre di cacciare il disgraziato libro il più lontano possibile, e così l'Almanacco di corte non gli capitava sott'occhio, a volte, per mesi interi. In compenso, quando per caso lo trovava, non se ne staccava più per delle ore. E così il babbo leggeva l'Almanacco di corte, stringendo di tanto in tanto le spalle e ripetendo a mezza voce: «Tenente-generale!... Nel mio distaccamento era sergente!... Cavaliere di entrambi gli ordini russi!... È passato forse tanto tempo da quando noi...». Infine il babbo scaraventò l'Almanacco sul divano e sprofondò in una meditazione che non lasciava presagire nulla di buono.

All'improvviso si rivolse alla mamma: «Avdót'ja Vasìl'evna, ma quanti anni ha Petrùša?».

«Va per i diciassette», rispose la mamma. «Petrùša è nato lo stesso anno in cui la zia Nastàs'ja Gerasìmovna è diventata cieca da un occhio, e che...».

«Bene», interruppe il babbo, «è ora che faccia il servizio militare. Basta correre per le stanze delle serve e arrampicarsi sulle piccionaie».

L'idea di doversi presto separare da me turbò a tal punto la mamma che lasciò cadere il cucchiaio nella casseruola, e le lacrime le scivolarono lungo il viso. È difficile, al contrario, descrivere il mio entusiasmo. Identificavo l'idea del servizio

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militare con l'idea della libertà, dei piaceri della vita di Pietroburgo. Mi immaginavo ufficiale della guardia, cosa che, a mio parere, costituiva il colmo della felicità umana.

Il babbo non amava né modificare i suoi propositi, né rimandarne l'attuazione. Il giorno della mia partenza fu fissato. Alla vigilia il babbo annunciò che aveva intenzione di scrivere tramite me al mio superiore, e chiese carta e penna.

«Non ti dimenticare, Andréj Petróviè», disse la mamma, «di salutare anche da parte mia il principe B.; spero, digli, che non vorrà negare a Petrùša i suoi favori».

«Che sciocchezze!», rispose il babbo accigliandosi. «Perché mai dovrei scrivere al principe B.?».

«Ma se hai detto che volevi scrivere al superiore di Petrùša».

«E allora?».

«Il superiore di Petrùša è il principe B., visto che Petrùša è iscritto al reggimento Semënovskij».

«Iscritto! E a me che cosa importa che sia iscritto? Petrùša a Pietroburgo non ci andrà. Che cosa imparerebbe prestando servizio a Pietroburgo? A fare lo spendaccione e lo scapestrato? No, che presti servizio nell'esercito, e faccia la gavetta, e senta l'odore della polvere da sparo, e diventi un soldato, non un fannullone. È iscritto nella guardia! Dov'è il suo passaporto? Dammelo qua».

La mamma andò a cercare il mio passaporto, che era custodito nel suo cofanetto insieme alla camicina con cui mi avevano battezzato, e glielo porse con mano tremante. Il babbo lo lesse attentamente, lo poggiò sul tavolo davanti a sé e cominciò la lettera.

La curiosità mi tormentava: dove mi avrebbero mandato, se non a Pietroburgo? Non staccavo gli occhi dalla penna del babbo, che si

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moveva piuttosto lentamente. Finalmente terminò, sigillò la lettera in un unico plico assieme al passaporto, si tolse gli occhiali e mi chiamò per dirmi: «Eccoti la lettera per Andréj Kàrloviè R., mio vecchio compagno e amico. Tu vai a Orenbùrg a prestare servizio sotto il suo comando».

E così tutte le mie brillanti speranze andavano in fumo! Invece della gaia vita di Pietroburgo mi attendeva la noia in una regione lontana e sperduta. Il servizio militare, al quale un momento prima pensavo con tanto entusiasmo, mi sembrò una grave disgrazia. Ma non c'era da discutere! L'indomani mattina davanti alla scalinata fu portato un calesse da viaggio; vi misero dentro la valigia, la cassetta col servizio da tè e pacchetti di panini e timballi, ultimi segni dei vezzi domestici. I genitori mi benedissero. Il babbo mi disse: «Addio, Pëtr. Servi fedelmente colui al quale presterai giuramento; obbedisci ai superiori; non inseguire il loro favore; nel servizio non farti troppo avanti; non ti sottrarre ai tuoi doveri, e ricorda il proverbio: tieni da conto il vestito fin da quando è nuovo, e l'onore fin da giovane». La mamma in lacrime raccomandava a me di aver cura della mia salute, e a Savél'iè di badare al suo bambino. Mi fecero indossare un pellicciotto di lepre, e sopra una pelliccia di volpe. Montai sul carro con Savél'iè e intrapresi il viaggio sciogliendomi in lacrime.

Quella notte stessa arrivai a Simbìrsk, ove dovevo trascorrere ventiquattr'ore per acquistare delle cose necessarie, incarico affidato a Savél'iè. Presi alloggio in una locanda. Savél'iè fin dal mattino se ne andò in giro per botteghe. Stanco di guardare dalla finestra il vicolo fangoso, andai bighellonando per tutte le stanze. Entrato nella sala da biliardo scorsi un signore alto, sui trentacinque anni, dai lunghi baffi neri, in veste da camera, con la stecca in mano e la pipa fra i denti. Giocava col biscazziere, che quando vinceva si beveva un bicchierino di vodka, quando perdeva doveva infilarsi sotto il biliardo camminando a quattro zampe. Mi misi a osservare il loro gioco. Quanto più a lungo si

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protraeva, tanto più frequenti si facevano le passeggiate a quattro zampe, finché il biscazziere rimase sotto il biliardo. Il signore proferì su di lui delle espressioni forti, a mo' di discorso funebre, e mi propose di fare una partita. Non sapendo giocare rifiutai. Questo, evidentemente, gli parve strano. Mi guardò con una certa commiserazione; ciò nonostante attaccammo discorso. Venni a sapere che si chiamava Ivàn Ivànoviè Zùrin, che era capitano del *** reggimento degli ussari, che si trovava a Simbìrsk per ricevere le reclute, e che era alloggiato nella locanda. Zùrin m'invitò a pranzare con lui, con quel che Dio mandava, da soldati. Accettai volentieri. Ci sedemmo a tavola. Zùrin beveva molto e offriva da bere anche a me, dicendo che bisognava abituarsi al servizio militare; mi raccontava aneddoti di vita militare che mancava poco mi facessero rotolare dalle risate, e ci alzammo da tavola perfetti amici. A quel punto si offrì d'insegnarmi a giocare al biliardo. «È indispensabile», disse, «per noialtri militari. Durante una campagna, per esempio, arrivi in un paesetto: di che cosa vuoi occuparti? Non si può sempre ammazzare il tempo picchiando gli ebrei. Che tu voglia o no finirai in una locanda e ti metterai a giocare al biliardo; e per questo bisogna saper giocare!». Ne fui pienamente convinto, e mi accinsi a imparare con grande applicazione. Zùrin m'incoraggiava a voce alta, si stupiva dei miei rapidi progressi e, dopo qualche lezione, mi propose di giocare a soldi, un soldo a partita, non per la vincita, ma così, solo per non giocare a vuoto, che era, secondo lui, la peggiore delle abitudini. Accettai anche questo, e Zùrin fece portare del ponce e mi esortò a assaggiarlo, ripetendo che al servizio militare bisognava abituarsi, e senza ponce che servizio era! Gli diedi retta. Nel frattempo il nostro gioco continuava. Quanto più spesso accostavo il bicchiere alle labbra, tanto più mi facevo audace. Le palle mi volavano ogni momento fuori di sponda; mi accaloravo, insultavo il biscazziere, che conteggiava Dio sa come, moltiplicavo di volta in volta la posta, in una parola mi comportavo come un ragazzino che accede improvvisamente alla libertà.

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Il tempo passò senza che me ne accorgessi. Zùrin guardò l'orologio, posò la stecca e mi annunciò che avevo perso cento rubli. Questo mi turbò leggermente. Il mio denaro lo teneva Savél'iè. Cominciai a scusarmi. Zùrin m'interruppe: «Figurati! Non te ne preoccupare proprio. Posso anche aspettare; intanto andiamo da Arìnuška».

Che volete? Conclusi la giornata nello stesso modo sconclusionato con cui l'avevo iniziata. Cenammo da Arìnuška. Zùrin mi riempiva ogni secondo il bicchiere, ripetendo che dovevo abituarmi al servizio militare. Alzandomi da tavola mi reggevo a stento; a mezzanotte Zùrin mi riaccompagnò alla locanda.

Savél'iè ci venne incontro sulla scala d'ingresso. Trasalì scorgendo i segni indubitabili del mio zelo per il servizio militare. «Che hai fatto, signore?», disse con voce lamentosa, «dove ti sei ridotto in questo stato? Oh, Signore! Da che vivo non ho mai visto un guaio così!».

«Zitto, vecchio barbogio!» gli risposi farfugliando; «sei ubriaco di sicuro, va' a dormire... e mettimi a letto».

Il giorno dopo mi svegliai col mal di testa, ricordando confusamente i fatti del giorno prima. Le mie riflessioni furono interrotte da Savél'iè, entrato da me con una tazza di tè. «Troppo presto, Pëtr Andréiè», mi disse, scrollando la testa, «troppo presto cominci ad alzare il gomito. E da chi hai preso? Mi pare che né tuo padre né tuo nonno erano ubriaconi; della mamma poi neanche parlarne: da quando è nata, a parte il kvas, non ha mai voluto bere niente. E chi ha la colpa di tutto? Quel maledetto musié. Non faceva altro che correre dall'Antìp'evna: "Madam, je vu pri, vodkju". Ed eccoti qui il je vu pri! Non c'è che dire: t'ha insegnato come si deve, figlio d'un cane. C'era proprio bisogno di prendersi per precettore un miscredente, come se al padrone non bastassero le persone di casa!».

Mi vergognavo. Mi voltai dall'altra parte e gli dissi: «Vattene,

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Savél'iè, non mi va il tè». Ma era difficile fermare Savél'iè quando attaccava la predica. «Lo vedi, Pëtr Andréiè, che cosa vuol dire ubriacarsi! Si ha la testa pesante, e ti passa la voglia di mangiare. Una persona che beve non è buona a nulla... Bevici sopra un po' di succo di cetriolo col miele, ma meglio di tutto sarebbe smaltire la sbornia con un mezzo bicchierino di acquavite. Non lo vorresti?».

In quel momento entrò un ragazzo e mi porse un biglietto da parte di I.I. Zùrin. Lo aprii e lessi le seguenti righe:

Caro Pëtr Andréeviè, ti prego di farmi avere attraverso il mio ragazzo i cento rubli che hai perso ieri al gioco. Ho estremamente bisogno di denaro.

Sempre a tua disposizione

Ivàn Zùrin

Non c'era niente da fare. Assunsi un'aria indifferente e, rivolgendomi a Savél'iè, che «del denaro, della biancheria, e degli affari miei aveva cura», gli ordinai di consegnare al ragazzo i cento rubli. «Come! perché?», domandò Savél'iè stupefatto. «Glieli devo», risposi con la maggiore freddezza possibile. «Li devi!», replicò Savél'iè, il cui stupore andava crescendo d'istante in istante; «ma quando l'hai avuto, signore, il tempo d'indebitarti? Qui c'è qualcosa che non torna. Sia come vuoi, signore, ma io denaro non ne tiro fuori».

Pensai che se in quel momento cruciale non l'avessi spuntata col vecchio testardo, mi sarebbe stato difficile in seguito liberarmi dalla sua tutela, per cui, guardandolo fieramente, dissi: «Io sono il tuo padrone, e tu il mio servo. Il denaro è mio. Io l'ho perso al gioco, perché così m'è saltato in mente; e a te consiglio di non star tanto a ragionare, ma di fare quello che ti si comanda».

Savél'iè fu così colpito dalle mie parole che batté le mani e restò impalato. «Cosa te ne stai lì fermo!», gridai irritato. Savél'iè si mise a piangere. «Bàtjuška Pëtr Andréiè», scandì con voce

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tremante, «non farmi morire di dolore. Luce mia! Ascolta me, che sono vecchio: scrivi a questo brigante che hai scherzato, che tanti soldi neppure li abbiamo. Cento rubli! Dio misericordioso! Di' che i genitori ti hanno assolutamente proibito di giocare, tranne che alle noci...». «Poche storie», lo interruppi severamente, «dammi il denaro o ti caccio via a pedate».

Savél'iè mi squadrò con profonda amarezza e andò a prendere il dovuto. Mi faceva compassione il povero vecchio, ma io volevo conquistarmi la mia libertà, e dimostrare che non ero più un ragazzino. I soldi furono consegnati a Zùrin. Savél'iè si affrettò a portarmi fuori da quella maledetta locanda. Venne ad annunciarmi che i cavalli erano pronti. Con la coscienza inquieta e un tacito pentimento partii da Simbìrsk, senza salutare il mio maestro e pensando che non l'avrei più rivisto.

II • LA GUIDA

Paese mio, piccolo paese,

Paese sconosciuto!

Non sono io che son passato,

Né il mio buon cavallo m'ha portato:

Hanno portato me, baldo giovine,

Agilità e vigore della giovinezza,

E della bettola l'ebbrezza.

Antica canzone

Le mie riflessioni di viaggio non furono molto gradevoli. La perdita al gioco, coi prezzi di allora, non era insignificante. Non potevo fare a meno di riconoscere dentro di me che il mio comportamento nella locanda di Simbìrsk era stato stupido, e mi sentivo in colpa verso Savél'iè. Tutto questo mi tormentava. Il

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vecchio sedeva tetro in serpa, voltandomi le spalle, e taceva, gemendo solo di tanto in tanto. Io volevo assolutamente fare la pace con lui, ma non sapevo da che parte cominciare. Finalmente gli dissi: «Su, su, Savél'iè! Basta, facciamo la pace, è colpa mia, e lo vedo bene da solo. Ieri l'ho fatta grossa, e ti ho offeso senza motivo. Prometto che d'ora in avanti mi comporterò più giudiziosamente e ti presterò ascolto. Su, non ti adirare; facciamo la pace».

«Eh, bàtjuška Pëtr Andréiè!», rispose lui con un profondo sospiro. «Arrabbiato io lo sono con me stesso; la colpa è tutta mia. Come ho fatto a lasciarti solo nella locanda! Che farci? Il diavolo m'ha tentato: m'è venuto in mente di passare dalla moglie del sagrestano, di vedermi con la comare. Proprio così: passi dalla comare, ti lasci incatenare. È un guaio per davvero! Come farò a presentarmi davanti agli occhi dei padroni? Che diranno quando verranno a sapere che il bambino beve e gioca?».

Per confortare il povero Savél'iè gli diedi la parola che d'ora in avanti non avrei disposto di un solo copeco senza il suo consenso. A poco a poco si calmò, anche se ogni tanto borbottava fra sé, scuotendo la testa: «Cento rubli! Un affare da niente!».

Mi stavo avvicinando al luogo di destinazione. Intorno a me si stendevano deserti malinconici, attraversati da colline e burroni. Tutto era ricoperto di neve. Il sole tramontava. Il calesse procedeva lungo una strada stretta, o, più precisamente, lungo una traccia segnata dalle slitte dei contadini. All'improvviso il vetturino si mise a guardare in una direzione e alla fine, dopo essersi sfilato il berretto, si voltò verso di me e disse: «Signore, non vorresti tornare indietro?».

«Perché mai?».

«Il tempo non fa sperare nulla di buono: si sta alzando il vento, vedrai come spazza via la neve fina».

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«E che male c'è?».

«Non vedi che cosa c'è laggiù?» (Il vetturino tese la frusta a oriente).

«Io non vedo niente, oltre alla steppa bianca e al cielo chiaro».

«Ma laggiù, laggiù: quella nuvoletta».

Scorsi effettivamente all'estremità del cielo una nuvoletta bianca, che all'inizio avevo scambiato per una collinetta lontana. Il vetturino mi spiegò che la nuvoletta annunciava un turbine di neve.

Avevo sentito parlare delle tormente di quelle parti, e sapevo che interi convogli ne venivano sepolti. Savél'iè, dello stesso parere del vetturino, consigliava di tornare indietro. Ma il vento non mi sembrò forte; confidai di raggiungere per tempo la stazione successiva e ordinai di procedere più in fretta.

Il vetturino andò al galoppo, ma continuava a guardare a oriente. I cavalli correvano di buona lena. Il vento si faceva sempre più forte. La nuvoletta si trasformò in una bianca nube, che s'alzava pesante, cresceva, e a poco a poco invadeva il cielo. Cominciò a cadere una neve minuta; a un tratto si rovesciò giù a fiocchi. Il vento si mise a ululare; si sollevò la tormenta. In un istante il cielo scuro si confuse col mare di neve. Tutto scomparve. «Eh, signore», gridò il vetturino, «sono guai: è un turbine!».

Guardai fuori del calesse: era tutto buio e la neve turbinava. Il vento ululava con un'intensità così feroce da sembrare animato; la neve ricopriva me e Savél'iè; i cavalli andavano al passo, e presto si arrestarono. «Perché non vai avanti?», domandai spazientito al vetturino. «E a che serve andare?», rispose lui, scendendo di serpa; «già così non si sa dove siamo andati a finire: non c'è strada, e intorno è buio». Cominciai a insultarlo. Savél'iè prese le sue difese: «Non hai voluto dare ascolto», diceva irritato, «saresti tornato alla locanda, avresti bevuto il tè, ti saresti riposato fino al

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mattino, la tempesta si sarebbe calmata, e poi avremmo proseguito. Dove dobbiamo correre? Ancora ancora andassi a nozze!». Savél'iè aveva ragione. Non c'era niente da fare. La neve continuava a cadere. S'ammonticchiava intorno al carro. I cavalli stavano fermi, a testa bassa, fremendo di tanto in tanto. Il vetturino andava e veniva, aggiustando i finimenti tanto per far qualcosa, Savél'iè brontolava; io guardavo in tutte le direzioni nella speranza di scorgere almeno una traccia di abitato o di strada, ma non riuscivo a distinguere niente, a parte il confuso vorticare della tormenta... All'improvviso intravidi qualcosa di nero. «Ehi, vetturino!», gridai, «guarda: cos'è che si vede di nero laggiù?». Il vetturino si mise a guardare intensamente. «Dio solo lo sa, signore», disse, sedendosi al suo posto; «un carro non è, un albero neppure, ma sembra che si muova. Dev'essere o un lupo o una persona».

Comandai di procedere verso l'oggetto sconosciuto, che subito ci si mosse incontro. Due minuti dopo arrivammo all'altezza di un uomo. «Ehi, buon uomo!», gli gridò il vetturino. «Di', non sai dov'è la strada?».

«La strada è qui; io ci sto sopra», rispose il viandante, «ma che ti serve?».

«Ascolta, contadino», gli dissi, «conosci questa zona? T'impegneresti a condurmi a un alloggio dove passare la notte?».

«La zona la conosco», rispose il viandante, «grazie a Dio l'ho percorsa a piedi e a cavallo in lungo e in largo. Ma guarda che tempo: c'è proprio da smarrire la strada. È meglio fermarsi qui e aspettare, tante volte la bufera si calmasse e il cielo si schiarisse: in tal caso troveremo la strada affidandoci alle stelle».

Il suo sangue freddo mi rincuorò. Avevo già deciso, affidandomi alla volontà di Dio, di pernottare in mezzo alla steppa, quando all'improvviso il viandante saltò agile in serpa e disse al vetturino: «Be', grazie a Dio un luogo abitato non è lontano; volta a destra e

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avviati».

«E perché devo andare a destra?», chiese il vetturino contrariato. «Dove la vedi la strada? Non c'è pericolo: cavalli d'altri, bardatura non tua, va' senza fermarti». Mi sembrava che il vetturino avesse ragione. «In effetti», dissi, «perché credi che l'abitato non sia lontano?». «Perché il vento s'è messo a soffiare di là», rispose il viandante, «e sento odore di fumo; quindi il villaggio è vicino». La sua prontezza e la finezza del suo olfatto mi strabiliarono. Ordinai al vetturino di muoversi. I cavalli avanzavano a fatica nella neve profonda. Il calesse procedeva lentamente, ora arrampicandosi su un cumulo di neve, ora sprofondando in un fossato e piegandosi ora da questa, ora da quella parte. Sembrava un bastimento che navigasse in un mare in tempesta. Savél'iè gemeva, urtandomi continuamente i fianchi. Abbassai la stuoia, mi avvolsi nella pelliccia e mi assopii, cullato dal canto della tempesta e dal dondolio della lenta andatura.

Feci un sogno che non ho mai potuto dimenticare e nel quale vedo ancora oggi qualcosa di profetico, quando lo considero insieme alle strane circostanze della mia vita. Il lettore mi scuserà, poiché, forse, saprà per esperienza che l'uomo tende per natura ad abbandonarsi alla superstizione, anche se disprezza in tutti i modi i pregiudizi.

Mi trovavo in quello stato dell'anima e dei sensi in cui la realtà, arrendendosi alle fantasticherie, si fonde con queste nelle confuse visioni del primo sonno. Mi sembrava che la tempesta infuriasse ancora, e che noi continuassimo a vagare in un deserto di neve... All'improvviso vidi un portone ed entrai nel cortile padronale della nostra casa di campagna. Il mio primo pensiero fu il timore che il babbo si adirasse contro di me per l'involontario ritorno al tetto paterno e lo considerasse una disobbedienza premeditata. Inquieto salto giù dal calesse ed ecco la mamma venirmi incontro sulla scalinata con un'aria di profonda afflizione. «Piano», mi dice, «tuo padre è in punto di morte e desidera salutarti per l'ultima volta».

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Atterrito la seguo in camera da letto. Guardo: la stanza è debolmente illuminata; accanto al letto vi sono delle persone con i visi addolorati. Piano piano mi avvicino al letto; la mamma solleva la cortina e dice: «Andréj Petróviè, è arrivato Petrùša; è tornato quando ha saputo della tua malattia; benedicilo». Mi metto in ginocchio e fisso lo sguardo sul malato. Ebbene?... Invece di mio padre vedo nel letto un contadino con la barba nera, che mi guarda allegramente. Sconcertato mi volto verso la mamma e le dico: «Come sarebbe a dire? Questo non è il babbo. Per quale ragione dovrei chiedere la benedizione a un contadino?». «Fa lo stesso, Petrùša», mi rispondeva la mamma, «è il tuo padrino: baciagli la mano, e lascia che ti benedica...». Io resistevo. Allora il contadino saltò giù dal letto, tirò fuori una scure da dietro la schiena e prese ad agitarla in tutte le direzioni. Io volevo scappare... ma non potevo; la stanza si riempì di cadaveri; io inciampavo nei corpi e scivolavo in pozze di sangue... il tremendo contadino mi chiamava carezzevolmente, dicendo: «Non temere, avvicinati che ti benedico...». Orrore e sconcerto s'impossessarono di me... e in quel momento mi svegliai; i cavalli erano fermi; Savél'iè mi tirava per un braccio dicendo: «Scendi, signore: siamo arrivati».

«Dove siamo arrivati?», domandai, stropicciandomi gli occhi.

«A una locanda. Dio ci ha assistiti, siamo andati a urtare proprio contro la staccionata. Scendi, signore, presto, e vatti a scaldare».

Scesi dal carro. La tempesta continuava, anche se con minore intensità. C'era un buio che cavava gli occhi. Il padrone ci accolse sul portone, tenendo una lanterna sotto la falda del mantello, e m'introdusse in una stanza angusta, ma piuttosto pulita; una torcia la rischiarava. Al muro erano attaccati una carabina e un alto berretto cosacco.

Il padrone, un cosacco dello Jaìk, sembrava un contadino di una sessantina d'anni, ancora fresco e vispo. Savél'iè, dietro di me, portò la cassetta da viaggio e chiese del fuoco per preparare il tè, che non mi era mai parso tanto necessario. Il padrone corse a darsi

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da fare.

«Dov'è la guida?», domandai a Savél'iè.

«Qui, vostra signoria» mi rispose una voce dall'alto. Levai lo sguardo al soppalco sulla stufa e vidi una barba nera e due occhi sfavillanti. «Allora, amico, ti sei congelato?». «Come fare a non gelarsi con questo solo caftano sottile sottile addosso! Avevo un pellicciotto di montone, ma perché nascondere i peccati? l'ho impegnato ieri dal taverniere: il gelo non mi sembrava forte». In quel momento il padrone entrò col samovàr bollente; offrii alla nostra guida una tazza di tè; il contadino scese dal soppalco. Il suo aspetto mi parve straordinario: sulla quarantina, di media statura, piuttosto magro e largo di spalle. La barba nera era un po' brizzolata; i suoi grandi occhi vivaci non riuscivano a star fermi. Il viso aveva un'espressione piuttosto gradevole, ma furbesca. I capelli erano tagliati a chierica; indossava un soprabito stracciato e larghi pantaloni tartari. Gli tesi una tazza di tè; lui l'assaggiò e fece una smorfia. «Vostra signoria, fatemi questa cortesia, comandate che mi sia portato un bicchiere di vino; il tè non è una bevanda per noi cosacchi». Assecondai volentieri il suo desiderio. Il padrone tirò fuori da un armadio a muro un fiasco e un bicchiere, gli si avvicinò e, piantandogli lo sguardo in faccia: «Eh-eh», disse, «di nuovo dalle nostre parti! Da dove t'ha mandato Dio?». La mia guida ammiccò con aria d'intesa e rispose con il modo di dire: «Nell'orto volavo, la canapa beccavo; m'ha tirato un sasso una vecchia, ma ha fatto cilecca. Be', e i vostri?».

«Eh, i nostri!», rispose il padrone, proseguendo il discorso allegorico. «Volevano suonare a vespro, ma la moglie del pope si è opposta: pope in giro, diavoli al cimitero». «Taci, zio», replicò il mio vagabondo, «se ci sarà la pioggia ci saranno anche i funghi; se ci saranno i funghi ci sarà anche il cestino. Ma ora (e a questo punto ammiccò di nuovo) nasconditi la scure dietro la schiena: gira il guardaboschi. Vostra signoria! Alla vostra salute!». Dette queste parole prese il bicchiere, si fece il segno della croce e bevve

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d'un fiato. Poi mi fece un inchino e tornò sul soppalco.

Allora non riuscivo a capire niente di quella conversazione in gergo da malavita, ma più tardi intuii che si trattava di questioni dell'esercito dello Jaìk, che a quel tempo era stato appena ridotto all'obbedienza dopo la sollevazione del 1772. Savél'iè ascoltava con aria di grande disappunto. Guardava sospettoso ora il padrone della locanda, ora la guida. La locanda, o, come si dice in quei posti, l'umét, si trovava fuori mano, nella steppa, lontano da qualsiasi luogo abitato, e assomigliava molto a un covo di briganti. Ma non c'era niente da fare. Non c'era neanche da pensare a rimettersi in viaggio. L'agitazione di Savél'iè mi divertiva molto. Intanto feci i miei preparativi per la notte e mi distesi su una panca. Savél'iè decise di sistemarsi sulla stufa; il padrone si coricò sul pavimento. Ben presto tutta la capanna si mise a russare, e io caddi addormentato come morto.

Svegliatomi al mattino piuttosto tardi vidi che la tempesta s'era calmata. Il sole splendeva. La neve era distesa come un velo accecante sulla steppa sconfinata. I cavalli erano stati attaccati. Saldai il conto col padrone, che ci fece un prezzo talmente modesto da impedire perfino a Savél'iè di mettersi a discutere e a contrattare come suo solito, e i sospetti del giorno prima svanirono completamente dalla sua testa. Chiamai la guida, la ringraziai per l'aiuto che ci aveva prestato e ordinai a Savél'iè di darle mezzo rublo di mancia. Savél'iè si rabbuiò. «Mezzo rublo di mancia!», disse, «per che cosa? perché ti sei degnato di accompagnarlo alla locanda? Sia come vuoi, signore: non abbiamo mezzi rubli in più. Se dai la mancia a tutti, presto sarai tu a patire la fame». Non potevo discutere con Savél'iè. Il denaro, stando alla mia promessa, era affidato completamente a lui. M'indispettiva però di non poter ricompensare una persona che m'aveva tirato fuori se non da un guaio, almeno da una situazione alquanto sgradevole. «Bene», dissi con freddezza; «se non vuoi dargli mezzo rublo, prendigli qualcosa dal mio vestiario. È vestito troppo leggero. Dagli il mio

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pellicciotto di lepre».

«Per carità, bàtjuška Pëtr Andréiè!», disse Savél'iè. «Che se ne fa del tuo pellicciotto di lepre? Se lo berrà, quel cane, nella prima bettola».

«Questo, vecchiettino mio, non è affar tuo», disse il mio vagabondo, «che me lo beva o no. Sua signoria si toglie la pelliccia dalle spalle per regalarmela: è la volontà del padrone, e il tuo dovere di servo è obbedire senza discutere».

«Non hai timor di Dio, brigante!», gli rispose Savél'iè con voce irritata. «Vedi che il bambino ancora non ragiona, e ti diverti a derubarlo, innocente com'è. Che te ne fai del pellicciotto del signore? Non riuscirai neanche a infilarlo su quelle dannate spallacce».

«Non star tanto a far ragionamenti», dissi al mio precettore; «porta subito qui il pellicciotto».

«Signore onnipotente!», gemette il mio Savél'iè. «Il pellicciotto di lepre quasi nuovo! E ancora ancora l'avesse dato a qualcun altro, ma a un miserabile ubriacone!».

Tuttavia il pellicciotto di lepre arrivò. Il contadino se lo provò subito. In effetti il pellicciotto, per il quale anch'io ero già troppo cresciuto, gli stava un po' stretto. Comunque ce la mise tutta e se lo infilò, strappandone le cuciture. Savél'iè mancò poco che urlasse, sentendo rompersi i fili. Il vagabondo era incredibilmente soddisfatto del mio regalo. Mi accompagnò fino al carro e inchinandosi profondamente disse: «Grazie, vostra signoria! Che il Signore Dio vi ricompensi della vostra buona azione. Non dimenticherò mai i vostri favori». Egli se ne andò per la sua strada, e io ripresi il viaggio, senza badare al cattivo umore di Savél'iè, e presto dimenticai la tempesta del giorno prima, la mia guida e il pellicciotto di lepre.

Arrivato a Orenbùrg mi presentai immediatamente al generale.

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Vidi un uomo di statura alta, ma già incurvato dalla vecchiaia. I suoi capelli lunghi erano completamente bianchi. Indossava una vecchia uniforme scolorita, che ricordava le guerre dei tempi di Anna Ioànnovna, e parlava con un forte accento tedesco. Gli porsi la lettera di mio padre. Sentendo il suo nome mi gettò una rapida occhiata: «Dio mio!», disse. «Vuol dire che è passato molto tempo da cvando tuo padre aveva la tua età? E adesso cvarda che ciovanotto ha! Il tempo, ah, il tempo!». Dissuggellò la lettera e cominciò a leggerla a mezza voce, facendo i suoi commenti. «"Egregio signor Andréj Kàrloviè, spero che vostra eccellenza»... Che sono questi complimenti? Pfui, come non si fergogna! Certo, la disciplina innanzitutto, ma si scrive così a un fecchio camerata?... "Fostra eccellenza non afrà dimenticato... hm... e... cvando... il defunto feldmaresciallo Mun... nella campagna... come pure... la Karolinka". Ehe, Bruder! Così si ricorda ancora delle nostre antiche pirichinate! "Adesso feniamo ai fatti... A foi il mio scavezzacollo"... hm... "da tenere con guanti di riccio"... che cosa sono i quanti di riccio? Dev'essere un modo di dire... Che vuol dire "tenere in quanti di riccio?"», ripeté, rivolgendosi a me.

«Significa», gli risposi con l'aria più innocente possibile, «trattare affettuosamente, non troppo severamente, dare un po' più di libertà, tenere in guanti di riccio».

«Hm, capisco... "e non dargli libertà", no, evidentemente quanti di riccio non significa quello... "Aggiunco... il suo passaporto"... Dov'è? Ah, eccolo... "cancellarlo dal Semënovskij". Bene, bene, sarà tutto fatto... "Permetterai che ti abbracci lasciando stare i gradi e... da vecchio camerata e amico". Oh, finalmente ha capito... eccetera eccetera... Allora, caro mio», disse dopo aver finito di leggere la lettera e aver messo da parte il mio passaporto, «sarà tutto fatto: sarai trasferito come ufficiale nel reggimento di ***, e per non perdere tempo, va' domani stesso alla fortezza Belogórskaja, dove sarai agli ordini del capitano Mirónov, una persona buona e onesta. Là farai per davvero il servizio militare,

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apprenderai la disciplina. A Orenbùrg non hai niente da fare; le distrazioni fanno male a un giovane. Oggi però t'invito a pranzare da me».

«Di male in peggio!», pensai fra me e me, «a che cosa mi è servito essere sergente della guardia già nel ventre materno! A che cosa mi ha portato? Al reggimento *** in una fortezza sperduta, al confine delle steppe dei kirgìzy-kajsàki!...». Pranzai da Andréj Kàrloviè; eravamo in tre col suo vecchio aiutante. Alla sua tavola regnava un'austera economia tedesca, e penso che il terrore di trovarsi qualche volta un ospite in più alla sua mensa di scapolo fosse almeno in parte la causa del mio precipitoso invio alla guarnigione. Il giorno dopo presi congedo dal generale e mi diressi verso il luogo della mia destinazione.

III • LA FORTEZZA

In fortezza noi viviamo,

Mangiamo pane e acqua beviamo;

Ma quando i nemici feroci

La festa verranno a farci,

Offriremo agli ospiti un cenone,

Caricheremo a mitraglia il cannone.

Canzone di soldati

Gente all'antica, mio caro.

Il minorenne

La fortezza Belogórskaja si trovava a quaranta verste da Orenbùrg. La strada seguiva la riva scoscesa dello Jaìk. Il fiume non era ancora gelato, e le sue onde plumbee nereggiavano tristemente fra le rive uniformi, coperte di neve bianca. Dall'altra parte si stendevano le steppe kirgize. Sprofondai in riflessioni per lo più

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malinconiche. La vita di guarnigione aveva per me poche attrattive. Cercavo d'immaginarmi il capitano Mirónov, mio futuro capo, e me lo figuravo come un vecchio severo, irascibile, che non conosceva nulla all'infuori del servizio, e pronto per qualsiasi inezia a mettermi agli arresti a pane e acqua. Nel frattempo cominciava a scendere il crepuscolo. Andavamo piuttosto veloci. «È lontana la fortezza?», domandai al mio vetturino. «No, non è lontana», rispose, «ecco, si vede già». Guardavo in tutte le direzioni, aspettandomi di vedere bastioni minacciosi, torri e un fossato, ma non vedevo nulla all'infuori di un villaggetto circondato da uno steccato di legno. Da una parte c'erano tre o quattro mucchi di fieno, coperti per metà dalla neve; dall'altra un mulino sbilenco, con le ali di scorza di tiglio pigramente abbassate. «Ma dov'è la fortezza?», chiesi sorpreso. «Eccola qua», rispose il vetturino, indicando il villaggetto, e così dicendo vi facemmo ingresso. Presso la porta vidi un vecchio cannone di ghisa; le strade erano strette e curve, le capanne basse e per lo più ricoperte di paglia. Mi feci condurre dal comandante, e un minuto dopo il carro si fermò davanti a una casetta di legno, eretta su un'altura, accanto a una chiesa anch'essa di legno.

Nessuno mi venne incontro. Entrai e aprii la porta che conduceva in anticamera. Un vecchio invalido, seduto sulla tavola, cuciva una toppa turchina sul gomito di una divisa verde. Gli ordinai di annunciarmi. «Entra, bàtjuška» rispose l'invalido: «i nostri sono in casa». Entrai in una stanzetta tutta pulita, arredata all'antica. In un angolo c'era un armadio con le stoviglie; al muro era appeso un diploma di ufficiale incorniciato sotto vetro; accanto a questo erano esibiti rozzi quadretti, che rappresentavano la presa di Küstrin e quella di Oèàkov, nonché la scelta della fidanzata e la sepoltura del gatto. Alla finestra era seduta una vecchietta in giubba imbottita con un fazzoletto in testa. Dipanava una matassa che un vecchietto guercio in uniforme da ufficiale teneva tesa fra le mani. «Che desiderate, bàtjuška?», domandò lei, continuando il suo lavoro. Risposi che ero venuto a prestar servizio e mi

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presentavo, come di dovere, al signor capitano; così dicendo feci per rivolgermi al vecchietto guercio, che avevo scambiato per il comandante, ma la padrona di casa interruppe il discorso che avevo imparato a memoria. «Ivàn Kuzmìè non è in casa», disse; «è andato a trovare padre Geràsim; ma fa lo stesso, bàtjuška, io sono sua moglie. Ti prego di volerci bene. Siedi, bàtjuška». Gridò a una serva di chiamare il sottufficiale cosacco. Il vecchietto col suo unico occhio mi scrutava incuriosito. «Posso osar chiedere», disse «in quale reggimento avete prestato servizio?». Appagai la sua curiosità. «E mi permetto di chiedere», continuò, «come mai siete passato dalla guardia in guarnigione?». Risposi che tale era stato il volere dei superiori. «Probabilmente per atti indegni di un ufficiale della guardia», continuò l'infaticabile interrogatore. «Finiscila di dir sciocchezze», gli disse la moglie del capitano; «non vedi che il ragazzo è stanco del viaggio? ha altro da pensare che dar retta a te... (e tieni più tese le mani...). Quanto a te, bàtjuška mio», continuò, rivolgendosi a me, «non ti affliggere se ti hanno mandato a finire in questo posto sperduto. Non sei né il primo, né l'ultimo. Un po' di pazienza e ti ci affezionerai. Švàbrin, Alekséj Ivànyè, sono ormai cinque anni che l'hanno trasferito da noi per un assassinio. Dio sa che cosa gli era preso! Pensa, era andato fuori città con un tenente, si erano portati appresso le spade, e giù a punzecchiarsi l'un l'altro; Alekséj Ivànyè infilzò il tenente, e per di più davanti a due testimoni! Che vuoi farci? Al peccato non si comanda».

In quel momento entrò il sottufficiale, un cosacco giovane e prestante. «Maksìmyè!», gli disse la moglie del capitano. «Trova un alloggio al signor ufficiale, e il più pulito possibile». «Ai vostri ordini, Vasilìsa Egórovna», rispose il sottufficiale. «Non si potrebbe sistemare sua signoria da Ivàn Poležàev?». «Ma che dici, Maksìmyè?», disse la moglie del capitano. «Da Poležàev anche così si sta stretti; e poi è mio compare e si ricorda che siamo suoi superiori. Accompagna il signor ufficiale... qual è il vostro nome e patronimico, bàtjuška? Pëtr Andréiè?... Accompagna Pëtr Andréiè

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da Semën Kùzov. Quel furfante ha lasciato entrare il cavallo nel mio orto. Allora, Maksìmyè, tutto a posto?».

«Tutto è tranquillo, grazie a Dio», rispose il cosacco; «solo il caporale Próchorov si è azzuffato nel bagno pubblico con Ustìn'ja Negùlina per un secchio d'acqua calda».

«Ivàn Ignàt'iè!», disse la moglie del capitano al vecchietto guercio. «Giudica un po' tu fra Próchorov e Ustìn'ja chi ha ragione e chi ha torto. E puniscili entrambi. Ebbene, Maksìmyè, va' con Dio. Pëtr Andréiè, Maksìmyè vi accompagnerà al vostro alloggio».

Mi congedai con un inchino. Il sottufficiale mi condusse a una casetta che stava sulla riva alta del fiume, proprio al limite della fortezza. Metà dell'izba era occupata dalla famiglia di Semën Kùzov, l'altra fu riservata a me. Consisteva in una sola stanza, piuttosto pulita, divisa in due parti da un tramezzo. Savél'iè cominciò a farvi ordine, io mi affacciai a una finestrella stretta. Davanti a me si stendeva la steppa malinconica. Di traverso erano allineate varie casette; per la strada gironzolava qualche gallina. Una vecchia, sugli scalini dell'ingresso con un trogolo, chiamava a gran voce i maiali, che le rispondevano con amichevoli grugniti. Ecco in che paese ero condannato a trascorrere la mia giovinezza! Mi prese la malinconia; mi allontanai dalla finestra e andai a dormire senza cena, nonostante le esortazioni di Savél'iè che ripeteva con aria afflitta: «Signore onnipotente! Non vuole mangiare niente! Che dirà la padrona se il bambino s'ammala?».

L'indomani mattina avevo appena cominciato a vestirmi che la porta si aprì, e da me entrò un giovane sottufficiale di bassa statura, dal viso di carnagione scura e tutt'altro che bello, ma incredibilmente vivace. «Scusate», mi disse in francese, «se vengo a fare senza tanti complimenti la vostra conoscenza. Ho appreso ieri del vostro arrivo; il desiderio di vedere finalmente un volto umano si è impossessato di me al punto che non ho resistito. Lo capirete quando avrete vissuto qui un altro po' di tempo». Intuii che era l'ufficiale espulso dalla guardia per duello. Ci

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presentammo subito. Švàbrin era ben lontano dall'essere stupido. La sua era una conversazione acuta e intrigante. Con grande allegria mi descrisse la famiglia del comandante, il loro ambiente e il luogo in cui mi aveva spinto la sorte. Stavo ridendo di tutto cuore quando entrò lo stesso invalido che riparava l'uniforme nell'anticamera del comandante, e a nome di Vasilìsa Egórovna m'invitò a pranzo da loro. Švàbrin si offrì d'accompagnarmi.

Avvicinandoci alla casa del comandante scorgemmo sulla piazzetta una ventina di vecchi invalidi con lunghe treccine e cappelli a tricorno. Erano allineati sull'attenti. Davanti c'era il comandante, un vecchio arzillo, alto, in berretto e veste da camera di nanchino. Quando ci vide ci si avvicinò, mi disse qualche parola affettuosa e riprese a dare comandi. Volevamo fermarci a guardare le esercitazioni, ma lui ci pregò di andare da Vasilìsa Egórovna, promettendo di raggiungerci subito. «Tanto qui», soggiunse, «non avete niente da vedere».

Vasilìsa Egórovna ci ricevette in modo semplice e cordiale, e mi trattò come se mi avesse conosciuto da sempre. L'invalido e Palàška stavano apparecchiando la tavola. «Com'è che il mio Ivàn Kuzmìè oggi s'attarda tanto a fare le esercitazioni!» disse la moglie del comandante. «Palàška, chiama il padrone a tavola. Ma dov'è Maša?». In quel momento entrò una fanciulla sui diciotto anni, dal viso tondo, colorito, e i capelli castani pettinati lisci, dietro agli orecchi che quasi le andavano in fiamme. A prima vista non mi piacque molto. La guardavo prevenuto: Švàbrin mi aveva descritto Maša, la figlia del capitano, come una perfetta sciocchina. Mar'ja Ivànovna sedette in un angolo e si mise a cucire. Nel frattempo fu servita la minestra di cavolo. Vasilìsa Egórovna, non vedendo il marito, mandò per la seconda volta Palàška a chiamarlo. «Di' al padrone che gli ospiti stanno aspettando, la minestra di cavolo si raffredda; grazie a Dio l'esercitazione non scappa; avrà tutto il tempo di sfiatarsi». Il capitano apparve poco dopo, accompagnato dal vecchietto guercio. «Che sarebbe, bàtjuška mio?», gli disse la

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moglie. «Il pranzo è servito da un pezzo, e hai voglia a chiamarti». «Dammi retta, Vasilìsa Egórovna», rispose Ivàn Kuzmìè, «avevo da fare per servizio: istruivo i soldatini». «Ih, basta!», replicò la moglie del capitano. «Hai solo la fama d'istruire i soldati: né loro imparano, né tu ci capisci niente. Faresti meglio a startene in casa a pregare Iddio. Cari ospiti, favorite a tavola».

Ci sedemmo a pranzo. Vasilìsa Egórovna non stava zitta un istante e mi tempestava di domande: chi erano i miei genitori, erano vivi, dove vivevano e qual era il loro patrimonio? Sentendo che mio padre aveva trecento contadini: «Mica uno scherzo!», disse, «allora ce n'è al mondo di gente ricca! Noi invece, bàtjuška mio, abbiamo in tutto una sola serva, Palàška, ma grazie a Dio ci accontentiamo di poco. C'è solo un guaio: Maša è una ragazza da marito, ma che dote ha? Un pettine fitto, e (Dio mi perdoni!) una monetina da tre copeche, più il rametto per andare a far la sauna. Andrebbe bene se trovasse una brava persona; altrimenti resterà zitella, eternamente da marito». Diedi un'occhiata a Mar'ja Ivànovna; era arrossita completamente, e le caddero addirittura delle lacrime nel piatto. Provai pena per lei, e m'affrettai a cambiare discorso. «Ho sentito dire», dissi abbastanza a sproposito, «che i baschiri stanno per attaccare la vostra fortezza». «Da chi l'hai sentito dire, bàtjuška?», chiese Ivàn Kuzmìè. «Me lo dicevano a Orenbùrg», risposi. «Fandonie!», disse il comandante. «Da noi è un pezzo che non se ne sente nulla. I baschiri sono un popolo pavido, e anche i kirgizy hanno avuto qualche lezione. Sta' tranquillo che non ci verranno fra i piedi, e se lo faranno darò loro una tale strigliata che li calmerò per una decina d'anni». «E voi non avete paura», continuai, rivolgendomi alla moglie del capitano, «a restare in una fortezza esposta a pericoli del genere?». «Ci si fa l'abitudine, bàtjuška mio», rispose. «Una ventina d'anni fa, quando ci trasferirono qui dal reggimento, Dio ce ne scampi quanto avevo paura di questi maledetti pagani! Non appena vedevo i loro berretti di lince, e sentivo le loro grida, ci crederesti, padre mio, il cuore quasi mi mancava! Adesso invece mi sono così

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abituata che non mi moverei neppure se venissero a dirmi che quei furfanti ronzano attorno alla fortezza».

«Vasilìsa Egórovna è una signora coraggiosissima», osservò Švàbrin con aria d'importanza. «Ivàn Kuzmìè lo può testimoniare».

«Sì, eccome», disse Ivàn Kuzmìè; «non è di quelle che si mettono paura».

«E Mar'ja Ivànovna?» chiesi, «è coraggiosa quanto voi?».

«Coraggiosa Maša?», rispose la madre. «No, Maša è paurosa. Ancora adesso non può sentire uno sparo di fucile: si mette a tremare tutta. E quando due anni fa Ivàn Kuzmìè ebbe l'idea per il mio onomastico di far sparare il nostro cannone, lei, la mia colombella, per poco dalla paura non andò all'altro mondo. Da allora non spariamo più con quel maledetto cannone».

Ci alzammo da tavola. Il capitano e la moglie andarono a dormire, e io mi recai da Švàbrin, col quale trascorsi l'intera serata.

IV • IL DUELLO

Prego, mettiti pure in guardia, allora.

Vedrai come infilzerò la tua figura!

Knjažnìn

Passò qualche settimana, e la mia vita nella fortezza Belogórskaja diventò non solo sopportabile, ma addirittura gradevole. In casa del comandante venivo accolto come un parente. Marito e moglie erano persone rispettabilissime. Ivàn Kuzmìè, diventato ufficiale da figlio di soldato, era un uomo semplice e senza istruzione, ma fidatissimo e buono. Sua moglie lo comandava, cosa che si accordava con la spensieratezza di lui. Vasilìsa Egórovna considerava le faccende inerenti al servizio militare alla stessa

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stregua di quelle domestiche, e dirigeva la fortezza con la precisione con cui mandava avanti la sua casetta. Mar'ja Ivànovna smise presto di fare la selvatica con me. Ci conoscemmo. Io in lei trovai una fanciulla giudiziosa e sensibile. Senza accorgermene m'affezionai alla buona famiglia, perfino a Ivàn Ignàt'iè, il guercio tenente di guarnigione che Švàbrin aveva inventato fosse in rapporti inammissibili con Vasilìsa Egórovna; la cosa non aveva neppure una parvenza di verosimiglianza, ma Švàbrin non se ne curava.

Fui promosso ufficiale. Il servizio non mi opprimeva. Nella fortezza protetta da Dio non c'erano né riviste, né esercitazioni, né turni di vigilanza. Il comandante istruiva i soldati di tanto in tanto, quando ne aveva voglia, ma non era ancora riuscito a ottenere che tutti sapessero qual era la destra e quale la sinistra, sebbene parecchi di loro, per non sbagliarsi, si facessero il segno della croce prima di ogni dietro-front. Švàbrin aveva diversi libri francesi. Cominciai a leggere e nacque in me una passione per la letteratura. La mattina leggevo, mi esercitavo a tradurre, e a volte anche a comporre versi. Pranzavo quasi sempre dal comandante, dove di solito trascorrevo il resto della giornata e dove la sera a volte appariva padre Geràsim con la moglie Akulìna Pamfìlovna, la gazzetta più informata dei dintorni. Con A.I. Švàbrin naturalmente m'incontravo ogni giorno, ma col tempo la sua conversazione divenne per me sempre meno gradevole. Le sue continue battute sul conto della famiglia del comandante non mi piacevano affatto, soprattutto i suoi commenti pungenti su Mar'ja Ivànovna. Altra compagnia nella fortezza non ce n'era, ma io neppure la desideravo.

Nonostante le previsioni, i baschiri non insorgevano. Attorno alla nostra fortezza imperava la quiete. Ma la pace fu interrotta da un improvviso dissidio fra noi.

Ho già detto che mi occupavo di letteratura. Le mie prove per quel tempo erano passabili, e Aleksàndr Petróviè Sumarókov, qualche

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anno più tardi, ne fece molti elogi. Un giorno riuscii a scrivere una canzoncina, della quale fui contento. Si sa che gli scrittori, a volte, con il pretesto di chiedere consigli, cercano un ascoltatore benevolo. E così, dopo aver trascritto la mia canzoncina, la portai a Švàbrin, che era l'unico in tutta la fortezza a poter apprezzare l'opera di un poeta. Dopo un piccolo preliminare tirai fuori dalla tasca il mio quaderno e gli lessi i seguenti versi:

Il pensiero amoroso distruggendo,

io tento di dimenticare,

e, ahimè, la bella Maša fuggendo,

la libertà sogno di riconquistare!

Ma gli occhi che mi hanno incantato

mi stanno davanti senza posa;

Hanno lo spirito in me turbato,

Demolito il mio riposo.

Tu, che conosci la mia infelicità,

Maša, abbi pietà di me,

vedendomi in questa feroce avversità,

poiché son prigioniero di te.

«Che cosa te ne pare?», domandai a Švàbrin, in attesa di una lode, come un tributo che mi spettasse assolutamente. Ma con mia grande rabbia Švàbrin, di solito indulgente, dichiarò in modo risoluto che la mia canzone era brutta.

«Perché?», gli domandai, nascondendo il mio risentimento.

«Perché», rispose, «versi del genere sono degni del mio maestro, Vasìlij Kirìlyè Tred'jakóvskij, e mi ricordano molto le sue strofe amorose». A quel punto mi prese il quadernetto e si mise ad analizzare ferocemente ogni verso e ogni parola, prendendomi in

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giro nel modo più molesto. Io non ressi, gli strappai dalle mani il quaderno e dissi che in vita mia non gli avrei mai più mostrato i miei componimenti. Švàbrin si mise a ridere anche di questa minaccia. «Vedremo», disse, «se manterrai la parola: chi scrive versi ha bisogno di un ascoltatore, quanto Ivàn Kuzmìè di una piccola caraffa di vodka prima di pranzo. E chi è questa Maša, alla quale dichiari la tua tenera passione e le tue pene d'amore? Non sarà mica Mar'ja Ivànovna?».

«Non sono affari tuoi», risposi oscurandomi, «chiunque sia questa Maša. Non chiedo né il tuo parere, né le tue supposizioni».

«Oh! Versificatore pieno di amor proprio e amante riservato!», continuò Švàbrin, irritandomi sempre più, «ascolta invece il suggerimento di un amico: se vuoi riuscire, ti consiglio di lasciar perdere le canzoncine».

«Che cosa significa? Spiegati, per favore».

«Con piacere. Vuol dire che se vuoi che Maša Mirònova venga da te all'imbrunire, invece di versetti teneri donale un paio di orecchini».

Mi prese a ribollire il sangue. «E come mai la pensi così?», domandai, trattenendo a fatica il mio sdegno.

«Perché», rispose con un ghigno infernale, «conosco per esperienza i suoi usi e costumi».

«Menti, canaglia!», gridai infuriato, «menti nel modo più spudorato».

Švàbrin cambiò espressione. «Questa non la passerai liscia», disse, stringendomi la mano. «Me ne darete soddisfazione».

«Prego, quando vuoi!», risposi, rallegrandomi. In quel momento ero pronto a dilaniarlo.

Mi avviai subito da Ivàn Ignàt'iè e lo trovai con l'ago in mano: su incarico della moglie del comandante stava infilzando dei funghi

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da far seccare per l'inverno. «Ah, Pëtr Andréiè!», disse, vedendomi. «Benvenuto! Qual buon vento vi porta, quale motivo, se posso domandarlo?». Gli spiegai in poche parole che avevo litigato con Alekséj Ivànyè, e che pregavo lui, Ivàn Ignàt'iè, di farmi da padrino. Ivàn Ignàt'iè mi ascoltò con attenzione, strabuzzandomi addosso il suo unico occhio. «Volete dire», mi disse, «che volete trafiggere da parte a parte Alekséj Ivànyè, e desiderate che io vi faccia da testimone? È così? oserei domandare».

«Proprio così».

«Per carità, Pëtr Andréiè! Cosa avete combinato! Voi e Alekséj Ivànyè vi siete insultati? Non è un gran guaio! Un insulto non resta attaccato al collo. Lui vi ha insultato, e voi rispondetegli per le rime; ve l'ha date sul muso, e voi restituitegli un colpo sull'orecchio, un secondo, un terzo, e ognuno poi se ne vada per conto suo; ci penseremo noi a farvi far pace. Ma vi sembra una bella cosa infilzare il prossimo, oserei chiedere? E passi ancora se voi infilzate lui: Dio lo perdoni, Alekséj Ivànyè; anch'io non ho simpatia per lui. Ma se fosse lui a passarvi da parte a parte? Che ve ne sembrerebbe? Chi avrebbe la peggio, oserei chiedere?».

Gli argomenti del giudizioso tenente non mi smossero. Rimasi della mia intenzione. «Come vi pare», disse Ivàn Ignàt'iè; «fate come credete. Ma perché io dovrei fare il testimone? Per quale motivo? Della gente si batte, capirai che spettacolo, oserei dire. Grazie a Dio ho combattuto contro gli svedesi e contro i turchi: ne ho viste di tutti i colori».

Cominciai a spiegargli in qualche modo la funzione del padrino, ma Ivàn Ignàt'iè non riusciva proprio a intendermi. «Come vi pare», disse. «Se devo immischiarmi in questa faccenda è solo per andare da Ivàn Kuzmìè a riferirgli per dovere di servizio che nella fortezza si sta meditando un misfatto, contrario agli interessi dello stato: vedremo se il signor comandante non riterrà necessario

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prendere le misure opportune...».

Mi impaurii e cominciai a pregare Ivàn Ignàt'iè di non riferire nulla al comandante; lo persuasi a fatica; lui mi diede la sua parola, ed io decisi di rinunciare a lui.

Come mia abitudine, trascorsi la serata dal comandante. Mi sforzavo di apparire gaio e indifferente, per non destare sospetti ed evitare domande inopportune, ma confesso che non avevo quel sangue freddo di cui si vantano quasi sempre coloro che si son trovati nella mia situazione. Quella sera ero propenso alla tenerezza e alla commozione. Mar'ja Ivànovna mi piaceva più del solito. L'idea che forse la vedevo per l'ultima volta le conferiva ai miei occhi qualcosa di commovente. Si presentò anche Švàbrin. Lo presi da parte e lo informai della mia conversazione con Ivàn Ignàt'iè. «A che ci servono i padrini», mi disse seccamente: «ce la caveremo senza di loro». Convenimmo di batterci dietro i covoni che si trovavano vicino alla fortezza e di trovarci là l'indomani mattina alle sette. A vederci sembravamo chiacchierare così amichevolmente che Ivàn Ignàt'iè dalla gioia si lasciò scappare qualche parola di troppo. «Avreste dovuto farlo da un pezzo», mi disse con aria soddisfatta; «una brutta pace è meglio di una bella lite, e anche se non è sincera, almeno è sana».

«Cosa, cosa, Ivàn Ignàt'iè?» disse la moglie del comandante, che faceva le carte in un angolo, «non stavo ascoltando».

Ivàn Ignàt'iè, notati in me dei segni di disappunto e rammentando la sua promessa, si confuse e non sapeva che cosa rispondere. Švàbrin accorse in suo aiuto.

«Ivàn Ignàt'iè», disse, «approva la nostra riconciliazione».

«E con chi avevi litigato, bàtjuška?».

«Abbiamo avuto una discussione piuttosto accanita con Pëtr Andréiè».

«E per che cosa?».

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«Per una vera stupidaggine: una canzoncina, Vasilìsa Egórovna».

«Avete proprio trovato di che litigare. Per una canzoncina!... Ma come è successo?».

«Ecco: Pëtr Andréiè poco tempo fa ha composto una canzone e oggi s'è messo a cantarla davanti a me, ma io ho attaccato con la mia preferita:

Figlia del capitano,

A mezzanotte non andar lontano.

«Ne è nato un diverbio. Pëtr Andréiè era sul punto di inquietarsi, ma poi ha giudicato che ognuno è libero di cantare quel che gli pare. E così si è conclusa la cosa».

La sfrontatezza di Švàbrin poco mancò che mi facesse andare in bestia, ma nessuno oltre a me capì le sue volgari allusioni; almeno, nessuno vi fece caso. Dalle canzoncine il discorso passò ai poeti, e il comandante osservò che erano tutti dissoluti e incorreggibili ubriaconi, e mi consigliò amichevolmente di lasciar perdere quest'occupazione, poiché cosa contraria agli interessi del servizio, che non conduceva a niente di buono.

La presenza di Švàbrin mi riusciva intollerabile. Presto mi congedai dal comandante e dalla sua famiglia; arrivato a casa ispezionai la mia spada, ne provai la punta e andai a dormire, dopo aver ordinato a Savél'iè di svegliarmi alle sei.

Il giorno dopo all'ora stabilita ero già dietro ai covoni, in attesa del mio avversario. Presto apparve anche lui. «Ci possono sorprendere», mi disse; «bisogna far presto». Ci sfilammo le giubbe, restammo in maniche di camicia e sguainammo le spade. In quel momento da dietro un covone apparve improvvisamente Ivàn Ignàt'iè con cinque invalidi. Ci ingiunse di recarci dal comandante. Obbedimmo seccati; i soldati ci circondarono e ci dirigemmo alla fortezza dietro Ivàn Ignàt'iè, che ci guidava

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trionfalmente, incedendo con grandissimo sussiego.

Entrammo nella casa del comandante. Ivàn Ignàt'iè spalancò la porta annunciando solennemente: «Li ho portati!». Ci venne incontro Vasilìsa Egórovna. «Ah, bàtjuški miei! Ma che sarebbe? Come? Cosa? Nella nostra fortezza tramare un assassinio! Ivàn Kuzmìè, mettili subito agli arresti! Pëtr Andréiè! Alekséj Ivànyè! Datemi qua le vostre spade, avanti, avanti. Palàška, porta queste spade nel ripostiglio. Pëtr Andréiè! Questo da te non me l'aspettavo. Non ti vergogni? Passi per Alekséj Ivànyè: è stato espulso dalla guardia per omicidio, non crede neanche nel Signore Iddio, ma tu? Vuoi seguire la stessa strada?».

Ivàn Kuzmìè era perfettamente d'accordo con la consorte e soggiunse: «Da' retta, Vasilìsa Egórovna dice la verità. I duelli sono formalmente proibiti dal regolamento militare». Intanto Palàška ci prese le spade e le portò nel ripostiglio. Non potei trattenermi dal ridere. Švàbrin mantenne la sua serietà. «Con tutto il mio rispetto per voi», le disse freddamente, «non posso fare a meno di notare che vi prendete una pena inutile sottoponendoci al vostro giudizio. Lasciatelo fare a Ivàn Kuzmìè: è affar suo»; «Ah! Bàtjuška mio!», obiettò la moglie del comandante; «marito e moglie non sono forse lo stesso spirito e la stessa carne? Ivàn Kuzmìè! Perché te ne stai lì con le mani in mano? Mettili subito in due angoli diversi a pane e acqua, perché passino loro i ghiribizzi; e che padre Geràsim imponga loro una penitenza, perché chiedano perdono a Dio e si pentano pubblicamente».

Ivàn Kuzmìè non sapeva che partito prendere. Mar'ja Ivànovna era estremamente pallida. A poco a poco la tempesta si calmò; la moglie del comandante si tranquillizzò e ci costrinse a scambiarci un bacio. Palàška ci riportò le spade. Uscimmo dalla casa del comandante apparentemente riconciliati. Ivàn Ignàt'iè ci accompagnava. «Non vi vergognate», gli dissi rabbioso, «di averci denunciato al comandante dopo avermi dato la parola di non farlo?». «Quant'è vero Iddio, a Ivàn Kuzmìè non l'ho detto»,

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rispose; «è stata Vasilìsa Egórovna a cavarmi tutto di bocca. E ha disposto tutto all'insaputa del comandante. Comunque, meno male che tutto è andato a finire così». Dette queste parole voltò per casa sua, e Švàbrin ed io rimanemmo soli. «La nostra faccenda non può concludersi qui», gli dissi. «Naturalmente», rispose Švàbrin; «mi risponderete col sangue della vostra impudenza, ma probabilmente saremo sorvegliati. Per qualche giorno dovremo fingere. Arrivederci!». E ci separammo, come se niente fosse.

Quando tornai dal comandante mi sedetti, come mia abitudine, accanto a Mar'ja Ivànovna. Ivàn Kuzmìè non era in casa; Vasilìsa Egórovna era impegnata nelle faccende domestiche. Chiacchieravamo a bassa voce. Mar'ja Ivànovna mi rimproverava teneramente l'agitazione che la mia lite con Švàbrin aveva suscitato in tutti loro. «Mi sono sentita mancare», disse, «quando ci hanno detto che avevate intenzione di battervi alla spada. Quanto sono strani gli uomini! Per una parola che una settimana dopo avrebbero certamente dimenticato sono pronti a battersi e a immolare non solo la vita, ma anche la coscienza, e la felicità di quelli che... Ma sono sicura che non siete voi quello che ha iniziato la lite. Sicuramente la colpa è di Alekséj Ivànyè».

«E perché credete che sia così, Mar'ja Ivànovna?».

«Ma, così... prende sempre in giro! A me non piace Alekséj Ivànyè. Mi ripugna; ma è strano: non vorrei per niente al mondo dispiacergli quanto lui dispiace a me. Mi darebbe una terribile inquietudine.

«E voi che cosa pensate, Mar'ja Ivànovna? Di piacergli oppure no?».

Mar'ja Ivànovna balbettò e arrossì.

«A me sembra...», disse, «credo di piacergli».

«E perché vi sembra che sia così?».

«Perché ha chiesto la mia mano».

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«La mano? Ha chiesto la vostra mano? E quando?».

«L'anno scorso. Un paio di mesi prima che arrivaste».

«E voi non avete acconsentito?».

«Come vedete. Alekséj Ivànyè è sicuramente una persona intelligente, di buona famiglia, e ha un discreto patrimonio, ma quando penso che dovrei baciarlo sotto la corona nuziale davanti a tutti... neanche morta! A nessun prezzo!».

Le parole di Mar'ja Ivànovna mi aprirono gli occhi e mi spiegarono molte cose. Capii l'insistente cattiveria con cui Švàbrin la perseguitava. Probabilmente aveva notato la nostra reciproca simpatia e tentava di allontanarci l'uno dall'altra. Le parole che avevano provocato il nostro litigio mi sembrarono ancora più disgustose quando, invece di una rozza e indecente presa in giro, vidi in esse una calunnia premeditata. Il desiderio di punire lo sfrontato maldicente si fece in me ancora più forte, e mi misi ad aspettare impazientemente l'occasione propizia.

Infatti non tardò. Il giorno dopo, mentre stavo lavorando a un'elegia e rosicchiavo la penna in attesa di una rima, Švàbrin picchiò alla mia finestra. Lasciai la penna, presi la spada, e gli uscii incontro. «A che serve rimandare?», mi disse Švàbrin, «non siamo sorvegliati. Scendiamo al fiume. Là non ci darà fastidio nessuno». Ci avviammo in silenzio. Dopo essere scesi per un sentiero ripido ci fermammo proprio lungo il fiume e sguainammo le spade. Švàbrin era più esperto di me, ma io ero più forte e più audace, e monsieur Beaupré, che un tempo era stato militare, mi aveva dato qualche lezione di scherma di cui approfittai. Švàbrin non si aspettava di trovare in me un avversario tanto pericoloso. Per lungo tempo non riuscimmo a farci alcun male; infine, accortomi che Švàbrin si stava indebolendo, presi ad attaccarlo con prontezza e lo spinsi quasi nel fiume. All'improvviso sentii il mio nome, pronunciato ad alta voce. Mi voltai e vidi Savél'iè che stava correndo verso di me lungo il sentiero scosceso... In quello

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stesso istante mi sentii fortemente trafitto al petto, un po' più giù della spalla destra; caddi e persi conoscenza.

V • L'AMORE

Ah tu, giovane, bella giovane!

Non ti maritare troppo presto;

Chiedi, giovane, a tuo padre, a tua madre,

A padre, madre, a tutta la tua gente;

Giovane, accumula saggezza,

Accumula saggezza, dote.

Canzone popolare

Se troverai di meglio mi dimenticherai,

Se troverai di peggio mi ricorderai.

Canzone popolare

Quando recuperai i sensi, per qualche tempo non riuscii a ricordare né a capire che cosa mi fosse successo. Ero disteso su un letto in una stanza sconosciuta, e sentivo una gran debolezza. Davanti a me c'era Savél'iè con una candela in mano. Qualcuno scioglieva con delicatezza le fasciature che mi tenevano serrati il petto e una spalla. A poco a poco mi si schiarirono i pensieri. Ricordai il duello e intuii di essere ferito. In quel momento cigolò la porta. «Allora, come sta?», scandì in un sussurro una voce che mi fece fremere. «Sempre nel medesimo stato» rispose Savél'iè con un sospiro; «sempre privo di conoscenza; sono già cinque giorni». Volevo girarmi, ma non ci riuscivo. «Dove sono? Chi c'è?», dissi a fatica. Mar'ja Ivànovna s'accostò al mio letto e si chinò verso di me. «Allora? Come vi sentite?», disse. «Ringraziamo Iddio», risposi con voce debole. «Siete voi, Mar'ja Ivànovna? Ditemi...». Non ebbi la forza di continuare e tacqui.

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Savél'iè esultò. La gioia gli si rifletté sul viso. «È tornato in sé! È tornato in sé!», ripeteva. «Gloria a te, Signore! Be', bàtjuška Pëtr Andréiè! Me ne hai messa di paura! Ti pare poco: cinque giorni!...». Mar'ja Ivànovna lo interruppe. «Non gli parlare tanto, Savél'iè», disse. «È ancora debole». Uscì e richiuse piano piano la porta. I miei pensieri erano in fermento. E così, ero in casa del comandante; Mar'ja Ivànovna entrava a trovarmi. Avrei voluto fare a Savél'iè diverse domande, ma il vecchio scosse la testa e si tappò gli orecchi. Chiusi gli occhi seccato e ben presto ricaddi addormentato.

Al mio risveglio chiamai Savél'iè e al suo posto mi vidi davanti Mar'ja Ivànovna; la sua voce angelica mi salutava. Non posso esprimere il delizioso sentimento che mi prese in quell'istante. Le afferrai la mano e la strinsi a me, sciogliendomi in lacrime di tenerezza. Maša non la ritirava... e all'improvviso le sue labbra sfiorarono la mia guancia, e io sentii il loro ardente e fresco bacio. Un fuoco mi percorse. «Cara, buona Mar'ja Ivànovna», le dissi, «sii mia moglie, accetta di fare la mia felicità». Lei tornò in sé. «Per amor di Dio calmatevi», disse, ritirando la mano. «Siete ancora in pericolo: la ferita può riaprirsi. Riguardatevi se non altro per me». Detto questo uscì, lasciandomi nell'estasi del rapimento. La felicità mi resuscitava. Sarà mia! Mi ama! Questo pensiero riempiva tutta la mia esistenza.

Da allora mi ristabilii a vista d'occhio. Mi curava il barbiere del reggimento, visto che nella fortezza non c'era altro medico, e, grazie a Dio, non faceva il saccente. Giovinezza e doti naturali accelerarono la mia guarigione. Tutta la famiglia del comandante vegliava su di me. Mar'ja Ivànovna non mi lasciava mai. Naturalmente alla prima occasione propizia ricominciai la dichiarazione interrotta, e Mar'ja Ivànovna mi ascoltò con più pazienza. Senza nessuna svenevolezza mi confessò l'inclinazione del suo cuore e disse che i genitori sarebbero stati certamente contenti di saperla felice. «Ma pensaci bene», aggiunse; «i tuoi

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non frapporranno qualche ostacolo?».

Rimasi soprappensiero. Non nutrivo dubbi sulla tenerezza di mia madre, ma conoscendo il carattere e la mentalità di mio padre sentivo che il mio amore non lo avrebbe troppo commosso e che l'avrebbe considerato come una follia da ragazzo. Lo confessai a cuore aperto a Mar'ja Ivànovna, e decisi comunque di scrivere a mio padre nel modo più espressivo, invocando la sua benedizione. Mostrai la lettera a Mar'ja Ivànovna che la trovò così convincente e toccante da non avere dubbi sul suo successo, e si lasciò andare ai sentimenti del suo tenero cuore con tutta la fiducia della giovinezza e dell'amore.

Con Švàbrin mi rappacificai nei primi giorni della mia convalescenza. Ivàn Kuzmìè, redarguendomi per il duello, mi disse: «Eh, Pëtr Andréiè! Dovrei metterti agli arresti, ma sei stato già punito anche senza di questo. Quanto ad Alekséj Ivànyè, l'ho rinchiuso nel magazzino del grano sotto sorveglianza, e la sua spada è tenuta sotto chiave da Vasilìsa Egórovna. Che rifletta un po' come si deve, e si penta». Io ero troppo felice per covare in cuore un sentimento astioso. Mi misi a intercedere in favore di Švàbrin, e il buon comandante, col consenso della moglie, si decise a liberarlo. Švàbrin venne da me; espresse un profondo rincrescimento per quello che era successo fra noi, ammise di essere interamente colpevole, e mi pregò di dimenticare il passato. Poiché ero incapace per natura di serbare risentimento, gli perdonai sinceramente sia la nostra lite, sia la ferita che mi aveva inferto. Nella sua maldicenza intuivo la stizza dell'amor proprio offeso e dell'amore respinto, e nobilmente scusavo il mio infelice rivale. Ben presto guarii e potei tornare al mio alloggio. Aspettavo con ansia la risposta alla lettera che avevo spedito, non osando sperare e tentando di reprimere i tristi presentimenti. Con Vasilìsa Egórovna e suo marito non avevo ancora avuto una spiegazione, ma la mia richiesta di matrimonio non avrebbe dovuto meravigliarli. Né io né Mar'ja Ivànovna tentavamo di celare loro i

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nostri sentimenti, ed eravamo sicuri in anticipo del loro consenso.

Finalmente una mattina Savél'iè entrò in camera mia con una lettera in mano. L'afferrai con trepidazione. L'indirizzo era stato scritto di pugno da mio padre. Questo mi preparò a qualcosa d'importante, visto che di solito le lettere me le scriveva la mamma, e lui alla fine aggiungeva qualche riga. Indugiai a lungo prima di togliere i sigilli al plico, leggendo e rileggendo la solenne intestazione: «A mio figlio Pëtr Andréeviè Grinëv, governatorato di Orenbùrg, fortezza Belogórskaja». Tentavo d'intuire dalla scrittura lo stato d'animo in cui era stata scritta; infine mi risolsi ad aprirla e fin dalle prime righe capii che l'intera cosa era andata al diavolo. Il contenuto della lettera era il seguente:

Figlio mio Pëtr! La tua lettera, nella quale ci chiedi la nostra benedizione di genitori e il consenso al matrimonio con Mar'ja figlia di Ivàn Mirónov, l'abbiamo ricevuta il 15 di questo mese, e non solo non intendo darti la mia benedizione, né il mio consenso, ma mi sto preparando anche a raggiungerti e a darti la lezione che ti meriti per le tue malefatte, come a un ragazzino, nonostante il tuo grado di ufficiale; infatti hai dimostrato di essere ancora indegno di portare la spada, che ti è stata affidata per difendere la patria, e non per i duelli con dei discoli del par tuo. Scriverò immediatamente ad Andréj Kàrloviè, chiedendogli di trasferirti dalla fortezza Belogórskaja in qualche altro luogo più lontano, dove ti passino i grilli per la testa. La mamma, saputo del tuo duello e che sei stato ferito, si è ammalata dal dispiacere e adesso è a letto. Che cosa ne sarà di te? Prego Dio che tu ti ravveda, anche se non oso sperare nella sua grande misericordia.

Tuo padre A.G.

