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AL-MAGHREB AL-AQSÂ Le parole del viaggio 19-27 OTTOBRE 2017

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AL-MAGHREB AL-AQSÂLe parole del viaggio19-27 OTTOBRE 2017

Indice

LA PARTENZAgiovedì 19 ottobre 20175

FÈS / AZROU / IFRANE / MIDELTvenerdì 20 ottobre 201713

MIDELT / ERFOUD / OASI DI MERZOUGA sabato 21 ottobre 201731

OASI DI MERZOUGA / DESERTOdomenica 22 ottobre 201737

DESERTO / OASI DI MERZOUGAlunedì 23 ottobre 201749

OASI DI MERZOUGA / OUARZAZATE martedì 24 ottobre 201757OUARZAZATE / AÎT BEN HADDOU MARRAKECHmercoledì 25 ottobre 2017

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MARRAKECHgiovedì 26 ottobre 201770

MARRAKECH / CASABLANCAvenerdì 27 ottobre 201777

Al-Maghreb al-Aqsâ, ossia “Occidente estremo”, è l’espressione usata dai geografi e dagli storici arabo-musulmani per indicare, assieme al “tramonto” del sole, le estreme regioni a forte presenza berbera del Nordafrica, prima che in quei territori nascesse il moderno Stato del Marocco.

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giovedì 19 ottobre2017

— LA PARTENZA—

Quelle orme senza tempo1

In tutte le culture la via è il simbolo della vita: a partire dal termine ebraico derek che non è solo la “strada”, ma anche il sentiero morale, luminoso o tenebroso per giungere sino a quella specie di manifesto programmatico della beat generation che è il romanzo On the road (1957) di Jack Kerouac, segnato dalla dichiarazione: «La strada è la vita». Certo, lo spettro del movimento umano nelle sue mille forme è molto variegato: si va dal girovagare senza meta all’itinerario commerciale, dal nomadismo al pellegrinaggio, dal viaggio turistico ai percorsi virtuali telematici.

Un immenso formicolare invade la terra e si proietta persino verso gli spazi siderali, incarnando l’ansia dell’homo viator che testimo-nia la sua inquietudine radicale, intuita da santi e poeti. Il movi-mento nel tempo e nello spazio, iniziato quando siamo usciti dal

1 Gianfranco ravasi, I luoghi dell’infinito, ottobre 2005, 8-13.

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Proprio per questa dimensione dinamica insita nella religione bibli-ca, una delle componenti fondamentali della spiritualità è quella del pellegrinaggio, il cammino sacro da compiere tre volte all’anno, in occasione delle tre feste principali (Pasqua, Pentecoste, Capanne), al tempio di Sion. Un itinerario verso l’alto non solo a livello spazia-le, essendo Gerusalemme a 800 metri, ma anche mistico perché è una “ascensione” verso l’incontro col Signore, come testimonia appunto quel fascicolo di Salmi (dal 120 al 134) noti come “cantici delle ascensioni”. È questa la meta sospirata verso un oltre tra-scendente, come è attestato anche dalla tensione messianica che regge tutta la visione della storia biblica, protesa in un cammino di speranza e di fiducia.

Se entriamo poi nel Nuovo Testamento, ci viene subito incontro il cammino del Figlio di Dio, «via, verità e vita», che discende da Dio per divenire «carne» e avviarsi sulle strade umane dello spazio e del tempo, per riprendere infine la via dell’ascensione in Dio. È cu-rioso notare che Gesù è descritto dagli evangelisti costantemente in movimento per i villaggi della Terra Santa e soprattutto verso la città santa. Anzi, Luca occupa ben dieci capitoli (9,51-19,28) del suo Vangelo per descrivere la lunga marcia che conduce Cristo a Gerusalemme, sede della sua morte e risurrezione. Sulle sue orme devono incamminarsi anche i discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).

Si configura così il cammino dei figli di Dio che ricevono proprio dal Risorto il mandato di «andare in tutto il mondo» (Mt 28,19), percorrendo le strade della terra: il libro degli Atti è, al riguardo, una sorta di planimetria narrativa che si distende su tutta l’area mediterranea, da Gerusalemme a Roma, e che ha come prota-gonista Paolo, seguito da tanti altri testimoni. Tutto era anticipato simbolicamente nel viaggio di quel tardo pomeriggio, quando due discepoli camminavano da Gerusalemme ad Emmaus: Cristo, an-che se non riconosciuto, li aveva accompagnati con la sua parola che faceva ardere il cuore e li conduceva nel santuario quotidiano ove aveva spezzato il pane eucaristico. In questo cammino si muo-vono non soltanto i discepoli ma anche tutti gli uomini che cercano Dio con cuore sincero. Si comincia con la scena dei Magi che da

grembo materno, è quindi una grandiosa parabola della ricerca in-teriore di noi stessi e del mistero che ci avvolge. Il moderno Ulisse di Joyce scopre che «noi camminiamo attraverso noi stessi incon-trando ladri, spiriti, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, cugini. Ma sempre incontriamo noi stessi». In questa luce il cammino è quasi il prototipo di un’esperienza esistenziale che pervade l’intera umanità, al di là delle appartenenze culturali e della professione di fede o di non fede.

La Bibbia è uno scritto tutto pervaso dal movimento anche perché ha come sua culla il nomadismo. Il primo cammino in cui c’im-battiamo, appena aperta la Scrittura, è quello dei figli di Adamo, cioè dell’intera umanità fin dalla sua stessa radice. Suggestiva è la definizione dell’uomo fragile coniata dal Salmo 39: «È come ombra l’uomo che passa (…) Presso di te io sono forestiero, ospite/pelle-grino come tutti i miei padri» (39,7-13). E l’orante del Salmo 119,19 ripete di essere «un forestiero sulla terra». È il vagabondare da un paradiso perduto, come ci ricorda la Genesi: «Il Signore Dio scac-ciò l’uomo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (3,23). È un procedere segnato dal rimorso per la colpa, come accade a Caino: «Io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra» (Genesi 4,14). Lo stesso lessico del peccato nell’Antico Testamento suppone un “deviare”, un andare fuori pista, mentre la conversione è un “ritornare” sulla retta via.

C’è, poi, l’incessante cammino dei figli di Israele espresso dalle parole di Davide: «Tutto proviene da te: noi, dopo averlo ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo ridato. Noi siamo forestieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri» (1 Cr 29,14-15). Un cammino che si apre con la vicenda di Abramo che deve obbedire a Dio partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e tuttavia parte senza sapere dove andare (cf Eb 11,8). Decisiva nella storia dell’Israele bi-blico è, poi, l’esperienza dell’esodo dall’Egitto, che ha nel cammino nel deserto la sua tappa drammatica e gloriosa e che si trasforma in una sorta di parabola permanente della vicenda di questo po-polo ogni volta che sarà costretto a rimettersi in marcia (si pensi al nuovo esodo dall’esilio babilonese, cantato dal cosiddetto Secon-do Isaia), ma anche di quel viaggio ultimo e definitivo verso la meta della creazione rinnovata e perfetta.

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Oriente giungono davanti a Cristo per «prostrarsi e adorarlo». Gesù stesso vide profilarsi questa processione di gente di ogni nazione, etnia, popolo e lingua: «Molti verranno da oriente e occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11).

Ma, come era accaduto per l’itinerario di Abramo, di Israele e di Cristo, la meta ultima di questo itinerario non è nel ritorno nostal-gico a un passato dorato, come era alla base del viaggio di ritorno di Ulisse, desideroso di contemplare ancora il fumo che usciva dai comignoli della sua Itaca al tramonto (Odissea 1,58). La vita cristia-na, che negli Atti è chiamata la «via», è rivolta verso un termine trascendente, luminosamente rappresentato dalla Gerusalemme celeste, la cui mappa ideale è tracciata dall’Apocalisse. Là scom-pariranno quelle presenze che turbano il nostro itinerario terreno, «la morte, il lutto, il lamento, l’affanno», perché il «Dio-con-noi tergerà ogni lacrima dai nostri occhi» (21,3-4). Là non ci sarà più neppure il tempio «perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22). La comunione sarà piena e l’intimità non conoscerà fratture, perché «saremo rapiti tra le nubi per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre col Signore» (1 Ts 4,17).

La consapevolezza del destino ultimo di essere «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19) rende, allora, sempre vivo e in-tenso l’appello a non radicarci nella storia ma uscire verso Cristo «fuori dell’accampamento, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,13-14). In questo cammino, come già proclamava il Salmo del pastore, il 23, non siamo soli perché «Tu sei con me».

BENEDIZIONE ALL’INIZIO DEL VIAGGIO

Segno di croce e saluto

Guida:Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.℟. Amen.

Dio, che salva e consola, sia con tutti voi.℟. E con il tuo spirito.

Guida:Carissimi, all’inizio del nostro viaggio richiamiamo alla mente con quale animo abbiamo maturato questo proposito e disponiamoci ad intraprenderlo con fede e nella comunione tra di noi.

Salmo 136 (135)Il suo amore è per sempre

Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempreRendete grazie al Signore dei signori, perché il suo amore è per sempre.

Lui solo ha compiuto grandi meraviglie, perché il suo amore è per sempre. Ha creato i cieli con sapienza, perché il suo amore è per sempre. Ha disteso la terra sulle acque, perché il suo amore è per sempre.

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Ha fatto le grandi luci, perché il suo amore è per sempre. Il sole, per governare il giorno, perché il suo amore è per sempre. La luna e le stelle, per governare la notte, perché il suo amore è per sempre.

Colpì l’Egitto nei suoi primogeniti, perché il suo amore è per sempre. Da quella terra fece uscire Israele, perché il suo amore è per sempre. Con mano potente e braccio teso, perché il suo amore è per sempre.

Divise il Mar Rosso in due parti, perché il suo amore è per sempre. In mezzo fece passare Israele, perché il suo amore è per sempre. Vi travolse il faraone e il suo esercito, perché il suo amore è per sempre. Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre.

Colpì grandi sovrani, perché il suo amore è per sempre. Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre. In eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre.

Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre. Ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre. Egli dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre. Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre.

Preghiera di benedizione

Guida:Dio onnipotente e misericordioso,tu provvedi a chi ti amae sempre e dovunquesei vicino a chi ti cerca con cuore sincero;assisti i tuoi figli in questo viaggioe guida i loro passi nella tua volontà,perché, protetti dalla tua ombra nel giornoe illuminati dalla tua luce nella nottepossano giungere alla mèta desiderata.per Cristo nostro Signore.℟. Amen.

Guida:Dio nostra salvezzaci guidi nella prosperità e nella pace.℟. Amen.

Il Signore ci assista e ci accompagni nel cammino.℟. Amen.

Con l’aiuto del Signoregiunga felicemente a termine questo viaggioche iniziamo nel suo nome.℟. Amen.

E la benedizione di Dio Onnipotente,Padre e Figlio e Spirito Santo,discenda su di voi e con voi rimanga sempre.℟. Amen.

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FÈSAZROU IFRANEMIDELTvenerdì 20 ottobre 2017

— 1 GIORNO—

«Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio».

(M. Buber, Il cammino dell’uomo)

Le rose di Fès

Tre ore di conversazione su Dio e sul suo Regno tra gli uomini. Non mi è mai capitato con un cristiano, nemmeno con un pre-te o un francescano. Conclusione di mio fratello Umar: «Sono felice di constatare che non hai rinunciato alla tua ragione per credere ai misteri cristiani: malgrado ciò, tra di noi c’è un muro». Io allora gli ho ricordato i muri che separano i giardini che cir-condano Fez, costruiti per far sì che le donne fossero libere da entrambe le parti di togliersi il velo e stare all’aria aperta senza essere viste. E ho avuto l’ispirazione di aggiungere che questi muri non impedivano al profumo delle rose da entrambe le parti di incontrarsi più in alto (…). Chiunque faccia la volontà di Dio così come la conosce e si applichi per meglio conoscerla è una rosa dal profumo meraviglioso che se ne va, oltre tutti i muri, a incontrare un altro profumo che origina anch’esso nella fedeltà

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al dono e alle esigenze di Dio, così come vengono percepite». Jean-MohaMMed abd-el-Jalil, Lettera a Louis Gardet 2

Facciamo dunque in modo che tutti i profumi che si levano dai roseti musulmani, ebraici, cristiani e altri si incontrino al di sopra dei muri che sembrano separarli, perché il Giardiniere celeste è il medesimo per tutti e aspetta “l’offerta delle nazioni” (Rm 15, 16) e perché il suo Spirito soffia dove egli vuole e la sta preparando al ritmo stesso dei nostri dialoghi.

Maurice borrMans

Il profumo di Betania

Dopo la risurrezione di Lazzaro, nella casa di Betania si ritrovano tutti gli amici per una cena (cf. Gv 12,1-2). Lazzaro è uno dei com-mensali e il fatto di partecipare al banchetto è una chiara allusione alla vita ritrovata. Gesù a Betania vive la gioia di rimanere insieme alle persone care, sperimenta la necessità di riposarsi, di staccare dalle consuete attività apostoliche.

Momento culminate della cena di Betania è il gesto profetico di Ma-ria che cosparge i piedi del Signore con olio profumato e li asciuga con i suoi capelli, al punto che «tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Gv 12,3). Il particolare è significativo e simbolico perché sembra rimandare al «cattivo odore» del sepolcro di cui si fa cenno nel racconto precedente (cf. Gv 11,39): là dove non c’è Gesù, dove non c’è fiducia incondizionata in lui, quello che si respira è odore di morte; invece, là dove la fede è davvero essere in relazio-ne con Gesù, come nel caso di Maria, si espande il profumo della vita. Sant’Agostino, a proposito del fatto che la casa si riempì di profumo, dice: «Il buon profumo è la buona fama di quanti vivono nell’amore di Cristo. Per loro merito essa riempie il mondo intero e il nome del Signore è lodato. Invece coloro che si dicono cristiani

2 Jean-MohaMMed abd-el-Jalil, Testimone del Corano e del Vangelo (a cura di M. Borrmans), Jaca Book, Milano 2006, 137-138.

e vivono male fanno ingiuria a Cristo e a causa loro il nome del Si-gnore viene bestemmiato».

C’è un particolare significativo nel comportamento di Maria: si svuota di ciò che la caratterizza come donna: il profumo, che noto-riamente è strumento di fascino femminile. Non solo, ma lo riversa su Cristo, come a dire che la propria vita è significativa e piena di interesse in quel rapporto con Gesù, al punto che tutte le altre cose (vanità, valore economico, giudizio della gente) perdono di interes-se. Di fronte a Gesù essa è presente affettivamente. Nel gesto di Maria c’è qualcosa di “esagerato” che viene segnalato da Giuda, ed proprio questa forma paradossale di agire, e prima ancora di essere, che accomuna la figura di questa donna a quella del di-scepolo.

Quello che il Signore chiede ai discepoli, infatti, è sempre qual-cosa che li strappa dal modo naturale di impostare la vita. E ciò che scandalizza. Chiede loro di lasciare i beni della terra, anche se l’uomo ha bisogno delle realtà terrestri per realizzarsi (cf. Mt 19,16-26; Lc 14,25-27); Gesù chiede ancora di rinunciare agli affetti che più profondamente definiscono la personalità di un uomo e di una donna (cf. Mt 19,10-22.29). Il gesto di Maria, portando in scena qualcosa di imprevisto e imprevedibile, provoca perché va oltre i ‘normali’ criteri di valutazione. Ciò che la mentalità di fede è chia-mata a fare è di mettere al centro dell’esistenza l’amore per Gesù. Maria lo ha capito, per questo è discepola, al contrario di Giuda che invoca una pseudo-giustizia, rivelando in tal modo il suo non saper amare.

