Aiello Mio - Poesia Di Franco Pedatella

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Aiello mio Poesia di Franco Pedatella Aiello mio, son quivi i miei ricordi, d‟infanzia i giochi e pur gli amici cari, gli angoli, le viuzze ed il selciato antico dove ad ogni scivolata la pelle dei ginocchi sanguinava e dei cerchion la polve l‟attagnava. Piazza Sottana a sera si riempiva degli schiamazzi che intorno al “centopezze” noi facevam col gioco del pallone nell‟ora dell‟arrivo della posta, quando innanzi alla Posta si riuniva la gente in attesa che il postale nuove recasse da persone care. Le porte tra i palazzi dirimpetto Giannuzzi e Cybo eran sistemate, donna Teresina s‟arrabbiava che col pallone le rompevamo i vetri. D‟assecondarla fingeva don Lorenzo, sostenuto, ma poi girava il viso per nascondere il suo compiacimento vèr noi ragazzi a schietto gioco intenti, perché in fondo la cosa gli piacea, essendo verso il calcio appassionato, al qual da giovin s‟era dedicato. Gaspare, che avea la sartoria con specchi e con vetrine al pian di piazza, dicea bonariamente “state attenti!”, ma più la cosa che gli interessava era che un suo discepolo fremeva dal desiderio di giocar pur lui e ciò lo distraeva dal lavoro, sfortuna, questa, di chi andava al mastro,

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ove rimaneva fino a sera mentre lo studente il tempo avea per la partita quotidiana in piazza ogni sera all‟arrivo del postale. Quanti i compagni di quei passati giorni! Tutti a frotta m‟assalgon nella mente. Gino col pallon sempre incollato al piede correva come un razzo da una porta all‟altra e mai falliva. Giovanni, esperto a battimuro, coppia facea con Enzo a non sporcarsi mai una scarpa e Mario s‟arrabbiava perché voleva il gioco più deciso. Alberto al centro, Ciccio sempre ad ala ed Angelo facea manovratore, mentre Luigi premea con decisione a testa bassa, deciso all‟obiettivo. Giovanni Bernardo, con gli occhiali, facea di tacco con tocco magistrale e Pino Grandinetti con fervore voleva ad ogni costo la vittoria. Pasquale Bernardo con gran flemma giocava, m‟aveva forte il tiro sί che la palla respinta, rimbalzando, giva a rimpallo al vetro di Mazzuca, ma giusto proprio sulle parti in legno. Un bel respiro seguìa al sospeso fiato! Nicola Guadagnuolo sempre in porta, Alfonso, Luigi, Peppino e Lorenzino giocavan sotto casa; Gaspare Voce, oltre a giocar, scelto era ad arbitrare per l‟onestà da ognun riconosciuta. Talvolta, pur più grandi, Peppe Bernardo e, artista del palleggio, Ciccio Pagliaro, Settuzzo Sicoli volante ad ala destra eran da noi ammessi al nostro gioco.

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Casimiro Giannuzzi delicato in pantaloni corti dal cancello di casa usciva ché il permesso avea avuto da mammà, cui obbediva con un rispetto quasi religioso, a condizione che tornato a casa sarebbe senza macchia ai pantaloni, senza un graffio o segno di sudore. La piazza per noi era il nostro campo, vi s‟esibiva l‟intera compagnia che col passar degli anni s‟allargava man mano che i confini abbattevamo tra un quartiere e l‟altro o tra le vie in cui eravam rinchiusi piccolini e Piazza e Valle e Santa Maria divennero una cosa, un suol comune. Allora tante voci di ragazzi riempivano la Piazza, strade e vie, i miei compagni, fiori delicati del mio paese vivo e sί fiorente: Pierino Falsetti e Tonnarella, Vittorio Naccarato e Franco Guido, Tonino Civitelli e Mario Pucci, che col pallone faceva Muccinelli; Alfonso Marozzo ed Ugo Pucci, mastr‟Ugo che talora il suo salone lasciava per venire ad imitare John Charles, il Gigante bianconero. Intanto Pietro Pucci preparava per noi la formazione juventina da imparare a memoria entusiasmati e da imitar nel gioco quotidiano. Poi tutti gli altri li rivedo ancora: Antonio Barlaam e Peppe Amendola, Armando Pagliaro con Camillo, Vittorio Brunetti, detto Jurillu,