La lettura di questa lettera destò in me diversi sentimenti. Le crudeli espressioni che mio padre non aveva lesinato mi offesero profondamente. Il tono di sufficienza con cui accennava a Mar'ja Ivànovna mi sembrava tanto indecente quanto ingiusto. Il pensiero del mio trasferimento dalla fortezza Belogórskaja mi terrorizzava,

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ma più di tutto mi rattristò la notizia della malattia di mia madre. Ero indignato contro Savél'iè, poiché non dubitavo che la notizia del mio duello fosse arrivata ai genitori attraverso di lui. Camminando avanti e indietro per la mia angusta stanzetta, mi arrestai davanti a lui e dissi, lanciandogli uno sguardo minaccioso: «Evidentemente non ti basta che io, grazie a te, sia stato ferito e sia rimasto un mese intero sull'orlo della tomba: vuoi distruggere anche mia madre». Savél'iè restò come fulminato. «Pietà, signore», disse, quasi singhiozzando, «che vuoi dire? Io sono il motivo per cui sei rimasto ferito! Dio mi è testimone, stavo correndo a proteggerti col mio petto dalla spada di Alekséj Ivànyè! La vecchiaia maledetta mi è stata d'impedimento. Ma che cosa ho fatto io alla tua mamma?». «Che cosa hai fatto?», risposi. «Chi ti ha chiesto di riferire quel che mi è successo? Mi sei stato messo accanto come spia?» «Io? Riferire?», rispose Savél'iè in lacrime. «O Signore, re dei cieli! Allora leggi quello che mi scrive il padrone: vedrai come ho fatto la spia». A questo punto tirò fuori dalla tasca una lettera e io lessi quanto segue:

Vergognati, vecchio cane, di non avermi fatto rapporto, malgrado i miei ordini perentori, su mio figlio Pëtr Andréeviè, e che degli estranei siano stati costretti a informarmi delle sue manchevolezze. È così che compi il tuo dovere e la volontà del tuo padrone? Ti manderò, vecchio cane, a pascolare i porci per occultamento della verità e connivenza con il giovane. Non appena avrai ricevuto questa ti ordino di rispondermi immediatamente come va adesso la sua salute, della quale mi scrivono che è migliorata, in quale punto esattamente è stato ferito e se è stato curato bene.

Era evidente che Savél'iè di fronte a me era nel giusto, e che lo avevo offeso a torto con l'ammonimento e il sospetto. Gli chiesi perdono, ma il vecchio era sconsolato. «Ecco che cosa mi tocca vedere», ripeteva; «ecco quali benefici ottengo dai miei padroni! Sono un vecchio cane, un guardiano di porci, e anche la causa della tua ferita? No, bàtjuška Pëtr Andréiè! Non io, ma quel

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maledetto musié ha la colpa di tutto: è lui che ti ha insegnato a punzecchiare con gli spiedi di ferro e a pestare i piedi, come se infilzando e pestando in terra ci si difendesse da una persona cattiva! C'era proprio bisogno di prendere quel musié e di spendere soldi inutilmente!».

Ma chi allora si era preso la briga d'informare mio padre della mia condotta? Il generale? Eppure sembrava non preoccuparsi troppo di me, e Ivàn Kuzmìè non aveva stimato necessario fare un rapporto sul mio duello. Mi perdevo in congetture. I miei sospetti si concentrarono su Švàbrin. Lui solo aveva interesse a fare la spia, per provocare il mio allontanamento dalla fortezza e la rottura con la famiglia del comandante. Andai ad annunciare tutto questo a Mar'ja Ivànovna. Ella mi venne incontro sulla scala d'ingresso. «Che cosa vi è accaduto?», disse, vedendomi. «Come siete pallido!». «È finita!», risposi, e le porsi la lettera di mio padre. Lei impallidì a sua volta. Dopo averla letta, mi rese la lettera con mano tremante e con voce tremante disse: «Evidentemente non è mio destino... I vostri genitori non mi vogliono nella vostra famiglia. Sia fatta in tutto la volontà del Signore! Dio sa meglio di noi quel che ci occorre. Non c'è niente da fare, Pëtr Andréiè; siate felice almeno voi...». «Non sia mai!», gridai, prendendola per mano; «tu mi ami; io sono pronto a tutto. Andiamo a gettarci ai piedi dei tuoi genitori; sono persone semplici, non orgogliosi dal cuore duro... Ci daranno la loro benedizione, ci sposeremo... e poi, col tempo, sono sicuro che riusciremo a piegare mio padre; la mamma sarà dalla parte nostra, lui mi perdonerà». «No, Pëtr Andréiè», rispose Maša, «io non ti sposerò senza la benedizione dei tuoi genitori. Senza la loro benedizione non potrai essere felice. Sottomettiamoci alla volontà di Dio. Se troverai la sposa che ti è destinata, se amerai un'altra... Dio ti protegga, Pëtr Andréiè; ed io per voi due...». A questo punto scoppiò a piangere e si allontanò; avrei voluto seguirla nella sua stanza, ma sentivo di non essere in grado di dominarmi, e tornai a casa.

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Sedevo immerso in una profonda malinconia, quando a un tratto Savél'iè interruppe le mie riflessioni. «Ecco, signore», disse, porgendomi un foglio di carta coperto di scrittura; «guarda se sono io che denuncio il mio padrone e che cerco di mettere contro padre e figlio». Presi il foglio dalle sue mani: era la risposta di Savél'iè alla lettera che aveva ricevuto. Eccola, parola per parola:

Signore Andréj Petróviè,

Padre nostro misericordioso!

Ho ricevuto la vostra cortese lettera, nella quale vi degnate di adirarvi contro di me, vostro servo, dicendo che mi devo vergognare di non eseguire gli ordini del padrone; ma io non sono un vecchio cane, sono il vostro servo fedele, obbedisco agli ordini del padrone, vi ho sempre servito con impegno fino ad ora, che ho i capelli bianchi. Della ferita di Pëtr Andréiè non vi avevo scritto nulla per non mettervi paura a vuoto, e sento che la padrona, la madre nostra Avdót'ja Vasìl'evna, si è addirittura messa a letto dallo spavento, e pregherò il Signore per la sua salute. Pëtr Andréiè invece è stato ferito sotto la spalla destra, al petto, proprio sotto l'ossicino, a quattro dita di profondità, ed è stato a letto in casa del comandante, dove l'avevano portato dalla riva, e lo ha curato il barbiere di qui Stepàn Paramónov; e adesso Pëtr Andréiè, grazie a Dio, sta bene, e su di lui non c'è da scrivere altro che cose buone. I comandanti, a quanto sento, sono contenti di lui; e Vasilìsa Egórovna lo tratta come un figlio. Se poi gli è capitato questo fatto, quello che è stato non si può rimproverare a un giovane coraggioso: anche il cavallo, che ha quattro zampe, inciampa. E voi vi degnate di scrivermi che mi manderete a pascolare i maiali, e anche questo può la vostra volontà di padrone. Con questo m'inchino umilmente.

Il vostro servo fedele

Archìp Savél'ev

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Non potei fare a meno di sorridere parecchie volte, leggendo l'epistola del buon vecchio. Di rispondere a mio padre io non ero in condizioni, e per rasserenare la mamma la lettera di Savél'iè mi parve sufficiente.

Da allora la mia situazione cambiò. Mar'ja Ivànovna quasi non mi parlava e cercava di evitarmi in tutti i modi. La casa del comandante mi venne a noia. A poco a poco imparai a starmene da solo a casa mia. Vasilìsa Egórovna all'inizio me ne faceva una colpa, ma poi, vedendo la mia ostinazione, mi lasciò in pace. Con Ivàn Kuzmìè mi vedevo solo quando lo richiedeva il servizio. Con Švàbrin m'incontravo di rado e di malavoglia, tanto più che sentivo in lui una malcelata ostilità nei miei confronti, e questo confermava i miei sospetti. La vita si fece per me insostenibile. Caddi in una cupa malinconia, alimentata dalla solitudine e dall'ozio. Il mio amore ardeva nell'isolamento e si faceva d'ora in ora più penoso. Persi la voglia di leggere e di scrivere. Il mio spirito si demoralizzò. Temevo o d'impazzire o di avventarmi nella depravazione. Avvenimenti inaspettati, che influenzarono fortemente tutta la mia vita, diedero all'improvviso alla mia anima una violenta e benefica scossa.

VI • L'EPOCA DI PUGAÈËV

Ascoltate, voi giovani ragazzi,

Quel che noi, vecchi vegliardi, vi racconteremo.

Canzone

Prima che passi a descrivere gli strani avvenimenti dei quali sono stato testimone, devo dire qualche parola sulla situazione in cui si trovava il governatorato di Orenbùrg alla fine del 1773.

Tale esteso e ricco governatorato era abitato da una moltitudine di popoli semiselvaggi, che avevano riconosciuto solo da poco la sovranità degli zar russi. Le loro incessanti rivolte, la scarsa

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consuetudine alle leggi e alla vita civile, la loro leggerezza ed efferatezza rendevano necessaria da parte del governo una vigilanza costante per mantenerli in obbedienza. Le fortezze erano state costruite in luoghi giudicati adatti, ed erano abitate in gran parte dai cosacchi, antichi possessori delle rive dello Jaìk. Ma i cosacchi dello Jaìk, che dovevano assicurare la tranquillità e la sicurezza di quella regione, da qualche tempo erano diventati loro stessi sudditi irrequieti e pericolosi per il governo. Nel 1772 scoppiò una rivolta nella loro piccola capitale. A provocarla erano stati i severi provvedimenti presi dal general maggiore Traubenberg per sottoporre l'esercito all'obbedienza. Conseguenza ne fu la barbara uccisione di Traubenberg, un mutamento arbitrario nella gestione del potere e infine la repressione della rivolta con la mitraglia e crudeli punizioni.

Questo era accaduto qualche tempo prima del mio arrivo nella fortezza Belogórskaja. Tutto poi era tornato calmo o pareva tale; i superiori avevano creduto troppo alla leggera al finto ravvedimento degli astuti ribelli, che covavano in segreto il loro rancore e aspettavano l'occasione per rinnovare i disordini.

Torno al mio racconto.

Una sera (al principio di ottobre del 1773) stavo in casa da solo, ad ascoltare l'ululato del vento autunnale e a guardare dalla finestra le nuvole che scorrevano accanto alla luna. Vennero a chiamarmi da parte del comandante. Mi recai immediatamente da lui. Dal comandante trovai Švàbrin, Ivàn Ignàt'iè e il sottufficiale cosacco. Nella stanza non c'erano né Vasilìsa Egórovna, né Mar'ja Ivànovna. Il comandante mi salutò con aria apprensiva. Richiuse la porta, fece accomodare tutti tranne il sottufficiale cosacco, che stava accanto alla porta, tirò fuori dalla tasca un foglio e ci disse: «Signori ufficiali, una notizia importante! Ascoltate quello che scrive il generale». A questo punto s'infilò gli occhiali e lesse quanto segue:

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«Al Signor Comandante della fortezza Belogórskaja

capitano Mirónov.

Riservata

Con la presente vi avviso che il cosacco del Don evaso di prigione e scismatico Emel'jàn Pugaèëv, dopo aver avuto l'imperdonabile arroganza di attribuirsi il nome del defunto imperatore Pietro III, ha radunato una banda di malfattori, istigato la rivolta nei villaggi dello Jaìk e ha già preso e devastato diverse fortezze, effettuando dappertutto saccheggi e massacri. Pertanto, ricevendo la presente, vogliate, signor capitano, intraprendere immediatamente le misure necessarie per respingere il bandito e usurpatore sunnominato, e, se possibile, per eliminarlo del tutto nel caso attaccasse la fortezza affidata alla vostra tutela.

«Intraprendere le misure necessarie!», disse il comandante, sfilandosi gli occhiali e ripiegando il foglio. «Da' retta, è facile a dirsi. Il brigante ha l'aria d'esser forte, e noi abbiamo centotrenta uomini in tutto, senza contare i cosacchi, sui quali c'è poco da fare affidamento, senza offesa per te, Maksìmyè. (Il sottufficiale ridacchiò). Comunque c'è poco da fare, signori ufficiali! Siate scrupolosi, mettete sentinelle e pattuglie notturne; in caso di attacco chiudete la porta della fortezza e fate uscir fuori i soldati. Tu, Maksìmyè, tieni bene d'occhio i tuoi cosacchi. Il cannone va ispezionato e pulito per bene. E soprattutto mantenete il segreto in modo che nessuno nella fortezza venga a saperlo anzitempo».

Dopo aver distribuito tali ordini, Ivàn Kuzmìè ci congedò. Io uscii con Švàbrin, commentando quanto avevamo sentito. «Che cosa ne pensi, come andrà a finire?», gli domandai. «Dio solo lo sa», rispose lui; «vedremo. Di grave per adesso non vedo ancora niente. Se però...». Dopo di che si fece pensieroso e si mise a fischiettare distrattamente un'aria francese.

Nonostante tutte le nostre precauzioni, la notizia della comparsa di

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Pugaèëv si diffuse per la fortezza. Ivàn Kuzmìè, anche se aveva grande considerazione della sua consorte, per niente al mondo le avrebbe svelato un segreto che gli era stato confidato per motivi di servizio. Ricevuta la lettera dal generale, aveva allontanato in modo abbastanza magistrale Vasilìsa Egórovna, dicendole che padre Geràsim aveva ricevuto da Orenbùrg notizie strabilianti che teneva in gran segreto. Vasilìsa Egórovna aveva voluto subito andare a trovare la moglie del prete e, su consiglio di Ivàn Kuzmìè, aveva portato con sé anche Maša, perché non si annoiasse da sola.

Ivàn Kuzmìè, rimasto padrone assoluto della casa, ci aveva subito mandato a chiamare, e aveva rinchiuso Palàška nel ripostiglio, affinché non potesse origliare.

Vasilìsa Egórovna tornò a casa senza essere riuscita a carpire niente dalla moglie del prete, e venne a sapere che in sua assenza c'era stata una riunione da Ivàn Kuzmìè, e che Palàška era stata rinchiusa sotto chiave. Intuì che era stata ingannata dal marito, e si mise a importunarlo con un interrogatorio. Ma Ivàn Kuzmìè era preparato all'attacco. Non si scompose affatto e rispose con baldanza alla sua curiosa convivente: «Dammi retta, màtuška: le nostre donne hanno pensato bene di accendere le stufe con la paglia, ma siccome ne può venir fuori una disgrazia, ho dato loro l'ordine perentorio di non accendere d'ora in avanti le stufe con la paglia, ma con sterpi e ramaglie». «E che bisogno avevi mai di rinchiudere Palàška?», domandò la moglie del comandante. «Perché quella povera ragazza è rimasta chiusa nel ripostiglio fintanto che non siamo tornate?». Ivàn Kuzmìè non era preparato a questa domanda; si confuse e borbottò qualcosa di molto sconnesso. Vasilìsa Egórovna vide che suo marito faceva il furbo, ma, sapendo che non ne avrebbe ricavato niente, lasciò perdere le domande e portò il discorso sui cetrioli in salamoia che Akulìna Pamfìlovna preparava in un modo veramente speciale. Tutta la notte Vasilìsa Egórovna restò sveglia senza chiudere occhio, e non

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riuscì a intuire in alcun modo che cosa avesse in testa suo marito che lei non potesse sapere.

Il giorno dopo, di ritorno dalla messa, vide Ivàn Ignàt'iè che tirava fuori dal cannone pezzetti di straccio, sassolini, schegge di legno, dadi e immondizie di ogni sorta, cacciate là dentro dai ragazzini. «Che cosa starebbero a significare questi approntamenti militari?» pensò la moglie del comandante, «non aspetteranno mica un attacco da parte dei kirgizy? Ma forse Ivàn Kuzmìè potrebbe nascondermi delle sciocchezze come queste?». Chiamò Ivàn Ignàt'iè con il fermo proposito di carpirgli il segreto che tormentava la sua curiosità femminile.

Vasilìsa Egórovna gli fece qualche osservazione di carattere domestico, come un giudice che cominci l'istruttoria con domande indirette per intorpidire fin dall'inizio la reticenza dell'interrogato. Poi, dopo essere stata zitta per qualche minuto, trasse un profondo sospiro e disse, scuotendo la testa: «Signore Dio mio! Guarda un po' che novità! Che cosa ne verrà fuori?».

«Ih, matuška!», rispose Ivàn Ignàt'iè. «Dio ha misericordia: soldati ne abbiamo abbastanza, polvere ce n'è molta, il cannone l'ho pulito. Magari lo respingeremo questo Pugaèëv. Se il Signore non ci abbandonerà, il porco non ci mangerà!»

«E che razza di uomo è questo Pugaèëv?», domandò la moglie del comandante.

Allora Ivàn Ignàt'iè si accorse di aver parlato troppo e si morse la lingua. Ma ormai era tardi. Vasilìsa Egórovna lo obbligò a confessare tutto, dopo avergli dato la parola di non raccontarlo a nessuno.

Vasilìsa Egórovna mantenne la promessa e non ne fece parola a nessuno, tranne alla moglie del prete, solamente perché la sua mucca pascolava ancora nella steppa e poteva essere portata via dai malfattori.

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Presto cominciarono tutti a parlare di Pugaèëv. I pareri erano diversi. Il comandante affidò al sottufficiale cosacco l'incarico d'informarsi ben bene di tutto in giro per i villaggi e le fortezze vicine. Il sottufficiale cosacco tornò due giorni dopo e dichiarò che nella steppa, a una sessantina di verste dalla fortezza, aveva visto una gran quantità di fuochi e aveva sentito dire dai baschiri che stava avanzando una forza soverchiante. Per il resto non poteva dire nulla di concreto, perché aveva temuto di spingersi oltre.

Nella fortezza, fra i cosacchi, si cominciò a notare un insolito trambusto; si accalcavano in tutte le strade a gruppi, discorrevano a bassa voce fra di loro e si disperdevano alla vista di un dragone o di un soldato della guarnigione. In mezzo a loro furono mandate delle spie. Julàj, un calmucco battezzato, fece al comandante un rapporto di grande importanza. Le deposizioni del sottufficiale, stando alle parole di Julàj, erano false: al suo ritorno il cosacco menzognero aveva annunciato ai compagni di essere stato presso i rivoltosi e di essersi presentato al loro capo in persona, che si era lasciato baciare la mano e aveva conversato a lungo con lui. Il comandante mise subito il sottufficiale agli arresti, e assegnò Julàj al suo posto. Questa novità fu disapprovata dai cosacchi manifestatamente. Essi mormoreggiavano rumorosamente, e Ivàn Ignàt'iè, esecutore dell'ordine del comandante, li sentiva con i propri orecchi che dicevano: «Un giorno o l'altro te la faremo vedere, topo di guarnigione!». Il comandante pensava d'interrogare l'arrestato il giorno stesso, ma il sottufficiale scappò dalla prigione, probabilmente con l'aiuto dei complici. Una nuova circostanza accrebbe l'inquietudine del comandante. Fu arrestato un baschiro con dei volantini che incitavano alla ribellione. In seguito a questo fatto il comandante pensò di radunare un'altra volta i suoi ufficiali e a tale scopo volle nuovamente allontanare Vasilìsa Egórovna con un pretesto plausibile. Ma poiché Ivàn Kuzmìè era il più schietto e leale degli uomini, non trovò un mezzo diverso da quello di cui si era già servito una volta.

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«Dammi retta, Vasilìsa Egórovna», le disse tossicchiando. «Si dice che padre Geràsim abbia ricevuto dalla città...». «Basta dir fandonie, Ivàn Kuzmìè», lo interruppe la moglie; «è chiaro che vuoi riunire il consiglio e discutere senza di me di Emel'jàn Pugaèëv, ma non lo farai neanche per sogno!». Ivàn Kuzmìè sgranò gli occhi. «Be', màtuška», disse, «se sai già tutto, rimani pure, discuteremo in tua presenza». «Così sì che va bene, padre mio, la furbizia non fa per te; manda a chiamare gli ufficiali».

Ci riunimmo un'altra volta. Ivàn Kuzmìè ci lesse in presenza della moglie il proclama di Pugaèëv, scritto da qualche cosacco semianalfabeta. Il bandito dichiarava la sua intenzione di marciare immediatamente contro la nostra fortezza; invitava cosacchi e soldati nella sua banda, ed esortava i comandanti a non opporre resistenza, minacciando di giustiziarli in caso contrario. L'appello era scritto con espressioni rozze ma efficaci, e doveva produrre un effetto pericoloso sulle menti semplici.

«Che farabutto!» esclamò la moglie del comandante. «Che cosa ha ancora il coraggio di proporci! Andargli incontro e deporre i vessilli ai suoi piedi! Ah, figlio di un cane! Non sa forse che prestiamo servizio ormai da quarant'anni e che, se Dio vuole, ne abbiamo viste di tutte? Possibile che si siano trovati comandanti che abbiano dato ascolto al brigante?».

«Apparentemente non ce ne dovrebbero essere», rispose Ivàn Kuzmìè. «Ma a quel che si sente dire il brigante è già entrato in possesso di molte fortezze».

«Si vede che è forte per davvero», osservò Švàbrin.

«Adesso conosceremo la sua vera forza», disse il comandante. «Vasilìsa Egórovna, dammi la chiave del magazzino. Ivàn Ignàt'iè, conduci qui il baschiro e comanda a Julàj di portare qui le fruste».

«Aspetta, Ivàn Kuzmìè», disse la moglie del comandante, alzandosi dal posto. «Fammi portare Maša fuori di casa, sennò

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sentirà gridare e si metterà paura. Anch'io, a dire la verità, non ho passione per la tortura. Auguri».

La tortura nell'antichità era così radicata negli usi della procedura che il benefico decreto che l'aveva abolita restò a lungo lettera morta. Si riteneva che la confessione del malfattore fosse indispensabile per stabilire appieno la sua colpa - idea non solo infondata, ma anche assolutamente contraria al buon senso giuridico: infatti, se la negazione dell'accusato non viene accolta a riprova della sua innocenza, tanto meno la sua confessione deve essere prova della sua colpevolezza. Ancora adesso mi capita di sentire vecchi giudici rimpiangere l'abolizione di quella barbara usanza. Ai nostri tempi nessuno dubitava della necessità della tortura: né i giudici, né gli accusati. E così l'ordine del comandante non meravigliò né sconvolse nessuno di noi. Ivàn Ignàt'iè andò a prendere il baschiro tenuto sotto chiave nel magazzino dalla moglie del comandante, e qualche minuto più tardi il prigioniero fu condotto in anticamera. Il comandante ordinò che glielo portassero davanti.

Il baschiro varcò la soglia con difficoltà (aveva i ceppi ai piedi) e, dopo essersi sfilato il suo alto berretto, si arrestò sulla porta. Gli lanciai un'occhiata ed ebbi un fremito. Non dimenticherò mai quell'uomo. Sembrava avesse più di settant'anni. Non aveva né naso né orecchi. La testa era rasata; al posto della barba gli spuntava qua e là qualche pelo bianco; era piccolo di statura, secco e curvo, ma i suoi occhietti socchiusi fiammeggiavano ancora come fuoco. «Ehe!», disse il comandante, dopo aver riconosciuto, dai suoi tremendi connotati, uno dei ribelli puniti nel 1741. «Si vede bene, vecchio lupo, che sei rimasto già preso nelle nostre tagliole. Dunque non è la prima volta che fai il ribelle, se hai la zucca così ben piallata. Fatti un po' più accosto; di', chi ti ha mandato?».

Il vecchio baschiro taceva e guardava il comandante con un'aria totalmente inespressiva. «Perché te ne stai zitto?», continuò Ivàn

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Kuzmìè, «o non capisci un accidente di russo? Julàj, chiedigli nella vostra lingua: chi l'ha mandato nella nostra fortezza?».

Julàj riformulò in tartaro la domanda di Ivàn Kuzmìè. Ma il baschiro continuava a guardarlo con la stessa espressione e non rispondeva una parola.

«Jakši», disse il comandante; «ti farò parlare io. Ragazzi! Sfilategli di dosso quello stupido caftano a righe e fategli la schiena a strisce. Mi raccomando, Julàj: concialo per bene!».

Due invalidi presero a spogliare il baschiro. Il viso del disgraziato manifestò angoscia. Si guardava in giro da tutte le parti, come una bestiolina acchiappata dai bambini. Quando poi uno degli invalidi lo prese per le braccia, se le mise intorno al collo sollevando il vecchio sulle sue spalle, e Julàj prese la frusta e la levò in alto, il baschiro cominciò a gemere con voce fiacca, supplichevole, e, scuotendo la testa, aprì la bocca, nella quale al posto della lingua si agitava un corto troncone. Quando mi viene in mente che questo è successo nel corso della mia vita e che oggi sono arrivato a vedere il mite regno dell'imperatore Alessandro, non posso fare a meno di stupirmi dei rapidi progressi della civiltà e della diffusione dei principi umanitari. Giovane! Se le mie memorie ti capiteranno fra le mani, ricorda che i migliori e più stabili cambiamenti sono quelli che avvengono con il miglioramento dei costumi, senza alcuna violenta scossa.

Rimasero tutti sbigottiti. «Bene», disse il comandante, «è chiaro che non ne caveremo nulla. Julàj, riaccompagna il baschiro nel magazzino. Noi, invece, signori, abbiamo ancora qualche punto da esaminare».

Stavamo discutendo sulla nostra situazione quando all'improvviso Vasilìsa Egórovna entrò nella stanza, ansimando e con aria assolutamente sconvolta.

«Che ti è successo?», chiese stupefatto il comandante.

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«Bàtjuški, una disgrazia!», rispose Vasilìsa Egórovna. «La fortezza Nižneozërnaja è stata presa stamattina. Un lavorante di padre Geràsim è tornato adesso di là. Ha visto come l'hanno presa. Il comandante e tutti gli ufficiali sono stati impiccati. Tutti i soldati sono stati fatti prigionieri. Da un momento all'altro i furfanti saranno qui».

Questa notizia inattesa mi lasciò costernato. Conoscevo il comandante della fortezza Nižneozërnaja, un giovane calmo e riservato: un paio di mesi prima, partito da Orenbùrg, era passato di lì con la giovane moglie, e si era fermato da Ivàn Kuzmìè. La fortezza Nižneozërnaja si trovava a circa venticinque verste dalla nostra. Da un momento all'altro dovevamo aspettarci anche noi l'assalto di Pugaèëv. Vidi avanti agli occhi la sorte di Mar'ja Ivànovna, e mi sentii mancare il cuore.

«Ascoltate, Ivàn Kuzmìè!», dissi al comandante. «Il nostro dovere è di difendere la fortezza fino all'ultimo respiro; su questo non si discute. Ma bisogna pensare a mettere al sicuro le donne. Mandatele a Orenbùrg, se la strada è ancora libera, oppure in una fortezza lontana, più sicura, dove gli scellerati non possano raggiungerle».

Ivàn Kuzmìè si rivolse alla moglie e le disse: «Da' retta, màtuška, non sarebbe davvero il caso di mandarvi un po' lontano, finché non avremo regolato i conti con i ribelli?».

«Ih, sciocchezze!», disse la moglie del comandante. «Dov'è la fortezza in cui non fiocchino pallottole? Perché la Belogórskaja non è sicura? Se Dio vuole sono ventidue anni che ci viviamo. Abbiamo visto baschiri e kirgizy: forse riusciremo a resistere anche a Pugaèëv!».

«Be', màtuška», replicò Ivàn Kuzmìè, «rimani pure, se fai affidamento sulla nostra fortezza. Ma di Maša che faremo? Se resisteremo o se i soccorsi arriveranno in tempo, bene; ma se gli scellerati prenderanno la fortezza?».

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«Be', in tal caso...». A questo punto Vasilìsa Egórovna prese a balbettare e tacque, oltremodo sconvolta.

«No, Vasilìsa Egórovna», continuò il comandante, rendendosi conto che le sue parole avevano avuto effetto, forse per la prima volta in vita sua. «Non è il caso che Maša resti qui. Mandiamola a Orenbùrg dalla sua madrina: lì di truppe e cannoni ce ne sono a sufficienza, e le mura sono di pietra. Piuttosto consiglierei anche a te di andarci; va bene che sei vecchia, ma pensa che cosa ti succederebbe se prendessero d'assalto la fortezza».

«Bene», disse la moglie del comandante, «d'accordo, mandiamo via Maša. A me però non sognarti neanche di chiedermelo: non me ne andrò. Non c'è ragione che mi separi da te in vecchiaia e mi vada a cercare una tomba solitaria in un posto d'altri. Se si vive insieme, si muore anche insieme».

«Anche questo è vero» disse il comandante. «Be', non c'è tempo da perdere. Va' a preparare Maša per il viaggio. Domani appena farà giorno la faremo partire e le daremo una scorta, anche se non abbiamo uomini in sovrappiù. Ma Maša dov'è?».

«Da Akulìna Pamfìlovna», rispose la moglie del comandante. «Si è sentita male, quando ha saputo della presa della fortezza Nižneozërnaja; non vorrei che si ammalasse. Signore Iddio, che siamo arrivati a vedere!».

Vasilìsa Egórovna andò a fare i preparativi per la partenza della figlia. La conversazione in casa del comandante continuò, ma io non vi prendevo più parte e non ascoltavo più. Mar'ja Ivànovna apparve a cena pallida e con gli occhi arrossati di pianto. Cenammo in silenzio e ci alzammo da tavola prima del solito; dopo esserci congedati da tutta la famiglia tornammo alle nostre case. Ma io avevo dimenticato apposta la spada e tornai a prenderla: presagivo che avrei trovato Mar'ja Ivànovna da sola. Infatti mi venne incontro sulla porta e mi consegnò la spada. «Addio, Pëtr Andréiè!», mi disse fra le lacrime. «Mi mandano a

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Orenbùrg. Vivete e siate felice; forse il Signore ci farà rincontrare; altrimenti...». E qui scoppiò in singhiozzi. La abbracciai. «Addio, angelo mio», dissi, «addio, mia cara, mia adorata! Qualunque cosa mi succeda, credimi, il mio ultimo pensiero, l'ultima preghiera saranno per te!». Maša singhiozzava, stretta al mio petto. La baciai appassionatamente e uscii in fretta dalla stanza.

VII• L'ASSALTO

Testa mia, testolina,

Testa servizievole!

Ha servito la mia testolina

Per trent'anni e ancora tre.

Ah, non ha meritato la testolina

Né vantaggi, né gioia,

Né una parola buona,

Né per sé un rango elevato;

La testolina ha solo meritato

Due alti paletti,

D'acero una traversina,

E di seta ancora un cordoncino.

Canzone popolare

Quella notte non dormii e non mi spogliai. Contavo di dirigermi all'alba verso la porta della fortezza dalla quale Mar'ja Ivànovna doveva uscire, per salutarla lì l'ultima volta. Sentivo in me un grande mutamento: il travaglio interiore mi riusciva assai meno penoso dell'abbattimento nel quale ero piombato di recente. Alla tristezza del distacco si mescolavano anche speranze vaghe, ma

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dolci; la smaniosa attesa dei pericoli, e nobili aspirazioni. La notte passò senza ch'io me ne accorgessi. Stavo per uscire di casa, quando la porta si aprì e mi apparve davanti un caporale, giunto a riferirmi che i nostri cosacchi durante la notte erano usciti dalla fortezza, dopo essersi presi con la violenza Julàj, e che intorno alla fortezza scorrazzava gente sconosciuta. Mi prese il terrore che Mar'ja Ivànovna non facesse in tempo a partire; diedi in fretta qualche istruzione al caporale e mi precipitai dal comandante.

Cominciava a fare giorno. Volavo per la strada quando mi sentii chiamare. Mi fermai. «Dove andate?», domandò Ivàn Ignàt'iè, raggiungendomi. «Ivàn Kuzmìè è sul terrapieno e mi ha mandato a cercarvi. Pugàè è arrivato». «È partita Mar'ja Ivànovna?», chiesi col cuore trepidante. «Non ha fatto in tempo», rispose Ivàn Ignàt'iè: «la strada per Orenbùrg è tagliata; la fortezza è circondata. Brutto affare, Pëtr Andréiè!».

Andammo sul terrapieno, un'elevazione naturale rinforzata da una palizzata. Vi si stavano già affollando tutti gli abitanti della fortezza. La guarnigione aveva già imbracciato il fucile. Il cannone era stato trascinato lì il giorno prima. Il comandante camminava su e giù davanti al suo esiguo schieramento. L'approssimarsi del pericolo animava il vecchio guerriero di un vigore insolito. Nella steppa, a poca distanza dalla fortezza, scorrazzavano una ventina di uomini a cavallo. Sembravano cosacchi, ma in mezzo a loro si trovavano anche dei baschiri, facilmente riconoscibili dai loro berretti di lince e dai turcassi. Il comandante passò in rivista le sue truppe dicendo ai soldati: «Bene, figlioli, oggi difenderemo la nostra madre imperatrice e dimostreremo a tutto il mondo di essere gente intrepida e fedele al giuramento!». I soldati espressero la loro devozione ad alta voce. Švàbrin stava accanto a me con gli occhi fissi sul nemico. Gli uomini che si aggiravano nella steppa, accorgendosi di un certo movimento nella fortezza, si raggrupparono e si misero a discutere fra loro. Il comandante ordinò a Ivàn Ignàt'iè di puntare il cannone

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su quel gruppo, e accostò lui stesso la miccia. La palla li oltrepassò ronzando, senza arrecare alcun danno. I cavalieri, disperdendosi, si allontanarono subito dalla vista al galoppo, e la steppa si fece deserta.

In quel momento sul terrapieno apparve Vasilìsa Egórovna e con lei Maša, che non voleva staccarsi dalla madre. «Be', allora?», disse la moglie del comandante. «Come va la battaglia? Dov'è il nemico?». «Il nemico non è lontano», rispose Ivàn Kuzmìè. «Se Dio vuole, tutto si aggiusterà. Allora, Maša, hai paura?». «No, babbino», rispose Mar'ja Ivà`novna; «a casa da sola ho più paura». A questo punto mi lanciò uno sguardo e si sforzò di sorridere. Senza volere strinsi l'elsa della mia spada, come a difesa dell'amata, ricordando che il giorno prima l'avevo ricevuta dalle sue mani. Avevo il cuore in fiamme. Immaginavo di essere il suo cavaliere. Ardevo dalla voglia di dimostrare che ero degno della sua fiducia, e aspettavo con impazienza il momento decisivo.

Nel frattempo da dietro un'altura, che si trovava a mezza versta dalla fortezza, apparvero nuovi gruppi a cavallo, e presto la steppa si disseminò di una quantità di gente armata di lance e di archi. Fra questi, su un cavallo bianco, galoppava un uomo in caftano rosso con la sciabola sguainata in mano: era Pugaèëv. Si fermò; fu circondato e, evidentemente al suo comando, quattro uomini si distaccarono e galopparono a briglia sciolta fin sotto la fortezza. Riconoscemmo in loro i nostri traditori. Uno di loro teneva sotto il berretto un foglio di carta; un altro scuoteva, infilzata sulla lancia, la testa di Julàj, che ci gettò aldilà della palizzata. La testa del povero calmucco cadde ai piedi del comandante. I traditori gridavano: «Non sparate; uscite incontro al sovrano. Il sovrano è qui!».

«Vi faccio vedere io!», gridò Ivàn Kuzmìè. «Ragazzi, sparate!». I nostri soldati tirarono. Il cosacco che teneva la lettera barcollò e piombò giù da cavallo; gli altri tornarono indietro al galoppo. Guardai Mar'ja Ivànovna. Sbigottita alla vista della testa

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insanguinata di Julàj, assordata dai colpi, sembrava fuori di sé. Il comandante chiamò a sé il caporale e gli ordinò di prendere il foglio dalle mani del cosacco ucciso. Il caporale uscì in campo aperto e tornò, tenendo per le briglie il cavallo dell'ucciso. Consegnò la lettera al comandante. Ivàn Kuzmìè la lesse fra sé e poi la strappò a pezzettini. Nel frattempo i rivoltosi si preparavano chiaramente all'azione. Non passò molto che le pallottole cominciarono a fischiare rasentando le nostre orecchie, e qualche freccia si piantò accanto a noi nel terreno e nello steccato. «Vasilìsa Egórovna!», disse il comandante. «Questo non è posto per le donne; porta via Maša; guarda: la ragazza è più morta che viva».

Vasilìsa Egórovna, resa docile dal fischio delle pallottole, diede uno sguardo alla steppa, sulla quale si notava un gran movimento; poi si rivolse al marito e gli disse: «Ivàn Kuzmìè, Dio dispone della vita e della morte: benedici Maša. Maša, avvicinati a tuo padre».

Maša, pallida e trepidante, si avvicinò a Ivàn Kuzmìè, si mise in ginocchio e s'inchinò a lui fino a terra. Il vecchio comandante le fece tre volte il segno della croce; poi la fece alzare e, dopo averla baciata, le disse con voce alterata: «Be', Maša, sii felice. Prega Iddio: lui non ti abbandonerà. Se ti capiterà un brav'uomo, il Signore vi conceda amore e giudizio. Vivete come abbiamo vissuto io e Vasilìsa Egórovna. Ebbene, addio, Maša. Vasilìsa Egórovna, portala via, presto». (Maša gli si gettò al collo e proruppe in singhiozzi). «Baciamoci anche noi», disse, piangendo, la moglie del comandante. «Addio, mio Ivàn Kuzmìè. Perdonami se ti ho indispettito per qualche motivo!». «Addio, addio, màtuška!», disse il comandante, abbracciando la sua vecchia. «Be', basta! Andate, andate a casa, e, se fai a tempo, metti a Maša il sarafàn». La moglie del comandante si allontanò con la figlia. Seguivo con lo sguardo Mar'ja Ivànovna; lei si voltò indietro e mi fece un cenno con la testa. A questo punto Ivàn Kuzmìè si girò

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verso di noi, e tutta la sua attenzione si fissò sul nemico. Gli insorti si andavano concentrando attorno al loro capo e all'improvviso cominciarono a scendere da cavallo. «Adesso tenete duro», disse il comandante: «ci sarà un assalto...». In quel momento echeggiarono un urlo spaventoso e delle grida; i rivoltosi si stavano slanciando di corsa verso la fortezza. Il nostro cannone era caricato a mitraglia. Il comandante li lasciò avvicinare quanto più possibile e all'improvviso fece fuoco un'altra volta. La mitraglia colpì proprio al centro della folla. I ribelli si ritirarono da entrambi i lati e indietreggiarono. Il loro capo restò solo davanti... Brandiva la sciabola e sembrava esortarli con passione... Gli urli e le grida, dopo aver taciuto per un attimo, ripresero immediatamente. «Be', ragazzi», disse il comandante; «ora spalancate la porta, battete il tamburo. Ragazzi! Avanti, all'attacco, seguitemi!».

Il comandante, Ivàn Ignàt'iè ed io in un attimo ci ritrovammo oltre il terrapieno della fortezza, ma la guarnigione impaurita non si mosse. «Perché ve ne state fermi, figlioli?», gridò Ivàn Kuzmìè. «Se bisogna morire si muoia: è dovere di servizio!». In quell'istante i rivoltosi ci si avventarono contro e irruppero nella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione scaraventò i fucili; fui gettato a terra, ma mi rialzai e rientrai nella fortezza insieme con i rivoltosi. Il comandante, ferito alla testa, stava in mezzo a un gruppo di scellerati che reclamavano da lui le chiavi. Mi precipitai a soccorrerlo: alcuni cosacchi robusti mi afferrarono e mi legarono con le cinture, soggiungendo: «Vedrete che cosa vuol dire aver disobbedito al sovrano!». Ci trascinarono per le strade; gli abitanti uscivano dalle case col pane e il sale. Echeggiava un suono di campane. A un tratto in mezzo alla folla si misero a gridare che il sovrano aspettava in piazza i prigionieri e accoglieva il giuramento. Il popolo affluì nella piazza; anche noi fummo spinti da quella parte.

Pugaèëv sedeva in poltrona sulla scalinata della casa del

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comandante. Portava indosso un caftano rosso da cosacco, orlato di galloni. Un alto berretto di zibellino con le nappe dorate era calcato sui suoi occhi sfavillanti. Il viso mi parve conosciuto. Gli anziani dei cosacchi lo circondavano. Padre Geràsim, pallido e tremebondo, stava ai piedi della scala con la croce in mano, e sembrava supplicarlo in silenzio per le vittime che si annunciavano. Sulla piazza stavano montando alla svelta una forca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero il popolo e ci presentarono a Pugaèëv. Il suono delle campane tacque; calò un profondo silenzio. «Qual è il comandante?», domandò l'impostore. Il nostro sottufficiale uscì dalla folla e indicò Ivàn Kuzmìè. Pugaèëv gettò al vecchio uno sguardo minaccioso e gli disse: «Come hai osato opporti a me, tuo sovrano?». Il comandante, stremato dalla ferita, riunì le ultime forze per rispondere con voce ferma: «Tu non mi sei sovrano, sei un ladro e un impostore, dammi retta». Pugaèëv aggrottò tetramente le sopracciglia e agitò un fazzoletto bianco. Vari cosacchi afferrarono il vecchio capitano e lo spinsero verso la forca. Sulla traversa a cavalcioni c'era il baschiro mutilato che avevamo interrogato il giorno prima. Egli reggeva in mano la corda, e di lì a un momento vidi il povero Ivàn Kuzmìè penzolare in aria. Allora fu condotto davanti a Pugaèëv Ivàn Ignàt'iè. «Presta giuramento», gli disse Pugaèëv, «al sovrano Pëtr Fëdoroviè!». «Tu non ci sei sovrano», rispose Ivàn Ignàt'iè, ripetendo le parole del suo capitano. «Tu, vecchio mio, sei un ladro e un impostore!». Pugaèëv agitò di nuovo il fazzoletto, e il buon tenente fu impiccato a fianco del suo vecchio superiore.

Toccava a me. Guardavo coraggiosamente Pugaèëv, pronto a ripetere la risposta dei miei nobili compagni. In quel momento, con mia indescrivibile sorpresa, scorsi in mezzo agli anziani rivoltosi Švàbrin, coi capelli tagliati in tondo e un caftano cosacco. Egli si avvicinò a Pugaèëv e gli disse qualche parola all'orecchio. «Impiccatelo!», disse Pugaèëv, senza più guardarmi. Mi gettarono il cappio intorno al collo. Cominciai a recitare dentro di me una preghiera, offrendo a Dio il mio sincero pentimento per tutti i

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peccati commessi e invocando la salvezza di tutti i miei cari. Mi trascinarono sotto la forca. «Non aver paura, non aver paura», mi ripetevano gli sterminatori, magari desiderando davvero di farmi coraggio. All'improvviso sentii un grido: «Fermatevi, dannati! Aspettate!...». I carnefici si arrestarono. Guardo: Savél'iè era prostrato ai piedi di Pugaèëv. «Padre caro!», disse il povero precettore. «Che te ne fai della morte di un piccolo signore? Lascialo andare, ti sarà dato un riscatto per lui; come esempio e per incutere paura fa' impiccare me, piuttosto, che son vecchio!». Pugaèëv fece un segno, e fui subito slegato e lasciato in pace. «Il nostro bàtjuška ti grazia», mi dicevano. In quel momento non posso dire che gioissi di averla scampata, ma non dirò neppure che me ne dispiacqui. Le mie sensazioni erano troppo confuse. Fui condotto di nuovo davanti all'impostore e messo in ginocchio davanti a lui. Pugaèëv mi tese la sua mano solcata di venature. «Bacia la mano, bacia la mano!», dicevano attorno a me. Ma io avrei preferito il più atroce supplizio a una così bassa umiliazione. «Bàtjuška Pëtr Andréiè!», sussurrava Savél'iè che mi stava dietro e mi spingeva. «Non t'intestardire! Che ti costa? Infischiatene e bacia la mano allo scell... (pfu!) baciagli la manina». Io non mi movevo. Pugaèëv abbassò la mano, dicendo con un sorrisetto: «Sua signoria, a quanto pare, è intontito dalla gioia. Fatelo alzare!». Fui messo in piedi e lasciato libero. Mi misi a guardare il seguito dell'orrenda commedia.

Gli abitanti cominciarono a prestar giuramento. Si accostavano uno dopo l'altro, baciavano il crocefisso e poi s'inchinavano all'usurpatore. Anche i soldati della guarnigione erano lì. Il sarto della compagnia, armato delle sue forbici smussate, tagliava loro la treccia. Essi, scuotendo via i capelli, si accostavano alla mano di Pugaèëv, che accordava loro il perdono e li accoglieva nella sua banda. Tutto questo si protrasse per circa tre ore. Alla fine Pugaèëv si alzò dalla poltrona e scese dalla scalinata in compagnia degli anziani. Gli fu portato il cavallo bianco, ornato di ricchi finimenti. Due cosacchi lo presero sotto le braccia e lo misero in

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sella. Egli annunciò a padre Geràsim che avrebbe pranzato da lui. In quel momento si sentì un grido di donna. Alcuni briganti trascinarono sulla scalinata Vasilìsa Egórovna, scarmigliata e completamente svestita. Uno di loro aveva già fatto in tempo a indossare il suo giubbotto imbottito. Altri stavano portando via piumini, bauli, il servizio da tè, la biancheria, e tutte le masserizie. «Bàtjuški miei!», gridava la povera vecchia. «Lasciate pentire un'anima in pace. Padri cari, fatemi andare da Ivàn Kuzmìè». All'improvviso guardò la forca e riconobbe suo marito. «Scellerati!», gridò furiosa. «Che gli avete fatto? Luce mia, Ivàn Kuzmìè, coraggiosa testolina di soldato! Non ti hanno raggiunto le baionette prussiane, né le pallottole turche; non hai sacrificato la vita in un combattimento leale, ma sei caduto per mano di un evaso!». «Mettete a tacere la vecchia strega!», disse Pugaèëv. Un giovane cosacco la colpì con la sciabola alla testa, ed ella cadde morta su un gradino della scalinata. Pugaèëv si mosse; il popolo si precipitò appresso a lui.

VIII • L'OSPITE NON INVITATO

L'ospite non invitato è peggio di un tartaro.

Proverbio

La piazza si fece deserta. Continuavo a star fermo nello stesso posto e non riuscivo a mettere in ordine i pensieri, sconvolti da impressioni così atroci.

Soprattutto mi tormentava non saper niente della sorte di Mar'ja Ivànovna. Dov'era? Che ne era di lei? Aveva avuto il tempo di nascondersi? Il suo rifugio era sicuro?... Pieno di pensieri inquietanti entrai nella casa del comandante... Tutto era in grande abbandono; le sedie, i tavoli, i bauli erano fracassati; le stoviglie rotte, tutto era stato razziato. Corsi su per la piccola scala che conduceva alla stanza di sopra, e per la prima volta in vita mia entrai nella stanza di Mar'ja Ivànovna. Vidi il suo letto messo

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sottosopra dai briganti; l'armadio era stato sfondato e svaligiato; la lampada ardeva ancora davanti alla vetrina delle icone vuota. Era rimasto intatto anche uno specchietto appeso alla parete divisoria... Dov'era dunque la padrona di quest'umile cella verginale? Un pensiero terrificante mi balenò in mente: la immaginai nelle mani dei briganti... Mi si strinse il cuore... Piansi amaramente, e pronunciai a voce alta il nome della mia amata... In quel momento si sentì un tenue rumore, e da dietro l'armadio apparve Palàška, pallida e tremante.

«Ah, Pëtr Andréiè!», disse, battendo le mani. «Che giornata! Che atrocità!...».

«E Mar'ja Ivànovna?», chiesi con impazienza. «Che ne è di Mar'ja Ivànovna?».

«La signorina è viva», rispose Palàška. «Si è nascosta da Akulìna Pamfìlovna».

«Dalla moglie del pope!», esclamai inorridito. «Dio mio! Pugaèëv è proprio là!...».

Mi precipitai fuori della stanza, in un attimo mi ritrovai nella strada e corsi a perdifiato verso la casa del pope, senza vedere né avvertire nulla. Là echeggiavano grida, canti e risate... Pugaèëv stava banchettando coi compagni. Anche Palàška giunse di corsa dietro di me. La mandai a chiamare di nascosto Akulìna Pamfìlovna. Di lì a un minuto la moglie del pope mi venne incontro all'ingresso con una bottiglia vuota in mano.

«Per amor di Dio! Dov'è Mar'ja Ivànovna?» chiesi con un'agitazione indescrivibile.

«È stesa sul mio letto, la mia colombella, là dietro il tramezzo», rispose la moglie del pope. «Be', Pëtr André è, per poco non è successa una disgrazia, ma, se Dio vuole, tutto è andato a finire bene: il furfante s'era appena messo a tavola che lei, la mia poverina, si sveglia e si mette a gemere!... Ho creduto di morire.

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Lui ha sentito: "Chi è che si lamenta lì da te, vecchia?". M'inchino al ladro fino alla cintola: "Mia nipote, sire; si è ammalata, è la seconda settimana che sta a letto". "Ed è giovane tua nipote?". "È giovane, sire". "Fammela un po' vedere, vecchia, questa tua nipote". Il cuore mi saltò in gola, ma c'era poco da fare. "Come vuoi, sire; solo che la ragazza non può alzarsi e venire al tuo cospetto". "Non fa niente, vecchia, andrò io stesso a vederla". E così il dannato è andato dietro al tramezzo; e cosa credi? Ha scostato la tenda, ha lanciato uno sguardo coi suoi occhi da sparviere! - e nulla... Dio ci ha salvati! Ma ci crederai, il mio vecchio ed io eravamo già preparati a una morte da martiri. Per fortuna lei, la mia colombella, non l'ha riconosciuto. Signore Iddio, c'era proprio da far festa! Non c'è che dire! Povero Ivàn Kuzmìè! Chi l'avrebbe pensato!... E Vasilìsa Egórovna? E Ivàn Ignàt'iè? Lui poi perché?... Com'è che hanno risparmiato voi? E che ne dite di Švàbrin, Alekséj Ivànyè? S'è fatto tagliare i capelli in tondo e adesso banchetta in casa nostra con loro! È svelto, non c'è che dire! E quando ho parlato di mia nipote malata, lui, mi crederai, mi ha guardato come se mi trapassasse con un coltello; però non mi ha tradita, e di questo gli sono grata». In quel momento echeggiarono le urla ubriache degli ospiti e la voce di padre Geràsim. Gli ospiti chiedevano del vino, il padrone chiamava la moglie. Questa cominciò a darsi da fare. «Andatevene a casa, Pëtr Andréiè», disse; «adesso non posso pensare a voi; i furfanti sono in vena di bere. Guai se capitate in mano agli ubriachi. Addio, Pëtr Andréiè! Quel che sarà, sarà; solo che Dio non ci abbandoni!».

La moglie del pope se ne andò. Un po' rassicurato mi diressi verso casa. Passando dalla piazza, vidi alcuni baschiri che facevano ressa intorno alla forca e sfilavano gli stivali agli impiccati; trattenni a fatica un moto di sdegno, sentendo l'inutilità d'intervenire. Per la fortezza scorrazzavano i briganti, saccheggiando le case degli ufficiali. Dappertutto echeggiavano le grida dei ribelli ubriachi. Arrivai a casa. Savél'iè mi venne

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incontro sulla porta. «Iddio sia lodato!», gridò, vedendomi. «Pensavo che quei malfattori ti avessero preso un'altra volta. Be', bàtjuška Pëtr Andréiè! Ci crederai? Tutto ci hanno rubato, i furfanti: vestiti, biancheria, oggetti, stoviglie - non hanno lasciato nulla. Eppure che importa! Ringraziamo Iddio che ti hanno rilasciato vivo! Ma hai riconosciuto, signore, l'atamàn?».

«No, non l'ho riconosciuto; chi sarebbe?».

«Come, bàtjuška? Hai dimenticato quell'ubriacone che ti ha portato via la pelliccia alla locanda? Il pellicciotto di lepre nuovo nuovo; e lui, canaglia, tanto ha fatto che l'ha scucito per infilarselo!».

Rimasi esterrefatto. In effetti la somiglianza di Pugaèëv con la mia guida era strabiliante. Mi convinsi che Pugaèëv e lui erano la stessa persona, e capii allora il motivo della grazia a me concessa. Non potevo fare a meno di stupirmi di quella strana concatenazione di circostanze: una pelliccia da ragazzino donata a un vagabondo mi salvava dal capestro, e un ubriacone che si aggirava per le locande assediava le fortezze e metteva a repentaglio lo stato!

«Non vuoi mangiare qualcosa?», domandò Savél'iè, impassibile nelle sue abitudini. «In casa non c'è niente; vado a frugare in giro e qualche cosa ti preparerò».

Rimasto solo sprofondai in riflessioni. Che cosa dovevo fare? Restare nella fortezza in mano al malfattore o seguire la sua banda era sconveniente per un ufficiale. Il dovere esigeva che io mi presentassi là dove il mio servizio poteva essere ancora utile alla patria nelle difficili circostanze del momento... Ma l'amore mi consigliava prepotentemente di restare accanto a Mar'ja Ivànovna e di esserne il difensore e il protettore. Pur prevedendo un rapido e sicuro mutamento di circostanze, non riuscivo tuttavia a non tremare immaginandomi il pericolo della sua situazione.

Le mie riflessioni furono interrotte dall'arrivo di uno dei cosacchi,

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corso ad annunciarmi che «il grande sovrano ti vuole da lui». «E lui dov'è?», chiesi, accingendomi a obbedire.

«Nella casa del comandante», rispose il cosacco. «Dopo pranzo il nostro bàtjuška è andato al bagno pubblico, e adesso riposa. Certo, vossignoria, si vede da tutto che è un gran personaggio: a pranzo si è degnato di mangiare due porcellini arrosto, e fa il bagno di vapore così bollente che neanche Taràs Kùroèkin ha resistito, ha dato il rametto di betulla a Fòmka Bikbàev ed è rinvenuto a fatica con l'acqua fredda. Non c'è che dire: tutti i suoi modi sono così imponenti... E nella sauna si dice abbia mostrato i simboli imperiali che ha sul petto: da una parte l'aquila a due teste, grande come un soldo, dall'altra il suo ritratto».

Non giudicai necessario discutere le opinioni del cosacco e mi avviai insieme con lui alla casa del comandante, immaginandomi in anticipo l'incontro con Pugaèëv e cercando d'indovinare come sarebbe andato a finire. Il lettore può facilmente immaginarsi che non ero in condizioni di restare impassibile.

Cominciava a far notte quando arrivai alla casa del comandante. La forca con le sue vittime nereggiava spaventosa. Il corpo della povera moglie del comandante era ancora buttato ai piedi della scalinata, davanti alla quale due cosacchi montavano la guardia. Il cosacco che mi aveva accompagnato andò ad annunciarmi e, tornato subito, mi fece entrare nella stessa stanza in cui il giorno prima avevo detto così teneramente addio a Mar'ja Ivànovna.

Mi si offrì un quadro straordinario: intorno alla tavola, coperta di una tovaglia e ingombra di fiaschi e di bicchieri, sedevano Pugaèëv e una decina di cosacchi anziani, coi berretti e le camicie colorate, eccitati dal vino, coi musi rossi e gli occhi lustri. In mezzo a loro non c'erano né Švàbrin né il nostro sottufficiale, novelli traditori. «Ah, vossignoria!», disse Pugaèëv, vedendomi. «Benvenuto; onore e un posto a voi, prego». I suoi compagni si strinsero. Mi sedetti in silenzio a un'estremità del tavolo. Il mio vicino, un giovane cosacco bello e slanciato, mi versò un bicchiere

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di vino qualsiasi, che non sfiorai. Mi misi a osservare incuriosito la compagnia. Pugaèëv era seduto al posto d'onore, coi gomiti appoggiati al tavolo e la barba nera sorretta dal pugno largo. I tratti del viso, regolari e piuttosto piacevoli, non manifestavano nulla di feroce. Si rivolgeva spesso a un uomo sulla cinquantina, chiamandolo ora conte, ora Timoféiè, e talvolta onorandolo del nome di zietto. Tutti fra loro si trattavano da compagni e non mostravano nessuna particolare deferenza al loro capo. Il discorso riguardava l'assalto del mattino, il successo della rivolta e le loro future azioni. Ognuno si vantava, esponeva il proprio parere e contraddiceva liberamente Pugaèëv. E appunto in questo strano consiglio militare fu deciso di marciare contro Orenbùrg: mossa audace che mancò poco fosse coronata da un disastroso successo! L'azione militare fu fissata per il giorno successivo. «Su, fratelli», disse Pugaèëv, «prima di prender sonno intoniamo la mia canzone preferita. Èumakòv! Comincia tu!». Il mio vicino intonò con voce flebile una malinconica canzone da battellieri e tutti la ripresero in coro:

Non stormire, madre selva verde,

Non impedire a me, giovane prode, di pensare un pensiero.

Che domani io, giovane prode, dovrò rispondere

A un giudice terribile, allo zar.

Si metterà a chiedermi lo zar imperatore:

Dimmi, dimmi, ragazzino, figlio di contadini,

Con chi hai rubato, con chi hai fatto il bandito,

E ancora, ne avevi molti di compagni?

Ti dirò, zar ortodosso, nostra speranza,

Tutta la verità, ti dirò la verità tutta intera,

Che di compagni quattro ne avevo:

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Il mio primo compagno era la notte nera,

Il mio secondo compagno il pugnale damaschino,

E il terzo compagno era il mio buon cavallo,

E il quarto compagno l'arco teso,

E i miei emissari le frecce arroventate.

Allora dirà lo zar ortodosso, nostra speranza:

Lode a te, ragazzino figlio di contadini,

Che hai saputo rubare, hai saputo rispondere a tono.

Per questo ti compenserò, ragazzino,

Con un'alta dimora in mezzo al campo,

Che son due pali con una traversa.

È impossibile raccontare che effetto produsse su di me questa canzone popolare sulla forca, cantata da persone votate alla forca. I loro visi minacciosi, le voci ben intonate, il tono lugubre che conferivano alle parole già di per sé espressive - tutto mi faceva vibrare d'una sorta di orrore profetico.

Gli ospiti bevvero ancora un bicchiere a testa, si alzarono da tavola e presero congedo da Pugaèëv. Volevo seguirli, ma Pugaèëv mi disse: «Siediti; voglio parlare un po' con te». Restammo a quattr'occhi.

Il silenzio reciproco si protrasse per qualche minuto. Pugaèëv mi guardava fisso, strizzando di tanto in tanto l'occhio sinistro con un'espressione d'incredibile scaltrezza e d'ironia. Infine scoppiò a ridere, e con un'allegria così schietta che anch'io, guardandolo, mi misi a ridere, senza saperne il perché.

«Allora, vossignoria?», mi disse. «Hai avuto paura, confessa, quando i miei ragazzi ti hanno gettato la corda al collo! Il cielo ti sarà parso grande come una pelle di pecora... Eppure penzoleresti

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dalla trave se non ci fosse stato il tuo servo. Ho subito riconosciuto il vecchio brontolone. Be', l'avresti pensato, vostra signoria, che l'uomo che t'aveva accompagnato alla locanda fosse il grande imperatore in persona?» (A questo punto assunse un'aria importante e misteriosa). «Tu sei gravemente colpevole davanti a me», continuò; «ma io ti ho graziato per la tua buona azione, perché mi hai reso un favore quando ero costretto a nascondermi dai miei nemici. E vedrai ben altro! Ben altrimenti ti compenserò quando riacquisterò il mio stato! Prometti di servirmi con impegno?».

La richiesta del mascalzone e la sua impertinenza mi parvero così divertenti che non potei trattenermi dal ridacchiare.

«Cos'hai da ridacchiare?», mi chiese aggrottato. «O forse non credi che io sia il grande sovrano? Rispondi francamente».

Mi confusi: non potevo riconoscere un vagabondo come imperatore: mi sembrava un'imperdonabile vigliaccheria. Chiamarlo in faccia imbroglione significava espormi alla rovina, e quello a cui ero stato pronto ai piedi della forca dinanzi agli occhi di tutti in un primo impeto d'indignazione adesso mi sembrava un'inutile bravata. Esitavo. Pugaèëv aspettava cupo la mia risposta. Infine (e ancora oggi ricordo quel momento con soddisfazione) il sentimento del dovere trionfò in me sulla debolezza umana. Risposi a Pugaèëv: «Ascolta, ti dirò tutta la verità. Giudica tu: posso forse riconoscere in te il sovrano? Tu sei una persona più che sensata: vedresti tu stesso che sto fingendo».

«Chi sono dunque, a tuo parere?».

«Dio lo sa; ma chiunque tu sia, giochi un gioco pericoloso».

Pugaèëv mi lanciò una rapida occhiata. «Dunque tu non credi», disse, «che io sono l'imperatore Pëtr Fëdoroviè? Bene. Non è forse l'audacia che vince? Forse che in tempi antichi Griška Otrép'ev non ha regnato? Pensa di me quello che vuoi, ma non allontanarti da me. Che cosa t'importa di tutto il resto? Chiunque sia il prete,

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gli si dice padre. Servimi con fedeltà e lealtà, e io ti farò maresciallo e principe. Che ne pensi?».

«No», risposi con risolutezza. «Io sono nobile di nascita; ho prestato giuramento alla sovrana imperatrice: non posso servirti. Se veramente desideri il mio bene, lasciami andare a Orenbùrg».

Pugaèëv si fece pensieroso. «E se ti lascio andare», disse, «mi prometti almeno di non servire contro di me?».

«Come faccio a promettertelo?», risposi. «Lo sai anche tu che non dipende da me: se mi ordineranno di andare contro di te io ci andrò, non c'è niente da fare. Anche tu adesso sei un capo; anche tu adesso esigi l'obbedienza dai tuoi. Che senso avrebbe se io mi rifiutassi di prestare servizio quando il mio servizio fosse necessario? La mia testa è in tuo potere: se mi lasci andare - grazie; se mi condanni - Dio ti è giudice, ma io ti ho detto la verità».

La mia sincerità sbalordì Pugaèëv. «Proprio così», disse, battendomi su una spalla. «Se si deve condannare si condanni, se si deve graziare si grazi. Vattene dove ti pare e fa' quello che vuoi. Domani vieni a salutarmi e adesso vattene a dormire, il sonno già mi piega».

Lasciai Pugaèëv e uscii in strada. La notte era tranquilla e gelida. La luna e le stelle splendevano vivide, illuminando la piazza e la forca. Nella fortezza tutto era silenzioso e buio. Solo nella bettola era acceso il fuoco ed echeggiavano le grida degli sfaccendati che s'attardavano. Gettai uno sguardo alla casa del prete. Le imposte e il portone erano chiusi. Sembrava tutto tranquillo.

Giunsi al mio alloggio e vi trovai Savél'iè, che si stava preoccupando della mia assenza. La notizia che ero libero lo rallegrò indescrivibilmente. «Gloria a te, Signore!», disse facendosi il segno della croce. «Appena farà luce lasceremo la fortezza e andremo dove guarderanno gli occhi. Ti ho preparato qualcosa; mangia, bàtjuška, e riposati fino al mattino, come in

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grembo a Cristo».

Seguii il suo consiglio e, dopo aver cenato con grande appetito, mi addormentai sul nudo pavimento, spossato spiritualmente e fisicamente.

IX • LA SEPARAZIONE

Dolce è stato incontrarmi

Con te, bellissima;

Triste, triste da te separarmi,

Triste, come dall'anima.

Cheràskov

La mattina presto mi svegliò il tamburo. Mi recai sul luogo dell'adunata. Vi si stavano già schierando le turbe di Pugaèëv accanto alla forca, dalla quale penzolavano ancora le vittime del giorno prima. I cosacchi erano a cavallo, i soldati avevano imbracciato il fucile. Le bandiere sventolavano. Diversi cannoni, fra i quali riconobbi anche il nostro, erano stati posti su affusti da campagna. Anche tutti gli abitanti erano lì, in attesa dell'impostore. Vicino alla scalinata della casa del comandante un cosacco teneva per le briglie un bellissimo cavallo bianco di razza kirgiza. Io cercavo con gli occhi il corpo della moglie del comandante: era stato messo un po'` in disparte e coperto da una stuoia. Finalmente Pugaèëv uscì dal vestibolo. Gli uomini si scoprirono il capo. Pugaèëv si fermò sulla scalinata e salutò tutti quanti. Uno degli anziani gli porse un sacchetto con le monete di rame, e lui si mise a gettarne a manciate. La gente si precipitò a raccoglierle gridando, non senza che qualcuno ne uscisse storpiato. Pugaèëv fu circondato dai suoi complici più importanti. Fra questi c'era anche Švàbrin. I nostri sguardi s'incontrarono; nel mio egli poté leggere il disprezzo, e mi voltò le spalle con un'espressione di rabbia

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sincera e di simulato scherno. Pugaèëv, scorgendomi nella folla, mi fece un cenno con la testa e mi chiamò a sé. «Ascolta», mi disse. «Va' subito a Orenbùrg e avvisa da parte mia il governatore e tutti i generali che mi aspettino fra una settimana. Consiglia loro di accogliermi con amore filiale e obbedienza; altrimenti non scamperanno a una pena atroce. Buon viaggio, vostra signoria!». Poi, rivolto al popolo, disse, additando Švàbrin: «Ecco a voi, figlioli, il nuovo comandante: obbeditegli in tutto, lui mi risponde di voi e della fortezza». Ascoltai tali parole inorridito: Švàbrin diventava il comandante della fortezza; Mar'ja Ivànovna restava in suo potere! Dio, che ne sarebbe stato di lei? Pugaèëv scese dalla scalinata. Gli fu avvicinato prontamente il cavallo. Balzò in sella senza aspettare i cosacchi che volevano aiutarlo a montare.

In quel momento vedo uscire dalla folla il mio Savél'iè, che s'avvicina a Pugaèëv e gli porge un foglio di carta. Non riuscivo a immaginare che cosa ne sarebbe conseguito. «E questo che cos'è?», chiese con alterigia Pugaèëv. «Leggi e vedrai», rispose Savél'iè. Pugaèëv prese il foglio e lo esaminò a lungo con aria espressiva. «Perché scrivi in modo così complicato?», disse infine. «I nostri occhi limpidi qui non riescono a decifrare niente. Dov'è il mio primo segretario?».

Un giovane in divisa da caporale accorse rapidamente da Pugaèëv: «Leggi a voce alta», disse l'usurpatore, dandogli il foglio. Ero oltremodo curioso di sapere che cosa fosse saltato in mente al mio precettore di scrivere a Pugaèëv. Il primo segretario si mise a leggere, sillabando a voce alta, quanto segue:

«Due vestaglie, una di calicò e una di seta a righe, sei rubli».

«Come sarebbe a dire?», disse, aggrottando le sopracciglia, Pugaèëv.

«Ordina di continuare a leggere», rispose tranquillamente Savél'iè.

Il primo segretario continuò: «Una divisa di panno verde fino, sette rubli. Pantaloni bianchi di panno, cinque rubli. Dodici

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camicie di tela d'Olanda coi polsini, dieci rubli. Una cassetta da viaggio con il servizio da tè, due rubli e mezzo...».

«Che sono queste ciance?», interruppe Pugaèëv. «Che c'entro io con le cassette da viaggio e i pantaloni coi polsini?».

Savél'iè si raschiò la gola ed iniziò a spiegare. «Questo qui, vedi, bàtjuška, è l'elenco della roba del padrone rubata dai banditi...».

«Quali banditi?», domandò minaccioso Pugaèëv.

«Scusate: ho detto male», rispose Savél'iè. «Banditi o no, i tuoi ragazzi comunque hanno rovistato e portato via tutto. Non t'irritare: anche il cavallo, che ha quattro zampe, inciampa. Comanda piuttosto di leggere fino in fondo».

«Leggi fino in fondo», disse Pugaèëv. Il segretario continuò:

«Una coperta d'indiana, un'altra di taffetà imbottita d'ovatta, quattro rubli. Una pelliccia di volpe, foderata di ratina scarlatta, quaranta rubli. E ancora un pellicciotto di lepre, offerto a tua grazia nella locanda, quindici rubli».

«E poi che cos'altro?», gridò Pugaèëv, mandando lampi dagli occhi di fuoco.

Confesso che temetti per il mio povero precettore. Voleva lanciarsi di nuovo in spiegazioni, ma Pugaèëv lo interruppe: «Come hai osato importunarmi con simili sciocchezze?», gridò, strappando il foglio dalle mani del segretario e gettandolo in faccia a Savél'iè. «Vecchio scemo! Li hanno derubati: capirai che disgrazia! Piuttosto, vecchiaccio, devi pregare Dio in eterno per me e i miei ragazzi dal momento che tu e il tuo padrone non penzolate insieme con i miei disertori... Il pellicciotto di lepre! Te lo do io il pellicciotto di lepre! Lo sai o non lo sai che posso farti scuoiare vivo per farne pellicciotti?».

«Come credi», rispose Savél'iè; «ma io sono un uomo sottomesso, e devo rispondere dei beni del padrone».

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Pugaèëv fu preso, evidentemente, da un attacco di magnanimità. Si girò e partì senza più dire neanche una parola. Švàbrin e gli anziani lo seguirono. La banda uscì dalla fortezza in buon ordine. Il popolo andò ad accompagnare Pugaèëv. Rimasi nella piazza solo con Savél'iè. Il mio precettore teneva in mano il suo elenco e la considerava con aria di profonda desolazione.

Vedendo la mia buona intesa con Pugaèëv, aveva pensato di utilizzarla a nostro vantaggio, ma il suo ingegnoso progetto non era andato in porto. Mi preparavo a insultarlo per la sua sollecitudine fuori posto, ma non potei trattenermi dal ridere. «Ridi, signore», rispose Savél'iè; «ridi; ma quando dovremo rifornirci daccapo di tutto, vedremo, allora, se ci sarà da ridere».

Avevo fretta di andare a casa del pope per vedere Mar'ja Ivànovna. La moglie del pope mi venne incontro con una notizia dolorosa. Quella notte a Mar'ja Ivànovna era venuta la febbre forte. Giaceva priva di conoscenza e delirava. La moglie del pope mi accompagnò nella sua stanza. Mi accostai silenziosamente al letto. L'alterazione del suo viso mi colpì. L'ammalata non mi riconobbe. Rimasi a lungo davanti a lei, senza ascoltare né padre Geràsim, né la sua buona moglie, che, credo, cercavano di consolarmi. Cupi pensieri mi rendevano inquieto. La situazione della povera orfanella indifesa, lasciata in mezzo a quei rivoltosi malvagi, e la mia propria impotenza mi terrorizzavano. Švàbrin, Švàbrin soprattutto straziava la mia immaginazione. Investito di potere dall'usurpatore, al comando della fortezza in cui restava la sventurata fanciulla - innocente oggetto del suo odio, egli poteva decidersi a tutto. Che cosa dovevo fare? Come prestarle aiuto? Come liberarla dalle mani dello scellerato? Rimaneva una sola possibilità: decisi di partire immediatamente per Orenbùrg, al fine di affrettare la liberazione della fortezza Belogórskaja, e di contribuirvi in tutti i modi. Mi congedai dal pope e da Akulìna Pamfìlovna, raccomandandole caldamente quella che consideravo già mia moglie. Presi una mano della povera fanciulla e la baciai,

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coprendola di lacrime. «Addio», mi disse la moglie del pope, accompagnandomi; «addio, Pëtr Andréiè. Speriamo di rivederci in tempi migliori. Non ci dimenticate e scriveteci spesso. Povera Mar'ja Ivànovna, a parte voi ormai non ha più alcuna consolazione, né tutela».

Uscito sulla piazza mi fermai un momento, guardai la forca, m'inchinai ad essa, uscii dalla fortezza e mi avviai a piedi per la strada di Orenbùrg, accompagnato da Savél'iè che non mi si staccava di un passo.

Camminavo, assorto nelle mie riflessioni, quando a un tratto sentii dietro di me lo scalpitare di un cavallo. Mi volto e vedo: dalla fortezza stava arrivando al galoppo un cosacco, che teneva un cavallo baschiro per le briglie e mi faceva dei segni da lontano. Mi fermai e presto riconobbi il nostro sottufficiale. Dopo averci raggiunti al galoppo egli scese dal suo cavallo e mi disse, porgendomi le briglie dell'altro: «Vossignoria! Il nostro padre vi dona un cavallo, e una pelliccia tolta dalle sue spalle» (Alla sella era legato un pellicciotto di montone.) «E poi», aggiunse balbettando il sottufficiale, «vi fa dono di mezzo rublo... ma io l'ho perso lungo la strada; abbiate la bontà di perdonarmi». Savél'iè lo guardò di traverso e borbottò: «L'ha perso lungo la strada! Allora che cosa ti tintinna in petto? Svergognato!». «Che cosa mi tintinna in petto?», obiettò il sottufficiale, senza turbarsi affatto. «Dio ti protegga, vecchietto! È il morso che sbatte, non il mezzo rublo». «Bene», dissi, interrompendo il diverbio. «Ringrazia da parte mia chi ti ha mandato, e il mezzo rublo perso cerca di raccoglierlo sulla via del ritorno e tienitelo per bere». «Molto obbligato, vossignoria», rispose lui, facendo girare il cavallo; «pregherò Dio in eterno per voi». Dette queste parole tornò indietro al galoppo, tenendosi una mano sul petto, e di lì a un minuto era sparito dalla nostra vista.

Indossai il pellicciotto e montai a cavallo, facendo salire Savél'iè dietro di me. «Lo vedi, signore», disse il vecchio, «non è stato

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inutile dare quella supplica al furfante: il ladro si è vergognato, anche se questo ronzino spilungone baschiro e il pellicciotto di montone non valgono neanche la metà di quello che loro, le canaglie, ci hanno rubato, e di quello che tu stesso ti sei degnato di regalargli; ma giungono a proposito, e da un cane cattivo puoi sempre ricavare almeno un ciuffo di peli».

X • L'ASSEDIO DELLA CITTÀ

Occupate le montagne e i prati verdi,

Dall'alto, come un'aquila, sulla città lanciava sguardi.

Dietro il campo fece costruire per i cannoni un tavolato piatto,

E, nascosti i fulmini lì dentro, ordinò di portarlo sotto la città di notte.

Cheràskov

Avvicinandoci a Orenbùrg vedemmo una folla di forzati con le teste rasate e i visi sfigurati dalle tenaglie del carnefice. Lavoravano presso le fortificazioni, sotto la sorveglianza degli invalidi della guarnigione. Alcuni rimuovevano con carretti l'immondizia che riempiva il fossato, altri scavavano la terra con le vanghe; sul terrapieno i muratori portavano i mattoni e riparavano le mura di cinta. Davanti alla porta le sentinelle ci fermarono e chiesero i nostri passaporti. Non appena il sergente udì che arrivavo dalla fortezza Belogórskaja, mi condusse direttamente alla casa del generale.

