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FORMAZIONE E RICERCA SUI BAMBINI E RAGAZZI ACCOLTI IN AFFIDO E IN COMUNITA’ PROVINCIA DI BOLOGNA ASSESSORATO ALLA SANITà E SERVIZI SOCIALI

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FORMAZIONE E RICERCA SUI BAMBINI E RAGAZZI ACCOLTI IN AFFIDO E IN COMUNITA’

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PROVINCIA DI BOLOGNAASSESSORATO ALLA SANITàE SERVIZI SOCIALI

COORDINAMENTO TECNICO PROVINCIALE PER L’AFFIDAMENTO FAMILIARE

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INIZIATIVA REALIZZATA CON IL FINANZIAMENTO REGIONALE

Progetto editoriale “Quaderni” Provincia di BolognaServizio politiche sociali e per la salute

http://www.provincia.bologna.it/infanzia-adolescenza/index.html

Si ringraziano tutti coloro che, a vario titolo, hanno partecipato alla realizzazione del progetto

Redazione e coordinamento editoriale Claudia Ceccarelli

Progetto grafico Comunicattive Snc

Stampa Il profumo delle parole

Finito di stampare nel mese di Settembre 2008

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PROVINCIA DI BOLOGNAASSESSORATO ALLA SANITàE SERVIZI SOCIALI

FORMAZIONE 2006

Azioni di sostegno e di cura per le famiglie in difficoltà

FORMAZIONE 2007

Adolescenti e preadolescenti nel contesto della tutela e dell’accoglienza: percorso formativo rivolto agli operatori dei servizi, delle comunità di accoglienza e ai rappresentanti delle associazioni di famiglie affidatarie

INDAGINE CONOSCITIVA 2005/2006

Accogliere i bambini in comunità

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affido ecomunità

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Indice\ 07 - PRESENTAZIONE\ 11 - PREFAZIONE

15 - FORMAZIONE 2006AZIONI DI SOSTEGNO E DI CURA PER LE FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ \ 17 - Il processo di intervento nei casi di famiglie a rischio

\ 37 - L’allontanamento del bambino dalla famiglia: punto di partenza e non di arrivo. Il ruolo della comunità e della famiglia affidataria

47 - FORMAZIONE 2007ADOLESCENTI E PREADOLESCENTI NEL CONTESTO DELLA TUTELA E DELL’ACCOGLIENZA: PERCORSO FORMATIVO RIVOLTO AGLI OPERATORI DEI SERVIZI, DELLE COMUNITÀ DI ACCOGLIENZA E AI RAPPRESENTANTI DELLE ASSOCIAZIONI DI FAMIGLIE AFFIDATARIE \ �9 - Preadolescenti e adolescenti in situazione di tutela, elementi di difficoltà comportamentale e relazionale dei ragazzi accolti in affido e in comunità

\ 69 - Il lavoro di rete

\ 83 - Ilrapportotral’adultoaccoglientee l’adolescente,lagestionedelconflitto

95 - INDAGINE CONOSCITIVA 2005/2006 \ 97 - Accogliere i bambini in comunitàaffido ecomunità

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Presentazione

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Questa pubblicazione documenta due iniziative formative promosse dal Coordinamento provinciale sull’affidamento familiare e l’accoglienza in comunità per minori, realizzate nel 2006 e 2007, e un’indagine conoscitiva realizzata nel 2005/06 dal Centro Specialistico “Il Faro” di Bologna, in collaborazione con il coordinamento provinciale, sulle risorse per l’accoglienza dei bambini e degli adolescenti allontanati dalla famiglia di origine. Gli atti delle due iniziative, così come l’indagine conoscitiva, sono il risultato di attività di aggiornamento e di approfondimento, che si sono potute realizzare anche grazie all’apporto di docenti esterni che hanno contribuito a creare momenti di confronto, di spunto e di riflessione in coloro che vi hanno partecipato, e che si inseriscono all’interno di un quadro più ampio di attività, progetti, iniziative che la Provincia di Bologna promuove da tempo per qualificare il sistema dell’accoglienza e del sostegno di bambini e ragazzi in difficoltà.Questo documento si propone quindi come uno strumento utile per tutti coloro che si occupano quotidianamente della tutela dei minori, in particolare per tutti gli operatori dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari, per le associazioni di famiglie affidatarie e per le famiglie e gli operatori che gestiscono e lavorano nella comunità di accoglienza per minori.

Giuliano BarigazziAssessore alla Sanità e Servizi Sociali

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Prefazione

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Le iniziative formative sono state promosse e organizzate dal Coordinamento provinciale sull’affidamento familiare e l’accoglienza in comunità nel 2006 e nel 2007.Nella prima iniziativa “Azioni di sostegno e di cura per le famiglie in difficoltà”, Elena Fontana ha affrontato il tema del sostegno e del recupero della famiglia d’origine del minore sia dal punto di vista del servizio pubblico, che da quello del privato, prendendo in considerazione i ruoli di ognuno e l’integrazione tra loro per un progetto comune. Nella seconda iniziativa “Adolescenti e preadolescenti nel contesto della tutela e dell’accoglienza: percorso formativo rivolto agli operatori dei servizi, delle comunità di accoglienza e ai rappresentanti delle associazioni di famiglie affidatarie”, Igino Bozzetto, Paola Baglioni e Paola Marmocchi hanno approfondito, anche attraverso l’analisi dei casi e i lavori di gruppo, le tematiche relative agli interventi nei confronti dei minori adolescenti e preadolescenti che presentano problematiche specifiche, cercando di offrire strumenti tecnici e professionali per la progettazione degli interventi di sostegno, di protezione e di accoglienza.L’indagine conoscitiva è rientrata invece in un percorso di ricerca più complessivo il cui intento principale è stato quello di promuovere la conoscenza delle risorse per l’accoglienza dei minori, presenti e attive sul territorio provinciale. La realizzazione degli atti è stata possibile grazie al lavoro di rielaborazione dei contenuti trattati nelle varie iniziative e al lavoro di sintesi puntualmente svolta dagli autori.

Un ringraziamento particolare a Elena Fontana, Igino Bozzetto, Paola Baglioni, Paola Marmocchi, Simona Cassani e Michela Tannini per aver saputo creare spazi per il confronto e per la riflessione, momenti rari per chi tutti i giorni si occupa con passione e dedizione dei minori e della loro tutela.

Claudia CeccarelliServizio Politiche sociali e per la salute

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formazione 2006

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1�formazione 2006

AZIONI DI SOSTEGNO E DI CURA PER LE FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ

Mauro Favaloro Dirigente Area Tutela Integrazione Minori, Regione Emilia Romagna Elena Fontana Assistente Sociale Specialista, Centro TIAMA, Milano