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Lillo Imperato con l‟asciugamano in spalla pronto ad asciugar sudore; Ernesto Cicero, forte difensore; Vladimiro pria tenuto un po‟ in disparte, perché di comunisti era figliolo, che poi diventerà il gran portiere quando alla Macchia giocherà Tillesium con Franco Iacucci da Bologna che improvvisò quel tiro ad effetto, che finì in rete incredibilmente. Ma non giungemmo tutti a quella gioia. Geniale Pizzuto era partito, chiamato dal fratello Fortunato. E tu, Aldo Belmonte, te ne stai solingo in quel giorno maledetto che presso al Lauro, intorno alla fontana giocando, addosso ti tirasti il peso del suo cappello, come volle il Fato, e a tutti noi togliesti il tuo sorriso né mai vedesti il pallone a campanile piombar per terra pronto per lo stop di piede esperto o di petto cavo, e poi filtrar veloce tra le gambe per infilarsi in rete e mover gioia. Un dì corremmo tutti dal dottore ché Mario Magli avea perso una mano giocando con l‟ordigno maledetto trovato casualmente su al Pizzone. C‟erano pure Lino Mannarino, Remigio Sicoli e Nando Curcio, ognun preoccupato per il fatto e per la vista del braccio sanguinante. Gigi Coccimiglio piccolino tenevo in braccio con Marta, la cugina, ché zia Luisa faccende casalinghe

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con Vincenza, la figlia, dovea fare. Un po‟ più grandi, ma eran nella cerchia Settuzzo Bernardo e Saretta, frequentatori assidui in sagrestia, nelle Funzioni allegri chierichetti. Salvatore Cuglietta, il Sagrestano, faceva degli occhiacci nel vederli, poi ritornava a servir la messa offrendo l‟acqua e il vino a don Ortensio, il prete nuovo, da Longobardi giunto, da belle iniziative animato: gite in montagna, al Cocuzzo ed a Tropea, Azione Cattolica e giochi d‟ogni tipo eran di attrazione per noi tutti e per lui mezzo ad adempìr l‟uffizio. In ciò gli era d‟aiuto senza pari l‟entusiasmo della Madre Superiora che alla guida d‟indefesse suore gestiva l‟asilo e la colonia, guidava in chiesa i canti e le preghiere, la vita animava del paese. La scuola elementare fu vissuta come una piacevol passeggiata con il maestro Peppino Vocaturo, la moglie di Camillo e poi alla fine dolce maestra Lina Vocaturo, che in quinta classe grande sua fiducia vèr noi mostrava e in questo ci educava per proseguir gli studi e per la vita. Talora da Domenico Medaglia, che nelle classi postelementari era maestro agli alunni a grado, mandàvanci e per noi era un bel giorno. Dopo la scuola s‟andava al refettorio, il ticket era “un‟ašca” da portare;

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poi tutti intorno a lunga tavolata consumavamo il pasto quotidiano. Il latte era alimento principale per i bambini ed ogni mattina Genio Cuglietta versava dal bidone di latte non trattato un misurino o andavamo sul far della sera donne e bambini Sotto gli Orti, ove Pasquale Innocenti ci mungeva direttamente dalle capre il latte. Tra comari e compari i primi anni vissi come in una gran famiglia: di fronte avea Carmela, “ „a mamma „e latte”, e la comare Teresina Astuto, un po‟ più su Lucia con la famiglia, Francesco e Natuzza piccolini; al Lauro Zia Luisa Coccimiglio e Vincenza, la figlia, con Orlando, Gemma e mastro Peppe in sartoria, Gigi, Tonina e Marta piccolini; su, alla “Rupa”, comare Eugenia Volpe, di fronte mastro Ciccio Coccimiglio. Veniva spesso a visitar mia madre da Corso Umberto Zia Rosa Giardino e al Lauro proprio sotto casa mia seduto ricamava il vicinato. La sera lo riunivo a casa mia a recitar il Rosario e le preghiere, perché ero un bambino assai stimato e tutti mi volevano un gran bene. Poi il giardino dello Zio Compare e della Zia Comare Teresina era il mio regno ove mio cugino di vita e di strumento musicale m‟era maestro e mίsemi tra “ i grandi”