Lo trovai in giardino. Stava osservando i meli, spogliati dalla brezza autunnale, e con l'aiuto del vecchio giardiniere li stava avvolgendo con cura nella paglia per tenerli al caldo. Il suo viso era l'immagine della tranquillità, della salute e della bonomia. Fu contento di vedermi e prese a interrogarmi sui terribili avvenimenti dei quali ero stato testimone. Gli raccontai tutto. Il vecchio mi

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ascoltava con attenzione e intanto recideva i rami secchi. «Povero Mirónov!», disse, quando ebbi terminato il mio doloroso racconto. «Mi dispiace per lui: era un buon ufficiale. Anche madame Mirònova era una brava signora, e che maestra nel salare i funghi! E che ne è di Maša, la figlia del capitano?». Risposi che era rimasta nella fortezza, affidata alle cure della moglie del pope. «Ahi, ahi, ahi!», osservò il generale. «Male, molto male. Sulla disciplina dei briganti non si può fare alcun affidamento. Che ne sarà della povera fanciulla?». Risposi che la fortezza Belogórskaja non era lontana e che, probabilmente, sua eccellenza non avrebbe indugiato a inviare l'esercito per liberare i suoi poveri abitanti. Il generale scosse la testa con aria di sfiducia. «Vedremo, vedremo», disse. «Di questo avremo ancora tempo di parlare. Vieni a prendere una tazza di tè da me, ti prego: oggi ci sarà un consiglio di guerra. Tu ci puoi dare notizie sicure su quella canaglia di Pugaèëv e sul suo esercito. Adesso, intanto, va' a riposarti».

Andai nell'alloggio che mi era stato assegnato, dove Savél'iè già spadroneggiava, e mi misi ad aspettare con impazienza l'ora stabilita. Il lettore potrà facilmente immaginare che non mancai di presentarmi al consiglio che tanto doveva influire sulla mia sorte. All'ora fissata ero già dal generale.

Vi trovai uno dei funzionari di città, che era, se ricordo bene, il direttore della dogana, un vecchietto grasso e rubicondo in caftano di broccato. Cominciò a pormi domande sulla sorte di Ivàn Kuzmìè, che chiamava compare, e interrompeva spesso il mio discorso con domande complementari e osservazioni edificanti, che, se non rivelavano in lui un uomo esperto d'arte militare, almeno mettevano in luce sagacia e intelligenza naturale. Intanto si erano raccolti anche gli altri convocati. Fra loro, oltre al generale, non c'era neppure un militare. Quando tutti si furono seduti e a ciascuno fu offerta una tazza di tè, il generale espose il problema in modo chiaro e particolareggiato: «Adesso, signori», continuò, «resta da decidere il modo in cui agire contro i ribelli:

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offensivamente o difensivamente? Ognuno di questi mezzi ha i suoi vantaggi e svantaggi. L'offensiva offre maggiore speranza di sterminare più rapidamente il nemico; l'azione difensiva è più sicura e meno pericolosa... Dunque, cominciamo a raccogliere i voti secondo l'ordine legale, cioè partendo dai gradi meno elevati. Signor alfiere!», continuò, rivolgendosi a me. «Vogliate esporci il vostro parere».

Mi alzai, e dopo aver dapprima descritto brevemente Pugaèëv e la sua banda, affermai che l'impostore non aveva mezzi per resistere alle armi regolari.

Il mio parere fu accolto dai funzionari con palese malevolenza. Essi vi vedevano la sventatezza e l'audacia di un giovane. Si sollevò un mormorio, e io sentii distintamente la parola «moccioso» pronunciata da qualcuno a mezza voce. Il generale si rivolse a me e disse con un sorriso: «Signor alfiere! I primi voti ai consigli di guerra abitualmente vengono dati a favore delle mosse offensive; questa è la regola. Ora continuiamo a raccogliere i voti. Signor consigliere di collegio! Vogliate esporci la vostra opinione!».

Il vecchietto in caftano di broccato finì di bere in fretta e furia la sua terza tazza di tè, considerevolmente allungata col rum, e rispose al generale: «Io penso, vostra eccellenza, che non si debba intervenire né con l'offensiva, né con la difensiva».

«Come sarebbe a dire, signor consigliere di collegio?», replicò il generale stupefatto. «Altri mezzi la tattica non ne offre: un movimento è offensivo o difensivo...».

«Vostra eccellenza, agite con la corruzione».

«Eh-eh-eh! La vostra opinione è molto sensata. Le mosse corruttrici sono consentite dalla tattica, e noi terremo conto del vostro consiglio. Si potrà promettere per la testa di quel farabutto... una settantina di rubli o addirittura cento... dal fondo

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segreto...».

«E allora», interruppe il direttore della dogana, «che io sia un montone kirgizo, e non un consigliere di collegio, se questi ladri non ci consegneranno il loro atamàn, legato mani e piedi».

«Ci rifletteremo su e ne riparleremo», rispose il generale. «Comunque, in ogni caso bisogna prendere anche misure militari. Signori, votate secondo l'ordine legale».

Tutti i pareri si manifestarono contrari al mio. Tutti i funzionari parlarono dell'inaffidabilità delle truppe, dell'incertezza dell'esito, di prudenza e via dicendo. Tutti ritenevano più ragionevole restare al riparo dei cannoni, dietro solide mura di pietra, che non tentare la fortuna delle armi in campo aperto. Infine il generale, dopo aver ascoltato tutti i pareri, tolse la cenere dalla pipa e formulò il seguente discorso:

«Signori miei! Devo dichiararvi che da parte mia io sono perfettamente d'accordo con l'opinione del signor alfiere, dal momento che tale opinione è fondata su tutte le regole di una sana tattica, che preferisce quasi sempre i movimenti offensivi a quelli difensivi».

A questo punto si arrestò e si mise a caricare la pipa. Il mio amor proprio esultava. Guardai orgogliosamente i funzionari che bisbigliavano fra loro con aria di disappunto e di agitazione.

«Però, signori miei», continuò, emettendo, insieme con un profondo sospiro, una densa ondata di fumo di tabacco, «io non ho il coraggio di assumermi una responsabilità così grande, visto che l'affare concerne la sicurezza delle province affidatemi da sua maestà imperiale, la mia graziosissima Sovrana. Per cui concordo con la maggioranza dei voti, la quale ha deciso che la cosa più ragionevole e sicura sia quella di aspettare l'assedio dentro la città, e di respingere gli assalti del nemico con la forza dell'artiglieria e (se sarà possibile) con delle sortite».

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I funzionari a loro volta mi guardarono con aria beffarda. Il consiglio si sciolse. Non mi restava che compiangere la debolezza dell'onorato guerriero, che, contrariamente alle sue convinzioni, s'era risolto a seguire i pareri di gente incompetente e inesperta.

Qualche giorno dopo questo memorabile consiglio venimmo a sapere che Pugaèëv, fedele alla sua promessa, si stava avvicinando a Orenbùrg. Vidi l'esercito dei ribelli dall'alto delle mura della città. Mi sembrò che il loro numero si fosse decuplicato dai tempi dell'ultimo assalto, al quale avevo assistito. Avevano con loro anche l'artiglieria, presa da Pugaèëv nelle piccole fortezze da lui già assoggettate. Ricordando la decisione del consiglio previdi una lunga reclusione fra le mura di Orenbùrg, e quasi ne piangevo dalla rabbia.

Non starò a descrivere l'assedio di Orenbùrg, che appartiene alla storia, e non alle cronache familiari. Dirò in poche parole che tale assedio, per l'inavvedutezza delle autorità locali, fu disastroso per gli abitanti, i quali patirono la fame e miserie di ogni sorta. È facile rendersi conto di come la vita a Orenbùrg fosse la più insopportabile. Tutti aspettavano nello sconforto che la propria sorte si decidesse, tutti gemevano per il rincaro dei prezzi, che effettivamente era fortissimo. Gli abitanti si abituarono alle palle di cannone che si abbattevano nei loro cortili; perfino gli assalti di Pugaèëv non suscitavano più la curiosità generale. Morivo dalla noia. Il tempo passava. Lettere dalla fortezza Belogórskaja non ne ricevevo. Tutte le strade erano tagliate. La lontananza da Mar'ja Ivànovna mi stava diventando insopportabile. L'assenza di notizie sulla sua sorte mi tormentava. La mia unica distrazione consisteva nelle scorrerie. Grazie a Pugaèëv avevo un buon cavallo, col quale dividevo il mio poco cibo e sul quale mi recavo ogni giorno fuori dalle mura a scambiare fucilate coi cavalieri di Pugaèëv. In queste scaramucce di solito avevano la meglio i malfattori, sazi, ubriachi, e dotati di buoni cavalli. La magra cavalleria di città non poteva batterli. A volte usciva in campo anche la nostra affamata fanteria,

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ma la neve alta le impediva d'intervenire con successo contro i cavalieri sparsi. L'artiglieria tuonava invano dall'alto del terrapieno, ma in aperta campagna s'impantanava e non attaccava per via dello spossamento dei cavalli. Tale era il quadro delle nostre operazioni militari! Ed ecco quello che i funzionari di Orenbùrg chiamavano prudenza e ragionevolezza!

Un giorno che ci riuscì non si sa come di disperdere e scacciare un gruppo piuttosto folto, piombai su un cosacco che era rimasto isolato dai suoi compagni; ero già pronto a colpirlo con la mia sciabola turca quando a un tratto egli si tolse il berretto e gridò: «Buongiorno, Pëtr Andréiè! Come ve la manda Dio?».

Lo guardai e riconobbi il nostro sottufficiale. Fui immensamente contento di vederlo. «Salve, Maksìmyè», gli dissi. «È tanto che manchi dalla fortezza Belogórskaja?».

«No, non è tanto, bàtjuška Pëtr Andréiè; ne sono tornato appena ieri. Ho una letterina per voi».

«Dov'è?», gridai, quasi avvampando.

«L'ho qui», rispose Maksìmyè, mettendosi la mano sul petto. «Ho promesso a Palàška che in qualche modo l'avrei fatta pervenire a voi». Mi porse un foglio ripiegato e galoppò subito via. Io lo dispiegai e lessi trepidante le seguenti righe:

A Dio è piaciuto di privarmi all'improvviso del padre e della madre: sulla terra non ho parenti, né protettori. Ricorro a voi sapendo che mi avete sempre voluto bene e che siete pronto ad aiutare chiunque. Prego Dio che questa lettera vi giunga in qualche modo! Maksìmyè ha promesso di farvela avere. Palàška ha sentito dire anche da Maksìmyè che egli vi vede spesso da lontano sul campo, e che voi non avete alcuna cura di voi stesso e che non pensate a quelli che fra le lacrime pregano Dio per voi. Sono stata ammalata a lungo, e quando sono guarita Alekséj Ivànoviè, che ha il comando qui da noi al posto del povero babbo, ha forzato padre Geràsim a consegnarmi a lui, mettendogli paura con Pugaèëv.

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Vivo nella nostra casa sotto vigilanza. Alekséj Ivànoviè mi vuole costringere a sposarlo. Dice di avermi salvato la vita, perché ha nascosto l'inganno di Akulìna Pamfìlovna quando lei ha detto ai banditi che ero sua nipote. Ma io preferirei morire piuttosto che diventare la moglie di un uomo come Alekséj Ivànoviè. Mi tratta con molta crudeltà, e minaccia che se non ci ripenserò e non acconsentirò mi porterà nell'accampamento del bandito, e dice che subirò la stessa sorte di Lizavéta Chàrlova. Ho pregato Alekséj Ivànoviè di lasciarmi riflettere. Ha accettato di aspettare altri tre giorni, ma se di qui a tre giorni non lo sposerò non avrà più alcuna pietà. Bàtjuška Pëtr Andréiè! Voi siete il mio unico protettore; fate qualcosa per me poverina. Pregate il generale e tutti i comandanti che ci mandino al più presto dei soccorsi, e venite voi stesso, se potete. Rimango la vostra fedele povera orfana

Mar'ja Mirónova

Dopo aver letto questa lettera per poco non impazzii. Mi precipitai in città, spronando senza misericordia il mio povero cavallo. Strada facendo meditavo ora questo ora quello per liberare la povera fanciulla, ma non riuscivo a escogitare nulla. Arrivato al galoppo in città, andai dritto dal generale e irruppi in casa sua.

Il generale camminava su e giù per la stanza, fumando la sua pipa di schiuma. Vedendomi si fermò. È probabile che il mio aspetto l'avesse colpito; chiese con premura il motivo del mio precipitoso arrivo.

«Vostra eccellenza», gli dissi, «ricorro a voi come a un padre; per amor di Dio, non respingete la mia preghiera: si tratta della felicità di tutta la mia vita».

«Che c'è, bàtjuška?», domandò il vecchio stupefatto. «Cosa posso fare per te? Parla».

«Vostra eccellenza, ordinatemi di assumere il comando di una compagnia di soldati e un mezzo centinaio di cosacchi, e

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mandatemi a liberare la fortezza Belogórskaja».

Il generale mi guardava fisso, supponendo, probabilmente, che fossi diventato pazzo (e in questo quasi non si sbagliava).

«Come sarebbe? Liberare la fortezza Belogórskaja?», disse infine.

«Vi garantisco il successo», risposi infervorato. «Purché mi lasciate andare».

«No, giovanotto», disse lui scuotendo la testa. «A una così forte distanza il nemico potrebbe facilmente tagliarvi fuori da ogni comunicazione col centro strategico principale, e riportare su di voi una vittoria totale. Le comunicazioni soppresse...».

Mi spaventai vedendo che si lasciava andare a considerazioni militari, e mi affrettai a interromperlo.

«La figlia del capitano Mirónov», gli dissi, «mi scrive: chiede aiuto; Švàbrin vuole costringerla a sposarlo».

«È mai possibile? Oh, questo Švàbrin è un grandissimo Schelm, e se mi capita fra le mani lo farò processare in ventiquattr'ore, e lo fucileremo sul parapetto della fortezza! Ma per il momento bisogna pazientare...».

«Pazientare!», gridai fuori di me. «Ma nel frattempo egli sposa Mar'ja Ivànovna!...».

«Oh!», replicò il generale. «Questa non è ancora una gran disgrazia: è meglio per lei al momento essere la moglie di Švàbrin: lui ora può offrirle protezione; quando invece lo avremo fucilato, allora, se Dio vorrà, le troveremo il fidanzatino. Le vedovelle graziose non restano senza marito; cioè, volevo dire che una vedovella trova marito prima di una fanciulla».

«Preferisco morire», dissi furioso, «piuttosto che cederla a Švàbrin!».

«Ah, ah, ah, ah!» disse il vecchio. «Ora capisco: tu, allora, sei

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innamorato di Mar'ja Ivànovna. Oh, è un'altra faccenda! Povero ragazzo! Comunque non posso assolutamente darti una compagnia di soldati e mezzo centinaio di cosacchi. Questa spedizione sarebbe irragionevole; non ne posso assumere la responsabilità».

Chinai la testa, la disperazione s'impossessò di me. All'improvviso un'idea mi balenò in testa: di che cosa si trattasse il lettore lo vedrà nel capitolo seguente, come dicono i romanzieri antichi.

XI • IL SOBBORGO RIBELLE

A quell'ora il leone era sazio, sebbene di natura

sia efferato.

«Come mai ti degni di venire nel mio antro?»,

chiese affettuosamente.

A. Sumarókov

Lasciai il generale e m'affrettai al mio alloggio. Savél'iè mi accolse con le sue solite ramanzine. «Hai proprio bisogno, signore, di confonderti coi briganti ubriachi! Ti sembra una cosa da signori? Che ne sai? Puoi rovinarti per niente. Ancora ancora andassi contro i turchi o contro gli svedesi, ma fa vergogna dire contro chi vai!».

Interruppi il suo discorso per chiedergli: quanti soldi avevo in tutto? «Ti basteranno», rispose con aria soddisfatta. «Per quanto le canaglie abbiano frugato, sono comunque riuscito a tenerli nascosti». E così dicendo estrasse dalla tasca un lungo borsellino intessuto, pieno di monete d'argento. «Bene, Savél'iè», gli dissi, «adesso dammene la metà; e il resto prendilo per te. Vado alla fortezza Belogórskaja».

«Bàtjuška Pëtr Andréiè!», disse il buon precettore con voce tremante. «Abbi timor di Dio; come fai a metterti in viaggio di

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questi tempi, quando i briganti non lasciano passare da nessuna parte? Abbi pietà almeno dei tuoi genitori, se non ne hai di te stesso. Dove devi andare? Perché? Aspetta un pochino: arriveranno le truppe, acchiapperanno le canaglie; allora te ne potrai anche andare in capo al mondo».

Ma la mia intenzione era irremovibile.

«È tardi per ragionare», risposi al vecchio. «Io devo andare, non posso farne a meno. Non te ne crucciare, Savél'iè: Dio è misericordioso; magari ci rivedremo! Bada di non farti scrupoli e di non risparmiare. Compra quello che ti sarà necessario, anche se costasse tre volte di più. Di questo denaro te ne faccio dono. Se entro tre giorni non sarò tornato...».

«Ma che dici, signore?», m'interruppe Savél'iè. «Io lasciarti partire da solo! Non te lo sognare neppure. Se hai già deciso di andare, io magari a piedi ma ti verrò dietro, mica ti abbandonerò. Che io debba restare senza di te dietro una muraglia di pietra! Sono forse ammattito? Fa' come vuoi, signore, ma io non mi staccherò da te».

Sapevo che con Savél'iè c'era poco da discutere, e gli consentii di prepararsi per il viaggio. Mezz'ora dopo montai sul mio buon cavallo, e Savél'iè su un ronzino magro e zoppo, che gli aveva dato gratuitamente uno degli abitanti della città, non avendo più di che nutrirlo. Arrivammo alle porte della città; le sentinelle ci lasciarono passare; uscimmo da Orenbùrg.

Cominciava a imbrunire. Il mio cammino passava lungo il sobborgo di Berdà, rifugio di Pugaèëv. La strada maestra era coperta di neve, ma per tutta la steppa si vedevano le orme dei cavalli, ogni giorno rinnovate. Avanzavo di buon trotto. Savél'iè riusciva a stento a seguirmi da lontano e mi gridava continuamente: «Più piano, signore, in nome di Dio, più piano. Il mio maledetto ronzino non ce la fa a star dietro al tuo diavolo dalle zampe lunghe. Dove corri? Ancora ancora andassi a un banchetto, ma tu rischi di andare sotto una scure, se non stai

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attento... Pëtr Andréiè... bàtjuška Pëtr Andréiè!... Non ti rovinare!... Signore onnipotente, il figlio dei padroni andrà a finire male!».

Presto si misero a brillare i fuochi di Berdà. Ci avvicinammo ai burroni, fortificazioni naturali del sobborgo. Savèl'iè non mi si staccava di dosso, e continuava le sue lamentose implorazioni. Speravo di aggirare il sobborgo senza incidenti, quando all'improvviso scorsi nella penombra proprio davanti a me forse cinque contadini armati di randelli: era un avamposto del rifugio di Pugaèëv. Ci chiesero il chi va là. Non conoscendo la parola d'ordine, avrei voluto superarli in silenzio, ma essi mi circondarono immediatamente, e uno afferrò il mio cavallo per le briglie. Io sfoderai la sciabola e colpii il contadino sulla testa; il berretto lo salvò, tuttavia barcollò e si lasciò sfuggire di mano le briglie. Gli altri rimasero sconcertati e fuggirono; io approfittai di quel momento, spronai il cavallo e partii al galoppo.

L'oscurità della notte che si approssimava avrebbe potuto preservarmi da ogni pericolo, ma a un tratto, guardandomi indietro, vidi che Savél'iè non era con me. Il povero vecchio, col suo cavallo zoppo, non ce l'aveva fatta a sfuggire ai briganti. Che fare? Dopo averlo aspettato per qualche minuto ed essermi accertato che era stato fermato, girai il cavallo e tornai indietro per trarlo in salvo.

Avvicinandomi al burrone sentii da lontano del chiasso, grida e la voce del mio Savél'iè. Andai più veloce e presto mi ritrovai nuovamente fra i contadini di guardia che mi avevano fermato qualche minuto prima. Savél'iè si trovava in mezzo a loro. Avevano tirato il vecchio giù dal suo ronzino e stavano per legarlo. Il mio arrivo li riempì di gioia. Mi si gettarono addosso con un grido e in un istante mi tirarono giù da cavallo. Uno di loro, evidentemente il capo, ci dichiarò che ci avrebbe subito condotti dal sovrano. «E il nostro bàtjuška», aggiunse, «è libero di comandare che siate impiccati subito, o che si aspetti la luce del

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sole». Io non opposi resistenza; Savél'iè seguì il mio esempio, e le sentinelle ci condussero via con aria trionfante.

Passammo il burrone e facemmo ingresso nel sobborgo. In tutte le izbe erano accesi i fuochi. Frastuono e grida echeggiavano ovunque. Per la strada incontrai una quantità di gente, ma nessuno, nell'oscurità, fece caso a noi, né riconobbe in me un ufficiale di Orenbùrg. Ci condussero direttamente a una casetta che si trovava all'angolo di un crocicchio. Davanti alla porta c'erano qualche botte di vino e due cannoni. «Ecco il palazzo», disse uno dei contadini; «vi annunceremo subito». Entrò nella casetta. Diedi un'occhiata a Savél'iè; il vecchio si faceva il segno della croce, recitando fra sé una preghiera. Aspettai a lungo; finalmente il contadino tornò e mi disse: «Va': il nostro bàtjuška ha comandato di far entrare l'ufficiale».

Entrai nella capanna, o nel palazzo, come la chiamavano i contadini. Era illuminata da due candele di sego, e i muri erano tappezzati di carta dorata; per il resto le panche, la tavola, il lavamano sospeso a una cordicella, l'asciugamano a un chiodo, la pala per il forno nell'angolo e l'ampio focolare ingombro di pentole di terracotta, - tutto era come in una qualsiasi casa di contadini. Pugaèëv sedeva sotto le immagini sacre, con un caftano rosso, un berretto alto e le mani altezzosamente sui fianchi. Gli stavano accanto alcuni dei suoi compagni più importanti, con un'aria di finta adulazione. Si vedeva che la notizia dell'arrivo di un ufficiale da Orenbùrg aveva destato nei rivoltosi una forte curiosità, e che si erano preparati a ricevermi con solennità. Pugaèëv mi riconobbe al primo sguardo. La sua gravità simulata sparì all'istante. «Ah, vossignoria!», mi disse animandosi. «Come stai? Come mai Dio t'ha portato qui?». Risposi che viaggiavo per una questione personale e che i suoi uomini mi avevano fermato: «Per quale questione?», mi domandò. Io non sapevo che cosa rispondere. Pugaèëv, supponendo che non mi volessi spiegare in presenza di testimoni, si volse ai suoi compagni e ordinò loro di

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uscire. Tutti obbedirono, ad eccezione di due, che non si mossero dal posto. «Parla liberamente davanti a loro», mi disse Pugaèëv: «a loro non nascondo nulla». Guardai di traverso i fiduciari dell'impostore. Uno di loro, un vecchietto gracile e curvo con la barba bianca, non aveva in sé niente di particolare, tranne un nastro azzurro a tracolla sul gabbano grigio. Invece non dimenticherò mai il suo compagno. Era alto di statura, massiccio e largo di spalle, e mi sembrava avesse all'incirca quarantacinque anni. La folta barba rossiccia, gli occhi grigi scintillanti, il naso senza narici e alcune macchie rossastre sulla fronte e sulle guance conferivano al suo largo viso butterato un'espressione indefinibile. Portava una camicia rossa, una veste kirgiza e pantaloni a sbuffo da cosacco. Il primo (come appresi in seguito) era il caporale disertore Beloboródov; il secondo - Afanàsij Sókolov (soprannominato Chlopùša) - un criminale deportato che era scappato tre volte dalle miniere siberiane. Nonostante i sentimenti che mi sconvolgevano completamente, la compagnia in cui mi ero ritrovato così per caso distraeva violentemente la mia immaginazione. Ma Pugaèëv mi ricondusse a me chiedendomi: «Di': per quale necessità sei partito da Orenbùrg?».

Mi venne in mente una strana idea: mi sembrò che la provvidenza, nel condurmi per la seconda volta da Pugaèëv, mi desse l'opportunità di mettere in azione il mio proposito. Decisi di approfittarne e, senza aver avuto il tempo di riflettere su quanto avevo deciso, risposi alla domanda di Pugaèëv:

«Stavo andando alla fortezza Belogórskaja per liberare un'orfana che laggiù viene oltraggiata».

Gli occhi di Pugaèëv mandarono scintille. «Chi dei miei uomini osa oltraggiare un'orfana?», gridò. «Valesse tanto oro quanto pesa, non sfuggirà alla mia giustizia. Di': chi è il colpevole?».

«Švàbrin è il colpevole», risposi. «Tiene prigioniera quella fanciulla che tu hai visto, ammalata, dalla moglie del prete, e vuole

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sposarla a forza».

«Gliela farò vedere io a Švàbrin», disse minacciosamente Pugaèëv. «Imparerà che cosa vuol dire fare di testa propria con me e offendere il popolo. Lo impiccherò».

«Consentimi di dire una parola», disse Chlopùša con voce rauca. «Hai avuto fretta di nominare Švàbrin comandante della fortezza, e ora hai fretta d'impiccarlo. Già hai offeso i cosacchi, mettendo un nobile alla loro testa; ora non spaventare i nobili, giustiziandoli alla prima calunnia».

«Non c'è né da averne pietà, né da favorirli!», disse il vecchietto con la fascia azzurra. «Far giustiziare Švàbrin non sarebbe male, ma non sarebbe male neppure interrogare a dovere il signor ufficiale sulle ragioni per cui s'è degnato di farci visita. Se lui non ti riconosce come sovrano, non può cercare giustizia da te; se invece ti riconosce perché è rimasto fino ad oggi a Orenbùrg con i tuoi inimici? Perché non ordini piuttosto di condurlo alla cancelleria e di accendere là un focherello? A me pare che sua grazia ci sia stata mandata dai comandanti di Orenbùrg».

La logica del vecchio bandito mi sembrò piuttosto convincente. Un gelo mi attraversò tutto il corpo nel pensare in che mani mi trovassi. Pugaèëv notò il mio turbamento. «Allora, vossignoria?», mi disse ammiccando. «Il mio feldmaresciallo pare dica le cose come stanno. Che ne pensi?».

L'ironia di Pugaèëv mi restituì il coraggio. Risposi tranquillamente che mi trovavo in suo potere e che era libero di fare di me quello che gli pareva.

«Bene», disse Pugaèëv. «Ora dimmi in che stato è la vostra città».

«Grazie al cielo», risposi, «va tutto bene».

«Va tutto bene?», ripeté Pugaèëv. «Ma se la gente muore di fame!».

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L'usurpatore diceva la verità, ma io, per dovere di giuramento, cominciai a assicurarlo che erano tutte voci infondate, e che a Orenbùrg c'erano provviste a sufficienza di ogni genere.

«Lo vedi», riprese il vecchietto, «che ti dice in faccia le bugie? Tutti i fuggiaschi sono concordi nel testimoniare che a Orenbùrg c'è la fame e una moria generale, che vi si mangiano le carogne e pare loro una gran cosa, e sua grazia assicura che c'è di tutto in abbondanza. Se vuoi impiccare Švàbrin, impicca alla stessa forca anche questo giovanotto, per non far invidia a nessuno».

Le parole di quel vecchio maledetto sembrava facessero tentennare Pugaèëv. Per fortuna Chlopùša si mise a contraddire il suo compagno.

«Basta, Naùmyè», gli disse. «Per te bisognerebbe solo strozzare e sgozzare. Che razza di eroe guerriero sei? A guardarti, reggi l'anima coi denti. Hai tu stesso un piede nella fossa, e ammazzi gli altri. Non ti basta il sangue che hai sulla coscienza?».

«E tu che santo sei?», replicò Beloboródov. «Da dove ti viene questa pietà?».

«Certo», rispose Chlopùša, «anch'io ho peccato, e questa mano» (strinse il pugno ossuto e, rimboccandosi le maniche, scoprì un braccio villoso), «è anch'essa colpevole d'aver sparso sangue cristiano. Ma io ho ucciso l'avversario, non l'ospite; a un crocicchio aperto o in una foresta oscura, non in casa, seduto accanto alla stufa; con la mazza e la scure, non con calunnie da donnetta».

Il vecchio si voltò dall'altra parte e borbottò le parole: «Narici strappate!...».

«Che vai bisbigliando lì, vecchio barbogio?», gridò Chlopùša. «Te le do io le narici strappate; aspetta, che il giorno arriverà anche per te; se Dio vuole, anche tu annuserai le tenaglie... E intanto bada che non ti debba strappare la barbetta!».

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«Signori generali!», esclamò solennemente Pugaèëv. «Smettetela di bisticciare. Non sarebbe un guaio se tutti i cani di Orenbùrg dimenassero le zampe sotto la stessa trave di forca; il guaio è se i nostri mastini si azzannano fra loro. Su, fate la pace».

Chlopùša e Beloboródov non proferirono parola e si guardarono cupamente. Vidi la necessità di cambiare un discorso che per me si poteva concludere in modo assai svantaggioso, e, voltandomi verso Pugaèëv, gli dissi con aria allegra: «Ah! Mi ero dimenticato di ringraziarti per il cavallo e il pellicciotto. Senza di te non sarei arrivato fino in città e sarei gelato per strada».

Il mio espediente riuscì. Pugaèëv si rallietò. «Il debito è bello quando vien pagato», disse, ammiccando e socchiudendo gli occhi. «Adesso invece raccontami, cos'hai a che fare con quella ragazza che Švàbrin offende? Non sarà mica la fiamma del tuo cuore ardimentoso? Eh?».

«È la mia fidanzata», risposi a Pugaèëv, vedendo il tempo tornato al bello e non trovando necessario celare la verità.

«La tua fidanzata!», gridò Pugaèëv. «Perché non l'hai detto prima? Allora ti sposeremo e banchetteremo alle tue nozze!». Poi, rivolgendosi a Beloboródov: «Ascolta, feldmaresciallo! Io e sua signoria siamo vecchi amici; andiamo piuttosto a cenare, la notte porta consiglio. Domani vedremo che cosa farne di lui».

Avrei ricusato volentieri l'onore che mi veniva offerto, ma c'era poco da fare. Due giovani cosacche, figlie del padrone dell'izba, apparecchiarono la tavola con una tovaglia bianca, portarono del pane, zuppa di pesce, qualche fiasco di vino e di birra, e io mi ritrovai per la seconda volta alla mensa di Pugaèëv e dei suoi terribili compagni.

L'orgia alla quale assistetti involontariamente si protrasse fino a tarda notte. Infine l'ebbrezza cominciò a vincere i commensali. Pugaèëv si mise a sonnecchiare, seduto com'era; i compagni si

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alzarono e mi fecero cenno di lasciarlo stare. Uscii insieme con loro. Per ordine di Chlopùša una sentinella mi condusse alla cancelleria, dove trovai anche Savél'iè, e dove mi lasciarono insieme con lui, sbarrati dentro. Il mio precettore era così sbalordito alla vista di quanto succedeva che non mi fece nessuna domanda. Si coricò al buio e sospirò e gemette a lungo; alla fine si mise a russare ed io mi lasciai andare a riflessioni che non mi consentirono di prender sonno neanche per un istante. La mattina mi vennero a chiamare da parte di Pugaèëv. Andai da lui. Davanti alla sua porta c'era un carro coperto, trainato da tre cavalli tartari. La gente si accalcava sulla strada. Nell'ingresso incontrai Pugaèëv: era vestito da viaggio, in pelliccia e berretto kirgizo. I commensali della sera prima lo circondavano, assumendo un atteggiamento servile che contrastava fortemente con tutto quello di cui ero stato testimone il giorno avanti. Pugaèëv mi salutò allegramente e mi ordinò di montare sul carro insieme con lui.

Prendemmo posto. «Alla fortezza Belogórskaja!», disse Pugaèëv al tartaro dalle spalle larghe che guidava la trojka in piedi. Il mio cuore prese a battere forte. I cavalli si mossero, il campanello tintinnò, il carro volò via di corsa...

«Ferma! Ferma!», echeggiò una voce che conoscevo fin troppo bene, e vidi Savél'iè che ci correva incontro. Pugaèëv fece fermare. «Bàtjuška, Pëtr Andréiè!», gridava il precettore. «Non mi abbandonare in vecchiaia in mezzo a questi masc...». «Ah, vecchio barbogio!», gli disse Pugaèëv. «Dio ci ha fatto incontrare un'altra volta. Avanti, siediti a cassetta».

«Grazie, sovrano, grazie, buon padre!», diceva Savél'iè, mettendosi a sedere. «Che Dio ti conceda cent'anni di salute per aver raccolto e dato pace a me, che son vecchio. Tutta la vita pregherò Dio per te, e non parlerò più del pellicciotto di lepre».

Quel pellicciotto di lepre poteva finire per irritare sul serio Pugaèëv. Per fortuna l'impostore o non sentì, o non fece caso all'allusione fuori posto. I cavalli partirono al galoppo; la gente per

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strada si fermava e s'inchinava fino alla cintola. Pugaèëv faceva cenni col capo a destra e a sinistra. Di lì a un minuto uscimmo dal sobborgo e filammo su una strada piatta.

È facile immaginarsi che cosa provassi in quel momento. Nel giro di qualche ora avrei rivisto colei che ormai consideravo perduta per me. Mi immaginavo il momento del nostro incontro... Pensavo anche all'uomo nelle cui mani si trovava la mia sorte, e che per uno strano concorso di circostanze era misteriosamente legato a me. Ripensavo agli accessi di crudeltà, alle abitudini sanguinarie di colui che si spacciava come il salvatore della mia diletta! Pugaèëv non sapeva che era la figlia del capitano Mirónov; Švàbrin, esasperato, poteva svelargli tutto; Pugaèëv poteva apprendere la verità anche in un altro modo... E allora che ne sarebbe stato di Mar'ja Ivànovna? Un brivido freddo mi attraversò il corpo, mi si drizzarono i capelli...

A un tratto Pugaèëv troncò le mie riflessioni domandandomi: «Che cos'è, vossignoria, che ti rende pensieroso?».

«Come faccio a non essere pensieroso?», gli risposi. «Sono un ufficiale e un nobile; fino a ieri mi battevo contro di te, e oggi viaggio con te sullo stesso carro, e la felicità di tutta la mia vita dipende da te».

«E allora?», domandò Pugaèëv. «Hai paura?».

Risposi che, essendo già stato graziato una volta da lui, speravo non solo nella sua clemenza, ma anche nel suo aiuto.

«E hai ragione, quant'è vero Iddio hai ragione», disse l'impostore. «Hai visto come ti guardavano storto i miei ragazzi; il vecchio insisteva anche oggi a dire che sei una spia, e che bisogna torturarti e impiccarti, ma io non ho ceduto», aggiunse, abbassando la voce affinché Savél'iè e il tartaro non potessero sentirlo, «ricordando il tuo bicchiere di vino e il pellicciotto di lepre. Vedi che non sono ancora un bevitore di sangue, come dicono i vostri di me». Ricordai la presa della fortezza

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Belogórskaja, ma considerai inopportuno contraddirlo, e non replicai niente.

«Che cosa dicono di me a Orenbùrg?», domandò Pugaèëv, dopo essere stato zitto per un po'.

«Dicono che spuntarla con te è piuttosto difficile; non c'è che dire: ti sei fatto conoscere».

Il viso dell'impostore raffigurò l'amor proprio soddisfatto. «Sì!», disse con aria allegra. «Faccio la guerra come si deve. Lo sanno da voi a Orenbùrg della battaglia di Juzéeva? Quaranta generali uccisi, quattro armate fatte prigioniere. Che ne pensi: il re di Prussia potrebbe competere con me?».

La presunzione del brigante mi parve divertente.

«E tu che ne pensi?», gli dissi, «te la caveresti con Federico?».

«Con Fëdor Fëdoroviè? Come no! Coi vostri generali me la cavo, e loro l'hanno battuto. Finora le mie armi sono state fortunate. Dammi tempo, e vedrai come marcerò su Mosca».

«Pensi di marciare su Mosca?».

L'usurpatore restò un po' sovrappensiero e disse a mezza voce: «Lo sa Dio. La mia strada è stretta; libertà ne ho poca. I miei ragazzi fanno i furbi. Sono dei ladri. Devo tenere l'orecchio teso: alla prima avversità riscatterebbero il loro collo con la mia testa».

«Lo vedi!», dissi a Pugaèëv. «Non faresti meglio a staccarti da loro per tempo, ricorrendo alla clemenza dell'imperatrice?».

Pugaèëv ridacchiò con amarezza. «No», rispose; «è tardi perché io mi penta. Per me non ci sarà grazia. Continuerò come ho iniziato. Chissà? Magari riuscirò! Griška Otrép'ev ce l'ha fatta a regnare su Mosca».

«Ma lo sai com'è andato a finire? L'hanno buttato dalla finestra, sgozzato, bruciato, con le sue ceneri hanno caricato il cannone e

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sparato!».

«Ascolta», disse Pugaèëv con una specie di selvaggia ispirazione. «Ti racconterò una fiaba che mi raccontava da piccolo una vecchia calmucca. Un giorno l'aquila domandò al corvo: "Dimmi, uccello-corvo, come mai tu vivi al mondo trecent'anni, e io in tutto solo trentatré?". "Perché, bàtjuška", le rispose il corvo, "tu bevi il sangue vivo, mentre io mi cibo di carogne". L'aquila pensò: allora proviamo anche noi a nutrirci così. Bene. Volarono insieme aquila e corvo. Ecco che videro un cavallo morto; scesero e gli si posarono sopra. Il corvo cominciò a beccare e a lodare il cibo. L'aquila beccò una volta, beccò una seconda, sbatté un'ala e disse al corvo: "No, fratello corvo, piuttosto che nutrirsi trecent'anni di carogne, meglio saziarsi una volta di sangue vivo, e poi sia quel che Dio vorrà!". Che te ne pare della fiaba calmucca?».

«Arguta», gli risposi. «Ma vivere d'assassinio e saccheggio per me significa beccare le carogne».

Pugaèëv mi guardò meravigliato e non rispose niente. Tacemmo entrambi, immergendoci ognuno nei propri pensieri. Il tartaro intonò una mesta canzone; Savél'iè, sonnecchiando, dondolava a cassetta. Il carro volava sulla piatta strada invernale... All'improvviso scorsi il piccolo villaggio sulla riva scoscesa dello Jaìk, con la palizzata e il campanile - e un quarto d'ora dopo facemmo ingresso nella fortezza Belogórskaja.

XII • L'ORFANA

Come il nostro melino

Non ha cime né gemme,

La nostra principessina

Non ha babbo né mamma.

Nessuno a vestirla,

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Nessuno a benedirla.

Canzone nuziale

Il carro si accostò alla scalinata della casa del comandante. La gente aveva riconosciuto la sonagliera di Pugaèëv e correndo si accalcava dietro di noi. Švàbrin accolse l'impostore sulla gradinata. Era vestito da cosacco e si era lasciato crescere la barba. Il traditore aiutò Pugaèëv a scendere dal carro, manifestando con vili espressioni la propria gioia e devozione. Vedendomi si confuse, ma si riprese prontamente e mi tese la mano dicendo: «Anche tu dei nostri? È un pezzo che avresti dovuto!». Io gli volsi le spalle e non risposi nulla.

Ebbi una stretta al cuore quando ci ritrovammo nella stanza che conoscevo da tanto tempo, dove era rimasto attaccato al muro il diploma del defunto comandante, come un doloroso epitaffio ai tempi passati. Pugaèëv sedette sullo stesso divano sul quale, a volte, sonnecchiava Ivàn Kuzmìè, addormentato dal brontolio della consorte. Švàbrin stesso gli portò della vodka. Pugaèëv ne bevve un bicchierino e gli disse, indicandomi a lui: «Offrine anche a sua signoria». Švàbrin mi si accostò col vassoio, ma io gli voltai le spalle per la seconda volta. Sembrava a disagio. Con la sua solita perspicacia aveva certamente intuito che Pugaèëv era scontento di lui. Al suo cospetto era spaventato, ma guardava me con diffidenza. Pugaèëv s'informò delle condizioni della fortezza, delle voci che circolavano sulle truppe nemiche e via dicendo, e a un tratto gli domandò a bruciapelo: «Dimmi, amico, che fanciulla tieni agli arresti in casa tua? Mostramela un po'».

Švàbrin si fece pallido come un morto. «Sire», disse con voce tremante... «Sire, non è agli arresti... è malata... è a letto in camera sua».

«Allora conducimi da lei», disse l'impostore, alzandosi. Tirarsi indietro era impossibile. Švàbrin accompagnò Pugaèëv nella stanza di Mar'ja Ivànovna. Io li seguii.

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Švàbrin si fermò sulla scala. «Sire!», disse. «Voi avete il potere di esigere da me quello che volete, ma non fate entrare un estraneo nella stanza da letto di mia moglie».

Io fremetti. «Dunque sei sposato!», dissi a Švàbrin, pronto a farlo a pezzi.

«Zitto!», m'interruppe Pugaèëv. «Questo è affar mio. E tu», continuò, rivolgendosi a Švàbrin, «non fare il furbo e non t'intestardire: che sia o no tua moglie, io porto da lei chi voglio. Seguimi, vossignoria».

Davanti alla porta della stanza Švàbrin si arrestò di nuovo e disse con voce rotta: «Sire, vi avverto che ha la febbre alta, è già il terzo giorno che delira incessantemente».

«Apri!», disse Pugaèëv.

Švàbrin cominciò a frugarsi nelle tasche e disse che non aveva preso con sé la chiave. Pugaèev diede un calcio alla porta; la serratura saltò; la porta si aprì, e noi entrammo.

Diedi un'occhiata e mi sentii gelare il cuore. In terra, con un vestito a brandelli da contadina, sedeva Mar'ja Ivànovna, pallida, magra, scapigliata. Davanti aveva una brocca d'acqua, coperta da una fetta di pane. Vedendomi, trasalì e lanciò un grido. Quello che allora mi successe non lo ricordo.

Pugaèëv guardò Švàbrin e gli disse con un sogghigno amaro: «Niente male il tuo lazzaretto!». Poi, avvicinandosi a Mar'ja Ivànovna: «Dimmi, colombella, perché tuo marito ti punisce? Di che cosa ti sei macchiata di fronte a lui?».

«Mio marito!», ripeté lei. «Lui non è mio marito. Io non sarò mai sua moglie! Ho deciso piuttosto di morire, e morrò, se non mi salveranno».

Pugaèëv lanciò a Švàbrin uno sguardo minaccioso: «E tu hai osato ingannarmi!», gli disse. «Lo sai, canaglia, che cosa ti meriti?».

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Švàbrin cadde in ginocchio... In quel momento il disprezzo soffocò in me tutti i sentimenti d'odio e di collera. Guardavo con ripugnanza il nobile che strisciava implorante ai piedi di un cosacco fuggiasco. Pugaèëv si raddolcì. «Per questa volta ti grazio», disse a Švàbrin, «ma sappi che alla prima colpa ti sarà ricordata anche questa». Poi si volse verso Mar'ja Ivànovna e le disse affettuosamente: «Esci, bella fanciulla; ti concedo la libertà. Io sono il sovrano».

Mar'ja Ivànovna gli lanciò una rapida occhiata e intuì di aver davanti l'assassino dei suoi genitori. Si serrò il viso con tutt'e due le mani e cadde priva di sensi. Mi slanciai verso di lei, ma in quel momento s'insinuò molto audacemente nella stanza la mia vecchia conoscente Palàška, e cominciò a prendersi cura della sua signorina. Pugaèëv uscì dalla stanza, e noi tre scendemmo in salotto.

«Allora, vossignoria?», disse ridendo Pugaèëv. «Abbiamo messo in salvo la bella vergine! Che ne pensi, non sarebbe il caso di mandare a chiamare il prete e di fargli celebrare le nozze della nipote? Io magari farò da compare, Švàbrin da cavaliere d'onore; faremo baldoria, berremo, e serreremo la porta!».

Accadde quello che temevo. Švàbrin, sentendo la proposta di Pugaèëv, andò fuori di sé. «Sire!», gridò preso da frenesia. «Sono colpevole, vi ho mentito; ma anche Grinëv v'inganna. Questa ragazza non è la nipote del prete di qui: è la figlia di Ivàn Mirónov, che è stato giustiziato durante la presa di questa fortezza».

Pugaèëv mi puntò addosso i suoi occhi infuocati. «Come sarebbe?», mi chiese interdetto.

«Švàbrin ti ha detto il vero», risposi con fermezza.

«Tu questo non me l'avevi detto», osservò Pugaèëv, il cui viso s'era adombrato.

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«Giudica tu stesso», gli risposi, «se era possibile dichiarare davanti ai tuoi uomini che la figlia di Mirónov è viva. L'avrebbero sbranata. Niente l'avrebbe salvata!».

«Anche questo è vero», disse ridendo Pugaèëv. «I miei ubriaconi non avrebbero risparmiato la povera fanciulla. Ha fatto bene la comare moglie del prete a ingannarli».

«Ascolta», continuai, vedendo che era ben disposto. «Come chiamarti non lo so, né voglio saperlo... Ma Dio mi è testimone che ti ripagherei volentieri con la vita per quello che hai fatto per me. Solo non chiedermi quello che è contrario al mio onore e alla mia coscienza cristiana. Tu sei il mio benefattore. Porta a termine quanto hai iniziato: lasciami andare con la povera orfana dove Dio ci condurrà. E noi, dovunque tu sia e qualunque cosa ti succeda, ogni giorno pregheremo il Signore per la salvezza dell'anima tua peccatrice...».

Sembrava che l'anima brutale di Pugaèëv fosse commossa. «Sia pure come tu dici!», disse. «Se si deve giustiziare si giustizi, se si deve graziare si grazi: questa è la mia abitudine. Prenditi la tua bella, portala dove vuoi e che Dio vi conceda amore e giudizio!».

A questo punto egli si rivolse a Švàbrin e gli ordinò di consegnarmi un lasciapassare per tutte le barriere e le fortezze in suo dominio. Švàbrin, completamente annichilito, stava lì come impalato. Pugaèëv andò a ispezionare la fortezza. Švàbrin lo accompagnò, io invece restai con la scusa che dovevo prepararmi alla partenza.

Corsi nella stanza di sopra. La porta era chiusa. Bussai. «Chi è?», chiese Palàška. Dissi il mio nome. La cara vocina di Mar'ja Ivànovna risuonò da dietro la porta. «Aspettate un momento, Pëtr Andréiè. Mi sto cambiando. Andate da Akulìna Pamfìlovna: vi raggiungerò immediatamente».

Obbedii e andai a casa di padre Geràsim. Tanto lui che la moglie

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uscirono per corrermi incontro. Savél'iè li aveva già avvisati. «Buon giorno, Pëtr Andréiè», disse la moglie del pope. «Dio ci ha concesso di rincontrarci. Come state? Vi ricordavamo ogni giorno. E Mar'ja Ivànovna quante ne ha patite in vostra assenza, colombella mia!... Ma dite, caro Pëtr Andréiè, come siete riuscito a intendervela con Pugaèëv? Com'è che non vi ha fatto fuori? Bene, grazie allo scellerato almeno di questo». «Basta, vecchia», la interruppe padre Geràsim. «Non spifferare tutto quello che sai. Non c'è salvezza eterna nelle molte parole. Bàtjuška Pëtr Andréiè! Entrate, siate il benvenuto. Da quanto, da quanto tempo non ci vedevamo».

La moglie del pope cominciò a offrirmi quel che le aveva mandato Iddio. E intanto non la smetteva di parlare. Mi raccontò in che modo Švàbrin li avesse costretti a consegnargli Mar'ja Ivànovna; come Mar'ja Ivànovna piangesse e non volesse separarsi da loro; come Mar'ja Ivànovna fosse sempre rimasta in contatto con lei attraverso Palàška (una ragazza in gamba, che faceva rigare dritto anche il sottufficiale); come ella avesse consigliato a Mar'ja Ivànovna di scrivermi la lettera, e via dicendo. Io a mia volta le raccontai brevemente la mia storia. Il pope e la moglie si fecero il segno della croce sentendo che Pugaèëv era al corrente del loro inganno. «Dio ci guardi!», diceva Akulìna Pamfìlovna. «Che Dio scacci via la nuvola. Ma bravo, Alekséj Ivànyè; non c'è che dire: un bel mascalzone!». In quell'attimo stesso la porta si aprì, e Mar'ja Ivànovna entrò con un sorriso sul volto pallido. Aveva abbandonato il suo costume da contadina ed era vestita come prima, in modo semplice e aggraziato.

Le afferrai la mano e a lungo non potei articolare parola. Tacevamo entrambi col cuore gonfio. I padroni di casa si resero conto che avevamo altro per la testa e ci lasciarono. Restammo soli. Tutto fu dimenticato. Parlavamo e non riuscivamo a saziarci di parlare. Mar'ja Ivànovna mi raccontò tutto quello che le era capitato dopo la presa della fortezza; mi descrisse tutta l'atrocità

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della sua situazione, tutte le prove a cui l'aveva sottoposta l'infame Švàbrin. Ricordammo anche i tempi felici di una volta. Piangevamo tutt'e due... Infine cominciai a esporle i miei progetti... Restare nella fortezza che era in dominio di Pugaèëv e comandata da Švàbrin per lei non era possibile. Non c'era da pensare neanche a Orenbùrg, sottoposta a tutte le sciagure di un assedio. Lei non aveva al mondo neppure un parente. Le proposi di recarsi in campagna dai miei genitori. Al principio esitò: l'indisponibilità a lei nota di mio padre nei suoi riguardi la spaventava. Io la rassicurai. Sapevo che mio padre avrebbe considerato una fortuna e si sarebbe fatto un dovere di ospitare la figlia di un valoroso soldato, caduto per la patria. «Cara Mar'ja Ivànovna!», dissi infine. «Io ti considero mia moglie. Assurde circostanze ci hanno unito indissolubilmente: niente al mondo ci può separare». Mar'ja Ivànovna mi ascoltò semplicemente, senza falso imbarazzo, senza obiezioni affettate. Sentiva che il suo destino era unito al mio. Ma ripeté che non sarebbe stata mia moglie senza il consenso dei miei genitori. E io non la contraddissi. Ci baciammo appassionatamente, sinceramente - e in tal modo fra noi tutto fu deciso.

Un'ora dopo il sottufficiale mi portò il lasciapassare, firmato dagli scarabocchi di Pugaèëv, e mi invitò da parte sua a recarmi da lui. Lo trovai pronto a mettersi in viaggio. Non posso esprimere quello che sentivo nel separarmi da quest'uomo terribile, mostro, malfattore per tutti tranne che per me. Perché non dire la verità? In quel momento mi sentivo attratto a lui da una forte simpatia. Ardevo dal desiderio di strapparlo dall'ambiente dei banditi che capeggiava, e di salvargli la testa, finché c'era ancora tempo. Švàbrin e il popolo che si affollava attorno a noi m'impedirono di esprimere tutto quello di cui avevo il cuore colmo.

Ci separammo da amici. Pugaèëv, scorgendo nella folla Akulìna Pamfìlovna, la minacciò col dito e strizzò un occhio in modo eloquente; poi salì sul carro coperto, diede ordine di andare a

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Berdà, e quando i cavalli si mossero si sporse ancora una volta dal carro e mi gridò: «Addio, vossignoria! Magari un giorno ci rivedremo». Effettivamente ci rivedemmo, ma in quali circostanze!...

Pugaèëv partì. Guardai a lungo la bianca steppa sulla quale correva a precipizio la sua trojka. La gente si disperse. Švàbrin scomparve. Io tornai alla casa del pope. Tutto era pronto per la nostra partenza; non volevo indugiare ancora. I nostri averi furono tutti caricati sulla vecchia carretta del comandante. I vetturini attaccarono in un attimo i cavalli. Mar'ja Ivànovna andò a congedarsi dalle tombe dei genitori, sepolti dietro la chiesa. Avrei voluto accompagnarla, ma lei mi pregò di lasciarla sola. Dopo qualche minuto ritornò, versando quiete lacrime in silenzio. La carretta fu fatta avanzare. Padre Geràsim e sua moglie uscirono sulla scalinata. Sul carro coperto salimmo in tre: Mar'ja Ivànovna con Palàška ed io. Savél'iè si arrampicò a cassetta. «Addio, Mar'ja Ivànovna, colombella mia! Addio, Pëtr Andréiè, chiaro falchetto nostro!», diceva la buona moglie del prete. «Buon viaggio, e che Dio conceda felicità a tutti e due!». Partimmo. Alla finestra della casa del comandante vidi Švàbrin in piedi. Il suo viso esprimeva una rabbia tetra. Io non volevo trionfare sul nemico sconfitto, e volsi gli occhi da un'altra parte. Finalmente uscimmo dalla porta delle mura e lasciammo per sempre la fortezza Belogórskaja.

XIII • L'ARRESTO

«Non adiratevi, signore: il mio dover m'impone

D'accompagnarvi subito in prigione».

«Prego, sono pronto: ma confido

Che mi lasciate prima spiegare tal disguido».

Knjažnìn

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Riunito in modo così inatteso alla fanciulla che amavo, per la quale ancora al mattino ero così tormentosamente preoccupato, non credevo a me stesso e immaginavo che tutto quanto mi era accaduto non fosse che una vuota visione di sogno. Mar'ja Ivànovna guardava pensosa ora me, ora la strada, e sembrava che non fosse ancora riuscita a riaversi né a tornare in sé. Tacevamo. I nostri cuori erano troppo provati. Inavvertitamente dopo un paio d'ore ci ritrovammo nella fortezza più vicina, anch'essa in potere di Pugaèëv. Qui cambiammo i cavalli. Dalla velocità con cui li attaccavano, dalla precipitosa sollecitudine del cosacco barbuto, nominato comandante da Pugaèëv, vidi che, grazie alla chiacchiera del vetturino che ci aveva portati, mi prendevano per un favorito di corte.

Procedemmo oltre. Scese il crepuscolo. Ci avvicinammo a una cittadina dove, stando alle parole del barbuto comandante, si trovava un forte distaccamento, che andava a unirsi all'usurpatore. Fummo fermati dalle sentinelle. Alla domanda: chi va là - il vetturino rispose a voce alta: «Il compare del sovrano con la sua padroncina». Di colpo una folla di ussari ci circondò con terribili imprecazioni. «Esci fuori, compare del diavolo!», mi disse un baffuto maresciallo. «Avrai una bella lavata di testa, tu e la tua padroncina!».

Scesi dal carro e chiesi di essere condotto dal loro capo. Vedendo un ufficiale, i soldati smisero d'insultarmi. Il maresciallo mi condusse dal maggiore. Savél'iè mi veniva appresso borbottando di tanto in tanto fra sé: «Eccoti il compare del sovrano! Dalla padella alla brace... Signore onnipotente! Come andrà a finire?». Il carro ci seguiva al passo.

Nel giro di cinque minuti arrivammo a una casetta, fortemente illuminata. Il maresciallo mi lasciò sotto sorveglianza e andò ad annunciarmi. Tornò subito, dichiarandomi che sua eccellenza non aveva tempo di ricevermi, e che ordinava di mettere me in prigione, e di condurre da lui la padroncina.

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«Come sarebbe a dire?», gridai infuriato. «È diventato pazzo?».

«Non posso saperlo, vossignoria», rispose il maresciallo. «So solo che sua signoria illustrissima ha ordinato di condurre vossignoria in prigione, e di accompagnare la signora da sua signoria illustrissima, vossignoria!».

Mi precipitai su per la scalinata. Le sentinelle non pensarono a trattenermi, ed io entrai di corsa nella stanza dove cinque o sei ufficiali ussari giocavano d'azzardo. Il maggiore teneva il banco. Quale non fu la mia sorpresa quando, guardandolo, riconobbi Ivàn Ivànoviè Zùrin, che un giorno mi aveva vinto al biliardo nella locanda di Simbìrsk!

«Possibile?», gridai. «Ivàn Ivànyè! Tu?».

«To', to', to', Pëtr Andréiè! Qual buon vento? Da dove vieni? Salve, amico. Non vuoi puntare una carta?».

«Ti ringrazio. Fammi piuttosto assegnare un alloggio».

«Ma quale alloggio? Resta da me».

«Non posso: non sono solo».

«Be', porta qui anche il compagno».

«Non sono con un compagno; sono... con una signora».

«Con una signora! E dove l'hai pescata? Ehe, amico!». (Così dicendo Zùrin fischiò in modo tanto eloquente che tutti sghignazzarono, ed io mi smarrii completamente).

«Be'», continuò Zùrin, «sia pure. Avrai un alloggio. Ma è un peccato... Avremmo fatto baldoria come ai vecchi tempi... Ehi! ragazzo! Com'è che non portano qui la comarella di Pugaèëv? O fa la testarda? Dille che non abbia paura: che il signore è splendido; non le farà alcun male, e dalle uno spintone come si deve».

«Ma che cosa dici?», dissi a Zùrin. «Quale comare di Pugaèëv? È la figlia del defunto capitano Mirónov. L'ho liberata dalla

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prigionia e ora l'accompagno nella proprietà di mio padre, dove la lascerò».

«Come! Allora sei tu quello che mi stavano annunciando adesso? Scusa! Ma come sarebbe a dire?».

«Poi ti racconterò tutto. Ma adesso, per amor di Dio, rassicura quella povera fanciulla che i tuoi ussari hanno impaurito».

Zùrin diede subito disposizioni. Uscì lui stesso in strada a scusarsi davanti a Mar'ja Ivànovna dell'equivoco involontario e comandò al maresciallo di assegnarle il miglior alloggio della città. Io restai a dormire da lui.

Cenammo, e quando restammo noi due soli gli raccontai le mie avventure. Zùrin mi ascoltava con grande attenzione. Quando ebbi finito scosse la testa e disse: «Tutto questo, amico, va bene; solo una cosa non va: chi diavolo te lo fa fare di sposarti? Io, ufficiale onesto, non ti voglio ingannare: credimi, il matrimonio è una follia. Di', ti vedi a star dietro a tua moglie e a far da balia ai ragazzini? Ma lascia perdere. Da' retta a me: rompi i legami con la figlia del capitano. La strada per Simbìrsk l'ho sgomberata io, ed è sicura. Mandala domani sola dai tuoi genitori, e tu resta nel mio distaccamento. Non hai interesse di tornare a Orenbùrg. Se ricadrai nelle mani dei rivoltosi difficilmente te la caverai un'altra volta. Così la vertigine amorosa passerà da sé, e tutto andrà per il meglio».

Anche se non ero del tutto d'accordo con lui, sentivo comunque che un debito d'onore richiedeva la mia presenza nell'esercito dell'imperatrice. Decisi di seguire il consiglio di Zùrin: mandare Mar'ja Ivànovna in campagna e rimanere nel suo reparto.

Savél'iè si presentò per spogliarmi; io gli annunciai che doveva prepararsi a mettersi in viaggio il giorno dopo con Mar'ja Ivànovna. Cominciò a intestardirsi. «Ma che dici, signore? Come faccio a lasciarti? Chi ti starà appresso? Che diranno i tuoi

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genitori?».

Conoscendo la caparbietà del mio precettore, mi proposi di persuaderlo con la dolcezza e la sincerità. «Amico mio, Archìp Savél'iè!», gli dissi. «Non ti rifiutare, sii il mio benefattore; qui non avrò bisogno di un domestico, e non sarò tranquillo se Mar'ja Ivànovna si metterà in viaggio senza di te. Servendo lei tu servi anche me, perché ho deciso fermamente, non appena le circostanze lo consentiranno, di sposarla».

A questo punto Savél'iè batté le mani con un'aria di indescrivibile sorpresa. «Sposarla!», ripeté. «Il bambino vuole sposarsi! e che ne dirà il babbo, e la mamma cosa ne penserà?».

«Acconsentiranno, vedrai che acconsentiranno», risposi, «quando avranno conosciuto Mar'ja Ivànovna. Confido anche su di te. Il babbo e la mamma ti credono: tu ci farai da intermediario, non è vero?».

Il vecchio era commosso. «Oh, bàtjuška mio Pëtr Andréiè!», rispose. «Anche se hai pensato di sposarti un po' prestino, Mar'ja Ivànovna è una signorina così buona che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire l'occasione. E sia come vuoi tu! L'accompagnerò, quell'angelo di Dio, e riferirò servilmente ai tuoi genitori che una fidanzata del genere non ha bisogno neanche della dote».

Ringraziai Savél'iè e andai a dormire nella stessa stanza di Zùrin. Accalorato ed emozionato com'ero, mi persi in chiacchiere. Zùrin all'inizio chiacchierava con me volentieri, ma a poco a poco le sue parole si fecero più rare e slegate; alla fine, invece di rispondere a non so che domanda, si mise a russare fischiando. Io tacqui e presto seguii il suo esempio.

La mattina dopo andai da Mar'ja Ivànovna. Le comunicai i miei progetti. Li trovò ragionevoli e si trovò subito d'accordo con me. Il reparto di Zùrin doveva lasciare la città quel giorno stesso. Non c'era da perder tempo. Mi separai da Mar'ja Ivànovna, dopo averla affidata a Savél'iè e aver consegnato a lei una lettera per i miei

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genitori. Mar'ja Ivànovna scoppiò a piangere. «Addio, Pëtr Andréiè!», disse a bassa voce. «Se ci sarà dato o no rivederci, lo sa solo Iddio, ma non vi dimenticherò mai; fino alla tomba tu solo resterai nel mio cuore». Non potei rispondere nulla. Avevamo gente attorno. Non volevo abbandonarmi in loro presenza a dar sfogo alle mie preoccupazioni. Infine ella partì. Io tornai da Zùrin mesto e silenzioso. Voleva rendermi allegro; io pensavo a distrarmi: trascorremmo la giornata in modo chiassoso e scatenato, e la sera ci mettemmo in marcia.

Era la fine di febbraio. L'inverno, che aveva complicato le operazioni militari, stava per finire, e i nostri generali si preparavano ad agire in collaborazione. Pugaèëv continuava il suo assedio sotto le mura di Orenbùrg. Nel frattempo, intorno a lui, i reparti si riunivano e si avvicinavano da ogni parte al covo dei malfattori. I villaggi ribelli, alla vista delle nostre truppe, si sottomettevano; dappertutto bande di briganti fuggivano davanti a noi, e tutto lasciava presumere una rapida e felice conclusione.

Presto il principe Golìcyn, sotto le mura della fortezza Tatìšèeva, batté Pugaèëv, disperse le sue turbe, liberò Orenbùrg e sembrava avesse inferto alla rivolta l'ultimo colpo decisivo. Zùrin fu inviato in quel periodo contro una banda di baschiri ribelli, che si dispersero prima che li avessimo avvistati. La primavera ci assediò in un villaggetto tartaro. I fiumicelli strariparono, e le strade si fecero impraticabili. Nella nostra inattività ci consolavamo al pensiero che questa noiosa e meschina guerra contro i briganti e i selvaggi presto sarebbe finita.

Ma Pugaèëv non era stato catturato. Apparve nelle fabbriche siberiane, vi raccolse nuove bande e riprese a commettere misfatti. Si sparsero di nuovo notizie sui suoi successi. Venimmo a sapere della devastazione delle fortezze siberiane. Presto la notizia della presa di Kazàn' e della marcia dell'impostore su Mosca mise in allarme i comandanti dell'esercito, che sonnecchiavano incuranti confidando nell'impotenza dell'infame ribelle. Zùrin ricevette

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l'ordine di oltrepassare il Volga.

Non starò a descrivere la nostra campagna e la fine della guerra. Dirò brevemente che la miseria era pervenuta agli estremi. Passavamo attraverso villaggi devastati dai rivoltosi, ed eravamo costretti a sequestrare ai poveri abitanti quello che erano riusciti a salvare. L'amministrazione non c'era più da nessuna parte: i proprietari cercavano rifugio nei boschi. Le bande dei briganti commettevano crimini ovunque; i capi dei singoli distaccamenti punivano e graziavano a loro piacimento; le condizioni di tutta la vasta regione in cui infuriava l'incendio erano terribili... Dio ci risparmi di vedere una rivolta russa, irragionevole e spietata!

Pugaèëv fuggiva, inseguito da Ivàn Ivànoviè Mìchel'son. Presto venimmo a sapere della sua totale sconfitta. Finalmente Zùrin ricevette la notizia della cattura dell'impostore, e allo stesso tempo anche l'ordine di fermarsi. La guerra era finita. Finalmente potevo andare dai miei genitori! Il pensiero di riabbracciarli, di rivedere Mar'ja Ivànovna, della quale non avevo nessuna notizia, mi animava d'entusiasmo. Saltavo come un bambino. Zùrin rideva e diceva, stringendosi nelle spalle: «No, con te non c'è niente da fare! ti sposerai e ti rovinerai scioccamente!».

Ma intanto uno strano sentimento avvelenava la mia gioia: il pensiero del bandito, schizzato dal sangue di tante vittime innocenti, e dell'esecuzione che lo aspettava, senza volere mi tormentava: «Emeljà, Emeljà!», pensavo indispettito; «perché non ti sei infilzato su una baionetta o non sei capitato sotto la mitraglia? Tu non avresti potuto trovare niente di meglio». Che volete farci? Il pensiero di lui era per me inscindibilmente legato al pensiero della grazia che mi aveva concesso in uno dei momenti tremendi della sua vita, e della liberazione della mia fidanzata dalle mani dell'infame Švàbrin.

Zùrin mi diede una licenza. Qualche giorno dopo avrei dovuto ritrovarmi in mezzo alla mia famiglia, avrei rivisto la mia Mar'ja

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Ivànovna... A un tratto fui colpito da un fulmine a ciel sereno.

Il giorno fissato per la mia partenza, nello stesso istante in cui mi accingevo a mettermi in viaggio, Zùrin entrò nella mia izba tenendo in mano un foglio, con un'aria estremamente preoccupata. Sentii qualcosa pungermi il cuore. Mi spaventai, senza sapere io stesso di che cosa. Egli mandò fuori il mio attendente e dichiarò che aveva da parlarmi. «Che c'è?», domandai preoccupato. «Una piccola contrarietà», rispose, porgendomi il foglio. «Leggi che cosa ho ricevuto proprio adesso». Mi misi a leggere: era un ordine segreto a tutti i singoli comandanti di arrestarmi, in qualsiasi luogo mi si trovasse, e di mandarmi sotto sorveglianza a Kazàn', davanti alla commissione inquirente istituita per l'affare Pugaèëv.

Mancò poco che il foglio mi cadesse dalle mani. «Non c'è niente da fare!», disse Zùrin. «Il mio dovere è di obbedire al comando. Probabilmente la voce dei tuoi viaggi amichevoli con Pugaèëv è arrivata in qualche modo al governo. Spero che la cosa non avrà alcun seguito e che ti giustificherai davanti alla commissione. Non ti scoraggiare e parti». Avevo la coscienza pulita; non temevo il processo, ma l'idea di rimandare l'istante del dolce incontro, magari di qualche mese in più, mi terrorizzava. Il carretto era pronto. Zùrin mi salutò amichevolmente. Mi fecero prendere posto sul carro. Insieme con me montarono due ussari dalle sciabole sguainate, e mi avviai lungo la strada maestra.

XIV • IL PROCESSO

Il rumore del mondo è un'onda del mare.

Proverbio

Ero certo che la colpa di tutto fosse nella mia arbitraria assenza da Orenbùrg. Potevo giustificarmi facilmente: le incursioni non solo non erano mai state proibite, ma anzi venivano incoraggiate a tutta forza. Potevo essere accusato di eccessiva foga, non di

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disobbedienza. Ma i miei rapporti amichevoli con Pugaèëv potevano essere attestati da un'infinità di testimoni e dovevano sembrare alquanto sospetti. Per tutta la strada riflettei sugli interrogatori che mi aspettavano, meditai le mie risposte e decisi di dichiarare davanti alla corte tutta la verità, ritenendo che questo fosse il modo più semplice di giustificarsi, e allo stesso tempo anche il più sicuro.

Arrivai a Kazàn', devastata e incendiata. Per le strade, al posto delle case, giacevano mucchi di carbone e affioravano muri affumicati senza tetti né finestre. Queste erano le tracce lasciate da Pugaèëv! Fui condotto alla fortezza, rimasta intatta in mezzo alla città incendiata. Gli ussari mi consegnarono all'ufficiale di guardia. Egli fece chiamare il fabbro. Mi misero ai piedi una catena e la serrarono ermeticamente. Poi mi condussero in prigione e mi lasciarono solo in una cella stretta e buia, con le pareti nude e una finestrella protetta da un'inferriata.

Un simile esordio non lasciava presagire niente di buono. Tuttavia non perdevo né il coraggio né la speranza. Ricorsi al conforto di tutti gli afflitti e, dopo aver assaporato la dolcezza della preghiera, che si effondeva da un cuore puro ma tormentato, mi addormentai placidamente senza preoccuparmi di quanto mi sarebbe accaduto.

Il giorno dopo il guardiano del carcere mi svegliò annunciandomi che ero richiesto dalla commissione. Due soldati mi condussero attraverso il cortile nella casa del comandante, si arrestarono in anticamera e mi lasciarono accedere da solo nelle stanze interne.

Entrai in una sala piuttosto spaziosa. Dietro un tavolo coperto di fogli erano sedute due persone: un generale d'una certa età, dall'aspetto freddo e austero, e un giovane capitano della guardia, sui ventotto anni, d'aspetto molto gradevole, destro e disinvolto nei modi. Presso la finestra, a un tavolo separato, sedeva il segretario con la penna dietro l'orecchio, curvo sulla carta, pronto ad annotare le mie dichiarazioni. L'interrogatorio ebbe inizio. Mi chiesero il nome e il grado. Il generale s'informò: non ero per caso

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il figlio di Andréj Petróviè Grinëv? E alla mia risposta replicò duramente: «Peccato che un uomo così onorevole abbia un figlio tanto indegno!». Io risposi con calma che qualsiasi fossero le accuse che gravavano su di me, speravo di confutarle con una sincera esposizione della verità. La mia sicurezza non gli fu gradita. «Sei sveglio, amico», mi disse, aggrottando le sopracciglia; «ma ne abbiamo visti ben altri!».

Allora il giovane mi domandò: in quale occasione e in quale periodo ero entrato al servizio di Pugaèëv, e per quali incarichi ero stato utilizzato?

Risposi indignato che io, come ufficiale e nobile, non potevo essere entrato al servizio di Pugaèëv, e non potevo aver accettato da lui nessun incarico.

«Come mai allora», replicò il mio interrogatore, «questo nobile e ufficiale è il solo ad essere stato risparmiato dall'impostore, mentre tutti i suoi compagni sono stati brutalmente assassinati? Come mai questo stesso ufficiale e nobile banchetta amichevolmente coi rivoltosi, riceve dal capo dei malfattori regali, una pelliccia, un cavallo e mezzo rublo in denaro? Com'è nata un'amicizia così strana e su che cosa è fondata, se non sul tradimento o almeno su un'infame e delittuosa viltà?».

Restai profondamente offeso dalle parole dell'ufficiale della guardia, e mi accalorai a giustificarmi. Raccontai come aveva avuto inizio la mia conoscenza con Pugaèëv nella steppa, durante la tempesta di neve; come al tempo della presa della fortezza Belogórskaja lui mi avesse riconosciuto e graziato. Dissi che il pellicciotto e il cavallo, è vero, non mi ero fatto scrupolo di accettarli dall'impostore, ma che avevo difeso fino all'estremo la fortezza Belogórskaja contro il malfattore. Infine mi appellai anche al mio generale, che poteva testimoniare il mio impegno durante lo sciagurato assedio di Orenbùrg.

Il vecchio arcigno prese dal tavolo una lettera aperta e si mise a

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leggerla ad alta voce:

«Alla richiesta d'informazioni da parte di vostra eccellenza riguardo al tenente Grinëv, che sarebbe implicato nell'attuale insurrezione e che sarebbe entrato col malfattore in rapporti non consentiti dal regolamento e contrari ai doveri imposti dal giuramento, ho l'onore di dichiarare: il detto tenente Grinëv ha prestato servizio a Orenbùrg dall'inizio di ottobre dello scorso anno 1773 fino al 24 febbraio di quest'anno, giorno in cui si allontanò dalla città, e da quel momento non si è più presentato al mio comando. Si sente dire, però, dai disertori, che egli è stato nel sobborgo di Pugaèëv e che si è recato insieme con lui alla fortezza Belogórskaja, dove in precedenza aveva prestato servizio; per quanto riguarda la sua condotta posso...»

A questo punto interruppe la lettura e mi disse austeramente:

«Che cosa dirai adesso a tua discolpa?».

Avrei voluto continuare come avevo cominciato, e spiegare il mio legame con Mar'ja Ivànovna con la stessa sincerità che avevo dimostrato in tutto il resto. Ma a un tratto sentii un'irresistibile ripugnanza. Mi venne in mente che, se l'avessi nominata, la commissione l'avrebbe convocata a rendere spiegazioni, e l'idea di mescolare il suo nome alle turpi calunnie dei malfattori e di far pervenire lei stessa a un confronto con loro - questa terribile idea mi travolse al punto che esitai e mi confusi.