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Mauro Favaloro: Buongiorno a tutti, questi 2 incontri sono in sintonia con le indicazioni della Regione rispetto al lavoro da fare sulle famiglie dei bambini in difficoltà, indicazioni che emergono dai dati che abbiamo e che si riferiscono alle permanenze eccessive dei bambini in comunità e in affido familiare. L’allontanamento dei bambini dura troppo e questo determina dei costi estremamente elevati sia per i bambini e le famiglie coinvolte, sia per gli operatori che si trovano ad operare in una situazione di stallo che per la comunità complessiva; nella nostra regione, infatti, il 36,4% dei bambini è ancora in comunità dopo 2 anni, 19,8% dopo 3 è ancora in affido consensuale, ed il 52 %, sempre dopo 3 anni è in affido giudiziale.In questi anni la Provincia ha fornito una sede di confronto, ha fatto da collettore di esperienze, ha dato una sede in cui è possibile costruire progetti che vanno oltre la singola realtà territoriale e che aprono le strade ai cambiamenti e alle trasformazioni nei servizi sociali.Per tutelare i bambini allontanati bisogna lavorare sui progetti di recupero delle competenze genitoriali e sulle difficoltà delle famiglie.In questo momento c’è una difficoltà di risorse di cui occorre tener conto, ma c’è anche una difficoltà culturale che investe la nostra società. Da questo punto di vista vi segnalo l’ultimo articolo di Alfredo Carlo Moro “Il futuro è nelle nostre mani, appunti sul mondo in trasformazione”: è un articolo importante che ci fa capire in quale ambiente culturale ci troviamo e quindi anche come interpretare meglio i cambiamenti che ci investono nella nostra quotidianità; ne leggo una parte: «La nostra è una società in profonda trasmigrazione culturale: lasciati - per le complesse trasformazioni economiche e sociali che abbiamo vissuto in una straordinaria accelerazione della storia - i vecchi ancoraggi, non riusciamo ancora a intuire i lidi a cui approderemo. Siamo in una comunità che soffre le difficoltà, le frustrazioni, le incertezze, gli scoramenti, le tentazioni dell’esodo, perché oscura e sfuggente è la realtà

IL PROCESSO DI INTERVENTO NEI CASI DI FAMIGLIE A RISChIOSINTESI GIORNATA DEL 14 FEbbRAIO 2006

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in cui siamo chiamati a vivere, imprevedibili gli esiti dei cambiamenti in corso, ambivalenti e contraddittorie le mutazioni a cui assistiamo».Occorre partire dalla consapevolezza che il lavoro sociale è un impegno impari, il calo delle risorse ci impone di andare ad individuare modalità di approccio e tecniche nuove per affrontare le difficoltà che incontriamo e per superarle.Nella Direttiva sull’accoglienza e nelle indicazioni che diamo per i Piani provinciali, ci sono alcuni aspetti che possono essere utili per rafforzare l’iniziativa dei servizi sociali nel lavoro con le famiglie, per esempio: • la realizzazione di un progetto di sostegno per le famiglie in difficoltà che deve precisare gli obiettivi, i tempi, le condizioni che fanno cessare il sostegno e le condizioni che permettono il rientro del bambino in famiglia. Non può esserci un progetto di sostegno al bambino se non c’è un progetto di sostegno alla famiglia in difficoltà; costruire un progetto di sostegno alla famiglia richiede capacità che devono essere incrementate e qualificate da parte del sevizio perché non esiste ancora una tradizione rispetto a questo tipo di interventi; • l’esistenza di protocolli operativi territoriali tra i servizi che diano garanzie sul fatto che non si muovono in modo dissonante fra di loro, ma in maniera integrata; • la promozione di gruppi di incontro anche per le famiglie che hanno i loro bambini allontanati. L’associazionismo in tema di protezione del bambino è molto sviluppato nella nostra regione, è entrato a pieno diritto nei tavoli di programmazione, di confronto e dà un fortissimo contributo, ma abbiamo bisogno di un associazionismo che cominci anche a pensare dalla parte delle famiglie in difficoltà.Tra gli strumenti incisivi c’è l’esperto giuridico, la sua missione è quella di essere di supporto agli operatori dei servizi, metterli in una condizione di sicurezza rispetto agli atteggiamenti e alle procedure che in certe situazioni si devono realizzare. Questa figura nel tempo potrebbe essere anche spesa nelle relazioni che si hanno con le famiglie e nelle situazioni in cui è importante il lavoro di mediazione. Rispetto alle nostre comunità, nella Direttiva presentiamo delle ipotesi relative a particolari tipologie di strutture e ragioniamo sull’importanza

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delle semiresidenze, quindi su supporti comunitari estremamente qualificati che però non siano gravati del peso della residenzialità.La diversificazione delle comunità è intesa come possibilità di dare sempre più risposte appropriate ai bambini e ai ragazzi nella convinzione che quanto più la risposta è appropriata tanto più si riescano ad ottenere i risultati.Concludendo, il lavoro che verrà svolto in questi 2 incontri, il riportare l’attenzione sul lavoro da svolgere con la famiglia d’origine, per noi è essenziale e lo è anche in relazione all’aumento costante del numero delle famiglie seguite dai servizi.

Elena Fontana: Cercherò di vedere con voi quelli che sono i nodi, cioè che cosa vuol dire essere una famiglia in difficoltà, che cosa vuol dire, nel momento in cui avviene un allontanamento del figlio, lavorare con i genitori, come si può recuperare quella genitorialità che in qualche modo è andata persa o che non c’è mai stata (e quindi la difficoltà sta nel tirarla fuori).

Io ho sempre lavorato in servizi specialistici e questo mi ha fatto capire che in realtà quello di cui c’è bisogno oggi sono le competenze diffuse, cioè il fatto che ci possano essere nella società in generale una serie di conoscenze che diventano competenze che su questo tema devono essere condivise perché altrimenti il mondo dei servizi diventa qualche cosa di troppo staccato dal resto. La giornata di oggi va in questa direzione, cioè vuol dire mettiamoci insieme a pensare, a capire che cosa si può fare, certo ci vogliono la risorse, ma bisogna anche capire come vanno gestite queste risorse, dove vanno utilizzate, e questo non è sempre facile quando si tratta di tenere insieme i bisogni del bambino con quelli degli adulti, (tempi, modi, metodologie), perché i tempi degli adulti sono diversi dai tempi del bambino, i bisogni dei genitori non sono quelli dei bambini. Questa difficoltà è dimostrata anche dal fatto che nelle equipe in cui ci sono gli operatori che lavorano sul bambino e quelli che lavorano sui genitori, si litiga, proprio perché entrambi rivendicano i bisogni e tempi differenti, quindi non bastano solo le risorse, bisogna anche capire in che momento usarle.

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Comincerei da quelle che possono essere le situazioni di disagio e di sofferenza del bambino, perché credo che per occuparsi di famiglia bisogna comunque cominciare dai bisogni dei bambini, poi andiamo a vedere quelli che sono i bisogni dell’adulto che è anche genitore; in questi casi è sempre un po’ il bambino che fa da bussola sul “che cosa bisogna fare” e tante volte, quando si fa una valutazione sulle capacità genitoriali, il bambino la sa più lunga degli esperti, ha già vissuto sulla sua pelle che cosa significa essere figlio di quel genitore. Si può catalogare il disagio dei bambini pensando che ci sono 3 tipi di sofferenza che un bambino può provare:• una sofferenza indispensabile;• una sofferenza inevitabile;• una sofferenza causata da una grave trascuratezza.

La sofferenza indispensabile è causata dalle regole, dai divieti che diamo ai bambini, è una sofferenza che fa parte della crescita, fa parte del fatto che nella vita non puoi esattamente fare tutto ciò che vuoi ma ci sono delle regole. Noi non possiamo difendere i bambini da questo tipo di sofferenza.La sofferenza inevitabile è quella in cui servizi, le associazioni, il volontariato, possono un po’ intervenire perché è causata da situazioni particolari, come ad esempio un lutto, un incidente, la perdita del lavoro da parte di un genitore, situazioni che creano difficoltà nella famiglia e sofferenza nel bambino, sofferenza che, proprio perché viene manifestata dal bambino stesso (ad esempio a scuola o con gli amici o i vicini di casa), può essere in qualche modo affrontata.Il tipo di sofferenza di cui si occupano maggiormente i servizi è la sofferenza causata da grave trascuratezza o da maltrattamento. Parlare di maltrattamento può sembrare una cosa lontana, ma in realtà il mal-trattamento c’è in tante famiglie, tutte le famiglie che vedono l’allontanamento dei propri figli sono famiglie maltrattanti perché in qualche modo danneggiano il proprio figlio, anche trascurandolo.