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dell‟età sua e n‟ebbi l‟esperienza. Franco Bernardo dico, con cui crebbi, ed Italo, Gigetto e Vittorio, Franco di Sciara ed altri amici ancora con cui si fean le lunghe passeggiate tra scherzi, discussioni letterarie, canti e sonate di arie musicali di Verdi, Puccini, Mascagni e Rossini. Poi venne il tempo che il Fato me lo tolse, ma se riascolto i pezzi musicali tornami sempre in mente sua figura e il banjo che suonava da maestro e m‟insegnò sί che mai lo appesi al chiodo come oggetto abbandonato e ancor v‟intono dolci melodie. D‟estate il gruppo un poco si allargava perché da Roma tornavano i Marghella di Zia Antonietta e allora “il parentato” nel gruppo si facea preponderante. Di tonsillite soffrivo da bambino con febbre alta e allora si voleva che non sudassi al gioco del pallone. Triste era subire ogni ott‟ore una puntura di penicillina, che zia Eugenia e “Mariella „e don Florindu” anche di notte venìan a propinare. Che fare allor a sviar febbre e sudore? L‟estate della quarta elementare da mastro Eugenio Asta mi mandâro, ove imparai i primi rudimenti della sartoria. M‟era compagno Fiore Cuglietta, che un dì mi fe‟ cadere il grande specchio, all‟angolo sospeso, sopra la testa e fessi in mille pezzi, ma nessun danno io ne riportai.

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Forte è nei bimbi emular gli adulti, e allor facemmo noi pur la sezione dei comunisti e dei democristiani, ognun secondo i gusti personali. A Via Timpone, presso casa mia, aprii la sezione comunista, e la democristiana in Via Valle Pierino Falsetti aprì di fianco a casa. A dieci anni, nel Cinquantasei, c‟eran le elezioni comunali. Mi diè Peppe Verduci il microfono ed io tenevo allora i miei discorsi dal balconcino ch‟era in Via Timpone o dall‟automobil della propaganda. Ei introduceva:” Parla Franco Pedatella, il qual è figlio di lavoratore”. E allora io parlavo di Camillo, della D.C. che in amministrazione fatto avea al Calvario in quattro anni solo la vasca per i pesciolini. Un altoparlante sistemato sull‟oleandro avanti alla bottega di Peppe Iacucci diffondeva alta la voce del “giornal parlato”, mentre ai comizi in Piazza rispondeva un altro sistemato sul balcone della sezione D.C. con pari foga e quivi esplodevano le lotte. Un dì che quivi un monaco a parlare issâro, in Piazza fu rivoluzione: persino gli strumenti musicali fuôr dati in testa agli atei avversarî; poi per disturbo a rito religioso a Paola fûr tradotti in camionetta e in massa processati in Tribunale i capi della “gran rivoluzione”.

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Quando le macchine con gli altoparlanti per la propaganda s‟incontravano, si rincorrean le voci contrastanti, l‟una tentando di sovrastare l‟altra. “Fuori i commercianti dal Comune” diceva l‟una e l‟altra rispondeva: ”Contro le malefatte della Democrazia Cristiana, votate comunista”. Gli uni chiamavan gli altri galoppini dei brutti prepotenti sfruttatori, questi chiamavan atei i comunisti e uomini cattivi e del demonio. Persin di non tifare per l‟Italia venivano accusati i comunisti, se l‟Unione Sovietica giocava o Nazional del Patto di Varsavia. Non era qui tra noi, ma si sentiva parlare di Nanduzzo Aloisio sί ch‟era come se lo conoscessi da pria che in Argentina ei partisse. Armando Belluno era tra quelli che più amichevolmente frequentavo, ma, come accade agli amici stretti, un dì tra noi scoppiò una brutta lite. Mi venne a tiro, ma fermai la mano e lo lasciai, ma lui colpimmi al naso da cui in gran copia uscì di sangue un rivo sί che, per téma, ei si diè alla fuga. Ormai i nervi più non tenni a freno e dietro gli volai ad inseguirlo. Non lo raggiunsi, d‟ altri trattenuto, ma poi tra noi fu tutto come prima. Franco Pagliaro, talento incompreso, nel costruir con Gaspare era in gara la cometa che in alto più volava