I miei giudici, che sembrava si fossero messi ad ascoltare le mie risposte con una certa benevolenza, alla vista del mio turbamento tornarono ad essermi ostili. L'ufficiale della guardia chiese che fossi messo a confronto col principale delatore. Il generale ordinò di chiamare il malfattore del giorno avanti. Mi voltai con prontezza verso la porta, aspettando la comparsa del mio accusatore. Dopo qualche minuto si udì uno strepitare di catene, la porta si aprì, ed entrò Švàbrin. Fui sbalordito dal suo cambiamento. Era terribilmente magro e pallido. I suoi capelli,

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poco tempo prima neri come la pece, si erano completamente sbiancati; la lunga barba era arruffata. Ripeté le sue accuse con voce fioca ma ferma. Stando alle sue parole ero stato mandato da Pugaèëv a Orenbùrg in qualità di spia; ogni giorno uscivo per qualche scaramuccia al fine di trasmettere resoconti scritti su tutto quello che succedeva in città; che infine ero passato apertamente dalla parte dell'impostore, e avevo girato di fortezza in fortezza, tentando in tutti i modi di rovinare i miei compagni-traditori, per occupare i loro posti e approfittare delle ricompense elargite dall'impostore. Lo ascoltai in silenzio ed ero contento di una cosa sola: il nome di Mar'ja Ivànovna non era stato pronunciato dall'infame malvivente, o perché il suo amor proprio soffriva al pensiero di colei che l'aveva rifiutato con spregio, o perché in cuor suo si celava una scintilla di quello stesso sentimento che spingeva anche me a tacere, - comunque fosse, il nome della figlia del comandante di Belogórsk non fu pronunciato in presenza della commissione. Divenni ancora più fermo nelle mie intenzioni, e quando i giudici mi chiesero come avrei potuto argomentare contro le deposizioni di Švàbrin, risposi che mi attenevo alla mia prima versione e che non potevo aggiungere nient'altro a mia giustificazione. Il generale ci fece portare fuori. Uscimmo insieme. Guardai quietamente Švàbrin, ma non gli dissi una parola. Egli ridacchiò malignamente e, sollevando le sue catene, mi superò e affrettò i passi. Fui ricondotto in carcere e da allora non fui più convocato a interrogatori.

Non fui testimone di tutto quello di cui mi rimane d'informare il lettore, ma l'ho sentito raccontare così spesso che ogni minimo dettaglio mi si è impresso nella memoria e che mi sembra di avervi assistito non visto.

Mar'ja Ivànovna fu accolta dai miei genitori con quella franca cordialità che contraddistingueva le persone di vecchio stampo. Essi videro una grazia di Dio nel fatto che avevano modo di ospitare e circondare d'affetto una povera orfana. Presto le si

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affezionarono sinceramente, visto che era impossibile conoscerla senza volerle bene. Il mio amore non appariva più a mio padre un semplice capriccio, e la mamma non desiderava altro che il suo Petrùša sposasse la cara figlia del capitano.

La notizia del mio arresto sbalordì tutta la mia famiglia. Mar'ja Ivànovna aveva raccontato in modo così semplice ai miei genitori della mia strana conoscenza con Pugaèëv, che essa non solo non li aveva preoccupati, ma spesso li spingeva a riderne di cuore. Il babbo non voleva credere che io fossi rimasto coinvolto nell'ignominiosa rivolta, il cui fine era di rovesciare il trono e di sterminare la classe nobiliare. Egli interrogò rigorosamente Savél'iè. Il precettore non nascose che il padrone era stato ospite di Emél'ka Pugaèëv, e che il malvivente gli aveva offerto i suoi favori, ma giurava di non aver sentito parlare di alcun tradimento. I vecchi si misero l'anima in pace e attesero con impazienza buone notizie. Mar'ja Ivànovna era fortemente angosciata, ma taceva perché dotata in massimo grado di discrezione e di prudenza.

Passarono diverse settimane... All'improvviso il babbo ricevette da Pietroburgo una lettera da parte del nostro parente principe B***. Il principe gli scriveva di me. Dopo il solito preambolo gli annunciava che i sospetti sulla mia partecipazione alle trame dei ribelli, ahimè, erano risultati fin troppo fondati, che mi sarebbe spettata una pena esemplare, ma che l'imperatrice, per riguardo ai meriti e all'età avanzata di mio padre, aveva deciso di graziare il figlio colpevole e, sottraendolo a una pena infamante, aveva ordinato soltanto di deportarlo in una regione sperduta della Siberia in esilio perpetuo.

Tale colpo inatteso mancò poco che uccidesse mio padre. Egli perse la sua usuale fermezza, e il suo dolore (di solito muto) si effuse in amari lamenti. «Come!», ripeteva, fuori di sé. «Mio figlio ha partecipato alle trame di Pugaèëv! Santo Dio, che cosa mi tocca vedere! L'imperatrice gli risparmia l'esecuzione! E questo per me sarebbe un sollievo? Terribile non è l'esecuzione: il mio

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quadrisavolo morì sul patibolo, difendendo quello che considerava il luogo sacro della sua coscienza; mio padre fu perseguitato insieme con Volýnskij e Chrušèëv. Ma che un nobile tradisca il suo giuramento, si unisca a banditi, assassini, a servi fuggiaschi!... Onta e vergogna sulla nostra stirpe!...». Spaventata dalla sua disperazione, la mamma non osava piangere davanti a lui e cercava di ridargli animo parlando della falsità di queste voci, della volubilità dei pareri della gente. Mio padre era inconsolabile.

Mar'ja Ivànovna si tormentava più di tutti. Poiché era sicura che avrei potuto scagionarmi non appena lo avessi voluto, ella intuiva la verità e si considerava colpevole della mia sciagura. Nascondeva a tutti le sue lacrime e sofferenze, e al tempo stesso pensava ininterrottamente ai mezzi con cui salvarmi.

Una sera il babbo era seduto sul divano e sfogliava le pagine dell'Almanacco di corte, ma i suoi pensieri erano altrove, e la lettura non produceva su di lui il solito effetto. Fischiettava una vecchia marcia. La mamma faceva in silenzio una maglia di lana, e le lacrime di tanto in tanto cadevano sul lavoro. All'improvviso Mar'ja Ivànovna, seduta anche lei lì a lavorare, dichiarò l'assoluta necessità di andare a Pietroburgo, e pregò le fosse data quest'opportunità. La mamma ne fu desolata. «Che bisogno hai di andare a Pietroburgo?», disse. «Mar'ja Ivànovna, non vorrai mica abbandonarci anche tu?». Mar'ja Ivànovna rispose che tutta la sua sorte futura dipendeva da quel viaggio, che andava a cercare protezione e aiuto da persone potenti, come figlia di un uomo rimasto vittima a causa della sua fedeltà.

Mio padre chinò la testa; qualsiasi parola che potesse ricordare il supposto delitto del figlio gli pesava e gli sembrava un pungente rimprovero. «Va', màtuška!», le disse con un sospiro. «Non vogliamo essere d'impedimento alla tua felicità. Che Dio ti conceda un buon fidanzato, non un traditore macchiato d'infamia». Si alzò e uscì dalla stanza.

Mar'ja Ivànovna, rimasta sola con la mamma, le illustrò in parte i

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suoi progetti. La mamma l'abbracciò fra le lacrime e pregò Dio che l'impresa avesse un esito felice. Mar'ja Ivànovna fu preparata per il viaggio, e qualche giorno dopo partì con la fedele Palàška e il fedele Savél'iè, che, strappato a forza da me, si consolava perlomeno all'idea di servire la mia promessa sposa.

Mar'ja Ivànovna arrivò felicemente nel quartiere di Sófija e, saputo a una stazione di posta che la Corte si trovava a quel tempo a Càrskoe Selò, decise di fermarsi là. Le fu assegnato un angolino dietro un tramezzo. La moglie del mastro di posta si mise subito a parlare con lei, dichiarò di essere la nipote del fuochista di corte, e la mise a parte di tutti i misteri della vita di corte. Raccontò a che ora l'imperatrice abitualmente si svegliava, beveva il caffè, passeggiava; quali dignitari si trovavano in quel momento presso di lei; di che cosa si era degnata di parlare il giorno prima a tavola, chi riceveva la sera, - in una parola, la conversazione di Anna Vlàs'evna valeva diverse pagine di memorie storiche, e sarebbe stata preziosa per i posteri. Mar'ja Ivànovna la ascoltava attentamente. Andarono in giardino. Anna Vlàs'evna le raccontò la storia di ogni viale e di ogni ponticello, e, dopo aver passeggiato a sazietà, tornarono alla stazione di posta molto soddisfatte l'una dell'altra.

L'indomani mattina di buon'ora Mar'ja Ivànovna si svegliò, si vestì, e andò pian piano in giardino. Era un bellissimo mattino, il sole illuminava le cime dei tigli, già ingiallite alla fresca brezza autunnale. Il vasto lago riluceva immobile. I cigni al loro risveglio uscivano maestosamente nuotando da sotto i cespugli, che ombreggiavano la riva. Mar'ja Ivànovna s'incamminò per uno splendido prato dov'era stato appena eretto un monumento in onore delle recenti vittorie del conte Pëtr Aleksàndroviè Rumjàncev. All'improvviso un cagnolino bianco di razza inglese abbaiò e le corse incontro. Mar'ja Ivànovna si mise paura e si arrestò. In quello stesso istante si udì una gradevole voce femminile: «Non abbiate paura, non morde». E Mar'ja Ivànovna

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vide una dama seduta su una panchina di fronte al monumento. Mar'ja Ivànovna si sedette all'altra estremità della panchina. La dama la fissava, e Mar'ja Ivànovna, dopo averle lanciato da parte sua qualche occhiata di sbieco, fece in tempo a esaminarla da capo a piedi. Indossava un abito bianco da mattina, una cuffia da notte e un corpetto imbottito. Poteva avere una quarantina d'anni. Il suo viso, pieno e colorito, esprimeva importanza e tranquillità, mentre gli occhi azzurri e il leggero sorriso avevano un incanto indicibile. La dama ruppe il silenzio per prima.

«Voi non siete di qui, non è vero?», disse.

«Proprio così: sono arrivata appena ieri dalla provincia».

«Siete arrivata coi vostri parenti?».

«No, signora. Sono arrivata sola».

«Sola! Ma siete ancora così giovane».

«Non ho né padre né madre».

«Siete qui, certamente, per qualche motivo».

«Proprio così, signora. Sono venuta a porgere una supplica all'imperatrice».

«Siete orfana: probabilmente avrete da lamentarvi di qualche ingiustizia od oltraggio?».

«Nient'affatto, signora. Sono venuta a chiedere grazia, e non giustizia».

«Permettetemi di domandarvi, chi siete?».

«Sono la figlia del capitano Mirónov».

«Del capitano Mirónov! Quello stesso che era comandante di una delle fortezze di Orenbùrg?».

«Proprio così, signora».

La dama sembrava commossa. «Scusatemi», disse con voce ancor

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più affettuosa, «se m'intrometto nei vostri affari, ma capito spesso a corte; illustratemi in che cosa consiste la vostra supplica, e magari riuscirò ad aiutarvi».

Mar'ja Ivànovna si alzò e la ringraziò con rispetto. Tutto nella dama sconosciuta attirava senza volere il cuore e infondeva fiducia. Mar'ja Ivànovna estrasse dalla tasca un foglio ripiegato e lo porse alla sua sconosciuta protettrice, che si mise a leggerlo fra sé e sé.

Dapprincipio leggeva con aria attenta e benevola, ma all'improvviso il suo volto cambiò, e Mar'ja Ivànovna, che aveva seguito con gli occhi tutti i suoi movimenti, si spaventò dell'espressione severa di quel viso, un istante prima così gradevole e tranquillo.

«Intercedete per Grinëv?», disse la dama con freddezza. «L'imperatrice non può perdonarlo. Si è unito all'impostore non per ignoranza o leggerezza, ma da immorale e pericoloso farabutto».

«Ah, non è vero!», gridò Mar'ja Ivànovna.

«Come non è vero!», replicò la dama, avvampando completamente.

«Non è vero, giuro su Dio che non è vero! Io so tutto, vi racconterò tutto. Solo per me si è esposto a tutto quello che gli è capitato. E se non si è discolpato davanti alla corte è solo perché non voleva coinvolgere me». A questo punto ella raccontò accalorandosi tutto quello che è già noto al mio lettore.

La dama l'ascoltò fino in fondo con attenzione. «Dove alloggiate?», le domandò poi; e, sentito che era da Anna Vlàs'evna, aggiunse con un sorriso: «Ah! la conosco. Addio, non parlate a nessuno del nostro incontro. Spero che la risposta alla vostra lettera non si faccia attendere a lungo».

Detto questo si alzò ed entrò in un viale coperto, mentre Mar'ja

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Ivànovna tornò da Anna Vlàš'evna, colma di radiosa speranza.

La padrona di casa la rimproverò per la passeggiata autunnale troppo mattutina, che, stando alle sue parole, poteva nuocere alla salute di una giovane fanciulla.

Portò il samovàr e davanti alla sua tazza di tè si stava appena accingendo a riprendere gli interminabili racconti sulla corte, quando all'improvviso una carrozza di corte si arrestò davanti all'ingresso, e un valletto entrò con l'annuncio che l'imperatrice favoriva d'invitare la signorina Mirónova.

Anna Vlàs'evna restò stupefatta e cominciò a brigare. «Oddio, misericordia!», gridò. «L'imperatrice vi vuole a corte. Come avrà saputo di voi? E come farete, màtuška, a presentarvi all'imperatrice? Credo che non sappiate neanche fare un passo all'uso di corte... Non sarebbe il caso che vi accompagnassi? Almeno per qualcosa potrei mettervi in guardia. Come farete ad andarvi in abito da viaggio? Non si potrebbe mandare a prendere dalla levatrice il suo vestito giallo con la crinolina?». Il valletto dichiarò che l'imperatrice desiderava che Mar'ja Ivànovna andasse sola e vestita così com'era. Non ci fu niente da fare: Mar'ja Ivànovna salì in carrozza e andò a palazzo, accompagnata dai consigli e dalle benedizioni di Anna Vlàs'evna.

Mar'ja Ivànovna presentì che la nostra sorte sarebbe stata decisa; il cuore le batteva forte e le veniva meno. Qualche minuto dopo la carrozza si arrestò davanti al palazzo. Mar'ja Ivànovna salì trepidante su per la scala. La porta si spalancò davanti a lei: attraversò una lunga fila di magnifiche stanze vuote; il valletto le faceva strada. Infine, arrivati a una porta chiusa, egli disse che l'avrebbe annunciata immediatamente, e la lasciò sola.

Il pensiero di vedere l'imperatrice faccia a faccia la spaventava al punto che riusciva a fatica a reggersi in piedi. Un minuto dopo la porta si aprì, ed ella entrò nella stanza da toletta dell'imperatrice.

L'imperatrice era seduta davanti alla sua toletta. Diversi cortigiani

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le stavano intorno, e lasciarono ossequiosamente passare Mar'ja Ivànovna. L'imperatrice le si rivolse amabilmente, e Mar'ja Ivànovna riconobbe in lei la stessa dama con la quale si era confidata in tutta sincerità pochi minuti prima. La sovrana la chiamò a sé e le disse con un sorriso: «Sono contenta di aver potuto mantenere la mia parola e di aver esaudito la vostra preghiera. La faccenda è conclusa. Sono convinta dell'innocenza del vostro fidanzato. Ecco la lettera che voi stessa v'incaricherete di portare al vostro futuro suocero».

Mar'ja Ivànovna prese la lettera con mano tremante e piangendo cadde ai piedi dell'imperatrice, che la sollevò e la baciò. L'imperatrice le parlò ancora. «So che non siete ricca», disse, «ma io sono in debito di fronte alla figlia del capitano Mirónov. Non vi preoccupate del futuro. Mi assumo l'incarico di provvedere io al vostro patrimonio».

Dopo aver confortato la povera orfana, la sovrana la congedò. Mar'ja Ivànovna ripartì sulla stessa carrozza di corte. Anna Vlàs'evna, che aspettava ansiosamente il suo ritorno, la tempestò di domande, alle quali Mar'ja Ivànovna rispondeva in qualche modo. Anna Vlàs'evna, anche se restò scontenta della scarsa memoria di lei, l'ascrisse alla timidezza provinciale e la perdonò magnanimamente. Quel giorno stesso Mar'ja Ivànovna, senza aver avuto neppure la curiosità di dare un'occhiata a Pietroburgo, tornò indietro in campagna...

Qui s'interrompono gli appunti di Pëtr Andréeviè Grinëv. Da racconti tramandati in famiglia si sa che venne liberato alla fine del 1774, per un ordine firmato dall'imperatrice; che assistette all'esecuzione di Pugaèëv, il quale lo riconobbe nella folla e gli fece un cenno con la testa, che un momento dopo, morta e insanguinata, veniva mostrata al popolo. Poco tempo dopo Pëtr Andréeviè si sposò con Mar'ja Ivànovna. I loro discendenti prosperano nel governatorato di Simbìrsk. A trenta verste da *** si trova un villaggio appartenente a dieci proprietari. In una delle

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ali della casa padronale è esposta una lettera autografa di Caterina II, sotto vetro e in cornice. È indirizzata al padre di Pëtr Andréeviè e contiene l'assoluzione di suo figlio e lodi alla mente e al cuore della figlia del capitano Mirónov. Il manoscritto di Pëtr Andréeviè Grinëv è stato recapitato a noi da uno dei suoi nipoti, il quale ha saputo che eravamo impegnati in un lavoro riguardante i tempi descritti da suo nonno. Abbiamo deciso, col permesso dei parenti, di pubblicarlo a parte, dopo aver scelto un'epigrafe adatta per ogni capitolo ed esserci presi la libertà di cambiare qualche nome proprio.

19 ottobre 1836 L'editore

APPENDICE A «LA FIGLIA DEL CAPITANO»

CAPITOLO OMESSO

Ci stavamo avvicinando alle rive del Volga; il nostro reggimento fece ingresso nel villaggio di *** e vi si fermò a pernottare. Lo stàrosta mi annunciò che sull'altra riva tutti i villaggi erano insorti, le bande di Pugaèëv si aggiravano ovunque. Questa notizia mi mise una forte inquietudine. Dovevamo attraversare il fiume la mattina del giorno dopo. Mi prese l'impazienza. Il villaggio di mio padre si trovava a trenta verste dalla parte opposta del fiume. Chiesi se si poteva trovare un traghettatore. Tutti i contadini erano pescatori; di barche ce n'erano tante. Mi recai da Grinëv e gli annunciai il mio proposito. «Sta' attento», mi disse. «È pericoloso andare da soli. Aspetta fino al mattino. Attraverseremo il fiume per primi e porteremo in visita dai tuoi genitori cinquanta ussari per ogni evenienza».

Restai fermo nel mio proposito. La barca era pronta. Vi salii con due rematori. Essi sciolsero gli ormeggi e presero a remare.

Il cielo era chiaro. La luna splendeva. Il tempo era sereno. Il Volga scorreva placido e regolare. La barca, dondolando mollemente,

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scivolava veloce sulle onde scure. Sprofondai nei miei sogni. Trascorse all'incirca mezz'ora. Avevamo già raggiunto il centro del fiume... quando a un tratto i rematori presero a bisbigliare fra loro. «Che c'è?», domandai, tornando in me. «Non lo sappiamo, lo sa Dio», risposero i rematori, guardando dalla stessa parte. I miei occhi presero la stessa direzione e scorsi nell'oscurità qualcosa che navigava giù lungo il Volga. L'oggetto sconosciuto si avvicinava. Ordinai ai rematori di fermarsi e di aspettarlo. La luna si celò dietro una nuvola. Lo spettro navigante si fece ancora più confuso. Ormai mi era vicino, e io continuavo a non distinguerlo. «Ma che cosa sarà mai», dicevano i rematori. «Una vela non pare, alberi di barca non paiono...». A un tratto la luna spuntò da dietro la nuvola e illuminò un terribile spettacolo. Ci stava venendo incontro una forca, fissata su una zattera, tre corpi pendevano dalla trave. Mi prese una curiosità morbosa. Volli guardare i volti degli impiccati.

Su mio ordine i rematori agganciarono la zattera con un rampone, la mia barca andò a urtare contro la forca galleggiante. Io spiccai un salto e mi ritrovai fra i terribili pali. La luna chiara illuminava i volti sfigurati di quegli infelici. Uno di essi era un vecchio cuvàš, un altro un contadino russo, un giovane robusto e sano sui vent'anni. Ma, data un'occhiata al terzo, restai sbalordito e non riuscii a trattenere un'esclamazione di pena: era Van'ka, il mio povero Van'ka, che per stupidità aveva seguito Pugaèëv. Sopra di loro era stata inchiodata una tavoletta nera, sulla quale era stato scritto a grandi caratteri bianchi: «Ladri e rivoltosi». I rematori guardavano indifferenti e mi aspettavano trattenendo la zattera con il rampone. Salii nuovamente in barca. La zattera continuò a scendere giù per il fiume. La forca nereggiò a lungo nell'oscurità. Infine scomparve, e la mia barca approdò a una riva alta e scoscesa.

Regolai generosamente il conto coi rematori. Uno di loro mi condusse dal capo del villaggio che si trovava vicino al traghetto. Entrai insieme con lui nell'izba. Il capo, sentendo che avevo

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bisogno di cavalli, mi accolse piuttosto rudemente, ma la mia guida gli disse sottovoce qualche parola, e la sua rigidezza si trasformò immediatamente in una premura frettolosa. In un momento la trojka fu pronta, montai sul carro e ordinai di condurmi al nostro villaggio.

Galoppavo sulla strada maestra, lungo villaggi addormentati. Temevo una cosa soltanto: di essere fermato per la strada. Se il mio incontro notturno sul Volga dimostrava la presenza dei ribelli, esso era stato anche la prova di una forte reazione del governo. Ad ogni buon conto avevo in tasca il lasciapassare che mi aveva rilasciato Pugaèëv, e l'ordine del colonnello Grinëv. Ma non incontrai nessuno, e al mattino intravidi il fiume e il boschetto di abeti, dietro il quale si trovava il nostro villaggio. Il vetturino frustò i cavalli, e un quarto d'ora dopo facevo ingresso a ***.

La casa padronale si trovava all'altra estremità del villaggio. I cavalli andavano a briglia sciolta. A un tratto in mezzo alla strada il vetturino si mise a frenarli. «Che c'è?», chiesi spazientito. «Una barriera, signore», rispose il vetturino, fermando a fatica i suoi cavalli infuriati. Effettivamente vidi uno sbarramento e una sentinella con un grosso randello. L'uomo mi si avvicinò e si tolse il cappello chiedendo il passaporto. «Che vuol dire?», gli chiesi, «perché c'è uno sbarramento qui? A chi fai la guardia?». «Veramente, bàtjuška, siamo in rivolta», rispose, grattandosi la nuca.

«E dove sono i vostri signori?», gli domandai con una stretta al cuore...

«Dove sono i nostri signori?», ripeté il contadino. «I nostri signori sono nel granaio».

«Come nel granaio?».

«Sì, Andrjùška, l'amministratore locale, li ha messi in catene, e li vuole condurre dal nostro bàtjuška-sovrano».

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«Dio mio! Apri lo sbarramento, stupido. Invece di startene a sbadigliare!».

La sentinella indugiava. Io saltai giù dal carro, lo colpii (me ne accuso) all'orecchio e spostai io stesso la barriera. Il mio contadino mi guardava stupidamente sconcertato. Salii nuovamente sul carro e ordinai di galoppare verso la casa padronale. Il granaio si trovava in cortile. Davanti alla porta sbarrata c'erano due contadini anch'essi coi randelli. Il carro si fermò proprio davanti a loro. Io saltai giù e fui loro addosso. «Aprite la porta!», dissi. Il mio aspetto doveva essere terribile. Comunque fuggirono tutti e due, dopo aver gettato via i randelli. Tentai di far saltare il chiavistello, e di forzare la porta, ma la porta era di quercia, e il massiccio chiavistello impossibile da rompere. In quel momento un giovane contadino robusto uscì dall'izba della servitù e con aria insolente mi chiese come osassi fare quel baccano. «Dov'è Andrjùška l'amministratore?», gli gridai. «Chiamatelo, che venga da me».

«Io sono Andréj Afanàs'eviè, e non Andrjùška», mi rispose, mettendosi orgogliosamente le mani sui fianchi. «Che vi serve?».

Invece di rispondergli lo afferrai per la collottola, e trascinandolo verso la porta del granaio, gli ordinai di aprirla. L'amministratore fece per intestardirsi, ma la «paternale» per vie di fatto ebbe il suo effetto anche su di lui. Egli tirò fuori la chiave e aprì il granaio. Mi precipitai oltre la soglia e in un angolo buio, fiocamente illuminato da una stretta fessura aperta nel soffitto, vidi mia madre e mio padre. Avevano le mani legate, e i ceppi ai piedi. Mi precipitai ad abbracciarli e non riuscii a pronunciare una parola. Mi guardavano entrambi stupefatti, - tre anni di vita militare mi avevano cambiato al punto che faticavano a riconoscermi. La mamma trasalì e si sciolse in lacrime.

A un tratto sentii una voce cara, che conoscevo. «Pëtr Andréiè! Siete voi!». Rimasi di stucco... mi voltai e vidi nell'angolo opposto Mar'ja Ivànovna, anche lei legata.

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Mio padre mi guardava in silenzio, senza osar credere ai propri occhi. La gioia riluceva sul suo viso. Mi affrettai a tagliare con la sciabola i nodi dei loro lacci.

«Salve, salve, Petrùša», mi diceva mio padre, stringendomi al cuore, «grazie al cielo, quanto ti abbiamo aspettato...».

«Petrùša, mio caro», disse la mamma. «Il Signore è riuscito a portarti fin qui! Stai bene?».

Avevo fretta di tirarli fuori dalla prigione, ma, avvicinatomi alla porta, la trovai chiusa un'altra volta. «Andrjùška», gridai, «apri!». «Come no», rispose l'amministratore da dietro la porta. «Resta lì anche tu. Così impari a fare baccano e a trascinare per la collottola i funzionari dell'imperatore!».

Cominciai a ispezionare il granaio, in cerca di qualche mezzo per uscirne.

«Non ti dar da fare», mi disse il babbo. «Non sono un padrone che consente di entrare e uscire dai suoi granai attraverso pertugi da ladri».

La mamma, rallegrata per un attimo dalla mia comparsa, cadde nella disperazione vedendo che anche a me toccava condividere la rovina di tutta la famiglia. Ma io mi sentivo più tranquillo da quando mi trovavo con loro e con Mar'ja Ivànovna. Avevo con me la sciabola e due pistole, ero ancora in grado di sostenere un assedio. Grinëv doveva arrivare in tempo quella sera stessa e liberarci. Comunicai tutto questo ai miei genitori e riuscii a tranquillizzare la mamma. Essi si abbandonarono completamente alla gioia dell'incontro.

«Allora, Pëtr», mi disse mio padre, «ne hai combinate abbastanza, e io sono stato proprio adirato contro di te. Ma non serve rivangare il passato. Spero che tu ti sia riveduto e che abbia finito di sfogarti. So che hai prestato servizio come si conviene a un degno ufficiale. Grazie. Mi hai consolato in vecchiaia. Se ti sarò debitore della mia

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liberazione, la vita mi sarà doppiamente gradita».

In lacrime gli baciai la mano e guardai Mar'ja Ivànovna, che era così rallietata dalla mia presenza da sembrare assolutamente felice e tranquilla.

Verso mezzogiorno sentimmo un chiasso incredibile e delle grida. «Che vorrà dire?», disse mio padre, «non sarà già arrivato il tuo colonnello?». «Impossibile», risposi. «Non sarà qui prima di sera». Il chiasso aumentava. Veniva dato l'allarme. Alcuni uomini a cavallo galoppavano in cortile; in quel momento dalla stretta fessura aperta nel muro spuntò fuori la testa canuta di Savél'iè, e il mio povero precettore enunciò con voce lamentosa: «Andréj Petróviè, Avdót'ja Vasìl'evna, bàtjuška mio Pëtr Andréiè, màtuška Mar'ja Ivànovna, che guaio! I banditi sono entrati nel villaggio. E sai, Pëtr Andréiè, chi ce li ha portati? Švàbrin, Alekséj Ivànyè, che il diavolo se lo prenda!». Sentendo il nome detestato, Mar'ja Ivànovna batté le mani e restò immobile.

«Ascolta», dissi a Savél'iè, «manda qualcuno a cavallo al traghetto di *** incontro al reggimento degli ussari, e ordina d'informare il colonnello del pericolo in cui ci troviamo».

«Ma chi posso mandare, signore! Tutti i ragazzi sono insorti, e i cavalli sono stati tutti presi! Oddio! Sono già in cortile, e stanno arrivando al granaio».

In quel momento dietro la porta echeggiarono alcune voci. In silenzio feci cenno alla mamma e a Mar'ja Ivànovna di allontanarsi in un angolo, sguainai la sciabola e mi appiattii contro la parete proprio accanto alla porta. Il babbo prese le pistole, le caricò e si mise accanto a me. Scattò il chiavistello, la porta si aprì ed apparve la testa dell'amministratore. Lo colpii con la sciabola e lui cadde, ostruendo l'entrata. In quello stesso istante il babbo sparò in direzione della porta. La folla che ci assediava corse via lanciando maledizioni. Io tirai dentro il ferito e serrai la porta dall'interno. Il cortile era pieno di uomini armati. Fra loro riconobbi Švàbrin.

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«Non abbiate paura», dissi alle donne. «C'è una speranza. E voi, bàtjuška, non sparate più. Terremo di riserva le ultime munizioni».

La mamma pregava Dio in silenzio; Mar'ja Ivànovna le stava accanto, aspettando con angelica tranquillità l'esito della nostra sorte. Dietro la porta si udivano minacce, insulti e maledizioni. Io restavo al mio posto, pronto a sciabolare il primo spavaldo. All'improvviso i banditi si azzittirono. Sentii la voce di Švàbrin, che mi chiamava per nome.

«Sono qui, che cosa vuoi?».

«Arrenditi, Bulànin, è inutile che tu faccia resistenza. Abbi compassione dei tuoi vecchi. Con la testardaggine non ti salverai. Vi raggiungerò prima o poi!».

«Provaci, traditore!».

«Non mi metterò in mezzo inutilmente, né sacrificherò i miei uomini. Ma farò incendiare il granaio, e allora vedremo che cosa farai, Don Chisciotte di Belogórsk. Adesso è ora di pranzo. Tu stattene qui a riflettere a tempo perso. Arrivederci, Mar'ja Ivànovna, non mi scuso davanti a voi: probabilmente non vi annoierete al buio col vostro cavaliere».

Švàbrin si allontanò e lasciò delle sentinelle davanti al granaio. Noi stavamo zitti. Ciascuno di noi rifletteva fra sé, senza osar comunicare all'altro i suoi pensieri. Io mi immaginavo tutto quello che era capace di fare Švàbrin incattivito. Di me stesso quasi non mi preoccupavo. Devo confessarlo? Neppure la sorte dei miei genitori mi terrorizzava tanto quanto il destino di Mar'ja Ivànovna. Sapevo che la mamma era adorata dai contadini e dai servi e che anche il babbo era amato, nonostante la sua severità, perché era giusto e conosceva le vere esigenze delle persone a lui sottomesse. La loro rivolta era un errore, una momentanea ubriacatura, e non la dimostrazione del loro scontento. In questo caso era possibile una grazia. Ma Mar'ja Ivànovna? Quale sorte le riservava

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quell'uomo corrotto e privo di coscienza? Non osavo soffermarmi su questo orribile pensiero e mi preparavo, che il Signore mi perdoni, piuttosto a ucciderla che vederla per la seconda volta nelle mani del crudele nemico.

Trascorse all'incirca un'altra ora. Nel villaggio si diffondevano le canzoni degli ubriachi. Le nostre sentinelle li invidiavano e, indispettiti contro di noi, ci insultavano e spaventavano parlandoci di torture e di morte. Noi aspettavamo le conseguenze delle minacce di Švàbrin. Alla fine ci fu un gran movimento in cortile e udimmo di nuovo la voce di Švàbrin.

«Allora, ci avete pensato su? Vi arrendete di vostra spontanea volontà?».

Nessuno gli rispose. Dopo aver aspettato un po', Švàbrin si fece portare della paglia. Qualche minuto dopo il fuoco divampò, illuminò il buio granaio, e il fumo cominciò a penetrare da sotto le fessure della soglia. Allora Mar'ja Ivànovna mi si avvicinò e, dopo avermi preso una mano, disse a bassa voce:

«Basta, Pëtr Andréiè! Non rovinate voi stesso e i vostri genitori per me. Fatemi uscire. Švàbrin mi ascolterà».

«Neanche per sogno», gridai con impeto. «Ma lo sapete che cosa vi aspetta?».

«Al disonore io non sopravvivrò», rispose lei tranquilla. «Ma, forse, salverò il mio liberatore e la sua famiglia, che ha accolto me, povera orfana, con tanta magnanimità. Addio, Andréj Petróviè. Addio, Avdót'ja Vasìl'evna. Voi siete stati per me più che dei benefattori. Beneditemi. Perdonatemi anche voi, Pëtr Andréiè. Siate certo che... che...». A questo punto ella scoppiò in lacrime e si coprì il viso con le mani... Ero come impazzito. La mamma piangeva.

«Non dire sciocchezze, Mar'ja Ivànovna», disse mio padre. «Chi ti lascerà andare sola dai banditi! Siedi qui e taci. Se dobbiamo

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morire, morremo tutti insieme. Ascolta, che cosa dicono ancora là fuori?».

«Vi arrendete?», gridava Švàbrin. «Vedete? Fra cinque minuti sarete arrostiti».

«Non ci arrenderemo, bandito!», gli rispose il babbo con voce ferma.

Il suo viso, coperto di rughe, era animato da una straordinaria energia, gli occhi scintillavano minacciosamente sotto le bianche sopracciglia. E, rivolgendosi a me, disse:

«È ora!».

Egli aprì la porta. Il fuoco irruppe e serpeggiò lungo le travi tenute insieme dal muschio secco. Il babbo sparò con la pistola e fece un passo oltre la soglia in fiamme, gridando: «Seguitemi tutti». Io afferrai per mano la mamma e Mar'ja Ivànovna, e le condussi velocemente all'aperto. Sulla soglia giaceva Švàbrin, colpito dalla vetusta mano di mio padre; la folla dei briganti, messa in fuga dalla nostra sortita improvvisa, riprese subito coraggio e si mise a circondarci. Io feci in tempo ad assestare ancora qualche colpo, ma un mattone lanciato con precisione mi prese in pieno petto. Caddi e per un minuto persi conoscenza. Quando rinvenni vidi Švàbrin, seduto sull'erba insanguinata, e davanti a lui tutta la nostra famiglia. Mi sostenevano sotto le braccia. La folla dei contadini, dei cosacchi e dei baschiri ci circondava. Švàbrin era orribilmente pallido. Con una mano si comprimeva il fianco ferito. Il suo viso esprimeva sofferenza e rabbia. Egli sollevò lentamente la testa, mi guardò e disse con voce fioca e inarticolata: «Impiccate lui... e tutti... tranne lei...».

Immediatamente la folla dei furfanti ci circondò e ci trascinò gridando verso il portone. Ma all'improvviso essi ci lasciarono e si dispersero; nel portone faceva ingresso a cavallo Grinëv, e dietro di lui l'intero squadrone con le sciabole sguainate.

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I rivoltosi si disperdevano in tutte le direzioni; gli ussari li inseguivano, sciabolavano e facevano prigionieri. Grinëv saltò giù da cavallo, s'inchinò al babbo e alla mamma e mi strinse forte la mano. «Sono arrivato in tempo, allora», ci disse. «Ah! ecco la tua fidanzata». Mar'ja Ivànovna arrossì fino agli orecchi. Il babbo gli si avvicinò e lo ringraziò con aria tranquilla, eppure commossa. La mamma lo abbracciò, chiamandolo angelo liberatore. «Vogliate favorire da noi», gli disse il babbo e lo condusse in casa nostra.

Passando accanto a Švàbrin, Grinëv si arrestò. «E questo chi è?», domandò, guardando il ferito. «È il comandante, il capo della banda», rispose mio padre con una certa fierezza, che rivelava il vecchio soldato, «Dio ha aiutato la mia mano decrepita a punire il giovane malfattore e a vendicare su di lui il sangue di mio figlio».

«È Švàbrin», dissi a Grinëv.

«Švàbrin! Molto piacere. Ussari! prendetelo! E dite al nostro medico che gli fasci la ferita e vegli su di lui come sulla pupilla del suo occhio. Bisogna assolutamente presentare Švàbrin alla commissione segreta di Kazàn'. È uno dei criminali più importanti, e le sue deposizioni devono essere fondamentali».

Švàbrin lo fissò con uno sguardo estenuato. Sul suo viso non si rifletteva altro che il dolore fisico. Gli ussari lo portarono via su un mantello.

Entrammo nelle stanze. Mi guardavo intorno con trepidazione, ricordando gli anni dell'infanzia. In casa non era cambiato nulla, tutto si trovava al posto di prima. Švàbrin non aveva permesso di saccheggiarla, conservando in tutta la sua depravazione uno spontaneo disgusto per l'avidità disonesta. I servi apparvero in anticamera. Essi non avevano partecipato alla rivolta e gioivano di tutto cuore della nostra liberazione. Savél'iè era trionfante. Bisogna sapere che durante lo scompiglio, provocato dall'attacco dei briganti, egli era corso nella stalla, dove stava il cavallo di Švàbrin, l'aveva sellato, portato fuori pian piano, e grazie al

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trambusto era riuscito a fuggire inosservato fino al traghetto. Aveva incontrato il reggimento che riposava già da questa parte del Volga. Grinëv, appreso da lui che eravamo in pericolo, aveva ordinato di montare a cavallo, di precipitarsi da noi, al galoppo - e, grazie a Dio, era arrivato a tempo.

Gli ussari tornarono dall'inseguimento dopo aver fatto qualche prigioniero. Furono rinchiusi in quello stesso granaio in cui noi avevamo sostenuto il memorabile assedio.

Grinëv insistette perché la testa dell'amministratore fosse esposta per qualche ora su una pertica accanto all'osteria.

Ci ritirammo ognuno nella propria stanza. I vecchi avevano bisogno di riposo. Non avendo dormito tutta la notte, io mi gettai sul letto e mi addormentai profondamente. Grinëv andò a dare le sue disposizioni.

La sera ci riunimmo in salotto attorno al samovàr, chiacchierando allegramente del pericolo scampato. Mar'ja Ivànovna serviva il tè, io mi sedetti al suo fianco e mi occupai esclusivamente di lei. I miei genitori sembravano assistere bonariamente ai nostri scambi di tenerezza. Quella sera rivive ancora oggi nel mio ricordo. Io ero felice, totalmente felice, e sono molti forse i momenti così nella misera vita umana?

Il giorno dopo fu riferito al babbo che i contadini si erano presentati a fare penitenza nel cortile padronale. Il babbo uscì incontro a loro sulla scalinata. Alla sua comparsa i contadini si misero in ginocchio.

«Allora, scemi», disse loro, «come vi è venuto in mente di ribellarvi?».

«Siamo colpevoli, signor nostro», risposero a una sola voce.

«E bravi, sono colpevoli. Fanno le marachelle, e non ne sono contenti neppure loro. Vi perdono per la gioia che Dio mi ha dato di rivedere mio figlio Pëtr Andréiè».

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«Siamo colpevoli, abbiamo torto davvero!».

«Bene, la spada non taglia la testa che ammette la sua colpa. Dio ci ha concesso il bel tempo, sarebbe ora di raccogliere il fieno; e voi, razza di sciocchi, che cosa avete fatto tre giorni interi? Stàrosta! Manda tutti quanti a falciare il fieno, e fa' in modo, birba rossa, che per il giorno di Il'jà tutto il fieno sia raccolto in covoni. Filate!».

I contadini s'inchinarono e andarono a lavorare come se niente fosse.

La ferita di Švàbrin si rivelò non mortale. Fu mandato con una scorta a Kazàn'. Vidi dalla finestra come lo adagiavano sul carro. I nostri sguardi s'incontrarono, lui reclinò la testa, e io mi allontanai in fretta dalla finestra. Temevo di mostrarmi esultante di fronte alla disgrazia e all'umiliazione del nemico.

Grinëv doveva proseguire oltre. Io mi decisi a seguirlo, benché desiderassi ancora restare qualche giorno in famiglia. Alla vigilia della partenza andai dai miei genitori e secondo l'uso del tempo mi gettai ai loro piedi, chiedendo loro la benedizione per il mio matrimonio con Mar'ja Ivànovna. I vecchi mi fecero alzare e con lacrime di gioia mi espressero il loro consenso. Condussi a loro Mar'ja Ivànovna pallida e trepidante. Ci benedirono... Non starò a descrivere quello che sentivo. Chi si è trovato nella mia situazione mi capirà senza spiegazioni; quanto a chi non ci si è trovato, posso solo compiangerlo e consigliargli, finché ne avrà ancora il tempo, d'innamorarsi e di ricevere la benedizione dai genitori.

Il giorno dopo il reggimento si riunì. Grinëv si congedò dalla nostra famiglia. Eravamo tutti sicuri che le operazioni militari si sarebbero interrotte presto; speravo di sposarmi entro un mese. Mar'ja Ivànovna, salutandomi, mi baciò davanti a tutti. Montai a cavallo. Savél'iè mi seguì ancora una volta, e il reggimento partì.

Guardai a lungo da lontano la casa di campagna che nuovamente

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abbandonavo. Un cupo presentimento mi angosciava. Qualcosa mi diceva che non tutte le disgrazie erano ancora finite per me. Il cuore presentiva una nuova tempesta.

Non starò a descrivere la nostra partenza e la fine della guerra di Pugaèëv. Attraversavamo i villaggi da lui saccheggiati, e senza volere privavamo i poveri abitanti di quello che i briganti avevano loro lasciato.

Essi non sapevano a chi obbedire. Dappertutto era stata abolita qualsiasi forma di governo. I proprietari si erano rifugiati nei boschi. Le bande dei briganti compivano misfatti ovunque. I comandanti dei singoli reparti, spediti all'inseguimento di Pugaèëv, che allora era già in fuga verso Ástrachan', punivano a loro piacimento colpevoli e innocenti... Le condizioni di tutta la regione in cui aveva infuriato l'incendio della rivolta era terribile. Che Dio ci scampi dall'assistere a un'insurrezione russa, assurda e impietosa. Coloro che concepiscono nel nostro paese impossibili rivolgimenti, o sono giovani, e non conoscono il nostro popolo, oppure sono persone dal cuore duro, per le quali la testa altrui vale mezzo copeco, e anche il proprio collo a malapena uno intero.

Pugaèëv scappava, inseguito da Iv.Iv. Mìchel'son. Presto venimmo a sapere della sua disfatta totale. Finalmente Grinëv ricevette dal suo generale la notizia della cattura dell'impostore, e insieme anche l'ordine di fermarsi. Finalmente potevo tornare a casa. Ero in visibilio; ma uno strano sentimento offuscava la mia gioia.

VIAGGIO AD ARZRU'M AL TEMPO DELLA CAMPAGNA DEL 1829

PREFAZIONE

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Poco tempo fa mi è capitato fra le mani un libro, pubblicato a Parigi l'anno scorso, nel 1834, con il titolo: Voyages en Orient entrepris par ordre du Gouvernement Français. L'autore, descrivendo a modo suo la campagna del 1829, conclude le sue riflessioni con queste parole:

«Un poète distingué par son imagination a trouvé dans tant de hauts faits dont il a été témoin non le sujet d'un poème, mais celui d'une satyre».

Di poeti che avessero partecipato alla campagna turca non conoscevo che A.S. Chomjakóv e A.N. Murav'ëv. Si trovavano entrambi nell'armata del conte Dìbiè. Il primo aveva scritto all'epoca diverse bellissime poesie liriche, il secondo alcune meditazioni sul suo viaggio ai luoghi santi, che gli avevano suscitato un'impressione tanto forte. Ma non ho letto nessuna satira sulla campagna di Arzrùm.

Non avrei mai potuto immaginare che si trattasse di me se nello stesso libro non avessi trovato il mio nome fra quelli dei generali di un corpo speciale del Caucaso. «Parmi les chefs qui la commandaient (l'armée du Prince Paskewitch) on distinguait le Général Mouraviev... le Prince Géorgien Tsitsevaze... le Prince Arménien Beboutof... le Prince Potemkine, le Général Raiewsky, et infin - M. Pouchkine... qui avait quitté la capitale pour chanter les exploits de ses compatriotes».

Lo confesso: queste righe del viaggiatore francese, nonostante gli epiteti lusinghieri, per me sono state molto più indisponenti degli insulti delle riviste russe. Cercare l'ispirazione mi è sempre sembrata una bizzarria ridicola e assurda: l'ispirazione non si trova cercandola; è lei che deve trovare il poeta. Andare alla guerra per cantarne i futuri atti eroici sarebbe stato per me da un lato troppo presuntuoso, dall'altro troppo indecente. Non mi immischio a dar giudizi su cose militari. Non è affar mio. Può darsi che la coraggiosa traversata del Sagan-lu, il movimento col quale il conte

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Paskéviè tagliò i contatti del seraskìr con Osman-Pascià, la sconfitta di due corpi d'armata nemici nel giro di ventiquattr'ore, la rapida marcia su Arzrùm, tutto questo, coronato da pieno successo, può anche darsi che sia assolutamente degno di derisione agli occhi di gente versata nell'arte militare (come, per esempio, il console commerciale Fontanier, autore del viaggio in Oriente); ma io mi sarei vergognato di scrivere satire sul glorioso condottiero, che mi ha affettuosamente accolto all'ombra della sua tenda e che ha trovato il tempo, in mezzo a tante gravi preoccupazioni, di accordarmi una lusinghiera attenzione. L'uomo che non ha bisogno della protezione dei potenti, ne apprezza la cordialità e l'ospitalità, dal momento che non può pretendere altro da loro. Un'accusa d'ingratitudine non deve essere lasciata senza replica, come una critica meschina o una stroncatura letteraria. Ecco perché mi sono deciso a far stampare questa prefazione e a pubblicare i miei appunti di viaggio: vi è tutto quello che ho scritto sulla campagna del 1829.

A. Puškin

I

Le steppe - Una kibìtka calmucca - Le acque del Caucaso - La strada militare della Georgia - Vladikavkàz - Funerale osseta - Il Térek - La gola di Dariàl - Il valico delle montagne innevate - Primo sguardo sulla Georgia - Gli acquedotti - Chozrev-Mirza - Il governatore di Dušét.

... Da Mosca mi mossi verso Kalùga, Belëv e Orël, e percorsi in tal modo duecento verste in più; in compenso vidi Ermólov. Egli vive ad Orël, nelle cui vicinanze si trova la sua proprietà. Giunsi da lui alle otto del mattino e non lo trovai in casa. Il mio vetturino mi disse che Ermólov non andava da nessuno, ad eccezione del padre, vecchio semplice e timorato; gli unici che non riceveva erano i funzionari della città, mentre a chiunque altro l'accesso era libero.

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Un'ora dopo mi ripresentai da lui. Ermólov mi accolse con la sua consueta gentilezza. Al primo sguardo non trovai in lui la minima somiglianza coi suoi ritratti, dipinti abitualmente di profilo. Viso tondo, occhi grigi, di fuoco, capelli bianchi a spazzola. La testa di una tigre su un torace erculeo. Un sorriso sgradevole, perché innaturale. Ma quando si concentra e si acciglia ecco che diventa bellissimo e ricorda in modo sorprendente un ritratto poetico dipinto dal Daw. Indossava un cekmén' circasso verde. Alle pareti del suo studio erano appese sciabole e pugnali, ricordi del suo comando nel Caucaso. Evidentemente mal sopporta il suo ozio. Diverse volte attaccò a parlare di Paskéviè, e sempre con sarcasmo; parlando della facilità delle sue vittorie lo paragonava a Giosuè, dinanzi al quale le mura cadevano al suono delle trombe, e chiamava il conte di Erivàn conte di Gerico. «Dovesse imbattersi», diceva Ermólov, «in un pascià non dico intelligente, non dico esperto, ma solo caparbio, per esempio il pascià che aveva il comando a Šumljà, - e Paskéviè sarebbe perduto». Riferii a Ermólov le parole del conte Tolstój, secondo il quale Paskéviè aveva operato così bene nella campagna di Persia che un uomo intelligente non aveva altra scelta se non agire peggio per distinguersi da lui. Ermólov si mise a ridere, ma non era d'accordo. «Si sarebbero potuti risparmiare uomini e spese», disse. Penso che stia scrivendo o voglia scrivere le sue memorie. Non è soddisfatto della Storia di Karamzìn; desidererebbe che una penna fiammeggiante descrivesse il passaggio del popolo russo dalla nullità alla gloria e alla grandezza. Delle memorie del principe Kùrbskij mi parlò con amore. Criticò molto i tedeschi. «Fra una cinquantina d'anni», disse, «si penserà che nell'attuale campagna di guerra ci sia stata un'armata ausiliaria prussiana o austriaca, al comando di questo e quel generale tedesco». Trascorsi da lui un paio d'ore. Era seccato di non ricordare il mio nome per intero. Se ne scusò con tanto di complimenti. La conversazione toccò diverse volte la letteratura. Dei versi di Griboédov disse che la loro lettura fa venir male alle mascelle. Sul governo e la politica neanche una

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parola.

Mi si prospettava di passare per Kursk e per Chàr'kov, ma svoltai sulla strada diretta per Tiflìs, sacrificando un buon pranzo nella locanda di Kursk (il che non è un'inezia nei nostri viaggi), e senza lasciarmi prendere dalla curiosità di visitare l'università di Chàr'kov, che non vale il ristorante di Kursk.

Fino a Eléc le strade sono orribili. Il mio calesse affondò diverse volte in un fango degno di quello di Odessa. Mi capitò di non fare più di cinquanta verste in ventiquattr'ore. Finalmente vidi le steppe di Vorónež e rotolai in libertà sulla verde pianura. A Novoèerkàssk trovai il conte Pùškin, che stava andando anche lui a Tiflìs, e prendemmo accordi per viaggiare insieme.

Il passaggio dall'Europa all'Asia si fa d'ora in ora più percettibile: le foreste scompaiono, le colline si appianano, l'erba s'infittisce e rivela un maggior rigoglio della vegetazione; si scorgono uccelli sconosciuti ai nostri boschi; le aquile si posano sui cumuli di terra che indicano la strada maestra, come se stessero di guardia, e osservano superbe il viaggiatore; per i fertili pascoli

Vagano superbe

Mandrie d'indomite giumente.

I calmucchi si accampano intorno alle capanne delle stazioni di posta. Nei pressi delle kibìtke pascolano i loro mostruosi, irsuti cavalli, che già conoscete dai bellissimi disegni di Orlóvskij.

Giorni fa ho visitato una kibìtka calmucca (di vimini intrecciati, ricoperta di feltro bianco). Tutta la famiglia si accingeva a fare colazione; la casseruola bolliva al centro, e il fumo usciva da un'apertura fatta alla sommità della kibìtka. Una giovane calmucca, tutt'altro che brutta, cuciva, fumando tabacco. Mi sedetti accanto a lei. «Come ti chiami?». «***». «Quanti anni hai?». «Dieci e otto». «Che stai cucendo?». «Un pantalone». «Per chi?». «Per me». Mi porse la sua pipa e si mise a far colazione. Nella

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marmitta cuoceva il tè con grasso di montone e sale. Mi offrì la sua scodella. Non volli rifiutare e mandai giù un sorso cercando di non tirare il fiato. Non credo che la cucina di un altro popolo possa produrre qualcosa di più disgustoso. Chiesi qualcosa per mandarlo giù. Mi fu dato un pezzetto di giumenta disseccata; e fui contento anche di questo. La civetteria calmucca mi spaventò; mi affrettai a uscire dalla kibìtka e ad abbandonare la Circe delle steppe.

A Stàvropol' scorsi all'estremità del cielo delle nuvole che avevano colpito il mio sguardo esattamente come nove anni prima. Erano sempre le stesse, sempre allo stesso posto. Sono le cime nevose della catena del Caucaso.

Da Geórgievsk deviai per le Acque calde. Vi trovai grandi cambiamenti. Ai miei tempi i bagni si trovavano in capannine tirate su alla svelta. Le sorgenti, per la maggior parte nel loro stato primitivo, zampillavano, fumavano e scorrevano giù dalle montagne in varie direzioni, lasciandosi dietro tracce bianche e rossastre. Noi attingevamo l'acqua bollente con un ramaiolo di corteccia o con un fondo di bottiglia rotta. Ora vi erano stati costruiti magnifici bagni e delle case. Un viale con i tigli appena piantati corre lungo il pendio del Mašùk. Dappertutto stradine pulite, panchine verdi, aiuole regolari, ponticelli, padiglioni. Le sorgenti sono state rivestite di pietra; alle pareti dei bagni sono state affisse le prescrizioni della polizia; dappertutto ordine, pulizia, eleganza...

Lo ammetto: le acque del Caucaso ora offrono più comodità, ma rimpiansi il loro stato selvaggio di una volta; rimpiansi i ripidi sentieri sassosi, i cespugli e i precipizi senza riparo sui quali a volte m'inerpicavo. Lasciai con tristezza le acque e tornai verso Geórgievsk. Presto sopraggiunse la notte. Il cielo terso si cosparse di miriadi di stelle. Viaggiavo lungo la riva del Podkùmok. Qui capitava che sedessimo insieme con A. Raévskij, dando ascolto alla melodia delle acque. Il maestoso Béštu, nero, sempre più nero, si profilava in lontananza, circondato dai monti suoi vassalli, e

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infine scomparve nell'oscurità...

Il giorno dopo proseguimmo e arrivammo a Ekaterìnograd, che un giorno era stata sede della luogotenenza generale. Da Ekaterìnograd parte la strada militare georgiana; il servizio di posta s'interrompe. Si noleggiano i cavalli fino a Vladikavkàz. Viene fornita una scorta di cosacchi e di soldati di fanteria e un cannone. La posta viene spedita due volte alla settimana, e i viaggiatori si uniscono ad essa: si chiama occasione. Non dovemmo aspettare a lungo. Il postale arrivò il giorno dopo, e il mattino successivo alle nove eravamo pronti per partire. Sul luogo di raccolta si riunì tutta la carovana, composta da cinquecento persone o giù di lì. Cominciarono a rullare i tamburi. Ci movemmo. In testa procedeva il cannone, circondato da soldati di fanteria. Dietro si stendeva la fila di carrozze, calessi, carri delle mogli dei soldati, che si trasferivano da una fortezza all'altra; ancora dietro scricchiolava un convoglio di carri locali a due ruote. Ai lati correvano mandrie di cavalli e branchi di buoi. Accanto a loro galoppavano le guide nagài in mantelli di feltro coi lacci. Tutto questo al principio mi piaceva molto, ma non tardò a stancarmi. Il cannone avanzava a passo d'uomo, la miccia fumava, e i soldati vi accendevano la pipa. La lentezza della nostra marcia (il primo giorno percorremmo solo quindici verste), il caldo insopportabile, la scarsezza di provviste, i giacigli che non davano pace, infine lo scricchiolio ininterrotto dei carri nagài finirono con l'esasperarmi. I tartari si vantano di questo scricchiolio, e dicono che loro vanno in giro da persone oneste, senza aver bisogno di nascondersi. Per questa volta, però, avrei preferito viaggiare in una compagnia meno rispettabile. La strada era piuttosto monotona: pianura, e sui lati colline. All'estremità del cielo le cime del Caucaso, che ogni giorno appaiono più alte. Fortezze, sufficienti per questa regione, con un fossato che chiunque di noi avrebbe saltato in altri tempi senza rincorsa, coi cannoni arrugginiti, che non hanno sparato dai tempi del conte Gudóviè, e il terrapieno crollato, per il quale gironzola una guarnigione di galline e di

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oche. Nelle fortezze qualche capannella in cui ci si può procurare a fatica una decina di uova e del latte acido.

Il primo luogo degno di nota è la fortezza di Minarét. Avvicinandosi ad essa la nostra carovana passò per un'incantevole vallata, in mezzo a tumuli sepolcrali, ricoperti di tigli e di platani. Sono le tombe di alcune migliaia di morti appestati. Abbondavano fiori variopinti, generati dalla cenere infetta. Sulla destra splendeva il Caucaso innevato; davanti s'innalzava un'enorme montagna boscosa, dietro la quale si trovava una fortezza. Intorno a questa erano visibili le tracce di un aùl distrutto, che si chiamava Tatartùb e che una volta era stato il villaggio principale della Grande Kabardá. Uno snello minareto solitario testimonia l'esistenza del villaggio scomparso. Esso si leva leggero fra mucchi di pietre, sulla riva di un torrente prosciugato. La scala interna non è ancora crollata. Salii su su fino a una piattaforma dalla quale non si ode più la voce del mullah. Vi trovai alcuni nomi sconosciuti, incisi sui mattoni da viaggiatori amanti di gloria.

La nostra strada divenne pittoresca. I monti si protendevano sopra di noi. Sulle loro cime passavano lentamente greggi appena visibili che sembravano insetti. Distinguemmo anche il pastore, magari un russo fatto prigioniero e invecchiato in schiavitù. Incontrammo ancora tumuli, ancora rovine. Due, tre monumenti sepolcrali si ergevano sul bordo della strada. Vi erano seppelliti, secondo l'usanza dei circassi, i loro cavalieri. Un'iscrizione tartara, l'effigie di una sciabola, un marchio, incisi sulla pietra, sono lasciati ai nipoti predatori in memoria di un antenato predatore.

I circassi ci odiano. Li abbiamo scacciati dai loro pascoli liberi; i loro aùl sono stati rasi al suolo, intere tribù sterminate. Si vanno addentrando sempre più profondamente nelle montagne, e di lì dirigono le loro incursioni. L'amicizia dei circassi pacificati è infida: sono sempre pronti ad aiutare i loro confratelli rivoltosi. Lo spirito della loro cavalleria selvaggia è sensibilmente decaduto. Attaccano raramente i cosacchi di pari numero, mai la fanteria, e

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fuggono alla vista di un cannone. In compenso non si lasciano mai sfuggire l'occasione di attaccare un reparto debole o una persona indifesa. Non c'è quasi alcun modo di renderli tranquilli fintanto che non saranno disarmati, come sono stati disarmati i tartari di Crimea, cosa straordinariamente difficile a realizzarsi, a causa delle faide ereditarie e delle vendette di sangue che regnano fra loro. Il pugnale e la sciabola sono membra del loro corpo, e il bimbo comincia a prenderne possesso prima di balbettare. Per loro l'omicidio è un semplice movimento del corpo. I loro prigionieri li mantengono in vita nella speranza di un riscatto, ma li trattano in modo terribilmente disumano, li costringono a lavorare al di sopra delle loro forze, li nutrono di pasta cruda, li picchiano quando salta loro per la testa, e li fanno sorvegliare dai loro ragazzini, che per una sola parola hanno il diritto di mutilarli con le loro sciabole da bambini. Di recente era stato preso un circasso pacificato, che aveva sparato contro un soldato. Si giustificava dicendo che il suo fucile era stato carico troppo a lungo. Che fare con un popolo simile? Bisogna sperare tuttavia che la conquista della riva orientale del Mar Nero, tagliando fuori i circassi dal commercio con la Turchia, li costringa a riavvicinarsi a noi. L'influenza del benessere può favorire il loro addomesticamento: il samovàr sarebbe un'innovazione importante. Esiste un mezzo più potente, più morale, più conforme alla cultura del nostro secolo: la predicazione del Vangelo. Di recente i circassi hanno adottato la fede maomettana. Essi sono stati trascinati dal fanatismo attivo degli apostoli del Corano, fra i quali si è distinto Mansùr, uomo fuori del comune, che per lungo tempo ha istigato il Caucaso alla ribellione contro il dominio russo, e infine, catturato da noi, è morto nel monastero di Solóvki. Il Caucaso attende i missionari cristiani. Ma è più facile per la nostra pigrizia spandere, invece della parola viva, lettere morte e mandare libri muti a gente che non sa né leggere né scrivere.

Raggiungemmo Vladikavkàz, una volta Kapkàj, vestibolo delle montagne. Esso è circondato da villaggi osseti. Ne visitai uno e

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capitai a un funerale. Intorno a una capanna si accalcava della gente. In cortile sostava un carro attaccato a due buoi. I parenti e gli amici del morto affluivano da tutte le parti e piangendo ad alta voce entravano nella capanna, battendosi la fronte coi pugni. Le donne stavano in piedi, composte. Il cadavere fu portato fuori su un mantello di feltro...

...like a warrior taking his rest

With his martial cloak around him;

e deposto su un carro. Uno degli ospiti prese il fucile del defunto, ne soffiò via la polvere dallo scodellino e lo posò accanto al corpo. I buoi si mossero. Gli ospiti seguirono sui carri. Il corpo doveva essere seppellito in montagna, a una trentina di verste dal villaggio. Purtroppo nessuno poté spiegarmi queste cerimonie.

Gli osseti sono la razza più povera fra i popoli abitanti nel Caucaso; le loro donne sono bellissime e, a quanto si dice, molto ben disposte verso i viaggiatori. Alla porta di una fortezza incontrai la moglie e la figlia di un detenuto osseta. Gli stavano portando il pranzo. Sembravano entrambe tranquille e coraggiose; tuttavia quando mi avvicinai abbassarono tutte e due la testa e si coprirono con le loro càdre stracciate. Nella fortezza vidi degli ostaggi circassi, ragazzi vivaci e belli. Tirano continuamente scherzi e scappano dalla fortezza. Sono tenuti in condizioni pietose. Girano in stracci, seminudi, in uno stato di disgustosa sporcizia. Su alcuni ho visto dei ceppi di legno. Probabilmente gli ostaggi rimessi in libertà non rimpiangono il loro soggiorno a Vladikavkàz.

Il cannone ci lasciò. Continuammo il viaggio con la fanteria e i cosacchi. Il Caucaso ci accolse nel suo santuario. Sentimmo un rumore sordo e vedemmo il Térek, che si diramava in varie direzioni. Noi procedemmo lungo la riva sinistra. Le sue onde rumorose mettono in moto le ruote dei bassi mulini osseti, simili a cucce di cani. Quanto più c'inoltravamo nelle montagne, tanto più

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stretta diventava la gola. Il Térek, compresso, getta con strepito le sue onde torbide da una parte all'altra delle rocce che gli sbarrano il cammino. La gola si snoda lungo il corso del fiume. Le basi rocciose dei monti vengono levigate dalle sue acque. Io camminavo a piedi e mi fermavo ogni istante, sbalordito dal cupo incanto di quella natura. Il tempo era coperto; le nuvole si trascinavano pesanti intorno alle cime nere. Il conte Puškin e Šernvàl, guardando il Térek, rievocavano l'Imatra, e davano la preferenza al tonante fiume del Nord. Io, invece, non potevo paragonare nulla allo spettacolo che mi si presentava.

Senza arrivare a Lars rimasi indietro al convoglio, incapace di staccare gli occhi dalle enormi rocce fra le quali il Térek dirompe con indescrivibile furore. A un tratto mi corse incontro un soldato, gridando da lontano: «Non vi fermate, vostra eccellenza, vi uccideranno!». Questo avvertimento, poiché non vi ero abituato, mi parve alquanto strano. Il fatto è che i briganti osseti, al sicuro in questo stretto passaggio, sparano al di là del Térek sui viaggiatori. Il giorno prima del nostro passaggio essi avevano assalito in questo modo il generale Bekóviè, che era riuscito a fuggire via al galoppo in mezzo ai loro spari. Su una roccia si vedono le rovine di un castello: sono tenute insieme dalle capanne degli osseti pacificati, come fossero nidi di rondine.

A Lars ci fermammo a pernottare. Vi trovammo un viaggiatore francese, che ci terrorizzò sulla strada che ci attendeva. Ci consigliava di lasciare le vetture a Kobi e di proseguire a cavallo. Con lui bevemmo per la prima volta del vino di Kachétija da un puzzolente burdjùk, ricordando i banchetti dell'Iliade:

E in otri caprini il vino, nostra consolazione!

Qui trovai una copia imbrattata de Il prigioniero del Caucaso, che, confesso, rilessi con grande piacere. Tutto ciò è debole, giovanile, imperfetto; ma molte cose sono indovinate ed espresse con precisione.

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L'indomani mattina ripartimmo. Prigionieri turchi riparavano la strada. Si lamentavano del cibo che veniva loro dato. Non riuscivano in nessun modo ad abituarsi al pane nero russo. Questo mi ricordò le parole del mio amico Šeremétev di ritorno da Parigi: «Si vive male, amico, a Parigi: da mangiare non c'è niente: non riesci a procurarti il pane nero!».

A sette verste da Lars si trova il posto di guardia di Dariàl. La gola porta lo stesso nome. Le rocce si levano da entrambe le parti in pareti parallele. Il passaggio è così stretto, così stretto, scrive un viaggiatore, che non solo vedi, ma ti sembra anche di sentire l'oppressione. Un frammento di cielo come un nastro azzurreggia sulla vostra testa. I ruscelli che cadono dall'alto della montagna in piccoli rivoli, che lanciano spruzzi, mi ricordavano il ratto di Ganimede, uno strano quadro di Rembrandt. Per di più anche la gola è illuminata perfettamente nel suo gusto. In alcuni punti il Térek corrode la base stessa delle rocce, e sulla strada, a mo' di diga, sono state ammucchiate delle pietre. Non lontano dal posto di guardia è stato coraggiosamente gettato un ponticello attraverso il fiume. Quando ci stai sopra ti sembra di essere in un mulino. Il ponticello trema tutto, e il Térek fa il rumore delle ruote che muovono la macina. Su una roccia a picco di fronte al Dariàl si vedono le rovine di una fortezza. La leggenda narra che in essa si nascondesse una certa imperatrice Dàrija, che avrebbe dato il suo nome alla gola: è una favola. Dariàl, in antico persiano, significa porta. Secondo la testimonianza di Plinio, la porta del Caucaso, erroneamente chiamata del Caspio, si trovava qui. La gola era chiusa con una porta vera, di legno, con cerniere di ferro. Sotto di essa, scrive Plinio, scorre il fiume Diriodoris. Nello stesso punto era stata eretta anche una fortezza per contenere le incursioni di tribù selvagge e così via (date un'occhiata al viaggio del conte I. Potocki, le cui dotte ricerche sono appassionanti quanto i romanzi spagnoli).

Da Dariàl partimmo per il Kazbék. Vedemmo la Porta della

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Trinità (un arco formato nella roccia da un'esplosione di polvere da sparo) - sotto di essa un tempo passava la strada, mentre adesso vi scorre il Térek, che cambia di frequente il suo letto.

Poco lontano dal villaggio di Kazbék valicammo il Burrone furioso, che in tempo di forti piogge si trasforma in torrente impetuoso. A quell'epoca era completamente secco e risuonava solo del suo nome.

Il villaggio di Kazbék si trova ai piedi del monte Kazbék e appartiene al principe Kazbék. Il principe, un uomo sui quarantacinque anni, è più alto di un capofila del reggimento Preobražénskij. Lo trovammo in un duchàn (così si chiamano le taverne georgiane, che sono molto più povere e non meno sporche di quelle russe). Sulla porta stava disteso un panciuto burdjùk con le sue quattro gambe divaricate. Il gigante ne sorbiva il vino rosso locale non fermentato e mi fece alcune domande, alle quali risposi con la deferenza dovuta al suo titolo e alla sua statura. Ci separammo da grandi amici.

Fanno presto ad attutirsi le impressioni. Erano passate appena ventiquattr'ore, e già il ruggito del Térek e le sue mostruose cascate, già i dirupi e gli abissi non attiravano più la mia attenzione. L'impazienza di arrivare a Tiflìs ormai mi dominava completamente. Passavo davanti al Kazbék con la stessa indifferenza con cui una volta ero passato in nave davanti al Èatyrdàg. È anche vero che il tempo piovoso e nebbioso m'impediva di vedere la sua mole innevata che, secondo l'espressione di un poeta, sorregge la volta celeste.

Si attendeva il principe persiano. A una certa distanza da Kazbék ci vennero incontro diversi calessi che ingombrarono la strada già stretta. Fino a che le vetture non si districarono, l'ufficiale del convoglio ci annunciò che stava scortando un poeta di corte persiano e, poiché gliene espressi il desiderio, mi presentò a Fazil-Khan. Con l'aiuto dell'interprete avevo già dato inizio a un saluto all'orientale, ma quale fu la mia vergogna quando Fazil-Khan

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rispose alla mia affettazione fuori posto con una semplice, intelligente cortesia da persona garbata! Egli sperava di vedermi a Pietroburgo; si dispiaceva che il nostro incontro sarebbe durato così poco, ecc. Fui costretto con vergogna a lascia perdere quel tono di buffonesca gravità, e a ridiscendere alle solite formule europee. Ecco una lezione alla nostra tendenza russa alla canzonatura. D'ora in avanti non starò a giudicare un uomo dalla sua papàcha di montone e dalle unghie dipinte.

Il posto di guardia di Kobi si trova proprio ai piedi del monte della Croce, che dovevamo oltrepassare. Ci fermammo a pernottare lì e ci mettemmo a pensare in che modo compiere questa terribile impresa: lasciar perdere le vetture e sellare dei cavalli cosacchi, o mandare a chiedere dei buoi osseti? A ogni buon conto scrissi a nome di tutta la nostra carovana una richiesta ufficiale al signor Èiljàev, comandante in quella zona, e andammo a dormire in attesa dei carri. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, sentimmo del rumore, grida, e assistemmo a uno spettacolo straordinario: diciotto paia di buoi scarni e di piccola taglia, incitati da una folla di osseti seminudi, tiravano a stento la leggera carrozza viennese del mio amico O***. Questo spettacolo dissipò immediatamente tutti i miei dubbi. Decisi di rimandare indietro la mia pesante carrozza pietroburghese a Vladikavkàz e di andare a cavallo fino a Tiflìs. Il conte Puškin non volle seguire il mio esempio. Preferì attaccare un'intera mandria di buoi al suo calesse, carico di provviste di ogni genere, e valicare così, maestosamente, la catena innevata. Ci separammo e io andai col colonnello Ogarëv, addetto alla sorveglianza delle strade locali.

La strada passava attraverso la zona franata che era crollata alla fine di giugno del 1827. Casi simili si verificano di solito ogni sette anni. Un'enorme massa di terra, precipitando, aveva riempito la gola per una versta e arginato il Térek. Le sentinelle che stazionavano più in basso avevano sentito un fragore spaventoso e avevano visto il fiume abbassarsi rapidamente, e in un quarto d'ora

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acquietarsi completamente ed esaurirsi. Il Térek impiegò due ore buone a farsi strada attraverso la frana. Tanto la frana era stata terribile!

Salivamo rapidamente sempre più in alto. I nostri cavalli s'impantanavano nella neve molle, sotto la quale gorgogliavano i ruscelli. Guardavo sorpreso la strada e non intravedevo la possibilità di percorrerla su ruote.

In quel momento sentii un sordo rimbombo. «È una valanga», mi disse il signor Ogarëv. Mi voltai indietro e vidi da una parte una massa di neve che s'era staccata e che scendeva lentamente dal pendio. Le piccole valanghe qui non sono rare. L'anno scorso un vetturino russo stava salendo sul monte della Croce; una valanga si era staccata: quella massa spaventosa s'era abbattuta sul suo veicolo, aveva inghiottito carro, cavallo e uomo, aveva oltrepassato la strada ed era rotolata nell'abisso con la sua preda. Raggiungemmo la vetta della montagna. Vi era stata posta una croce di granito, vecchio monumento restaurato da Ermólov.

Qui i viaggiatori di solito scendono dalle vetture e vanno a piedi. Poco tempo fa vi è passato un console straniero, tanto debole da farsi bendare gli occhi; l'avevano accompagnato sottobraccio, e quando gli avevano sfilato la benda egli s'era inginocchiato, ringraziando Dio, ecc., cosa che aveva molto colpito le guide.

Il passaggio istantaneo dal Caucaso minaccioso alla graziosa Georgia è estasiante. L'aria del sud a un tratto comincia a soffiare sul viaggiatore. Dall'alto del monte Gut si apre la valle di Kajšaùr con le sue rocce abitate, i suoi giardini, la sua trasparente Aràgva, che serpeggia come un nastro d'argento, - e tutto questo in forma ridotta sul fondo di un abisso di tre verste, lungo il quale passa una strada pericolosa.

Scendevamo nella valle. La luna nuova apparve nel cielo sereno. L'aria serale era calma e tiepida. Passai la notte sulla riva dell'Aràgva, in casa del signor Èiljàev. Il giorno dopo mi separai

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dal cortese padrone di casa e proseguii il viaggio.

Qui cominciò la Georgia. Luminose vallate, irrigate dall'allegra Aràgva, sostituirono le gole tenebrose e il minaccioso Térek. Invece delle nude rocce mi vedevo attorno verdi montagne e alberi da frutta. Gli acquedotti testimoniavano la presenza della civiltà. Uno di questi mi colpì per la perfezione dell'illusione ottica: sembrava che l'acqua scorresse lungo il monte dal basso verso l'alto.

A Pajsanaùr mi fermai per cambiare i cavalli. Qui incontrai un ufficiale russo, che accompagnava un principe persiano. Presto sentii il suono dei sonagli, e tutta una fila di muli, legati uno all'altro e caricati all'asiatica, sfilò lungo la strada. Mi avviai a piedi, senza aspettare i cavalli, e a mezza versta da Ananùr, su una curva della strada, incontrai Chozrev-Mirza. Le sue vetture erano ferme. Lui stesso si sporse fuori dalla sua carrozza e mi fece un cenno con la testa. Qualche ora dopo il nostro incontro il principe fu assalito dai montanari. Sentendo il fischio delle pallottole, Chozrev saltò fuori dalla carrozza, montò a cavallo, e partì al galoppo. I russi che lo scortavano si stupirono del suo coraggio. Il fatto è che il giovane asiatico, non abituato alla carrozza, vedeva in essa piuttosto una trappola che un rifugio.