Con quel suo grandissimo elogio Cristo premia non solo il suo profumo di oggi, ma la sua lunga pazienza di ascoltatrice. Sa che per Maria di Betania la sua passione vicina di soli tre giorni è già avvenuta - in quest’attimo, in questa gaia sala di banchetto – e lui come se già pendesse dalla croce. A fianco dell’austero Simone, di Maria sua madre, anche questa pic-cola donna è profetessa della passione, la prima testimone di Cristo crocifisso. (…)

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Tutti i poveri della terra li vedo affollarsi attorno a questa scena, buttar sul pavimento la loro disperata moneta per riscattare i trecento denari del profumo. “Noi ci saremo sempre. Ma questo che sta per essere tradito, inchiodato nudo sulla collina è dav-vero il più povero, e ce l’avrete solo per poco”. Maria non ha neppure sentito il ringhio di quelle frasi ostili contro di lei. Ha im-balsamato tranquilla il suo Gesù, con la solerzia tutta femminile che le donne dedicano al gioiello del corpo. A suo modo lo ha reso incorruttibile per la risurrezione. E nella risurrezione lei cre-de più di ogni altro. Per questo, se soffre tutta solitaria in quella folla di gente allegra, è pur lei la più segretamente tranquilla; è certa che il suo profumo non andrà perduto.3

Dovunque e a chiunque annunciamo il Vangelo, dovremo ricor-dare sempre quello che fece quella donna di Betania: la sua «opera bella», quella dell’affetto smisurato per il Signore Gesù. Quella donna esegue il gesto dell’accoglienza del Vangelo di Dio: in quel modo che Gesù indica come paradigmatico per il nostro aderire a Lui. Predicando il Vangelo, si dovrà dire sempre di lei e della sua opera bella, così che la conversione della fede si alimenti dell’affetto per Gesù: e in esso coincida, semplice-mente. Stupisce l’estrema parsimonia di Gesù nel consegna-re ai discepoli e a noi il «contenuto» della comunicazione della fede. Questo ci stupisce e ci imbarazza anche perché i processi di comunicazione della fede prevedono la trasmissione di un cumulo sproporzionato di nozioni e formule, dogmi e precetti: senza nemmeno, spesso, che ci si curi di illustrarne il legame con il cuore della fede ecclesiale che è la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua. Dobbiamo domandarci se noi, predicando il Vangelo, ogni volta ricordiamo e raccontiamo quello che quella donna di Betania ha fatto. In una parola, noi raccomandiamo le buone opere quando predichiamo il Vangelo? Trasmettiamo un compendio di dottrine, tanto astruse per la moderna intelligenza dell’uomo quanto irrilevanti per il giocarsi della sua libertà? Op-pure raccontiamo innanzitutto dell’opera bella che quella donna ha compiuto nei confronti di Gesù, l’opera bella che è l’affectus fidei per il Signore, l’affezione della fede, la ricerca affettuosa di lui, la comunione cordiale con lui, il riconoscimento grato e lie-

3 luiGi santucci, «Due vasetti di alabastro», in Volete andarvene anche voi? Una vita di Cristo, Mondadori, Milano 1974, 200-201.

to, della sua Pasqua? Se nell’esercizio della trasmissione della fede, tra lezioni e compendi, dovessimo istruire piccoli e grandi su «tutto» il contenuto della dottrina e dimenticassimo, come fosse irrilevante, il ricordo della donna di Betania, allora sappia-mo che ciò che abbiamo trasmesso non è il Vangelo: che quel «tutto» di dogmi e precetti non è cristiano. Non è il Vangelo: lo dice Lui.4

4 Mario antonelli, «La fede, radice della vita cristiana», Rivista del Clero, 11/2012, 767. L’autore commenta l’unzione di Betania nella versione di Mc 14,3-9.

(Nel nome di Dio il clemente, il misiericordioso)

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MONASTERO NÔTRE DAME DE L’ATLAS

I MONACI DI TIBHIRINE5

Il 23 maggio 1996 il Ministero degli Esteri francese rese noto il comunicato numero 44 del Gruppo Islamico Armato (GIA) tra-smesso in precedenza da una radio del Marocco. Il comunicato ricordava il fallimento delle trattative aperte col governo francese e concludeva dicendo: «Fedeli al nostro impegno, abbiamo ta-

5 Tibhirine, che significa “giardino”, si trova sull’altopiano dell’Atlante, a circa 1000 metri d’altezza ed è una grande terrazza sull’Algeria. La Chiesa di Algeria ha perso diciannove tra religiosi, religiose, sacerdoti uccisi, vale a dire il 10% del totale dei suoi consacrati. Alcune stime parlano di 200.000 morti in quattordici anni, alcune decine di migliaia di torturati, quasi un milione e mezzo di profughi e mezzo milione di persone che ha lasciato il paese. «Algeria: una spirale di violenza che non fa “rumore”», Confronti 12/2004, 9.

gliato la gola ai sette monaci (...) Lode a Dio (...) Ciò è stato ese-guito questa mattina». (21.05) 6

Terminava così tragicamente un dramma iniziato due mesi prima (26/27 marzo) col sequestro di sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, vicino alla città di Lemdiyya (Médéa), ottanta chilometri a sud-ovest di Algeri. Il monastero era sorto nel 1933 quando le auto-rità francesi avevano offerto ai trappisti 150 ettari di terreno monta-gnoso e impervio sulle pendici dell’Atlante, dove passa il confine tra la zona di influenza dell’esercito nazionale e quella dei guerriglieri isla-mici che di Lemdiyya volevano fare la capitale del loro “governo del califfato”. Secondo la tradizione benedittina, il terreno fu bonificato e lavorato fino a produrre grano, verdura, frutta, latte e miele. Quando l’Algeria divenne indipendente, il terreno fu distribuito ai contadini, mentre i monaci tennero per sé solo due ettari di terra, il necessario per difendere un clima di preghiera e di silenzio.

Le prime avvisaglie del pericolo risalgono alla vigilia del Nata-le 1993, quando delle persone armate, i “fratelli delle montagne” (come affettuosamente i monaci chiamavano i terroristi), visitarono il monastero cercando la collaborazione dei religiosi col movimento armato. Questi rifiutarono ed il superiore, padre Christian de Cher-gé, motivò così il loro comportamento con una lettera a Sayah At-tiya, emiro del GIA locale:

Fratello, mi permetta di rivolgermi a lei, da uomo a uomo, da cre-dente a credente (...) Nel conflitto che il paese vive attualmente ci sembra impossibile prendere partito (...) La nostra condizione di

6 Nel precedente comunicato, datato 18.04 e riportato con ampi stralci dal quotidiano Al Hayat (27.04.1996), l’emiro del GIA non riconosceva la protezione concessa dal suo predecessore al monastero: «Tutti sanno che il monaco che si ritira dal mondo per raccogliersi in una cella, presso i nazareni, si chiama eremita. È l’uccisione di questi eremiti che Abu Bakr al-Siddiq aveva proibito. Ma se un tale monaco esce dal suo eremo e si mischia alla gente, la sua uccisione diventa lecita. È il caso di questi monaci prigionieri che non si sono separati dal mondo. Al contrario, vivono tra la gente e la allontanano dal cammino divino, incitandola ad evangelizzarsi (…) È anche lecito applicare a questi monaci ciò che si applica ai non credenti, quando sono prigionieri di guerra, vale a dire la morte, la schiavitù o lo scambio con dei prigionieri musulmani».

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monaci ci lega alla scelta che Dio ha fatto di noi, che è la preghiera e la vita semplice, il lavoro manuale, l’accoglienza e la condivisione con tutti (...) Queste ragioni di vita costituiscono una scelta libera di ciascuno di noi. Ci impegniamo fino alla morte. Non penso che sia volontà di Dio che questa morte ci venga da voi.7

Ogni notizia di allarme rimetteva in questione la permanenza in Al-geria e di fatto la Chiesa algerina lasciò massima libertà ai singoli delle varie congregazioni religiose, chiedendo però che non venis-se meno una “presenza” di Chiesa.8 Nel monastero di Tibhirine la scelta di rimanere, una volta presa dopo consultazione col vescovo di Algeri H. Teissier, fu sempre regolarmente confermata.

È un aiuto il nostro essere costretti a restare piccoli e dipendenti dall’ambiente che ci accoglie, obbligati a condividere la crisi e l’in-sicurezza del momento, senza alcuna influenza sull’evoluzione del paese. Siamo così ricondotti a un significato primario della chia-mata monastica: testimoniare che l’uomo è «straniero e pellegrino» sulla terra … L’invito a riporre la fiducia in Dio solo (tawakkul), così spesso invocato qui, appartiene alla nostra consacrazione. Non potremmo stupirci di abitare «una casa incerta». Viviamo giorno per giorno.9

La nostra chiesa è stata duramente scossa, soprattutto nella no-stra diocesi di Algeri. Ridotta, ferita, fa l’esperienza cruda dello spo-gliamento e della gratuità inscritti nell’evangelo come in ciascuna delle nostre vocazioni alla sequela di Gesù. Vulnerabile, estrema-

7 doM bernardo olivera, «In Algeria fino alla morte», Il regno-documenti, 13/96, 427-430; luciano Monari, «Ascoltare il sangue», in Missione oggi, agosto-settem-bre 1996, 33-34.8 «Si capisce meglio allora l’appello piuttosto sofferto dei nostri vescovi che in novembre ci chiedevano non solo di predisporre per la salvaguardia dei beni e delle vocazioni in caso di partenza forzata, ma anche di prevedere la composi-zione di un piccolo nucleo di persone che potrebbero rimanere per assumere, qualunque cosa succeda, una presenza di chiesa attorno ai suoi pastori. Un modo straziante di dirci: “Volete andarvene anche voi?”». christian de cherGé, «Lettera circolare della comunità (25 aprile 1995)», in coMunità di bose (a cura), Più forti dell’odio. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, Piemme, Casa-le Monferrato 1997, 147.9 «Questionario (1 gennaio 1993)», Più forti dell’odio, 71.

mente fragile, si scopre più libera e più credibile nel suo voto di «amare fino alla fine».10

Durante tutto questo tempo se ne sono viste di “cose”! Come par-larvene? Bisogna anzitutto tacere, a lungo. Ascoltare il clamore delle “cose” non dette, soffocate, represse, deformate … lasciarsi trafiggere. Stare in piedi. Un calvario da condividere. Anche una tavola, preparata per tutti, dove la speranza impara, giorno dopo giorno, a nutrirsi di quelle “cose” che ci succedono, a bere da fra-telli a quella coppa che ci era più facile allontanare che scegliere. 11

Nel riconsiderare la loro scelta, tre motivi si impongono ai monaci, riguardo alla loro permanenza:

- la coscienza di una chiamata interiore: restare in Algeria perché Cristo è in Algeria. «Dio ha tanto amato gli algerini che ha dato loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi».12

- La solidarietà con un popolo: un popolo che non può partire, preso tra l’incudine e il martello di due violenze. L’alleanza con il popolo ostaggio fa parte del voto di stabilità proprio della voca-zione monastica.

- La comunione con una Chiesa, tanto amata, che è algerina e non francese, sempre in strada verso una piena incarnazione.

(Cristo) si frappone come volto filiale e fraterno. Di fronte ai suoi carnefici, vulnerabile com’è all’amore del Padre, è qui il primo nato di una moltitudine di volti, che ci attira nella sua preghiera di inter-cessione, di interposizione e già di azione di grazie. È vero, noi non vediamo, dobbiamo attendere con perseveranza; gemiamo inte-riormente con tutto il cosmo in un’attesa impaziente.13

10 «Nella situazione attuale, come ci ricolleghiamo al carisma del nostro Ordine? (21 novembre 1995)», Più forti dell’odio, 152.11 «Lettera circolare della comunità (14 dicembre 1995)», Più forti dell’odio, 160.12 christian de cherGé, «Riflessioni di frère Christian per la Quaresima» (8 marzo 1996), Più forti dell’odio, 177.13 frère christophe, «O Dio, tu sei la nostra speranza sul volto di tutti i viventi! (Pasqua 1995)», Più forti dell’odio, 143.

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Aggiungono i vescovi algerini:

«La vita cristiana non dipende da noi, è la realizzazione della grazia di Dio. A noi è concesso di obbedire, obbedire alla Parola, obbedire alla preghiera, obbedire alla fraternità, obbedire alla storia».14

Inevitabilmente, il fatto di vivere in contesto musulmano porta a dare alla fede personale delle sfumature importanti.

Nonostante le nostre fragilità, siamo convinti di dover resistere. Pro-prio per questo misuriamo sempre meglio il valore di quelle relazioni che continuano a offrirsi a noi, giorno dopo giorno: relazioni sempli-ci con gente semplice, al di là degli orientamenti politici. L’islam in esse assume un volto capace di arricchire la nostra esperienza di Dio e dell’uomo … Ci sappiamo convocati alla verità di un itinerario spirituale: lasciarci scavare per acquisire la disponibilità di un cuore povero che può offrire solo la sua fedeltà di oggi: lasciarci pervadere dalla benevolenza di Dio per questo popolo che soffre; e lasciarci provocare anche noi, attraverso la prova, a un sovrappiù di umanità, tra noi innanzitutto, per contribuire a esorcizzare la violenza eserci-tando semplicemente il ministero di vivere e di vivere insieme.15

Dobbiamo essere testimoni dell’Emmanuele, cioè del “Dio-con”. C’è una presenza del “Dio tra gli uomini” che proprio noi dobbiamo assumere. È in questa prospettiva che cogliamo la nostra vocazio-ne a essere una presenza fraterna di uomini e donne che condi-vidono la vita di musulmani, di algerini nella preghiera, il silenzio e l’amicizia. Le relazioni chiesa/islam balbettano ancora perché non abbiamo vissuto abbastanza accanto a loro.16

Dopo trent’anni che porto in me l’esistenza dell’islam come una domanda lancinante, ho un’immensa curiosità per il posto che oc-cupa nel disegno misterioso di Dio. Solo la morte, penso, mi darà la risposta attesa. Sono sicuro di decifrarla, abbagliato nella luce

14 vescovi cattolici d’alGeria, Una nuova stagione ecclesiale, 39.15 christian de cherGé, «Lettera circolare della comunità (11 aprile 1995)», Più forti dell’odio, 136.16 christian de cherGé, «Riflessioni di frère Christian per la Quaresima» (8 marzo 1996), Più forti dell’odio, 177.

pasquale di colui che mi si presenta come l’unico “musulmano” possibile, dato che è solo “si” alla volontà del Padre. Ma sono con-vinto che, lasciando che questa domanda mi assilli, imparo a sco-prire meglio le solidarietà e perfino le complicità di oggi, comprese quelle della fede.17

Mi sembra che vivere nella “casa dell’islam” significhi sentire con-cretamente la difficoltà e quindi la maggiore urgenza di quelle novità dell’evangelo che la chiesa ha tratto dal suo tesoro solo recente-mente, diciamo con la svolta del Vaticano II (…) Nel contempo ci si rende perfettamente conto che sarebbe contrario all’evangelo voler compiere questi nuovi passi verso l’altro solo a condizione che lui stesso faccia altrettanto. A volte si sente dire: “Tocca sempre a noi fare il primo passo. Adesso, basta! Si muova lui!” Come se noi fossi-mo debitori, in primo luogo, verso la straordinaria iniziativa presa da colui che «ci ha amati fino alla fine» (Gv 13,1). Dobbiamo sottrarci a qualsiasi costo a questa legge del taglione del “do ut des” che ci abi-ta ancora in mille modi. Andare verso l’altro e andare verso Dio è una cosa sola: non posso farne a meno e richiede la stessa gratuità.18

I nostri rapporti regolari dal 1980 con dei vicini di Médéa impegnati in una confraternita sufi ci aiutano a restare in ascolto delle “note che si accordano”, non senza una costante revisione di ciò che la nostra fede può dire di se stessa per non «spegnere lo Spirito» quando questi la sollecita attraverso l’altro e la sua fede.19

E arriviamo allo stupendo testamento spirituale del priore, frère Christian de Chergé:

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di esse-re vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraniato da questa dipartita brutale. Che pregassero per

17 christian de cherGé, «Oranti in mezzo ad altri oranti » (settembre 1989), Più forti dell’odio, 40-41.18 Ibidem.19 «Questionario (1 gennaio 1993)», Più forti dell’odio, 70.