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a contender lo spazio a bianche nubi. Fatto più grande, al tempo della Media, s‟andava a Grimaldi ogni mattina in “Mille e quattro” con compà Luigi che innanzi ad ogni casa si fermava a caricar castagne e a far farina al mulino di Ciccio di Grimaldi; ma non ci accorgevam della fatica ché in terza fila cantavano San Remo le mie care compagne Ada e Franca, Maria Vittoria ed Edda Marghella e noi ascoltavamo entusiasti del Festival d‟Italia i bei motivi. La terza media fémmo poi ad Aiello, ove Ovidio Notti, il professore, ogni gïorno il De bello Gallico di Cesare facéaci ripassare e Marïella Voce della musica ai grandi maestri ci appressava, né d‟insegnarci il canto trascurava con “ Ma petite est comme l‟eau” in francese. Cresceva intanto Geniale Aragona e con Francesco a Santa Maria s‟univa alla nostra compagnia spuntando da dïetro farmacia, mentre il papà, da vero padron „Ntoni, per avanzar famiglia s‟applicava e di lì a poco, chiusa qui bottega, raggiunse a Cosenza il suo obiettivo. Anche San Giuseppe era teatro dei nostri giochi al Largo e alla chiesetta e quando questo spazio non bastava s‟apriva a noi il giardino dei Belmonte. I cespugli ov‟or sorge la Posta

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eran per noi adatti nascondigli pei nostri giochi e camion o cavalli che noi immaginavam di cavalcare. Il dottore Guglielmo Civitelli a tutti aveva aperto il suo giardino fornito ben di ginnici attrezzi, ritrovo di ragazzi spensierati. Mastro Umberto Muti con la sua saggezza imponente ad ogni vento seppe far fronte e con onor n‟uscìo e gran rispetto da tutti i conoscenti. Era il mio paese di artigiani, esperti costruttori d‟ogni cosa, di case, scarpe, mobili e finestre, di sedie, cesti, vestiti di gran moda. Sapean forgiare il ferro ad ogni foggia, anche le scarpe con cuoio, spago e gomma, anche l‟argilla per far le pignatte, le tegole, i mattoni e i “cucumίelli”. Cucivano e tessevan nostre mamme, coi ferri facean maglie e calzettoni, dolci e biscotti sapean manipolare e pure brave al forno a fare il pane. Mi piace le botteghe visitare con la memoria, come un dì col corpo, per ricrear quegli atti e quei discorsi di cui l‟ infanzia nostra s‟imbevea. Apprendevamo, ché erano maestri, i gesti d‟arte e le parole sagge. Ricordo ancor Giuseppe Coccimiglio rifar tacchetti a scarpe di pallone e le pareti intorno al suo panchetto di calciatori in foto tappezzate. Mastro Geniale Lepore narrava, tra un tic tic e l‟altro del martello

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o l‟impeciato spago in man stringendo, storie degli anni giovani passati. Mastro Rosario Bernardo e Attilio Muti, l‟uno col tornio, l‟altro con i chiodi, facevano lo “strumbulu” ai bambini. Erano uno spasso le botteghe di Emilio Capparelli e di Tonnuzzo, d‟Eugenio Iacucci, detto Carpiciacca. Dietro il Municipio avea bottega mastro Gaetano Pedatella che con Vittorio Pagliaro lavorava ed in tifoseria era in contrasto. Faceasi già lavoro industriale presso la bottega dei “Pippari”, mastr‟Angelo, don Peppe e mastro Ninno Casella, addetti a pipe e segheria. Poi non vi dico i rulli per le strade di ferro o di legno e con il freno, prova d‟abilità in corsa e in curva. Io n‟avevo di quelli ricavati dai copertoni delle grosse gomme di camion, che mio padre lavorava per farne scarpe per i contadini, ricavate dalla gomma e dalla tela. Lo “scivulίettu” da Peppe Nicastro e quello della Zia Caterina, che alla cantina portava e al tabacchino, buoni eran per romper pantaloni. Ovunque era un “vignano” o un parapetto, adatto era al gioco delle carte, non molto grato ai nostri genitori perché occasione adatta a prender vizî. Lo “strumbulu” ci appassionava tanto nei pressi degli scarichi dell‟acque, perché adatti al gioco fantasioso,