Arrivai a piedi fino a Ananùr, senza avvertire stanchezza. I miei cavalli non arrivavano. Mi dissero che per la città di Dušét non rimanevano più di dieci verste, e mi rimisi in cammino a piedi. Ma non sapevo che la strada era in salita. Queste dieci verste contavano come venti buone.

Venne la sera; io continuavo a camminare, salendo sempre più in alto. Smarrire la strada era impossibile, ma a tratti il fango argilloso, formato dalle sorgenti, mi arrivava fino al ginocchio. Ero completamente esausto. L'oscurità aumentò. Sentivo ululare e abbaiare i cani e me ne rallegravo immaginando che la città non fosse lontana. Ma mi sbagliavo: abbaiavano i cani dei pastori georgiani, e ululavano gli sciacalli, bestie comuni da quelle parti.

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Maledicevo la mia impazienza, ma non c'era niente da fare. Finalmente avvistai delle luci e intorno a mezzanotte mi ritrovai in prossimità di case ombreggiate da alberi. Il primo passante si offrì di accompagnarmi dal sindaco e per questo pretese da me un abàz.

La mia apparizione dal sindaco, un vecchio ufficiale originario della Georgia, fece grande effetto. Chiesi in primo luogo una stanza in cui potessi spogliarmi, in secondo luogo un bicchiere di vino, in terzo luogo un abàz per il mio accompagnatore. Il sindaco non sapeva come accogliermi, e mi sbirciava perplesso. Vedendo che non si affrettava ad esaudire le mie richieste, cominciai a spogliarmi davanti a lui, chiedendo scusa de la liberté grande. Per fortuna mi trovai in tasca il foglio di viaggio, prova che ero un pacifico viaggiatore, e non Rinaldo Rinaldini. Il benedetto cartiglio sortì subito il suo effetto: la camera mi fu assegnata, il bicchiere di vino portato, e l'abàz sborsato alla mia guida con un paterno rimprovero per la sua cupidigia, che recava offesa all'ospitalità georgiana. Mi gettai sul divano, sperando dopo la mia impresa di sprofondare in un sonno da paladino: macché! le pulci, che sono molto più pericolose degli sciacalli, mi assalirono e non mi diedero pace per tutta la notte. Al mattino il mio servitore mi si presentò e mi annunciò che il conte Puškin aveva felicemente valicato coi buoi le montagne innevate ed era arrivato a Dušét. Dovevo affrettarmi! Il conte Puškin e Šernval' vennero a trovarmi e mi proposero nuovamente di proseguire il viaggio insieme. Lasciai Dušét con la piacevole prospettiva di passare la notte seguente a Tiflìs.

La strada continuava a essere gradevole e pittoresca, sebbene vedessimo di rado tracce di popolazione. A qualche versta da Garciskàl attraversammo il Kurà su un ponte antico, ricordo delle spedizioni romane, e di buon trotto, o di tanto in tanto anche al galoppo, ci dirigemmo verso Tiflìs, dove senza accorgercene ci ritrovammo intorno alle undici di sera.

II

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Tiflìs - I bagni pubblici - Hassan, l'uomo senza naso - Usanze georgiane - Canzoni - Il vino di Kachétija - Il motivo del caldo - Il carovita - Descrizione della città - Partenza da Tiflìs - Notte georgiana - Panorama dall'Armenia - La doppia tappa - Un villaggio armeno - Gergéry - Griboédov - Il Bezobdàl - La sorgente minerale - Tempesta in montagna - Pernottamento a Gùmry - L'Araràt - La frontiera - Ospitalità turca - Kars - Una famiglia armena - Partenza da Kars - L'accampamento del conte Paskéviè.

Mi fermai in una locanda e il giorno dopo mi recai ai famosi bagni di Tiflìs. La città mi parve molto popolata. Le costruzioni asiatiche e il bazar mi ricordarono Kišinëv. Per le strade strette e tortuose correvano gli asini con le ceste sui fianchi; i carri tirati dai buoi ostruivano la strada. Armeni, georgiani, circassi, persiani si accalcavano su una piazza di forma irregolare; in mezzo a loro alcuni giovani funzionari russi passavano a cavallo su stalloni di Karabàch. All'ingresso dei bagni era seduto il tenutario, un vecchio persiano. Egli mi aprì la porta, entrai in una stanza spaziosa, e che cosa vidi? Più di cinquanta donne, giovani e vecchie, semisvestite o del tutto svestite, sedute e in piedi si svestivano e vestivano su panche disposte lungo le pareti. Io mi fermai. «Andiamo, andiamo», mi disse il padrone, «oggi è martedì: il giorno delle donne. Non fa niente, non è un guaio», «Certo che non è un guaio» gli risposi, «al contrario». La comparsa degli uomini non produsse alcuna impressione. Esse continuarono a ridere e a chiacchierare fra loro. Neanche una che s'affrettasse a coprirsi con la sua càdra, neanche una che smettesse di spogliarsi. Sembrava che fossi invisibile. Molte di loro erano effettivamente bellissime e confermavano l'immaginazione di T. Moore:

... a lovely Georgian maid,

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With all the bloom, the freschen'd glow

Of her own country maiden's looks,

When warm they rise from Teflis' brooks.

Lalla Rookh

In compenso non conosco nulla di più repellente delle vecchie georgiane: sono streghe.

Il persiano m'introdusse nei bagni: l'acqua sorgiva bollente, ferroso-sulfurea, si versava in una profonda vasca, intagliata nella roccia. Da che son nato non ho mai trovato, né in Russia né in Turchia, niente di più lussuoso dei bagni di Tiflìs. Ne darò una descrizione dettagliata.

Il padrone mi affidò alle cure di un inserviente tartaro. Devo confessare che non aveva il naso; questo non gli impediva di essere un maestro nel suo mestiere. Hassan (così si chiamava il tartaro senza naso) cominciò col farmi distendere sul tiepido pavimento di pietra; dopo di che prese a torcermi le membra, a tirarmi le articolazioni, a battermi forte col pugno; non provavo il minimo dolore, ma anzi un incredibile sollievo. (Gli inservienti asiatici qualche volta si lasciano prendere dall'entusiasmo, vi saltano sulle spalle, vi scivolano coi piedi lungo le costole e vi ballano sulla schiena alla russa, e sempre bene). Dopo di che mi strofinò a lungo con un guanto di lana e, dopo avermi versato addosso un forte getto d'acqua calda, cominciò a lavarmi con un sacchetto di tela insaponata. Sensazione indefinibile: il sapone scorrendo vi avvolge come aria! (N.B.: il guanto di lana e il sacchetto di tela devono essere assolutamente introdotti nei bagni russi: gli intenditori saranno grati di quest'innovazione). Dopo il sacchetto Hassan mi fece immergere nella vasca, e con questo ebbe termine la cerimonia.

A Tiflìs speravo di trovare Raévskij, ma, saputo che il suo reggimento si era già messo in marcia, decisi di chiedere al conte

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Paskéviè il permesso di raggiungere l'armata.

Mi trattenni a Tiflìs circa due settimane e feci conoscenza della società locale. Sankóvskij, l'editore delle «Notizie di Tiflìs», ebbe modo di raccontarmi molte cose interessanti su questa regione, sul principe Ciciànov, su A.P. Ermólov, e così via. Sankóvskij ama la Georgia e prevede per lei un brillante avvenire.

La Georgia invocò la protezione della Russia nel 1783, cosa che non impedì al famoso Aga-Mohamed di prendere e saccheggiare Tiflìs e di portarne via prigionieri i suoi ventimila abitanti (nel 1795). La Georgia passò sotto lo scettro dell'imperatore Alessandro nel 1802. I georgiani sono un popolo guerriero. Hanno dato prova del loro coraggio sotto i nostri vessilli. Le loro capacità intellettuali sono in attesa di una maggiore istruzione. In genere hanno un carattere allegro e socievole. Durante le feste gli uomini bevono e si divertono per le strade. I ragazzi dagli occhi neri cantano, spiccano salti e fanno capriole; le donne danzano la lezgìnka.

La melodia delle canzoni georgiane è piacevole. Me ne hanno tradotta una parola per parola; sembra che sia stata composta in tempi molto recenti; in essa è una certa assurdità orientale, che ha una sua dignità poetica. Eccola:

Anima, da poco nata in paradiso! Anima, creata per

la mia felicità! da te, immortale, aspetto la vita.

Da te, primavera in fiore, da te, luna di due settimane,

da te, angelo mio custode, da te aspetto la vita.

Tu risplendi nel viso e rallegri col sorriso. Non voglio

possedere il mondo; voglio il tuo sguardo. Da te aspetto la vita.

Rosa di montagna, rinfrescata di rugiada! Eletta favorita

della natura! Quieto, celato tesoro! da te aspetto la vita.

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I georgiani bevono - e non come noi, ma sono incredibilmente resistenti. I loro vini non sopportano l'esportazione e si guastano presto, ma sul posto sono eccellenti. Il vino di Kachétija e quello di Karabàch valgono quanto alcuni della Borgogna. Il vino viene conservato nei maràn, enormi anfore che si tengono sottoterra. Vengono aperte con riti solenni. Di recente un dragone russo, dopo aver dissotterrato di nascosto una di queste anfore, vi era caduto dentro ed era annegato nel vino di Kachétija, come l'infelice Clarence in una botte di malaga.

Tiflìs si trova sulle rive del Kurà, in una valle circondata da montagne rocciose. Esse la riparano da ogni parte dai venti e, arroventandosi al sole, non riscaldano, ma rendono addirittura bollente l'aria immobile. Ecco la ragione delle insopportabili calure che regnano a Tiflìs, nonostante che la città si trovi solo al 41o di latitudine. Il suo stesso nome (Tbilìs-kalar) significa città calda.

Gran parte della città è costruita all'asiatica: le case sono basse, i tetti piatti. Nella parte settentrionale sorgono abitazioni di architettura europea, e nei loro pressi cominciano a formarsi piazze regolari. Il bazar è suddiviso in varie file; le botteghe abbondano di mercanzie turche e persiane, abbastanza a buon prezzo se si tiene conto del carovita generale. Le armi di Tiflìs sono molto stimate in tutto l'Oriente. Il conte Samójlov e V., che qui si conquistarono fama di eroi leggendari, di solito provavano le loro sciabole nuove trinciando d'un colpo un montone in due parti, o staccando la testa a un toro.

A Tiflìs la maggioranza della popolazione è costituita dagli armeni: nel 1825 ve ne erano circa 2500 famiglie. Nel corso delle ultime guerre il loro numero è ancora aumentato. Di famiglie georgiane se ne contano all'incirca 1500. I russi non si considerano abitanti del luogo. I militari, rispettando il dovere, vivono in Georgia perché così è stato loro ordinato. I giovani consiglieri titolari vengono qui per acquistarsi il grado tanto bramato di

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assessore. Questi e quelli considerano la Georgia come un esilio.

Il clima di Tiflìs, dicono, è malsano. Le febbri di qui sono terribili; vengono curate col mercurio, il cui uso è innocuo per via del caldo. I medici lo somministrano in forti dosi ai pazienti senza alcuno scrupolo. Il generale Šipjàgin dicono sia morto perché il suo medico curante, venuto con lui da Pietroburgo, aveva avuto paura del trattamento praticato dai dottori locali, e non l'aveva applicato al malato. Le febbri di qui assomigliano a quelle della Crimea e della Moldavia, e si curano allo stesso modo.

Gli abitanti bevono l'acqua del Kurà, torbida ma piacevole al gusto. In tutte le sorgenti e in tutti i pozzi l'acqua sa molto di zolfo. Comunque l'uso del vino qui è talmente generalizzato che la mancanza d'acqua passerebbe inosservata.

A Tiflìs mi ha sorpreso lo scarso valore del denaro. Dopo aver percorso con il vetturino due strade e averlo rimandato indietro nel giro di mezz'ora, dovetti pagare due rubli in argento. Sulle prime pensai che il vetturino volesse sfruttare l'ignoranza di un nuovo venuto, ma mi dissero che il prezzo era proprio quello. Tutto il resto è caro in proporzione.

Andammo alla colonia tedesca e vi pranzammo. Bevemmo della birra fatta sul posto, di gusto pessimo, e pagammo molto caro un pranzo molto cattivo. Nella mia locanda mi davano da mangiare altrettanto a caro prezzo e male. Il generale Strekàlov, noto gastronomo, un giorno m'invitò a pranzo; disgraziatamente le pietanze venivano servite a seconda del grado, e a tavola c'erano degli ufficiali inglesi con spalline da generali. I servi saltavano il mio turno con tanto zelo che mi alzai da tavola affamato. Al diavolo il gastronomo di Tiflìs!

Aspettavo con impazienza che si decidesse la mia sorte. Finalmente ricevetti un biglietto da Raévskij. Mi scriveva di affrettarmi a Kars, perché di lì a pochi giorni l'esercito avrebbe dovuto rimettersi in marcia. Partii l'indomani stesso.

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Andavo a cavallo, cambiando cavalcatura nei posti di guardia cosacchi. Intorno a me la terra era screpolata dall'arsura. I villaggi georgiani da lontano mi sembravano bellissimi giardini, ma quando mi avvicinavo ad essi vedevo misere capanne, ombreggiate da pioppi polverosi. Il sole era tramontato, ma l'aria continuava a essere soffocante:

Notti torride!

Estranee stelle!...

La luna splendeva; tutto era quieto; solo lo scalpitio del mio cavallo si diffondeva nel silenzio della notte. Cavalcai a lungo, senza incontrare tracce di abitazioni. Finalmente scorsi una capanna isolata. Mi misi a bussare alla porta. Uscì il padrone. Chiesi dell'acqua prima in russo, poi in tartaro. Lui non mi capì. Che stupefacente noncuranza! a trenta verste da Tiflìs e sulla strada che va in Persia e in Turchia, non sapeva una parola né di russo, né di tartaro.

Dopo aver trascorso la notte nel posto di guardia cosacco, all'alba proseguii. La strada passava per i monti e i boschi. Incontrai dei tartari in viaggio; in mezzo a loro c'erano diverse donne. Stavano a cavallo, avvolte nelle càdre; di loro non si vedevano che gli occhi e i tacchi.

Cominciai a salire sul Bezobdàl, il monte che separa la Georgia dall'antica Armenia. Una strada larga, ombreggiata dagli alberi, serpeggia intorno alla montagna. Sulla cima del Bezobdàl passai attraverso una piccola gola, che si chiama, mi pare, la Porta dei Lupi, e mi ritrovai sul confine naturale della Georgia. Mi si presentarono nuovi monti, un nuovo orizzonte; sotto di me si stendevano fertili campi verdi. Diedi ancora una volta uno sguardo alla Georgia riarsa e cominciai a scendere per il dolce pendio del monte verso le fresche pianure dell'Armenia. Con indescrivibile piacere notai che l'afa era improvvisamente diminuita: il clima era cambiato.

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L'uomo che mi accompagnava con i cavalli da soma era rimasto indietro. Cavalcavo da solo in un deserto fiorito, circondato in lontananza dalle montagne. Nella distrazione oltrepassai il posto di guardia dove avrei dovuto cambiare i cavalli. Passarono più di sei ore, e io cominciai a meravigliarmi della lunghezza della tappa. Scorsi da una parte mucchi di pietre simili a capanne, e mi diressi verso di esse. Ero effettivamente arrivato in un villaggio armeno. Alcune donne in stracci variopinti sedevano sul tetto piatto di una capanna sotterranea. Mi feci capire in qualche modo. Una di loro scese nella capanna e mi portò del formaggio e del latte. Dopo essermi riposato qualche minuto ripartii, e sulla riva alta del fiume vidi avanti a me la fortezza di Gergéry. Tre torrenti con fragore e schiuma si precipitavano dall'alto della riva. Attraversai il fiume. Due buoi aggiogati a un carro salivano lungo la strada ripida. Diversi georgiani accompagnavano il carro. «Di dove siete?», chiesi loro. «Di Teheran». - «E che cosa trasportate?». «Griboéd». Era il corpo di Griboédov assassinato, che veniva scortato a Tiflìs.

Non pensavo che avrei più rincontrato un giorno il nostro Griboédov! Ci eravamo lasciati l'anno prima, a Pietroburgo, prima della sua partenza per la Persia. Era triste e aveva strani presentimenti. Avevo cercato di tranquillizzarlo; mi aveva detto: «Vous ne connaissez pas ces gens-là: vous verrez qu'il faudra jouer des couteaux». Supponeva che la morte dello scià e la guerra intestina fra i suoi settanta figli sarebbe stata causa di uno spargimento di sangue. Invece il vecchissimo scià è ancora vivo, ma le parole profetiche di Griboédov si sono avverate. È finito sotto i pugnali dei persiani, vittima dell'ignoranza e della slealtà. Il suo cadavere sfigurato, offerto per tre giorni al ludibrio della plebaglia di Teheran, è stato riconosciuto solo per via di una mano, una volta attraversata da un colpo di pistola.

Conobbi Griboédov nel 1817. Il suo carattere malinconico, la sua intelligenza esacerbata, la sua bontà d'animo, le stesse debolezze e i vizi, inevitabili compagni dell'essere umano, tutto in lui era

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straordinariamente affascinante. Nato con un'ambizione pari alle sue doti, era stato a lungo irretito da meschine necessità e dalla mancanza di notorietà. Le qualità dell'uomo di stato erano rimaste non sfruttate; il suo talento di poeta non era stato riconosciuto; per qualche tempo perfino il suo freddo e brillante coraggio erano stati messi in dubbio. Alcuni amici ne conoscevano il valore e vedevano un sorriso d'incredulità, quel sorriso stupido, insopportabile, quando accadeva loro di parlare di lui come di un uomo straordinario. Le persone credono solo alla fama, e non capiscono che in mezzo a loro può trovarsi un Napoleone che non ha comandato neppure una compagnia di cacciatori a cavallo, o un altro Descartes che non abbia pubblicato neppure una riga sul «Telegrafo di Mosca». Del resto può essere che il nostro rispetto per la gloria derivi dall'amor proprio: nel complesso della gloria, infatti, entra anche la nostra voce.

La vita di Griboédov fu oscurata da qualche nube: conseguenza di ardenti passioni e di circostanze di forza maggiore. Egli avvertì la necessità di saldare una volta per sempre il conto con la sua giovinezza e di dare una brusca svolta alla sua vita. Diede addio a Pietroburgo e alla vana dissipatezza, partì per la Georgia, dove trascorse otto anni in studi solitari, incessanti. Il suo ritorno a Mosca nel 1824 segnò il capovolgimento della sua sorte e l'inizio di ininterrotti successi. Il manoscritto della sua commedia Che disgrazia l'ingegno produsse un effetto indescrivibile e improvvisamente lo mise a fianco dei nostri primi poeti. Qualche tempo dopo, la perfetta conoscenza della regione in cui era cominciata la guerra gli aprì un nuovo campo; fu nominato ambasciatore. Arrivato in Georgia, sposò colei che amava... Non conosco nulla di più invidiabile degli ultimi anni della sua vita burrascosa... La morte stessa, che lo ha colpito nel corso di un intrepido, impari combattimento, non ha avuto per Griboédov niente di terribile, niente di penoso. È stata istantanea e bellissima.

Peccato che Griboédov non abbia lasciato memorie! Scrivere la

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sua biografia sarebbe compito degli amici, ma le persone straordinarie da noi scompaiono senza lasciare traccia. Siamo pigri e manchiamo di curiosità...

A Gergéry incontrai Buturlìn, che, come me, stava recandosi al fronte. Buturlìn viaggiava concedendosi tutti i capricci possibili. Pranzai da lui come se fossimo stati a Pietroburgo. Stabilimmo di viaggiare insieme; ma il demone dell'impazienza s'impadronì nuovamente di me. Il mio servitore mi chiese il permesso di riposare. Partii da solo, senza neppure una guida. La strada era una sola e perfettamente sicura.

Valicata una montagna e sceso in una valle ombreggiata da alberi, vidi una sorgente d'acqua minerale, che scorreva attraverso la strada. Qui incontrai un prete armeno, che andava da Erivàn ad Achalcýk. «Che c'è di nuovo a Erivàn?», gli chiesi. «A Erivàn c'è la peste», mi rispose; «e che si dice di Achalcýk?». «Ad Achalcýk c'è la peste», gli risposi. Dopo esserci scambiati queste piacevoli notizie ci separammo.

Cavalcavo in mezzo a fertili campi e praterie in fiore. La messe ondeggiava, in attesa della falce. Ammiravo la bellissima terra, della quale la fertilità è diventata proverbiale in oriente. Verso sera arrivai a Perniké. Qui c'era un posto di guardia cosacco. Il sottufficiale mi predisse una tempesta e mi consigliò di fermarmi a pernottare lì, ma io volevo a tutti i costi raggiungere Gùmry in giornata.

Mi si prospettava il valico di montagne non molto alte, la frontiera naturale del Pasalýk di Kars. Il cielo era coperto di nubi; speravo che il vento, che si andava sempre più rafforzando, le avrebbe disperse. Ma la pioggia cominciò a picchiettare, e venne giù sempre più grossa e più fitta. Da Perniké a Gùmry si contano ventisette verste. Mi serrai le cinghie del mantello, sollevai il cappuccio sul berretto e mi affidai alla provvidenza.

Trascorsero più di due ore. La pioggia non finiva. L'acqua colava

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a ruscelli giù dal mio mantello appesantito e dal cappuccio inzuppato di pioggia. Alla fine un rivolo freddo cominciò a insinuarsi dentro il bavero, e presto la pioggia mi penetrò fino alle ossa. La notte era buia; un cosacco mi precedeva indicandomi la strada. Cominciammo a salire sulle montagne. Nel frattempo la pioggia cessò e le nuvole si diradarono. A Gùmry mancavano una decina di verste. Il vento, soffiando in libertà, era tanto forte che in un quarto d'ora mi asciugò completamente. Pensavo che non avrei scampato una bella febbre. Finalmente raggiunsi Gùmry intorno a mezzanotte. Il cosacco mi condusse direttamente al posto di guardia. Ci fermammo presso una tenda nella quale mi affrettai a entrare. Vi trovai dodici cosacchi, che dormivano uno vicino all'altro. Mi fecero posto; mi buttai sul mantello come privo di sensi dalla stanchezza. Quel giorno avevo percorso settantacinque verste. Mi addormentai come morto.

I cosacchi mi svegliarono all'alba. Il mio primo pensiero fu: non avrò per caso la febbre? Ma sentii che grazie a Dio ero sano e salvo; non c'era in me nessuna traccia non solo di malattia, ma neppure di stanchezza. Uscii dalla tenda all'aria fresca del mattino. Il sole stava sorgendo. Sul cielo sereno biancheggiava, innevata, una montagna a due cime. «Che montagna è quella?», domandai, stiracchiandomi, e udii in risposta: «È l'Araràt». Com'è forte l'effetto dei suoni! Guardavo la montagna biblica, vedevo l'arca approdata alla sua vetta con una speranza di rinnovamento e di vita - e il corvo e la colomba volarne fuori, simboli del castigo e della riconciliazione...

Il mio cavallo era pronto. Mi misi in viaggio con una guida. La mattinata era bellissima. Il sole splendeva. Cavalcavamo per una vasta prateria, sopra l'erba folta e verde, bagnata dalla rugiada e dalle gocce di pioggia del giorno prima. Davanti a noi brillava un fiumicello, attraverso il quale dovevamo passare. «Ecco l'Arpaèàj», mi disse il cosacco. L'Arpaèàj! Il nostro confine! Questo valeva l'Araràt. Galoppai verso il fiume con un sentimento

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inesprimibile. Non avevo mai visto una terra straniera. La frontiera aveva per me qualcosa di misterioso; fin dagli anni d'infanzia i viaggi erano stati il mio sogno preferito. A lungo poi avevo condotto una vita nomade, errando ora al sud, ora al nord, e non mi ero ancora arrischiato fuori dai confini dell'immensa Russia. Entrai allegramente nel fiume sacro, e il buon cavallo mi portò sulla riva turca. Ma quella riva era stata già conquistata: mi trovavo ancora in Russia.

Fino a Kars mi restavano ancora settantacinque verste. In serata speravo di avvistare il nostro accampamento. Non mi fermai da nessuna parte. A metà strada, in un villaggio armeno costruito sui monti in riva a un fiumicello, al posto del pranzo mangiai il maledetto cùrek, il pane armeno cotto a forma di focaccia, fatto per metà di cenere, che ispirava tanta nostalgia ai prigionieri turchi nella gola di Dariàl. Avrei dato chissà che per un pezzo di pane nero russo, che riusciva loro tanto sgradito. Mi accompagnava un giovane turco, un tremendo chiacchierone. Per tutta la strada chiacchierò in turco, senza preoccuparsi se lo capissi o meno. Facevo uno sforzo d'attenzione e tentavo d'indovinare. Sembrava che insultasse i russi e, abituato a vederli tutti in uniforme, dal vestito mi aveva preso per uno straniero. Quand'ecco venirci incontro un ufficiale russo. Veniva dal nostro accampamento e mi annunciò che l'esercito aveva già lasciato Kars. Non posso descrivere la mia disperazione: il pensiero che sarei dovuto tornare a Tiflìs, dopo essermi stremato inutilmente nell'Armenia deserta, mi atterriva. L'ufficiale ripartì per la sua meta; il turco riprese il suo monologo, ma ormai avevo altro per la testa. Passai dall'ambio al gran trotto e la sera arrivai in un villaggio turco che si trovava a venti verste da Kars. Saltato giù da cavallo, feci per entrare nella prima capanna, ma sulla porta apparve il padrone che mi ricacciò indietro con insulti. Risposi alla sua accoglienza con lo scudiscio. Il turco si mise a strillare; si raccolse gente. La mia guida a quanto pare interferì a mio favore. Mi fu indicato il caravanserraglio; entrai in una grande capanna simile a una stalla; non c'era posto

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dove potessi stendere il mantello. Cominciai a pretendere un cavallo. Mi si presentò il capovillaggio turco. A tutti i suoi discorsi incomprensibili rispondevo una cosa sola: verbana at, dammi un cavallo. I turchi non acconsentivano. Finalmente ebbi l'intuizione di mostrare loro del denaro (cosa dalla quale avrei dovuto incominciare). Mi fu immediatamente portato il cavallo, e mi fu data una guida.

Andai per un'ampia valle, circondata da montagne. Presto vidi Kars, che biancheggiava su una di esse. Il mio turco me la indicava ripetendo: Kars, Kars! e spronò al galoppo il suo cavallo; io lo seguivo, tormentato dall'inquietudine: a Kars si sarebbe dovuta decidere la mia sorte. Lì avrei appreso dove si trovava il nostro accampamento e se avrei avuto ancora la possibilità di raggiungere l'esercito. Nel frattempo il cielo si coprì di nuvole e riprese a piovere, ma io non me ne curavo più.

Entrammo a Kars. Avvicinandomi alla porta delle mura sentii un tamburo russo: battevano la diana. La sentinella mi prese il salvacondotto e si recò dal comandante. Rimasi sotto la pioggia circa mezz'ora. Alla fine mi lasciarono passare. Ordinai alla guida di condurmi direttamente ai bagni. Andammo per strade tortuose e ripide; i cavalli scivolavano sul pessimo selciato turco. Ci fermammo davanti a una casa, piuttosto malconcia a vedersi. Erano i bagni. Il turco scese da cavallo e si mise a bussare alla porta. Nessuno rispondeva. La pioggia mi si rovesciava addosso a dirotto. Finalmente da una casa accanto uscì un giovane armeno e, dopo aver trattato col mio turco, m'invitò a entrare da lui, spiegandosi in un russo abbastanza corretto. Mi condusse per una scala stretta nel secondo corpo della sua casa. In una stanza arredata da divani bassi e da logori tappeti sedeva una vecchia, sua madre. Ella mi si avvicinò e mi baciò la mano. Il figlio le ordinò di attizzare il fuoco e di prepararmi la cena. Io mi spogliai e mi sedetti davanti al fuoco. Entrò il fratello minore del padrone, un ragazzo sui diciassette anni. Entrambi i fratelli erano stati a Tiflìs e

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vi avevano vissuto qualche mese. Mi dissero che le nostre truppe s'erano messe in marcia il giorno prima e che il nostro accampamento si trovava a venticinque verste da Kars. Mi tranquillizzai completamente. La vecchia mi preparò in fretta del montone con la cipolla, che mi parve il massimo dell'arte culinaria. Ci coricammo tutti nella stessa stanza; io mi stesi davanti al camino che si andava spegnendo e mi addormentai nella piacevole speranza di vedere l'indomani l'accampamento del conte Paskéviè.

Al mattino andai a fare un giro della città. Il più giovane dei miei ospiti si offrì di farmi da cicerone. Osservando le fortificazioni e la cittadella, costruita su una roccia inaccessibile, non capivo in che modo fossimo riusciti a impadronirci di Kars. Il mio armeno mi spiegava come meglio poteva le azioni militari delle quali era stato testimone. Notando in lui una passione per la guerra, gli proposi di entrare nell'esercito con me. Accettò immediatamente. Lo mandai a cercare dei cavalli. Apparve insieme a un ufficiale, che pretese da me una richiesta scritta. A giudicare dai tratti asiatici del suo viso non ritenni necessario mettermi a frugare nelle mie carte e cavai fuori di tasca il primo foglietto che mi capitò. L'ufficiale, dopo averlo esaminato con gravità, ordinò subito di portare a sua eccellenza dei cavalli secondo richiesta e mi restituì la mia carta: era l'epistola a una calmucca, da me abbozzata in una delle stazioni di posta caucasiche. Mezz'ora dopo partii da Kars e Artémij (così si chiamava il mio armeno) già galoppava accanto a me su uno stallone turco con un giavellotto flessibile in mano, il pugnale alla cintura, e farneticando di turchi e di battaglie.

Cavalcavo su una terra tutta coltivata a grano; intorno si vedevano villaggi, ma erano vuoti: gli abitanti erano fuggiti. La strada era bellissima e lastricata nei punti paludosi - attraverso i ruscelli erano stati gettati dei ponti di pietra. Il terreno si alzava visibilmente - le prime colline della catena del Sagan-lu (l'antico Tauro) cominciavano ad apparire. Trascorsero circa due ore; salii su un dolce pendio e vidi improvvisamente il nostro

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accampamento, situato sulla riva del Kars-èaj; qualche minuto dopo ero già nella tenda di Raévskij.

III

Passaggio del Sagan-lu - Scontro a fuoco - Vita d'accampamento - Gli jazìdi - Combattimento col seraskìr di Arzrùm - La capanna saltata in aria.

Arrivai in tempo. Quel giorno stesso (il 13 giugno) l'esercito aveva ricevuto l'ordine di andare avanti. A pranzo da Raévskij avevo sentito i giovani generali discutere dei movimenti loro assegnati. Il generale Burcóv era stato distaccato a sinistra, lungo la strada maestra per Arzrùm, direttamente contro l'accampamento turco, mentre tutto il resto dell'esercito doveva andare dal lato destro per aggirare il nemico.

Alle cinque l'esercito si mise in marcia. Io seguivo il reggimento dragoni di Nìžnij-Nòvgorod, chiacchierando con Raévskij, che non vedevo ormai da diversi anni. Sopraggiunse la notte; ci fermammo in una valle, dove tutto l'esercito faceva sosta. Qui ebbi l'onore di essere presentato al conte Paskéviè.

Trovai il conte davanti al fuoco del bivacco, circondato dal suo stato maggiore. Era allegro e mi ricevette affettuosamente. Estraneo all'arte militare, non sospettavo che la sorte della campagna si stesse decidendo in quel momento. Qui vidi il nostro Vol'chóvskij, impolverato da capo a piedi, con la barba incolta, spossato dalle preoccupazioni. Trovò comunque il tempo di conversare un po' con me da vecchio compagno. Vidi lì anche Michaìl Pùšèin, ferito l'anno prima. È amato e rispettato in quanto ottimo amico e valoroso soldato. Molti dei miei vecchi amici mi stavano intorno. Com'erano cambiati! come passa in fretta il tempo!

Eheu! fugaces, Postume, Postume,

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Labuntur anni...

Tornai da Raévskij e pernottai nella sua tenda. Nel mezzo della notte fui destato da grida terribili: si poteva pensare che il nemico ci avesse assalito di sorpresa. Raévskij mandò a indagare sulla ragione di quel baccano: dei cavalli tartari, strappatisi dalla cavezza, correvano per il campo, e i musulmani (così vengono chiamati i tartari che prestano servizio nel nostro esercito) li stavano catturando.

All'alba l'esercito si mise in marcia. Ci avvicinammo ai monti coperti di boschi. Entrammo in una gola. I dragoni si dicevano fra loro: «Apri gli occhi, amico, che t'acchiappano con la mitraglia quando meno te l'aspetti». Effettivamente la posizione del luogo favoriva le imboscate, ma i turchi, sviati nell'altra direzione dal movimento del generale Burcóv, non approfittarono del loro vantaggio. Attraversammo felicemente la gola pericolosa e ci fermammo sulle alture del Sagan-lu a dieci verste dall'accampamento nemico.

La natura intorno a noi era tetra. L'aria era fredda, i monti coperti di melanconici pini. La neve giaceva nei burroni.

... nec Armeniis in oris,

Amice Valgi, stat glacies iners

Mensis per omnis...

Avevamo appena fatto in tempo a riposare e a pranzare che sentimmo dei colpi di fucile. Raévskij mandò qualcuno in ricognizione. Gli fu riferito che i turchi avevano cominciato a sparare sui nostri picchetti avanzati. Andai insieme con Sémièev ad assistere a uno spettacolo per me nuovo. Incontrammo un cosacco ferito: sedeva, dondolandosi sulla sella, pallido e insanguinato. Due cosacchi lo sostenevano. «Sono molti i turchi?», chiese Sémièev. «Una massa di porci, vostra eccellenza», rispose uno di loro. Passata la gola, a un tratto scorgemmo sul

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pendio della montagna antistante circa duecento cosacchi, in ordine sparso, e al di sopra di loro circa cinquecento turchi. I cosacchi indietreggiavano lentamente; i turchi avanzavano con grande spavalderia, mirando a venti passi di distanza e, dopo aver sparato, si ritiravano al galoppo. I loro alti turbanti, i bei dolman e gli splendidi finimenti dei cavalli facevano brusco contrasto con le uniformi azzurre e la semplice bardatura dei cosacchi. All'incirca quindici dei nostri uomini erano già rimasti feriti. Il tenente colonnello Bàsov aveva mandato a chiedere rinforzi. Nel frattempo fu ferito anche lui a una gamba. I cosacchi erano sul punto di smarrirsi. Ma Bàsov rimontò a cavallo e restò presso il suo reparto. I rinforzi arrivarono a tempo. I turchi, quando se ne accorsero, scomparvero all'istante, lasciando sul monte il cadavere nudo di un cosacco, mutilato della testa e degli arti. I turchi mandano le teste mozzate a Costantinopoli, e imprimono le mani intinte nel sangue sui loro vessilli. I colpi di fucile cessarono. Le aquile, compagne di marcia delle truppe, si librarono sulla montagna spiando dall'alto la preda. In quel momento apparve un gruppo di generali e di ufficiali: il conte Paskéviè arrivò e si diresse sulla montagna dietro la quale si erano nascosti i turchi. Avevano un rinforzo di quattromila cavalieri, nascosti nel vallone e nei dirupi. Dall'alto della montagna si aprì a noi l'accampamento turco, dal quale ci separavano burroni e alture. Tornammo tardi. Percorrendo l'accampamento vidi i nostri feriti, dei quali cinque sarebbero morti la notte stessa e il giorno dopo. Quella sera andai a trovare il giovane Osten-Saken, ferito lo stesso giorno in uno scontro.

La vita di campo mi piaceva molto. Il cannone ci faceva alzare all'alba. Il sonno sotto la tenda è incredibilmente sano. A pranzo, sullo sašlýk asiatico bevevamo birra inglese e champagne ghiacciato nelle nevi del Tauro. La nostra compagnia era varia. Nella tenda del generale Raévskij si radunavano i bey dei reggimenti musulmani, e la conversazione si svolgeva per mezzo dell'interprete. Nel nostro esercito si trovavano anche i popoli

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delle nostre regioni transcaucasiche e gli abitanti delle terre recentemente conquistate. Fra questi osservavo con curiosità gli jazidi, che in Oriente hanno la reputazione di adoratori del diavolo. Circa trecento famiglie abitano ai piedi dell'Araràt. Hanno riconosciuto il dominio del sovrano russo. Il loro capo, alto, un uomo mostruoso in mantello rosso e berretto nero, veniva ogni tanto a porgere il suo saluto al generale Raévskij, comandante di tutta la cavalleria. Cercai di apprendere dallo jazìd la verità sulla loro religione. Alle mie domande rispondeva che le voci secondo le quali gli jazìdi adorano satana sono una favola bell'e buona; che essi credono in un solo dio; che di fatto, secondo la loro legge, maledire il diavolo viene considerato indecente e ignobile, dal momento che lui adesso è in disgrazia; ma col tempo potrebbe essere perdonato, giacché non si possono porre limiti alla misericordia di Allah. Questa spiegazione mi rassicurò. Ero molto contento per gli jazidi che non venerassero satana; e i loro errori mi sembrarono già molto più perdonabili.

Il mio servo si presentò al campo tre giorni dopo di me. Arrivò insieme alle salmerie, che in vista del nemico si erano felicemente riunite alle truppe. (N.B.: durante tutta la campagna neppure un carro del nostro numeroso convoglio fu catturato dal nemico. L'ordine col quale il convoglio seguiva l'esercito era effettivamente sorprendente).

La mattina del 17 giugno udimmo nuovamente una scaramuccia e due ore dopo vedemmo il reggimento di Karabàch tornare con otto bandiere turche: il colonnello Friederichs aveva avuto uno scontro col nemico, che si era trincerato dietro uno sbarramento di pietre, lo aveva snidato e ricacciato indietro; Osman Pascià, che comandava la cavalleria, era riuscito a stento a salvarsi.

Il 18 giugno l'accampamento si spostò in un altro luogo. Il 19, non appena il cannone ci svegliò, tutto nel campo entrò in movimento. I generali presero le loro postazioni. I reggimenti si schieravano; gli ufficiali si disponevano presso i loro plotoni. Restai solo, non

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sapendo da quale parte andare, e lasciai che il cavallo seguisse la volontà di Dio. M'imbattei nel generale Burcóv, che m'invitò al fianco sinistro. Che cos'è il fianco sinistro? - pensai e tirai dritto. Vidi il generale Murav'ëv, intento a disporre i cannoni. Ben presto apparvero i delibasci e si misero a girare nella valle, scambiandosi fucilate con i nostri cosacchi. Nel frattempo un folto gruppo della fanteria nemica avanzava nel vallone. Il generale Murav'ëv ordinò di sparare. La mitraglia colse in pieno la truppa. I turchi sbandarono da una parte e si nascosero dietro un'altura. Vidi il conte Paskéviè, circondato dal suo stato maggiore. I turchi stavano aggirando le nostre truppe, dalle quali li separava un profondo burrone. Il conte mandò Pùšèin a esplorare il burrone. Pùšèin galoppò da quella parte. I turchi lo presero per un attaccante e gli spararono a salva. Tutti si misero a ridere. Il conte ordinò di far avanzare i cannoni e di fare fuoco. Il nemico si sparpagliò per la montagna e per la valle. Sul fianco sinistro, dove Burcóv mi aveva invitato, l'atmosfera si andava riscaldando. Davanti a noi (di fronte al centro) stava arrivando al galoppo la cavalleria turca. Il conte le mandò incontro il generale Raévskij, che spinse all'attacco il suo reggimento di Nìžnij-Nóvgorod. I turchi scomparvero. I nostri tartari circondavano i feriti e li spogliavano velocemente, lasciandoli nudi in mezzo alla campagna. Il generale Raévskij si fermò sul ciglio del burrone. Due squadroni, staccatisi dal reggimento, si spinsero troppo in là nel loro inseguimento; furono tratti d'impaccio dal colonnello Sìmoniè.

Il combattimento si placò; i turchi sotto i nostri occhi si misero a scavare il terreno e ad ammucchiare pietre, fortificandosi secondo la loro abitudine. Li si lasciò in pace. Scendemmo da cavallo e ci mettemmo a mangiare quel che Dio volle. Nel frattempo furono condotti dal conte alcuni prigionieri. Uno di essi era gravemente ferito. Furono interrogati. Verso le sei le truppe ricevettero nuovamente l'ordine di marciare contro il nemico. I turchi s'agitarono dietro ai loro sbarramenti, ci accolsero a colpi di cannone e cominciarono ben presto a ritirarsi. La nostra cavalleria

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era in testa; prendemmo a scendere nel burrone; la terra cedeva e franava sotto gli zoccoli dei cavalli. Da un momento all'altro il mio cavallo avrebbe potuto cadere, e allora il reggimento misto degli ulani mi sarebbe passato sopra. Invece Dio mi aiutò. Non appena imboccammo una strada larga, che serpeggiava fra i monti, tutta la nostra cavalleria si lanciò galoppando a spron battuto. I turchi scappavano; i cosacchi con le nagàjke sferzavano i cannoni abbandonati sulla strada e correvano oltre. I turchi si gettavano nei burroni che erano su entrambi i lati della strada; non sparavano più; almeno, neanche una pallottola mi fischiò agli orecchi. Primi nell'inseguimento erano i nostri reggimenti tartari, i cui cavalli si distinguono per velocità e forza. Il mio cavallo, mordendo i freni, non restava loro indietro; riuscivo a fatica a trattenerlo. Si fermò davanti al cadavere di un giovane turco, che giaceva attraverso la strada. Avrà avuto diciotto anni; il pallido viso verginale non era stato sfigurato. Il turbante gli era rotolato nella polvere; la nuca rasata era stata perforata da una pallottola. Proseguii al passo; presto mi raggiunse Raévskij. Scrisse a matita su un pezzo di carta un rapporto al conte Paskéviè sulla totale disfatta del nemico e andò oltre. Io lo seguivo da lontano. Sopraggiunse la notte. Il mio cavallo stanco perdeva terreno e incespicava a ogni passo. Il conte Paskéviè ordinò di non interrompere l'inseguimento e lo diresse personalmente. Fui sorpassato dai nostri reparti di cavalleria; vidi il colonnello Poljakóv, comandante dell'artiglieria cosacca, che quel giorno aveva avuto un ruolo importante, e insieme con lui arrivai in un villaggio abbandonato, dove si era fermato il conte Paskéviè, che aveva interrotto l'inseguimento perché stava scendendo la notte.

Trovammo il conte sul tetto di una capanna sotterranea davanti al fuoco. Gli venivano condotti i prigionieri. Lui li interrogava. Erano lì anche quasi tutti i comandanti. I cosacchi tenevano per le briglie i loro cavalli. Il fuoco rischiarava un quadro degno di Salvator Rosa, un ruscello mormorava nell'oscurità. In quel momento fu riferito al conte che nel villaggio erano nascoste

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riserve di polvere da sparo, e che c'era da temere un'esplosione. Il conte abbandonò la capanna con tutto il suo seguito. Ci recammo al nostro accampamento, che si trovava già a trenta verste dal luogo in cui avevamo pernottato. La strada era piena di reparti di cavalleria. Avevamo appena fatto in tempo ad arrivare sul posto che all'improvviso il cielo s'illuminò, come per una meteora, e sentimmo una sorda esplosione. La capanna, da noi lasciata un quarto d'ora prima, era saltata in aria: conteneva un deposito di polvere da sparo. Le pietre scagliate in giro schiacciarono diversi cosacchi.

Ecco tutto quello che riuscii a vedere allora. La sera venni a sapere che in quel combattimento era stato sconfitto il seraskìr di Arzrùm, che marciava per ricongiungersi ad Hakki-Pascià, con trentamila uomini. Il seraskìr stava fuggendo ad Arzrùm; le sue truppe, trasferite dall'altra parte del Sagan-lu, erano state disperse, l'artiglieria presa, e Hakki-pascià era rimasto solo nelle nostre mani. Il conte Paskéviè non gli aveva dato il tempo di prendere disposizioni.

IV

La battaglia contro Hakki-pascià - La morte di un bey tartaro - L'ermafrodito - Il pascià prigioniero - L'Araks - Il ponte del pastore - Hassan-Kalé - Una sorgente calda - Marcia su Arzrùm - Trattative - Presa di Arzrùm - Prigionieri turchi - Il derviscio.

Il giorno dopo alle cinque l'accampamento si svegliò e ricevette l'ordine di rimettersi in marcia. Uscito dalla tenda incontrai il conte Paskéviè, che s'era alzato prima di tutti. Mi vide. «Êtes-vous fatigué de la journée d'hier?». «Mais un peu, monsieur le Comte». «J'en suis fâché pour vous, car nous allons faire encore une marche pour joindre le Pacha, et puis il faudra poursuivre l'ennemi encore une trentaine de verstes».

Ci movemmo e verso le otto arrivammo su un'altura dalla quale

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l'accampamento di Hakki-pascià si vedeva come su un palmo di mano. I turchi aprirono da tutte le loro batterie un fuoco inoffensivo. Nel frattempo nel loro accampamento si notava un gran movimento. La stanchezza e il caldo mattutino costrinsero molti di noi a smontare da cavallo e a sdraiarsi sull'erba fresca. Io mi avvolsi le redini attorno alla mano e mi addormentai dolcemente, in attesa dell'ordine di andare avanti. Un quarto d'ora dopo fui svegliato. Tutto era in movimento. Da una parte le colonne si dirigevano verso l'accampamento turco; dall'altra la cavalleria si preparava a inseguire il nemico. All'inizio seguii il reggimento di Nìžnij-Nóvgorod, ma il mio cavallo zoppicava. Restai indietro. Mi passò accanto il reggimento degli ulani. Poi sfrecciò a cavallo Vol'chóvskij con tre cannoni. Mi ritrovai da solo fra le montagne boscose. Per caso mi venne incontro un dragone, annunciandomi che il bosco era pieno di nemici. Tornai indietro. Incontrai il generale Murav'ëv con un reggimento di fanteria. Aveva mandato un distaccamento nel bosco per ripulirlo dal nemico. Avvicinandomi alla valle vidi una scena straordinaria. Sotto un albero era disteso uno dei nostri bey tartari, ferito a morte. Accanto a lui singhiozzava il suo favorito. Un mullah in ginocchio recitava le preghiere. Il bey morente era estremamente tranquillo e guardava fisso il suo giovane amico. Nel vallone erano stati radunati circa cinquecento prigionieri. Diversi turchi feriti mi chiamavano a cenni, prendendomi probabilmente per un medico e chiedendomi un aiuto che io non potevo dar loro. Dal bosco sbucò un turco che si comprimeva la ferita con uno straccio insanguinato. I soldati gli si accostarono con l'intenzione di trapassarlo, magari per un senso di umanità. Ma questo mi rivoltava troppo; intervenni a favore del povero turco e a fatica lo condussi, estenuato e grondante di sangue, al gruppo dei suoi compagni. Presso di loro c'era il colonnello Anrep. Fumava amichevolmente dalle loro pipe, sebbene corresse voce che nel campo turco fosse scoppiata la peste. I prigionieri sedevano chiacchierando tranquillamente fra loro. Erano quasi tutti giovani.

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Dopo esserci riposati ripartimmo. Lungo la strada giacevano cadaveri. A una quindicina di verste trovai il reggimento di Nìžnij-Nóvgorod, che si era fermato in riva a un fiumicello fra le rocce. L'inseguimento si protrasse parecchie ore. Verso sera arrivammo in una valle circondata da una fitta foresta, e finalmente potei concedermi sonno a volontà, dopo aver percorso al galoppo, in quei due giorni, più di ottanta verste.

Il giorno dopo le truppe che inseguivano il nemico ricevettero l'ordine di tornare all'accampamento. Apprendemmo allora che fra i prigionieri si trovava un ermafrodito. Raévskij, su mia richiesta, ordinò di condurlo da noi. Vidi un contadino alto, piuttosto pingue, che aveva un viso da vecchia finlandese col naso all'insù. Lo esaminammo in presenza di un medico. Erat vir, mammosus ut femina, habebat t. non evolutos, p. que parvum et puerilem. Quaerebamus, sit ne exsectus? - Deus, respondit, castravit me. Tale malattia, nota a Ippocrate, stando alla testimonianza dei viaggiatori s'incontra spesso presso i tartari nomadi e i turchi. Choss è il nome turco di questi falsi ermafroditi.

Il nostro esercito s'era fermato nell'accampamento turco preso il giorno prima. La tenda del conte Paskéviè stava accanto al tendone verde di Hakki-pascià, fatto prigioniero dai nostri cosacchi. Andai da lui e lo trovai circondato dai nostri ufficiali. Stava seduto, con le gambe ripiegate sotto di sé, e fumava la pipa. Sembrava sulla quarantina. Gravità e profonda calma erano dipinte sul suo bellissimo viso. Arrendendosi aveva chiesto che gli si desse una tazza di caffè e che gli fossero risparmiati gli interrogatori.

Eravamo accampati in una valle. Le innevate e boscose montagne del Sagan-lu erano ormai dietro di noi. Andammo avanti, senza mai incontrare il nemico. I villaggi erano deserti. I dintorni malinconici. Vedemmo l'Araks, che scorreva rapido fra le sue rive sassose. A quindici verste da Hassan-Kalé si trova un ponte, audacemente costruito ad arte su sette archi irregolari. La leggenda

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attribuisce la sua costruzione a un pastore arricchito, morto da eremita sulla cima di una collina, dove ancor oggi viene indicata la sua tomba, ombreggiata da due pini solitari. Gli abitanti dei dintorni vi affluiscono in pellegrinaggio. Il ponte si chiama Tchaban-Köprii (il ponte del pastore). La strada per Tebrìz vi passa sopra.

A qualche passo dal ponte visitai le oscure rovine di un caravanserraglio. Non vi trovai nessuno, tranne un asino malato, probabilmente abbandonato lì dai paesani in fuga.

La mattina del 24 giugno andammo verso Hassan-Kalé, un'antica fortezza occupata il giorno prima dal principe Bekóviè. Si trovava a quindici verste dal luogo in cui pernottavamo. Le lunghe tappe mi avevano stancato. Speravo di riposare; ma andò diversamente.

Prima che la cavalleria ripartisse, al nostro accampamento si presentarono degli armeni, abitanti delle montagne, chiedendoci protezione contro i turchi, che tre giorni prima avevano loro portato via il bestiame. Il colonnello Anrep, non avendo ben capito che cosa volessero, immaginò che un distaccamento turco si trovasse sulle montagne e, con uno squadrone del reggimento degli ulani, partì al galoppo da quella parte, dopo aver fatto sapere a Raévskij che sulle montagne c'erano tremila turchi. Raévskij si avviò appresso a lui, per dargli man forte in caso di pericolo. Io mi consideravo assegnato al reggimento di Nìžnij-Nóvgorod e con gran dispetto partii al galoppo per liberare gli armeni. Dopo aver percorso una ventina di verste entrammo in un villaggio e io vidi degli ulani rimasti indietro, che in gran fretta, con le sciabole sguainate, inseguivano qualche gallina. Qui uno dei contadini riuscì a spiegare a Raévskij che si trattava di tremila buoi, portati via tre giorni prima dai turchi, e che sarebbe stato assai facile raggiungere in un paio di giorni. Raévskij ordinò agli ulani di smettere d'inseguire le galline e mandò al colonnello Anrep l'ordine di tornare indietro. Invertimmo la marcia e, usciti dai monti, arrivammo sotto Hassan-Kalé. In questo modo avevamo

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allungato la strada di quaranta verste per salvare la vita a qualche gallina armena, cosa che non mi sembrava affatto divertente.

Hassan-Kalé è considerata la chiave di Arzrùm. La città è costruita ai piedi di una roccia, coronata da una fortezza. Vi si trovavano un centinaio di famiglie armene. Il nostro accampamento era situato in una vasta pianura, che si stendeva davanti alla fortezza. Qui visitai una tonda costruzione di pietra, nella quale si trova una sorgente calda ferroso-sulfurea.

La piscina rotonda aveva tre sàžen' di diametro. L'attraversai due volte a nuoto e all'improvviso, sentendomi preso da capogiro e nausea, ebbi appena la forza di issarmi sul bordo di pietra della sorgente. Queste acque sono rinomate in Oriente, ma, non avendo medici come si deve, gli abitanti le usano a casaccio e, probabilmente, senza gran vantaggio.

Sotto le mura di Hassan-Kalé scorre il fiumicello Murc; le sue rive sono costellate di sorgenti ferrugginose, che scaturiscono da sotto le pietre e che defluiscono nel fiume. Non sono gradevoli al gusto come il narzan caucasico, e odorano di rame.

Il 25 giugno, giorno del compleanno dell'imperatore, nel nostro accampamento sotto le mura della fortezza i reggimenti assistettero a un servizio religioso. A pranzo dal conte Paskéviè, quando si bevve alla salute del sovrano, il conte annunciò la marcia su Arzrùm. Alle cinque di sera le truppe già avanzarono.

Il 26 giugno ci fermammo sui monti a cinque verste da Arzrùm. Questi monti si chiamano Ak-dag (montagne bianche); sono di gesso. Una polvere bianca, corrosiva, ci faceva bruciare gli occhi; il loro triste aspetto metteva angoscia. Ci consolavano la vicinanza di Arzrùm e la sicurezza che la campagna volgesse alla fine.

La sera il conte Paskéviè andò a perlustrare la posizione del luogo. I cavalieri turchi, che si erano aggirati tutto il giorno davanti ai nostri picchetti, cominciarono a sparare su di loro. Il conte li minacciò diverse volte con lo scudiscio, senza interrompere la

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discussione col generale Murav'ëv. Alle loro fucilate non si rispondeva.

Intanto ad Arzrùm c'era una gran confusione. Il seraskìr, che si era rifugiato in città dopo la sconfitta, aveva sparso la voce di una totale disfatta dei russi. Dopo di lui alcuni prigionieri rilasciati avevano portato agli abitanti l'appello del conte Paskéviè. I fuggiaschi avevano smascherato la menzogna del seraskìr. Presto appresero del rapido avvicinarsi dei russi. Il popolo cominciò a parlare di resa. Il seraskìr e l'esercito erano intenzionati a difendersi. Scoppiò un tumulto. Alcuni franchi furono uccisi dalla popolazione inferocita.

Nel nostro accampamento (al mattino del 26) si presentarono gli emissari del popolo e del seraskìr; la giornata passò in trattative; alle cinque di sera gli emissari ripartirono per Arzrùm, e con loro il generale principe Bekóviè, che conosceva bene le lingue e i costumi asiatici.

La mattina del giorno dopo il nostro esercito mosse in avanti. Dalla parte orientale di Arzrùm, sull'altura di Top-dag, si trovava una batteria turca. I reggimenti andarono contro di essa, rispondendo al fuoco turco col rullo dei tamburi e la musica. I turchi fuggirono, e Top-dag fu occupata. Arrivai lì col poeta Juzefóviè. Presso la batteria abbandonata trovammo il conte Paskéviè con tutto il suo seguito. Dall'alto della montagna nella vallata si apriva allo sguardo Arzrùm con la sua cittadella, i minareti, i tetti verdi incollati uno sull'altro. Il conte era a cavallo. Davanti a lui per terra erano seduti gli emissari turchi, giunti con le chiavi della città. Ma ad Arzrùm si notava lo scompiglio. All'improvviso sul terrapieno della città balenò il fuoco, si levò il fumo, e delle palle di cannone s'abbatterono su Top-dag. Alcune di esse volarono sopra la testa del conte Paskéviè; «Voyez les Turcs», mi disse, «on ne peut jamais se fier à eux». In quel momento arrivò al galoppo su Top-dag il principe Bekóviè, che si trovava dal giorno prima ad Arzrùm per le trattative. Annunciò che il

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seraskìr e il popolo da un pezzo erano disposti ad arrendersi, ma che un certo numero di arnauti ribelli al comando di Topèi-pascià s'era impadronito delle batterie della città ed era in rivolta. I generali si avvicinarono al conte, chiedendo il permesso di costringere al silenzio le batterie turche. I dignitari di Arzrùm, esposti al fuoco dei loro stessi cannoni, ripeterono la stessa richiesta. Il conte indugiò per un po' di tempo; finalmente diede l'ordine dicendo: «È ora che smettano di fare gli sciocchi». Immediatamente si puntarono i cannoni, si cominciò a sparare, e il fuoco nemico a poco a poco si estinse. I nostri reggimenti entrarono ad Arzrùm e il 27 giugno, anniversario della battaglia di Poltava, alle sei di sera la bandiera russa sventolava sulla cittadella di Arzrùm.

Raévskij andò in città, io mi avviai con lui; facemmo ingresso nella città che presentava un quadro straordinario. I turchi dai loro tetti piatti ci guardavano torvi. Gli armeni si affollavano chiassosi nelle strade strette. I loro ragazzini correvano davanti ai nostri cavalli, facendosi il segno della croce e ripetendo: «Cristiano! Cristiano!...». Ci avvicinammo alla fortezza, dove stava entrando la nostra artiglieria; con estrema sorpresa incontrai lì il mio Artémij, che stava già facendo un giro per la città, nonostante la severa ingiunzione di non allontanarsi dal campo senza un permesso speciale.

Le strade della città sono strette e tortuose. Le case abbastanza alte. Di gente una quantità, le botteghe erano chiuse. Dopo aver trascorso un paio d'ore in città tornai al campo: il seraskìr e quattro pascià fatti prigionieri si trovavano già lì. Uno dei pascià, un vecchietto rinsecchito, terribile faccendone, parlava animatamente ai nostri generali. Vedendomi in frac domandò chi fossi. Pùšèin mi diede il titolo di poeta. Il pascià incrociò le braccia sul petto e s'inchinò a me, dicendo per mezzo dell'interprete: «Benedetta l'ora in cui incontriamo un poeta. Il poeta è fratello del derviscio. Non ha né patria, né beni terreni; e mentre noi, miseri, ci preoccupiamo

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della gloria, del potere, dei tesori, lui sta alla pari con i sovrani della terra e a lui ci s'inchina».

L'omaggio tutto orientale del pascià piacque molto a tutti noi. Andai a dare un'occhiata al seraskìr. Entrando nella sua tenda incontrai il suo paggio preferito, un ragazzo dagli occhi neri sui quattordici anni, in un ricco costume arnauta. Il seraskìr, un vecchio canuto, dall'aspetto molto comune, sedeva in un profondo abbattimento. Intorno a lui c'era la folla dei nostri ufficiali. Uscendo dalla sua tenda vidi un giovane seminudo, in berretto di montone, con un randello in mano e un otre dietro le spalle. Gridava a squarciagola. Mi dissero che era mio fratello, un derviscio, venuto a rendere ossequio ai vincitori. Fu scacciato a fatica.

V

Arzrùm - Il lusso asiatico - Il clima - Il cimitero - Versi satirici - Il palazzo del seraskìr - L'harem di un pascià turco - La peste - La morte di Burcóv - Partenza da Arzrùm - Il viaggio di ritorno - Una rivista russa.

Arzrùm (erroneamente chiamata Arzerùm, Erzrùm, Erzròn) fu fondata intorno al 415, al tempo di Teodosio II, e chiamata Teodosiopoli. Nessun ricordo storico è legato al suo nome. Io sapevo soltanto che qui, stando alla testimonianza di Hadzi-Baba, furono offerti a un ambasciatore persiano, a soddisfazione di non so quale offesa, orecchi di vitello invece che umani.

Arzrùm è considerata la città principale della Turchia asiatica. Vi sono stati contati fino a centomila abitanti, ma pare che questa cifra sia alquanto esagerata. Le sue case sono di pietra, i tetti coperti di zolle erbose, il che conferisce alla città un aspetto oltremodo strano se la si guarda dall'alto.

Il commercio principale via terra fra l'Europa e l'Oriente passa per

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Arzrùm. Ma di mercanzia se ne vende poca; qui non viene tirata fuori, come ha osservato anche Tournefort, che scrive che ad Arzrùm un malato può morire per l'impossibilità di procurarsi un cucchiaio di rabarbaro, mentre se ne trovano sacchi interi in città.

Non conosco un'espressione più insensata delle parole: lusso asiatico. È un modo di dire che probabilmente risale ai tempi delle crociate, quando i poveri cavalieri, lasciando le pareti nude e le sedie di quercia dei loro castelli, videro per la prima volta divani rossi, tappeti variopinti e pugnali con le pietruzze colorate sul manico. Oggi si può dire: miseria asiatica, sporcizia asiatica e così via, ma il lusso, certo, è prerogativa dell'Europa. Ad Arzrùm a nessun prezzo si può comprare quello che troverete in una botteguccia della prima cittadina di provincia del governatorato di Pskov.

Il clima di Arzrùm è rigido. La città è costruita in una conca situata a settemila piedi sul livello del mare. Le montagne che la circondano sono coperte di neve per la maggior parte dell'anno. La terra è priva di boschi, ma fertile. È irrigata da una quantità di sorgenti e percorsa dappertutto da acquedotti. Arzrùm è rinomata per la sua acqua. L'Eufrate scorre a tre verste dalla città. Ma di fontane ce n'è una quantità dappertutto. A ognuna è attaccata con una catena una brocchetta di latta, e i buoni musulmani bevono senza stancarsi di tesserne le lodi. La legna viene fornita dal Sagan-lu.

Nell'arsenale di Arzrùm trovammo una quantità di armi antiche, elmi, corazze, sciabole, che vi si arrugginiscono, probabilmente, dai tempi di Goffredo. Le moschee sono basse e buie. Dietro la città si trova il cimitero. I monumenti funebri consistono di solito in pilastri, sormontati da un turbante di pietra. Le tombe di due o tre pascià si distinguono per una maggior ricercatezza, ma in esse non c'è nulla di elegante: nessun gusto, nessuna idea... Un viaggiatore scrive che fra tutte le città asiatiche solo ad Arzrùm ha trovato un orologio sulla torre, e anche quello era guasto.

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Le innovazioni introdotte dal sultano non sono ancora penetrate ad Arzrùm. L'esercito porta ancora il suo pittoresco costume orientale. Fra Arzrùm e Costantinopoli esiste una rivalità simile a quella fra Kazàn' e Mosca. Ecco l'inizio di un poema satirico, composto dal giannizzero Amin-Oglu.

Stambùl ora i giaurri vanno glorificando,

Ma domani col tallone ferrato,

Come un serpente addormentato la schiacceranno,

Andranno via - e così la lasceranno.

Stambùl prima del disastro s'è addormentata.

Stambùl ha rinnegato il profeta;

In essa la verità dell'antico Oriente

L'Occidente scaltro ha ottenebrato.

Stambùl per le delizie del traviamento

Preghiera e sciabola ha tradito.

Stambùl non conosce più il sudore della guerra

E beve vino nelle ore di preghiera.

In essa s'è spento il puro ardore della fede,

In essa le mogli girano per i cimiteri,

Mandano le vecchie agli incroci delle strade,

Quelle gli uomini negli harem fanno entrare,

Ove dorme l'eunuco che si vende.

Ma non è così Arzrùm la montagnosa,

Dalle molte strade nostra Arzrùm;

Noi non dormiamo nel lusso ignominioso,

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Non attingiamo con la coppa senza posa

Nel vino dissoluzione, fuoco e rumore.

Noi digiuniamo: con un flusso sobrio

Le acque sacre ci dissetano;

In folla intrepida e briosa

I nostri dzighiti alla lotta volano;

I nostri harem sono inaccessibili,

Gli eunuchi severi, incorruttibili

E le mogli mansuete vi dimorano.

Abitavo nel palazzo del seraskìr, nelle stanze in cui si trovava l'harem. Vagavo tutto il giorno per quegli innumerevoli passaggi, di stanza in stanza, di tetto in tetto, di scala in scala. Il palazzo sembrava saccheggiato; il seraskìr, prevedendo di fuggire, aveva portato via tutto quello che aveva potuto. I divani erano stati strappati, i tappeti tolti. Quando passeggiavo per la città i turchi mi chiamavano e mi mostravano la lingua. (Prendono qualsiasi franco per un medico). Questo fatto mi stancò e mancò poco che rispondessi loro allo stesso modo. Trascorrevo le serate con l'intelligente e cortese Suchorùkov; l'affinità delle nostre occupazioni ci avvicinava. Mi parlava dei suoi propositi letterari, delle sue ricerche storiche, da lui un tempo intraprese con tanta applicazione e successo. La limitatezza dei suoi desideri e delle sue esigenze è davvero commovente. Sarebbe un peccato se non si adempissero.

Il palazzo del seraskìr presentava un quadro eternamente animato: là dove il tetro pascià fumava silenziosamente in mezzo alle sue mogli e ai suoi adolescenti svergognati, là il vincitore riceveva i rapporti sulle vittorie dei suoi generali, distribuiva i pascialyk, parlava degli ultimi romanzi. Il pascià di Mus arrivò dal conte Paskéviè a chiedergli di prendere il posto di suo nipote. Girando

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per il palazzo il turco imponente si fermò in una delle stanze, proferì animatamente qualche parola e cadde poi in meditazione: in quella stessa stanza era stato decapitato suo padre per ordine del seraskìr. Ecco delle autentiche impressioni orientali! Il famoso Bej-bulàt, terrore del Caucaso, arrivò ad Arzrùm con due anziani dei villaggi circassi, che si erano ribellati durante le ultime guerre. Pranzarono dal conte Paskéviè. Bej-bulàt è un uomo sui trentacinque anni, piccolo di statura e largo di spalle. Non parla russo o finge di non parlarlo. Il suo arrivo ad Arzrùm mi riempì di gioia: era già per me la garanzia di un passaggio senza pericoli attraverso i monti e la Kabardà.

Osman-pascià, fatto prigioniero presso Arzrùm, e mandato a Tiflìs insieme al seraski`r, aveva chiesto al conte Paskéviè di assicurargli l'incolumità dell'harem che lasciava ad Arzrùm. I primi giorni era stato dimenticato. Un giorno a tavola, parlando della calma della città musulmana, occupata da diecimila soldati, e nella quale neanche un abitante s'era lamentato di aver subito sopraffazioni da parte di un soldato, il conte si era ricordato dell'harem di Osman-pascià e aveva ricordato al signor A. di andare a casa del pascià a chiedere alle sue mogli se fossero contente, e non avessero ricevuto offese. Chiesi il permesso di accompagnare il signor A. Ci avviammo. Il signor A. prese con sé come interprete un ufficiale russo, la cui storia è interessante. A diciotto anni era stato fatto prigioniero dai persiani. Era stato castrato, e aveva servito più di vent'anni come eunuco nell'harem di uno dei figli dello scià. Raccontava della sua disgrazia e del soggiorno in Persia con una semplicità toccante. Dal punto di vista fisiologico le sue indicazioni furono preziose.

Arrivammo alla casa di Osman-pascià; ci introdussero in una stanza aperta, arredata molto bene, addirittura con gusto; sulle finestre colorate erano tratteggiate iscrizioni prese dal Corano. Una di esse mi sembrò molto sofisticata per un harem musulmano: a te si confà legare e sciogliere. Ci fu offerto il caffè in tazzine

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montate in argento. Un vecchio con una rispettabile barba bianca, padre di Osman-pascià, arrivò a nome delle mogli a ringraziare il conte Paskéviè, ma il signor A. disse bruscamente di essere stato invitato a recarsi dalle mogli di Osman-pascià e di volerle vedere, per assicurarsi direttamente da loro che in assenza del consorte fossero soddisfatte di tutto. Il prigioniero persiano aveva appena fatto in tempo a tradurre tutto questo che il vecchio, in segno di indignazione, fece schioccare la lingua e dichiarò che non avrebbe potuto in alcun modo acconsentire alla nostra richiesta e che se il pascià, al suo ritorno, avesse saputo che uomini estranei avevano visto le sue mogli, avrebbe fatto tagliare la testa a lui, vecchio, e a tutti i servi dell'harem. I servitori, fra i quali non c'era neanche un eunuco, confermarono le parole del vecchio; ma il signor A. fu inflessibile. «Voi avete paura del vostro pascià», disse loro, «e io del mio seraskìr, e non oso disobbedire ai suoi ordini». C'era poco da fare. Ci condussero attraverso un giardino, dove zampillavano due esili fontane. Ci avvicinammo a una piccola costruzione in pietra. Il vecchio si piantò fra noi e la porta, l'aprì con cautela, senza togliere la mano dal saliscendi, e scorgemmo una donna, dalla testa alle scarpine gialle tutta coperta di una càdra bianca. Il nostro traduttore le ripeté la domanda: sentimmo il biascicare della vecchia settantenne; il signor A. la interruppe: «Questa è la madre del pascià», disse, «e io sono stato mandato dalle sue mogli, conducetene qui una», e tutti si strabiliarono dell'intuizione dei giaurri: la vecchia uscì e un minuto dopo tornò con una donna, coperta tanto quanto lei, e da sotto il velo risuonò una vocina giovane e piacevole. Ella ringraziò il conte per il suo interessamento nei confronti delle povere vedove e lodò il comportamento dei russi. Il signor A. ebbe l'abilità d'intrattenersi in conversazione con lei. Io nel frattempo, guardandomi attorno, vidi a un tratto proprio sopra la porta una finestrella rotonda e nella finestrella rotonda cinque o sei teste rotonde dai curiosi occhi neri. Stavo per comunicare la mia scoperta al signor A., ma le testoline fecero cenni, ammiccarono, e diversi ditini presero a

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minacciare, per farmi intendere di tacere. Obbedii e non condivisi la mia scoperta. Erano tutte graziose di viso, ma neanche una era una bellezza; quella che parlava sulla porta col signor A. era, probabilmente, la sovrana dell'harem, la tesoriera dei cuori, la rosa d'amore - almeno io così immaginavo.

Finalmente il signor A. pose termine ai suoi interrogatori. La porta si richiuse. I visi alla finestrella scomparvero. Visitammo il giardino e la casa e tornammo molto soddisfatti della nostra ambasceria.

Così avevo visto un harem: pochi europei vi sono riusciti. Eccovi il tema per un romanzo orientale.

La guerra sembrava finita. Mi accingevo a intraprendere il viaggio di ritorno. Il 14 luglio andai in un bagno pubblico, e mi sentii scontento della vita. Maledicevo la sporcizia dei lenzuoli, il cattivo servizio, e così via. Come paragonare i bagni di Arzrùm a quelli di Tiflìs!

Tornando al palazzo appresi da Konovnìcyn, che stava di guardia, che ad Arzrùm era scoppiata la peste. Mi si presentarono immediatamente gli orrori della quarantena, e decisi di lasciare l'esercito quel giorno stesso. L'idea della presenza della peste è molto sgradevole quando non ci si è abituati. Desiderando cancellare quest'impressione andai a fare una passeggiata al bazar. M'ero fermato davanti alla bottega di un armaiolo, e stavo osservando un certo pugnale, quando a un tratto qualcuno mi batté sulla spalla. Mi voltai: dietro di me c'era un mendicante spaventoso. Era pallido come la morte; dagli occhi rossi purulenti gli colavano lacrime. Il pensiero della peste balenò di nuovo nella mia immaginazione. Respinsi il mendicante con un senso di disgusto indicibile e tornai a casa molto scontento della mia passeggiata.

La curiosità tuttavia prevalse; il giorno successivo mi recai con un medico nell'accampamento in cui si trovavano gli appestati. Non

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scesi da cavallo e presi la precauzione di stare sotto vento. Da una tenda venne tirato fuori per noi un malato; era tremendamente pallido e barcollava come un ubriaco. Un altro malato giaceva privo di conoscenza. Dopo aver esaminato l'appestato e aver promesso all'infelice una rapida guarigione, rivolsi l'attenzione ai due turchi che l'avevano portato sottobraccio, spogliato, tastato come se la peste non fosse altro che un raffreddore. Confesso che mi vergognai della mia vigliaccheria europea di fronte a quell'imperturbabilità e tornai al più presto in città.

Il 19 luglio, andato a salutare il conte Paskéviè, lo trovai fortemente addolorato. Aveva ricevuto la triste notizia che il generale Burcóv era stato ucciso a Bajbùrt. Mi dispiaceva per il valoroso Burcóv, ma quest'avvenimento poteva essere funesto anche per tutto il nostro piccolo esercito, che si era addentrato profondamente in terra straniera e che era circondato da popolazioni ostili, pronte a insorgere alla notizia del primo insuccesso. E così, la guerra riprendeva! Il conte mi proponeva di assistere alle ulteriori imprese. Ma io avevo fretta di tornare in Russia... Il conte mi regalò per ricordo una sciabola turca. La conservo in memoria delle mie peregrinazioni al seguito di quel brillante eroe attraverso i deserti conquistati dell'Armenia. Quel giorno stesso lasciai Arzrùm.

Tornai a Tiflìs per la strada che già conoscevo. I luoghi fino a poco tempo prima animati dalla presenza di un'armata di quindicimila uomini, erano silenziosi e malinconici. Attraversai il Sagan-lu e riuscii a riconoscere a stento il luogo in cui era stato posto il nostro accampamento. A Gùmry subii una quarantena di tre giorni. Rividi il Bezobdàl e lasciai gli altopiani della fredda Armenia per la torrida Georgia. A Tiflìs arrivai il primo agosto. Vi rimasi qualche giorno in amabile e allegra compagnia. Passai diverse serate nei giardini ascoltando musica e canzoni georgiane. Quindi ripresi il viaggio. Il valico delle montagne per me fu straordinario, per il fatto che nei pressi di Kobi, di notte, mi

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sorprese una tempesta. La mattina, rasentando il Kazbék, assistetti a uno spettacolo meraviglioso: nuvole bianche, a brandelli, si stendevano oltre la cima della montagna, e un monastero solitario, rischiarato dai raggi del sole, sembrava navigare nell'aria, sostenuto dalle nuvole. Anche il Burrone furioso mi si presentava in tutta la sua grandezza: il dirupo, riempitosi di acque piovane, superava nel suo furore lo stesso Térek, che ruggiva a sua volta minacciosamente. Le rive erano state sconvolte; enormi massi erano stati spostati e ostacolavano il corso delle acque. Numerosi osseti riparavano la strada. Passai felicemente all'altra sponda. Finalmente uscii da una gola stretta nello spazio delle ampie pianure della Grande Kabardà. A Vladikavkàz trovai Dórochov e Pùšèin. Entrambi si stavano recando alle terme a curarsi le ferite riportate nelle ultime campagne. Pùšèin aveva sul tavolo delle riviste russe. Il primo articolo che mi capitò era l'analisi di una delle mie opere. Conteneva ogni sorta d'invettive contro di me e i miei versi. Mi misi a leggerla ad alta voce. Pùšèin mi fermò, pretendendo che leggessi con maggiore arte mimica. Bisogna sapere che l'analisi era ornata dalle solite trovate della nostra critica: era una conversazione fra un sagrestano, una donna che prepara il pane per la comunione e un correttore di bozze che in questa piccola commedia impersonava il Buonsenso. La richiesta di Pùšèin mi parve così divertente che l'irritazione provocatami dalla lettura dell'articolo sparì completamente, e scoppiammo a ridere di tutto cuore.