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me: come potrei essere trovato degno di questa offerta? Che sa-pessero associare questa morte a tante ugualmente violente, la-sciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha prezzo più alto di un’altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Mi piacerebbe, se venisse il momento, di avere quello sprazzo di lucidità che mi permetterebbe di sollecitare il per-dono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse ferito. Non posso auspicare una morte così. Mi sembra importante di-chiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la “grazia del martirio”, doverla a un algerino, chiunque egli sia, so-prattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So bene il disprezzo del quale si è arrivati a bollare gli alge-rini globalmente presi. Conosco bene anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi la coscienza in pace identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un›altra cosa, sono un corpo e un›anima. Ho proclamato abbastanza, credo, davanti a tutti, quel che ne ho ricevuto, ritro-vandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo appreso sulle gi-nocchia di mia madre (tutta la mia prima chiesa), proprio in Algeria e, già allora, con tutto il rispetto per i credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naïf o un idealista: “Ci dica adesso quel che pensa!”. Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta. Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, total-mente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, inve-stiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con le differenze. Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rendo grazie a Dio che sembra averla voluta interamente per quella gioia, no-nostante tutto e contro tutto. In questo Grazie in cui è detto tutto, ormai, della mia vita, comprendo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di questa terra, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, centuplo accordato secondo

la promessa! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio dire questo grazie e questo ad-dio, da te deciso. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se lo vorrà Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah.20

Il tragico epilogo dell’intera vicenda si ebbe ad opera di un gruppo armato che non era della regione e non conosceva personalmente il monastero dell’Atlas. Ecco i nomi dei monaci, così diversi tra di loro:

- Frère Christian de Chergé, priore della comunità, 59 anni, in Algeria dal 1971.

- Frère Luc Dochier, 82 anni, medico, in Algeria dal 1941.- Frère Christophe Lebreton, 42 anni, ex sessantottino, in Algeria

dal 1987.- Frère Bruno Lemarchand, 66 anni, ex dirigente scolastico, in

Algeria e Marocco dal 1990.- Frère Michel Fleury, 52 anni, fresatore, in Algeria dal 1985.- Frère Célestin Ringeard, 62 anni, infermiere ed educatore di

strada, in Algeria dal 1987.- Frère Paul Favre-Miville, 57 anni, idraulico e militare, in Algeria

dal 1989.

Dopo i fatti di Tibhirine, giunse la testimonianza di solidarietà di altri monaci che vivono tuttora nel deserto di Damasco, a Mar Musa, in un contesto musulmano:

Noi di Mar Musa ci vogliamo consacrare all’amore di Dio, in Gesù di Nazareth, per l’islam, per i figli di Agar, gli Ismaeliti benedetti per intercessione di Abramo. Vogliamo essere preghiera per l’islam con sentimenti di amicizia e di considerazione. Il valore di tale impegno non è misurabile col metro del successo diplomatico e precede la pratica stessa del dialogo. Ci siamo quindi sentiti terribilmente in sintonia con i sette martiri trappisti d’Algeria rimasti volontariamen-te nel pericolo e nell’equivoco, testimoni dell’amore della Chiesa che, nonostante le sue scorie storiche, resta fedele alla sua fonte, il cuore ferito del Signore. 21

20 L’Osservatore romano, 1 giugno 1996, 1. 21 paolo dall’oGlio, Lettera agli amici del monastero di Mar Musa, febbraio 1997, 3.

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LA SCALA MISTICA DEL DIALOGO 22

L’ideale spirituale dei trappisti

L’ideale spirituale, che i trappisti di Tibhirine avevano concorde-mente adottato, con il pressante invito del loro priore, e per il quale avevano deciso di restare, nonostante il pericolo, donandosi anti-cipatamente come “offerta gradita a Dio” in terra algerina, si tro-va esaurientemente espresso nella conferenza-testimonianza che frère Christian tenne a Roma 1989. Il testo ha ispirato il titolo di un libro in via di pubblicazione: La scala mistica del dialogo. Il progetto evangelico che i trappisti di Tibhirine cercavano di vivere è un per-corso a tappe, che richiama la scala della visione di Giacobbe, che unisce terra e cielo; i due montanti sono l’islam e il cristianesimo, mentre i vari pioli sarebbero altrettante tappe dell’ascensione – de-gli uni e degli altri – verso il mistero del Dio vivente. Tappe progres-sive fatte di semplici rapporti di vita quotidiana (dialogo del vivere insieme), di collaborazioni amicali nel lavoro e nei servizi sanitari (dialogo del servizio per il bene di tutti), di scambi intellettuali nell’in-segnamento e nella cultura (dialogo delle intelligenze), di ricerche religiose nel campo della fede, di esperienze spirituali nell’avvicina-mento del mistero del Dio vicino e lontano (dialogo dei mistici).

La Scala mistica del dialogo

La Scala mistica del dialogo, proposta da frère Christian a cristiani e musulmani impegnati a “vivere insieme”, descrive in modo allego-rico quella che dovrebbe essere la loro spiritualità del dialogo; una spiritualità che dovrebbe essere come “l’anima di qualsiasi dialogo” che abbia l’intenzione di essere oggi un colloquium salutis (dialo-go di salvezza), una via per tutti, verso la piena realizzazione della propria dignità umana. Frère Christian si rivolgeva sicuramente in primo luogo ai suoi fratelli cristiani, ma le sue parole erano rivolte

22 M. borrMans, «Frére Christian de Chergé e si suoi compagni martiri del dialo-go», Missione Oggi, Giugno-luglio 2016, 45-48.

anche ai musulmani di buona volontà, che avevano scelto un islam interiore. All’inizio il progetto dei trappisti di Tibhirine è stato tra-dotto in un motto: essere «oranti tra gli oranti», visto che cristiani e musulmani sanno per esperienza diretta il valore della preghiera.

Nutrirsi di speranza

Il progetto si articola in tre parti. La prima riguarda la speranza. I partner in dialogo sono invitati a nutrirsi di una speranza teologale. A nulla serve sognare il “mito dell’età dell’oro”, immaginando un passato migliore del presente. Occorre saper affrontare la «prova della modernità» con le sue sfide essenziali e vincere i «demoni dell’integrismo» con le sue reazioni negative, per scegliere «una via mediana» dove gli eccessi sono evitati grazie alla virtù della mode-razione e all’equilibrio degli scambi. Gli uomini e le donne di dialogo sono invitati a entrare in un «oltre, come segno dei tempi», cioè a tenersi in ascolto dei loro contemporanei e, nello stesso tempo, ad anticipare il momento della preparazione dell’unità definitiva so-gnata da Dio stesso; facendo ciò essi diventano i «pellegrini dell’o-rizzonte», dove misteriosamente li attende colui che ricapitola la storia umana. Infatti, alla domanda: “E Gesù Cristo?”, si risponde che tutto è «da lui, per lui e in lui» nella storia della salvezza; per i cristiani, così come per i musulmani, Dio conclude la storia con un giudizio non privo di infinita carità e misericordia.

Progetto condiviso di società

La seconda parte del progetto precisa la missione specifica dei monaci, chiedendo loro di partecipare, con i cristiani e i musulmani d’Algeria, ad un «progetto condiviso di società»; essi devono te-stimoniare che deve essere «una società che tende ad uno svilup-po spirituale». Fedeli «all’appello monastico» e praticando, a loro modo, «l’esodo della lectio divina», si sentono invitati a seguire un «percorso ascendente» e a condurvi i loro contemporanei, men-tre per fare ciò «sono chiamati all’umiltà». Solo realizzando questo approccio spirituale allo sviluppo, che richiede un appello al dialo-go, una lettura continua dei testi sacri, uno sforzo permanente di

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ascesi e di pratica personale dell’umiltà, i cristiani e i musulmani possono sviluppare tra loro una sana e santa «emulazione spiritua-le» e permettere alle loro coscienze, così purificate e preparate, di scoprire «il fascino dello Spirito», lo Spirito di santità che scavalca le distanze e le frontiere, per raggiungere ognuno nel segreto della sua risposta i segni di Dio nella sua vita.

I monaci precursori della piena comunione

La terza parte del progetto si concentra, secondo Christian de Chergé, su quella «comunità di santi nel dolore del parto» della piena comunione, che già conta membri presenti da una par-te e dall’altra, tra i cristiani e tra i musulmani. In tutte le iniziative di dialogo e in tutti i sacrifici realizzati per «stare bene insieme», i monaci, secondo frère Christian, vivono «il mistero e l’urgenza del parto» della riconciliazione. Sono sfide che occorre affrontare per accelerarne la piena realizzazione, secondo il disegno di Dio. Per frère Christian, questo è «il compito dei monaci»: essere dei pre-cursori che annunciano con la loro testimonianza ciò che accadrà un giorno, cioè la piena comunione spirituale, in una diversità che è lo scambio di doni complementari. Inoltre, evocare per tutti la consegna che san Benedetto ha lasciato ai suoi discepoli: «Ora et labora». Gli artefici dialogo sapranno essere degli «oranti tra gli oranti» e dei «lavoratori tra i lavoratori»? Solamente così saranno una «comunità adorante» nella lode al Creatore che fa tutte le cose nuove, perché è Provvidenza attenta ai bisogni di tutti gli uomini, prima di essere Giudice misericordioso, che perdona incessante-mente. Questa è la comunità che crea già, malgrado le differenze, «il legame di pace» degli spiriti e dei cuori, com’era di fatto Tibhiri-ne, dove due volte l’anno si realizzavano incontri tra alcuni cristiani e musulmani.

Una regola di vita e un ideale di dialogo

I cristiani del dialogo, e ugualmente i musulmani, possono trovare nella testimonianza del priore e in quella dei suoi sei confratelli, nel praticare questa scala, una regola di vita e un ideale di dialogo, per-

ché esso presuppone che tutti i partner si conoscano, si rispettino, si stimino e s’incoraggino a vivere meglio ciò che il loro patrimonio spirituale offre sia che si tratti della fede, della speranza e della carità, sia che si tratti della preghiera, dell’elemosina e del digiuno. Non resta che ascoltare le ultime confidenze dei padri Christian, Luc e Michel che hanno il valore di testamento. Christian diceva nel 1989: «Oranti tra gli altri oranti. È così che la nostra piccola comunità monastica, ‘relitto’ cistercense, in un oceano islamico, si definisce nell’Algeria indipendente dal 1975, anche quando sem-brava che avessimo otto giorni per abbandonare i luoghi dove noi siamo ancora». Poi aggiungeva ancora: «Certi grandi valori dell’i-slam sono un innegabile stimolo per il monaco, nella stessa dire-zione della sua vocazione; così è per il dono di sé all’Assoluto di Dio, per la preghiera delle ore, per il digiuno, per la sottomissione alla Sua Parola, per l’elemosina, per l’ospitalità, per la fiducia nella Provvidenza». Infine, come ultimo messaggio, c’è quanto ha scritto a suo cugino Giuseppe, un altro dei sette monaci, frère Michel: «Se ci capiterà qualcosa – e non me lo auguro – vogliamo viverlo qui in solidarietà con tutti questi algerini e algerine che hanno già pagato con la loro vita, semplicemente solidali con tutti questi sconosciuti, innocenti. Continua, Giuseppe, a pregare per noi, per la presenza cristiana qui e per il popolo algerino. È quest’ultimo che soffre di più». I sette monaci di Tibhirine invitano tutti a prendere il testimone di pregare e testimoniare, dialogare e condividere, seguire Cristo e accogliere i fratelli in umanità, perché essi sono anche i loro.

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MIDELTERFOUDOASI DI MERZOUGAsabato 21 ottobre2017

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«È compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze»

(M. Buber, Il cammino dell’uomo)

La Chiesa del Maghreb, Chiesa dell’incontro

La Chiesa del Maghreb è praticamente scomparsa nel XII secolo: la Chiesa di Agostino, Tertulliano, Cipriano, Fulgenzio di Ruspe, Per-petua e Felicita. Di loro e delle loro comunità, a parte gli scritti, ri-mangono pressoché soltanto pietre e colonne, anche se il Vangelo ha continuato ad avere i suoi testimoni in questa regione del mondo e quantunque la Chiesa abbia ritrovato, oggi, una sua modalità di presenza legata per lo più agli stranieri (lavoratori e studenti) e alla promozione umana. L’espansione europea del XIX secolo, però, aveva inaugurato nella zona una nuova forma di Chiesa istituziona-le, maggiormente ricalcata sulle Chiese europee. Si opponevano due mondi culturali e religiosi separati ed evoluti in modo diverso.

Il sapersi Chiesa in contesto di minoranza ha portato i credenti e il loro vescovi a porsi domande essenziali. Ad esempio: quale figura di Chiesa si disegna a partire dal vissuto degli ultimi cinquant’anni? Quale relazione evangelica stabilire con una comunità musulmana? Come pensare la fedeltà pastorale, la fedeltà all’uomo cui Cristo si

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rivolge, nei confronti dei non-cristiani? L’eventuale nuovo volto che presentano le Chiese è dovuto solamente agli avvenimenti o ha un radicamento biblico che le rende portatrici di futuro? Non sono domande da poco, perché obbligano a ridefinire il proprio orizzonte di interpretazione. “Singolarita”, “specificità”, “identità in divenire”…

Le Chiese del Maghreb, ormai libere da tante strutture, si sono trovate ad insistere sullo “stile della prossimità”, recuperando con forza l’idea della Chiesa “sacramento”: la Chiesa rimanda a qual-cos’altro di più grande, di cui è segno e non si domanda certo ad un segno di fare numero, ma di essere segno.23

La nostra vocazione è ormai centrata sull’essenziale. Ora se voglia-mo guardare al futuro è chiaro che il cammino percorso indica la direzione verso cui siamo condotti dalla chiesa stessa. Tutta la no-stra storia ci vede attori in questo “mistero di salvezza delle nazioni” (...) Non finiremo mai di scoprire, intorno a noi, questa azione di Dio e di imparare ad incontrarla.24

La Chiesa d’Algeria, ad esempio, ha aggiunto una sua specifica vocazione: «siamo la Chiesa del popolo algerino», popolo musul-mano certo; una Chiesa in dispersione nella casa algerina dell’i-slam, Chiesa solidale che non offre un semplice servizio cultuale, ma diviene elemento prezioso nella resistenza comune all’impo-sizione di progetti disumani, nell’affermazione del diritto al rispet-to delle differenze, oltre che provocazione vivente al dialogo e alla laicità.25 La sequela di Cristo comporta la serietà del dono di sé, l’atteggiamento di intercessione per il popolo, lo spirito delle beati-tudini e una esistenza disarmata.26

23 teissier h., «L’islam, sfida pastorale», in Prêtres diocesaines, agosto-settem-bre 1997, 336-348.24 teissier h., «Leggere la nostra storia per illuminare presente e futuro», Il re-gno-documenti, 19/95, 633-634. 25 «La chiesa del popolo islamico», intervista di M. E. Gandolfi a mons. H. Teis-sier, arcivescovo di Algeri, Il regno-attualità 16/1997, 493-496. 26 «Vivere le beatitudini in Algeria», Missione oggi/aprile 1997, 33-36.