Per Kempe la caratteristica essenziale propria di un genitore consiste “nella capacità di riconoscere le necessita del bambino, in primo luogo la sua integrità fisica e la sua protezione e poi la sua nutrizione, il suo

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bisogno di affetto, la sua esigenza di entrare in relazione con gli altri, l’accrescimento e lo sviluppo delle sue funzioni fisiche e mentali, e infine l’essere aiutato ad entrare in rapporto con l’ambiente per organizzarne l’esperienza e divenirne padrone.Il genitore deve essere in grado di soddisfare o almeno facilitare il conseguimento delle stesse”.Al di là di questa frase, un genitore che ha alle sue spalle esperienze non felici, non ha così tante risorse per poter fare il genitore a sua volta, per poter essere in una relazione positiva con il proprio figlio. Per lavorare con queste famiglie bisogna entrare in empatia con loro perché altrimenti il rischio è quello di fare una polarizzazione e dire sono cattivi genitori e non c’è nessuna possibilità di recuperarli. Esiste una gerarchia dei bisogni dei bambini che vede al primo posto i bisogni fisiologici e di seguito quelli legati alla sicurezza, al bisogno di affetto e di appartenere a qualcuno, al bisogno di stima e di gratificazione ripetuta, al bisogno di auto realizzazione. Prima che si possa sperimentare un bisogno superiore deve essere adeguatamente soddisfatto quello inferiore. Quando una qualsiasi circostanza, malattia, guerra…provoca la privazione di un bisogno, questo diventa dominante sugli altri impedendo la percezione di quelli superiori. Se ci pensate, non sono solo i bambini che “funzionano” così, nelle situazioni di traumi molto grossi, l’essere umano “funziona” in questo modo, cioè se non ha risposta ad uno di questi bisogni, non riesce a ad andare oltre.

Che cosa si può fare rispetto al recupero della genitorialità e ai bisogni del bambino? Da soli ovviamente non si può far nulla, bisogna essere una squadra, in tanti e variegati, quindi non solo operatori dei servizi ma anche volontari, comunità, per riuscire ad ottenere un qualche risultato. Quando parlo di un qualche risultato penso anche che la valutazione delle capacità genitoriali possa essere negativa, e che quindi il bambino non possa più tornare a casa, anche in questi casi comunque è utile aver fatto un percorso rispetto alla valutazione delle capacità e aver messo in moto tutte le risorse possibili.

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Fare un progetto è importante perché è un passo avanti nel modello d’intervento, vuol anche dire “le ho provate tutte, a questo punto troviamo un’altra risorsa per il bambino”.Nei servizi a volte questo non succede, è come se non si riuscisse a dare una valutazione negativa e a dire “questo bambino non potrà tornare a casa”. È una sconfitta per tutti, sia per i genitori che per il bambino pensare che il bambino non tornerà mai a casa, però è un quadro realistico che permette di pensare ad un altro progetto, ad un’altra risorsa da poter utilizzare.Come si può intervenire su queste famiglie in un’ottica di integrazione? con il Modello ecologico dell’intervento. Nel Rapporto violenze dell’OMS del 2002, è stato riconosciuto il problema delle violenze e delle situazioni di rischio a cui i bambini possono essere soggetti e si è cercato di capire come poi si può intervenire; il Modello ecologico ritiene che possano esserci più livelli su cui lavorare:• un primo intervento che gli operatori e la società possono mettere in atto è quello individuale, in questo caso occorre tenere conto della storia passata del papà e della mamma, se la mamma ad esempio arriva da una famiglia maltrattante porterà tutta una serie di elementi che incidono anche nella sua nuova famiglia;• altro livello su cui si deve intervenire è il micro-sistema, cioè la famiglia, tenendo conto che il genitore è anche in relazione con gli altri;• l’eso-sistema riguarda invece la capacità dei servizi, sociali, sanitari, scuola, vicinato, di integrarsi per dare delle risorse all’individuo e al sistema micro. L’eso-sistema comprende anche i gruppi di aiuto per le famiglie e tutte quelle metodologie che possono essere messe in atto per affrontare la situazione;• il macro-sistema sono invece le leggi, la parte di organizzazione più generale dei sevizi, cioè tutto quello che avviene all’interno delle società e che può dare una mano in questa direzione.

Che cos’è il maltrattamento? Questa definizione è del colloquio criminologico che è stata approvata a Strasburgo: “sono quegli atti e quelle carenze che turbano gravemente il bambino, attentano alla sua

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integrità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino”. Il maltrattamento psicologico è difficile da rilevare perché non lascia segni evidenti, spesso se ne viene a conoscenza perché è la famiglia o il bambino stesso che ne parla, o altrimenti è molto difficile da capire per insegnanti, operatori…io ricordo la storia di un bambino che ad un certo punto aveva cominciato ad andare male a scuola, mangiava meno, se ne stava in disparte e gli insegnanti si chiedevano che cosa fosse successo; un giorno il bambino racconta ad una delle insegnanti un flash di vita familiare e viene fuori che il suo papà, non avendo potuto finire gli studi perché doveva aiutare la sua famiglia a mantenersi, teneva moltissimo al rendimento scolastico del figlio, e quando questo prendeva un voto inferiore alle aspettative, suo padre chiudeva il bambino da solo in una stanza e lo faceva stare in piedi sopra una sedia per tutta la notte. Potete immaginare come il bambino arrivava a scuola.Ultimamente più che in passato si parla della violenza assistita, cioè di quelle situazioni in cui il bambino vede e assiste alle violenze, è spettatore.

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Vi descrivo quello che noi chiamiamo il Processo d’intervento, cioè quei tasselli che mettiamo in atto nella presa in carico di queste famiglie, le fasi che gli operatori devono essere aiutati a tener presente.

RILEVAZIONEI Servizi Locali rilevano una situazione di sospetto o certo maltrattamento

COINVOLGIMENTO DELLA FAMIGLIAI Servizi contattano la famiglia provando a coinvolgere i genitori nel riconoscimento dell’abuso e dei problemi familiari che l’hanno provocato. Da questo momento i genitori sono informati della necessità di riferire la situazione alla Magistratura

SEGNALAZIONEI Servizi che hanno rilevato il maltrattamento, dopo una prima valutazione congiunta della gravità della situazione, segnalano il caso alla Magistratura Minorile

INDAGINELa Magistratura Minorile incarica i Servizi Locali e/o la Polizia di effettuare un’indagine sul caso in tutti i suoi aspetti medici e sociali. In caso di alto rischio dispone un allontanamento provvisorio del bambino presso le Comunità di pronto intervento.Da questo momento in poi il Distretto è investito del mandato di controllo sull’intero processo di intervento

VALUTAZIONELa Magistratura prescrive una diagnosi delle relazioni familiari sulle cause del maltrattamento e sulle possibilità del recupero della famiglia. Il Centro di Diagnosi e Terapia assume tale compito.Da qui: • PROGNOSI POSITIVA DELLA FAMIGLIA: i genitori mostrano possibilità di recupero della loro relazione con i figli

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TRATTAMENTO • Terapia familiare • Terapia individuale • Sostegno assistenziale • Affido familiareLa relazioni genitori figli viene sostenuta in vista del rientro del bambino in famiglia

• PROGNOSI NEGATIVA DELLA FAMIGLIA: la relazione genitori-figli è irrecuperabile

TRATTAMENTO • Terapia individuale del bambino • Situazioni sostitutive (adozione, accoglimento in Comunità, affido fino a maggiore età), in relazione ai bisogni psicologici del minore