Questo fu il mio primo saluto d'accoglienza nella cara patria.

STORIA DELLA RIVOLTA DI PUGAÈËV

PREFAZIONE

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Tale frammento storico faceva parte di un lavoro che poi ho abbandonato. Raccoglie tutto quello che è stato reso pubblico dal governo relativamente a Pugaèëv, e quello che mi è sembrato degno di fede presso gli scrittori stranieri che ne hanno parlato. Ho avuto anche l'opportunità di utilizzare alcuni manoscritti, racconti e testimonianze di persone viventi. Il documento del caso Pugaèëv, finora sotto sigillo, si trovava nell'archivio di stato di Pietroburgo insieme ad altri documenti importanti, un tempo segreti di stato, ora trasformati in materiali storici. Sua maestà l'imperatore dopo l'avvento al trono ordinò di sistemarli. Questi tesori furono portati fuori dai sotterranei dove diverse inondazioni li avevano visitati e per poco non li avevano distrutti.

Lo storico futuro, al quale sarà permesso dissigillare il caso Pugaèëv, correggerà e completerà facilmente il mio lavoro, sicuramente imperfetto, ma coscienzioso. Una pagina storica nella quale s'incontrano i nomi di Caterina, di Rumjàncov, dei due Pànin, di Suvòrov, Bìbikov, Mìchel'son, Voltaire e di Deržàvin non deve andar perduta per la posterità.

A. Puškin

2 novembre 1833

Villaggio di Bóldino

I

A me sembra che tutti i progetti e le avventure di questo furfante non riuscirebbe a descriverli come si deve non solo uno storico mediocre, ma neppure il più eccellente; che tutti i suoi intrighi non derivavano dall'ingegno o da strategia militare, ma dall'impudenza, dal caso e da circostanze fortunate. Per cui anche lo stesso Pugaèëv (penso) non sarebbe in grado non solo di raccontarne i particolari, ma neppure di ricordarne la parte premeditata, in quanto essi avvenivano in diversi luoghi contemporaneamente,

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non direttamente per suo esclusivo intervento, ma per la piena libertà e ardimento di molti suoi complici.

Archimandrita Platón Ljubàrskij

Origine dei cosacchi dello Jaìk - Una leggenda poetica - L'editto imperiale - Saccheggi sul Mar Caspio - Stén'ka Ràzin - Neèaj e Šamàj - Progetti di Pietro il Grande - Disordini interni - Fuga della popolazione nomade - Rivolta dei cosacchi dello Jaìk - Loro repressione.

Lo Jaìk, per un decreto di Caterina II ribattezzato Uràl, nasce dalle montagne cui deve il nome attuale; scorre a sud lungo la loro catena fino al punto in cui un tempo fu fondata Orenbùrg e dove adesso si trova la fortezza Orskàja; là, dopo aver diviso il loro crinale roccioso, volta a occidente e, dopo un corso di più di duemilacinquecento verste, si getta nel Mar Caspio. Bagna una parte della Baschiria, costituisce quasi tutto il confine sud-orientale del governatorato di Orenbùrg; a destra lo lambiscono le steppe d'oltre Volga; alla sua sinistra si stendono deserti desolati, in cui conducono vita nomade orde di tribù selvagge, a noi note sotto il nome di kirgìzy-kajsàki. Il suo corso è rapido; le acque torbide sono piene di pesci di ogni specie; le rive per lo più sono argillose, sabbiose e prive di foreste, ma là dove hanno luogo le piene primaverili sono adatte all'allevamento del bestiame. Vicino alla foce il fiume è ricoperto di alti giunchi, nei quali si nascondono cinghiali e tigri.

Su questo fiume nel quindicesimo secolo apparvero i cosacchi del Don, che correvano per il mare di Chvalýn, antico nome del Mar Caspio. Essi svernavano sulle sue rive, a quel tempo ancora coperte di boschi e sicure per il loro isolamento; in primavera ripartivano per il mare, si davano alla pirateria fino ad autunno inoltrato e per l'inverno ritornavano sullo Jaìk. Approssimandosi nei loro spostamenti alle sorgenti, scelsero infine come sede permanente il territorio di Kolovràtnoe, a sessanta verste

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dall'odierna Uràl'sk.

Nelle vicinanze dei nuovi coloni erravano delle stirpi nomadi, tartare, che si erano separate dagli ulus dell'Orda d'Oro e che andavano in cerca di pascoli liberi sulle rive dello stesso Jaìk. Dapprima le due razze erano ostili, ma col trascorrere del tempo entrarono in rapporti amichevoli: i cosacchi cominciarono a prender moglie fra gli ulus tartari. Si è conservata una leggenda poetica: i cosacchi, fortemente attaccati al proprio celibato, avevano stabilito fra loro di uccidere i figli che fossero nati e di abbandonare le mogli all'inizio di ogni nuova campagna. Uno dei loro atamàn, di nome Gùghnja, infranse per primo la legge crudele, avendo avuto pietà della giovane moglie, e i cosacchi, su esempio dell'atamàn, si sottomisero al giogo della vita familiare. Ancora oggi, civilizzati e ospitali, gli abitanti delle rive degli Urali bevono durante i loro banchetti alla salute di nonna Gughnìcha.

Vivendo d'incursioni, circondati da tribù ostili, i cosacchi sentivano la necessità di una forte protezione e durante il regno di Michaìl Feódoroviè mandarono a Mosca una delegazione a pregare il sovrano di prenderli sotto la sua alta protezione. L'insediamento dei cosacchi sullo Jaìk, che non apparteneva a nessuno, poteva sembrare una conquista la cui importanza era evidente. Lo zar fece buona accoglienza ai nuovi sudditi e accordò loro il diritto di vivere sul fiume Jaìk, ratificandone per iscritto il possesso dalla sorgente alla foce e permettendo loro di riunirsi a vivere insieme da uomini liberi.

Il loro numero andava sempre più aumentando. Essi continuavano a scorrazzare per il Mar Caspio, dove si congiungevano ai cosacchi del Don; attaccavano insieme le navi mercantili persiane e saccheggiavano le località marittime. Lo scià se ne lamentò con lo zar. Da Mosca furono inviate sul Don e sullo Jaìk delle lettere di ammonizione.

I cosacchi, sulle barche ancora cariche di bottino, risalirono il Volga fino a Nìžnij-Nóvgorod; da lì si diressero a Mosca e si

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presentarono a corte pentiti, recando ognuno con sé una scure e un ceppo. Fu loro ordinato di andare in Polonia e sotto Riga ad espiare le loro colpe; invece sullo Jaìk furono mandati gli strel'cý, che in seguito costituirono con i cosacchi un'unica stirpe.

Stén'ka Ràzin visitò le colonie dello Jaìk. Secondo la testimonianza degli annali i cosacchi lo accolsero da nemico. Il loro borgo cintato fu preso da quest'audace ribelle, e gli strel'cý che vi si trovavano furono massacrati o annegati.

Una tradizione che concorda con un annalista tartaro fa risalire a quel tempo le spedizioni di due atamàn dello Jaìk: Neèàj e Šamàj. Il primo, reclutata una truppa di volontari, marciò su Chivà, sperando in un ricco bottino. La fortuna lo favoriva. Compiuta la marcia faticosa, i cosacchi raggiunsero Chivà. Il khan con il suo esercito si trovava allora in guerra. Neèàj s'impadronì della città senza incontrare alcun ostacolo, ma indugiò e intraprese tardi il cammino di ritorno. Stracarichi di bottino, i cosacchi furono raggiunti dal khan che stava tornando dalla sua spedizione, e sulla riva del Syr-Dar'jà furono sconfitti e sterminati. Non più di tre fecero ritorno allo Jaìk annunciando la perdita del valoroso Neèàj. Qualche anno dopo un altro atamàn, soprannominato Šamàj, si lanciò sulle sue tracce. Ma fu fatto prigioniero dai calmucchi della steppa, mentre i suoi cosacchi si diressero oltre, smarrirono la strada, non raggiunsero Chivà e arrivarono al mare di Aràl, sul quale furono costretti a trascorrere l'inverno. Li colse la fame. I disgraziati nomadi si uccidevano e si mangiavano l'un l'altro. La maggior parte morì. I rimanenti mandarono infine una delegazione dal khan di Chivà supplicando di accoglierli e di salvarli dalla morte per fame. Gli abitanti di Chivà vennero a prenderli, li raccolsero tutti e li condussero nella loro città come schiavi. Essi scomparvero. Šamàj invece, vari anni dopo, fu restituito dai calmucchi all'armata dello Jaìk, probabilmente per uno scambio. Da allora i cosacchi persero un po' la voglia d'intraprendere spedizioni lontane. Poco a poco si abituarono alla vita familiare e

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civile.

I cosacchi dello Jaìk prestavano obbedientemente servizio su ordine del dicastero di Mosca, ma nel loro paese mantenevano la loro forma originaria di governo. Assoluta parità di diritti; atamàn e anziani, eletti dal popolo, come temporanei esecutori delle decisioni popolari; circoli, o assemblee, dove ogni cosacco poteva intervenire liberamente e in cui tutti gli affari pubblici venivano decisi a maggioranza di voti; nessuna disposizione scritta; in un sacco e giù nell'acqua per tradimento, vigliaccheria, assassinio e furto: tali i tratti principali di questo governo. Alle rudimentali istituzioni che si portavano appresso dal Don, i cosacchi dello Jaìk ne aggiunsero anche altre, locali, relative alla pesca, fonte principale della loro ricchezza, e al diritto di assumere al proprio servizio il numero necessario di cosacchi: istituzioni estremamente complicate e stabilite con la massima precisione.

Pietro il Grande intraprese le prime iniziative per integrare i cosacchi dello Jaìk nel sistema generale dell'amministrazione statale. Nel 1720 l'esercito dello Jaìk fu assegnato alla giurisdizione del collegio di guerra. I cosacchi insorsero, bruciarono il loro borgo con l'intenzione di scappare nelle steppe kirgize, ma furono crudelmente ricondotti all'obbedienza dal colonnello Zachàrov. Egli fece il censimento, decise l'obbligo militare e ne fissò il pagamento. Il sovrano stesso designò l'atamàn dell'esercito.

Durante il regno di Anna Ivànovna e di Elizavéta Petróvna il governo volle mettere in pratica i progetti di Pietro. Ciò fu favorito dai dissidi sorti fra l'atamàn dell'esercito Merkùr'ev e il maggiore dell'esercito Lóginov, che avevano diviso i cosacchi in due partiti: quello dell'atamàn e quello di Lóginov o popolare. Nel 1740 fu deciso di riformare l'ordinamento interno dell'esercito dello Jaìk, e Nepljùev, allora governatore di Orenbùrg, presentò al collegio di guerra un progetto di rinnovamento; la maggior parte delle proposte e delle prescrizioni, però, restò inadempiuta fino

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all'avvento al trono dell'imperatrice Caterina II.

A partire dal 1762 i cosacchi dello Jaìk del partito di Lóginov cominciarono a lamentarsi delle varie vessazioni che avevano subito da parte dei membri della cancelleria, istituita dal governo nell'esercito: le trattenute sul pagamento stabilito, le tasse arbitrarie e la violazione degli antichi diritti e costumi in materia di pesca. I funzionari mandati a esaminarne gli esposti non poterono o non vollero soddisfarli. I cosacchi si sollevarono a più riprese, e i general-maggiori Potàpov e Èérepov (il primo nel 1766, il secondo nel 1767) furono costretti a ricorrere alle forze armate e all'orrore delle esecuzioni. Nel borgo di Jaìk fu istituita una commissione d'inchiesta. Di essa facevano parte i general-maggiori Potàpov, Èérepov, Brìmfel'd, Davýdov e il capitano della guardia Èebyšëv. L'atamàn dell'esercito Andréj Borodìn fu destituito; al suo posto fu eletto Pëtr Tambóvcev; i membri della cancelleria furono condannati a versare all'esercito, oltre al denaro trattenuto, una multa considerevole; ma riuscirono a evitare la condanna. I cosacchi non perdevano la speranza. Tentarono di far pervenire all'imperatore in persona le loro giuste lamentele. Ma gli uomini che avevano mandato segretamente furono arrestati a Pietroburgo su ordine del presidente del collegio di guerra, il conte Èernyšëv, messi in catene e puniti come ribelli. Nel frattempo fu ordinato di equipaggiare diverse centinaia di cosacchi, perché prendessero servizio a Kizljàr. Le autorità locali ne approfittarono anche in questo caso per vendicarsi con nuove vessazioni sul popolo che opponeva resistenza. Si venne a sapere che il governo aveva intenzione di costituire con i cosacchi degli squadroni di ussari, e che era già stato ordinato di radere loro la barba. Il general-maggiore Tràubenberg, mandato a questo scopo nel borgo di Jaìk, si attirò l'indignazione popolare. I cosacchi erano in fermento. Infine, nel 1771, la rivolta si manifestò in tutta la sua violenza.

Un avvenimento non meno importante ne fornì il motivo. Fra il

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Volga e lo Jaìk, per le steppe sconfinate di Ástrachan' e di Saràtov, andavano errando i pacifici calmucchi, che all'inizio del diciottesimo secolo avevano lasciato i confini della Cina per mettersi sotto la protezione dello zar russo. Da allora avevano servito fedelmente la Russia, salvaguardandone i confini meridionali. I commissari di polizia russi, approfittando della loro semplicità e della lontananza dell'amministrazione centrale, cominciarono a opprimerli. Le lamentele di questo popolo pacifico e buono non arrivavano all'autorità suprema: oltrepassato il limite della pazienza, essi decisero di abbandonare la Russia e si misero segretamente in contatto col governo cinese. Non fu difficile per loro, senza destare sospetti, arrivare a tappe fino alla riva stessa dello Jaìk. E a un tratto, con trentamila tende, essi passarono sull'altra riva e cominciarono a trascinarsi per la steppa kirgiza, verso i confini dell'antica patria. Il governo si affrettò a ostacolare la fuga inaspettata. All'esercito dello Jaìk fu ordinato di partire all'inseguimento, ma i cosacchi (a eccezione di un numero molto limitato) non obbedirono e si rifiutarono apertamente di prestare qualunque servizio.

Le autorità locali ricorsero alle misure più severe per mettere fine alla rivolta, ma le punizioni non erano più in grado di placare quegli uomini inferociti. Il 13 gennaio 1771 essi si riunirono sulla piazza, presero le icone dalla chiesa e andarono, sotto la guida del cosacco Kirpìènikov, in casa del capitano della guardia Durnòv, che si trovava nel borgo di Jaìk per degli affari della commissione d'inchiesta. Essi chiedevano la destituzione dei membri della cancelleria e la resa delle trattenute di pagamento. Il general-maggiore Tràubenberg andò loro incontro con l'esercito e i cannoni, ordinando loro di disperdersi, ma né i suoi comandi, né le esortazioni dell'atamàn dell'esercito ottennero alcun effetto. Tràubenberg ordinò di sparare; i cosacchi si gettarono contro i cannoni. Seguì un combattimento; i rivoltosi ebbero la meglio. Tràubenberg scappò e fu ucciso sulla porta di casa, Durnóv ferito in più parti. Tambóvcev fu impiccato, i membri della cancelleria

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messi agli arresti; al loro posto furono designate nuove autorità.

I rivoltosi trionfavano. Essi inviarono una delegazione eletta a Pietroburgo per spiegare e giustificare il sanguinoso evento. Nel frattempo il general-maggiore Fréjman fu inviato da Mosca a reprimere la rivolta con una compagnia di granatieri e di artiglieria. Fréjman in primavera arrivò a Orenbùrg, dove attese l'abbassamento del livello dei fiumi, e, prese con sé due compagnie leggere da campagna e qualche cosacco, si mise in marcia verso il borgo di Jaìk. I rivoltosi, in numero di tremila, gli uscirono incontro a cavallo; i due eserciti si scontrarono a settanta verste dalla città. Il 3 e il 4 giugno avvennero scontri violenti. Fréjman si aprì la strada a colpi di mitraglia. I rivoltosi tornarono al galoppo verso le loro case, presero mogli e bambini, e intrapresero la traversata del fiume Èagàn, con l'intenzione di fuggire verso il mar Caspio. Fréjman, entrato appresso a loro in città, riuscì a trattenere la popolazione con minacce ed esortazioni. I fuggiaschi vennero fatti inseguire, e furono quasi tutti catturati. A Orenbùrg fu istituita una commissione d'inchiesta sotto la presidenza del colonnello Nerònov. Un gran numero di rivoltosi vi fu inviato. Nelle prigioni non c'era più posto. Furono ripartiti nei magazzini del mercato di vendita e di scambio. L'amministrazione cosacca precedente fu abolita. Alla loro testa venne messo il comandante di Jaìk, il tenente colonnello Sìmonov. Nella sua cancelleria si ordinò che presenziassero il maggiore dell'esercito Martem'jàn Borodìn e il maggiore (semplice) Mosto'všèikóv. Gli istigatori della rivolta furono puniti con la frusta; circa centoquaranta persone vennero deportate in Siberia; gli altri furono arruolati come soldati (disertarono tutti), i rimanenti furono graziati e portati a prestar giuramento per la seconda volta. Tali misure severe e necessarie ristabilirono l'ordine apparente, ma la calma dava poco affidamento. «Ne avrete ancora da vedere», dicevano i rivoltosi graziati, «altro che questo colpo daremo a Mosca!». I cosacchi continuavano ad essere divisi in due partiti: il consenziente e il non consenziente (o, come traduceva molto

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esattamente queste parole il collegio di guerra, l'obbediente e il disobbediente). Riunioni segrete si tenevano in locande della steppa e fattorie fuori mano. Tutto preannunciava una nuova rivolta. Mancava un capo. Il capo fu trovato.

II

La comparsa di Pugaèëv - Sua fuga da Kazàn' - Deposizioni di Kožévnikov - I primi successi dell'usurpatore - Tradimento dei cosacchi di Ilék - Presa della fortezza Rassypnàja - Nurali-Khan - Disposizioni di Reinsdorp - Presa della Nižne-Ozërnaja - Presa della Tatìšèeva - Consiglio ad Orenbùrg - Presa della Èernoréèenskaja - Pugaèëv a Sakmàrsk.

In tale periodo di disordini per i cortili cosacchi si aggirava un vagabondo sconosciuto, che si faceva assumere come lavorante ora da un padrone ora da un altro, e che esercitava ogni tipo di mestiere. Era stato testimone della repressione della rivolta e dell'esecuzione degli istigatori, si era ritirato per un certo periodo negli eremi dell'Irgìz; di lì, alla fine del 1772, era stato mandato a comprare del pesce nel borgo di Jaìk, dove si era fermato presso il cosacco Denìs P'jànov. Si faceva notare per l'insolenza dei suoi discorsi, lanciava invettive contro le autorità e incitava i cosacchi a scappare nelle regioni del sultano turco; assicurava che anche i cosacchi del Don non avrebbero tardato a seguirli, che aveva pronti al confine duecentomila rubli e merce per settantamila e che un certo pascià, immediatamente all'arrivo dei cosacchi, avrebbe dovuto dar loro circa cinque milioni; intanto prometteva a ciascuno dodici rubli al mese di stipendio. Raccontava inoltre che sembrava fossero in marcia da Mosca, contro i cosacchi dello Jaìk, due reggimenti, e che intorno a Natale o all'Epifania ci sarebbe stata immancabilmente una rivolta. Qualcuno fra gli obbedienti voleva arrestarlo e denunciarlo come sobillatore alla cancelleria del comandante, ma lui sparì insieme con Denìs P'jànov e non fu catturato che nel villaggio di Malýkovka (oggi Volgsk) su

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indicazione di un contadino, che aveva fatto con lui la stessa strada. Questo vagabondo era Emel'jàn Pugaèëv, cosacco del Don e scismatico, arrivato con un passaporto falso da oltre il confine polacco con l'intenzione di stabilirsi sul fiume Irgìz, fra gli scismatici del luogo. Fu rispedito sotto scorta a Simbìrsk, e di lì a Kazàn'; e poiché tutto quello che riguardava l'esercito dello Jaìk, date le circostanze del momento, poteva sembrare importante, il governatore di Orenbùrg giudicò necessario informarne il collegio di guerra con un rapporto del 18 gennaio 1773.

I rivoltosi non erano rari allora sullo Jaìk, e le autorità di Kazàn' non prestarono grande attenzione al delinquente che era stato loro mandato. Pugaèëv in prigione non veniva trattato più severamente degli altri detenuti. Nel frattempo i suoi complici non dormivano. Un giorno, sotto la scorta di due soldati della guarnigione, andava per la città raccogliendo l'elemosina. Presso la Cancellata del Castello (così si chiamava una delle strade principali di Kazàn') lo attendeva una trojka. Pugaèëv, dopo esservisi avvicinato, respinse all'improvviso uno dei soldati che l'accompagnavano; l'altro aiutò il galeotto a salire in vettura e insieme con lui abbandonò la città al galoppo. Questo avvenne il 19 giugno 1773. Tre giorni dopo a Kazàn' pervenne la decisione del tribunale confermata a Pietroburgo, secondo la quale Pugaèëv veniva condannato alla fustigazione e ai lavori forzati a Pelým.

Pugaèëv riapparve nelle masserie del cosacco a riposo Danìla Šeludjakóv, presso il quale aveva vissuto un tempo come lavorante. Là allora si tenevano le riunioni dei cospiratori.

Prima di tutto si trattò la questione della fuga in Turchia: idea da molto tempo comune a tutti i cosacchi malcontenti. Si sa che durante il regno di Anna Ivànovna, Ignàtij Nekràsov riuscì a realizzarla e a trascinare con sé un gran numero di cosacchi del Don. I loro discendenti vivono ancora adesso nelle regioni turche, conservando in terra straniera la fede, la lingua e i costumi del loro paese d'origine. Nel corso dell'ultima guerra con la Turchia essi si

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batterono ferocemente contro di noi. Una parte di loro si presentò all'imperatore Nicola, che aveva già attraversato il Danubio su una barca dei cosacchi del Zaporóž'e; così, in quanto parte rimanente della Sieè, essi fecero ammenda per le colpe dei loro padri e tornarono sotto il dominio del loro legittimo sovrano. Ma i congiurati dello Jaìk erano troppo legati alle loro ricche rive natie. Piuttosto che fuggire, decisero di fomentare una nuova rivolta. L'usurpazione sembrò loro un pretesto favorevole. A questo scopo serviva soltanto un avventuriero ardito e risoluto, ancora sconosciuto al popolo. La loro scelta cadde su Pugaèëv. Non fu loro difficile persuaderlo. Si misero immediatamente a radunare dei complici.

Il collegio di guerra informò della fuga del forzato di Kazàn' tutti i luoghi in cui si supponeva che egli avrebbe potuto rifugiarsi. Presto il tenente-colonnello Sìmonov venne a sapere che il fuggiasco era stato visto nelle fattorie dei dintorni del borgo di Jaìk. A catturare Pugaèëv furono mandati dei distaccamenti, ma non ebbero successo: Pugaèëv e i suoi complici più importanti erano scampati alle ricerche movendosi da un posto all'altro e accrescendo sempre più la propria banda. Nel frattempo si diffusero strane voci... Molti cosacchi furono messi agli arresti. Fu preso Michaìl Kožévnikov, che, portato alla cancelleria del comandante, sotto tortura si lasciò strappare le seguenti importanti rivelazioni:

All'inizio di settembre egli si trovava nella sua fattoria quando era arrivato da lui Ivàn Zarùbin, il quale gli aveva dichiarato in segreto che un gran personaggio si trovava nella loro regione. Aveva convinto Kožévnikov a nasconderlo nella sua fattoria. Kožévnikov aveva acconsentito. Zarùbin era ripartito e quella notte stessa era tornato prima dell'alba con Timoféj Mjasnikóv e uno sconosciuto, tutti e tre a cavallo. Lo sconosciuto era di media statura, largo di spalle e magro. La sua barba nera cominciava a incanutire. Portava un caftano di pelle di cammello, un berretto

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azzurro calmucco ed era armato di un fucile. Zarùbin e Mjasnikóv andarono in città per darne notizia al popolo, mentre lo sconosciuto rimasto da Kožévnikov gli aveva dichiarato di essere l'imperatore Pietro III, che le voci sulla sua morte erano false, che lui, con l'aiuto di un ufficiale di guardia, era fuggito a Kiev, dove era rimasto nascosto circa un anno; che poi era stato a Costantinopoli e che s'era trovato di nascosto nell'esercito russo durante l'ultima guerra con la Turchia; che di lì era apparso sul Don e poi era stato preso a Carìcyn, ma presto era stato liberato dai fedeli cosacchi; che l'anno prima s'era trovato sull'Irgíz e nel borgo di Jaìk, dov'era stato di nuovo arrestato e ricondotto a Kazàn'; che una sentinella, corrotta per settecento rubli da un mercante sconosciuto, l'aveva liberato un'altra volta; che in seguito s'era avvicinato al borgo di Jaìk, ma, avendo saputo da una donna del rigore con cui esigevano e verificavano i passaporti, aveva preso la strada per Sýzran', dove aveva girovagato per qualche tempo finché Zarùbin e Mjasnikóv erano finalmente andati a prenderlo nella locanda di Talóvin e l'avevano condotto da Kožévnikov. Dopo aver raccontato questa storia assurda, l'impostore aveva cominciato a esporre i suoi progetti. Aveva intenzione di farsi vedere dopo la partenza dell'esercito cosacco per la plàvnja (la pesca autunnale), al fine di evitare una resistenza da parte della guarnigione e un inutile spargimento di sangue. Durante la pesca infatti voleva apparire in mezzo ai cosacchi, legare l'atamàn, marciare direttamente sul borgo di Jaìk, impossessarsene e piazzare degli sbarramenti su tutte le strade, affinché non arrivasse in alcun luogo, prematuramente, notizia di lui. Invece, in caso d'insuccesso, pensava di gettarsi nella Rus', trascinarla tutta al suo seguito, insediare dappertutto nuovi giudici (visto che in quelli attuali, stando alle sue parole, aveva notato molta ingiustizia) e innalzare al trono sua altezza il principe ereditario. Quanto a me, diceva, non desidero più regnare. Pugaèëv era rimasto tre giorni alla fattoria di Kožévnikov; Zarùbin e Mjasnikóv erano venuti a prenderlo e l'avevano condotto a

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Úsichina Róssaš', dove contava di tenersi nascosto fino alla plàvnja. Kožévnikov, Konovàlov e Koèùrov l'avevano scortato.

L'arresto di Kožévnikov e dei cosacchi coinvolti nella sua deposizione affrettò il corso degli avvenimenti. Il 18 settembre Pugaèëv arrivò dall'avamposto di Budórin sotto il borgo di Jaìk con un gruppo di trecento uomini e si fermò a tre verste dalla città, oltre il fiume Èagàn.

Nella città tutto entrò in agitazione. Gli abitanti da poco ricondotti all'ordine cominciarono a passare dalla parte dei nuovi ribelli. Sìmonov mandò contro Pugaèëv cinquecento cosacchi, rinforzati dalla fanteria e da due cannoni, al comando del maggiore Naùmov. Duecento cosacchi, col capitano Krylóv, furono distaccati in avanti. Un cosacco galoppò incontro a loro tenendo al di sopra della testa una lettera dell'usurpatore che incitava alla rivolta. I cosacchi pretesero che la lettera fosse loro letta. Krylóv si oppose. Ne nacque una ribellione, metà del distaccamento passò immediatamente dalla parte dell'usurpatore, e trascinò con sé cinquanta cosacchi fedeli, afferrando per le briglie i loro cavalli. Vedendo il tradimento nel suo reparto Naùmov tornò in città. I cosacchi catturati di forza furono condotti davanti a Pugaèëv, e undici di loro, su suo ordine, vennero impiccati. Queste sue prime vittime erano: i comandanti di compagnie di cento uomini Vìtošnov, Èertorògov, Raìnev e Konovàlov; i comandanti delle compagnie da cinquanta Ružénikov, Tolstòv, Pod'jàèev e Kolpakòv; i soldati semplici Sìdorovkin, Larzjànev e Èukàlin.

Il giorno dopo Pugaèëv si avvicinò alla città, ma alla vista delle truppe che uscivano contro di lui batté in ritirata disseminando la sua banda nella steppa. Sìmonov non lo inseguì, perché non voleva scaglionare i cosacchi temendo il tradimento da parte loro, e non osava allontanare la fanteria dalla città, i cui abitanti erano pronti a insorgere. Di tutto questo egli fece rapporto al governatore di Orenbùrg, il tenente-generale Reinsdorp, chiedendogli delle truppe leggere per inseguire Pugaèëv. Ma le comunicazioni dirette

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con Orenbùrg erano state già interrotte, e il rapporto di Sìmonov non arrivò al governatore che dopo una settimana.

Con la banda rinforzata dai nuovi ribelli Pugaèëv marciò direttamente sul borgo dell'Ilèk e intimò all'atamàn Portnòv che lo capeggiava di venirgli incontro e di unirsi a lui. Egli prometteva ai cosacchi di compensarli con la croce e la barba (i cosacchi dell'Ilèk, come quelli dello Jaìk, erano tutti vecchi credenti,) fiumi, prati, danari, viveri, piombo e polvere da sparo, ed eterna libertà, minacciandoli di vendetta in caso di disobbedienza. Fedele al suo dovere, l'atamàn pensò di opporsi, ma i cosacchi lo legarono e accolsero Pugaèëv col suono delle campane e l'offerta di pane e di sale. Pugaèëv impiccò l'atamàn, festeggiò per tre giorni la vittoria e, presi con sé tutti i cosacchi di Ilèk e i cannoni della città, marciò sulla fortezza Rassypnàja.

Le fortezze costruite in quella regione non erano altro che dei villaggi circondati da una siepe o da uno steccato. Alcuni vecchi soldati e i cosacchi del luogo, sotto la protezione di due o tre cannoni, vi stavano al riparo dalle frecce e dalle lance delle tribù selvagge, disseminate per le steppe del governatorato di Orenbùrg e vicino alle sue frontiere. Il 24 settembre Pugaèëv attaccò Rassypnàja. Anche qui i cosacchi tradirono. La fortezza fu presa. Il comandante, il maggiore Velòvskij, diversi ufficiali e un prete furono impiccati, mentre la compagnia di guarnigione e centocinquanta cosacchi furono associati ai ribelli.

La fama dell'impostore si diffuse rapidamente. Quando era ancora all'avamposto di Budórin, Pugaèëv aveva scritto al khan dei kirgizy-kajsàki, dandosi l'appellativo di sovrano Pietro III, esigendo da lui il figlio in ostaggio e una truppa ausiliaria di cento uomini. Nurali-Khan si era recato al borgo di Jaìk fingendo di negoziare con le autorità, alle quali offriva i suoi servigi. L'avevano ringraziato e gli avevano risposto che speravano di spuntarla coi ribelli senza il suo aiuto. Il khan mandò al governatore di Orenbùrg la lettera tartara dell'impostore con la

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prima notizia della sua comparsa. «Noi, gente che vive nelle steppe», scriveva Nurali al governatore, «non sappiamo chi sia costui, che si aggira lungo le rive: è un truffatore o il vero sovrano? Il nostro inviato è tornato dichiarando che non era riuscito a saperlo, ma che quell'uomo ha la barba bionda». In tutto ciò, approfittando delle circostanze, il khan domandava al governatore la restituzione degli ostaggi, del bestiame sottratto, e la consegna degli schiavi fuggiti dall'orda. Reinsdorp s'era affrettato a rispondere che la morte dell'imperatore Pietro III era nota a tutto il mondo; che lui stesso aveva visto l'imperatore nella bara e aveva baciato la sua mano inerte. Aveva esortato il khan, in caso di fuga dell'impostore nelle steppe kirgize, a consegnarlo al governo, promettendo in cambio la benevolenza dell'imperatrice. Le preghiere del khan furono esaudite. Nel frattempo Nurali entrò in rapporti amichevoli con l'impostore, senza smettere di rassicurare Reinsdorp del suo attaccamento all'imperatrice, e i kirgizi si prepararono a fare incursioni.

Subito dopo il messaggio del khan, a Orenbùrg giunse il rapporto del comandante di Jaìk, mandato attraverso Samàra. Poco dopo arrivò anche il rapporto di Velóvskij sulla presa del borgo di Ilék. Reinsdorp si affrettò a prendere misure per porre termine ai disordini che si annunciavano. Prescrisse al brigadiere barone Bülow di avanzare da Orenbùrg con quattrocento soldati di fanteria e di cavalleria e con sei cannoni da campagna, e di dirigersi verso il borgo di Jaìk raccogliendo lungo la strada uomini degli avamposti e delle fortezze. Al comandante della fortezza Vérchne-Ozërnaja, brigadiere barone Korf, ordinò di marciare quanto più in fretta possibile su Orenbùrg; al tenente-colonnello Sìmonov di mandare il maggiore Naùmov con un distaccamento da campo e con i cosacchi perché si unissero a Bülow; la cancelleria di Stàvropol' fu invitata a mandare a Sìmonov cinquecento calmucchi armati, e i più vicini baschiri e tartari a radunarsi il più in fretta possibile e a recarsi, in numero di mille uomini, incontro a Naùmov. Neppure uno di questi ordini fu

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eseguito. Bülow occupò la fortezza Tatìšèeva e aveva cominciato ad avanzare verso la Ozërnaja, ma, a quindici verste da questa, sentiti nella notte dei colpi di cannone, s'intimorì e si ritirò. Reinsdorp gli ordinò per la seconda volta di affrettarsi a sconfiggere i ribelli; Bülow non obbedì e rimase nella fortezza Tatìšèeva. Korf evitava di partecipare alla campagna adducendo diversi pretesti. Al posto di cinquecento calmucchi armati se ne raccolsero meno di trecento, e anche questi si dispersero per strada. I baschiri e i tartari non obbedirono agli ordini. Il maggiore Naùmov, invece, e l'anziano delle truppe cosacche Borodìn, uscendo dal borgo di Jaìk, seguirono da lontano le tracce di Pugaèëv e il 3 ottobre arrivarono a Orenbùrg, dalla parte della steppa, senza aver visto il nemico.

Dalla Rassypnàja Pugaèëv marciò sulla fortezza Nižne-Ozërnaja. Sulla strada incontrò il capitano Sùrin, mandato in soccorso a Velóvskij dal comandante della Nižne-Ozërnaja, il maggiore Chàrlov. Pugaèëv lo impiccò, e la compagnia passò ai ribelli. Venuto a sapere che Pugaèëv si stava avvicinando, Chàrlov mandò a Tatìšèeva la giovane moglie, figlia del comandante della fortezza Elàgin, e si preparò alla difesa. I cosacchi lo tradirono e passarono dalla parte di Pugaèëv. Chàrlov restò con un piccolo gruppo di soldati molto anziani. Nella notte del 26 settembre ebbe l'idea, per infondere loro coraggio, di far sparare i suoi due cannoni, e furono proprio questi i colpi che spaventarono Bülow e lo indussero a ritirarsi. Al mattino Pugaèëv apparve davanti alla fortezza. Cavalcava in testa al suo esercito. «Sta' in guardia, sire», gli disse un vecchio cosacco, «che ti potrebbero uccidere con un colpo di cannone». «Si vede che sei vecchio», gli rispose l'impostore, «credi che i cannoni vengano fusi per colpire gli zar?». Chàrlov correva da un soldato all'altro e ordinava di far fuoco. Nessuno obbediva. Egli afferrò una miccia, sparò da un cannone e si precipitò verso un altro. Nel frattempo i ribelli occuparono la fortezza, si gettarono sull'unico suo difensore e lo crivellarono di colpi. Mezzo morto, egli pensò di riscattarsi da loro e li condusse

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verso l'izba in cui erano nascosti i suoi averi. Intanto dietro la fortezza avevano già eretto una forca; davanti ad essa sedeva Pugaèëv, che stava ricevendo il giuramento degli abitanti e della guarnigione. Gli condussero Chàrlov, che aveva smarrito la ragione per le ferite e che grondava sangue. Un occhio, cavato da una lancia, gli penzolava sulla guancia. Pugaèëv ordinò di giustiziarlo e con lui i sottotenenti Fìgner e Kabalérov, uno scrivano e il tartaro Bikbàj. La guarnigione si mise ad intercedere per il suo buon comandante, ma i cosacchi dello Jaìk, capeggiatori della rivolta, furono inesorabili. Nessuno dei martiri diede prova di pusillanimità. Il maomettano Bikbàj, salito sul patibolo, si fece il segno della croce e si mise da solo il cappio intorno al collo. Il giorno dopo Pugaèëv riprese il cammino e marciò su Tatìšèeva.

Questa fortezza era comandata dal colonnello Elàgin. La guarnigione era stata accresciuta dal reparto di Bülow, che in essa aveva cercato rifugio. La mattina del 27 settembre Pugaèëv apparve sulle alture circostanti. Tutti gli abitanti videro come egli vi piazzasse i suoi cannoni e li puntasse lui stesso contro la fortezza. I ribelli si avvicinarono alle mura per esortare la guarnigione a non seguire gli ordini dei boiari e ad arrendersi volontariamente. Fu loro risposto con colpi d'arma da fuoco. Essi si ritirarono. L'inutile sparatoria si protrasse da mezzogiorno fino a sera; nel frattempo i covoni di fieno che si trovavano nei pressi della fortezza presero fuoco, incendiati dagli assedianti. L'incendio raggiunse rapidamente le fortificazioni di legno. I soldati si precipitarono a spegnere il fuoco. Pugaèëv, approfittando dello scompiglio, attaccò dall'altra parte. I cosacchi della fortezza gli si arresero. Elàgin ferito e lo stesso Bülow si difesero strenuamente. Infine i ribelli irruppero nelle rovine fumanti. I capi furono catturati. A Bülow fu tagliata la testa. Elàgin, uomo corpulento, fu scorticato: gli assassini gli tolsero il grasso e con quello unsero le proprie ferite. La moglie fu tagliata a pezzi a colpi di sciabola. La loro figlia, il giorno prima rimasta vedova di Chàrlov, fu condotta dal vincitore mentre dava ordini per l'esecuzione dei suoi genitori.

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Pugaèëv restò colpito dalla sua bellezza e prese l'infelice con sé come concubina, risparmiando per lei il fratello di sette anni. La vedova del maggiore Velóvskij, fuggita dalla fortezza Rassypnàja, si trovava anche lei a Tatìšèeva: fu strangolata. Tutti gli ufficiali furono impiccati. Diversi soldati e baschiri furono condotti in un campo e fucilati. Gli altri furono tosati alla cosacca e vennero presi tra i ribelli. Tredici cannoni finirono nelle mani del vincitore.

Le notizie dei successi di Pugaèëv arrivavano a Orenbùrg una dopo l'altra. Velóvskij aveva appena fatto in tempo a riferire la presa del borgo di Ilék, che già Chàrlov riferiva la presa della fortezza Rassypnàja; dopo di che Bülow, dalla Tatìšèeva, annunciava la presa della Nižneozërnaja; il maggiore Kruze, dalla Èernoréèenskaja, segnalava la sparatoria avvenuta sotto la Tatìšèeva. Infine (il 28 settembre) trecento tartari, raccolti a fatica e mandati verso Tatìšèeva, ritornarono con la notizia della sorte spettata a Bülow e ad Elàgin. Reinsdorp, spaventato dalla rapidità dell'insurrezione, riunì in consiglio i funzionari più importanti di Orenbùrg, e sancì le seguenti misure:

1) Rompere e abbandonare alla corrente tutti i ponti sul fiume Sakmàra.

2) Sequestrare le armi ai confederati polacchi, trattenuti a Orenbùrg, e mandarli nella fortezza Troìckaja sotto strettissima sorveglianza.

3)Assegnare agli uomini di qualunque classe in possesso di armi piazzamenti in vista della difesa della città, mettendoli a disposizione del comandante in capo, il general-maggiore Wallenstern; tenere gli altri pronti, in caso d'insurrezione, e agli ordini del direttore della dogana Óbuchov.

4) Trasferire i tartari di Seitóvskaja in città e affidarli al comando del consigliere di collegio Timašëv.

5) Mettere l'artiglieria a disposizione del consigliere di stato effettivo Stàrov-Miljùkov, che una volta aveva prestato servizio in

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artiglieria.

Inoltre Reinsdorp, pensando ormai alla sicurezza della stessa Orenbùrg, ordinò al comandante in capo di riparare le fortificazioni della città e di metterle in stato di difesa. Invece alle guarnigioni delle piccole fortezze, non ancora prese da Pugaèëv, fu ordinato di marciare su Orenbùrg, interrando o gettando in acqua il materiale pesante e la polvere da sparo.

Dalla fortezza Tatìšèeva il 29 settembre Pugaèëv marciò sulla Èernoréèenskaja. In questa fortezza erano rimasti diversi vecchi soldati col capitano Neèàev, che aveva rimpiazzato il comandante, maggiore Kruze, che si era nascosto a Orenbùrg. Essi si arresero senza resistenza. Pugaèëv impiccò il capitano per le lamentele di una sua serva.

Pugaèëv, lasciando Orenbùrg alla sua destra, marciò verso il borgo fortificato di Sakmàra, i cui abitanti lo attendevano con impazienza. Il 1o ottobre, dal villaggio tartaro di Kargalà, egli vi si recò in compagnia di qualche cosacco. Un testimone oculare descrive il suo arrivo in questo modo:

«Nella fortezza, davanti all'izba municipale, furono stesi i tappeti e messo un tavolo col pane e sale. Il pope aspettava Pugaèëv con la croce e le icone sacre. Quando fece ingresso nella fortezza le campane si misero a suonare; gli uomini si scoprirono la testa, e quando l'impostore scese da cavallo, con l'aiuto di due cosacchi che lo presero sotto le braccia, tutti si prostrarono a terra. Egli baciò la croce, poi baciò il pane e il sale e, sedendosi su una sedia preparata per lui, disse: "Alzatevi, figlioli". Dopo di che tutti gli baciarono la mano. Pugaèëv chiese informazioni sui cosacchi della città. Gli fu risposto che alcuni erano in servizio, altri con il loro atamàn Danil Donskij erano stati presi a Orenbùrg, e che solo venti uomini erano stati lasciati per il servizio di posta, ma anche questi erano scomparsi. Egli si rivolse al prete e gli ordinò minacciosamente di ritrovarli, aggiungendo: "Tu sei il pope, ebbene sii anche l'atamàn; tu e tutti gli abitanti mi risponderete di

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loro con le vostre teste". Poi si recò nella casa del padre dell'atamàn, dove gli era stato preparato il pranzo. "Se tuo figlio fosse qui", disse al vecchio "il vostro pranzo sarebbe onorevole e degno di lodi: ma la tua ospitalità non è onesta. Che atamàn è costui, se ha abbandonato il suo posto?". Dopo pranzo, ubriaco, ordinò di giustiziare il padrone di casa, ma i cosacchi che erano con lui lo dissuasero; il vecchio fu soltanto messo in catene e agli arresti per una notte nell'izba municipale. Il giorno dopo i cosacchi ritrovati furono presentati a Pugaèëv. Egli li trattò cordialmente e li prese con sé. Essi gli domandarono: quante provviste dovevano portare con sé? "Prendete", rispose lui, "un cantuccio di pane; voi mi accompagnerete solo fino a Orenbùrg". In quel momento i baschiri, mandati dal governatore di Orenbùrg, circondarono la città. Pugaèëv uscì loro incontro e senza colpo ferire li incorporò tutti nel suo esercito. Sulla riva del Sakmàra impiccò sei persone».

A trenta verste dal borgo fortificato del Sakmàra si trovava la fortezza Preèìstenskaja. La parte migliore della sua guarnigione era stata presa da Bülow nella sua marcia sulla Tatìšèeva. Uno dei reparti di Pugaèëv la occupò senza che gli fosse opposta resistenza. Gli ufficiali e la guarnigione uscirono incontro ai vincitori. L'impostore come sua abitudine accolse i soldati nel suo esercito e per la prima volta concesse la disonorevole grazia agli ufficiali.

Pugaèëv si andava sempre più rafforzando: erano passate due settimane dal giorno in cui era apparso sotto il borgo di Jaìk con un pugno di ribelli, e già aveva circa tremila uomini di fanteria e cavalleria, e più di venti cannoni. Sette fortezze o erano state da lui conquistate o gli si erano arrese. Il suo esercito cresceva d'ora in ora in modo inverosimile. Decise di approfittare della fortuna e il 3 ottobre, di notte, sotto il borgo del Sakmàra, attraversò il fiume su un ponte rimasto intatto nonostante le disposizioni di Reinsdorp, e si diresse verso Orenbùrg.

III

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Misure del governo - La situazione di Orenbùrg - Il proclama di Reinsdorp su Pugaèëv - Il bandito Chlopùša - Pugaèëv sotto Orenbùrg - Il sobborgo di Berdà - I complici di Pugaèëv - Il general-maggiore Kar - Il suo insuccesso. - La morte del colonnello Èernyšëv - Kar abbandona l'esercito - Bìbikov.

Le cose a Orenbùrg stavano prendendo una brutta piega. Da un momento all'altro si aspettava la rivolta generale dell'esercito dello Jaìk; i baschiri, incitati dai loro capi militari (che Pugaèëv era riuscito a corrompere con cammelli e merci sottratte agli abitanti di Bucharà), cominciarono ad attaccare i villaggi russi e a passare in massa all'esercito dei rivoltosi. I soldati calmucchi disertavano gli avamposti. I mordvini, i ciuvasci, i ceremisi smisero di obbedire alle autorità russe. I contadini dei signori dimostravano chiaramente la loro simpatia per l'impostore, e presto non solo il governatorato di Orenbùrg, ma anche quelli ad esso confinanti pervennero a un pericoloso stato di agitazione.

I governatori: quello di Kazàn' - von Brandt, quello siberiano - Èièérin e quello di Àstrachan' - Kreèétnikov, subito dopo Reinsdorp, informarono il collegio di guerra imperiale degli avvenimenti dello Jaìk. L'imperatrice con inquietudine rivolse la sua attenzione al disastro che incombeva. Le circostanze del momento favorivano fortemente i disordini. Le truppe furono ritirate da ogni parte per essere inviate in Turchia e nella Polonia in fermento. Le severe misure adottate in tutta la Russia, per arrestare la peste che aveva infuriato poco tempo prima, produssero nella plebe un malcontento generale. La chiamata delle reclute aumentava le difficoltà. A un certo numero di compagnie e squadroni fu ordinato di dirigersi da Mosca, Pietroburgo, Nóvgorod e da Bachmùt verso Kazàn'. Il loro comando fu affidato al general-maggiore Kar, che s'era distinto in Polonia per aver fermamente eseguito le severe disposizioni delle autorità. Egli si trovava a Pietroburgo a ricevere le reclute. Gli fu ordinato di

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cedere la propria brigata al general-maggiore Našèókin e di affrettarsi sui luoghi minacciati dal pericolo. Gli fu affiancato il general-maggiore Fréjman, che già una volta aveva ridotto all'obbedienza l'armata cosacca dello Jaìk e che conosceva bene il teatro dei nuovi disordini. Ai capi dei governatorati circostanti fu ordinato di prendere a loro volta i provvedimenti necessari. Il 15 ottobre con un manifesto il governo informava la popolazione della comparsa dell'impostore, esortando coloro che si erano lasciati sedurre a rinunciare per tempo al criminale errore.

Torniamo a Orenbùrg.

In questa città si trovavano circa tremila soldati e circa settanta pezzi d'artiglieria. Con tali mezzi si poteva e si doveva annientare i ribelli. Purtroppo fra i capi militari non ce n'era neanche uno che sapesse il fatto suo. Intimoriti fin dall'inizio, essi diedero il tempo a Pugaèëv di rafforzarsi e si privarono dei mezzi per l'offensiva. Orenbùrg subì un assedio disastroso, di cui è conservata una descrizione interessante dello stesso Reinsdorp.

Per qualche giorno la comparsa di Pugaèëv era stata un mistero per gli abitanti di Orenbùrg, ma le voci sulla presa delle fortezze si diffusero rapidamente in città, e la precipitosa entrata in gioco di Bülow confermò la veridicità di queste voci. A Orenbùrg vi era agitazione; i cosacchi borbottavano minacce; gli abitanti atterriti parlavano della resa della città. Fu arrestato il provocatore dello scompiglio, un sergente a riposo mandato segretamente da Pugaèëv. Nel corso dell'interrogatorio egli dichiarò di aver avuto l'intenzione di pugnalare il governatore. Nei villaggi intorno a Orenbùrg cominciarono ad apparire dei sediziosi. Reinsdorp pubblicò un proclama su Pugaèëv, del quale rivelava la vera condizione sociale e i precedenti delitti. Era scritto in uno stile oscuro e confuso. Vi si diceva che sul conto del malfattore venuto dalla regione dello Jaìk corre voce che sia di un'altra condizione, ma che in effetti era il cosacco del Don Emel'jàn Pugaèëv, punito per i suoi precedenti delitti con la frusta e il marchio sulla faccia.

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Quest'ultima asserzione era inesatta. Reinsdorp aveva creduto a una voce falsa e i ribelli in seguito se ne gloriarono, accusandolo di calunnia.

Sembrava che tutte le misure intraprese da Reinsdorp dovessero volgersi a suo danno. Nel carcere di Orenbùrg veniva tenuto allora in catene un malfattore, noto sotto il nome di Chlopùša. Per vent'anni aveva fatto il brigante in quelle regioni; tre volte era stato deportato in Siberia, e tre volte aveva trovato il modo di evadere. A Reinsdorp venne in mente di utilizzare l'ergastolano pieno di risorse e di far pervenire attraverso di lui alla banda di Pugaèëv i manifesti ammonitori. Chlopùša giurò di eseguire esattamente le istruzioni. Fu liberato, si presentò direttamente a Pugaèëv e consegnò a lui in persona tutte le carte del governatore. «So, fratello, quello che c'è scritto», disse l'analfabeta Pugaèëv e gli regalò mezzo rublo e gli indumenti di un kirgizo impiccato poco tempo prima. Conoscendo bene la regione nella quale aveva seminato il terrore così a lungo con i suoi atti di brigantaggio, Chlopùša gli diventò indispensabile. Pugaèëv lo nominò colonnello e gli affidò il saccheggio e la sobillazione delle fabbriche. Chlopùša confermò di meritare la fiducia. Risalì il corso del fiume Sakmàra incitando alla ribellione i villaggi limitrofi, apparve ai porti fluviali di Bugul'èàn e di Sterlitamàck e nelle officine degli Urali, e di lì mandò a Pugaèëv cannoni, palle e polvere da sparo, accrescendo la sua banda con i contadini che lavoravano nelle fabbriche e con i baschiri, compagni dei suoi brigantaggi.

Il 5 ottobre Pugaèëv si accampò con le sue forze militari nelle praterie cosacche, a cinque verste da Orenbùrg. Si mosse subito in avanti e sotto il fuoco dei cannoni dispose una batteria sul sagrato di una chiesa proprio alle porte del sobborgo, e un'altra nella casa fuori città del governatore. Dovette ritirarsi, respinto da un forte cannoneggiamento. Quel giorno stesso, su ordine del governatore, il sobborgo fu dato alle fiamme. Restarono intatte solo un'izba e la

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chiesa di San Giorgio. Gli abitanti furono trasferiti in città, con la promessa che sarebbero stati loro risarciti tutti i danni. Poi si cominciò a sgombrare il fossato che circondava la città, e a riempire il terrapieno di cavalli di Frisia.

Di notte, tutt'intorno alla città, presero fuoco i covoni di fieno preparati per l'inverno. Il governatore non aveva fatto in tempo a farli trasportare in città. Contro gli incendiari (già l'indomani mattina) intervenne il maggiore Naùmov (appena giunto dal borgo dello Jaìk). Con lui c'erano millecinquecento soldati di cavalleria e di fanteria. Ricevuto a colpi di cannone, egli scambiò con loro delle raffiche di fucile e si ritirò senza alcun successo. I suoi soldati erano intimoriti, e dei cosacchi lui non si fidava.

Reinsdorp riunì di nuovo il consiglio dei suoi funzionari militari e civili, e richiese il loro parere per iscritto: bisognava ancora intervenire contro il malfattore, o aspettare, sotto la protezione delle fortificazioni cittadine, l'arrivo delle nuove truppe? A questa riunione il consigliere di stato effettivo Stàrov-Miljúkov fu il solo a esprimere un parere degno di un militare: procedere contro i ribelli. Gli altri temevano che un nuovo insuccesso avrebbe portato gli abitanti a un pericoloso scoraggiamento e pensavano solo a difendersi. Fu di quest'ultimo avviso anche Reinsdorp.

L'8 ottobre i ribelli andarono a saccheggiare il mercato degli scambi, che si trovava a tre verste dalla città. Un distaccamento inviato contro di loro li respinse, dopo aver ucciso sul posto duecento uomini e averne catturati centosedici. Reinsdorp, desiderando approfittare di tale occasione che aveva reso un po' di coraggio al suo esercito, avrebbe voluto riprendere l'indomani stesso l'offensiva contro Pugaèëv, ma tutti i capi all'unanimità gli fecero notare che non era possibile in nessun modo fare affidamento sull'esercito: i soldati, scoraggiati e irresoluti, si battevano malvolentieri; i cosacchi, invece, sul luogo stesso del combattimento, potevano passare dalla parte dei ribelli, e le conseguenze del loro tradimento sarebbero state la rovina per

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Orenbùrg. Il povero Reinsdorp non sapeva che fare. Comunque riuscì, con qualche richiamo alla coscienza, a persuadere i suoi subordinati, e il 12 ottobre Naùmov ordinò al suo poco affidabile esercito una nuova sortita dalla città.

Il combattimento si accese. L'artiglieria di Pugaèëv era superiore numericamente a quella che era stata portata dalla città. I cosacchi di Orenbùrg, non abituati, erano impauriti dalle palle di cannone, e si stringevano alla città sotto la protezione dei cannoni disposti lungo il terrapieno. Il distaccamento di Naùmov fu circondato da tutte le parti da numerose schiere. Esso si dispose in quadrato e cominciò a ritirarsi difendendosi dal nemico a colpi di fucile. Il combattimento si protrasse per quattr'ore. Fra uccisi, feriti e fuggiaschi Naùmov perse centodiciassette uomini.

Non passava giorno senza qualche sparatoria. I ribelli a cavallo si aggiravano in massa intorno al terrapieno della città e attaccavano i foraggieri. Pugaèëv avanzò più volte fin sotto Orenbùrg con tutte le sue forze. Ma non aveva intenzione di prenderla d'assalto. «Non voglio perdere i miei uomini», diceva ai cosacchi del Sakmàra, «piuttosto sterminerò la città con la fame». Più di una volta trovò il modo di far pervenire agli abitanti i suoi appelli alla rivolta. In città vennero arrestati alcuni malfattori inviati segretamente dall'impostore: furono trovate loro addosso polvere e micce.

Presto a Orenbùrg mancò il fieno. Sia all'esercito che agli abitanti furono sequestrati i cavalli magri e inabili al lavoro e spediti in parte alla Difesa dell'Ilék e alla fortezza dell'Alto-Jaìk, in parte nel distretto di Ufà. Ma ad alcune verste dalla città i cavalli furono catturati dai contadini e dai tartari ribelli, mentre i cosacchi che spingevano avanti le mandrie furono consegnati a Pugaèëv.

Il freddo autunnale arrivò prima del solito. Dal 14 ottobre cominciarono le gelate; il 16 nevicò. Il 18 Pugaèëv, incendiato il suo accampamento, con tutti gli armamenti pesanti ripartì dallo Jaìk al Sakmàra e si stabilì sotto il sobborgo di Berdà, vicino alla strada estiva di Sakmàra, a sette verste da Orenbùrg. Di lì le sue

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pattuglie non smettevano di molestare la città, di attaccare i foraggieri e di tenere la guarnigione in continuo stato di allerta.

Il 2 novembre Pugaèëv con tutte le sue forze si avvicinò di nuovo a Orenbùrg e, dopo aver disposto le batterie tutt'intorno alla città, aprì un terribile fuoco. Dalle mura della città gli fu risposto allo stesso modo. Nel frattempo un migliaio di uomini della sua fanteria s'erano introdotti di nascosto, passando dalla parte del fiume, nelle cantine del sobborgo incendiato, fin quasi al terrapieno e ai cavalli di Frisia, e tiravano coi fucili e con gli archi. Li capeggiava Pugaèëv in persona. I cacciatori a cavallo del reparto di campagna li spinsero via dal sobborgo. Pugaèëv per poco non venne fatto prigioniero. Verso sera il fuoco cessò; ma tutta la notte i ribelli accompagnarono con il cannone i rintocchi dell'orologio della cattedrale, tirando un colpo ogni ora.

Il giorno dopo il fuoco ricominciò, nonostante il freddo e la tormenta. I ribelli accesero il fuoco in chiesa, scaldarono l'izba rimasta intatta nel sobborgo incendiato, e si riscaldarono a turno. Pugaèëv collocò un cannone sul sagrato e ordinò d'issarne un altro sul campanile. A una versta dalla città si trovava un obiettivo alto, che serviva da bersaglio durante le esercitazioni d'artiglieria. I ribelli sistemarono lì la loro batteria principale. Lo scambio di colpi si protrasse per tutto il giorno. La notte Pugaèëv si ritirò, dopo aver subito perdite insignificanti e senza aver inflitto danni agli assediati. La mattina dopo dalla città furono mandati dei detenuti, sotto la scorta dei cosacchi, a radere al suolo il bersaglio ed altre fortificazioni, e a demolire l'izba. Nella chiesa in cui i ribelli avevano portato i loro feriti si vedevano sul pavimento delle chiazze di sangue. Le rivestiture d'argento delle icone erano state strappate via, il paramento dell'altare era stato fatto a brandelli. La chiesa era stata addirittura profanata con escrementi equini e umani.

Il freddo si fece più forte. Il 6 novembre Pugaèëv con i cosacchi dello Jaìk passò dal suo nuovo accampamento al sobborgo stesso.

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I baschiri, i calmucchi e i contadini delle fabbriche rimasero allo stesso posto nelle loro kibitke e nelle capanne interrate. Scorribande, attacchi e scaramucce si susseguivano ininterrottamente. Ogni giorno le forze di Pugaèëv crescevano. Il suo esercito contava già venticinquemila uomini; il suo nucleo era costituito da cosacchi dello Jaìk e da soldati raccolti dalle fortezze, ma attorno ad essi si andava accumulando una quantità inverosimile di tartari, baschiri, calmucchi, contadini in rivolta, forzati evasi e vagabondi di ogni specie. Tutta questa marmaglia era armata non importa come, chi di una lancia, chi di una pistola, chi di una sciabola da ufficiale. Ad alcuni erano state distribuite baionette, fissate su lunghi bastoni; altri portavano dei randelli; la maggior parte non aveva arma alcuna. L'esercito era diviso in reggimenti di cinquecento uomini. Soltanto i cosacchi dello Jaìk ricevevano il soldo; gli altri si accontentavano di saccheggiare. Il vino veniva venduto dall'amministrazione. Il foraggio e i cavalli venivano forniti dai baschiri. La diserzione era punita con la pena di morte. Ogni comandante di dieci uomini rispondeva con la propria testa di un suo disertore. Furono istituite diverse pattuglie a cavallo e turni di guardia. Pugaèëv ne controllava severamente l'efficienza facendo ispezioni di persona, a volte anche di notte. Le esercitazioni (in particolare quelle di artiglieria) avevano luogo quasi ogni giorno. Le funzioni religiose erano celebrate quotidianamente. Nella preghiera liturgica venivano menzionati il sovrano Pëtr Fëdoroviè e la sua consorte, l'imperatrice Caterina Alekséevna. Pugaèëv, essendo scismatico, non andava mai in chiesa. Quando attraversava a cavallo il mercato o le strade di Berdà, gettava sempre alla folla monete di rame. Amministrava la giustizia e dava punizioni seduto in poltrona davanti alla sua izba. Ai suoi fianchi erano seduti due cosacchi, uno con la mazza, l'altro con un'ascia d'argento. Quelli che si avvicinavano a lui si prostravano fino a terra e, facendosi il segno della croce, gli baciavano la mano. Il sobborgo di Berdà era un antro di assassinii e di depravazione. Il campo era pieno di mogli e figlie di ufficiali,

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abbandonate all'oltraggio dei banditi. Ogni giorno avevano luogo delle esecuzioni. I dirupi intorno a Berdà erano cosparsi di cadaveri dei martiri fucilati, strangolati, squartati.

Bande di briganti si lanciavano in tutte le direzioni, ubriacandosi in giro per i villaggi, derubando la cassa dello stato e i beni dei nobili, ma senza sfiorare la proprietà dei contadini. I più audaci si avvicinavano ai cavalli di Frisia di Orenbùrg; altri, infilato il berretto sulla lancia, gridavano: «Signori cosacchi! È tempo che cambiate idea e che vi mettiate al servizio del sovrano Pëtr Fëdoroviè». Altri ancora chiedevano che fosse loro restituito Martjùška Borodìn (il maggiore cosacco che era arrivato a Orenbùrg dal borgo dello Jaìk insieme al distaccamento di Naùmov), e invitavano i cosacchi a far baldoria da loro dicendo: «Il nostro bàtjuška ha molto vino!». Dalla città partivano delle incursioni contro di loro, e scoppiavano scaramucce a volte piuttosto violente. Non era raro che Pugaèëv apparisse di persona sul posto, per far mostra del proprio ardimento. Un giorno arrivò al galoppo, ubriaco, dopo aver perso il berretto e dondolandosi sulla sella, e per poco non venne catturato. I cosacchi lo salvarono e lo trascinarono via prendendo il suo cavallo per le briglie.

Pugaèëv non aveva pieni poteri. I cosacchi dello Jaìk, iniziatori della rivolta, dirigevano le azioni dell'avventuriero, che non aveva altro merito se non una certa conoscenza di cose militari e una straordinaria audacia. Egli non intraprendeva nulla senza il loro consenso; essi invece agivano spesso a sua insaputa e a volte anche contro la sua volontà. Gli manifestavano segni esteriori di rispetto, in pubblico lo seguivano a testa scoperta e s'inchinavano fino a terra, ma in privato lo trattavano da compagno e s'ubriacavano con lui, seduti col berretto in testa, in maniche di camicia e intonando le canzoni dei battellieri. Pugaèëv mal sopportava la loro tutela. «La mia strada è stretta», diceva a Denìs P'jànov, banchettando al matrimonio di suo figlio minore. Non sopportando influenze estranee sullo zar che avevano creato, essi

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non permettevano all'impostore di avere altri favoriti e uomini di fiducia. Pugaèëv, all'inizio della sua rivolta, si era preso come scrivano il sergente Karmìckij, dopo averlo graziato proprio sotto la forca. Karmìckij era diventato ben presto il suo favorito. I cosacchi dello Jaìk, durante la presa della fortezza Tatìšèeva, lo strangolarono e lo gettarono in acqua con una pietra al collo. Pugaèëv chiese sue notizie. «Ha disceso lo Jaìk», gli risposero, «per andare a trovare sua madre». Pugaèëv, in silenzio, fece un gesto di contrarietà con la mano.

La giovane Chàrlova ebbe la disgrazia di suscitare le simpatie dell'impostore. Egli la teneva nel suo campo sotto Orenbùrg. Lei sola aveva il diritto di entrare in qualsiasi momento nella sua tenda; su preghiera di lei egli mandò ad Ozërnaja l'ordine di seppellire i corpi di quelli che aveva fatto impiccare durante la presa della fortezza. Ella suscitò i sospetti dei gelosi briganti, e Pugaèëv, cedendo alle loro istanze, consegnò loro la sua concubina. La Chàrlova e il fratello di sette anni furono fucilati. Feriti, si trascinarono l'uno verso l'altro e si abbracciarono. I loro corpi, gettati nei cespugli, restarono a lungo in quella posizione.

Fra i ribelli principali si distingueva Zarùbin (detto anche Èika), fin dall'inizio della rivolta collaboratore e consigliere di Pugaèëv. Egli si faceva chiamare feldmaresciallo ed era il primo dopo l'impostore. Ovèìnnikov, Šigàev, Lýsov e Èumakóv capeggiavano l'esercito. Tutti si attribuivano i nomi degli alti dignitari, che circondavano a quell'epoca il trono di Caterina: Èika era il conte Èernysëv, Šigàev il conte Voroncóv, Ovèìnnikov il conte Pànin, Èumakóv il conte Orlóv. Il caporale di artiglieria a riposo Beloboródov godeva la piena fiducia dell'impostore. Insieme con Paduróv aveva la cura degli affari scritti dell'analfabeta Pugaèëv, e introdusse un ordine e una disciplina severi nelle bande dei ribelli. Perfìl'ev, che all'inizio della rivolta si trovava a Pietroburgo per affari riguardanti l'esercito dello Jaìk, aveva promesso al governo di riportare i cosacchi all'obbedienza e di consegnare lo stesso

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Pugaèëv nelle mani della giustizia; ma, arrivato a Berdà, si era rivelato uno dei ribelli più accaniti, e aveva unito la sua sorte a quella dell'impostore. Il brigante Chlopùša, passato dalla frusta al marchio del boia, con le narici strappate fino alle cartilagini, era uno dei favoriti di Pugaèëv. Vergognoso della sua deformità, portava sul viso una retina, oppure si copriva con una manica come a proteggersi dal freddo. Ecco gli uomini che facevano vacillare lo stato!

Kar intanto era arrivato al confine del governatorato di Orenbùrg. Il governatore di Kazàn', ancor prima del suo arrivo, era riuscito a radunare qualche centinaio di soldati fra quelli di guarnigione a riposo e quelli colonizzati, e a disporli in parte attorno alla trincea di Kièùev, in parte lungo il fiume Èeremšàn, a metà strada fra Kièùev e Stàvropol'. Sul Volga si trovavano una trentina di soldati semplici con un solo ufficiale per provvedere alla cattura dei rivoltosi: era stato loro ordinato di tenere d'occhio i movimenti dei ribelli. Brandt aveva scritto a Mosca al generale in capo, principe Volkónskij, chiedendogli delle truppe. Ma la guarnigione di Mosca era stata mandata tutta a scortare le reclute, e il reggimento di Tomsk, che si trovava a Mosca, montava la guardia alle barriere della città, istituite nel 1771, al tempo in cui infuriava la peste. Il principe Volkónskij non poté concedere che trecento soldati semplici con un solo cannone, e li inviò subito su un convoglio di carri a Kazàn'. Kar prescrisse al comandante di Simbìrsk, colonnello Èernyšëv, che marciava verso Orenbùrg sulla linea di Samàra, di occupare il più presto possibile Tatìšèeva. Egli aveva intenzione, subito dopo l'arrivo del general-maggiore Fréjman, che si trovava a Kalùga a ricevere le reclute, di mandare quest'ultimo come rinforzo a Èernyšëv. Kar non dubitava del successo. «Temo soltanto», scriveva al conte Z.G. Èernyšëv, «che questi banditi, informati dell'approssimarsi delle truppe, non scelgano la fuga per gli stessi luoghi dai quali sono venuti senza lasciarsi raggiungere». Previde difficoltà solo nell'inseguimento di Pugaèëv, a causa dell'inverno e della mancanza di cavalleria.

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All'inizio di novembre, senza aspettare né l'artiglieria, né i centosettanta granatieri che gli erano stati mandati da Simbìrsk, né i baschiri e i mesceriachi armati che gli erano stati inviati da Ufà, egli cominciò a marciare in avanti. Sulla strada, a cento verste da Orenbùrg, venne a sapere che il brigante deportato Chlopùša, incaricato di Pugaèëv, dopo aver fatto fondere i cannoni nell'officina di Ovzjàno-Petróvsk e aver fatto sollevare i contadini dell'officina e i baschiri dei dintorni, stava marciando di nuovo su Orenbùrg. Kar si affrettò a tagliargli la strada e il 7 novembre mandò il maggiore in seconda Šìškin con quattrocento soldati e due cannoni nel villaggio di Juzéeva, mentre lui stesso col generale Fréjman e il maggiore Warnstedt, appena arrivati da Kalùga, mosse da Šarmanàeva. Šìškin si scontrò presso la stessa Juzéeva con seicento ribelli. I tartari e i contadini armati che erano con lui passarono subito dalla parte del nemico. Šìškin nondimeno disperse questa folla con qualche sparo. Occupò il villaggio dove, alle quattro del mattino, arrivarono anche Kar e Fréjman. Le truppe erano così stanche che non fu neppure possibile organizzare delle pattuglie a cavallo. I generali decisero di attendere che facesse giorno per attaccare i rivoltosi, e all'alba si videro davanti la stessa folla. Fecero circolare fra i ribelli un proclama ammonitore; questi lo presero ma si allontanarono con ingiurie, dicendo che i loro manifesti erano più giusti, e si misero a sparare con l'unico cannone che avevano a disposizione. Furono dispersi un'altra volta... In quel momento nelle retrovie Kar sentì quattro cannonate in lontananza. Si spaventò e batté precipitosamente in ritirata, credendosi tagliato fuori da Kazàn'. Proprio allora più di duemila ribelli accorsero al galoppo da ogni parte e aprirono il fuoco con nove cannoni. Li comandava Pugaèëv in persona. Chlopùša riuscì a ricongiungersi con lui. Disseminati per i campi a un tiro di cannone, essi erano fuori da ogni pericolo. La cavalleria di Kar era spossata e troppo esigua. I ribelli, che avevano buoni cavalli, all'attacco della fanteria s'erano allontanati, trasportando velocemente i loro cannoni da una collina all'altra, e

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in tal modo accompagnarono per diciassette verste Kar in ritirata. Per ben otto ore egli si difese sparando dai suoi cinque cannoni, abbandonò le salmerie e perse (se vogliamo credere al suo rapporto) non più di centoventi uomini, fra morti, feriti e disertori. I baschiri attesi da Ufà non erano arrivati; trovatisi a poca distanza sotto il comando del principe Urakóv erano scappati sentendo le cannonate. I soldati, per la maggior parte troppo anziani o reclute, si lagnavano ad alta voce e erano pronti ad arrendersi; i giovani ufficiali, che non erano mai stati sotto il fuoco, non erano capaci d'incoraggiarli.

I granatieri, spediti sui carri da Simbìrsk col tenente Kartašóv, si spostavano con una tale noncuranza che avevano addirittura i fucili scarichi, e ciascuno dormiva nella propria slitta. Si arresero ai primi quattro colpi di cannone che Kar aveva sentito al mattino dal villaggio di Juzéeva.

Kar perse ben presto la sua presunzione. Insieme col rapporto sulle sue perdite comunicò al collegio di guerra che per sconfiggere Pugaèëv non servivano deboli reparti, ma interi reggimenti, una cavalleria sicura e una forte artiglieria. Egli diede immediatamente ordine a Èernyšëv di non lasciare Perevolòckaja e di cercare di fortificarsi in essa aspettando nuove istruzioni. Ma il corriere mandato a Èernyšëv non riuscì a raggiungerlo.

L'11 novembre Èernyšëv uscì da Perevolóckaja e la notte del 13 arrivò a Èernoréèenskaja. Qui egli ricevette da due cosacchi di Ilék, portati dall'atamàn di Sakmàra, la notizia della disfatta di Kar e della cattura di centosettanta granatieri. Della veridicità dell'ultima comunicazione Èernyšëv non poteva dubitare: aveva inviato proprio lui i granatieri da Simbìrsk, ove essi si trovavano per la scorta delle reclute. Non sapeva a che cosa risolversi: se ritirarsi verso Perevolóckaja o affrettarsi verso Orenbùrg, dove il giorno prima aveva inviato l'annuncio del suo avvicinamento. In quel momento si presentarono a lui cinque cosacchi e un soldato, che assicuravano di essere fuggiti dal campo di Pugaèëv. Fra loro

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si trovava il cosacco e deputato Paduróv, al comando di cento uomini. Egli assicurò Èernyšëv del suo zelo, mostrandogli come prova la sua medaglia di deputato, e gli consigliò di marciare immediatamente su Orenbùrg, offrendosi di condurlo per luoghi sicuri. Èernyšëv gli credette e in quello stesso istante, senza battere il tamburo, si mosse da Èernoréèenskaja. Paduróv lo condusse attraverso le montagne, assicurandogli che le sentinelle avanzate di Pugaèëv erano lontane, e che se anche all'alba lo avessero visto, non vi sarebbe stato ormai nessun pericolo, e sarebbe riuscito a entrare senza ostacoli a Orenbùrg. Al mattino Èernyšëv arrivò al Sakmarà e sulla frontiera naturale del Majàk, a cinque verste da Orenbùrg, cominciò ad attraversare il fiume sul ghiaccio. Aveva con sè millecinquecento soldati e cosacchi, cinquecento calmucchi e dodici cannoni. Il capitano Ružévskij traversò per primo con artiglieria e truppe leggere; immediatamente dopo, presi con sé tre cosacchi, si recò a Orenbùrg e si presentò al governatore annunciando l'arrivo di Èernyšëv. In quel momento stesso a Orenbùrg si sentirono delle cannonate, che tacquero nel giro di un quarto d'ora... Qualche tempo dopo Reinsdorp ricevette la notizia che tutto il reparto di Èernyšëv era stato catturato e condotto nell'accampamento di Pugaèëv.