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chiamato “a spaccare o a gettare”. Ogni angolo era buono per le bocce che consentiva il gioco “a bruttiscuru”; poi le sere d‟estate con le mamme s‟usciva a passeggio con “ i grandi”. Le lucciole al Calvario ed al Pizzone, con le loro luci intermittenti, eran la passion di noi bambini, che facevamo a gara ad acchiapparle. Pizzone e Castello preferiti eran per il gioco dei banditi ed una lunga canna era il cavallo che ognun di noi curava come vero. La corsa per le strade assai veloce per fare la girandola girare era la gioia, come l‟aquilone che il cuore dei bambini col respiro portava in alto più su, sempre più su. Lo chiamavam della cometa il gioco: era un lavoro d‟alta ingegneria saper costruire quella più leggera col volo per competer degli uccelli e immaginar sospesa con le nuvole in un bel ciel seren di primavera o nell‟aria affocata dell‟estate. Nelle viuzze “la mazza e llu stirillu”, quando le case al sol faceano schermo, chiassosa movean competizione per far più punti e vincer la partita. Era ogni soglia buona per giocare dei calciatori con le figurine e il dì di festa, dopo la Funzione, dietro alla chiesa c‟era il “battimuro”. Per questo le monete lungo gli orli erano tutte quante smozzicate,

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come l‟avesser morse topolini, scambiatele per pezze di formaggio. Dei pantaloni nostri anche i bottoni finivan nelle fosse praticate apposta in terra e gli “ossi” d‟albicocche finían per gioco giù per scalinate. Nelle viuzze il gioco delle “stacce” appassionava frotte di bambini e inutilmente chiamavano le mamme ché s‟era fatta l‟ora di mangiare. All‟Azione Cattolica la sera c‟era il ping-pong e il bigliardino, i bastoncini cinesi e il tirassegno e c‟era pure la televisione. Già, era arrivata la televisione! Tutti e tre i bar l‟avevano in funzione: il pomeriggio i programmi dei bambini, la sera invece quelli degli adulti. Le “troccane” del Venerdì Santo per le vie tra alti palazzi rimbombanti, le maschere del Carneval paesano, che il giorno i bimbi, gli adulti nella sera spingevano ai lazzi ed agli scherzi senza freni decenti per svagare; poi la Fiera di Santa Lucia e l‟altre dislocate tutto l‟anno che in cuore eccitavan la speranza del regalo paterno o dello zio; San Geniale, il santo Protettore, con il Pallone e i “fúrguli” festivi; la Madonna delle Grazie a inizio luglio con fiaccolata notturna e processione e poi il concerto con banda musicale ch‟ empiva il paese d‟armonia. Era particolare questa festa:

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la Madonna portata sopra il carro, da buoi tirato tra notturne faci, incedeva dal Convento al paese entrando tra le mura in mezzo ai canti della devota gente ed attorniata da vergini vestite da angioletti e ognun portava in mano fiamma ardente. „U Túvulu e „U Canale erano meta delle superbe donne lavandare, che a lavare i panni al mattino ed a portarli asciutti a ca‟ la sera erano intente e tra lor le verginelle l‟occhio levar osavan fuggitivo ai giovanotti venuti lì a mirarle sotto lo sguardo serio delle madri. Che bello era il Giardino Vocaturo che fiancheggiava il Ponte di Aricella! Scrigno era di un‟auto abbandonata, piacevole ritrovo dei bambini. E quando a scuola dàvanci un disegno da fare in classe, quello era il modello da riprodurre in varia fantasia ch‟eccitava la mente di scolari. Tenendomi alla giacca di mio padre seguivo della banda musicale le uscite che i Santi accompagnavano nelle continue feste di paese. Faceano eco i pezzi musicali, si rincorrean coi canti a vece alterna di cori di fedeli e si spargeva un senso di celeste elevazione. L‟andar per le “putighe” di artigiani ed osservare l‟arte ed ascoltare di contrastanti tifoserie parole facéanci entrar nel mondo degli adulti.