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Nella prima fase si rilevano gli indicatori che sono degni di nota nella sofferenza da danno attivo. Nel momento in cui si rileva la situazione di disagio e di rischio, gli operatori si interrogano sul da farsi.Il coinvolgimento della famiglia è ovviamente sempre da riportare al tipo di disagio che i servizi constatano. Solitamente nei casi di maltrattamento l’adulto viene coinvolto perché in questo modo viene investito di una responsabilità.Il fatto di farlo prima o dopo è anche dettato da quanta protezione noi riusciamo ad agire sul figlio in quel momento.Il passo successivo è quello della segnalazione al giudice, qui è stata scissa l’indagine dalla valutazione delle capacità genitoriali, ma non sempre è così, dipende dai territori, ci sono dei territori in cui viene chiesta prima l’indagine psicosociale e poi dopo la valutazione delle capacità genitoriali e altri in cui viene fatto il contrario. Questa trasparenza deve esserci sia con i genitori che con il bambino, quest’ultimo infatti ha bisogno di sapere che cosa gli sta succedendo, qual è il progetto per lui, è importante che ci sia un servizio che lavori sulla famiglia ma anche sul bambino.Valutare le capacità genitoriali significa fare una diagnosi delle relazioni familiari (anamnesi familiari), cercare di capire perché è accaduto il maltrattamento e per capire perché, a volte occorre anche tornare indietro alle generazioni precedenti. L’anamnesi permette al servizio di prendere in carico la loro parte bambina così sofferente. Dopo la valutazione, che dura dai 6 agli 8 mesi, si fa la prognosi che come dicevamo prima può essere positiva o negativa.Faccio una premessa: al momento dell’allontanamento solitamente noi mettiamo il bambino in comunità perché pensiamo che lì sia più tutelato e che non debba entrare subito in contatto con un’altra famiglia che si contrappone alla sua. Cerchiamo invece di utilizzare le famiglie affidatarie laddove abbiamo già fatto una prognosi ed è risultata positiva, quindi quando sappiamo che il bambino tornerà a casa. Gli affidatari in questo caso sono il ponte, il traghetto per ritornare nella famiglia d’origine.Sarebbe interessante capire come le famiglie affidatarie possano essere comprese nel patrimonio delle risorse, ad esempio quelle con i bambini molto piccoli sono probabilmente la soluzione più adatta rispetto a

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quanto possa esserlo la comunità che ha degli educatori ed in generale, è molto più variante rispetto ad una famiglia.Se andiamo nella prognosi positiva della famiglia la relazione genitori-figli viene sostenuta in vista di un rientro, se la prognosi è negativa il lavoro con i genitori viene lasciata ad un altro servizio, mentre il minore deve essere accompagnato ad elaborare la sua situazione attraverso terapie individuali e aiuti per fare in modo che superi questo passaggio.Vi ho fatto vedere questo percorso perché credo che sia sempre utile averlo sott’occhio, altrimenti il rischio è che i tempi sforino e si dilatino troppo.

Noi crediamo che la valutazione sia un concorso di più punti di vista, non la fa solo lo psicologo, non è solo qualcosa in cui si applica un protocollo, ma diventa una parte del lavoro di equipe, ed un pezzettino di questi puzzle deve metterlo anche il genitore. Nelle prime sedute noi lo specifichiamo con i genitori che ci sarà molto da lavorare, assicuriamo che metteremo in moto le nostre migliori risorse ma chiediamo che anche loro facciamo la loro parte; a volte si creano situazioni in cui l’assistenzialismo passa i confini, tutto dev’essere dato, ma bisogna mettere in chiaro che anche loro devono dare qualcosa. Questi genitori devono anche essere responsabilizzati, in molte di queste famiglie ci sono i figli che fanno i genitori, c’è una grande confusione dei ruoli, ci sono bambini che sono diventati grandi prima del tempo, i nonni che fanno i genitori. Vedi che il lavoro educativo e valutativo sta andando bene quando le generazioni si rimettono a posto, quando i figli possono fare i figli, i nonni possono fare i nonni…

Stamattina abbiamo fatto un lavoro un po’ generale su quello che si può fare come valutazione delle capacità genitoriali, tenete presente che tutto cambia se c’è una situazione di sospetto abuso sessuale perché lo “schema” che noi seguiamo nel casi di trascuratezza di maltrattamento non possiamo riportarlo in una situazione di sospetto abuso sessuale perché la rete si complica, cioè viene aperto un procedimento penale e quindi ci sono delle indagini e lo spazio valutativo spesso si restringe.

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Vi dico com’è organizzato il servizio a Milano: c’è il servizio sociale del Comune già specializzato sulla fascia d’utenza “Servizio sociale della famiglia”, poi ci sono i servizi specialistici privati “Cbm, Tiama…” e da ormai 5-6 anni, l’Usl di Milano ha organizzato dei Servizi che si chiamano Unità Tutela Minori, in cui ci sono assistenti sociali e psicologi che accedono insieme ai servizi sociali territoriali ai casi da decreto, cioè i casi spontanei di famiglie in difficoltà che vanno dall’assistente sociale del comune, se invece è una situazione segnalata al Tribunale, rimane l’assistente sociale del comune come figura di riferimento del caso, ma interviene anche questa equipe specialistica. L’equipe specialistica è formata dalla figura dell’assistente sociale, dello psicologo e dell’educatore e per ogni caso si crea una micro equipe; l’educatore viene messo in campo sia come pensiero educativo all’interno della micro equipe, sia per la messa in campo di interventi educativi, domiciliari… Non in tutti i casi viene utilizzato, però rimane come figura all’interno, come pensiero educativo, ed è molto utile perché è più vicino alle esigenze del minore.

Il pomeriggio vi farei fare un lavoro di gruppo su un caso che vi ho portato. È il caso di una ragazza che in un centro diurno parla di un sospetto abuso sessuale e fa vedere che cosa fanno i servizi e come si comportano. Voi dovreste cercare di capire quelli che sono stati i nodi problematici di questo percorso e dire che cosa avreste fatto. Potete dividervi in 3/4 gruppi misti.

Caso:Erika, 15 anni, confida ad un’educatrice del Centro diurno che frequentava da alcuni anni, di aver subiti delle avances di natura sessuale da parte del padre iniziate con dei toccamenti e dei giochi sul lettone culminati in veri e propri tentativi di penetrazione anale e vaginale.Erika era stata inserita al Centro diurno circa tra anni prima per un sostegno scolastico; dall’inizio si era però evidenziato come questo problema fosse in realtà l’ultimo in ordine di importanza rispetto alle altre difficoltà che la ragazza presentava. Emerge infatti un problematico rapporto con la sessualità e la difficoltà di Erika ad identificarsi con la

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figura femminile; fin da piccola desiderava essere un maschio “perché essere come sua madre costretta a lavorare e a curare i figli chiusa in casa non le piaceva”. Si comporta come un maschio nel modo di vestire, di atteggiarsi, di parlare. Sembra rifiutare il fatto di diventare donna e continua a non curarsi fisicamente.Cerca nelle educatrice del Centro diurno un confronto che nella sua famiglia non trova e racconta loro dei ripetuti tradimenti e maltrattamenti del padre nei confronti della madre.L’anno successivo comincia a frequentare il Centro diurno anche la sorella di Erika, Silvia, con cui lei non va d’accordo; Silvia è morbosamente attaccata al padre e lo adora.Gli educatori osservano il rapporto tra le due sorelle che con il tempo sembra migliorare, finché improvvisamente, dopo circa due anni, Erika ha un crollo su tutti i fronti, scolastico e comportamentale.Regredisce ai livelli precedenti l’identificazione sessuale e colloca le attenzioni sessuali da parte del padre su di lei. L’educatrice, dopo aver raccolto le confidenze della ragazza, che dice che anche Silvia è oggetto di attenzione da parte del padre, decide di parlarne con la psicologa del Consultorio che da tempo segue la mamma di Erika. (Lei vorrebbe separarsi dal marito per le violenze che subisce ma teme ripercussioni da parte sua e da parte dei due figli, Silvia e Davide, che adorano il padre).Le operatrici decidono di parlare con la madre e comunicarle ciò che ha riferito Erika, sperando che questo possa spingerla a dare una svolta alla sua vita.Dopo un primo momento di sgomento, la madre decide di sporgere denuncia nei confronti del marito insieme all’educatrice con cui la figlia si è confidata.In Questura propongono alla donna di allontanarsi da casa insieme ai figli, lei accetta e vengono presi accordi sulle modalità, affinché il marito non sospetti nulla.Subito dopo l’allontanamento Silvia e Davide (8 anni) si mostrano molto ostili nei confronti della mamma e della sorella, Silvia smentisce ciò che dice Erika negando di aver mai subito avances da parte del padre.La mamma ed i figli vengono collocati in una Comunità di religiosi che raramente si occupa di questi casi, nessuno quindi riceve un adeguato