Padre Christian Chessel, dei Missionari d’Africa, ucciso a Tizi Ou-zou, il 27.12.1994, scriveva:

«La debolezza non è in sé una virtù, ma espressione di una real-tà fondamentale del nostro essere (...) per lasciarci conformare alla debolezza di Cristo, all’umanità di Cristo. La debolezza come scelta diventa uno dei modi migliori per dire la “discreta caritas” di Dio verso gli uomini (...) Essa diventa una spiritualità delle mani vuote, in cui si comprende che tutto, persino le nostre debolezze, può diventare dono e grazia di Dio, manifestazione della potenza del suo amore che solo può convertire la debolezza umana in forza spirituale».27

Ecco perché, in occasione del Giubileo del 2000, l’episcopato del Nord Africa, in un documento importante,28 constatava che la Chiesa, passata per forza di cose ad un servizio più umile, si è alla fine aperta alla realtà dei Paesi, diventando maggiormente solidale. La precarietà subita ha avvicinato al Vangelo ed ha permesso di ri-trovare l’essenziale di una presenza ecclesiale, che si manifesta, ad esempio, nella lealtà, nel rispetto della tradizione altrui, nella con-statazione che ogni persona ha una vocazione comune, quella di una crescita in umanità, la cui ultima tappa sarà l’incontro con Dio.

Senza volerlo, le Chiese si sono trovate su alcune linee di frattu-ra dell’umanità: nord-sud, occidente-oriente, islam-cristianesimo; fatte di cristiani che appartengono al mondo occidentale, ma per scelta legate ai paesi del sud. Su queste fratture, ostinatamente, sono chiamate a diventare “Chiesa dell’incontro”, “Chiese per un popolo” e segni di speranza.

Scrisse Pierre Claverie, vescovo di Orano:

«Abbiamo ragione di credere che possiamo essere di aiuto con la nostra differenza, le nostre relazioni e il nostro lavoro, i nostri servizi e la nostra presenza discreta e rispettosa (...) In più, sembra che oggi la maggioranza della popolazione si sia messa in stato di re-

27 M. e. G., «Debolezza come missione», Il regno-attualità, 8/96, 216-217. Cf nota 10.28 «Le Chiese del Maghreb nell’anno 2000 », documento della Conferenza Episco-pale del Nord Africa (CERNA), 18.11.1999, Il regno-documenti 7/2000, 245-253.

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sistenza e noi resistiamo con essa (...) Noi siamo qui per spezzare questa logica del possesso, del dominio e del ripiegamento su se stessi, sui propri beni o proprietà individuali, etniche e religiose. La nostra storia in Algeria testimonia l›impoverimento a cui queste convinzioni ci hanno condotto e la ricchezza delle semine che così abbiamo effettuato (...) Questo istante segna la nostra volontà di amare gratuitamente (...) La Chiesa realizza la propria vocazione e missione quando è presente alle rotture che crocifiggono l›umanità nella sua carne e nella sua unità (...) Gesù è morto lacerato tra il cielo e la terra (...) Egli si è messo sulle linee di frattura scaturite dal peccato. In Algeria noi siamo su una di queste linee sismiche che attraversano il mondo: nord-sud, occidente-islâm, ricchi-poveri. Stiamo volentieri al nostro posto, perché è qui che si intravvede la luce della risurrezione».29

Secondo quali modalità si può essere “Chiesa dell’incontro?” Il rife-rimento, secondo i vescovi del Nord Africa, è al Vangelo di Luca e al suo modo di intendere i tempi di Gesù:30

- Il tempo di Nazaret è tempo di una spontanea, pura e semplice condivisione della vita degli uomini, che si spinge fino al nascondi-mento, senza alcun risultato apparente. È anche il tempo in cui la rivelazione interpella segretamente la coscienza personale di cia-scuno. È il tempo in cui Gesù, troppo conosciuto, non viene perce-pito nel suo significato reale.

- Il tempo di Nazaret sfocia nel tempo di Galilea, che si svolge so-prattutto attorno a Cafarnao. Gli incontri di Gesù avvengono un po’ a caso nel corso dei suoi spostamenti; provocano reazioni molto diverse, che vanno dalla riconoscenza all’ostilità aperta. Molti appro-fittano della forza vitale che emana da Cristo, ma non ne compren-dono il mistero. Alcuni degli interlocutori riescono ad esprimere la personalità di Gesù, ma non lo fanno con le parole precise della fede, sostituite dalle parole della quotidianità.

29 «La Chiesa rimane», Il regno-documenti, 19/95, 631-632. G.Z., «Vocazione di pace», Il regno-attualità, 16/96, 487. 30 L’evangelista Luca distingue vari tempi legati alla presenza di Gesù: Nazaret, Galilea, Samaria, Gerusalemme, senza dimenticare né “l’oggi del Regno”, né “il tempo dei pagani”. Sono a prima vista tempi cronologici, ma sono soprattutto tempi teologici, poiché ognuno qualifica un modo di presenza diverso dall’altro.

- L’oggi del Regno. Da ogni incontro scaturisce un “oggi del Regno” che si manifesta nella guarigione, nel perdono, nella riconciliazione. Uomini e donne attraversano il Vangelo e, sperimentando un attimo del regno di Dio, hanno scritto una pagina di Vangelo che ha un valore di eternità. Così la dimensione dell’incontro quotidiano con la popolazione musulmana è la presenza del Regno e questo è an-zitutto un dono di Dio, di cui la vita personale e della comunità sono segno, a loro volta. Gli incontri provocano e fanno approfondire la consapevolezza di sé: anche Gesù in fondo, come la Chiesa, ha preso coscienza progressivamente delle tappe della sua missione e ha imparato a conoscersi attraverso lo sguardo altrui.

L’essere della chiesa maghrebina, che esprime la gratuità di Dio ver-so i popoli, si veste, quindi, di piccolezza e precarietà, ma cresce at-traverso “lo sguardo altrui”. E lo sguardo altrui ci porta a constatare, ad esempio, che la diversificazione delle religioni non costituisce una tappa provvisoria della vicenda umana. «Parlare di Dio costa caro», scriveva Gregorio Nazianzeno, perché le parole umane non riescono ad esaurirne il mistero e il volto di Dio si mostra attraverso voci, pa-role e situazioni spesso inedite. Dio è più grande delle parole dette e il suo nome va pronunciato con maggior dignità.

Lo “sguardo altrui” ci sospinge al centro dell’inquietante “mistero della differenza” e ci porta dentro la lacerante insoluta domanda del perché di essa. Saper leggere l’azione di Dio nella tradizione religiosa altrui significa far propria la stessa “ospitalità di Abramo”, allargando lo spazio della tenda di casa propria, senza che questo significhi nascondere o attutire spigoli e conflitti. Chi è vero cerca-tore di Dio non assolutizza l’esperienza personale, ma si mette con pazienza in ascolto di quanto Dio va facendo nella vita altrui.

Per quanto riguarda le vicende della Chiesa attuale e le sue relazio-ni con il mondo, con i credenti di altra fede o i non credenti, il tem-po attuale è una sorta di esodo che ci porta a rimanere nel deserto della fatica e della sperimentazione, senza dimenticare quanto sta avanti. La vicenda religiosa odierna, in definitiva, rende la nostra speranza più umile e più capace di affidarsi solo a Dio.Ecco, in definitiva, che lo “sguardo altrui” ci porta a farci pellegrini della Parola cui apparteniamo, “identità” che camminano.

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OASI DI MERZOUGADESERTOdomenica 22 ottobre2017

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«Cominciare da se stessi, ma non per finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé»

(M. Buber, Il cammino dell’uomo)

«Nel deserto parlerò al suo cuore»

(Osea 2,16-17; 12,10)

«Io la sedurrò, la condurrò nel desertoe parlerò al suo cuore. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza,come quando uscì dal paese d’Egitto».«Io sono il Signore, tuo Dio, fin dal paese d’Egitto.Ti farò ancora abitare sotto le tende,come ai giorni dell’incontro nel deserto».

(Isaia 35)

Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron.Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.

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Dite agli smarriti di cuore:«Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, Egli viene a salvarvi».Allora si apriranno gli occhi dei ciechie si schiuderanno gli orecchi dei sordi.Allora lo zoppo salterà come un cervo,griderà di gioia la lingua del muto,perché scaturiranno acque nel deserto,scorreranno torrenti nella steppa.La terra bruciata diventerà una palude,il suolo riarso sorgenti d’acqua.Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa.Vi cammineranno i redenti.Felicità perenne splenderà sul loro capo;gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto».

In cammino verso la «preghiera» 31

Son venuto nel deserto per pregare, per imparare a pregare. È stato il grande dono che mi ha fatto il Sahara, dono che vorrei trasmette-re a tutti coloro che amo, dono incommensurabile, dono che rias-sume ogni altro dono, il «sine qua non» della vita, il tesoro sepolto nel campo, la perla preziosa scoperta sul mercato.

La preghiera è il sunto del nostro rapporto con Dio. Potremmo dire che noi siamo ciò che preghiamo. Il grado della nostra fede è il gra-do della nostra preghiera; la forza della nostra speranza è la forza della nostra preghiera; il calore della nostra carità è il calore della nostra preghiera. Né più né meno.

La nostra preghiera ha avuto un principio perché noi abbiamo avu-to un principio; ma non avrà fine, e ci accompagnerà nell’eterno, e sarà il respiro della nostra contemplazione estatica di Dio, e il canto

31 carlo carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia 197623, 47-53

della nostra felicità eterna, quando saremo «saziati al torrente delle delizie di Dio».

La storia della nostra vita terreno-celeste sarà la storia della nostra preghiera. È, quindi, e innanzi tutto una storia personale. Come non c’è fiore uguale ad altro fiore, una stella uguale ad un’altra stella, così non c’è uomo uguale ad un altro uomo. Ed essendo la preghiera il rapporto di questo uomo con Dio, tale rapporto è diver-so per ciascun uomo. Non c’è quindi preghiera uguale ad un’altra preghiera.

È una parola che varia sempre, fosse anche ripetuta all’infinito con le stesse sillabe e con lo stesso tono di voce. Ciò che varia è lo spi-rito del Signore che l’anima; e questo non si ripete mai, è sempre nuovo. S. Bernardetta Soubirous, che non sapeva dire se non «Ave Maria»; o il mistico che non può più ripetere se non un monosillabo «Dio», hanno la preghiera più varia e personale che immaginar si possa; perché, sotto il velo di quell’unica parola, passa solo e tutto lo spirito di Gesù che è lo spirito del Padre.

Per capire bene la preghiera, è necessario capire che si parla con Dio. Ci sono quindi due poli: l’uno piccolo piccolo, debole debole: la mia anima; uno immenso e onnipotente: Dio! Ma qui sta la prima grandezza e la prima sorpresa: che Lui, così grande, abbia voluto parlare con me, così piccolo; Lui, Creatore, con me creatura. Non sono stato io che ho voluto la preghiera: è Lui che l’ha voluta. Non sono stato io che l’ho cercato: è stato Lui che mi ha cercato per primo. Vano sarebbe stato il mio cercare Lui se prima di tutti i tem-pi non fosse stato Lui a cercare me. La speranza su cui poggia la mia preghiera sta nel fatto che è Lui che vuole la mia preghiera. E se vado all’appuntamento è perché Lui c’è già ad attendermi. Se Lui fosse rimasto nel suo silenzio e nel suo isolamento, io non avrei potuto rompere il mio. Con Dio, è tutta la vita che parlo; e non ho che incominciato!

C’è un’altra cosa che va detta parlando della preghiera: non viene dalla terra, ma dal Cielo. Il grido che mi gonfia il petto e che mi fa esclamare: «Dio, ti amo»; lo sforzo che fa ripetere a Faraggì, il mu-sulmano cieco, quando cammina sulla pista vicino a me: «Com’è

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grande Iddio!»; il pianto di Davide: «Miserere»; l’esaltazione di Ma-ria: «Magnificat»; la lacrima che spunta sul ciglio di chi si confessa: «Gesù, perdonami»; l’improvviso arrestarsi estatico dello scienziato dinanzi alle meraviglie dell’universo, sono opere dello Spirito Santo.

È lo Spirito del Signore che riempie il mondo e che ci fa gridare: «Padre!»; che immette in noi la corrente della preghiera. A noi il compito di prestare leste le labbra e riconoscente il cuore al pas-saggio della corrente divina; e di ripetere, ripetere ciò che lo Spirito di Gesù ci ha suggerito e ci dà la forza di dire. È certo che possia-mo resisterGli - come per l’amore; possiamo dire di no, possiamo disperdere nel pozzo nero della nostra anima la corrente che pas-sa, possiamo chiudere le labbra, possiamo tacere. Ed è ciò che facciamo il più delle volte; perché, se fossimo solleciti al richiamo, saremmo in continua preghiera.

Per essere precisi, dobbiamo aggiungere che c’è anche una pre-ghiera diremo «nostra», cioè nata sulla terra, nel cuore dell’uomo. Ma questa preghiera non è gran cosa: sovente è un po’ di pette-golezzo spirituale; un domandare cose che non servono al nostro vero bene e che ci farebbero del male se ci fossero concesse; un riempire la bocca di parole pie per paura della solitudine o del dolo-re, da cui Gesù ci aveva già tenuto in guardia. «Quando pregate... non fate come i pagani... ».

Quante volte ci siamo ritrovati con la bocca piena di preghiera «non ispirata», lontani dallo spirito di Dio! Quante volte ci siamo rifugiati in essa proprio per sfuggire allo spirito di Dio, alla Sua Volontà! Siamo andati a recitare il breviario, mentre il nostro dovere era di ricevere qualche povero noioso; abbiamo detto il rosario mentre andavamo ad un appuntamento pericoloso per la nostra anima; abbiamo acceso una candela per diventare ricchi; abbiamo pie-gato la nostra testa in adorazione mentre il nostro cuore era pieno d’amore impuro.

Questa preghiera non viene dal Cielo, ma dalla terra e sulla terra rimane, ricca solo della sua inutilità e del suo inganno. Di essa il Profeta dirà: «Metterò le nubi per fermarla» (Lam 3,43). Ma credo che non ci sia nemmeno bisogno delle nubi, perché essa non si

alza di un palmo, al disopra della nostra cieca cocciutaggine. Sì, cieca cocciutaggine che può durare anni, decenni; che crea in noi un’ambiguità farisaica, che ci vede all’altare di giorno e con l’a-mante di notte, ricchi di danaro e col rosario in mano, ripiegati sul nostro egoismo e con la mente piena di belle idee per riformare la Chiesa.

Non ci son lacrime a sufficienza per piangere questi nostri misfatti, questa nostra falsa testimonianza a Gesù, Verità e Amore, questo velare la potenza folgorante del Vangelo sotto la cortina fumosa d’una religiosità che non cerca e non compie la volontà di Dio.

Perché qui sta il punto: la vera preghiera comincia quando si cerca la volontà di Dio. In fondo, le cose sono semplici, estremamente semplici: basta ascoltare ciò che ci ha detto Gesù, basta prendere il Vangelo e mettere in pratica ciò che Egli ci ha detto. Insomma: si tratta di volontà, non di parole. L’ispirazione divina cerca in noi la buona volontà. Lo spirito di Gesù si posa là dove la volontà lo de-sidera, perché è l’Amore; e per fare l’amore bisogna essere in due. Quando io mi chino al suo Amore, Egli non tarda a venire; anzi, è già venuto, perché mi ama ben di più di quanto io, povera creatura, possa amare Lui.

«Lascia tutto e vieni con me nel deserto. Non voglio più la tua azio-ne, voglio la tua preghiera, il tuo amore».

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Nel deserto Dio e l’umanità si fidanzarono

Dice Dio: «Io ricordo di te la tua simpatica giovinezza, l’amore del tuo fidanzamento, il tuo venire dietro a me per il deserto, per una terra non seminata» (Ger 2,2). Lo smarrimento, la paura, l’incertez-za sono, in fondo, ingredienti che la solitudine del deserto elabora come prova d’amore: per Dio e per l’uomo il deserto diventa la casa da abitare in una libertà condivisa. «Trovò grazia nel deserto la massa degli scampati dalla spada ... Israele se ne va verso il suo riposo ... D’amore perpetuo ti ho ama-ta, perciò ti ho condotta con amore» (Ger 2,3).