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Candiduzzu della Zia Caterina, tifoso spasimante della Roma, un piè si ruppe dando un calcio a un sasso, lui che gammai col piè colpì pallone. Ernesto, che vendea tabacchi a fianco, era tifoso invece della Juve, e quando giù scendea Vittorio Pagliaro sul parapetto c‟era discusione. S‟udiva il tractraccare del telaio di mastra Zia Teresa Solferino, che il corredo féa per le ragazze tra poco al marito destinate, mentre Zio Luigi nella forgia col mantice soffiava sopra il fuoco per arrossare il ferro per l‟incudine; parea Vulcano battere il metallo. Costava un gelato cinque lire di fronte, al bar di Peppe Nicastro, così come al bar di “Sciurillu” e al “Dopolavoro „e Cicciu „e Nella”. Le cinque lire le guadagnavamo andando a comperare al Tabacchino le sigarette a quelli che giocavano al tavolo o bevevano una birra. Il gusto di salire sopra i resti del muro antico appo il vecchio arco della “Porta d‟ „u Túvulu” cadente teneaci lungi il guardo della gente. Quando rideva il sole sul Castello spiavamo che la pezza di formaggio, battendo al parapetto, qualche spicchio perdesse per rincorrerci a mangiarlo. Questo era Aiello dei bambini, di “Rin Tin Tin”, di “Torna a casa, Lassie!”, dei giochi sinceri per le vie, del rispetto agli anziani come a zii.

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Questo è Aiello che mi resta in cuore, quando innanzi alla porta del compare passando si mettea il cappello in mano per salutare anche chi non c‟era. Scendeva la carrozza all‟impazzata, fatta col legno persino nelle ruote, traboccante di grida di bambini per Corso De Seta impolverato. Non c‟era ancora asfalto sulla strada, le cunette eran larghe, alla francese, quattro automobili passavan per la strada, gran mezzo di trasporto era il postale. Nelle viuzze e sotto i tuoi portali, Aiello, mi rivedo coi compagni di giochi ancor, che più non son presenti, ma nel mio cuor son vivi e verdeggianti. Con loro gioco dietro i “Mura rutti”, alla “Funtana d‟ „u làvuru” e alla Praca, a Santa Maria e a San Giuliano, alla Villetta con il Monumento che i Padri intitolaron ai Caduti, pria nella Piazza, poi a Santa Maria, infine al Calvario sistemata prima dell‟attuale ubicazione; a “ llu derittu d‟ „a Porta e d‟ „u Cummíentu”, la sera col pallone su al Castello, che Luigi il pomeriggio con pazienza spalmato avea di grasso pecorino. Poi quando fèro il campo della Macchia, c‟era tanto spazio in mezzo ai pioppi per lanci lunghi e per gli allenamenti e per i grandi “incontri” della festa. Qui come fosse allora in piena forza mastro Settuzzo Russo ancor giocava con Mario Naccarato e con Giuliano

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ed altri che di noi eran più grandi. Ai bordi del campo spettatore correva come fosse giocatore Nicola Marasco appassionato dello “ squadrone” in maglia rossa e gialla, cantando di Belmonte e di Cascardi, di Viola e di Cicero terzini, di Pedatella , artista del passaggio, e di Pachetta, imbattibile portiere. Erano tutti glorie del passato Pagliaro, Solimena e Civitelli, Pagnotta con Vairo e Medaglia: la folla eccitavan dei tifosi. Tillesium si chiamava quella squadra, avea anche la maglia azzurro cielo e noi quel nome aveamo rinnovato quando alla Macchia distendevam gli attacchi, con il dottor Caferri Presidente, notaio Solimena Onorario, il grande Sergio Chiatto allenatore, Francesco Cicero, degno successore. Via San Cosmo è il luogo ove son nato, col nonno a Via Valle ho abitato s‟era malato, e lì c‟era La Timpa intorno a cui bambini abbiam giocato. “L‟Aricella”, “ „A Jisterna” e “ „U Curmatu”, insieme al Ponte della Madonnella, San Giuseppe, “ „A Rupa” e “ „A Cerbina”, “ Il tombino” tra il bar e il tabacchino, le “vote” di Via Roma e di Via Valle sono altri posti ed altri luoghi ancora ove ho lasciato un po‟ di questo cuore che in petto freme e non sa dimenticare.

Franco Pedatella - Cleto, 19 settembre 2010