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sostegno, inoltre, non essendoci ancora un operatore di riferimento non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto.L’unico riferimento continua ad essere l’educatrice del Centro diurno a cui la mamma telefona continuamente per sfogarsi. La donna ad un certo punto contatta il marito che sembra essere l’unica persona a cui fa riferimento, anche Erika parla con il padre.A conclusione della telefonata la donna riferisce agli operatori della Comunità che il marito è pentito, e che se tornano a casa li lascerà in pace per sempre. Nega le accuse che Erika fa nei suoi confronti.Il giorno successivo Erika ritratta la sua versione comunicando alla Polizia e al giudice delegato del Tm di essersi inventata tutto. La donna rientra in casa con i figli.

Facciamo un primo giro dei gruppi rispetto al primo quesito “quali sono stati i nodi problematici dell’intervento” e poi un secondo giro dicendo “che cosa avremmo fatto noi nella stessa situazione”.

NODI PROBLEMATICI EMERSI

GRUPPO 1: Nella fase preliminare, dove emerge il disagio della ragazzina, non emerge un responsabile del caso e un servizio sociale competente a cui magari è stato fatto un invio e che si è attivato sulla segnalazione del disagio. L’impressione che abbiamo avuto sul caso in generale è che ci sia stato un po’ un fai da te, pochi servizi che si sono attivati su una procedura non chiara, non c’è un’equipe che ha lavorato su questo caso. Per quanto riguarda l’obbligo di segnalazione, non è stato corretto coinvolgere direttamente la madre (per la problematica dell’inquinare l’indagine). La comunità scelta come risorsa non era specifica per il tipo di problematica. L’educatrice del centro diurno ci è sembrata molto sganciata dalla rete e molto sola, nonostante fosse un punto di riferimento per la madre e dovesse star dentro a certe dinamiche.

Elena Fontana: voi dite che non è stato corretto coinvolgere la mamma, perché?

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Risposta: perché dagli elementi emersi non era chiaro il ruolo della madre, se sapeva qualcosa o meno, se si era accorta di qualcosa…quindi coinvolgere immediatamente la madre ci è sembrato non opportuno.

GRUPPO 2: Anche noi abbiamo evidenziato l’assenza di un referente del servizio, ci poteva essere un coinvolgimento dei servizi precedente alla confidenza della ragazza, che poteva intanto cominciare un lavoro con la famiglia. Poi è emersa la poca tempestività dell’intervento nei confronti delle prime confidenze. All’intervento sembra che manchi un progetto, la modalità dell’allontanamento non è supportata da professionalità, dai servizi, da uno psicologo.

GRUPPO 3: Non c’è stato raccordo nel senso che, non essendoci un servizio di riferimento, abbiamo notato lo scollegamento delle informazioni, nessuno si è preso la responsabilità di un progetto, quindi l’assenza dei riferimenti. Non c’è stato un percorso terapeutico, ci sono stati segnali rispetto ai bambini che andavano però raccolti e rielaborati a prescindere dal fatto che si trattasse di abuso o meno. C’è stato un inserimento improprio e quindi una comunità che non ha saputo farsi carico della situazione creando ancora di più solitudine nella mamma, c’è stata una comunicazione impropria alla mamma rispetto a ciò che succedeva. Abbiamo anche osservato che è una situazione abbastanza realistica.

GRUPPO 4: Le cose emerse sono già state dette, comunque manca un governo e una gestione del caso, che sembra molto lasciato ai rapporti interpersonali. Abbiamo notato la mancanza istituzionale del servizio, quindi accordi fatti fra le persone che hanno comportato scelte che andavano anche contro gli obblighi istituzionali e di legge, di conseguenza le scelte fatte sono andate sull’onda dello sposare la tesi della ragazzina come se questa fosse la verità. Tutte le scelte che sono state prese fanno si che una ritrattazione ci sta, nel senso che dove c’è una motivazione o una cornice di un progetto le conseguenze di non condivisone di un percorso possono essere possibili e la ritrattazione, la negazione e il desiderio di cancellare tutto e tornare a casa.

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Elena Fontana: C’è un altro elemento che nessuno di voi ha detto ma che appare, cioè le mancanza d’integrazione tra i 2 Tribunali, perché quello che voi vedete nascere nella scheda è praticamente una rivelazione dove subito si va a fare una denuncia al Tribunale penale. Questo ha attivato velocemente la protezione su mamma e figli, ma non ha attivato immediatamente il TM. Se gli operatori avessero fatto una segnalazione ad entrambi i Tribunali, o solo al Tm, probabilmente ci sarebbe stato un provvedimento e si sarebbe individuato il servizio competente, ci sarebbe stata una regia. Coinvolgere la mamma nella denuncia è stata una mossa rischiosissima, perché quello che poteva succedere era che sua mamma prendesse una posizione schierandosi dall’altra parte. Altra cosa, la comunità poco adeguata, come se fosse stato più un rifugio senza grandi strumenti. Io aggiungerei anche che non è detto che in una situazione del genere tutti i fratelli debbano stare insieme, è vero che il ragionamento va fatto sulla protezione di tutte e tre, però può anche darsi che loro abbiano bisogno, in quel momento, di risorse differenti, di avere degli spazi ognuno per conto loro.Andava ponderata la comunità come pure andava ponderata la decisione di metterli tutti insieme. L’altra cosa che si diceva è che manca un progetto, ed è questo che può portare alla ritrattazione e alla negazione di ciò che si è detto (piuttosto che il deserto, le vittime di abuso preferiscono tornare in una situazione d’inferno ma dove comunque hanno vissuto, respirato, si sono create delle relazioni).

CHE COSA SI POTEVA FARE

GRUPPO 1: Noi avremmo fatto una segnalazione al servizio sociale per la presa in carico, a quel punto, quando emergeva la confidenza di Erika, l’educatrice avrebbe avuto un interlocutore con cui confrontarsi. Il servizio sociale, contattando immediatamente il consultorio avrebbe dovuto far partire la denuncia alla Procura e la segnalazione al Tm senza coinvolgere la madre. Dopo di che, con un contatto con il Pm ci saremmo confrontati e avremmo fatto un 403 con l’allontanamento immediato di Erika in una pronta accoglienza. Nei giorni successivi il servizio sociale avrebbe elaborato un progetto.

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GRUPPO 2: Noi avremmo fatto la segnalazione prima della confidenza ai servizi sociali e successivamente la segnalazione ai servizi e alla Procura. Dopo di che, allontanamento della minore a protezione ed in contemporanea l’analisi della situazione per intervenire anche sugli altri bambini e sulla madre.

GRUPPO 3: Avremmo attivato il servizio sociale tramite segnalazione ed il servizio si sarebbe dovuto collegare con il consultorio per un primo raccordo sulla situazione. Sarebbe partita una duplice segnalazione alla procura ordinaria e alla procura minori per la tutela immediata del minore e una responsabilità di informazione da parte dei servizi agli organi competenti.