Salmo 107 (106): Abbraccio di fedeltà divina e gratitudine umanaInno di ringraziamento

1 Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre.2 Lo dicano quelli che il Signore ha riscattato,che ha riscattato dalla mano dell’oppressore3 e ha radunato da terre diverse, dall’oriente e dall’occidente, dal settentrione e dal mezzogiorno.

4 Alcuni vagavano nel deserto su strade perdute,senza trovare una città in cui abitare.5 Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita.6 Nell’angustia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angosce.7 Li guidò per una strada sicura,perché andassero verso una città in cui abitare.8 Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a fa-vore degli uomini,9 perché ha saziato un animo assetato, un animo affamato ha ricol-mato di bene.

10 Altri abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte,prigionieri della miseria e dei ferri,11 perché si erano ribellati alle parole di Dio e avevano disprezzato il progetto dell’Altissimo.

PAROLE DAL DESERTO

Dio, il deserto dell’uomo

L’immensità, la solitudine, l’assenza di vita, lo smarrimento, la pau-ra ... sono parole e, insieme, immagini che il deserto evoca den-tro di noi al solo pensarci. Esso è «grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida e senz’acqua» (Dt 8,15), «una steppa piena di urla selvagge» (Dt 32,10). Il deserto è tremen-do, luogo desolato eppure talvolta splendido, che divide nazioni, modi di essere, culture. La terra di nessuno dove si è stranieri.

Che cos’è un uomo nel deserto? Un niente vestito di infinito e di infinita solitudine. Un suo grido di aiuto non troverebbe risposta e si perderebbe dietro il vento delle dune. Anche Dio a volte è come un deserto per l’uomo: è silenzio che non dà risposta, è presen-za nascosta che non offre compagnia. Gesù ne seppe qualcosa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Dio è immensità che stordisce e costringe a curvarsi su se stessi, fino ad incontrare la miseria personale ed il proprio niente.

L’uomo, il deserto di Dio

L’uomo è stato pensato come fosse un giardino. Dio se ne com-piacque: «Vide che tutto quello che aveva fatto era davvero molto buono» (Gn 1,31). Isaia, con una immagine felicissima, paragona l’u-manità, che Dio ama come suo popolo, ad una vigna. Le premure verso di essa non si contano: «L’aveva vangata e ripulita dai sassi, vi aveva piantato viti scelte ... sperava che facesse bei grappoli. Ma essa produsse solo uva selvatica» (Is 5,2).

Quando l’uomo resiste a Dio è già un deserto in espansione. Il cuore ridotto a «terra arida e senz’acqua», diventa un «ritrovo per animali selvatici in cui cresceranno soltanto rovi e spine» (Is 5,5.6). “O popolo mio - il grido di Dio - che male ti ho fatto? Rispondimi”. Ma l’uomo, come il deserto, risponde con il silenzio.

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12 Egli umiliò il loro cuore con le fatiche: cadevano e nessuno li aiutava.13 Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro an-gosce.14 Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte e spezzò le loro catene.15 Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini,16 perché ha infranto le porte di bronzo e ha spezzato le sbarre di ferro.

17 Altri, stolti per la loro condotta ribelle, soffrivano per le loro colpe;18 rifiutavano ogni sorta di cibo e già toccavano le soglie della morte.19 Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro an-gosce.20 Mandò la sua parola, li fece guarire e li salvò dalla fossa.21 Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini.22 Offrano a lui sacrifici di ringraziamento, narrino le sue opere con canti di gioia.

23 Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque,24 videro le opere del Signore e le sue meraviglie nel mare profondo.25 Egli parlò e scatenò un vento burrascoso, che fece alzare le onde:26 salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;si sentivano venir meno nel pericolo.27 Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi: tutta la loro abilità era svanita.28 Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li fece uscire dalle loro angosce.29 La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare.30 Al vedere la bonaccia essi gioirono, ed egli li condusse al porto sospirato.31 Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini.32 Lo esaltino nell’assemblea del popolo, lo lodino nell’adunanza degli anziani.

33 Cambiò i fiumi in deserto, in luoghi aridi le fonti d’acqua34 e la terra fertile in palude, per la malvagità dei suoi abitanti.35 Poi cambiò il deserto in distese d›acqua e la terra arida in sor-genti d’acqua.36 Là fece abitare gli affamati, ed essi fondarono una città in cui abitare.37 Seminarono campi e piantarono vigne, che produssero frutti ab-bondanti.38 Li benedisse e si moltiplicarono, e non lasciò diminuire il loro bestiame.39 Poi diminuirono e furono abbattuti dall’oppressione, dal male e dal dolore.40 Colui che getta il disprezzo sui potenti li fece vagare nel vuoto, senza strade.41 Ma risollevò il povero dalla miseria e moltiplicò le sue famiglie come greggi.42 Vedano i giusti e ne gioiscano, e ogni malvagio chiuda la bocca.43 Chi è saggio osservi queste cose e comprenderà l’amore del Signore.

Commento di G. Ravasi

Tentiamo di tracciare lo spartito della composizione, cioè la strut-tura del salmo. Una solenne ouverture liturgica (vv. 1-3) introduce in uno splendido inno di ringraziamento articolato in quattro ex-voto (4-32) e in un coro finale sulla storia della salvezza (vv. 33-43). I quattro quadri che raffigurano alternate “grazie ricevute” sono costruiti se-condo lo stesso stampo: descrizione della situazione, invocazione a Dio durante il pericolo, intervento miracoloso divino, ringrazia-mento corale, a cui si associa l’assemblea liturgica.

Il primo ex-voto è di un viaggiatore (vv. 4-9) che con una carovana si era avventurato nelle rischiose piste del deserto. Affamato, asse-tato, sfinito, era stato indirizzato da Dio sulla strada giusta, verso una città abitata.

Il secondo ex-voto è proclamato da un prigioniero (vv. 10-16). Nell’o-scurità del carcere egli è accasciato sotto il peso dei ceppi. Dalla

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bocca gli esce un grido di aiuto al Signore ed ecco le sbarre infran-gersi, spezzarsi le catene, spalancarsi le porte.

Il terzo ex-voto è di un malato (vv. 17-22). La sofferenza fisica, nella prospettiva antico-testamentaria della retribuzione, è una conse-guenza del peccato. Al grido del pentimento la parola di Dio perso-nificata guarisce e consola, facendo allontanare dai piedi dell’oran-te la soglia della fossa e della morte.

L’ultimo ex-voto, quello di un marinaio, è il più originale e il più raffinato nel suo cesello (vv. 23-32): uno studioso ha ipotizzato che si tratti di un antico canto dei marinai fenici salvati da Baal duran-te una tempesta. Infatti Israele, avendo una costa pianeggiante e rettilinea, non è mai stato un popolo di navigatori, come invece lo erano i fenici. Può darsi, però, che quest’esperienza rara di uno dei figli d’Israele sia stata dipinta con particolare intensità, più o meno come avviene nelle mirabolanti imprese marine di Giona. La tem-pesta è stupendamente sceneggiata attraverso i riflessi di terrore psico-fisico che crea nei membri dell’equipaggio e nei passeggeri della nave. Essi, infatti, secondo la visione cosmologica orientale, sono sospesi sul baratro del caos e degli inferi. Ma, al grido di sup-plica, Dio subentra come guida verso la pace del porto.

A questo punto i quattro “grazie” si fondono in un inno corale (vv. 33-43) che, evocando il primo esodo dall’Egitto e il secondo da Babilo-nia (vv. 40-42), applica idealmente il Salmo di ringraziamento a tutto Israele pellegrino nel deserto, prigioniero nelle varie oppressioni, sofferente per i suoi peccati, sconvolto dalle bufere della storia. Il versetto conclusivo, il 43, steso nello stile sapienziale, è un invito a saper cogliere nelle tormentate vicende umane la costante fedeltà di Dio che mai delude: «Chi è saggio osservi queste cose e com-prenderà la bontà del Signore». Il sapiente è colui che sa perforare la superficie della storia, con le sue striature di assurdo, per coglie-re gli atti di fedeltà che Dio compie in profondità. Le tempeste, le malattie, le schiavitù, gli errori della vita (prima sezione del carme) e della storia (seconda sezione) in realtà vengono da Dio inquadrate in un progetto che ha come prima e ultima parola hesed, cioè amo-re. L’alfabeto disperso dell’essere e del tempo è ricomposto da Dio in una parola sensata, quella della salvezza. In questa prospettiva

noi siamo invitati a vivere la nostra esistenza personale e la sto-ria “ecclesiale” come un’esperienza amara e realistica, ma anche esaltante e piena di speranza. Non per nulla le parole dominanti del nostro salmo sono due, l’una divina, hesed, l’altra umana, todah, amore di Dio e amore dell’uomo, fedeltà e gratitudine in un unico abbraccio.

Concludiamo con una considerazione spirituale a margine del testo e del suo significato originario. Sant’Agostino nel suo commento a questo Salmo pensa che le quattro prove descritte dall’inno siano altrettante tappe di un itinerario spirituale. La prima è il disorienta-mento che si sperimenta quando si è alla ricerca della verità. In quel momento oscuro l’uomo «grida a Dio ed è condotto alla via della fede; da lì continua il suo cammino verso la città della pace». La seconda tappa consiste nella prova aspra dell’incapacità a mettere in pratica ciò che si è appreso procedendo speditamente nella via della salvezza: «L’uomo si sente legato alla propria concupiscenza; coi piedi nei ceppi non riesce a camminare, urta contro un muro di impossibilità e, con le porte sprangate, non trova uscita per vivere onestamente». La terza prova è nell’inappetenza o nausea per la parola di Dio, una «non leggera tentazione», come dice Agostino. Curiosamente, poi, l’ultima e più ardua tentazione viene riservata dal vescovo di Ippona ai timonieri della nave della Chiesa, cioè ai pastori che «quanto più hanno onori, tanto più hanno pericoli». Al di là della pertinenza esegetica, questa lettura allegorica agostiniana può trasformare il Salmo 107 in un esame di coscienza per ogni orante e soprattutto per i pastori della Chiesa.

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DESERTO OASI DI MERZOUGA lunedì 23 ottobre2017

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«Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio».

(Antoine de Saint-Exupery)

Che tu sia lodato

Come è bello renderti grazie in quest’ora, unico vero Dio, Cre-atore, Signore e Padre di tutti gli uomini. Che tu sia lodato, tu, tre volte santo, per tutti coloro che, nel mondo, ti cercano nelle tenebre o nella luce, nel dolore o nella gioia, nel dubbio o nella certezza. Sì, che tu sia lodato, altissimo e onnipotente, per tutti coloro che, nel mondo, ti implorano come l’Unico, il Clemente, il Misericordioso. Che tu sia lodato, Signore della gloria, per tutti coloro che, nel mondo, ti cantano, ti benedicono e ti glorificano, in ogni momento e in modi diversi. Che tu sia lodato, Dio che sei vicino a tutti coloro che ti invocano nella verità, per tutti i credenti dei tempi passati e del tempo presente, uomini e donne di ogni paese e religione che hanno dato e ancora danno un senso al cammino degli uomini. Che tu sia lodato, Signore buono e gran-de: poiché questi uomini in marcia vanno verso di te e, in ognuno di essi, tu apprezzi il meglio per attirarlo a te. Che tu sia lodato ancora, Signore pieno di tenerezza, che per primo ci hai rivelato

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il tuo profondo amore per mezzo di Gesù, nostro fratello. Te can-tano gli angeli e tutti coloro che ci hanno preceduti, poiché è te che cercano tutti gli uomini giusti, anche se non sempre lo sanno. Con tutti coloro che conoscono finalmente il tuo volto di pace, di gioia e di luce, con tutti coloro che si inchinano davanti all’Agnello e che, insieme a tutti i beati, danzano di gioia intorno al tuo altare, Dio grande, noi ti acclamiamo, noi ti lodiamo; Signore, noi ti ac-clamiamo, con l’immenso corteo di tutti i santi, con i santi di tutti i tempi, nostri fratelli maggiori, che tu continuamente ricolmi dei doni del tuo amore.

(Gwenolé Jeusset)

Il nome di Dio

Dio è la più compromessa di tutte le parole umane. Nessuna pa-rola è stata così imbrattata, così lacerata. E proprio per questo io non posso rinunciarvi. Le generazioni degli uomini hanno scaricato su questa parola tutto il peso della loro vita angosciata e l’hanno calpestata; essa giace nella polvere e porta il peso di tutti loro. Le generazioni degli uomini con le loro divisioni religiose hanno lace-rato questa parola (...) Ma quando svanisce ogni illusione e ogni inganno, quando si pongono di fronte a lui nell’oscurità più solitaria e non dicono più “egli, egli”, ma sospirano “tu, tu”, quando gridano “tu”, allora non invocano forse tutti l’Unico e quando poi aggiungo-no “Dio”, non è forse il vero Dio che tutti invocano, l’Unico vivente, il Dio dei figli degli uomini? Non è forse lui che li ascolta? Lui che li esaudisce? E non è forse così che viene santificata in tutte le lingue degli uomini, per tutti i tempi, la parola “Dio”, la parola dell’invoca-zione, la parola diventata nome?

(Martin buber)

Il mistero dell’Avvento 32

Ciò che vale per i popoli pagani vale in certo senso per l’umanità in-tera. I popoli pagani non sono i soli a trovarsi nell’Avvento: la Chie-sa stessa è nell’attesa di una pienezza che ancora non possiede, giacché il Cristo, vivente e vivificante in essa, le è immanente in una maniera segreta, oscura, misteriosa. Il regno suo non manifesta ancora pienamente la regalità di Lui e la dignità di Capo del Corpo Mistico. Sotto questo aspetto, noi siamo dunque nel tempo che precede la vera Chiesa, che precede la Gerusalemme celeste del-la quale la Chiesa attuale è semplice prefigurazione. Tra noi pure, accanto a una presenza di Gesù, vi è una assenza di Gesù stesso. Il grande spazio nel quale noi siamo attualmente, è tuttora un’at-tesa e un Avvento, è tuttora la preparazione della Gerusalemme celeste e della Chiesa definitiva. Noi siamo ancora tra le ombre. I sacramenti sono ombre; la gerarchia visibile è figura del banchetto celeste: il Battesimo figura della purificazione definitiva che ci per-metterà di entrare nella gloria del Padre.

Il comune desiderio 33

O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni,pietra angolare che riunisci i popoli in uno,vieni e salva l’uomo che hai formato dalla terra.