Èernyšëv era stato ingannato da Paduróv, che l'aveva condotto direttamente da Pugaèëv. I ribelli gli si erano gettati contro all'improvviso e si erano impossessati dell'artiglieria. I cosacchi e i calmucchi avevano tradito. La fanteria, spossata dal freddo, dalla fame e dalla traversata notturna, non aveva potuto far resistenza. Erano stati presi tutti. Pugaèëv impiccò Èernyšëv, trentasei ufficiali, la moglie di un sottotenente e un colonnello calmucco rimasto fedele al suo disgraziato comandante.

In quel momento stesso il brigadiere Korf entrava a Orenbùrg con una truppa di duemilaquattrocento uomini e venti pezzi d'artiglieria. Pugaèëv attaccò anche lui, ma fu respinto dai cosacchi della città.

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Le autorità di Orenbùrg sembrava avessero perso la testa per il terrore. Il 14 novembre Reinsdorp, che non aveva dato nessun aiuto al reparto dello sfortunato Èernyšëv, pensò di fare una potente sortita. Tutte le truppe che erano in città (compreso anche il reparto appena arrivato) furono fatte uscire in campo aperto sotto la guida del comandante in capo. I ribelli, fedeli al loro sistema, operavano a distanza e in gruppi sparsi, mantenendo un fuoco ininterrotto dai loro numerosi cannoni. La cavalleria della città, estenuata, non poteva avere la minima speranza di successo. Wallenstern fu costretto a formare il quadrato e a ritirarsi, dopo aver perso trentadue uomini. Quel giorno stesso il maggiore Warnstedt, mandato da Kar sulla nuova strada per Mosca, fu attaccato da un forte distaccamento di Pugaèëv e si ritirò precipitosamente, lasciando circa duecento uomini uccisi.

Ricevuta la notizia della cattura di Èernyšëv, Kar si demoralizzò completamente, e non pensava ormai più alla vittoria sullo spregevole ribelle, ma alla propria sicurezza. Riferì tutto al collegio di guerra, si dimise volontariamente dal comando con la scusa di essere ammalato, diede alcuni consigli intelligenti circa il modo di agire contro Pugaèëv e, lasciando le sue truppe alle cure di Fréjman, partì per Mosca, dove la sua comparsa suscitò un mormorio generale. L'imperatrice con un severo decreto ordinò la sua sospensione dal servizio. Da allora egli visse nella sua campagna, dove morì all'inizio del regno di Alessandro.

L'imperatrice vide la necessità di prendere energiche misure contro il male che andava progredendo. Cercava un comandante fidato che succedesse al fuggiasco Kar, e scelse il generale in capo Bìbikov. Aleksàndr Il'ìè Bìbikov appartiene al numero delle personalità più notevoli dei tempi di Caterina, tanto ricchi di persone illustri. Fin da giovane era riuscito a distinguersi nella carriera militare e civile. Aveva prestato onorevolmente servizio nella guerra dei sette anni, e aveva attirato su di sé l'attenzione di Federico il Grande. Gli erano state affidate missioni importanti:

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nel 1763 era stato mandato a Kazàn' a reprimere i contadini in rivolta nelle fabbriche. Con fermezza e una pacata ragionevolezza aveva ben presto ristabilito l'ordine. Nel 1766, quando si formava la commissione del codice nuovo, egli presiedeva le elezioni a Kostromà; lui stesso fu eletto deputato e poi nominato capo della nobiltà di tutta l'assemblea. Nel 1771 sostituì il tenente-generale Weimarn come comandante in capo in Polonia, dove in breve non solo riuscì a risanare gli affari trascurati, ma anche a guadagnarsi l'amore e la fiducia dei vinti.

All'epoca da noi descritta egli si trovava a Pietroburgo. Poco tempo dopo aver trasmesso il comando supremo sulla Polonia conquistata al tenente-generale Romanius, si preparava ad andare in Turchia a servire presso il conte Rumjàncov. Bìbikov fu ricevuto freddamente dall'imperatrice, che fino allora era sempre stata ben disposta verso di lui. Probabilmente era scontenta delle parole brusche che lui si era lasciato sfuggire in un momento di stizza; infatti, zelante nell'azione e devoto con tutta l'anima all'imperatrice, Bìbikov era burbero e ardito nei giudizi. Ma Caterina sapeva dominare le proprie prevenzioni. Gli si avvicinò durante un ballo a corte con il cordiale sorriso di una volta e, chiacchierando amabilmente con lui, gli annunciò la sua nuova assegnazione. Bìbikov rispose che egli si era votato al servizio della patria, e citò subito le parole di una canzone popolare, applicandole alla propria situazione:

O sarafàn mio, caro sarafàn!

Dappertutto fai comodo, sarafàn;

E se non servi, sarafàn, resti sotto la panca.

Egli accettò senza la minima obiezione il gravoso incarico e il 9 dicembre partì da Pietroburgo.

Arrivato a Mosca Bìbikov trovò la vecchia capitale atterrita e depressa. Gli abitanti, testimoni recenti della rivolta e della peste, trepidavano in attesa di una nuova sciagura. Un gran numero di

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nobili s'era rifugiato a Mosca dalle province già devastate da Pugaèëv, o minacciate dalla ribellione. I servi della gleba, che avevano portato con sé, diffondevano per le piazze notizie sull'emancipazione, e sullo sterminio dei signori. La numerosa plebe di Mosca, ubriacandosi e trascinandosi per le strade, aspettava con evidente impazienza Pugaèëv. Gli abitanti accolsero Bìbikov con un entusiasmo che dimostrava in che pericolo si sentissero. Egli lasciò Mosca, affrettandosi a confermare le loro speranze.

IV

Azioni dei ribelli - Il maggiore Zàev - Presa della fortezza Il'ìnskaja - Morte di Kàmeškov e di Vorónov - La situazione di Orenbùrg - Assedio del borgo di Jaìk - Combattimento sotto Berdà - Bìbikov a Kazàn' - Caterina II, proprietaria di Kazàn' - Opinione dell'Europa - Voltaire - Il decreto sulla casa e la famiglia di Pugaèëv.

La disfatta di Kar e di Fréjman, la morte di Èernyšëv e le sfortunate sortite di Wallenstern e di Korf aumentarono nei ribelli l'impertinenza e la presunzione. Essi si gettarono in tutte le direzioni, devastando i villaggi, le città, sollevando la popolazione, e non incontrarono resistenza da nessuna parte. Tornóv con seicento uomini spinse alla rivolta e saccheggiò tutta la regione di Nagajbàk. Èìka, nel frattempo, avanzò fin sotto Ufà con un reparto di diecimila uomini e la assediò alla fine di novembre. La città non aveva fortificazioni simili a quelle di Orenbùrg; tuttavia il comandante Mjasoédov e i nobili che vi avevano cercato rifugio decisero di difendersi. Èìka, non osando avventurarsi in forti attacchi, si fermò nel villaggio di Èesnokóvka, a dieci verste da Ufà, sollevò le campagne circostanti, per la maggior parte baschire, e tagliò la città fuori da ogni comunicazione. Ul'jànov, Davýdov e Beloboródov agivano fra Ufà e Kazàn'. Intanto Pugaèëv mandò Chlopùša con cinquecento uomini e sei cannoni a

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prendere la fortezza Il'ìnskaja e la Vérchne-Ozërnaja a est di Orenbùrg. Per difendere questa regione il governatore della Siberia Èièérin distaccò il tenente-generale de Collongues e il general-maggiore Stanislàvskij. Il primo copriva le frontiere siberiane; il secondo si trovava nella fortezza Orskàja, dove agiva senza decisione, perdendo il coraggio al minimo pericolo e sottraendosi con vari pretesti all'adempimento del proprio dovere.

Chlopùša prese l'Il'ìnskaja, pugnalando durante l'assalto il comandante, tenente Lopàtin; ma risparmiò gli ufficiali e non distrusse la fortezza. Mosse contro la Vérchne-Ozërnaja. Il comandante, tenente-colonnello de Marin, respinse l'attacco. Venutone a conoscenza, Pugaèëv in persona si affrettò a soccorrere Chlopùša e, unitosi a lui la mattina del 26 novembre, si lanciò all'assalto della fortezza. Per tutto il giorno il fuoco fu incessante. Diverse volte i ribelli, scesi da cavallo, attaccarono con le lance, ma furono sempre respinti. Verso sera Pugaèëv si ritirò in un villaggio baschiro, a dodici verste dalla Vérchne-Ozërnaja. Là seppe che dalla linea siberiana stavano marciando verso la fortezza Il'ìnskaja tre compagnie inviate dal general-maggiore Stanislàvskij. Egli si mosse per tagliar loro la strada.

Il maggiore Zàev, che era a capo di questo distaccamento, riuscì tuttavia a occupare la fortezza Il'ìnskaja (il 27 novembre). La fortezza, abbandonata da Chlopùša, non era stata da lui incendiata. Gli abitanti non erano stati portati via. Fra loro c'erano diversi confederati prigionieri. Le mura e alcune izbe erano danneggiate. Tutto l'esercito era caduto prigioniero, ad eccezione di un sergente e di un ufficiale ferito. Il deposito del grano era stato spalancato. Nel cortile erano sparsi diversi quintali di farina e di gallette. Un cannone era stato abbandonato sulla porta. Zàev diede vari ordini alla svelta, piazzò uno per bastione i tre cannoni del suo distaccamento (il quarto bastione restò senza); organizzò anche le guardie e le pattuglie e si mise ad attendere il nemico.

Il giorno dopo, al crepuscolo, Pugaèëv apparve davanti alla

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fortezza. I ribelli si avvicinarono e, cavalcando intorno ad essa, gridarono alle sentinelle: «Non sparate e uscite fuori: il sovrano è qui». Fu loro risposto a colpi di cannone. Un cavallo cadde ucciso da una palla. I ribelli scomparvero e dopo un'ora riapparvero da dietro una montagna, galoppando in ordine sparso sotto la guida di Pugaèëv in persona. Furono ricacciati indietro dalle cannonate. I soldati e i polacchi prigionieri (questi ultimi in particolar modo) pregarono ardentemente di fare una sortita, ma Zàev non acconsentì, temendo un tradimento da parte loro. «Restate qui e difendetevi», disse loro, «io non ho ordini dal generale di fare sortite».

Il 29 Pugaèëv si avvicinò un'altra volta portando due cannoni sulle slitte e spingendo innanzi ad essi alcuni carri di fieno. Si slanciò verso il bastione sul quale non c'erano cannoni. Zàev si affrettò a piazzarne due, ma prima che si riuscisse a trascinarveli i ribelli avevano abbattuto il bastione di legno a colpi di cannone e, scesi da cavallo, si slanciarono a demolirlo e col loro solito grido irruppero nella fortezza. I soldati si dispersero e fuggirono. Zàev, quasi tutti gli ufficiali, e duecento soldati di linea furono uccisi. Gli altri furono cacciati nel villaggio tartaro più vicino. I soldati prigionieri furono condotti davanti a un cannone carico. Pugaèëv, nel suo vestito rosso da cosacco, arrivò a cavallo in compagnia di Chlopùša. Al suo apparire i soldati furono messi in ginocchio. Egli disse loro: «Iddio vi perdona, e anch'io, vostro sovrano Pietro III imperatore. Alzatevi!». Poi ordinò di girare il cannone e di tirare verso la steppa. Gli vennero presentati il capitano Kàmeškov e l'alfiere Vorónov. La storia deve conservare questi nomi modesti. «Perché siete andati contro di me, contro il vostro sovrano?», chiese il vincitore. «Tu non ci sei sovrano», risposero i prigionieri: «da noi in Russia la sovrana imperatrice è Caterina Alekséevna e il sovrano principe ereditario Pàvel Petróviè, mentre tu sei un ladro e un impostore». Furono impiccati sul posto. Poi fu portato il capitano Bašàrin. Pugaèëv, senza dirgli neanche una parola, stava per fare impiccare anche lui. Ma i soldati fatti prigionieri si misero

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a intercedere in suo favore. «Se è stato buono con voi», disse l'impostore, «io gli farò grazia». E ordinò di rasargli i capelli alla cosacca come era stato fatto ai soldati, e di trasportare i feriti nella fortezza. I cosacchi che erano nel reparto furono accolti dai ribelli come compagni. Alla domanda perché non si fossero uniti subito agli assedianti essi risposero che avevano avuto paura dei soldati.

Dalla fortezza Il'ìnskaja Pugaèëv si diresse di nuovo sulla Vérchne-Ozërnaja. Voleva impadronirsene a tutti i costi, tanto più che in essa si trovava la moglie del generale di brigata Korf. Minacciava d'impiccarla, furioso contro il marito che aveva pensato d'ingannarlo con false trattative.

Il 30 novembre egli circondò nuovamente la fortezza e sparò tutto il giorno contro di essa coi cannoni, tentando di attaccarla ora da una parte ora dall'altra. De Marin, per incoraggiare i suoi, restò tutto il giorno sul terrapieno, caricando personalmente il cannone. Pugaèëv si ritirò e avrebbe voluto andare contro Stanislàvskij, ma, avendo intercettato la posta di Orenbùrg, ci ripensò e tornò nel sobborgo di Berdà.

Durante la sua assenza Reinsdorp volle tentare una sortita, e il 30, di notte, le truppe mossero dalla città, ma i cavalli, stremati dalla mancanza di foraggio, cadevano stecchiti sotto il peso dell'artiglieria, e un certo numero di cosacchi fuggì. Wallenstern fu costretto a tornare indietro.

A Orenbùrg cominciavano a scarseggiare i viveri. Reinsdorp li richiese a de Collongues e a Stanislàvskij. Entrambi glieli negarono con dei pretesti. Egli aspettava da un'ora all'altra l'arrivo di nuove truppe e non ne riceveva nessuna notizia, poiché era rimasto tagliato fuori da ogni parte, tranne che dalla Siberia e dalle steppe kirgizo-kajsàke. Per catturare un prigioniero che potesse fornire informazioni arrivava a mandare a volte anche mille uomini, e spesso senza successo. Su consiglio di Timašëv ebbe l'idea di disporre trappole intorno al terrapieno, per acchiappare come lupi i ribelli che scorrazzavano di notte nei pressi della città.

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Gli assediati stessi ridevano di tale astuzia militare, sebbene avessero ben poco da ridere; e Paduróv, in una delle sue lettere, rimproverava in tono mordace al governatore la sua infelice trovata, predicendogli la rovina e consigliandogli ironicamente di sottomettersi all'impostore.

Il borgo di Jaìk, primo focolaio della rivolta, per molto tempo non uscì dalla sottomissione, terrorizzato dalle truppe di Sìmonov. Finalmente i frequenti contatti con i ribelli e false voci sulla presa di Orenbùrg incoraggiarono i partigiani di Pugaèëv. I cosacchi mandati da Sìmonov fuori della città a formare posti di guardia e a catturare gli agitatori inviati da Berdà cominciarono a dare segni evidenti d'insubordinazione, a liberare i ribelli catturati, a legare i capi fedeli e a passare nel campo dell'impostore. Si diffuse la notizia che un reparto di ribelli si stava avvicinando. Nella notte fra il 29 e il 30 dicembre il maggiore Mostovšèikóv gli si mosse contro. Qualche ora dopo tre dei cosacchi che erano con lui entrarono al galoppo nella fortezza e annunciarono che Mostovšèikóv a sette verste dalla città era stato circondato e catturato dalle innumerevoli schiere di ribelli. Fu grande l'agitazione in città. Sìmonov fu preso dalla paura; per fortuna nella fortezza si trovava il capitano Krylóv, uomo deciso e ragionevole. Fin dal primo momento di disordine egli assunse il comando della guarnigione e diede le disposizioni necessarie. Il 31 dicembre una schiera di ribelli, sotto la guida di Tolkaèëv, entrò in città. Gli abitanti lo accolsero con entusiasmo e subito, armandosi con quel che capitava, si unirono a lui, si precipitarono da tutti i vicoli verso la fortezza, si appostarono nelle izbe alte e si misero a sparare dalle finestre. I colpi, dice un testimone, si diffondevano come il rullo di dieci tamburini. Nella fortezza non cadevano solamente gli uomini che rimanevano in vista, ma anche quelli che si sollevavano per un istante dai ripari. I ribelli, sicuri a dieci sàžen' dalla fortezza, e per la maggior parte gulebšèikì (cacciatori), arrivavano a colpire addirittura dentro le feritoie dalle quali sparavano gli assediati. Sìmonov e Krylóv volevano incendiare le

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case più vicine. Ma le bombe cadevano nella neve e si spegnevano, oppure venivano subito spente con l'acqua. Neanche un'izba prendeva fuoco. Infine tre soldati si offrirono d'incendiare il cortile più vicino e ci riuscirono. L'incendio si diffuse rapidamente. I ribelli uscirono di corsa; dalla fortezza cominciarono a sparar loro addosso coi cannoni; essi si allontanarono portando via i morti e i feriti. Verso sera la guarnigione rinfrancata fece una sortita e riuscì a incendiare ancora parecchie case.

Nella fortezza si trovavano circa mille uomini tra soldati di guarnigione e cosacchi obbedienti, un quantitativo sufficiente di polvere da sparo, ma pochi viveri. I ribelli assediarono la fortezza, ammassarono tronchi d'albero nella piazza che era stata incendiata, nelle strade e nei vicoli che conducevano ad essa, dietro gli edifici montarono ben sedici batterie, nelle izbe esposte ai colpi fecero doppi muri, colmando l'intercapedine di terra, e cominciarono a scavare delle gallerie. Gli assediati tentarono soltanto di allontanare il nemico, sgombrando la piazza e attaccando le izbe fortificate. Tali pericolose sortite avevano luogo ogni giorno, talvolta due volte al giorno, e riportavano sempre successo: i soldati erano esasperati, e i cosacchi obbedienti non potevano aspettarsi la grazia dai ribelli.

La situazione di Orenbùrg stava diventando terribile. Agli abitanti vennero requisiti la farina e il grano, e si cominciò a distribuirne loro una razione giornaliera. I cavalli già da tempo venivano nutriti con sterpi. La maggior parte di essi morì e venne usata come cibo. La fame aumentava. Un sacco di farina si vendeva (e anche questo in gran segreto) per venticinque rubli. Su suggerimento di Ryèkóv (accademico che si trovava a quell'epoca a Orenbùrg) si cominciarono ad arrostire pelli di buoi e di cavalli e, dopo averle tagliate a pezzetti minuti, si mescolavano al pane. Scoppiarono delle malattie. Il malcontento si faceva sempre più forte. Si temevano ribellioni.

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In questi frangenti Reinsdorp decise di tentare ancora una volta la fortuna delle armi, e il 13 gennaio tutte le truppe che si trovavano a Orenbùrg uscirono dalla città su tre colonne guidate da Wallenstern, Korf e Naùmov. Ma l'oscurità del mattino invernale, l'altezza della neve e la stanchezza dei cavalli impedirono un'azione concertata delle truppe. Naùmov arrivò per primo al luogo convenuto. I ribelli lo videro e riuscirono a prendere le loro misure. Wallenstern, che doveva occupare le alture presso la strada da Berdà a Kargalà, fu preceduto. Korf fu assalito da un violento fuoco d'artiglieria; schiere di ribelli cominciarono a penetrare nelle retrovie di entrambe le colonne. I cosacchi lasciati in riserva fuggirono e, arrivando al galoppo verso la colonna di Wallenstern, produssero uno sbandamento generale. Quest'ultimo si trovò fra tre fuochi; i suoi soldati fuggirono; Wallenstern si ritirò; Korf lo seguì; Naùmov, che inizialmente aveva operato con discreto successo, temendo di essere tagliato fuori si precipitò dietro di loro. Tutto l'esercito fuggì in disordine fino a Orenbùrg, dopo aver perduto ben quattrocento uomini fra morti e feriti, e lasciando quindici cannoni in mano ai banditi. Dopo quest'insuccesso Reinsdorp ormai non osava più agire in offensiva e, al riparo delle mura e dei cannoni, si mise ad aspettare la sua liberazione.

Bìbikov arrivò a Kazàn' il 25 dicembre. In città non trovò né il governatore, né i funzionari principali. La maggior parte dei nobili e dei mercanti era fuggita nei governatorati ancora sicuri. Brandt era a Kozmodem'jànsk. L'arrivo di Bìbikov rianimò la città demoralizzata; gli abitanti che l'avevano lasciata cominciarono a tornarvi. Il 1 gennaio 1774, dopo l'ufficio e la predica dell'arcivescovo di Kazàn' Veniamìn, Bìbikov riunì attorno a sé la nobiltà e pronunciò un discorso intelligente ed energico, nel quale, dopo aver descritto il male presente e l'impegno delle autorità a troncarlo, si rivolse alla classe che i sediziosi condannavano alla rovina insieme al governo, e chiese l'appoggio della sua devozione patriottica e della sua fedeltà al trono. Tale discorso produsse una

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profonda impressione. L'assemblea stabilì sul momento di organizzare e armare a proprie spese una truppa di cavalleria, reclutando un soldato ogni duecento anime. Il general-maggiore Lariónov, parente di Bìbikov, fu eletto comandante della legione. La nobiltà di Simbìrsk, di Svijàžsk e di Penza seguì tale esempio: furono costituiti altri due reparti di cavalleria e affidati al comando dei maggiori Gladkóv e Èemésov e del capitano Matjùnin. Così anche il municipio di Kazàn' armò a sue spese uno squadrone di ussari.

L'imperatrice manifestò alla nobiltà di Kazàn' la sua sovrana benevolenza, il suo favore e la protezione, e in una lettera personale a Bìbikov, dicendosi proprietaria di Kazàn', si offrì di prendere parte alle iniziative intraprese in comune. Il maresciallo della nobiltà Makàrov rispose all'imperatrice con un discorso scritto dal sottotenente della guardia Deržàvin, che allora si trovava presso il comandante in capo.

Bìbikov, cercando d'incoraggiare gli abitanti e i sottoposti che gli stavano intorno, sembrava indifferente e allegro, ma l'irrequietudine, la rabbia e la smania lo tormentavano. Nelle lettere al conte Èernyšëv, a Fonvìzin e ai suoi parenti egli raffigura chiaramente le difficoltà della sua posizione. Il 30 dicembre scriveva alla moglie: «Presa conoscenza di tutta la situazione, posso dire che le cose vanno molto male, tanto che anche se volessi non potrei descriverle; di colpo mi sono visto in circostanze e preoccupazioni ben peggiori di quelle che avevo conosciuto al principio in Polonia. Scrivo giorno e notte, senza mai lasciar cadere la penna di mano; faccio tutto il possibile e chiedo aiuto al Signore. Lui solo, con la sua grazia, può mettere a posto le cose. È vero che ci si è accorti della situazione un po' tardi. Le mie truppe hanno cominciato ad arrivare ieri; un battaglione di granatieri e due squadroni di ussari, che avevo ordinato di condurre coi cavalli di posta, sono arrivati. Ma per arrestare un simile contagio è molto poco, e il male è tale da

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assomigliare (ricordi?) all'incendio di Pietroburgo, quando a un tratto il fuoco divampava in diversi punti ed era alquanto difficile arrivare in tempo dappertutto. Nonostante questo con la fede in Dio farò tutto quello che sarà nelle mie possibilità. Il povero vecchio governatore Brandt è così sfinito che ormai si trascina a stento. Renderà conto a Dio del sangue versato e della morte di una quantità d'innocenti chi con eccessiva fretta ha rovinato qui la situazione e ha sguarnito la regione di truppe. Per il resto io sto bene, solo non ho voglia di bere e di mangiare, né mi vanno i dolciumi. Il male è grande, davvero terribile. Chiedo al mio signor padre le sue preghiere paterne, e invoco spesso la beata Evpràksija. Ahimè! Va male».

Effettivamente lo stato di cose era terribile. La sommossa generale dei baschiri, dei calmucchi e delle altre popolazioni sparse nella regione aveva tagliato le comunicazioni da ogni parte. Le truppe erano scarse e poco affidabili. I capi abbandonavano i loro posti e scappavano non appena vedevano un baschiro con l'arco, o un contadino degli stabilimenti con un randello. L'inverno aggravava le difficoltà. Le steppe erano ricoperte di neve alta. Era impossibile avanzare senza aver fatto provvista non solo di pane, ma anche di legna. I villaggi erano vuoti, le città principali in stato d'assedio, le altre occupate da bande di ribelli, le officine saccheggiate e incendiate; la plebe ovunque era in agitazione e si dava al brigantaggio. Le truppe inviate da ogni parte dello stato avanzavano lentamente. Il male, non trovando alcun ostacolo, si propagava in fretta e ampiamente. Dal borgo di Ilék fino a Gùr'ev i cosacchi dello Jaìk erano in rivolta. I governatorati di Kazàn', Nìžnij-Nóvgorod e Àstrachan' erano pieni di bande di briganti; la rivolta poteva propagarsi addirittura in Siberia; a Perm' cominciavano dei tumulti; Ekaterìnburg era in pericolo. I kirgizy-kajsàki, approfittando dell'assenza delle truppe, cominciarono a varcare la frontiera aperta, a saccheggiare le fattorie, a portare via il bestiame, a catturare gli abitanti. I popoli dell'oltre Kubàn' erano in agitazione, istigati dalla Turchia; perfino alcune potenze

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europee pensarono di approfittare della situazione difficile in cui si trovava allora la Russia.

Il colpevole di questo terribile sconvolgimento attirava l'attenzione generale. In Europa Pugaèëv veniva preso per uno strumento della politica turca. Voltaire, che rappresentava le opinioni dominanti dell'epoca, scriveva a Caterina: «C'est apparemment le chevalier de Tott qui a fait jouer cette farce, mais nous ne sommes plus aux temps de Démétrius, et telle pièce de théâtre qui réussissait il y a deux cents ans est sifflée aujourd'hui». L'imperatrice, seccata dei pettegolezzi europei, rispose a Voltaire con una certa insofferenza: «Monsieur, les gazettes seules font beaucoup de bruit du brigand Pougatschef, lequel n'est en relation directe ni indirecte avec M. de Tott. Je fais autant de cas des canons fondus par l'un que des entreprises de l'autre. M. de Pougatschef et M. de Tott ont cependant cela de commun que le premier file tous les jours sa corde de chanvre et que le second s'expose à chaque instant au cordon de soie».

Nonostante il suo disprezzo per il bandito, l'imperatrice non trascurava alcun mezzo per riportare alla ragione la plebe accecata. Furono diffusi dappertutto manifesti ammonitori; vennero promessi diecimila rubli per la cattura dell'impostore. Si temevano particolarmente i rapporti fra lo Jaìk e il Don. L'atamàn Efrémov fu destituito, e al suo posto venne eletto Semën Sùlin. A Èerkàssk fu comunicato l'ordine di bruciare la casa e i beni di Pugaèëv, e di mandare la sua famiglia, senza arrecarle alcuna offesa, a Kazàn', per l'identificazione dell'impostore in caso venisse catturato. Le autorità del Don eseguirono alla lettera le parole del decreto imperiale: la casa di Pugaèëv, che si trovava nella stanìca Zimovéjskaja, era stata venduta un anno prima dalla moglie, ridotta in estrema povertà, ed era stata già smontata e trasportata in un altro cortile. Essa fu riportata al suo posto e le fu dato fuoco in presenza del clero e di tutta la stanìca. I boia dispersero la cenere al vento, il cortile venne circondato da un fosso e recintato, e

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lasciato per sempre in abbandono come un luogo maledetto. Le autorità, a nome di tutti i cosacchi di Zimovéjskaja, chiesero il permesso di trasferire la loro stanìca in un altro luogo, anche se meno vantaggioso. La sovrana non acconsentì a una dimostrazione di zelo così dispendiosa, e si limitò a cambiare il nome di Zimovéjskaja in stanìca di Potëmkin, coprendo i cupi ricordi sul ribelle con la gloria di un nome nuovo, già caro a lei e alla patria. La moglie di Pugaèëv, il figlio e le due figlie (tutti e tre minorenni) furono spediti a Kazàn', dove fu mandato anche suo fratello, che prestava servizio come cosacco nella seconda armata. Frattanto erano state raccolte le seguenti indicazioni dettagliate sul malfattore che faceva vacillare lo stato.

Emel'jàn Pugaèëv, cosacco che copriva incarichi militari nella stanìca Zimovéjskaja, era figlio di Ivàn Michàjlov, morto in tempi lontani. Aveva quarant'anni, era di media statura, scuro di carnagione e magro; aveva i capelli castani, la barba nera, piccola e a punta. Gli mancava un dente superiore, perduto quand'era ragazzino facendo a pugni. Sulla tempia sinistra aveva una macchia bianca, e sul petto dei segni che gli erano rimasti dopo la malattia chiamata morbo nero. Era analfabeta e si faceva il segno della croce alla maniera degli scismatici. Una decina d'anni prima s'era sposato con la cosacca Sóf'ja Nedjùžina, dalla quale aveva avuto cinque figli. Nel 1770 aveva prestato servizio nella seconda armata, s'era trovato alla presa di Bender e dopo un anno gli era stato concesso un congedo di malattia sul Don. Per ristabilirsi era andato a Èerkàssk. Al suo ritorno in patria l'atamàn di Zimovéjskaja gli aveva chiesto, all'assemblea del villaggio, dove avesse preso il cavallo baio sul quale era arrivato a casa. Pugaèëv aveva risposto che l'aveva comprato a Taganróg, ma i cosacchi, conoscendo la sua vita senza principi, non gli avevano creduto, e l'avevano mandato a prendere un certificato scritto dell'acquisto. Pugaèëv era partito. Nel frattempo si venne a sapere che istigava dei cosacchi stabiliti presso Taganròg a fuggire oltre il Kubàn'. Fu deciso di rimettere Pugaèëv nelle mani del governo. Tornato nel

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mese di dicembre egli si nascose nella sua fattoria, dove fu catturato; riuscì tuttavia a fuggire, vagabondò per circa tre mesi non si sa dove e infine, durante la quaresima, una sera arrivò di nascosto a casa sua, e bussò alla finestra. La moglie lo lasciò entrare e avvertì i cosacchi del suo arrivo. Pugaèëv fu di nuovo arrestato e mandato sotto scorta dall'investigatore capo Makàrov nella stanìca di Nìžnjaja Èìrskaja, e di lì a Èerkàssk. Lungo la strada fuggì di nuovo, e da allora non si fece più vedere sul Don. Dalle deposizioni dello stesso Pugaèëv, che alla fine del 1772 venne accompagnato nella cancelleria degli affari di palazzo, già si sapeva che dopo la sua fuga s'era nascosto oltre la frontiera polacca, nel sobborgo dei vecchi credenti di Vetka; poi aveva preso un passaporto all'avamposto di Dobrjánsk facendosi passare per un rifugiato dalla Polonia, ed era arrivato di nascosto sullo Jaìk vivendo di elemosina. Tutte queste notizie furono divulgate; intanto il governo proibì che si parlasse di Pugaèëv, il cui nome aizzava la plebe. Tale misura poliziesca provvisoria ebbe vigore di legge fino all'avvento al trono del defunto sovrano Alessandro, quando fu permesso di scrivere e pubblicare su Pugaèëv. Ancora oggi i vecchissimi testimoni della rivolta di allora rispondono controvoglia alle domande dei curiosi.

V

Disposizioni di Bìbikov - Primi successi - Presa di Samàra e di Zaìnsk - Deržàvin - Mìchel'son - Prosecuzione dell'assedio del borgo di Jaìk - Nozze di Pugaèëv - Distruzione della Difesa di Ilék - Morte di Lýsov - Battaglia sotto Tatìšèeva - Fuga di Pugaèëv - Esecuzione di Chlopùša - Liberazione di Orenbùrg - Pugaèëv sconfitto per la seconda volta - Battaglia presso Èesnokóvka - Liberazione di Ufà e del borgo di Jaìk - Morte di Bìbikov.

Finalmente le truppe inviate da ogni parte contro Pugaèëv cominciarono ad avvicinarsi al luogo di destinazione. Bìbikov le diresse su Orenbùrg. Il general-maggiore principe Golìcyn col suo

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corpo d'armata doveva sbarrare la strada per Mosca, operando da Kazàn' a Orenbùrg. Al general-maggiore Mansùrov fu affidata l'ala destra per coprire la linea di Samàra, verso la quale procedevano con i loro distaccamenti il maggiore Mùffel e il tenente colonnello Grinëv. Il general-maggiore Lariònov fu mandato verso Ufà e Ekaterìnburg. De Collongues difendeva la Siberia e doveva distaccare il maggiore Gàgrin con un solo reparto da campo per la difesa di Kungùr. A Malýkovka venne mandato il tenente della guardia Deržàvin per la protezione del Volga dalla parte di Penza e di Saràtov. Il successo confermò la fondatezza di tali disposizioni. Bìbikov all'inizio dubitava della forza d'animo delle sue truppe. In uno dei reggimenti (in quello di Vladìmir) comparvero dei sostenitori di Pugaèëv. Alle autorità delle città attraverso le quali stava passando il reggimento fu ordinato di sparpagliare per le taverne dei funzionari travestiti. In tal modo i ribelli furono scoperti e arrestati. In seguito Bìbikov restò soddisfatto dei suoi reggimenti. «I miei affari, grazie a Dio!», scriveva in febbraio, «vanno migliorando sempre più; le truppe avanzano verso il covo dei fuorilegge. Che siano contenti di me (a Pietroburgo) lo vedo da tutte le lettere, ma che almeno chiedessero all'oca: non ti gelano le zampe?». Il maggiore Mùffel con un solo reparto da campo il 29 dicembre si avvicinò a Samàra, occupata il giorno prima da una banda di ribelli, e, scontratosi con loro, li batté e li inseguì fino alla città. Qui essi, sotto la protezione dei cannoni della città, pensavano di opporre resistenza. Ma i dragoni misero mano alle sciabole e fecero ingresso in città colpendo e travolgendo i fuggitivi. In quel momento stesso a due verste da Samàra apparvero i calmucchi di Stàvropol', che venivano in aiuto dei ribelli. Alla vista della cavalleria, lanciata contro di loro, fuggirono. La città fu ripulita. Al vincitore toccarono sei cannoni e duecento prigionieri. Al seguito di Mùffel entrarono a Samàra il tenente colonnello Grinëv e il general-maggiore Mansùrov. Quest'ultimo mandò immediatamente un reparto a Stàvropol' per soffocare la rivolta dei calmucchi; ma questi s'erano dispersi, e il

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distaccamento fece ritorno a Samàra senza averli visti.

Il colonnello Bìbikov, distaccato da Kazàn' con quattro compagnie di granatieri e uno squadrone di ussari di rinforzo al general-maggiore Fréjman, che si trovava totalmente inattivo a Bugul'mà, marciò su Zaìnsk, il cui comandante settantenne, il capitano Mertvecóv, aveva accolto con onore una banda di briganti, cedendo loro il comando della città. I ribelli si erano fortificati come avevano potuto; a cinque verste dalla città Bìbikov sentì già i colpi dei loro cannoni. I loro cavalli di Frisia furono spezzati, le batterie prese, i sobborghi occupati; era un fuggi fuggi generale. Venticinque villaggi in rivolta si sottomisero. A Bìbikov si presentavano in un giorno fino a quattromila contadini pentiti; furono loro consegnati dei lasciapassare e se ne tornarono tutti a casa.

Deržàvin, al comando di tre compagnie di fucilieri, ridusse all'obbedienza i villaggi degli scismatici che si trovavano sulle rive dell'Irgìz, e le orde delle tribù nomadi che vivevano fra lo Jaìk e il Volga. Saputo un giorno che in un villaggio la popolazione si era radunata in gran numero con l'intenzione di mettersi al servizio di Pugaèëv, egli arrivò con due cosacchi direttamente sul luogo della riunione, e richiese al popolo delle spiegazioni. Due degli istigatori uscirono dalla folla, gli dichiararono le loro intenzioni e fecero per avvicinarglisi con minacce e improperi. La gente era già pronta a scatenarsi. Ma Deržàvin si mise a gridare severamente contro di loro e ordinò ai suoi cosacchi d'impiccare entrambi i cospiratori. Il suo ordine venne eseguito all'istante, e l'assembramento si disperse.

Il general-maggiore Lariónov, capo della legione della nobiltà mandato a liberare Ufà, non corrispose alla fiducia generale. «Per i miei peccati», scriveva Bìbikov, «mi si mise alle costole A.L., caro mio, che si è offerto lui stesso dal principio di comandare un distaccamento speciale, e ora non posso rimuoverlo dal suo posto». Lariónov restava a Bakàly del tutto inattivo. La sua

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incapacità costrinse il comandante in capo a mandare al suo posto un ufficiale, che una volta era stato ferito sotto i suoi occhi e che si era già distinto nella guerra contro i confederati, il tenente colonnello Mìchel'son.

Il principe Golìcyn assunse il comando delle truppe di Fréjman. Il 22 gennaio attraversò il Kama. Il 6 febbraio gli si unì il colonnello Bìbikov; Mansùrov il 10. Le truppe marciarono su Orenbùrg.

Pugaèëv sapeva che le truppe si stavano avvicinando e se ne preoccupava poco. Sperava nel tradimento dei soldati e nella negligenza dei capi. «Cadranno da soli nelle nostre mani», rispondeva ai suoi complici, quando questi lo invitavano insistentemente a intervenire contro i reparti che si avvicinavano. In caso di sconfitta, invece, la sua intenzione era di fuggire lasciando tutta la sua teppa all'arbitrio della sorte. A questo scopo faceva nutrire col foraggio migliore trenta cavalli, da lui scelti per la corsa al galoppo. I baschiri sospettavano le sue intenzioni e brontolavano. «Ci hai spinti alla rivolta», dicevano, «e ora ci vuoi lasciare, e quelli ci faranno fuori, come hanno fatto fuori i nostri padri». (Le esecuzioni del 1740 erano ancora fresche nella loro memoria). Quanto ai cosacchi dello Jaìk, in caso d'insuccesso pensavano di consegnare Pugaèëv in mano al governo e di meritarsi con questo il perdono. Essi lo tenevano d'occhio come un ostaggio. Bìbikov capiva loro e Pugaèëv quando scriveva a Fonvìzin queste righe straordinarie: «Pugaèëv non è nient'altro che un fantoccio, col quale giocano i briganti, i cosacchi dello Jaìk: la cosa fondamentale non è Pugaèëv, ma lo scontento generale».

Pugaèëv si allontanò da sotto Orenbùrg diretto al borgo di Jaìk. Il suo arrivo rianimò l'attività dei ribelli. Il 20 gennaio guidò di persona un assalto memorabile. Durante la notte fu fatta saltare in aria una parte del terrapieno sotto la batteria costruita nei pressi dello Stàrica (un antico letto dello Jaìk). I ribelli, sotto il fumo e la polvere, si gettarono gridando sulla fortezza, occuparono il fossato e, con l'aiuto delle scale, tentarono con ogni sforzo di salire sul

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bastione, ma furono rovesciati e respinti. Tutti gli abitanti, perfino le donne e i bambini, li sostenevano. Pugaèëv stava nel fossato con la lancia in mano, all'inizio tentando da amico di incoraggiare lo zelo degli assedianti, alla fine trafiggendo egli stesso i fuggiaschi. L'assalto si protrasse per nove ore di seguito, fra colpi ininterrotti di cannone e di fucile. Infine il sottotenente Tolstovàlov fece una sortita con cinquanta volontari, ripulì il fossato e cacciò via i ribelli, uccidendo quattrocento uomini e perdendone non più di quindici. Pugaèëv digrignava i denti. Giurò d'impiccare non solo Sìmonov e Krylóv, ma anche tutta la famiglia di quest'ultimo, che a quel tempo si trovava a Orenbùrg. In questo modo veniva condannato a morte anche il bambino di quattro anni che in seguito sarebbe diventato il celebre favolista Krylóv.

Pugaèëv nel borgo di Jaìk vide la giovane cosacca Ustìn'ja Kuznecóva e s'innamorò di lei. La chiese in matrimonio. Il padre e la madre ne furono stupefatti e gli risposero: «Di grazia, sire! Nostra figlia non è né principessa, né regina; come può essere tua moglie? E poi come fai a sposarti se la madre nostra sovrana è ancora in buona salute?». Pugaèëv, tuttavia, all'inizio di febbraio sposò Ustìn'ja, la nominò imperatrice, le designò dame di corte e damigelle d'onore tra le cosacche dello Jaìk e volle che nella supplica si nominasse dopo il sovrano Pëtr Fëdoroviè la sua consorte sovrana Ustìn'ja Petróvna. I popi non acconsentirono, dicendo di non aver ricevuto l'autorizzazione per questo dal sinodo. Il loro rifiuto addolorò Pugaèëv, ma egli non insistette nella richiesta. Sua moglie restava nel borgo di Jaìk, e lui andava a trovarla ogni settimana. La sua presenza era sempre contrassegnata da nuovi assalti alla fortezza. Gli assediati, da parte loro, non si scoraggiavano. Il loro fuoco non taceva, le sortite non s'interrompevano.

La notte del 19 febbraio dalla città arrivò di corsa alla fortezza un ragazzino cosacco, ad annunciare che il giorno prima era stata scavata sotto il campanile una galleria dove erano stati collocati

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venti pud di polvere da sparo, e che Pugaèëv aveva fissato per quel giorno l'attacco alla fortezza. L'informazione sembrò inverosimile. Sìmonov suppose che il ragazzino fosse stato inviato apposta per seminare terrore a vuoto. Gli assediati stavano scavando una controgalleria e non avevano sentito nessun rumore di un lavoro sotterraneo: con venti pud di polvere da sparo era un po' difficile far saltare un campanile alto, a sei ordini. Comunque, giacché nel sotterraneo sotto di esso veniva custodita tutta la provvista di polvere da sparo (cosa che potevano sapere anche i ribelli), si affrettarono a portarla via, smontarono il pavimento di mattoni e cominciarono a scavare una controgalleria. La guarnigione si preparò; si attendeva lo scoppio e l'assalto. Non erano passate neanche due ore che all'improvviso la galleria fu fatta saltare; il campanile oscillò piano. La stanza inferiore crollò e i sei ordini superiori sprofondarono, schiacciando diverse persone che si trovavano vicino al campanile. Le pietre che non si erano disperse in aria caddero in un unico cumulo. Le sei sentinelle che si trovavano sul piano più alto vicino al cannone precipitarono giù vive, e una di esse, che in quel momento dormiva, cadde non solo senza farsi alcun male, ma addirittura senza svegliarsi.

Il campanile stava ancora crollando che già dalla fortezza tuonarono i cannoni; la guarnigione, in assetto da combattimento, occupò subito le rovine del campanile e vi piazzò una batteria. I ribelli, che non si aspettavano un'accoglienza del genere, si fermarono perplessi; dopo qualche minuto lanciarono il loro solito grido, ma nessuno andava avanti. Invano i comandanti gridavano: Avanti, avanti, valorosi atamàn! L'attacco non ci fu; le grida si protrassero fino all'alba, poi i rivoltosi si dispersero brontolando contro Pugaèëv che aveva loro promesso che all'esplosione del campanile sarebbe caduta sulla fortezza una grandine di pietre, e avrebbe schiacciato tutta la guarnigione.

Il giorno dopo Pugaèëv ricevette da Orenbùrg la notizia che il principe Golìcyn si stava avvicinando, e partì in tutta fretta per

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Berdà, prendendo con sé cinquecento uomini di cavalleria e circa millecinquecento carri. Questa notizia arrivò anche agli assediati. Essi si abbandonarono alla gioia calcolando che avrebbero ricevuto i rinforzi entro due settimane. Ma il momento della loro liberazione era ancora lontano.

Durante le frequenti assenze di Pugaèëv, Šigàev, Paduróv e Chlopùša dirigevano l'assedio di Orenbùrg. Chlopùša, approfittando della sua assenza, pensò d'impadronirsi della Difesa dell'Ilék (dove si ricava il salgemma) e alla fine di febbraio, prendendo con sé quattrocento uomini, l'assalì. La Difesa, con l'aiuto dei condannati ai lavori forzati del luogo, fra i quali si trovava anche la famiglia di Chlopùša, venne presa. Le proprietà demaniali furono saccheggiate; gli ufficiali massacrati, eccetto uno risparmiato su richiesta dei forzati; gli ergastolani furono arruolati nella banda dei ribelli. Pugaèëv, di ritorno a Berdà, s'indignò dell'arbitrio dell'audace forzato e lo rimproverò per la devastazione della Difesa, nonché per il danno arrecato all'amministrazione. Pugaèëv si mise in marcia contro il principe Golìcyn con una truppa scelta di diecimila uomini, lasciando sotto Orenbùrg Šigàev con altri duemila. Alla vigilia aveva fatto segretamente strangolare uno dei suoi complici fidati, Dmitrij Lýsov. Qualche giorno prima si erano recati insieme da Kargalà a Berdà, entrambi ubriachi, e strada facendo avevano litigato. Lýsov si era slanciato da dietro addosso a Pugaèëv e l'aveva colpito con la lancia. Pugaèëv era caduto da cavallo, ma la corazza che portava sempre sotto le vesti gli aveva salvato la vita. I compagni li avevano rappacificati, e Pugaèëv aveva bevuto con Lýsov fino a poche ore prima della sua morte.

Pugaèëv occupò le fortezze Tockàja e Soroèìnskaja e con la temerarietà di sempre, in piena notte, durante una forte tormenta di neve, attaccò i distaccamenti avanzati di Golìcyn, ma fu respinto dai maggiori Puškin ed Elàgin. In quel combattimento restò ucciso il valoroso Elàgin. Nel frattempo Mansùrov si unì al principe

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Golìcyn. Pugaèëv si ritirò verso la fortezza Novosergiévskaja senza aver avuto il tempo d'incendiare le fortezze che abbandonava. Golìcyn, lasciando le sue provviste e Soroèìnskaja sotto la scorta di quattrocento uomini con otto cannoni, dopo due giorni riprese la marcia. Pugaèëv spostò le truppe verso il borgo di Ilék e, deviando all'improvviso verso Tatìšèeva, vi si insediò e cominciò a fortificarsi. Golìcyn prese a inviare nel borgo di Ilék il tenente colonnello Bedrjàga con tre squadroni di cavalleria, rafforzata dalla fanteria e dai cannoni, mentre lui stesso marciò direttamente contro Perevolóckaja (dove ritornò anche Bedrjàga); da lì, lasciando le salmerie sotto la guardia di un solo battaglione alla guida del tenente colonnello Grinëv, il 22 marzo avanzò fin sotto Tatìšèeva.

La fortezza, presa e incendiata da Pugaèëv l'anno precedente, era stata riattivata di nuovo da lui stesso. Le fortificazioni di legno bruciate erano state sostituite da altre di neve. Le iniziative di Pugaèëv sorpresero il principe Golìcyn, che non si aspettava da lui simili cognizioni d'arte militare. Golìcyn dapprima distaccò trecento uomini in ricognizione del nemico. I ribelli, in agguato, li lasciarono avvicinare fino alla fortezza e poi all'improvviso fecero una potente sortita, ma vennero trattenuti da due squadroni di rinforzo ai primi. Il colonnello Bìbikov inviò subito dei cacciatori che, sciando rapidamente nella neve alta, occuparono tutte le alture vantaggiose. Golìcyn suddivise le truppe in due colonne, cominciò ad avvicinarsi e aprì il fuoco, al quale, dalla fortezza, venne risposto con altrettanta violenza. Il cannoneggiamento si protrasse per tre ore. Golìcyn si rese conto che con i soli cannoni era impossibile vincere, e ordinò al generale Fréjman di attaccare con la colonna sinistra. Pugaèëv gli schierò contro sette cannoni. Fréjman se ne impadronì e si slanciò sul terrapieno ghiacciato. I ribelli si difendevano strenuamente, ma furono costretti a cedere alla forza delle armi regolari, e fuggirono in tutte le direzioni. La cavalleria, fino ad allora inattiva, li inseguì su tutte le strade. Lo spargimento di sangue fu terribile. Nella sola fortezza caddero

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milletrecento ribelli. I loro corpi giacevano in un raggio di venti verste intorno a Tatìšèeva. Golìcyn perse circa quattrocento uomini fra morti e feriti, dei quali più di venti erano ufficiali. La vittoria fu decisiva. Trentasei cannoni e più di tremila prigionieri toccarono al vincitore. Pugaèëv con sessanta cosacchi si fece strada attraverso le truppe nemiche e con quattro compagni entrò al galoppo nel borgo di Berdà, annunciando la sua sconfitta. I ribelli cominciarono a lasciare Berdà, chi a cavallo, chi in slitta. Sui carri vennero ammassati i beni saccheggiati. Le donne e i bambini andavano a piedi. Pugaèëv fece spaccare le botti di vino che stavano nei pressi della sua izba, temendo sbornie e disordini. Il vino scorse a fiotti per la strada. Intanto Šigàev, vedendo che tutto era perduto, pensò di procurarsi il perdono e, arrestati Pugaèëv e Chlopùša, mandò al governatore di Orenbùrg l'offerta di consegnargli l'impostore, chiedendo che gli fosse dato un segnale con due colpi di cannone. Il comandante di cento uomini Logìnov, che aveva seguito Pugaèëv nella fuga, si presentò a Reinsdorp con questa notizia.

Il povero Reinsdorp non osava credere alla sua fortuna e non seppe decidersi a dare il segnale richiesto per due ore intere! Pugaèëv e Chlopùša vennero nel frattempo liberati dai deportati che si trovavano a Berdà. Pugaèëv fuggì con dieci cannoni, il bottino, e con i duemila furfanti che gli erano rimasti. Chlopùša corse al galoppo a Kargalà con l'intenzione di salvare la moglie e il figlio. I tartari lo legarono e fecero informare della cosa il governatore. Il famoso forzato venne condotto a Orenbùrg, dove finalmente gli fu tagliata la testa nel giugno del 1774.

Gli abitanti di Orenbùrg, alla notizia della loro liberazione, si precipitarono fuori della città affollandosi dietro ai seicento uomini di fanteria mandati da Reinsdorp nel sobborgo abbandonato, e si impadronirono delle riserve di viveri. A Berdà furono trovati diciotto cannoni, diciassette botti di monete di rame e una quantità di pane. A Orenbùrg si affrettarono a rendere grazie

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a Dio per l'inattesa liberazione. Si benediceva Golìcyn. Reinsdorp gli scrisse congratulandosi con lui per la vittoria e chiamandolo il salvatore di Orenbùrg. Cominciarono a portare da ogni parte provviste in città. Sopraggiunse l'abbondanza, e il disastroso assedio di sei mesi fu dimenticato in un gioioso istante. Il 26 marzo Golìcyn arrivò a Orenbùrg; gli abitanti lo accolsero con indescrivibile entusiasmo.

Bìbikov aspettava con impazienza questo brusco cambiamento delle cose. Per affrettare le operazioni militari partì da Kazàn', e a Bugul'mà lo attendeva la notizia della completa disfatta di Pugaèëv. Se ne rallegrò in modo indicibile. «È un macigno che mi son tolto dal cuore (scriveva il 26 marzo a sua moglie). Oggi i miei entreranno a Orenbùrg; mi affretterò là immediatamente anch'io, per poter manovrare più comodamente le mie forze; quanti peli bianchi si sono aggiunti alla mia barba lo vede Iddio; e sulla testa la calvizie si è estesa ancor più: però anche col gelo esco senza parrucca».

Nel frattempo Pugaèëv, evitate le pattuglie sguinzagliate al suo inseguimento, arrivò la mattina del 24 nel sobborgo di Seìtovskaja, la incendiò e marciò sul borgo di Sakmàra, raccogliendo per strada nuova marmaglia. Egli riteneva certo che da Tatìšèeva Golìcyn si sarebbe diretto con tutte le sue forze verso il borgo di Jaìk, e improvvisamente tornò ad occupare il sobborgo di Berdà, sperando d'impadronirsi di sorpresa di Orenbùrg. Golìcyn, informato di questa sfrontatezza dal colonnello Chorvàt, che stava inseguendo Pugaèëv fin da Tatìšèeva, rinforzò le sue truppe con i reparti di fanteria, e i cosacchi che si trovavano a Orenbùrg; dopo aver preso per loro gli ultimi cavalli dei suoi ufficiali, marciò immediatamente incontro all'impostore e lo sorprese a Kargalà. Pugaèëv, accortosi del suo errore, cominciò a ritirarsi valendosi abilmente della posizione del luogo. Sulla strada stretta, contro i colonnelli Bìbikov e Aršénevskij, egli piazzò sette cannoni, e così riparato si diresse prontamente verso il fiume Sakmàra. Ma a quel

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punto Bìbikov aveva già ricevuto i cannoni; occupata una montagna, vi schierò una batteria; Chorvàt, nell'ultima gola, gettandosi contro i ribelli, tolse loro i cannoni e, dopo averli messi in fuga, ne inseguì le schiere per otto verste, e insieme con loro fece ingresso nel borgo di Sakmàra. Pugaèëv perse gli ultimi cannoni, quattrocento suoi uomini furono uccisi e tremilacinquecento fatti prigionieri. Fra questi ultimi si trovavano anche i suoi principali collaboratori: Šigàev, Poèitàlin, Paduróv e altri. Pugaèëv con quattro contadini degli stabilimenti fuggì a Preèìstenskaja e di lì verso le officine degli Urali. La cavalleria stanca non riuscì a raggiungerlo. Messa a segno questa vittoria decisiva, Golìcyn tornò a Orenbùrg, dopo aver mandato Fréjman a reprimere la Baschiria, Aršénevskij a rastrellare la nuova strada di Mosca e Mansùrov nel borgo di Ilék affinché, dopo aver ripulito tutta quella regione, si recasse a liberare Sìmonov.

Mìchel'son da parte sua operava non meno felicemente. Assunto il 18 marzo il comando del suo reparto, marciò immediatamente su Ufà. Contro di lui, per sbarrargli la strada, furono mandati da Èìka duemila uomini con quattro cannoni, che lo attendevano nel villaggio di Žùkov. Mìchel'son, lasciandoseli nelle retrovie, marciò direttamente su Èesnokóvka, dove si trovava Èìka con diecimila ribelli e, dopo aver disperso cammin facendo qualche piccolo distaccamento, all'alba del 25 arrivò nel villaggio di Trébikova (a cinque verste da Èesnokóvka). Qui si scontrò con una banda di ribelli con due cannoni. Il maggiore Chàrin li sconfisse e li disperse: i cacciatori s'impadronirono dei cannoni, e Mìchel'son proseguì la sua marcia in avanti. Le salmerie procedevano sotto la protezione di cento uomini e di un cannone. Essi coprivano anche le retrovie di Mìchel'son in caso d'attacco. Il 26, all'alba, egli incontrò i ribelli presso il villaggio di Zùbovka. Una parte di essi uscì di corsa sugli sci e a cavallo e, disponendosi su entrambi i lati della strada, tentò di accerchiarlo. Tremila uomini, appoggiati da dieci cannoni, marciarono direttamente contro di lui. Nel frattempo avevano aperto il fuoco dalla batteria piazzata nel

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villaggio. Il combattimento si protrasse per quattro ore. I ribelli si battevano coraggiosamente. Infine Mìchel'son, vedendo la cavalleria che veniva loro in rinforzo, concentrò tutte le sue forze contro la massa degli avversari e ordinò alla sua cavalleria, che si era appiedata all'inizio della battaglia, di rimontare in sella e di attaccare con la sciabola. Le prime file dei ribelli presero la fuga, abbandonando i cannoni. Chàrin, fendendoli con la sciabola, entrò a Èesnokóvka insieme con loro. Frattanto la cavalleria, che stava recandosi in loro soccorso a Zùbovka, fu respinta e si rifugiò anch'essa a Èesnokóvka, dove Chàrin l'affrontò e la catturò completamente. Gli sciatori, che erano riusciti a penetrare nelle retrovie di Mìchel'son e a tagliarlo dalle salmerie, vennero in quel momento sbaragliati da due compagnie di granatieri. Essi fuggirono nei boschi disperdendosi. Tremila ribelli furono fatti prigionieri. Ai contadini degli stabilimenti e a quelli sotto l'autorità del collegio dell'economia fu concesso di tornare nei villaggi. Furono sequestrati venticinque cannoni e una quantità di approvvigionamenti. Mìchel'son impiccò due dei ribelli principali: un maggiore baschiro e un capo eletto del villaggio di Èesnokóvka. Ufà venne liberata. Mìchel'son, senza fare soste, marciò su Tabìnsk, dove, dopo i fatti di Èesnokòvka, arrivarono al galoppo Ul'jànov e Èìka. Là essi furono arrestati dai cosacchi e consegnati al vincitore, che li mandò in catene a Ufà. Dopo di che Mìchel'son diramò pattuglie in tutte le direzioni e riuscì a ristabilire la calma nella maggior parte dei villaggi in rivolta.

Il borgo di Ilék e le fortezze Ozërnaja e Rassypnàja, testimoni dei primi successi di Pugaèëv, erano già stati abbandonati dai ribelli. I loro capi, Èulóšnikov e Kizilbàšin, erano fuggiti nel borgo di Jaìk. La notizia della sconfitta dell'impostore sotto Tatìšèeva li raggiunse quel giorno stesso. I fuggiaschi, inseguiti dagli ussari di Chorvàt, attraversarono al galoppo le fortezze gridando: salvatevi, ragazzi! tutto è perduto! Essi si fasciarono alla meglio le ferite e si affrettarono verso il borgo di Jaìk. Presto sopraggiunse il disgelo di primavera: i fiumi ghiacciati si fendettero, e i corpi di quelli che

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erano stati uccisi sotto Tatìšèeva passarono galleggiando davanti alle fortezze. Le mogli e le madri stavano sulla riva, tentando di riconoscere i mariti e i figli. Ad Ozërnaja una vecchia cosacca errava ogni giorno lungo lo Jaìk e tirava verso la riva con un uncino i cadaveri galleggianti dicendo: «Non sei tu, bambino mio? non sei tu, Stëpuška mio? non sono i tuoi riccioli neri che l'acqua fresca lava?», e, vedendo un viso sconosciuto, respingeva piano il cadavere.

Mansùrov il 6 e il 7 aprile occupò le fortezze abbandonate e il borgo di Ilék, trovando in quest'ultimo quattordici cannoni. Il 15, durante la pericolosa traversata del piccolo fiume straripato Býkovka, egli fu attaccato da Ovèìnnikov, Perfìl'ev e Dégterev. I ribelli furono sconfitti e dispersi; Bedrjàga e Borodìn li inseguirono; ma l'impraticabilità delle strade salvò i capi. Mansùrov marciò senza indugi verso il borgo di Jaìk.

La fortezza si trovava in stato d'assedio dal principio dell'anno. L'assenza di Pugaèëv non aveva raffreddato i ribelli. Nelle fucine si preparavano picconi e vanghe; si erigevano nuove batterie. I ribelli continuavano attivamente i loro lavori di sterramento, ora facendo franare gli argini del Èeèóra e distruggendo così le comunicazioni fra una parte e l'altra della città, ora scavando trincee per ostacolare le sortite. Progettavano di scavare gallerie lungo la riva scoscesa dello Stàrica, tutt'intorno alla fortezza, sotto la cattedrale, sotto le batterie e sotto la residenza del comandante. Gli assediati si trovavano in continuo pericolo e furono costretti a loro volta a scavare controgallerie in tutte le direzioni, aprendo a fatica la terra gelata alla profondità di un aršìn; circondarono poi la fortezza di un nuovo muro e di sacchi pieni di mattoni del campanile crollato.

All'alba del 9 marzo duecentocinquanta soldati di linea uscirono dalla fortezza; scopo della sortita era la distruzione della nuova batteria, che inquietava fortemente gli assediati. I soldati arrivarono fino alle barricate, ma furono accolti da un fuoco

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violento. Ne nacque uno scompiglio. I ribelli li catturavano negli stretti passaggi fra le barricate e le izbe che essi volevano incendiare; trafiggevano i feriti e quelli che cadevano, e con le scuri tagliavano loro la testa. I soldati fuggivano. Ne rimasero uccisi una trentina, feriti all'incirca ottanta. Mai la guarnigione era tornata da una sortita con una simile perdita. Erano riusciti a incendiare una batteria, non quella principale, e qualche izba. La deposizione di tre ribelli catturati accrebbe lo sconforto degli assediati: essi riferirono delle gallerie scavate sotto la fortezza, e dell'arrivo imminente di Pugaèëv. Sìmonov terrorizzato ordinò d'iniziare ovunque nuovi lavori; attorno alla sua casa saggiavano continuamente il terreno con i trapani; poi presero a scavare un nuovo fossato. Gli uomini, stremati dal lavoro pesante, quasi non dormivano; di notte metà della guarnigione restava col fucile imbracciato; all'altra metà era permesso di sonnecchiare stando seduti. L'ospedale da campo si riempì di ammalati; le provviste alimentari erano sufficienti per una decina di giorni. Ai soldati si cominciò a distribuire solo un quarto di libbra di farina al giorno, cioè un decimo della razione abituale. Non c'erano più né granaglia né sale. Si faceva bollire l'acqua in una marmitta da campo e, dopo averla imbiancata con la farina, ognuno ne riempiva la propria gavetta; questo era il nutrimento giornaliero. Le donne non riuscivano più a sopportare la fame: cominciarono a chiedere di uscire dalla fortezza, cosa che fu loro accordata; alcuni soldati deboli e malati le seguirono; ma i ribelli non li accettarono e, quanto alle donne, dopo averle tenute una notte in detenzione, le ricacciarono indietro nella fortezza pretendendo il rilascio dei loro complici, e promettendo in cambio di accogliere e nutrire gli evacuati. Sìmonov non vi acconsentì, temendo di aumentare il numero dei nemici.

La fame si faceva d'ora in ora più terribile. La carne di cavallo, in un primo tempo razionata, ormai non c'era più. Cominciarono a nutrirsi di gatti e di cani. Al principio dell'assedio, all'incirca tre mesi prima, i cavalli uccisi erano stati gettati sul ghiaccio; se ne

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ricordarono, e la gente ne rosicchiò avidamente le ossa spolpate dai cani. Infine anche questa riserva si esaurì. Si misero a escogitare nuovi metodi di alimentazione. Trovarono un tipo di argilla, particolarmente molle e non mescolata alla sabbia. Provarono a cuocerla e, facendone una specie di poltiglia, cominciarono a utilizzarla come cibo. I soldati erano allo stremo delle forze. Alcuni non potevano camminare. I figli delle madri malate deperivano e morivano. Le donne tentarono diverse volte di commuovere i ribelli e, gettandosi ai loro piedi, li scongiuravano di poter restare nella città. Le cacciarono via respingendo le loro richieste. Solo le cosacche furono accettate. Il soccorso atteso non arrivava. Gli assediati rinviavano la loro speranza di giorno in giorno, di settimana in settimana. I ribelli gridavano alla guarnigione che le truppe del governo erano state sconfitte, che Orenbùrg, Ufà e Kazàn' si erano già sottomesse all'impostore, che egli presto sarebbe arrivato nel borgo di Jaìk e allora non ci sarebbe stata nessuna grazia. Invece, in caso di sottomissione, promettevano a suo nome non solo la grazia, ma anche ricompense. Cercavano d'inculcare la stessa cosa anche alle povere donne, che pregavano di passare dalla fortezza in città. I capi non riuscivano a far sperare agli assediati che l'arrivo dei soccorsi fosse imminente, poiché nessuno poteva ormai sentirne parlare senza indignazione: tanto erano esasperati gli animi per la lunga, inutile attesa! Tentavano di mantenere la guarnigione fedele e obbediente, ripetendo che con un tradimento ignominioso nessuno si sarebbe salvato dalla rovina; che i ribelli, inferociti da una resistenza così prolungata, non avrebbero graziato neanche gli spergiuri. Tentavano di risvegliare nell'animo degli infelici la speranza in un Dio onnipotente e onniveggente, e i martiri rincuorati ripetevano che era meglio affidarsi alla sua volontà, piuttosto che servire un bandito, e durante tutto il tempo del disastroso assedio, ad eccezione di due o tre uomini, non vi furono disertori nella fortezza.

Venne la settimana santa. Gli assediati si nutrivano di sola argilla

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già da quindici giorni. Nessuno voleva morire di fame. Fu deciso che tutti fino all'ultimo (salvo quelli che erano totalmente invalidi) facessero un'ultima sortita. Non speravano di vincere (i ribelli si erano così fortificati che ormai non li si poteva attaccare da nessuna parte), volevano soltanto morire con onore, da soldati.

Il martedì, giorno fissato per la sortita, le sentinelle appostate sul tetto della cattedrale notarono che i ribelli correvano disordinatamente per la città scambiandosi gli ultimi saluti, si raggruppavano e si dirigevano verso la steppa. Le cosacche li accompagnavano. Gli assediati intuirono qualcosa d'insolito e si abbandonarono nuovamente alla speranza. «Tutto questo ci diede talmente coraggio», dice un testimone dell'assedio, che ne aveva sopportato tutto l'orrore, «che fu come se avessimo mangiato ciascuno un pezzo di pane». A poco a poco la confusione si calmò; tutto sembrava rientrare nell'ordine consueto. Lo sconforto s'impossessò degli assediati più che mai. In silenzio guardavano la steppa, da dove così poco tempo prima avevano atteso i liberatori... All'improvviso, alle cinque del pomeriggio, in lontananza apparve un nugolo di polvere, ed essi scorsero dei gruppi saltar fuori in disordine dalla boscaglia, al galoppo, uno dietro l'altro. I ribelli entravano in città da porte diverse, ognuno da quella più vicina alla propria casa. Gli assediati capivano che i ribelli erano stati battuti e stavano scappando, ma non osavano ancora rallegrarsene: temevano un assalto disperato. Gli abitanti correvano avanti e indietro per le strade, come durante un incendio. Verso sera i ribelli fecero suonare la campana della cattedrale, convocarono un'assemblea, e poi si diressero in massa verso la fortezza. Gli assediati si preparavano a respingerli, ma videro che i ribelli conducevano legati i loro capi, gli atamàn Kargìn e Tolkaèëv. I rivoltosi si avvicinavano supplicando a gran voce di essere graziati. Sìmonov li accolse, senza credere lui stesso alla propria liberazione. La guarnigione si buttò addosso alle pagnotte di pane portate dagli abitanti. Alla domenica di Pasqua, scrive il testimone oculare di questi avvenimenti, mancavano

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ancora quattro giorni, ma per noi quel giorno fu già una santa festa. Perfino quelli che per debolezza e malattia non si alzavano dal letto si sentirono istantaneamente guariti. Tutto nella fortezza era in movimento, si ringraziava Dio, ci si congratulava l'un l'altro; per tutta la notte nessuno dormì. Gli abitanti informarono gli assediati della liberazione di Orenbùrg e dell'arrivo imminente di Mansùrov. Il 17 aprile arrivò Mansùrov. Le porte della fortezza, chiuse e barricate dal 30 dicembre, furono aperte. Mansùrov assunse il comando sulla città. I capi della rivolta, Kargìn, Tolkaèëv, e Gorškóv, e la moglie illegittima dell'usurpatore, Ustìn'ja Kuznecóva, furono mandati sotto scorta a Orenbùrg.

Tale fu il successo delle disposizioni dell'abile, intelligente comandante. Ma Bìbikov non riuscì a compiere quello che aveva cominciato: spossato dalle fatiche, dalle inquietudini e dalle contrarietà, avendo poca cura della sua salute già compromessa, a Bugul'mà egli fu colpito da una forte febbre e, sentendo avvicinarsi la fine, diede ancora qualche disposizione. Sigillò tutti i suoi documenti segreti dando ordine di farli pervenire all'imperatrice, e cedette il comando al tenente generale Šèerbàtov, il più elevato di grado dopo di lui. Venuto a conoscenza della liberazione di Ufà, fece ancora a tempo a riferirne all'imperatrice, e morì il 9 aprile, alle 11 di mattina, a quarantaquattro anni di età. Il suo corpo restò diversi giorni sulla riva del Kama, che in quel momento era impossibile attraversare. Kazàn' desiderava dargli sepoltura nella sua cattedrale ed erigere un monumento al suo liberatore, ma, su richiesta della sua famiglia, il corpo di Bìbikov fu trasportato nella sua tenuta. Il nastro di S. Andrea, il titolo di senatore e il grado di colonnello della guardia non lo trovarono più in vita. In punto di morte disse: «Non rimpiango i miei figli e mia moglie, l'imperatrice li proteggerà: rimpiango la patria». Voci attribuiscono la sua morte al veleno che gli avrebbe dato uno dei confederati. Deržàvin cantò la morte di Bìbikov. Caterina lo pianse e colmò la sua famiglia di favori. Pietroburgo e Mosca furono colte da sbigottimento. E presto la Russia intera avvertì

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questa perdita irreparabile.

VI

Nuovi successi di Pugaèëv - Il baschiro Salavàt - Presa delle fortezze siberiane - Combattimento sotto Troìckaja - Ritirata di Pugaèëv - Suo primo incontro con Mìchel'son - Inseguimento di Pugaèëv - Inerzia delle truppe. Presa di Osà - Pugaèëv sotto Kazàn'.

Pugaèëv, la cui situazione pareva disperata, apparve nelle officine Avzjàno-Petróvsk. Ovèìnnikov e Perfìl'ev, inseguiti dal maggiore Séviè, attraversarono al galoppo la linea della Sakmàra con trecento cosacchi dello Jaìk e riuscirono a congiungersi a lui. I calmucchi di Stàvropol' e di Orenbùrg vollero seguirli e, con seicento kibitke, si mossero verso la fortezza Soroèìnskaja. In essa si trovava, addetto a sorvegliare gli approvvigionamenti e il foraggio, il tenente colonnello a riposo Mel'kóviè, uomo intelligente e deciso. Egli assunse il comando della guarnigione, attaccò i calmucchi e li obbligò a tornarsene là di dove erano venuti.

Pugaèëv passava rapidamente da un posto all'altro. La plebe riprese a confluire attorno a lui come prima; i baschiri, già quasi pacificati, ricominciavano ad agitarsi. Il comandante della fortezza dell'Alto-Jaìk, il colonnello Stupìšin, entrò in Baschiria, incendiò vari villaggi deserti e, catturato uno dei ribelli, gli tagliò gli orecchi, il naso, le dita della mano destra e lo lasciò andare, minacciando di procedere allo stesso modo con tutti i ribelli. I baschiri non si lasciarono abbattere. Il loro vecchio ribelle Julàj, che s'era nascosto al tempo delle esecuzioni del 1741, riapparve fra loro con suo figlio Salavàt. Tutta la Baschiria insorse, e la rivolta riprese con più violenza che mai. Fréjman doveva inseguire Pugaèëv; Mìchel'son fece di tutto per tagliargli la strada; ma l'impraticabilità del terreno lo salvò. Le strade non si potevano

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percorrere, la gente s'impantanava in un fango senza fondo; i fiumi straripavano per parecchie verste; i torrenti diventavano fiumi. Fréjman si fermò a Sterlitamàck. Mìchel'son, che era già riuscito ad attraversare la Vjatka sul ghiaccio, e l'Ufà su otto barche, seguitò ad avanzare a dispetto di tutti gli ostacoli, e il 5 maggio presso l'officina di Sim s'imbatté in una banda di baschiri capeggiata dal feroce Salavàt. Mìchel'son li cacciò via, liberò la fabbrica, e il giorno dopo riprese la sua marcia. Salavàt si fermò a diciotto verste dalla fabbrica, in attesa di Beloboródov. Essi si ricongiunsero e marciarono insieme contro Mìchel'son con duemila ribelli e otto cannoni. Mìchel'son li sconfisse nuovamente, tolse loro i cannoni, uccise sul posto circa trecento uomini, disperse i rimanenti e si affrettò verso la fabbrica di Ujskóe, sperando di raggiungere lo stesso Pugaèëv; ma presto venne a sapere che l'impostore si trovava già nelle officine di Beloréck.

Oltre il fiume Jurzén' Mìchel'son riuscì a disperdere un'altra banda di ribelli e li inseguì fino all'officina di Sàtkin. Là venne a sapere che Pugaèëv, raccolti quasi seimila baschiri e contadini, stava marciando sulla fortezza Magnìtnaja. Mìchel'son decise d'inoltrarsi nei monti Urali, sperando di riunirsi con Fréjman sul corso superiore dello Jaìk.

Pugaèëv, dopo aver incendiato le officine di Beloréck da lui saccheggiate, valicò rapidamente i monti Urali e il 5 maggio assalì la fortezza Magnìtnaja senza avere con sé neppure un cannone. Il capitano Tichanóvskij si difese valorosamente. Pugaèëv stesso fu ferito a un braccio da un colpo di mitraglia e si ritirò, dopo aver subito perdite notevoli. La fortezza sembrava salva, ma vi si manifestò il tradimento: di notte le casse di polvere furono fatte esplodere. I ribelli si lanciarono all'assalto, demolirono le barricate e irruppero all'interno. Tichanóvskij e la moglie furono impiccati, la fortezza saccheggiata e bruciata completamente. Lo stesso giorno Beloboródov si presentava a Pugaèëv con quattromila canaglie ribelli.