GRUPPO 4: Se nel periodo in cui la ragazza frequentava il centro educativo, ci fosse stata una presa in carico di un servizio, allora ci sarebbe stato un percorso di conoscenza che avrebbe potuto accompagnare la sua presenza al gruppo educativo. In questo modo la comunicazione della rivelazione sarebbe arrivata in un percorso in cui i servizi erano cresciuti in questa comunicazione di disagio e sarebbe scattata la segnalazione condivisa con tutti gli interlocutori che avevano avuto a che fare con la ragazza. Se tutto avesse funzionato in questo modo ci sarebbe potuto stare il 403 (faccio fatica a pensare che ci fosse un obbligo di intervento d’urgenza, però come tendenza, spesso la magistratura dice: se ritenete, intervenite con il 403). Laddove ci sia la possibilità di circostanziare la rivelazione il tempo può essere concordato con la magistratura, quindi una telefonata alla procura minorile per concordare le tappe successive, andrebbe fatta. Io avrei fatto un collocamento della ragazzina, non necessariamente dei fratelli, e una prescrizione d’indagine, cioè delle competenze della madre e delle relazione che ci sono tra i fratelli per capire che posizione hanno assunto e per capire quali conseguenze è possibile attuare.

Elena Fontana: rispetto a questa seconda parte cosa viene fuori come mappa del “che fare”? rispetto alla rilevazione, se ci fosse già stato il servizio sociale come inviante al centro diurno, ai primi indicatori, l’assistente sociale e l’educatrice avrebbero fatto una micro equipe, avrebbero ragionato sul che fare. Il tassello che manca è quello della psicologa del consultorio, qui l’intervento è molto concentrato su Erika.

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La psicologa che aveva in carico la mamma infatti, che spontaneamente raccontava di una violenza all’interno della famiglia e di maltrattamenti, avrebbe dovuto mettersi nell’ottica di dire “che cosa faccio” per la protezione di questi minori. L’educatrice ha un grosso ruolo ma è vero che anche la psicologa del consultorio avrebbe potuto dare una mano, segnalando la situazione dei tre figli che assistevano alla violenza; questo avrebbe messo i genitori più su un discorso di competenze genitoriali.

Partecipante: io vorrei chiedere ai presenti se questo nel nostro territorio accade, cioè se da un altro servizio ci vengono fornite informazioni su un possibile pregiudizio, noi facciamo una segnalazione, prendiamo in carico la famiglia? Perché secondo me oggi si interviene solo se c’è un grave pregiudizio.

Elena Fontana: se io fossi la psicologa che ha in carico una madre che mi racconta che viene maltrattata, che vorrebbe separarsi e non ce la fa, mi chiederei se in quella famiglia ci sono dei bambini. Se non ci sono dei minori, alla fine la scelta è dell’adulto, ma se ci sono, ho l’obbligo di segnalazione o almeno prendo contatti con l’assistente sociale del servizio per chiederle se conosce già la famiglia, i bambini.

Partecipante: non succede in realtà perché se c’è un rapporto tra paziente e professionista vige la regola della privacy e quindi il servizio sociale si deve conquistare le informazioni in altro modo, la scuola, il vicinato, il medico di base; sa che le cose stanno così ma non le può utilizzare perché è per sentito dire. Questo avviene con il consultorio, ma con gli altri servizi (sert, neuropsichiatria…) la situazione è ancora più drammatica perché vige la tutela del paziente, quindi le segnalazioni avvengono solo se c’è un pregiudizio gravissimo.

Partecipante: secondo me ci sono due ordini di problema, uno è la difficoltà dello psicologo che è all’interno di un servizio adulti e che sente una notizia di questo genere ad attivare un servizio che in qualche modo denunci un proprio paziente, altro è il problema del rilevare la violenza assistita come maltrattamento ai minori. Purtroppo la violenza assistita di fronte a dei maltrattamenti diretti ai minori viene

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vista in modo meno grave. Poi c’è tutto il discorso di chi ha compiti di cura nei confronti di un paziente ed ha paura di denunciarli. A Bologna la particolarità è che gli psicologi che lavorano con il servizio sociale sono gli stessi del consultorio quindi la mamma che va al consultorio a raccontare maltrattamenti sa che se dovesse partire una segnalazione al Tm, la psicologa coinvolta potrebbe essere la stessa. Quindi la psicologa si trova ad essere sia la segnalante che quella che prende in carico la famiglia per la valutazione della capacità genitoriali, dopo il decreto del Tribunale.

Elena Fontana: Dal punto di vista legislativo non è corretto questo… la legge dice che chi rileva deve segnalare, altrimenti che cosa devono fare questi figli, lo devono dire loro quello che succede? Capisco che i servizi per gli adulti abbiano il problema della privacy, ma se c’è una situazione di maltrattamento la privacy si può violare per una giusta causa. Tra l’altro, se si continua ad aspettare che le cose diventino sempre più gravi, poi come la recuperi la famiglia, dopo non bastano più degli operatori competenti, ci vogliono dei maghi. Più precocemente segnali e più hai garanzie di riuscire a recuperare la situazione.

Volevo darvi un input per concludere la giornata: noi come inizio del percorso di valutazione familiare, facciamo una prima seduta di rete, cioè non convochiamo solo i genitori e lo psicologo ma anche tutti gli operatori che sono coinvolti nel caso, un po’ anche per far capire alla famiglia che c’è un lavoro di squadra, che non ci sono segreti, che si condividono le informazioni, quindi possono trovare l’insegnante della scuola che ha parlato con il bambino, gli operatori che nel tempo possono aver seguito la famiglia. Quando la prima seduta non si fa così, in realtà è un disastro perché tutti i messaggi espliciti che nella seduta di rete arrivano, vengono solo riportati e hanno meno senso. La figura dell’assistente sociale del territorio è importantissima in questo contesto, perché fa da regia, conosce le situazioni passate. Noi agiamo con gli strumenti della terapia familiare, quindi abbiamo uno specchio unidirezionale, le telecamere e loro lo sanno che le sedute sono videoregistrate.

La prossima volta proseguirete sul che cosa può fare la famiglia affidataria, che cosa può fare la comunità.

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Elena Fontana: stamattina iniziamo vedendo prima di tutto come possono avvenire l’allontanamento e l’accoglimento in comunità del minore:

• accoglimento d’urgenza (da casa, da scuola…)• accoglimento coatto programmato (da casa, da scuola, dalla sede dei servizi sociali,…). In questo caso la comunità sa che il tal giorno arriverà quel bambino.• accoglimento da situazioni diverse dalla famiglia naturale (da altre comunità, da famiglia affidataria, dall’ospedale…)

Quello che solitamente si cerca di fare nella seconda e nella terza situazione, prima che il minore arrivi in comunità, è di coinvolgere i genitori informandoli e cercando una loro partecipazione; se questo succede è molto tranquillizzante per il minore sapere che i genitori conoscono e sono d’accordo rispetto alla situazione.

La nostra esperienza ci fa dire che è molto importante fare un contratto con i genitori all’inizio, perché chiarisce una serie di cose:• la chiarezza dei ruoli;• la posizione nei confronti del decreto del Tm;• la richiesta di coinvolgimento nella gestione del bambino (il genitore può portare il bambino a scuola la mattina, piuttosto che a calcio);• il calendario e le regole delle visite in comunità.