Il Salvatore viene per coloro che credono e per coloro che dicono di credere in lui. Gli uni e gli altri – a volte questi più di quelli – lavo-rano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. Egli è quindi l’oggetto di un comune desiderio. Se uno rimane con lo spirito di parte, se non è con tutti, non per dar ragione a tutti, ma per amare tutti, non può essere la pietra angolare che riunisce in sé i discepoli. Cristo nasce «fuori della casa» e muore «fuori della città», per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, perché nessuno è fuori

32 Jean danièlou, Morcelliana, Brescia 1953, 126-127.33 priMo Mazzolari, Il Natale, La Locusta, Vicenza, 19746, 13-14.

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del suo amore, che non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti. Il Signore, sapendo che siamo «fatti di terra», non si stupisce di vederci far mucchio l’un contro l’altro, pro-prio per ragioni di «terra», come in genere sono i motivi che ancor oggi tengono diviso il mondo. Cristo non ha bisogno di «passare ai barbari», perché egli è di qua e di là, è il Salvatore degli orientali e degli occidentali: a differenza di molti suoi discepoli, che si stanno costruendo delle garitte col legno della croce …

Lievito e senapa 34

Qualche giorno fa, ad un ritiro che abbiamo fatto ad Iskenderun (vicino Antiochia), leggevamo che Gesù prima di lavare i piedi agli apostoli «depose le vesti». C’è tanto da togliersi di dosso! È un’o-perazione lunga, complessa, dolorosa e lenta, anche se semplice; prima di lavare i piedi agli altri bisogna spogliarsi di quello che uno si porta dietro e a cui è abituato e indossare un abito nuovo: il grembiule del servo. Solo dopo si possono lavare i piedi. Qualche tempo prima, il Vangelo del giorno paragonava il regno di Dio al più piccolo dei semi (il granello di senapa) e al lievito che la donna depone nella pasta: qui, insieme alla famiglia fiorentina che è con me, siamo ancora più piccoli del più piccolo dei semi, ma l’importante è stare dentro la terra, con amore, con rispetto, scio-gliendosi e diventando un tutt’uno con essa nel silenzio, disposti a morire e a fiorire quando Dio vuole, sentendo che quella terra è stata amata, lavorata da Dio, visitata e vangata in mille modi. Il lievito poi mi ha fatto tanto pensare alle mani di una donna, Maria, che impasta lentamente e amorevolmente: è Lei che per incarico di Gesù, da vera madre, prende il lievito e lo nasconde nella pasta degli uomini, di tutti gli uomini, di ogni uomo. Cerco di stare nelle mani di Maria e nel cuore di questa terra. Ricevo esempi di bontà e di generosità in ogni momento: perché grande è la ricchezza di questa pasta e profonda la fecondità di questa terra. Non voler es-sere più di un po’ di lievito e più di un minuscolo granello di senapa;

34 andrea santoro, Lettere dalla Turchia, Città Nuova, Roma 2006.

ma neanche di meno, naturalmente!”

Voglio vivere per Cristo 35

Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: “No, io voglio servire Gesù da uomo comune”. Questa de-vozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ulti-mo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: “Vieni con me, prendi la tua cro-ce e seguimi”. I passi che più amo della Bibbia recitano: “Ho avuto

35 shahbaz bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008. Bhatti, ministro pakistano per le minoranze, è stato ucciso in un agguato il 2 marzo 2011 a Islamabad.

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fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vesti-to, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

I 99 «bei nomi di Dio» della tradizione islamica

Tu sei Dio / Tu sei il Clemente / Tu sei il Misericordioso / Tu sei il Re / Tu sei il Santo / Tu sei la Pace / Tu sei il Fedele / Tu sei il Custode / Tu sei il Prezioso / Dio ascoltaci, Dio abbi pietà di noi / Tu sei il Potente / Tu sei il Fiero / Tu sei il Creatore / Tu sei il Plasmatore / Tu sei colui che modella / Tu sei colui che perdona / Tu sei il vincitore / Tu sei il Munifico / Tu sei colui che elargisce / Tu sei colui che apre / Tu sei il Sapiente / Tu sei colui che contrae / Tu sei colui che espande / Tu sei colui che diminuisce / Tu sei colui che eleva / Tu sei colui che dà la potenza / Tu sei colui che umilia, colui che tutto ascolta / Tu sei colui che tutto osserva / Tu sei il Giudice / Tu sei il Giusto / Tu sei il Sottile, l’Amabile / Tu sei il ben Informato / Tu sei il Paziente / Tu sei l’Immenso, il Sublime / Tu sei colui che perdona / Tu sei il Riconoscente / Tu sei l’Altissimo / Tu sei il Grande / Tu sei il Custode / Tu sei colui che vigila / Dio ascoltaci, Dio abbi pietà di noi / Tu sei colui che chiede il conto / Tu sei il Maestoso / Tu sei il Generoso / Tu sei colui che veglia / Tu sei colui che risponde / Tu sei il Largo (nel dare) / Tu sei il Saggio / Tu sei l’Amorevole / Tu sei il Glorioso / Tu sei colui che resuscita / Tu sei il Testimone / Tu sei il Vero, la Verità / Tu sei il Garante, colui che protegge / Tu sei il Forte / Tu sei l’Irremovibile / Tu sei il Patrono / Tu sei il Degno di lode / Tu sei colui che tiene il conto (di tutte le cose) / Tu sei colui che palesa / Tu sei colui al quale tutto ritorna / Tu sei colui che dà la vita / Tu sei colui che dà la morte / Tu sei il Vivente / Tu sei colui che sussiste da Se stesso e per il Quale tutto sussiste / Tu sei colui che trova tutto ciò che vuole / Tu sei il Glorioso / Tu sei l’Uno / Tu sei l’Unico / Tu sei l’Assoluto, l’Eterno, l’Impenetrabile, colui verso il Quale tendono tutte le creature / Tu sei il Potente / Tu sei l’Onnipotente / Tu sei colui che fa avanzare / Tu sei colui che fa ritardare / Tu sei il Primo /

Tu sei l’Ultimo / Tu sei il Manifesto / Tu sei il Nascosto / Tu sei l’Alle-ato, il Protettore / Tu sei colui che è cosciente di essere l’Altissimo / Tu sei il Caritatevole / Tu sei colui che accoglie il pentimento / Tu sei il Vendicatore / Tu sei colui che cancella (le conseguenza dei peccati) / Tu sei il Dolcissimo / Tu sei il Padrone del Reame / Tu sei colui che è colmo di Maestà e di Magnificenza / Tu sei colui che giudica alla bilancia / Tu sei colui che riunisce / Tu sei il Ricco, colui che abbonda in ogni cosa / Tu sei colui che procura l’abbondanza / Tu sei colui che impedisce / Tu sei colui che nuoce / Tu sei colui che procura guadagno / Tu sei la Luce / Tu sei colui che guida / Tu sei colui che crea perfettamente (ogni cosa) / Tu sei l’Eterno / Tu sei colui che è l’Erede di tutto / Tu sei il ben Guidato (da se stesso) e che guida sulla retta via / Tu sei il Paziente.

Lodi di Dio Altissimo (Francesco di Assisi)

Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei l’Altissimo. Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre San-to, Re dei cielo e della terra.Tu sei trino e uno, Signore Iddio degli dei. Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero. Tu sei amore carità. Tu sei sapien-za. Tu sei umiltà. Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la pace. Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza. Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra ricchezza. Tu sei bellezza. Tu sei mitezza. Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il difensore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei rifugio. Tu sei la nostra speranza. Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore.

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«Cerca la pace nel tuo luogo. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata»

(M. buber, Il cammino dell’uomo)

La rosa dell’imam 36

Marius Garau, prete di origine sarda, ma nato in Tunisia e Si Alì Mehrez, imam della grande moschea di Gafsa: sono questi i per-sonaggi sui quali ci soffermiamo prendendo lo spunto dal piccolo testo cui è stato affidato il loro vibrante incontro spirituale, avvenuto nel sud della Tunisia.37 Marius, nato in terra musulmana, si trovò subito immerso in un contesto pluralista con la specificità della pro-pria fede, già a partire dalla frequentazione delle scuole elementari; Si Alì, invece, «tanto modesto quanto profondo», nel 1961 fu scelto a diventare imam a Gafsa fino al giorno della sua morte (avvenuta il 25 maggio 1978) per la competenza teologica, la rettitudine morale e il rispetto di cui era circondato. Per entrambi la frequentazione reciproca portò a constatare che «non è solamente alla tolleranza

36 Giuliano zatti, Al Hiwâr, 1/2008.37 Marius Garau, La rosa dell’imam. L’incontro spirituale fra un cristiano e un mu-sulmano, EMI, Bologna 1997. I numeri indicati nel testo si rifanno alle pagine citate.

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che noi siamo invitati, ma a riconoscere nell’altro i tratti di un fratello in umanità, un fratello amato da Dio, avviato ad un destino meravi-glioso nella gioia di Dio che non conosce declino» (17). Nonostan-te le intense parole che percorrono il testo e nonostante l’intimo e continuo scambio nella fede, la relazione tra il prete cattolico e l’imam tunisino non fu caratterizzata da nessuna forma di facile sincretismo, ma da una «una lunghezza d’onda, che è senza dub-bio quella dello Spirito di Dio, in cui le differenze oggettive, senza essere minimizzate, cedono il posto all’amore che Dio diffonde nei nostri cuori (Rm 5,5)» (23).

La loro amicizia fraterna, definita «una delle grazie più preziose» della vita (19) e che conduceva, giorno dopo giorno, a trasformarsi l’uno nell’altro (cf 25), portò a scrivere che «fare la conoscenza di qualcuno comporta sempre qualcosa di misterioso. Si possono scambiare parole che non avranno mai un seguito; ma può an-che essere il preludio di una bella sinfonia, quella dell’amicizia e dell’amore» (19). «Durante gli anni abbiamo condiviso ciò che ci stava maggiormente a cuore: cose della vita o che erano oggetto dei nostri sermoni alla comunità musulmana o alla comunità cri-stiana. Ci sentivamo entrambi investiti di una missione analoga che ci sovrastava e ci animava: testimoniare il Dio Vivente e la sua passione per l’uomo» (20). «Nelle sue parole scoprivo la gioia del servitore della Parola che presta la sua voce a Dio per la gioia di tutto il popolo» (42). E Si Alì aggiungeva che: «il prete e l’imam debbono avere amore per la verità, per la giustizia e il coraggio di proclamarle» (38).

Si Alì - il cui cuore fremeva non di timore, ma di emozione e di gioia - era di fede umile e radicato nella preghiera. Per quanto convinto della propria fede, non chiudeva alcuna porta, convinto che nes-suna formula possa esaurire la ricchezza di Dio, tanto da sentirlo parlare con profondo rispetto e anche con tenerezza di Gesù e del Vangelo. Sosteneva: «Dio è il ricco per eccellenza, non ha bisogno di ciò che si può donargli, ma noi, invece, abbiamo bisogno di lui e abbiamo bisogno gli uni degli altri» (34). «Se tu vuoi essere mu-sulmano, sei libero; se io voglio essere cristiano, sono libero; ma persuàdimi, convincimi con la dolcezza, con l’esempio» (22). «Dio solo è perfetto; noi invece impariamo ogni giorno qualcosa di nuo-

vo» (31). E Marius commenta: «Certi incontri con lui furono come un passaggio di Dio, come se egli aprisse per me una pagina di Vangelo» (24).

L’esperienza di Marius e Si Alì appartiene a quell’ambito di storie quotidiane che in certe parti del mondo riescono a trasformare nel vissuto più bello quanto la Chiesa oggi afferma relativamente al dia-logo e all’annuncio, rispondendo alle domande che inevitabilmente si pongono al cuore credente, ogni volta ci sia bisogno di motiva-re l’agire della Chiesa in contesti interreligiosi:38 cosa significa dire Cristo in altri mondi religiosi? cosa si può condividere della pro-pria esperienza religiosa? quali modalità prende l’annuncio evan-gelico, oltre alla proclamazione esplicita del messaggio di Gesù? Ogni tentativo di relazione tra credenti di fede diversa ripropone, dal punto di vista cristiano, lo stile di Dio rivelato in Gesù di Nazaret, manifestatosi, nel suo interno e nel suo operare verso l’umanità, come capace di movimento, di relazione, di fecondità e di dono. La Chiesa si trova ad avere, quindi, una insopprimibile e irrinunciabile vocazione al dialogo, ma se è vero che il dialogo non è in primo luogo un confronto di sistemi, una negoziazione di contenuti o una contrattazione di valori, quanto piuttosto un incontro di credenti che mettono in gioco la loro personale esperienza di fede; e se è vero che il dialogo non è primariamente luogo per “le conversioni”, ma luogo per “la conversione” a Dio, ci possiamo accorgere di quanto lavoro interiore questo comporti. È significativo notare, tra l’altro, che tra le indicazioni fornite dal magistero attuale si ricordi la forma del dialogo definito “spirituale” che comporta lo scambio della propria interiorità e l’ascolto dell’esperienza religiosa altrui. Proprio come nel caso dei nostri protagonisti.

Per questo motivo Marius si chiede: «È possibile vivere questa doppia fedeltà alla Chiesa e al mondo tunisino musulmano di cui sono ospite?» (53). «Questi differenti aspetti si vivono a volte con una certa tensione, ma l’armonia si forma lentamente nel cuore di

38 Mi riferisco in particolare al documento Dialogo e annuncio, del 1991, propo-sto dal pontificio consiGlio per il dialoGo interreliGioso e dalla conGreGazione per l’evanGelizzazione dei popoli.

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chi li vive. Il paradosso si risolve nell’amore di Cristo che unisce e semplifica tutte le cose» (55). La Chiesa «ha il diritto di inviare un prete ai non cristiani per se stessi, senza altra giustificazione che l’amore gratuito, in piena solidarietà con essi nella loro marcia verso la promozione totale dell’uomo, promozione che comporta, è chiaro, l’apertura a Dio (…) Per me, ciò che conta perché la vita di un prete sia valida e utile alla Chiesa è una certa densità di presenza all’uomo in un preciso luogo, una certa capacità di incarnazione là dove si vive il proprio impegno con serietà e com-petenza, in un costante clima di comunione e di adattamento interiore (…) La “cattolicità” passa per l’ascesi di un adattamento totale a un’unica situazione» (58). Come motivo ispiratore della riflessione di padre Garau torna l’idea dell’incarnazione, perché questa, a imitazione di Cristo, valorizza tutto quanto abbia il sa-pore dell’umano e «porta a vivere nel provvisorio dandogli una certa consistenza» (89). E se ci sono giorni dove il grigiore dei ge-sti è a lungo pazientemente ripetuto, «si realizza forse un aspetto di quell’infanzia spirituale che Daniélou definisce magnificamente “L’infinito del desiderio nella totale impotenza» (59). «Si rinuncia apparentemente a qualche cosa, ed ecco che questo ci viene concesso in sovrappiù, in fiduciosa amicizia, in rinuncia (islam), in totale disponibilità alla volontà di Dio su ciascuno di noi, al fine di vivere oggi nella grazia» (56). «Ma è necessario un lungo accompa-gnamento e il senso dell’attesa. Non ci viene chiesto di precedere l’ora dello Spirito, ma di prepararla in noi e in tutti gli uomini» (81). «Vivere il provvisorio è lasciare allo Spirito Santo il tempo di fare le saldature necessarie fra i tempi della grazia, nella Chiesa locale» (87) «Per darci pienamente, non aspettiamo che le situazioni siano chiare e stabili (…) C’è una grande forza di verità nel provvisorio perché è “l’oggi di Dio”» (89). «La mia cattedrale è fatta di “pietre viventi” (1 Pt 2,5). È immensa e splendida e ci si trovano tutti i tipi di marmi preziosi venati di dedizione, abnegazione, fedeltà, ospitali-tà, abbandono, purezza» (73). «Poco importa che ciascuna pietra dell’edificio porti o no l’etichetta cristiana; l’essenziale è che siano pietre viventi, in vista della “dedicazione”: in questo mondo, se piace a Dio; o della dedicazione finale, al momento della parusia, in ogni caso» (95). «È appassionante essere esploratori della gra-zia divina in questi campi appena esplorati» (61).

Emerge con forza dalle parole di Marius anche il significato di un’e-sistenza silenziosa sentita come intercessione e mediazione a fa-vore di altri: «Nei momenti di crisi vediamo sorgere nella Bibbia uomini e donne che fanno da intermediari per un popolo, una tribù, una città. Certi si elevano in tutta la loro statura di giganti in un este-nuante faccia a faccia con Dio. Così Abramo (Gn 18,23-33), Mosè (Sal 105,23), Ester (Est 4). C’è un momento in cui lo Spirito ha talmen-te arato il cuore di certe creature che sono colte da un’immensa pietà per tutti gli uomini, che hanno voglia di benedire, perdonare, assolvere» (94). «Lo Spirito suscita per tutto il popolo vocazioni di amanti appassionati e di intercessori, che prendono sulle loro spal-le il popolo, diventando prezzo di riscatto per i loro fratelli. Perché il “mistero della croce non può essere svuotato” (1 Cor 1,17 e Gal 5,11)» (77). Ad un osservatore attento, allenato all’attuale teologia cristiana delle religioni, balzano con evidenza alcuni riferimenti pre-cisi che padre Marius sembra tenere in conto, come l’affermazione conciliare della Gaudium et Spes, che al numero 22 recita: «Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamen-te una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale». Commoventi, a questo proposi-to, sono le pagine finali del libro (117-126), dove i giorni di un triduo pasquale coincidono con i giorni di una reale esperienza vissuta da Marius nell’oasi di El Guettar, quando il pane dell’Eucarestia, il venerdì della passione e il sabato della risurrezione si confusero con la morte drammatica dell’amico Béchir, preceduta e seguita da gesti di grande intensità umana e spirituale, «segno della Pasqua in ogni luogo» (125).