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Il tenente generale de Collongues, da Èeljàbinsk, liberata poco tempo prima dai ribelli, mosse verso la fortezza dell'Alto-Jaìk, sperando di sorprendere Pugaèëv ancora nelle officine di Beloréck; ma, uscito sulla linea, fu informato dal comandante dell'Alto-Jaìk, colonnello Stupìšin, che Pugaèëv stava rimontando la linea da una fortezza all'altra, come all'inizio della sua minacciosa comparsa. De Collongues si affrettò verso la fortezza dell'Alto-Jaìk. Là seppe della presa di Magnìtnaja. Si diresse verso Kizìl'skaja. Ma, dopo aver percorso quindici verste, apprese da un baschiro catturato che Pugaèëv, avvertito dell'avvicinarsi delle truppe, stava marciando non più su Kizìl'skaja, ma direttamente su Karagàjskaja attraverso i monti Urali. De Collongues tornò indietro. Avvicinandosi a Karagàjskaja ne vide solo le rovine fumanti: Pugaèëv aveva abbandonato il forte il giorno prima. De Collongues sperava di raggiungerlo nella Petrozavódskaja, ma non lo trovò neanche lì. La fortezza era stata distrutta e incendiata, la chiesa saccheggiata, le icone private del rivestimento d'argento e ridotte a schegge.

De Collongues, lasciando la linea, marciò per la strada interna sulla fortezza Ujskaja. Gli era rimasta avena per un giorno solo. Pensava di cogliere Pugaèëv almeno nella fortezza Stepnàja, ma, saputo che anche la Stepnàja era già stata presa, si precipitò alla Troìckaja. Lungo la strada, nella Senàrskaja, incontrò una quantità di gente che veniva dalle fortezze devastate dei dintorni. Le mogli e i figli degli ufficiali, scalzi, stracciati, singhiozzavano, non sapendo ove cercare rifugio. De Collongues li prese sotto la sua protezione e li affidò alle cure dei suoi ufficiali. Il 21 maggio al mattino si avvicinò alla Troìckaja dopo aver percorso sessanta verste a tappe forzate, e finalmente avvistò Pugaèëv, che si era accampato sotto la fortezza della quale s'era impadronito il giorno prima. De Collongues lo attaccò immediatamente. Pugaèëv aveva più di diecimila uomini e una trentina di cannoni. La battaglia si protrasse per quattr'ore. Durante tutto questo tempo Pugaèëv giaceva nella sua tenda, soffrendo atrocemente per la ferita che gli

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era stata inferta sotto Magnìtnaja. Beloboródov dirigeva le operazioni. Alla fine i ribelli si sbandarono. Pugaèëv montò a cavallo e col braccio fasciato si gettò di qua e di là, tentando di ristabilire l'ordine, ma tutti si dispersero e fuggirono. Pugaèëv se ne andò con un solo cannone per la strada di Èeljàbinsk. Inseguirlo era impossibile. La cavalleria era troppo affaticata. Nell'accampamento furono trovate circa tremila persone di ogni condizione, sesso ed età, catturate dall'impostore e destinate alla morte. La fortezza fu salvata dall'incendio e dal saccheggio. Ma il comandante, il brigadiere Feierwahr, era stato ucciso il giorno prima durante l'attacco, e i suoi ufficiali impiccati.

Pugaèëv e Beloboródov, sapendo che la stanchezza delle truppe e lo spossamento dei cavalli non avrebbero permesso a de Collongues di sfruttare la sua vittoria, riorganizzarono le loro bande disperse e cominciarono a ritirarsi con ordine, requisendo le fortezze e rafforzandosi rapidamente. I maggiori Gàgrin e Žólobov, mandati da de Collongues il giorno successivo al combattimento, li inseguirono, ma non riuscirono a raggiungerli.

Mìchel'son, nel frattempo, avanzava nei monti Urali, per strade poco note. I villaggi baschiri erano deserti. Era impossibile procurarsi gli approvvigionamenti necessari. Il suo reparto era in continuo pericolo. Numerose bande di ribelli gli giravano attorno. Il 13 maggio i baschiri, alla guida di un maggiore ribelle, lo attaccarono e si batterono furiosamente; spinti in una palude, non si arrendevano. Tutti, ad eccezione di uno, graziato a stento, furono massacrati insieme col loro capo. Mìchel'son perse un ufficiale e sessanta soldati fra morti e feriti.

Il baschiro prigioniero, trattato da Mìchel'son con riguardo, gli comunicò la presa della Magnìtnaja e gli spostamenti di de Collongues. Mìchel'son, trovando tali notizie conformi alle sue supposizioni, uscì dalle montagne e marciò su Troìckaja nella speranza di liberare la fortezza, o d'incontrare Pugaèëv nel caso che questi si stesse ritirando. Presto venne informato della vittoria

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di de Collongues e marciò su Varlàmovo con l'intenzione di tagliare la strada a Pugaèëv. Infatti la mattina del 22 maggio, avvicinandosi a Varlàmovo, s'imbatté nei distaccamenti avanzati di Pugaèëv. Vedendo truppe ben ordinate, Mìchel'son non poté immaginare sul principio che quello fosse il resto della marmaglia battuta il giorno prima, e lo scambiò (dice in tono ironico nel suo rapporto) per il corpo d'armata del tenente generale e cavaliere de Collongues; ma presto si accorse della verità. Si fermò, mantenendo la sua posizione vantaggiosa davanti a un bosco che copriva le sue retrovie. Pugaèëv mosse contro di lui e improvvisamente si diresse sulla fortezza Èerbakùl'skaja. Mìchel'son attraversò il bosco e gli tagliò la strada. Pugaèëv vide per la prima volta avanti a sé colui che doveva infliggergli tanti colpi e mettere fine alla sua sanguinosa carriera. Pugaèëv attaccò immediatamente l'ala sinistra, vi gettò lo scompiglio e le sottrasse due cannoni. Ma Mìchel'son piombò sui ribelli con tutta la sua cavalleria, li disperse in un attimo, riprese i suoi cannoni e con questi anche l'ultimo, rimasto a Pugaèëv dopo la sconfitta presso Troìckaja; uccise sul posto quasi seicento uomini, ne fece prigionieri all'incirca cinquecento e inseguì i rimanenti per parecchie verste. La notte interruppe l'inseguimento. Mìchel'son passò la notte sul campo di battaglia. L'indomani, nel suo ordine del giorno, inflisse una severa ammonizione alla compagnia che aveva perso i cannoni, e le tolse bottoni e risvolti alle maniche fino a che non li avessero rimeritati. La compagnia non tardò a cancellare il proprio disonore.

Il 23 Mìchel'son marciò sulla fortezza Èerbakùl'skaja. I cosacchi che vi si trovavano erano in rivolta. Mìchel'son fece prestar loro giuramento e li aggiunse al suo reparto, e in seguito fu sempre contento di loro.

Žólobov e Gàgrin operavano lentamente e con indecisione. Žólobov, informato Mìchel'son che Pugaèëv aveva raccolto il resto della banda dispersa e ne stava radunando una nuova, si rifiutò di

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marciare contro di lui col pretesto dello straripamento dei fiumi e delle strade cattive. Mìchel'son se ne lamentò con de Collongues, e de Collongues, promettendo di procedere lui stesso allo sterminio delle ultime forze dell'impostore, rimase a Èeljàb e richiamò inoltre presso di sé Žólobov e Gàgrin.

In questo modo l'inseguimento di Pugaèëv fu lasciato al solo Mìchel'son. Egli mosse verso l'officina di Zlatoùstovsk avendo sentito dire che vi si trovavano parecchi ribelli dello Jaìk, ma questi presero la fuga quando seppero che lui si stava avvicinando. Le loro tracce, quanto più egli avanzava, tanto più si disperdevano, e finirono col perdersi del tutto.

Il 27 maggio Mìchel'son arrivò all'officina di Sàtkin. Salavàt con una nuova banda si dava al brigantaggio nei dintorni. L'officina di Sim era stata già saccheggiata e bruciata. Sentito di Mìchel'son, egli attraversò il fiume Aj e si fermò sui monti, dove Pugaèëv, sbarazzatosi dell'inseguimento di Gàgrin e di Žólobov, e raccolte già circa duemila canaglie di ogni sorta, riuscì ad unirsi a lui.

Mìchel'son nell'officina di Sàtkin, salvata dalla sua tempestività, fece la prima sosta dopo la sua entrata in azione sotto Ufà. Due giorni dopo ripartì contro Pugaèëv e Salavàt, e arrivò sulla riva dell'Aj. I ponti erano stati rimossi. I ribelli sulla riva opposta, vedendo quanto fosse esiguo il suo distaccamento, si credettero al sicuro.

Ma il 30 mattina Mìchel'son ordinò a cinquanta cosacchi di fare la traversata a nuoto, portando con sé ognuno un cacciatore. I ribelli tentarono di gettarsi su di loro, ma furono dispersi a colpi di cannone dalla riva opposta. I cacciatori e i cosacchi resistettero come poterono, mentre Mìchel'son attraversò il fiume col resto del reparto; la polvere da sparo fu trasportata dalla cavalleria, i cannoni affondarono, e furono tirati sul fondo del fiume con delle corde. Mìchel'son piombò rapidamente sul nemico, lo travolse e lo inseguì per più di venti verste, uccidendo circa quattrocento uomini e facendo una quantità di prigionieri. Pugaèëv,

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Beloboródov e Salavàt ferito riuscirono a malapena a salvarsi.

I dintorni erano deserti. Mìchel'son non riusciva a ottenere da nessuno informazioni sulle mosse del nemico. Marciò alla ventura, e il 2 giugno il capitano Kartašévskij, distaccato da lui stesso, nella notte fu accerchiato dalla banda di Salavàt. Al mattino Mìchel'son si affrettò a soccorrerlo. I ribelli si dispersero e fuggirono. Mìchel'son li inseguì con estrema prudenza. La fanteria copriva le sue salmerie. Lui stesso marciava un po' avanti con parte della sua cavalleria. Tali misure lo salvarono. Una banda considerevole di ribelli accerchiò improvvisamente le sue salmerie e attaccò la fanteria. Era capeggiata da Pugaèëv in persona, che era riuscito, nel corso di sei giorni, a reclutare nei pressi dell'officina di Sàtkin circa cinquemila ribelli. Mìchel'son accorse in aiuto al galoppo con la fanteria; mandò Chàrin a radunare tutta la sua cavalleria, e lui restò vicino alle salmerie. I ribelli furono battuti e fuggirono di nuovo. Mìchel'son apprese allora dai prigionieri che Pugaèëv aveva intenzione di marciare su Ufà. Si precipitò a sbarrargli la strada e il 5 giugno s'imbatté in lui un'altra volta. La battaglia era inevitabile. Mìchel'son lo attaccò rapidamente e di nuovo lo sconfisse e lo respinse.

Nonostante tutti i suoi successi, Mìchel'son vide la necessità d'interrompere momentaneamente il suo inseguimento. Ormai non aveva più né provviste, né munizioni. Non gli rimanevano che due cartucce per ogni uomo. Mìchel'son andò a Ufà per rifornirsi di tutto il necessario.

Mentre Mìchel'son, lanciandosi da ogni parte, batteva dappertutto i ribelli, gli altri capi restavano immobili. De Collongues era fermo a Èeljàb e, invidioso di Mìchel'son, si rifiutava apposta di collaborare con lui. Fréjman, personalmente coraggioso, ma timido e irresoluto come capo, non si moveva dalla fortezza Kizìl'skaja, irritato contro Timašëv che era partito per la fortezza Zelaìrskaja con la sua cavalleria migliore. Stanislàvskij, che durante tutto questo tempo s'era distinto per la sua codardia,

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saputo che Pugacëv aveva raccolto una banda consistente nei pressi della fortezza dell'Alto-Jaìk, rinunciò al servizio e si rifugiò nella fortezza Orskàja, la sua preferita. I colonnelli Jakubóviè e Obernibésov e il maggiore Duwe si trovavano vicino a Ufà. Attorno a loro i baschiri in rivolta si riunivano indisturbati. Birsk fu bruciata quasi sotto i loro occhi, ma loro si trasferivano da un luogo all'altro, rifuggendo il minimo pericolo e senza preoccuparsi di agire in collaborazione. Per ordine del principe Šèerbàtov le truppe di Golìcyn erano rimaste inattive presso Orenbùrg e il borgo di Jaìk, luoghi ormai privi di pericolo, mentre la regione in cui stava di nuovo divampando l'incendio restava quasi indifesa.

Pugaèëv, respinto da Kungùr per opera del maggiore Popóv, stava per muovere su Ekaterìnburg, ma dopo aver appreso che vi si trovavano delle truppe, si diresse verso Krasno-Ufìmsk.

Il Kama era scoperto, e Kazàn' in pericolo. Brandt mandò subito nel sobborgo di Osà il maggiore Skrypìcyn con un distaccamento della guarnigione e contadini armati, e scrisse lui stesso al principe Šèerbàtov chiedendogli un soccorso immediato. Šèerbàtov contò su Obernibésov e Duwe, che dovevano aiutare il maggiore Skrypìcyn in caso di pericolo, e non diede nessun nuovo ordine.

Il 18 giugno Puga5ëv apparve davanti a Osà. Skrypìcyn marciò contro di lui, ma, persi tre cannoni proprio all'inizio del combattimento, rientrò in fretta nella fortezza. Pugaèëv ordinò ai suoi di scendere da cavallo e di andare all'attacco. I ribelli entrarono nella città, la incendiarono, ma furono respinti dalla fortezza coi cannoni.

Il giorno dopo Pugaèëv con i suoi luogotenenti cavalcava lungo la riva del Kama, alla ricerca di luoghi adatti per la traversata. Su suo ordine fu riparata la strada e furono lastricati di travi i punti paludosi. Il 20 egli assalì di nuovo la fortezza e di nuovo fu respinto. Allora Beloboródov gli consigliò di circondare la fortezza con carri di fieno, di paglia e di corteccia di betulla, e di dar fuoco in questo modo alle mura di legno. Quindici carri furono

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portati dai cavalli a breve distanza dalla fortezza, e poi spinti avanti da uomini al sicuro sotto la loro copertura. Skrypìcyn, già esitante, chiese una tregua di ventiquattr'ore e si arrese il giorno dopo, accogliendo Pugaèëv in ginocchio, con le icone, e offrendogli il pane e il sale. L'impostore lo trattò con benevolenza e gli lasciò la spada. Il disgraziato, pensando di giustificarsi in seguito, scrisse insieme al capitano Smirnòv e al sottotenente Minéev una lettera al governatore di Kazàn', e la teneva sempre con sé in attesa dell'occasione propizia per spedirgliela di nascosto. Minéev denunciò la cosa a Pugaèëv. La lettera fu sequestrata, Skrypìcyn e Smirnóv impiccati, e il delatore promosso colonnello.

Il 23 giugno Pugaèëv attraversò il Kama e marciò sugli stabilimenti vinicoli di Ižévskoe e di Vótkin. Wenzel, che ne era il direttore, fu torturato a morte, le officine saccheggiate, e tutti gli operai arruolati nella banda dei malfattori. Minéev, che col suo tradimento si era guadagnato la fiducia di Pugaèëv, gli consigliò di marciare direttamente su Kazàn'. Era al corrente delle disposizioni prese dal governatore. Egli si offrì di guidare Pugaèëv e gli garantì il successo. Pugaèëv non esitò a lungo e marciò su Kazàn'.

Šèerbàtov, ricevuta la notizia della presa di Osà, si spaventò. Mandò a Obernibésov l'ordine di occupare il traghetto di Šùmskoe e di mandare il maggiore Mellin a Šurmànsk; a Golìcyn ordinò di recarsi al più presto a Ufà, libero di agire da lì come gli sembrava più opportuno, e lui stesso con uno squadrone di ussari e una compagnia di granatieri si diresse a Bugul'mà.

A Kazàn' si trovavano soltanto millecinquecento soldati, ma seimila abitanti furono armati in fretta e furia. Brandt e il comandante Banner si prepararono alla difesa. Il general-maggiore Potëmkin, capo della commissione segreta istituita per l'affare Pugaèëv, collaborava zelantemente con loro. Il general-maggiore Lariónov non attese Pugaèëv. Attraversò il Volga insieme con i suoi uomini e partì per Nìžnij-Nóvgorod.

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Il colonnello Tolstój, capo della legione di cavalleria di Kazàn', mosse contro Pugaèëv, e il 10 luglio s'imbatté in lui a dodici verste dalla città. Ebbe luogo un combattimento. Il valoroso Tolstój fu ucciso, e il suo reparto disperso. Il giorno dopo Pugaèëv apparve sulla riva sinistra della Kazànka e si accampò presso il mulino della Trinità. La sera, sotto gli occhi di tutti gli abitanti di Kazàn', andò a perlustrare a cavallo la città, e tornò all'accampamento rinviando l'assalto al mattino seguente.

VII

Pugaèëv a Kazàn' - La grave situazione della città - Comparsa di Mìchel'son - Le tre battaglie - Liberazione di Kazàn' - Incontro di Pugaèëv con la sua famiglia - Smentita di una calunnia - Disposizioni di Mìchel'son.

Il 12 luglio, all'alba, i ribelli alla guida di Pugaèëv si mossero dal villaggio di Carìcyn lungo la piana di Arsk, spingendo avanti a sé carri di fieno e di paglia in mezzo ai quali trasportavano i cannoni. Occuparono rapidamente i depositi di mattoni situati nei pressi del sobborgo, il bosco e la casa di campagna di Kudrjàvcev, vi piazzarono le proprie batterie e sloggiarono il debole reparto che sorvegliava la strada. Esso si ritirò, disponendosi in quadrato e circondandosi con i cavalli di Frisia.

Proprio davanti alla piana di Arsk si trovava la batteria principale della città. Pugaèëv non la attaccò, ma distaccò dalla sua ala destra verso il sobborgo una banda di contadini delgli stabilimenti alla guida del traditore Minéev. Questa marmaglia, per la maggior parte disarmata, spronata dalle nagàjke cosacche, correva rapidamente di fossa in fossa, di avvallamento in avvallamento, strisciava al di là delle alture esposte ai colpi di cannone, e in questo modo riuscì a penetrare nei burroni che si trovavano proprio al limite del sobborgo. Questo punto pericoloso era difeso da ginnasiali con un solo cannone. Nonostante il fuoco, i ribelli

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eseguirono alla lettera l'ordine di Pugaèëv: si arrampicarono sull'altura, misero in fuga i ginnasiali coi soli pugni, sequestrarono il cannone, occuparono la casa estiva del governatore che era attigua ai sobborghi, piazzarono il cannone sull'ingresso, cominciarono a sparare per le strade e irruppero a gruppi nei sobborghi. Dall'altra parte l'ala sinistra di Pugaèëv si gettò verso il villaggio di Sukónnoe. Gli abitanti (gente di varia condizione, per la maggior parte pugilatori), incoraggiati dal reverendo vescovo Veniamìn, si armarono con quel che capitava, piazzarono il cannone all'osteria di Górlov e si prepararono alla difesa. I baschiri dal monte Šarnàja lanciarono frecce contro di loro e si precipitarono in strada. Gli abitanti di Sukónnoe si preparavano ad accoglierli con sbarre di ferro, lance e sciabole, ma il loro cannone saltò in aria al primo colpo e uccise il cannoniere. Nel frattempo Pugaèëv sistemò i suoi cannoni sul monte Šarnàja e di là tirò colpi di mitraglia sui suoi e sugli avversari. Il villaggio prese fuoco. Gli abitanti di Sukónnoe fuggirono. I ribelli tolsero di mezzo guardie e cavalli di Frisia e si lanciarono per le vie della città. Alla vista delle fiamme gli abitanti e le truppe della città, abbandonati i cannoni, si precipitarono verso la fortezza come ultimo rifugio. Potëmkin vi entrò con loro. La città divenne preda dei ribelli. Si diedero a saccheggiare le case e le botteghe; irrompevano nelle chiese e nei monasteri, spogliavano le iconostasi dei rivestimenti d'argento, sgozzavano tutti quelli che erano vestiti da stranieri.

Pugaèëv, piazzate le proprie batterie nella locanda della Corte dei mercanti, dietro le chiese, presso l'arco trionfale, sparava sulla fortezza, in particolare sul monastero del Salvatore, che ne occupava l'angolo destro e le cui vecchie mura si reggevano a stento. Dall'altra parte Minéev, trascinato un cannone sopra il portale del monastero di Kazàn', e un altro sul sagrato della chiesa, sparava contro la fortezza nel punto più pericoloso. Una palla che veniva da quella parte demolì uno dei suoi cannoni. I banditi, indossati abiti femminili e paramenti sacerdotali, correvano gridando per le strade, saccheggiando e incendiando le case.

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Quelli che assediavano la fortezza li invidiavano, temendo di rimanere senza bottino... All'improvviso Pugaèëv ordinò loro di ritirarsi e, incendiata ancora qualche casa, tornò nel suo accampamento. Si alzò un forte vento. Un mare di fuoco si riversò su tutta la città. Scintille e tizzoni ardenti volarono nella fortezza e diedero fuoco a parecchi tetti di legno. In quel momento una parte delle mura crollò con fracasso e schiacciò diverse persone. Gli assediati, rintanati nella fortezza, alzarono un urlo pensando che il malfattore avesse fatto irruzione e che fosse già sopraggiunta la loro ultima ora.

I ribelli cacciarono via i prigionieri dalla città e vi introdussero il bottino. I baschiri, nonostante i severi divieti di Pugaèëv, picchiavano il popolo con le nagàjke e trafiggevano con le lance le donne e i bambini che restavano indietro. Furono tanti quelli che annegarono traversando a guado la Kazànka. Il popolo spinto a forza nell'accampamento fu messo in ginocchio davanti ai cannoni. Le donne levarono un grido. Fu loro annunciata la grazia. Tutti urlarono: urrà! e si precipitarono al quartier generale di Pugaèëv. Pugaèëv sedeva in poltrona, accogliendo i doni dei tartari di Kazàn' venuti a rendergli omaggio. Poi venne loro chiesto: chi desidera servire il sovrano Pëtr Fëdoroviè? Si trovarono moltissimi volontari.

L'eminentissimo vescovo Veniamìn durante tutto il tempo dell'assalto era rimasto nella fortezza, nella cattedrale dell'Annunciazione, e in ginocchio insieme con tutto il popolo aveva pregato Dio per la salvezza dei cristiani. Non appena tacquero le cannonate egli innalzò le icone miracolose e, nonostante il calore insopportabile dell'incendio e le travi che crollavano, con tutto il clero che si trovava con lui, seguito dal popolo, fece un giro dentro la fortezza cantando inni liturgici. Verso sera la tempesta si calmò, e il vento girò dalla parte opposta. Scese la notte, terribile per gli abitanti! Kazàn', trasformata in mucchi di carboni ardenti, fumava e rosseggiava nell'oscurità.

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Nessuno dormiva. All'alba gli abitanti si affrettarono a salire sulle mura della fortezza e diressero i loro sguardi nella direzione dalla quale si aspettavano un nuovo assalto. Ma, invece delle orde di Pugaèëv, videro stupefatti gli ussari di Mìchel'son, che entravano al galoppo in città con l'ufficiale da lui mandato al governatore.

Nessuno sapeva che già il giorno prima Mìchel'son, a sette verste dalla città, aveva avuto un aspro scontro con Pugaèëv e che i ribelli si erano ritirati in disordine.

Abbiamo lasciato Mìchel'son instancabile nell'inseguire gli spostamenti disordinati di Pugaèëv. A Ufà egli lasciò malati e feriti, prese con sé il maggiore Duwe e il 21 giugno si trovò a Burnóvo, ad alcune verste da Birsk. Il ponte bruciato da Jakubóviè era stato rimesso in funzione dai ribelli. Circa tremila di essi si erano mossi contro Mìchel'son. Egli li sbaragliò e distaccò Duwe contro una banda di baschiri che si trovava a poca distanza. Duwe li disperse. Mìchel'son marciò su Osà e il 27 giugno, dopo aver battuto strada facendo una banda di baschiri e di tartari, aveva saputo da loro della presa di Osà e del passaggio di Pugaèëv attraverso il Kama. Mìchel'son si mise sulle sue tracce. Sul Kama non c'erano né ponti né barche. La cavalleria lo attraversò a nuoto, la fanteria su zattere. Mìchel'son, lasciando Pugacëv sulla destra, marciò direttamente su Kazàn', e la sera dell'11 luglio era già a cinquanta verste da essa.

Il suo reparto si mise in marcia di notte. Al mattino, a quarantacinque verste da Kazàn', si udì un cannoneggiamento. Verso mezzogiorno un denso fumo purpureo gli annunciò la sorte della città.

Il calore di mezzogiorno e la stanchezza del reparto costrinsero Mìchel'son a fermarsi per un'ora. Nel frattempo venne a sapere che poco lontano c'era una banda di ribelli. Mìchel'son l'attaccò e fece quattrocento prigionieri; gli altri fuggirono a Kazàn' e avvertirono Pugaèëv dell'approssimarsi del nemico. Allora Pugaèëv, temendo un assalto improvviso, si ritirò dalla fortezza e ordinò ai suoi di

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lasciare al più presto la città, mentre egli stesso, occupata una posizione vantaggiosa, si era schierato nei pressi di Carìcyn, a sette verste da Kazàn'.

Mìchel'son, messo al corrente di questi fatti, si slanciò attraverso il bosco con una colonna e, uscito in campo aperto, vide avanti a sé i ribelli in assetto di combattimento.

Mìchel'son distaccò Chàrin contro la loro ala sinistra, Duwe contro la destra, e lui stesso marciò direttamente sulla principale batteria nemica. Pugaèëv, rincuorato dalla vittoria e rafforzato dai cannoni dei quali s'era impadronito, affrontò l'attacco con un potente fuoco. Davanti alla batteria si stendeva una palude attraverso la quale Mìchel'son doveva passare, mentre Chàrin e Duwe tentavano di aggirare il nemico. Mìchel'son prese la batteria; Duwe sul fianco destro requisì anche due cannoni. I ribelli, divisi in due gruppi, andarono gli uni contro Chàrin e, fermandosi nello stretto varco oltre un fossato, piazzarono le batterie e aprirono il fuoco; gli altri cercarono d'infiltrarsi nelle retrovie del reparto. Mìchel'son, lasciando Duwe, portò i rinforzi a Chàrin, che stava attraversando un burrone sotto le granate nemiche. Infine, dopo cinque ore di combattimento accanito, Pugaèëv fu sconfitto e si diede alla fuga, persi ottocento uomini e centottanta prigionieri. Le perdite di Mìchel'son erano insignificanti. L'oscurità della notte e la stanchezza delle truppe non gli permisero però d'inseguire Pugaèëv.

Dopo aver pernottato sul luogo del combattimento, prima che facesse giorno Mìchel'son si diresse verso Kazàn'. S'imbatteva a ogni istante in gruppi di predoni che si erano ubriacati tutta la notte fra le rovine della città incendiata. Venivano presi a sciabolate e fatti prigionieri. Giunto alla piana di Arsk, Mìchel'son vide il nemico avvicinarsi: Pugaèëv, informato della scarsa consistenza del suo distaccamento, si affrettò a evitare in anticipo che esso si ricongiungesse alle truppe della città. Mìchel'son, dopo aver mandato a informare di questo fatto il governatore, accolse a

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cannonate la folla che lo assaliva con urla e grida, e la costrinse a indietreggiare. Potëmkin arrivò alla riscossa dalla città con la guarnigione. Pugaèëv traversò a guado la Kazànka e si allontanò di quindici verste dalla città, andando nel villaggio di Suchàja Rekà. Inseguirlo era impossibile: Mìchel'son non aveva neppure trenta cavalli in buono stato.

Kazàn' era liberata. Gli abitanti si affollarono sulle mura della fortezza per guardare da lontano l'accampamento del loro liberatore. Mìchel'son non si moveva dal suo posto, in attesa di un nuovo attacco. Infatti Pugaèëv, furioso per i suoi insuccessi, non abbandonava comunque la speranza di prendere infine il sopravvento su Mìchel'son. Raccolse ovunque nuova marmaglia riunendosi ai suoi distaccamenti separati, e la mattina del 15 luglio, dopo aver fatto leggere davanti alle sue masse un manifesto nel quale dichiarava la sua intenzione di marciare su Mosca, si scagliò per la terza volta su Mìchel'son. Il suo esercito era composto da venticinquemila scellerati di ogni genere. Turbe numerose avanzarono lungo la stessa strada per la quale erano già fuggite due volte. Nugoli di polvere, grida selvagge, rumore e frastuono annunciarono il loro avvicinarsi. Mìchel'son fece una sortita contro di loro con ottocento uomini armati di carabine, ussari e cosacchi di Èugùev. Egli occupò il posto del precedente combattimento nei pressi di Carìcyn e suddivise il suo esercito in tre reparti, collocati a breve distanza l'uno dall'altro. I ribelli si gettarono su di lui. I cosacchi dello Jaìk stavano nelle retrovie e per ordine di Pugaèëv dovevano trafiggere i fuggiaschi. Ma Mìchel'son e Chàrin li caricarono da due parti, li travolsero e li misero in fuga. Tutto si concluse in un istante. Pugaèëv tentò invano di trattenere le bande che si andavano disperdendo, dapprima spingendosi al galoppo fino al suo primo accampamento, e poi fino al secondo. Chàrin lo inseguiva attivamente, senza dargli il tempo di fermarsi da nessuna parte. In questi accampamenti si trovavano circa diecimila abitanti di Kazàn' di entrambi i sessi e di ogni condizione. Essi furono

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liberati. Le acque della Kazànka rigurgitavano di cadaveri; cinquemila prigionieri e nove cannoni restarono nelle mani del vincitore. In combattimento furono uccisi circa duemila uomini, per la maggior parte tartari e baschiri. Mìchel'son arrivò a perdere cento uomini fra uccisi e feriti. Entrò in città fra le grida entusiastiche degli abitanti, testimoni della sua vittoria. Il governatore, sfinito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte due settimane più tardi, ricevette il vincitore alle porte della fortezza, seguito dalla nobiltà e dal clero. Mìchel'son si avviò direttamente alla cattedrale, dove monsignor Veniamìn celebrò una messa di ringraziamento.

La situazione di Kazàn' era terribile: delle duemilaottocentosessantasette case che essa comprendeva, duemilacinquantasette erano bruciate. Venticinque chiese e tre monasteri erano stati ugualmente incendiati. La Corte dei mercanti e le case rimanenti, le chiese e i monasteri erano stati saccheggiati. Si contarono circa trecento abitanti uccisi o feriti; circa cinquecento erano scomparsi senza tracce. Fra gli uccisi si trovavano il direttore del ginnasio Kanitz, diversi insegnanti e allievi, e il colonnello Rodiónov. Il general-maggiore Kudrjàvcev, un vecchio di centodieci anni, non aveva voluto rifugiarsi nella fortezza, nonostante tutte le esortazioni possibili. Pregava in ginocchio nel monastero delle vergini di Kazàn', quando irruppero alcuni predatori. Egli aveva tentato di dissuaderli. I banditi lo avevano freddato sul sagrato della chiesa.

Così il povero forzato, evaso un anno prima da Kazàn', aveva festeggiato il suo ritorno! Il cortile della prigione dove aveva atteso la frusta e i lavori forzati era stato da lui incendiato, e i detenuti, suoi compagni di poco tempo prima, messi in libertà. Nella caserma era già rinchiusa da qualche mese la cosacca Sóf'ja Pugaèëva coi suoi tre bambini. L'impostore, vedendoli, dicono che si mise a piangere, ma non si tradì. Aveva ordinato di condurli nell'accampamento, dopo aver detto, come assicurano: «Io la

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conosco; suo marito mi ha reso un grande favore». Il traditore Minéev, principale colpevole delle disgrazie di Kazàn', era stato fatto prigioniero alla prima sconfitta di Pugaèëv e, per sentenza del tribunale militare, fu condannato a passare sotto le verghe finché non morì.

Le autorità di Kazàn' cominciarono a preoccuparsi della ripartizione degli abitanti nelle case rimaste indenni. Essi furono invitati al campo per esaminare il bottino sottratto a Pugaèëv, e per restituire a ciascuno i beni di sua proprietà. Si affrettarono a fare la spartizione come capitava. Persone agiate divennero povere; chi era miserabile si ritrovò ricco!

La storia deve smentire una calunnia diffusa con leggerezza ai quattro venti: si affermava che Mìchel'son avrebbe potuto prevenire la presa di Kazàn', ma che aveva dato di proposito ai ribelli il tempo di saccheggiare la città per profittare poi a sua volta del ricco bottino, preferendo un qualunque beneficio materiale alla gloria, agli onori e alle ricompense imperiali, che attendevano il salvatore di Kazàn' e sedatore della rivolta! I lettori hanno visto con quale rapidità e quale infaticabile costanza Mìchel'son aveva inseguito Pugaèëv. Se Potëmkin e Brandt avessero fatto la loro parte e fossero riusciti a resistere almeno per qualche ora, Kazàn' sarebbe stata salva. I soldati di Mìchel'son, certo, s'erano arricchiti, ma sarebbe vergognoso da parte nostra accusare senza prove un vecchio guerriero pieno di merito, che aveva trascorso tutta la vita sul campo dell'onore ed era morto come comandante supremo delle armate russe.

Il 14 luglio arrivò a Kazàn' il tenente-colonnello conte Mellin e fu incaricato da Mìchel'son d'inseguire Pugaèëv. Quanto a Mìchel'son, egli restò in città per ricostituire la cavalleria e approntare i viveri. Gli altri capi diedero rapidamente alcune disposizioni strategiche visto che, nonostante la disfatta di Pugaèëv, sapevano ormai quanto fosse pericoloso quest'intraprendente ed energico ribelle. I suoi spostamenti erano

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così veloci e imprevedibili che non c'era modo di tenergli dietro; inoltre la cavalleria era stremata. Tentarono di sbarrargli la strada, ma le truppe, disseminate su un ampio territorio, non riuscivano ad arrivare dappertutto e a fare rapide diversioni. Bisogna anche dire che pochi fra i comandanti erano in grado di misurarsi con Pugaèëv o anche coi suoi complici meno conosciuti.

VIII

Pugaèëv oltrepassa il Volga - Sommossa generale - Lettera del generale Stupìšin - Propositi di Caterina - Il conte P. Iv. Pànin - Movimento delle truppe - Presa di Penza - Morte di Vsevolóžskij - Discussioni di Deržàvin con Bošnjàk - Presa di Saràtov - Pugaèëv sotto Carìcyn - Morte dell'astronomo Lowitz - Sconfitta di Pugaèëv - Suvórov - Pugaèëv consegnato alle autorità - Suo colloquio col conte Pànin - Processo di Pugaèëv e dei suoi complici - Esecuzione dei ribelli.

Pugaèëv fuggì per la strada di Kokšàj su cavalli di posta, con trecento cosacchi dello Jaìk e dell'Ilék, e finalmente penetrò di slancio in un bosco. Chàrin, dopo averlo inseguito per trenta verste buone, fu costretto a fermarsi. Pugaèëv passò la notte nel bosco. La sua famiglia era con lui. Fra i suoi compagni si trovavano due nuovi personaggi: uno era il giovane Pulawski, fratello del famoso confederato. Si trovava a Kazàn' come prigioniero di guerra e per odio verso la Russia si era unito alla banda di Pugaèëv. L'altro era un pastore della chiesa riformata. Durante l'incendio di Kazàn' era stato condotto da Pugaèëv; l'impostore lo riconobbe: una volta, camminando in catene per le strade della città, Pugaèëv ne aveva ricevuto l'elemosina. Il povero pastore si aspettava di morire. Pugaèëv lo accolse benevolmente e lo nominò colonnello. Il pastore-colonnello fu messo in sella a un cavallo baschiro. Aveva accompagnato la fuga di Pugaèëv e qualche giorno più tardi si lasciò distanziare e tornò a Kazàn'.

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Pugaèëv errò due giorni da un luogo all'altro, ingannando così il reparto mandato al suo inseguimento. La sua marmaglia, sparsa qua e là, compiva i soliti saccheggi. Beloboródov fu catturato nei dintorni di Kazàn', colpito con la frusta, e poi condotto a Mosca e giustiziato. Diverse centinaia di fuggiaschi si unirono a Pugaèëv. Il 18 luglio egli si diresse improvvisamente verso il Volga, al traghetto di Kokšàj, e con cinquecento uomini della sua truppa migliore passò sull'altra riva.

La traversata di Pugaèëv produsse una sollevazione generale. Tutta la regione occidentale del Volga insorse e passò dalla parte dell'impostore. I contadini dei signori si ribellarono; i non ortodossi e i recenti convertiti cominciarono a uccidere i preti russi: i voevóda fuggivano dalle città, i nobili dai loro possedimenti; la plebaglia catturava gli uni e gli altri e da ogni parte li conduceva a Pugaèëv. Pugaèëv annunciò al popolo la libertà, lo sterminio della nobiltà, l'esenzione dalle imposte e la distribuzione gratuita del sale. Marciò su Civìl'sk, saccheggiò la città, impiccò il voevóda, divise la sua banda in due parti, ne mandò una sulla strada di Nìžnij-Nóvgorod, l'altra su quella di Alàtyr, e tagliò in tal modo le comunicazioni fra Nìžnij e Kazàn'. Il governatore di Nìžnij-Nóvgorod, tenente generale Stupìšin, scrisse al principe Volkónskij che la sorte di Kazàn' attendeva anche Nìžnij, e che lui non rispondeva neppure di Mosca. Tutti i reparti che si trovavano nei governatorati di Kazàn' e di Orenbùrg si misero in movimento e vennero diretti contro Pugaèëv. Šèerbàtov da Bugul'mà, e il principe Golìcyn da Menzelìnsk si affrettarono verso Kazàn'; Mellin traversò il Volga e il 19 luglio si mise in marcia per Svijàžsk; Mansùrov dal borgo di Jaìk mosse verso Sýzran'; Mùffel marciò su Simbìrsk, Mìchel'son da Èeboksàry si diresse su Arzamàs per tagliare a Pugaèëv la strada di Mosca...

Ma Pugaèëv non aveva più intenzione di marciare sulla vecchia capitale. Circondato da ogni parte dalle truppe governative, diffidando dei suoi complici, egli pensava ormai alla propria

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salvezza; il suo obiettivo era: passare dall'altra parte del Kubàn' o in Persia. I capi ribelli prevedevano la fine dell'impresa da loro ideata e già mercanteggiavano la testa del loro capo! Perfìl'ev, a nome di tutti i cosacchi colpevoli, mandò segretamente a Pietroburgo un incaricato di fiducia con la proposta di consegnare l'impostore. Il governo, già ingannato una volta, gli credeva poco, tuttavia entrò in rapporti con lui. Pugaèëv fuggiva, ma la sua fuga sembrava un'invasione. Mai i suoi successi erano stati più terribili, mai la rivolta aveva infuriato con tanta forza. L'insurrezione passava da un villaggio all'altro, di provincia in provincia. Era sufficiente la comparsa di due o tre malfattori per sollevare regioni intere. Si formavano bande separate di saccheggiatori e di rivoltosi: e ognuna aveva il suo Pugaèëv...

Tali notizie desolanti fecero a Pietroburgo una profonda impressione e oscurarono la gioia procurata dalla fine della guerra turca e dalla conclusione della gloriosa pace di Kücük-Qaïnargé. L'imperatrice, scontenta della lentezza del principe Šèerbàtov, fin dall'inizio di luglio aveva deciso di dimetterlo e di affidare il comando supremo dell'esercito al principe Golìcyn. Il corriere che viaggiava con quest'ordine fu fermato a Nìžnij-Nóvgorod per la scarsa sicurezza delle strade. Quando poi la sovrana venne a sapere della presa di Kazàn' e dell'estensione della rivolta oltre il Volga, pensò di recarsi lei stessa nella regione ove la sciagura e il pericolo si stavano intensificando, e di assumere personalmente il comando delle truppe. Il conte Nikìta Ivànoviè Pànin riuscì a farla desistere da tale proposito. L'imperatrice non sapeva a chi affidare la salvezza della patria. Fu allora che un alto dignitario, allontanato dalla corte e come Bìbikov caduto in disgrazia, il conte Pëtr Ivànoviè Pànin, si offrì spontaneamente di assumere su di sé l'impresa non condotta a termine dal suo predecessore. Caterina notò riconoscente lo zelo del suo nobile suddito, e il conte Pànin, proprio mentre si preparava ad andare contro Pugaèëv dopo aver armato i suoi contadini e i servi, ricevette nella sua tenuta l'ordine di assumere l'alto comando dei governatorati in cui infuriava la

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rivolta, e delle truppe che vi erano state mandate. In tal modo il vincitore di Bender mosse guerra al semplice cosacco che quattro anni prima, sconosciuto, aveva prestato servizio nelle file dell'esercito affidato al suo comando.

Il 20 luglio Pugaèëv traversò a nuoto il Surà sotto Kurmýš. I nobili e i funzionari erano fuggiti. La plebe gli andò incontro con le icone e il pane. Fu letto un manifesto che istigava alla rivolta. Un comando di invalidi fu condotto davanti a Pugaèëv. Il maggiore Jurlóv, che ne era a capo, e un sottufficiale il cui nome, purtroppo, non ci è pervenuto, furono gli unici che non vollero giurare e smascherarono in sua presenza l'impostore. Vennero impiccati e, già morti, percossi con le nagàjke. La vedova di Jurlóv fu salvata dai suoi servi. Pugaèëv ordinò di distribuire ai ciuvasci il vino demaniale, impiccò alcuni nobili che gli erano stati consegnati dai loro contadini e mosse verso Jàdrinsk, lasciando la città sotto il comando di quattro cosacchi dello Jaìk, a disposizione dei quali mise sessanta servi della gleba che si erano uniti a lui. Lasciò dietro di sé una piccola banda per trattenere il conte Mellin. Mìchel'son, che marciava su Arzamàs, mandò Chàrin a Jàdrinsk, dove si affrettò ad andare anche il conte Mellin. Pugaèëv, dopo averlo saputo, piegò verso Alàtyr'; ma, per mascherare i suoi movimenti, mandò a Jàdrinsk una banda che prima fu respinta dal voevóda e dagli abitanti, e poi investita dal conte Mellin e completamente dispersa. Mellin si affrettò verso Alatýr'; strada facendo liberò Kurmýš, dove impiccò diversi ribelli, e prese con sé il cosacco che s'era nominato voevóda come informatore. Gli ufficiali del comando degli invalidi che avevano prestato giuramento all'impostore si giustificarono dicendo che il giuramento era stato da loro fatto non con animo sincero, ma per salvaguardare gli interessi di sua maestà imperiale. «Quanto al fatto», scrivevano a Stupìšin, «che abbiamo violato il nostro giuramento a Dio e alla nostra graziosissima sovrana e abbiamo giurato fedeltà a quel bandito, noi ne siamo cristianamente pentiti e con le lacrime preghiamo la remissione di tale nostro peccato

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involontario, perché nient'altro che una paura mortale ci ha indotto a questo». Venti uomini firmarono questo vergognoso atto di contrizione.

Pugaèëv avanzava con rapidità straordinaria, distaccando le sue bande in tutte le direzioni. Non si sapeva in quale si trovasse lui stesso. Raggiungerlo era impossibile: galoppava per vie traverse, requisendo cavalli freschi, e lasciava dietro di sé degli agitatori, che nel numero di due, tre, o al massimo cinque, scorrazzavano indisturbati per i villaggi e le città, reclutando dappertutto nuove bande. Tre di loro apparvero nei dintorni di Nìžnij-Nóvgorod; i contadini di Demìdov li legarono e li consegnarono a Stupìšin. Egli ordinò d'impiccarli sui barconi e di abbandonarli alla corrente del Volga, lungo le rive ribelli.

Il 27 luglio Pugaèëv entrò a Sarànsk. Ebbe accoglienza non solo dalla plebe, ma dal clero e dalla classe dei mercanti... Trecento nobili di entrambi i sessi e di ogni età furono da lui impiccati seduta stante; i contadini e i servi accorrevano in massa da lui. Lasciò la città il 30. Il giorno dopo Mellin entrò a Sarànsk, mise agli arresti il sottufficiale Šachmamétev, che l'impostore aveva nominato voevóda, e anche altri importanti traditori del clero e della nobiltà, e fece frustare quelli del popolo sotto la forca.

Mìchel'son da Arzamàs si lanciò all'inseguimento di Pugaèëv; Mùffel, da Simbìrsk, s'affrettava a venirgli incontro. Mellin gli stava alle calcagna. In tal modo tre reparti circondavano Pùgaèëv. Il principe Šèerbàtov attendeva con impazienza l'arrivo delle truppe dalla Baschiria per inviare rinforzi ai reparti in azione, e voleva seguirli di persona, ma, ricevuto l'ordine dell'8 luglio, cedette il comando al principe Golìcyn e partì per Pietroburgo.

Nel frattempo Pugaèëv si avvicinò a Penza. Il voevóda Vsevolóžskij aveva tenuto la plebe sottomessa per qualche tempo, e aveva dato tempo ai nobili di mettersi in salvo. Pugaèëv apparve davanti alla città. Gli abitanti gli uscirono incontro con le icone e il pane e caddero in ginocchio davanti a lui. Pugaèëv fece il suo

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ingresso a Penza. Vsevolóžskij, abbandonato dalle truppe cittadine, si rinchiuse in casa con dodici nobili e decise di difendersi. La casa fu incendiata; il valoroso Vsevolóžskij perì coi suoi compagni; le case demaniali e nobiliari vennero saccheggiate. Pugaèëv nominò voevóda un contadino servo e mosse verso Saràtov.

Informate della presa di Penza, le autorità di Saràtov cominciarono a prendere le loro misure.

A Saràtov si trovava allora Deržàvin. Era stato distaccato (come abbiamo già visto) nel villaggio Malýkovka, per tagliare di lì la strada a Pugaèëv nel caso di una sua fuga verso Irgìz. Deržàvin, informatosi dei rapporti di Pugaèëv con i kirgizy-kajsàki, era riuscito a separare questi dalle orde nomadi che erravano sui fiumi di Uzén' e progettava di andare a liberare il borgo di Jaìk, ma era stato preceduto dal generale Mansùrov. Alla fine di luglio era arrivato a Saràtov, dove il grado di tenente della guardia, la mente acuta e il suo carattere impetuoso gli avevano conferito una notevole autorità sull'opinione pubblica.

Il 1o agosto Deržàvin, insieme col giudice capo dell'ufficio di Tutela dei coloni Lodyžìnskij, richiamò Bošnjàk, comandante di Saràtov, per uno scambio di opinioni sulle misure da intraprendere in quelle circostanze. Deržàvin sosteneva che si dovessero fare delle fortificazioni intorno ai magazzini dell'ufficio di tutela entro la città, e trasportarvi il tesoro; che si dovessero bruciare le barche sul Volga, piazzare delle batterie lungo la riva e marciare contro Pugaèëv. Bošnjàk non acconsentiva ad abbandonare la sua fortezza, e voleva mantenere la difesa dietro la città. Discussero, s'infervorarono, e Deržàvin, fuori di sé, propose di mettere agli arresti il comandante. Bošnjàk restò irremovibile, ripetendo che non voleva abbandonare al saccheggio la fortezza che gli era stata affidata, e le sante chiese. Deržàvin, lasciandolo, si recò al municipio; propose che tutti gli abitanti senza eccezione si presentassero per i lavori di sterro nel luogo indicato da

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Lodyžìnskij. Bošnjàk protestava, ma nessuno gli dava ascolto. A testimonianza di queste discussioni è rimasta la lettera sarcastica di Deržàvin all'ostinato comandante.

Il 4 agosto a Saràtov si venne a sapere che Pugaèëv era partito da Penza e si stava avvicinando a Petróvsk. Deržàvin chiese un reparto di cosacchi del Don e si precipitò con loro a Petróvsk a portarne via il tesoro, la polvere e i cannoni. Ma, avvicinandosi alla città, sentì il suono delle campane e vide gruppi d'avanguardia dei ribelli che stavano entrando nelle mura, e il clero che usciva incontro a loro con le icone e il pane. Egli cavalcò avanti con un esaùl e due cosacchi e, vedendo che non c'era più niente da fare, ritornò con loro al galoppo a Saràtov. Gli uomini del suo reparto restarono sulla strada, in attesa di Pugaèëv. L'impostore si avvicinò accompagnato dai suoi complici. Essi lo accolsero inginocchiati. Sentendo parlare di un ufficiale della guardia, Pugaèëv cambiò immediatamente cavallo e, preso in mano un giavellotto, si precipitò al suo inseguimento con quattro cosacchi. Uno dei cosacchi che accompagnavano Deržàvin fu sgozzato da Pugaèëv. Deržàvin riuscì ad arrivare fino a Saràtov, da dove il giorno dopo partì insieme a Lodyžìnskij, lasciando la difesa della città alle cure di quel Bošnjàk da lui deriso.

Il 5 agosto Pugaèëv mosse verso Saràtov. Il suo esercito era composto da trecento cosacchi dello Jaìk, da centocinquanta del Don che si erano riuniti a lui il giorno prima, e da circa diecimila fra calmucchi, baschiri, tartari dello Jasaènàja, tributari, contadini dei latifondisti, servi e marmaglia d'ogni sorta. Circa duemila erano armati alla meglio, gli altri avevano scuri, forche e randelli. Avevano tredici cannoni.

Il 6 Pugaèëv arrivò a Saràtov e si fermò a tre verste dalla città.

Bošnjàk mandò dei cosacchi di Saràtov a catturare un informatore, ma essi passarono dalla parte di Pugaèëv. Nel frattempo gli abitanti mandarono segretamente all'impostore il mercante Kobjakóv con proposte di tradimento. I ribelli si spinsero fin sotto

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la fortezza parlando con i soldati. Bošnjàk ordinò di far fuoco. Allora gli abitanti, capeggiati dal sindaco della città Protopópov, si ribellarono apertamente e assalirono Bošnjàk esigendo che non intraprendesse un combattimento e che aspettasse il ritorno di Kobjakóv. Bošnjàk chiese: come avevano osato allacciare a sua insaputa trattative con l'impostore? Essi seguitavano a strepitare. Intanto Kobjakóv tornò con una lettera che incitava alla rivolta. Bošnjàk la strappò dalle mani del traditore, la fece a pezzi e la calpestò, ordinando di mettere agli arresti Kobjakóv. I mercanti lo assediarono con preghiere e minacce, e Bošnjàk fu costretto a cedere e a liberare Kobjakóv. Tuttavia si preparò alla difesa. Nel frattempo Pugaèëv aveva occupato il monte del Falcone, che domina su Saràtov, aveva piazzato una batteria e cominciato a far fuoco sulla città. Al primo sparo i cosacchi della fortezza e gli abitanti si dispersero in tutte le direzioni. Bošnjàk ordinò di sparare col mortaio, ma la bomba cadde a cinquanta sàžen' di distanza. Egli ispezionò le sue truppe e trovò ovunque sconforto, ma non si perse d'animo. I ribelli attaccarono la fortezza. Egli aprì il fuoco ed era già riuscito a respingerli quando a un tratto trecento artiglieri, afferrando da sotto i cannoni i cunei di legno che li tenevano fermi e le micce, fuggirono dalla fortezza e si arresero. A questo punto Pugaèëv si precipitò dal monte sulla fortezza. Allora Bošnjàk, col solo battaglione di Saràtov, decise di farsi strada attraverso le bande dei ribelli. Ordinò al maggiore Salmànov di mettersi in marcia con la prima metà del battaglione, ma, vedendolo esitante o pronto a tradire, lo destituì dal comando. Il maggiore Butýrin intercedette a suo favore, e Bošnjàk si mostrò debole per la seconda volta: lasciò Salmànov al suo posto e, indirizzatosi alla seconda metà del battaglione, ordinò di spiegare le bandiere e di uscire dalle fortificazioni. In quel momento Salmànov passò al nemico e Bošnjàk restò con sessanta uomini fra ufficiali e soldati. Il valoroso Bošnjàk con questo pugno di uomini uscì dalla fortezza e per sei ore intere marciò facendosi largo attraverso le innumerevoli schiere dei ribelli. La notte sospese il

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combattimento. Bošnjàk raggiunse le rive del Volga. Fece pervenire ad Àstrachan' il tesoro e gli incartamenti della cancelleria per via fluviale, e l'11 agosto giunse felicemente a Carìcyn.

I ribelli, impadronitisi di Saràtov, liberarono i galeotti, aprirono l'accesso alle rimesse del pane e del sale, devastarono le bettole e saccheggiarono le case. Pugaèëv impiccò tutti i nobili che gli capitarono fra le mani e proibì di seppellirne i corpi; nominò comandante della città il cosacco Ufímcev capo di una banda di cinquanta uomini, e il 9 agosto a mezzogiorno lasciò la città. L'11 Mùffel arrivò nella Saràtov saccheggiata, e il 14 Mìchel'son. Entrambi, unendosi, si lanciarono sulle tracce di Pugaèëv.

Pugaèëv seguiva il corso del Volga. Gli stranieri lì stabiliti, per la maggior parte vagabondi e furfanti, si unirono tutti a lui, istigati da un confederato polacco (non si conosce il nome di costui, ma di certo non era Pulawski; quest'ultimo si era già staccato da Pugaèëv, indignato della sua bestiale ferocia). Pugaèëv costituì con loro un reggimento di ussari. I cosacchi del Volga passarono ugualmente dalla sua parte.

In tal modo Pugaèëv si rafforzava di giorno in giorno. Il suo esercito contava ormai ventimila uomini. Le sue bande invadevano i governatorati di Nìžnij-Nóvgorod, Vorónež e di Ástrachan'. Il servo fuggiasco Evsignéev, che si faceva passare anch'egli per Pietro III, prese Insàra, Troìck, Narovèàt e Kerénsk, impiccò voevóda e nobili, e instaurò dappertutto il suo governo. Il brigante Firska si avvicinò a Simbìrsk dopo aver ucciso in combattimento il colonnello Ryèkóv, che aveva rimpiazzato Èernysëv morto sotto Orenbùrg all'inizio della rivolta; la guarnigione lo tradì. Simbìrsk fu salvata comunque dall'arrivo del colonnello Obernibésov. Firska riempì la contrada di omicidi e saccheggi. Vérchnij-Lómov e Nìžnij-Lómov furono saccheggiate e arse da altri malfattori. Lo stato di quest'ampio territorio era spaventoso. La nobiltà era condannata alla rovina. In tutti i villaggi ai portoni delle case

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signorili erano appesi i proprietari o i loro amministratori. I ribelli, e i reparti che li inseguivano, requisivano ai contadini i cavalli, le provviste e fin gli ultimi averi. L'amministrazione era stata dappertutto ridotta all'impotenza. Il popolo non sapeva a chi obbedire. Alla domanda: a chi credete? A Pëtr Fëdoroviè o a Caterina Alekséevna? la gente pacifica non osava rispondere, non sapendo da che parte stessero quelli che la ponevano.

Il 13 agosto Pugaèëv si avvicinò a Dmìtrievsk (Kamýšenka). Lo affrontò il maggiore Dietz con cinquecento soldati della guarnigione, mille cosacchi del Don e cinquecento calmucchi capeggiati dai principi Dundukóv e Derbetëv. Il combattimento ebbe inizio. I calmucchi si dispersero al primo colpo di cannone. I cosacchi si batterono valorosamente e arrivarono fino ai cannoni, ma furono tagliati fuori e passarono dalla parte del nemico. Dietz fu ucciso. I soldati della guarnigione vennero presi con tutti i cannoni. Pugaèëv passò la notte sul luogo del combattimento; il giorno dopo occupò Dubóvka e mosse su Carìcyn.

Questa città, ben fortificata, era sotto il comando del colonnello Cýpletev. Con lui si trovava il valoroso Bošnjàk. Il 21 agosto Pugaèëv, con la sua solita audacia, vi fece una puntata. Respinto con perdite, egli si allontanò a otto verste dalla fortezza. Contro di lui furono inviati millecinquecento cosacchi del Don, ma solo quattrocento tornarono: gli altri tradirono.

Il giorno dopo Pugaèëv si avvicinò alla città dalla parte del Volga e fu di nuovo respinto da Bošnjàk. Nel frattempo apprese che si stavano avvicinando nuove truppe e si affrettò ad allontanarsi in direzione di Sarépta.

Mìchel'son, Mùffel e Méllin arrivarono il 20 a Dubróvka e il 22 entrarono a Carìcyn.

Pugaèëv fuggiva lungo la riva del Volga. Qui incontrò l'astronomo Lowitz e gli chiese chi era. Sentito che Lowitz osservava il corso degli astri celesti, ordinò d'impiccarlo il più vicino possibile alle

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stelle. L'assistente Inochódcev, che era lì, riuscì a fuggire.

Pugaèëv si riposò a Sarépta una giornata intera, ritirandosi nella sua tenda con due concubine. Anche la sua famiglia si trovava lì. Discese poi verso Èërnyj Jar. Mìchel'son gli stava alle calcagna. Infine, il 25, all'alba egli raggiunse Pugaèëv a centocinque verste da Carìcyn.

Pugaèëv occupò un'altura fra due strade. Mìchel'son di notte s'infiltrò nelle retrovie e prese posizione di fronte ai ribelli. La mattina Pugaèëv si vide di nuovo davanti il suo terribile persecutore, ma non si turbò, e marciò coraggiosamente contro Mìchel'son, dopo aver inviato la sua marmaglia appiedata contro i cosacchi del Don e di Èugùev, che stavano schierati contro entrambe le ali del reparto. Il combattimento non si protrasse a lungo. Qualche sparo di cannone portò lo scompiglio fra i ribelli. Mìchel'son li caricò. Essi scapparono abbandonando i cannoni e tutte le salmerie. Pugaèëv, passato il fiume su un ponte, cercò invano di trattenerli; fuggì insieme con loro. Furono battuti e inseguiti per quaranta verste. Pugaèëv perse circa quattromila uomini uccisi e settemila prigionieri. Gli altri si dispersero. Pugaèëv a settanta verste dal luogo del combattimento traversò il Volga sopra Èernojàrsk su quattro imbarcazioni, e si allontanò sui prati allagati con non più di trenta cosacchi. La cavalleria che lo inseguiva ebbe su di lui un ritardo di un quarto d'ora. I fuggiaschi, che non avevano fatto in tempo ad attraversare il fiume sulle barche, si gettarono a nuoto e annegarono.

Tale sconfitta fu l'ultima e la decisiva. Il conte Pànin, arrivato in quel mentre a Kerénsk, inviò a Pietroburgo la lieta notizia, rendendo nel suo rapporto piena giustizia alla rapidità, abilità e coraggio di Mìchel'son. Intanto un nuovo personaggio importante era apparso sulla scena delle operazioni: Suvórov arrivò a Carìcyn.

Mentre Bìbikov era ancora in vita, il collegio di stato, considerando la gravità della rivolta, aveva richiamato Suvórov, che si trovava allora sotto le mura di Silistria; ma il conte

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Rumjàncov non l'aveva lasciato andare perché l'Europa non si facesse un'immagine sproporzionata dei disordini interni allo stato. Tale era la rinomanza di Suvórov! Finita la guerra, però, Suvórov ricevette l'ordine di recarsi immediatamente a Mosca, dal principe Volkónskij, per assumerne ulteriori incarichi. S'incontrò con il conte Pànin nella tenuta di quest'ultimo e apparve nel reparto di Mìchel'son qualche giorno dopo l'ultima vittoria. Suvòrov aveva avuto dal conte Pànin un ordine scritto che imponeva ai comandanti delle truppe e ai governatori di eseguire tutte le sue prescrizioni. Assunse il comando sul reparto di Mìchel'son, fece montare la fanteria sui cavalli sottratti a Pugaèëv, e attraversò il Volga a Carìcyn. In uno dei villaggi ribelli prese, a titolo di punizione, cinquanta paia di buoi, e con questa provvista s'inoltrò nell'immensa steppa, dove non ci sono né boschi né acqua, e dove di giorno doveva regolare il suo cammino secondo il sole, e la notte secondo le stelle.

Pugaèëv andava errando per quella stessa steppa. Le truppe lo accerchiavano da ogni parte; Méllin e Mùffel, che avevano anch'essi attraversato il Volga, gli sbarravano la strada per il nord; un reparto leggero da campo gli veniva incontro da Ástrachan'; il principe Golìcyn e Mansùrov gli sbarravano la strada per Jaìk; Dundukóv coi suoi calmucchi perlustrava la steppa; furono organizzate pattuglie da Gùr'ev a Saràtov e da Èërnyj Jar a Kràsnyj Jar. Pugaèëv non aveva modo di uscir fuori dalle reti che lo stringevano. I suoi complici, vedendo da una parte l'inevitabile rovina e dall'altra la speranza del perdono, si misero d'accordo fra loro e decisero di consegnarlo alle autorità. Pugaèëv voleva andare verso il Mar Caspio, sperando di raggiungere in qualche modo le steppe kirgìzo-kajsàke. I cosacchi fecero finta di essere d'accordo, ma, dicendo che volevano prendere con sé moglie e figli, lo portarono verso Uzén', rifugio abituale dei criminali e dei fuggiaschi del luogo. Il 14 settembre essi giunsero nei villaggi dei vecchi credenti di quella regione. Fu qui che si tenne l'ultima assemblea. I cosacchi che non acconsentirono ad arrendersi alle

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autorità si dispersero. Gli altri si diressero alla tenda di Pugaèëv.

Pugaèëv sedeva solo e pensieroso. Le sue armi erano appese da una parte. Sentendo entrare i cosacchi alzò la testa e chiese: che cosa volevano? Questi si misero a parlare della loro situazione disperata e intanto, avanzando piano piano, cercavano di frapporsi fra lui e le sue armi. Pugaèëv tentò di nuovo di convincerli ad attaccare il borgo di Gùr'ev. I cosacchi risposero che l'avevano seguito per tanto tempo, e che ormai era ora che lui seguisse loro. «Come sarebbe?», disse Pugaèëv, «volete tradire il vostro sovrano?». «Che fare!», risposero i cosacchi, e all'improvviso gli si gettarono addosso. Pugaèëv riuscì a liberarsi. Essi indietreggiarono di qualche passo. «Mi ero accorto da tanto del vostro tradimento», disse Pugaèëv e, chiamato a sé il suo prediletto, il cosacco dell'Ilék Tvórogov, gli tese le braccia e disse: «Lega!» Tvórogov voleva torcergli i gomiti dietro la schiena. Pugaèëv non cedette. «Sono forse un bandito?» disse con rabbia. I cosacchi lo misero in sella e lo condussero verso il borgo di Jaìk. Per tutta la strada Pugaèëv li minacciò della vendetta del granduca ereditario. Una volta trovò il modo di liberarsi le mani, afferrò una sciabola e una pistola, ferì con un colpo uno dei cosacchi e gridò che legassero i traditori. Ma nessuno più gli obbediva. I cosacchi, quando furono vicini al borgo di Jaìk, mandarono ad avvisare il comandante. Il cosacco Chàrèev e il sergente Bardóvskij furono mandati incontro a loro, presero in consegna Pugaèëv, lo incatenarono e lo condussero in città, direttamente dal capitano-luogotenente della guardia Màvrin, membro della commissione d'inchiesta.

Màvrin interrogò l'impostore. Pugaèëv gli si aprì fin dalle prime parole. «È piaciuto a Dio», disse, «di punire la Russia attraverso la mia empietà». Fu ordinato agli abitanti di raccogliersi nella piazza della città; vi furono condotti anche i ribelli, tenuti in catene. Màvrin fece uscire Pugaèëv e lo mostrò al popolo. Tutti lo riconobbero: i ribelli abbassarono la testa. Pugaèëv cominciò a

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svergognarli ad alta voce e disse: «Voi mi avete rovinato; voi per molti giorni di seguito mi avete scongiurato di assumere il nome del grande sovrano defunto; io mi sono rifiutato a lungo, e anche quando ho acconsentito, tutto quello che ho fatto è stato per vostra volontà e col vostro consenso; voi invece avete agito spesso a mia insaputa e perfino contro la mia volontà». I ribelli non replicarono parola.

Suvórov nel frattempo era arrivato a Uzén' e aveva saputo da quegli eremiti che Pugaèëv era stato legato dai suoi complici e portato al borgo di Jaìk. Suvórov vi si affrettò anche lui. Di notte sbagliò strada e s'imbatté nei fuochi accesi qua e là nella steppa da briganti kirgizy; Suvórov li attaccò e li mise in fuga perdendo alcuni uomini e fra questi il suo aiutante Maksìmoviè. Qualche giorno più tardi arrivò a Jaìk. Sìmonov gli consegnò Pugaèëv. Suvórov interrogò incuriosito il celebre ribelle sulle sue imprese militari e i suoi progetti, e lo condusse a Simbìrsk dove era atteso anche il conte Pànin.

Pugaèëv era seduto in una gabbia di legno su un carro a due ruote. Un forte distaccamento, con due cannoni, lo circondava. Suvórov non se ne separava. Nel villaggio Mostý (a centoquaranta verste da Samàra) si verificò un incendio nei pressi dell'izba in cui Pugaèëv passava la notte. Fu tirato fuori dalla gabbia, legato al carro insieme con suo figlio, un ragazzino vivace e coraggioso, e per tutta la notte Suvórov fece loro personalmente la guardia. A Kospór'e, di fronte a Samàra, di notte, con un tempo burrascoso, Suvórov passò attraverso il Volga e arrivò a Simbìrsk all'inizio di ottobre.

Pugaèëv fu portato direttamente nel cortile del conte Pànin, che lo ricevette sulla scalinata, circondato dal suo stato maggiore. «Chi saresti tu?», chiese all'impostore. «Emel'jàn Ivànov Pugaèëv» rispose quello. «E come hai osato tu, ladro, darti il nome di sovrano?», continuò Pànin. «Io non sono un corvo» replicò Pugaèëv con un gioco di parole ed esprimendosi, come suo solito,

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per allegorie «ma un corvetto; il corvo vola ancora». Bisogna sapere che i ribelli di Jaìk, a smentita delle dicerie comuni, avevano diffuso la voce che fra loro si trovava effettivamente un certo Pugaèëv, ma che questi non aveva nulla in comune col sovrano Pietro III che li comandava. Pànin, notando che l'impudenza di Pugaèëv aveva impressionato il popolo affollatosi intorno al cortile, colpì l'impostore sul viso fino al sangue, e gli strappò un ciuffo della barba. Pugaèëv si mise in ginocchio e chiese grazia. Fu messo sotto stretta sorveglianza, con le mani e i piedi in ceppi, un cerchio di ferro attorno alla vita, legato a una catena avvitata al muro. L'accademico Ryèkóv, padre del comandante ucciso di Simbìrsk, lo vide là e descrisse il suo incontro con lui. Pugaèëv stava mangiando la zuppa di pesce in una scodella di legno. Vedendo Ryèkóv gli disse: benvenuto, e lo invitò a pranzare con lui. «Dal che», scrive l'accademico, «riconobbi la sua bassezza di spirito». Ryèkòv gli chiese: come aveva potuto osare così grandi malvagità? Pugaèëv rispose: «Sono colpevole davanti a Dio e all'imperatrice, ma cercherò di espiare tutte le mie colpe». E sottolineò le sue parole con un giuramento (vista la sua bassezza, osserva di nuovo Ryèkóv). Parlando di suo figlio Ryèkóv non riuscì a trattenere le lacrime; Pugaèëv, guardandolo, pianse anche lui.

Infine Pugaèëv fu mandato a Mosca, ove si doveva decidere la sua sorte. Fu trasportato in una kibìtka da inverno con cavalli di ricambio presi in affitto dagli abitanti; il capitano della guardia Galàchov e il capitano Povàlo-Švejkóvskij, che qualche mese prima era stato prigioniero dell'impostore, lo scortavano. Era in catene. I soldati lo nutrivano dalle loro mani e dicevano ai bambini che si accalcavano intorno alla sua kibìtka: ricordatevi, bambini, che avete visto Pugaèëv. I vecchi raccontano ancora delle sue audaci risposte alle domande dei viaggiatori che lo incrociavano. Per tutto il viaggio fu allegro e tranquillo. A Mosca fu accolto in gran numero dallo stesso popolo che poco tempo prima l'aveva atteso con impazienza, e che era appena tornato alla calma dopo la

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cattura del terribile brigante. Fu incarcerato nel Palazzo della zecca, dove dalla mattina alla sera, per due mesi, i curiosi poterono vedere il famoso ribelle incatenato al muro, e ancora terribile pur nella sua impotenza. Raccontano che molte donne svenivano al suo sguardo di fuoco e alla sua voce minacciosa. Davanti alla corte mostrò una debolezza d'animo inattesa. Furono costretti a prepararlo gradualmente ad ascoltare la sentenza di morte. Pugaèëv e Perfìl'ev furono condannati allo squartamento; Èika alla decapitazione; Šigàev, Paduróv e Tórnov alla forca; altri diciotto alla fustigazione e ai lavori forzati. L'esecuzione di Pugaèëv e dei suoi complici ebbe luogo a Mosca il 10 gennaio 1775. Dal mattino un'innumerevole quantità di gente si affollò sul Bóloto, dov'era stato eretto un alto palco. Su questo erano seduti i boia e bevevano vino in attesa delle vittime. Accanto al palco si ergevano tre forche. Intorno furono schierati i reggimenti di fanteria. Gli ufficiali erano in pelliccia a causa del freddo rigidissimo. I tetti delle case e delle botteghe erano disseminati di gente; la piazza bassa e le strade vicine erano ingombre di vetture e di calessi. A un tratto tutto si agitò e si levò un gran rumore; gridarono: eccolo, eccolo! Dietro a un reparto di corazzieri avanzava una slitta con un'alta tribuna. Sopra di essa, a testa scoperta, sedeva Pugaèëv, di fronte a lui il confessore. Vi si trovava anche un funzionario della commissione segreta. Pugaèëv, mentre lo trasportavano, s'inchinava a destra e a sinistra. Dietro la slitta veniva ancora la cavalleria e seguiva a piedi la folla degli altri condannati. Un testimone oculare (all'epoca appena uscito dall'adolescenza, oggi vegliardo coronato dalla gloria di poeta e di uomo di stato) descrive nel modo seguente il sanguinoso spettacolo:

«La slitta si fermò davanti alla scalinata del patibolo. Pugaèëv e il suo favorito Perfìl'ev, accompagnati dal confessore e da due funzionari, erano appena saliti sul patibolo che echeggiò l'imperioso comando: presentat'arm, e uno dei funzionari cominciò la lettura della sentenza. Quasi ogni parola giungeva fino a me.

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«Mentre il lettore pronunciava il nome e il soprannome del principale malfattore, come anche della stanìca in cui era nato, il capo della polizia gli chiese ad alta voce: "Sei tu il cosacco del Don Emél'ka Pugaèëv?". Lui replicò con voce altrettanto alta: «Sì, signore, io sono il cosacco del Don della stanìca Zimovéjskaja Emél'ka Pugaèëv». Poi, per tutta la durata della lettura della sentenza, guardando la cattedrale, egli si faceva spesso il segno della croce, mentre invece il suo compagno d'armi Perfìl'ev, di statura piuttosta alta, un po' curvo, butterato e dall'aspetto feroce, restava immobile con gli occhi a terra. Dopo la lettura della sentenza il confessore disse loro qualche parola, li benedisse e scese dal patibolo. Quello che aveva letto la sentenza lo seguì. Allora Pugaèëv, dopo aver fatto insieme con il segno della croce diversi inchini a terra, si voltò verso la cattedrale e poi con aria precipitosa rivolse l'ultimo addio al popolo; s'inchinava da tutte le parti dicendo con voce rotta: Perdona, popolo ortodosso; assolvimi per quello di cui sono colpevole davanti a te... addio e perdona, popolo ortodosso!». A queste parole l'esecutore diede il segnale: i carnefici si precipitarono a spogliarlo, gli strapparono la pelliccia bianca di montone; presero a lacerargli le maniche del mezzo caftano di seta color lampone. Allora egli batté le mani, si rovesciò all'indietro, e un attimo dopo la testa insanguinata pendeva già in aria...».

Il boia aveva ricevuto segretamente l'ordine di abbreviare il supplizio dei criminali. Al cadavere furono tagliate le braccia e le gambe, i carnefici le portarono ai quattro angoli del patibolo; poi fecero vedere la testa e la infilarono su un'alta pertica. Perfìl'ev, dopo essersi segnato, si prostrò a terra e restò immobile. I carnefici lo sollevarono e lo giustiziarono allo stesso modo di Pugaèëv. Frattanto Šigàev, Paduróv e Tórnov già penzolavano negli ultimi sussulti... In quel momento echeggiarono i sonagli di una slitta; Èika era portato a Ufà, ove sarebbe avvenuta la sua esecuzione. Poi cominciarono le fustigazioni pubbliche; il popolo si disperse, restò un piccolo gruppo di curiosi accanto al palo dove, uno dopo

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l'altro, venivano legati i delinquenti condannati alla frusta. Le membra mozze dei ribelli squartati furono portate in giro alle porte di Mosca e qualche giorno dopo bruciate insieme ai corpi. I carnefici sparsero le ceneri al vento. I ribelli graziati il giorno dopo l'esecuzione furono portati davanti alla Granovìtaja Palàta. Fu loro annunciata la grazia e davanti a tutto il popolo furono loro tolte le catene.

Così ebbe fine la rivolta, iniziata da un pugno di cosacchi disobbedienti, che si era rafforzata per l'imperdonabile negligenza delle autorità e che aveva fatto vacillare lo stato dalla Siberia a Mosca, e dal Kubàn' alle foreste di Mùrom. La calma completa non si ristabilì ancora per molto tempo. Pànin e Suvórov restarono un anno intero nelle province pacificate, per consolidarvi l'amministrazione indebolita, restaurare città e fortezze, e sradicare le ultime ramificazioni della rivolta stroncata. Alla fine del 1775 fu promulgata l'amnistia generale e fu dato ordine di consegnare tutta la faccenda al perpetuo oblio. Caterina, desiderosa di estirpare il ricordo di quell'epoca terribile, abolì l'antico nome del fiume, le cui rive erano state prime testimoni della rivolta. I cosacchi dello Jaìk presero il nome di cosacchi degli Urali, e il loro borgo ebbe lo stesso nome. Ma il nome del terribile ribelle risuona ancora nelle regioni in cui egli imperversava. Il popolo ha ancora un vivo ricordo dell'epoca sanguinosa che, così espressivamente, ha chiamato pugaèëvšèina.