La comunità può essere anche un ambiente terapeutico per il bambino, terapeutico come cura. Se pensiamo alla comunità come tale, gli

L’ALLONTANAMENTO DEL BAMBINO DALLA FAMIGLIA: PuNTO DI PARTENZA E NON DI ARRIVO. IL RuOLO DELLA COMuNITà E DELLA FAMIGLIA AFFIDATARIASINTESI GIORNATA DEL 22 FEbbRAIO 2006

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obiettivi che deve avere sono:• offrire un clima di cura e di protezione;• offrire il sostentamento materiale e soddisfare i bisogni primari: un buon pasto e un sonno tranquillo (sembra banale ma non lo è, perché nelle famiglie da cui provengono questi bambini non è così scontato dormire tranquilli e mangiare un pasto caldo);• rinforzare le funzioni intrapsichiche: mettere ordine dentro di sé e dare significato al collocamento in comunità e alla propria storia; (questo mettere ordine è compito anche dell’educatore, non solo del terapeuta, perché l’operatore si trova nella quotidianità con il minore);• migliorare le problematiche comportamentale attraverso l’utilizzo dello strumento educativo; • migliorare le competenze sociali: poter essere finalmente bambini imparando ad utilizzare l’adulto come risorsa (spesso questi bambini non hanno mai avuto un adulto a cui chiedere aiuto, ma qualcuno a cui dare aiuto);• ottimizzare la relazione con la famiglia (ove possibile).

Quando c’è un nuovo accoglimento da fare anche l’educatore ha tutta una serie di timori, di paure e di emozioni nei confronti del bambino, così come ovviamente le ha il bambino. In particolare:Il bambino prova:• disorientamento e confusione;• bisogno di rassicurazione e di chiarezza;• paura di essere abbandonato;• senso di colpa per aver fatto capire che stava male;• preoccupazione che possa accadere qualcosa di brutto ai genitori;• timore per il futuro.L’educatore prova:• paura dell’ignoto: chi è quel bambino? come arriverà? come si sentirà? gli piacerò? saprò contenerlo e rassicurarlo?• ansia legata al fatto che sovente all’inizio si hanno poche informazioni;• incertezza su come reagiranno i genitori quando verranno informati;

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• incertezza rispetto alla gestione del gruppo degli altri minori.

È necessario che tutti gli attori che ruotano attorno alla situazione facciano un progetto coeso, quindi che comunità e servizi vadano nella stessa direzione, perché altrimenti il rischio è che possa passare il messaggio “protetto il bambino il lavoro è finito”, in realtà questo è solo l’inizio. E per fare un buon progetto bisogna capire se i genitori sono più o meno recuperabili.

Partecipante: nelle situazioni in cui c’è da fare un allontanamento ma non si riesce a reperire la risorsa più idonea che tipo di intervento attuate? Come attivate il contatto con la famiglia naturale per vedere che tipo di lavoro si può fare?

Elena Fontana: iniziando un percorso di valutazione delle capacità genitoriali, noi facciamo un primo incontro tra tutti gli operatori che hanno lavorato e lavoreranno sul caso, e poi facciamo un secondo incontro a cui partecipa anche la famiglia. E’ un momento molto trasparente in cui emerge chi fa che cosa. Da lì vediamo che tipo di progetto portare avanti, vediamo se va bene quello iniziale o se bisogna costruirlo e tararlo nuovamente.

La valutazione positiva delle capacità genitoriali passa attraverso il fatto che il genitore si accorga che sta facendo star male suo figlio, che provi empatia per il suo bambino. Se il genitore riesce a far questo è già a buon punto perché ammette che c’è una situazione problematica e che è necessario affrontarla e lavoraci sopra.Quindi non è solo la situazione che fa la prognosi negativa, è anche il fatto che il genitore non si renda conto e continui a negare la realtà.

Nella situazione in cui la valutazione della genitorialità è positiva, anche se non abbastanza da far rientrare il minore a casa, noi utilizziamo la risorsa dell’affido perché comunque c’è una situazione di miglioramento.

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Ho provato ad elencare le tre tipologie di affido più comuni:• l’affido educativo• l’affido terapeutico riparativo• l’affido terapeutico nutritivo.È chiaro che l’affido è cura, quello che spesso si afferma è che i bambini trascurati, per riuscire a creare buone relazioni con il mondo, devono riuscire a sperimentare delle relazioni buone (oltre ad avere un aiuto psicologico ed educativo), una quotidianità che ripari al torto subito. Le distinzioni che abbiamo cercato di fare vanno in questa direzione. L’affido educativo può andare bene quando un bambino ha vissuto nella sua famiglia delle situazioni di grave disagio, oppure delle situazioni in cui è stato adultizzato. Questo tipo di affido va bene per loro perché hanno bisogno di essere educati ad un diverso rapporto bambino adulto.L’affido terapeutico riparativo può andar bene per quei minori che hanno vissuto nella propria famiglia maltrattamenti, abusi, traumi molto forti. Questo tipo di affido deve riparare a qualcosa di grave che è avvenuto. L’affido terapeutico nutritivo può funzionare per quei bambini che sono stati insufficientemente accuditi, trascurati, quei bambini che hanno bisogno proprio di un nutrimento, di affetto.

Quando le famiglie riescono ad incrociarsi con le esigenze del bambino, ci sono più possibilità che l’affido funzioni.

Domande dei partecipanti:1. Nella fase di conoscenza della famiglia, quali sono gli elementi che aiutano a comprendere se quella famiglia è più adatta a un tipo di affido, piuttosto che ad un altro? Ci sono degli elementi di distinzione?2. Vorrei che venisse approfondito maggiormente l’affido diurno, come il servizio sceglie questa tipologia di affido e quali sono gli equilibri che si creano nel bambino.

Elena Fontana:Rispetto alla prima domanda, in realtà sono tante e sfaccettate le dimensioni e i servizi che si occupano di selezionare le famiglie

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affidatarie hanno già un po’ in mente alcune caratteristiche per cui una famiglia può andar bene, ad esempio tenendo conto anche della presenza o meno di altri bambini in famiglia, del fatto che sia una famiglia accuditiva… A seconda del tipo di bambino si cerca di vedere quale famiglia può andar bene. Ci sono tutti una serie di elementi che possono incrociare bene una determinata famiglia e quel bambino. Se teniamo come bussola il bambino, gli agganci ci vengono.Per quanti riguarda l’affido diurno, io credo che possa essere una buona carta da giocare laddove la famiglia d’origine abbia bisogno di una mano, ma sia una famiglia presente. Anche l’affido deve essere molto chiaro e trasparente, deve sapere dove si sta andando, qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere. Vedo che a volte invece viene utilizzato per mascherare situazioni più critiche, per mettere una toppa e non affrontare i problemi.

Quando si fa un progetto è sempre necessario tenere presenti tutti i soggetti che ruotano attorno all’affido, compreso il bambino, perché così facendo riusciamo a capire qual è la soluzione migliore per lui, che tipo accoglienza si può fare, quali relazioni può mantenere con la famiglia.Un’altra cosa che specifichiamo nel progetto sono i tempi, tutti devono esserne consapevoli. Se questi non si rispettano, se non ci sono le condizioni per far rispettare l’affido, vuol dire che c’è qualcosa che non ha funzionato. Dare dei tempi in questa sorta di contratto aiuta tutti, aiuta la mamma a non sentirsi derubata del bambino, aiuta il bambino ad avere più chiarezza e aiuta la famiglia affidatarie a sentire che sta dando un aiuto temporaneo, che non durerà per sempre.Non si cerca la famiglia affidataria giusta ma la famiglia affidataria idonea per quel determinato bambino.Nel momento in cui il bambino va in affido, i servizi non devono smettere di lavorare sulle dinamiche familiari, non basta la protezione e la tutela del bambino.

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Vi do una scheda per fare il lavoro di gruppo, dividetevi in 3/4 gruppi, misti.

Il quesito che vi do è: a seguito di una segnalazione da parte dei servizi sociali al Tm, il giudice decide da una serie di elementi che Ottavio, 8 anni, non può più vivere nella sua famiglia, quale risorsa scegliereste per lui?