L’esperienza di cui stiamo raccontando ha permesso ai protagonisti un maturo riconoscimento reciproco, per cui Si Alì poté affermare dell’amico: «Io so perché tu e le sorelle siete venuti a Gafsa: volete manifestare l’amore di Dio vivendo secondo il Vangelo» (24), mentre Marius si rese conto di quanto «il canto interiore di Si Alì fosse tutto intonato alla lode» (26), riconoscendo in lui l’uomo generoso, non violento, ospitale, cantore della creazione ed educatore alla fede. L’affermazione del primo: «Dio faccia che ogni nostra giornata sia festa! Ogni giorno può essere festa se Dio è con noi» (41), è dal secondo trasformata in auspicio: «Possiamo noi, cristiani e musul-

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mani, vivere la nostra fede nel Dio Unico non come una crociata nei confronti di chiunque, ma come una festa, come un pane della festa che si vorrebbe condividere nella gioia!» (45)

A proposito: il titolo del libro rimanda ad una rosa bianca presentata a Marius dalla figlia di Si Alì, la diciassettenne Najjia, mentre il padre spiegava: «Questa rosa donala al nostro amico, perché ha un gran-de valore, è più bella del diamante, vale più di un cumulo d’oro … è il segno della nostra amicizia spirituale, poiché la carne, la materia non sono niente, è lo spirito che conta e che vivifica tutte le cose» (23). Comprendiamo allora anche le parole di Marius, che bene si prestano a concludere queste righe: «Lode a te, Signore, che mi hai fatto incontrare questo figlio di Abramo al margine del deserto» (26).

A proposito del dialogo interreligioso

Per il cristiano entrare in dialogo con qualcuno di religione diversa non è solo un’espressione della virtù cristiana della carità o dell’amore del prossimo, ma anche una viva espressione di speranza. Ai nostri giorni il Dio dell’amore chiama la Chiesa a prendere la strada del dialogo, come parte della sua missione di lavorare per una maggiore comunio-ne degli esseri umani fra loro e con Dio. Astenersi persino da un tenta-tivo di dialogo è disperare del potere di Dio e del suo Figlio risorto di far progredire il suo regno di pace e amore. Nel dialogo ci aspettiamo di scoprire che Dio è già ovunque e che Cristo ci ha preceduti con i “semi del Verbo”. Caratteristico della visione “sacramentale” cattolica della realtà è il fatto di vedere tutti gli avvenimenti e tutte le situazioni in cui ci troviamo come “portatrici di Dio”, portatrici del dono e della chiamata di Dio. I vecchi scrittori spirituali parlavano della natura “sacramentale” dell’esperienza presente, del “sacramento del momento presente”, perché ogni momento, luminoso o oscuro, ed ogni persona sono un veicolo e un invito dell’amore di Dio. Siamo veramente “su un luogo santo”, sia esso accidentato o levigato39.

39 conferenza dei vescovi cattolici d’inGhilterra e Galles, «Incontrare Dio nell’amico e nello straniero. Promuovere il rispetto e la comprensione reciproca fra le religioni», il Regno-documenti, 11/2010, 358-384.

Lo spazio del dialogo non è uno spazio aggiunto, ma è uno spazio vitale nel quale vive lo stesso annuncio del Vangelo. E l’annuncio non può essere collocato che in mezzo alla storia degli uomini, a quella storia degli uomini che cammina verso il Regno di Dio. Allo-ra lo spazio del dialogo come capacità dello scambio, del dare e del ricevere, del dire e dell’ascoltare, è lo spazio vitale dell’annun-cio evangelico. Quando la comunità cristiana si forma, la Chiesa si sente massimamente responsabile verso tutto quello che si può definire il mondo in senso rigoroso e stretto, cioè la realtà umana che non è entrata nella Chiesa e che non ha accolto il Vangelo. Allora il dialogo, a questo punto, consiste nello scambio di valori, nel desiderio di una reciproca influenza, sulla base della fede nello Spirito, che avvolge il mondo ed anima tutta la storia. Il dialogo è un’esigenza teologica, un’esigenza della fede, non è un’esigenza dell’opportunità storica. Nasce anche dal bisogno di essere giudi-cati dagli uomini: per non appiattirsi, per non identificarsi presun-tuosamente con il suo Signore, la Chiesa ha bisogno di sottoporsi al giudizio degli uomini. In nome dell’assolutezza del messaggio che noi portiamo e della grandezza del Signore che annunciamo, noi non possiamo lavarci le mani dai giudizi della storia. Sul piano della storia, dei fatti constatabili, il mondo ha diritto di dare il giu-dizio e la Chiesa ne ha estremo bisogno, proprio perché la sua azione non può volare sopra le teste della gente in nome dei valori soprannaturali che essa conduce, correndo così il rischio di giustifi-care, di divinizzare tutto ciò che essa fa e quindi di perdere la fonte del dinamismo più vivace che la grazia le dona e che è continua conversione40.

40 s. dianich, «Vangelo e dialogo», in pontificia unione Missionaria, Missione come dialogo tra le Chiese e tra la culture, Roma 1987, 83-86. Supplemento al n. 1 (gennaio 1987) di Popoli e missione.

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«Dio abita dove lo si lascia entrare»

(M. Buber, Il cammino dell’uomo)

Il tempo di Nazaret 41

Charles de Foucauld era un nobile visconte. Nelle sue vene correva sangue altero e abituato al comando. Innamoratosi di Cristo con la forza di un S. Francesco, ne ricercò nel Vangelo la personalità, il carattere, la vita. È raro trovare un uomo più passionatamente impegnato a scoprire i dettagli della vita di Gesù per imitarne l’at-teggiamento, i gesti, le intenzioni recondite.

Ebbene: in questa ricerca amorosa, fatta per trovare materia di imitazione fedele e vivente, Charles de Foucauld si stupisce soprat-tutto di una cosa: Gesù è un povero e un operaio.

Nessuno può contraddire questo fatto. Il Figlio di Dio, che libera-mente poteva scegliere - ciò che non capita a nessun altro, - scelse non solo una madre e un popolo, ma una situazione sociale, e volle essere un salariato. Bisogna dire che questa parola «manovale», «operaio», «salariato», ha un suono ben diverso nelle orecchie di un nobile da quello che può avere nelle mie. Per Charles de Foucauld, scegliere la situazione sociale di un operaio, significa l’abiezione, l’annientamento di se stesso.

41 carlo carretto, Lettere dal deserto, 109-115.

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Ed è appunto questa posizione volontaria di Gesù di perdersi in un borgo anonimo del Medio Oriente, di annientarsi nella monoto-nia quotidiana di trent’anni di lavoro rude e misero, di scomparire dalla società «che conta», per morire in un anonimato totale, che maggiormente sconvolge il nobile convertito. Perché Gesù non fu scriba? Perché non volle nascere in una di quelle famiglie destinate al comando, alle responsabilità, all’influenza sociale e politica? Ed eccolo alla ricerca appassionata delle intenzioni che guidarono il Maestro divino nella scelta della sua vita, di tutta la sua vita. E non tarderà ad uscire in quella esclamazione che resterà, in fondo, la guida ascetica della vita del grande esploratore del Marocco e del mistico Sahariano: «Gesù ha talmente cercato l’ultimo posto, che ben difficilmente qualcuno potrà strapparglielo».

Nazaret era l’ultimo posto: il posto dei poveri, degli anonimi, di co-loro che non contano, della massa degli operai, degli uomini piegati alle dure esigenze della fatica per un po’ di pane. Ma c’è di più. Gesù è il «Santo di Dio». Ebbene, il «Santo di Dio» realizza la sua santità con una vita non straordinaria, ma tutta impregnata di cose ordinarie, di lavoro, di vita familiare e sociale, con attività umane oscure, semplici, possibili a tutti gli uomini.

La perfezione di Dio è colata su una materia che gli uomini quasi disprezzano, che in ogni caso non ricercano per la sua semplici-tà, per la «mancanza di interesse», perché è comune ai più. Una volta scoperta la realtà spirituale di Nazaret, Charles de Foucauld ne cercherà l’imitazione, la più fedele possibile. Cercherà di avere un convento piccolo come la casa di Nazaret, cercherà di perder-si, annientarsi nel silenzio di un borgo sconosciuto, imiterà Gesù lavorando manualmente, e vorrà i suoi piccoli fratelli alla ricerca sempre dell’ultimo posto, là dove ci sono i poveri, là dove il clima è più rude, il salario più piccolo, la fatica più grande. Nazaret vorrà dire tutto questo; ma non solo.

L’imitazione di Nazaret non è piccola cosa. Quando penso che una porta, un muro può dividere una famiglia santa come quella di Gesù da quella di un vicino che, pur vivendo con lo stesso ritmo, la stessa fatica, la stessa giornata, ne è agli antipodi come tristezza, odio, impurità, cupidigia, e a volte disperazione, mi convinco della

immensa ricchezza interiore portata dal messaggio evangelico. Le stesse azioni, compiute sotto la luce di Dio, trasformano radical-mente la vita d’un uomo, d’una famiglia, d’una società.

Gioia o tristezza, guerra o pace, amore o odio, purezza o adulterio, carità o cupidigia sono tremende realtà che fanno il loro spartiac-que sul crinale dell’interiorità dell’uomo. Vivere le cose comuni, i rapporti con gli uomini, il lavoro quotidiano, l’amore dei nostri in un determinato modo può generare santi; in un determinato altro modo, può generare demoni.

Gesù a Nazaret ci ha insegnato a vivere da santi tutte le ore del giorno. Tutte le ore del giorno sono valide e capaci di contenere l’ispirazione divina, la volontà del Padre, la contemplazione della preghiera: la santità, insomma. Tutte le ore del giorno sono sante; basta viverle come Gesù ci ha insegnato a viverle. E per questo non è nemmeno indispensabile chiudersi in un convento o stabilire alla nostra vita orari strani e qualche volta disumani. Basta accet-tare la realtà che viene dalla vita. Il lavoro è una di queste realtà; la maternità, l’educazione dei figli, la famiglia con tutti i suoi impegni è un’altra di queste realtà. Queste realtà devono essere santificate; e non dobbiamo pensare che si è santi solo perché abbiamo fatto dei voti.

Questa strana mentalità di considerare come sola materia di vita spirituale le ore di lettura o di preghiera e di non tenere in nessun conto le ore di lavoro e di rapporti sociali, quindi le ore più numero-se, 42 è motivo di gravi deformazioni e di vere storture. Tutto l’uomo deve essere trasformato dal messaggio evangelico; non c’è azione in lui che possa essere indifferente; tutto contribuisce a santificarlo o a dannarlo. Nazaret è la vita d’un uomo, d’una famiglia in tutta

42 «Fratel Charles avvertì la sterilità della brama di ricchezza e di potere; con l’a-postolato della bontà si fece tutto a tutti; lui, attratto dalla vita eremitica, capì che non si cresce nell’amore di Dio evitando la servitù delle relazioni umane. Perché è amando gli altri che si impara ad amare Dio; è curvandosi sul prossimo che ci si eleva a Dio». Omelia di Papa Francesco per la Veglia di preghiera per il Sinodo sulla famiglia, Piazza San Pietro, 3 ottobre 2015

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l’ampiezza dell’attività umana; è la maniera di vivere per trent’anni, quindi per il più lungo tempo a disposizione per realtà umane desti-nate a passare nel crogiolo della fede, della speranza e della carità.

Pochi hanno così bene riassunto la santità delle cose comuni come Gandhi nei suoi scritti. Ecco che cosa dice il grande mistico india-no: «Se quando s’immerge la mano nel catino dell’acqua, se quan-do si attizza il fuoco con il soffietto, se quando si allineano intermi-nabili colonne di numeri al proprio tavolo di contabile, se quando, scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia, se quando si è in piedi davanti alla fornace del fonditore, non si realizza la stessa vita religiosa proprio come se si fosse in preghiera in un monastero, il mondo non sarà mai salvo».

Ma c’è ancora un aspetto di Nazaret che vorrei tratteggiare so-prattutto per coloro che pensano che non sia possibile portare il messaggio evangelico senza strumenti, senza mezzi, senza denari. Gesù era Lui il portatore del messaggio; ed era ancora Lui l’in-telligenza somma, capace di escogitare il modo migliore per farsi capire e per realizzare il piano divino. Ebbene; che cosa fece? Non aprì ospedali, non fondò orfanotrofi: si incarnò in un popolo e visse con lui per primo il messaggio nella sua interezza: «coepit facere», incominciò a fare.

Questo far precedere alla parola l’esempio, questo presentare il «tipo» prima di spiegarlo agli uditori, è stato il modo dii procedere di Gesù, che troppo facilmente dimentichiamo. In molti casi la cate-chesi è ridotta a «parole» più che a un «fatto», a conferenze più che a preoccupazione di santità personale. E qui forse sta il motivo de-gli scarsi risultati, e più ancora di tanta tristezza e noia dei cristiani. Non c’è efficacia perché non c’è vita: non c’è vita perché non c’è esempio; non c’è esempio perché parole vuote han preso il posto della fede e della carità. «Voglio gridare il Vangelo con la vita» ripe-teva sovente Charles de Foucauld; e si convinse che il più efficace metodo di apostolato era il vivere da cristiano.

Nazaret è, prima dell’azione, il lungo tempo della preparazione, del-la preghiera, del sacrificio; il tempo del silenzio, della vita intima con Dio; il tempo della lunga solitudine, della purificazione, della cono-

scenza degli uomini, dell’esercizio del nascondimento: di ciò che conta, insomma, per dirsi cristiano. Da Nazaret uscirà l’apostolo.

«Lo chiamano Nazareno e il Vangelo torna a persuadermi. Anche i trent’anni in quell’oscura borgata sono una promessa mantenuta ai profeti, un connotato di più per riconoscerlo.

Questo nome sonoro come un cembalo il Padre lo mormorava da secoli nelle sue confidenze all’orecchio di Elia e di Daniele: e prima che il mondo fosse, Nazaret era già edificata là nel gran bianco degli angeli perché lui potesse chiamarsi Nazareno.Nazareno è il nome dell’incarnazione paziente e opaca, come Cri-sto è il nome dell’incarnazione eroica e folgorante. Egli ha voluto essere uomo nelle ore trionfali e tormentose, nello sventolio delle palme, nei singhiozzi dell’orto, fra gli urli del crucifige; ma più a lungo ha voluto abitare nelle ore comuni, per esserci compagno anche nella mediocrità dei giorni feriali; perché si sappia che ogni momento solitario e insignificante, in ogni occupazione grama e svogliata, nei ripostigli del nostro tempo più grigio è passato anche lui, ha amato il coltello e la lucerna, la seggiola e la mosca, l’esta-te e l’inverno. Allora, quando nella stanza raccolgo a sera la mia stanchezza fra le centomila stanchezze della città, non lo chiamo Cristo, lo chiamo Nazareno: che vuol dire Dio d’una città qualun-que, di un’ora qualunque, di queste mani che hanno lavorato un altro giorno».43

43 «Nazareno e Cristo», in Volete andarvene anche voi? Una vita di Cristo, Mon-dadori, Milano 1979, 69-70.

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«Crediamo che la grazia di Dio consiste nel suo volersi lasciarsi conquistare dall’uomo, in questo suo consegnarsi, per così dire, a lui.Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo». (M. Buber, Il cammino dell’uomo)

Gesù è ciò che accade quando Dio parla nel cuore di un uomo44

Negli scritti di frère Christian, il priore di Tibhirine, rapito e poi ucciso assieme a sei suoi confratelli nella primavera del 1996, c’è un tema che ritorna a più riprese e che ci offre una chiave di lettura prezio-sissima per cogliere quanto il messaggio di quella piccola comunità trappista presente al cuore dell’islam algerino possa ancora oggi costituire una memoria evangelica per tutta la Chiesa, anche quella inserita, come in Europa, in contesti sociali ormai postcristiani.

Questo tema è l’episodio della Visitazione di Maria a Elisabetta. Così frère Christian scriveva nel 1977: «In questi ultimi tempi mi sono convinto che l’episodio della Visitazione è il vero luogo teolo-

44 enzo bianchi, «La visitazione: modello di missione dall’Algeria a tutto l’islam», Avvenire, 03.02.2013, 15.

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gico scritturistico della missione nel rispetto dell’altro che lo Spirito ha già investito. Mi piace una frase di un autore che riassume molto bene tutto questo: ‘Gesù è ciò che accade quando Dio parla senza ostacoli nel cuore di un uomo’. In altri termini, quando Dio è libero di parlare e di agire senza ostacoli nella rettitudine di un uomo, quest’uomo parla e agisce come Gesù».

Emerge qui lo stile di una ‘missione’ che rispetta l’altro riconoscen-dolo come già illuminato, investito dallo Spirito e, come tale, capa-ce di riconoscere i segni della presenza di Cristo in chi si fa pros-simo per offrirgli – come prescrive la regola di Benedetto – omnis humanitas, ogni gesto possibile di solidarietà umana. Anni dopo, in occasione della professione semplice di un suo confratello, l’omelia di frère Christian propone un’interpretazione originalissima del sì di Maria cui fa immediatamente seguito la ‘salita’ verso la cugina Eli-sabetta, gravida del Battista. «Ecco Maria, professa semplice per-ché il suo si è recentissimo, si lancia sulla strada verso la montagna per fare il noviziato della sua maternità universale. Maria votata a portare Cristo in sé, fuori da casa sua, come ciascuno di noi, e a servire umilmente affinché lo Spirito faccia trasalire il Figlio di Dio ancora in gestazione nell’altro». È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare quello che lo Spirito ha già posto nell’altro.

Più tardi ancora, frère Christian dirà: «Il mistero che viviamo in Alge-ria è proprio quello dell’ospitalità reciproca più completa. Lo Spirito santo è sempre con chi prende Maria con sé. È bene che la Chiesa metta questo mistero della Visitazione sempre più al cuore della fretta che porta verso l’altro, cioè verso ogni essere umano». La fretta che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, l’aver cura dell’altro al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a sopperire a quel bisogno. Il cristiano conosce sì la ‘fretta escatologica’ per il ritorno del Signore, ma questa è anche fretta che l’altro abbia la possibilità di incontrare il Signore attraverso il farsi prossimo a lui da parte dei discepoli del Signore. È allora che la Chiesa scopre la propria missione, come dice padre Claude Rault, vescovo del Sahara: «La missione, sot-to l’azione dello Spirito santo è la confluenza di due grazie: l’una concessa all’inviato, l’altra al chiamato». Mi sembra questo uno

dei lasciti più preziosi della testimonianza fino alla morte offerta dai fratelli di Tibhirine: una memoria evangelica perché la Chiesa intera non dimentichi che anche quando compie tanta strada, in salita, di corsa, come Maria verso Elisabetta, al suo arrivo troverà lo Spirito santo già presente, troverà l’altro verso il quale si china già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.

Davanti a Dio siamo sempre mendicanti 45

Davanti a Dio, restiamo nella posizione di mendicante. I suoi doni sono perfettamente gratuiti. Nessuno sforzo e nessun lavoro esi-gono una retribuzione da parte sua a titolo di giustizia. Dio non ci deve niente. Il mendicante di Dio si abbandona a questo arbitrio divino da cui dipende interamente. Il cristiano assumerà l’atteg-giamento dell’uomo che, «avendo coscienza della sua impotenza a soddisfare le sue aspirazioni verso il regno di Dio», resta in cerca di Dio in tutti gli incontri. La vita cristiana non è la posta in gioco di una prestazione ben eseguita. Dipende dall’iniziativa divina. Il men-dicante di Dio non avrà mai la sensazione di essere arrivato. Instan-cabilmente, avanza in cerca di Dio. Quindi accetterà senza ribellio-ne i suoi fallimenti spirituali o altri insuccessi. Senza amarezza né classificazioni dei suoi fallimenti, lo scoraggiamento lo attanaglierà difficilmente. Capisce che la vita spirituale non è appropriarsi delle virtù, ma aprirsi all’arricchimento divino. Nessun metodo, nessuna tecnica e nessuna arte ci portano Dio, se non accettiamo di anda-re a lui, mendicandolo, e di meritare la beatitudine di «coloro che hanno un’anima da povero».

La salvezza ci viene dagli altri che sono per noi la presenza di Dio che chiama alla vita. Se la fede salva è perché essa svia il nostro sguardo verso un altro, dunque crea una relazione che ci strappa alla nostra solitudine mortale. Ogni volta che lasciamo la preoc-cupazione per noi stessi sostituendola con la preoccupazione per

45 I testi sono tratti dal volume Fratel Luc. Monaco e medico di Tibhirine, Gribaudi 2015.

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un altro, viviamo questa fede che è, forse a nostra insaputa, fede in Dio: «Perdere la propria vita per Cristo». Ricevendo la vita dagli altri, ritroviamo la nostra verità originaria: non ci siamo dati la nostra vita, volerla risparmiare ci mette in contraddizione con la nostra creazione. Se si vuole essere felici, si va diritti verso la delusione, verso l’infelicità. «Se vuoi essere felice, rendi felice qualcuno!» Lo scambio da parte nostra è solamente il dono. Il ritorno del dono non dipende da noi ed è qui che si gioca la fede, il salto nel vuoto. Non si tratta di credere che l’altro ci restituirà qualcosa, che avremo una ricompensa, sarebbe voler salvare la propria vita. Se l’altro non risponde, non ha nessuna importanza, è nell’atto stesso di donare che noi troviamo «la vita». Perdere la propria vita: Cristo non esiste per se stesso ed è per questo che noi troviamo la nostra salvezza esistendo per lui; cioè per i suoi fratelli che sono anche i nostri.

Rallegriamoci di essere peccatori, ma peccatori perpetuamente perdonati, perpetuamente issati al di là del nostro peccato. Ciò che scopriamo nelle nostre confessioni valide è che sbagliamo peccato. La nostra vera colpa non erano questi atti insipidi che ci erano serviti come passatempo. Bisognava pure che ingannas-simo la nostra fame. La nostra vera colpa era non avere creduto veramente all’esistenza di qualcuno che fosse capace di placare per sempre questa fame, non avere osato credere in un amore che ci dispensasse da tutte queste contraffazioni.

Il monaco non è uno che converte, è un testimone davanti a Dio in nome del mondo di cui egli è come la decima offerta in olocausto al Dio sovrano, testimone davanti agli uomini del primato dei doveri verso Dio, della ricerca di Dio e della vita in lui dentro di sé. La sua testimonianza è efficace, ma di questa efficacia egli non si preoc-cupa, non la cerca. Non testimonia, è testimone per il fatto stesso che egli è ciò che è. Il mondo è ciò che le grandi anime ne fanno, quelle che, in fondo a sé, hanno raggiunto Dio. È realizzando la pace in sé che si realizza la pace nel mondo. È dentro di sé che si vincono le potenze delle tenebre che percorrono in lungo e in largo il mondo e lo dominano.

Dio ci accompagna ovunque andiamo, anche nel nostro vagare, per farci trovare la via d’uscita. Dio non è contro di noi, ma con noi. Dio mescolato a noi per condurci alla nostra verità (Spirito e Verbo) e al nostro compimento. Lo Spirito è colui che ci conduce alla no-stra forma definitiva. L’essenziale non è avere successo secondo i criteri della terra, ma diventare un uomo vero, un uomo che soffre, ma pieno di gioia, creatore di gioia. Non ho avuto granché nella vita, ma sono felice. Ho avuto la rivelazione della Misericordia di Dio e dell’amicizia degli uomini.

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«Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino,il sempre nuovo inizio del cammino umano»

(M. Buber, Il cammino dell’uomo)

Dio è il primo testimone del nostro incontro 46

È verso Dio che si rivolge il mio pensiero e che si eleva il mio cuore: è di Dio stesso che desidero innanzitutto parlarvi; di Lui, perché è in Lui che noi crediamo, voi musulmani e noi cattolici, e parlarvi anche dei valori umani che hanno in Dio il loro fondamento, questi valori che riguardano lo sviluppo delle nostre persone, come pure quello delle nostre famiglie e delle nostre società, nonché quello della co-munità internazionale. Il mistero di Dio non è la realtà più alta dalla quale dipende il senso stesso che l’uomo dà alla sua vita? (…)lo credo che Dio c’inviti, oggi, a cambiare le nostre vecchie abitudi-ni. Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio (…) in ciò vi è un mistero sul quale Dio ci illuminerà un giorno, ne sono certo (…)Vorrei ringraziare Dio che ha permesso questo incontro. Siamo tutti sotto il suo sguardo. Oggi egli è il primo testimone del nostro in-

46 Incontro di Giovanni Paolo II con i giovani musulmani di Casablanca, 19 ago-sto 1985.

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contro. È lui che pone nei nostri cuori i sentimenti di misericordia e di comprensione, di perdono e di riconciliazione, di servizio e di col-laborazione. I credenti, che noi siamo, non devono riprodurre nella loro vita e nella loro società gli eminenti titoli che le nostre tradizioni religiose gli riconoscono? Cerchiamo dunque di essere disponibili a lui, di essere sottomessi alla sua volontà, agli inviti che ci rivolge. Così le nostre vite ritroveranno un nuovo dinamismo. O Dio, tu sei nostro creatore. Tu sei buono e la tua misericordia è senza limiti. A te la lode di ogni creatura. O Dio, tu hai dato, a noi uo-mini, una legge interiore di cui dobbiamo vivere. Fare la tua volontà, è compiere il nostro dovere. Seguire le tue vie è conoscere la pace dell’anima. A te offriamo la nostra obbedienza. Guidaci in tutte le ini-ziative che intraprendiamo sulla terra. Liberaci dalle tendenze cattive che distolgono il nostro cuore dalla tua volontà. Non permettere che, invocando il tuo nome, giustifichiamo i disordini umani. O Dio, tu sei l’unico. A te va la nostra adorazione. Non permettere che ci allonta-niamo da te. O Dio, giudice di tutti gli uomini, aiutaci a far parte dei tuoi eletti nell’ultimo giorno. O Dio, autore della giustizia e della pace, accordaci la vera gioia e l’autentico amore, nonché una fraternità duratura tra i popoli. Colmaci dei tuoi doni per sempre. Amen!

Il ruolo delle donne nel dialogo interculturale e interreligioso

Appello per la sedicesima Giornata ecumenica del Dialogo Cristiano-Islamico

(27 ottobre 2017)

Le stragi compiute in questi ultimi anni in diverse città europee, hanno incrementato la paura e la diffidenza nei confronti dei musul-mani, in gran parte di origine straniera. Sommando l’islam all’im-migrazione, i partiti e i movimenti ultranazionalisti e xenofobi sono riusciti ad incrementare il proprio consenso popolare, focalizzando la loro propaganda politica sulla presunta minaccia che incombe-rebbe sull’identità culturale e religiosa dell’Europa, rappresentata come “bianca” e “giudaico-cristiana”.

La realtà è che il vecchio continente oggi ha un tessuto sociale irreversibilmente multietnico, multiculturale e multireligioso, come

dimostra chiaramente la presenza di cittadini europei di origine straniera all’interno delle istituzioni statali di molti stati europei e a tutti i livelli dei vari organismi istituzionali, dal livello comunale ai parlamenti nazionali e allo stesso parlamento europeo. Questa pre-senza costruttiva nella vita politica e istituzionale in molti Paesi eu-ropei, compresa l’Italia, è destinata a crescere e a fungere sempre di più da ponte di dialogo sociale.

Ciononostante, il problema del terrorismo, che è parte integrante della guerra in corso dall’11 settembre 2001, della sicurezza e la crisi socio-economica, che toccano oggi molti Paesi europei, stan-no rendendo molto difficile il dialogo. Di fronte al razzismo e alla discriminazione cresce il sentimento di paura e di insicurezza in seno alle minoranze culturali e religiose. Questa dicotomia favori-sce la tendenza alla ghettizzazione, che a sua volta diviene terreno fertile per forme di devianze sociali, tra le quali la radicalizzazione religiosa. In tal senso la minoranza musulmana - la prima minoran-za in termini numerici in Italia e in molti Paesi europei - rischia l’au-to-isolamento con tutto quello che ciò comporta. Per contrastare questo pericolo occorre tenere vivo e soprattutto proattivo il canale di dialogo con i musulmani.

Nel quadro del clima sociale che si respira oggi in Italia, la Giornata Ecumenica del Dialogo Cristiano-Islamico, nata nel 2001, è più che mai indispensabile. A 16 anni dalla sua costituzione, la Giornata oggi è di fronte a una grande sfida culturale e sociale: quella di potenziare il dialogo rendendolo proattivo. E, affinché ciò possa avvenire, occorre un maggiore sforzo di tutti coloro che in tutti questi anni hanno credu-to e sostenuto questa esperienza di grande interesse, dalle istituzioni religiose, alle realtà laiche, a quelle dei giovani e delle donne.

Il contributo delle donne è fondamentale, ma non è abbastanza inter-pellato e incoraggiato. In tal senso la Giornata di quest’anno - venerdì 27 ottobre 2017 - sarà dedicata al ruolo delle donne nel dialogo in-terculturale e interreligioso. Chiediamo a tutte le comunità cristiane e musulmane uno sforzo comune per la pace e la salvezza dell’umanità.

Comitato promotore nazionale della Giornata ecumenica del dialogo cristia-no-islamico, Roma 21.07.2017

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BENEDIZIONEAL TERMINE DEL VIAGGIO

Guida:Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.℟. Amen.

il Dio di ogni speranza e consolazionevi riempia di pace e gioia nello Spirito Santo.℟. Amen.

Lettura della parola di DioAnch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo.

Ascoltate la parola di Dio dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3, 7-14)

Fratelli, quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho con-siderato una perdita a motivo di cristo. anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare cristo e di es-sere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in cristo, cioè con la giustizia che deriva da dio, basata sulla fede. E questo perché io possa co-noscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speran-za di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato con-quistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in cristo Gesù.

Breve silenzio

Preghiera di benedizione dei pellegrini

Guida:Benedetto sei tu, Dio,Padre del Signore nostro Gesù Cristo,che hai scelto fra tutte le nazioniun popolo a te consacrato e dedito alle opere buone.Tu in questo viaggio hai parlato al cuore dei tuoi fedeli,perché aderiscano a te con nuovo impegno e fervore:effondi su di loro l’abbondanza delle tue benedizioni,perché rientrando alle proprie case proclamino con gioia,in parole e opere, le tue meraviglie.Mostra la tua benevolenza su questi tuoi figli℟. Amen.

Conclusione

Guida:Il Signore del cielo e della terra,che vi ha accompagnato in questo pellegrinaggio,vi custodisca sempre con la sua protezione.℟. Amen.

E la benedizione di Dio onnipotente, + Padre e Figlio e Spirito Santo,discenda su di voi, e con voi rimanga sempre.℟. Amen.