Scheda:Ottavio, 8 anni, viene segnalato dai Servizi sociali al Tm per trascuratezza. La mamma lo lascia per lunghi periodi presso una zia mentre si occupa dei figli più grandi che sono violenti con lei e hanno guai con la giustizia.

Il nucleo familiare è così composto:• padre, 44 anni, panificatore, ha frequentato la seconda ragioneria• madre, 40 anni, casalinga, ha aiutato il marito e ha lavorato come contabile dai 18 ai 21 anni• figlio1, 18 anni, violento in casa, condannato per stupro• figlio2, 17 anni, condannato per rapina, fa uso di stupefacenti• figlio3, 8 anni, nessuno gli spiega nulla della situazione e per proteggerlo viene collocato dai prozii.

Padre e madre sono giudicati onesti e lavoratori anche se il padre è giudicato un “fanfarone”, uno che vuol vivere al di sopra delle proprie possibilità.Al momento della segnalazione il negozio del padre è in fallimento, la famiglia è indebitata per la casa in cui vivono, molto prestigiosa, i genitori sembrano in contrasto tra loro per gli stili educativi diversi nei confronti dei figli, i figli hanno comportamenti devianti.

Il padre e la madre si stanno separando, ma non vogliono fare un lavoro sulla coppia.

Lui manifesta l’intenzione di tornare nel Lazio per lavorare con i fratelli.Lei ha allacciato una relazione extraconiugale.

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Il figlio1 è ospite di una Comunità al carcere minorile dalla quale cerca di fuggire per sapere “come va a casa”.Il figlio2 fa lavori saltuari ed è in attesa di giudizio (affidamento ai servizi sociali).

Ad una ricostruzione degli eventi risulta che i problemi sono aumentati 4 anni prima in concomitanza con le crisi pantoclastiche del figlio1 che hanno ridotto male la nuova casa; i contrasti educativi sono di antica data e si sono espressi nelle differenti strategie di comportamento dei genitori: il padre in passato ha maltrattato fisicamente i figli maggiori.La madre ha sempre considerato il padre un inconcludente, inadeguato al progetto di lei di creare una famiglia felice.Spesso i genitori di lei l’hanno invitata a lasciare il marito.Il padre è l’ultimo di più fratelli che sono tutti riusciti a costruire qualcosa, ha ricevuto aiuto da loro ma anche rimproveri.

QUALE RISORSA SCEGLIERESTE PER OTTAVIO?

GRUPPO 1:Rispetto agli zii abbiamo ipotizzato che ci fossero già degli elementi negativi visto che si è arrivati ad una segnalazione dei servivi. Rispetto alla ricuperabilità c’era un po’ di ambivalenza nel nostro gruppo, cioè c’era chi diceva “io la darei un po’ per persa questa signora perché ci sono i figli più grandi e c’è l’investimento in un’altra relazione” e chi invece sosteneva “bisogna vedere se c’è già una prognosi o se invece si può fare”. Se avessimo dovuto allontanare il bambino subito, l’avremmo messo in una comunità, se invece avessimo avuto un po’ di tempo, si poteva valutare tra la famiglia e la comunità. La cosa importante è conoscere il bambino, avere degli elementi che dicano qual è la soluzione migliore.

GRUPPO 2: Anche per noi c’è una scarsità di informazioni, in particolare sul bambino, sul come sta vivendo questo momento.Noi abbiamo pensato come primo intervento una collocazione in

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comunità per verificare la situazione, valutarla e vedere quali dinamiche vengono messe in atto, anche per monitorare la relazione con gli zii. Ci è venuto il dubbio che comunque la zia non sia riuscita ad occuparsi di lui visto che comunque c’è stata una segnalazione per trascuratezza. Riguardo alla madre abbiamo ipotizzato un recupero della genitorialità perché la madre pare avere un minimo di consapevolezza sulla situazione tant’è che ha attuato il collocamento presso la zia. Per noi la risorsa migliore potrebbe essere inizialmente quella della comunità, per poi passare all’affido. Abbiamo anche pensato a come potrebbe essere la famiglia affidataria: una coppia con un padre presente e un figlio o due più o meno della stessa età del ragazzino per creare una condivisione della vita in famiglia e non essere esposti alle dinamiche della coppia.

GRUPPO 3: Noi abbiamo ipotizzato una segnalazione del Servizio sociale al Tm dopo una lunga conoscenza della situazione. Da questa segnalazione conseguire un decreto di allontanamento. Rispetto agli zii abbiamo ipotizzato che ci fossero già degli elementi negativi se si è arrivati ad una segnalazione dei servivi. Ci è sembrato tuttavia che una possibilità di cambiamento potesse arrivare dal fatto che i due genitori si stavano separando e quindi, forse la cosa migliore era quella di allontanare il minore, inserirlo in una comunità, anche per osservarlo e capire qualcosa di più da lui, e contemporaneamente fare una valutazione rispetto alla mamma, che sembrava la persona più cosciente. Nel caso di una valutazione positiva, il minore poteva essere inserito in affido, ed in particolare in affido di tipo nutritivo, nel caso invece di prognosi negativa, il minore poteva rimanere in comunità.

Elena Fontana: tutti i gruppi hanno pensato che ci sarebbero volute maggiori informazioni sul caso. Dalla scheda che voi avevate si dice che è stato segnalato per trascuratezza, si può presumere che il ragazzino fosse già conosciuto dai servizi e che sia stato segnalato dalla scuola.Effettivamente ci sono però poche informazioni sul bambino e se come servizio dovete fare un progetto, è chiaro che avete bisogno di sapere

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qualcosa in più. Certe volte si hanno tante informazioni sul nucleo familiare e sui genitori però poco si sa sul bambino. Altra cosa che tutti i gruppi hanno toccato è il discorso degli zii, cioè avete pensato: se la segnalazione viene fatta, allora neanche gli zii hanno saputo seguire il bambino, quindi è il caso che venga valutato bene se fare un affido a parenti o altro.Gli affidi a parenti sono sempre molto delicati e vanno sempre valutati molto bene perché con un rapporto di parentela è difficile dire al genitore, “tu devi vedere tuo figlio una volta a settimana”.Un’altra cosa che voi dite è cerchiamo di valutare la mamma, in realtà la valutazione familiare va fatta un po’ su tutto perché non è che anche gli altri figli stiano benissimo, ci sono tutta una serie di problematiche che ti fanno chiedere in realtà quanto questa coppia genitoriale sia positiva.In una situazione del genere, è vero che ci sono già elementi critici, però per dare un progetto più definito al futuro di Ottavio, andrebbe fatta la valutazione familiare con un decreto del Tribunale che obbliga i genitori a cambiare una serie di cose, e poi dopo sei mesi, fare il punto. Io devo dire che tra le vostre opinioni propenderei di più per dire: gli elementi che ci sono fino ad ora sono negativi, però adesso c’è un decreto, il bambino è allontanato, facciamola partire da qui la valutazione, magari l’allontanamento del bambino può smuovere un po’ le cose e rimettere in pista la mamma. Comunque l’allontanamento è sempre un momento di ripensamento da parte degli adulti. Non direi che questa situazione ha già una valutazione negativa, darei un’ultima possibilità, poi se la valutazione risulta negativa, allora si penserà al futuro di Ottavio, nella consapevolezza che la prognosi è stata negativa.

Qui da voi chi è che monitora le visite tra il bambino e la sua famiglia?

Partecipanti: È il servizio sociale che prende in carico la gestione anche degli incontri protetti nella figura dell’educatore o dell’assistente sociale. Abbiamo una sala giochi che viene adibita per gli incontri.

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formazione 2007

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formazione 2007

ADOLESCENTI E PREADOLESCENTI NEL CONTESTO DELLA TUTELA E DELL’ACCOGLIENZA: PERCORSO FORMATIVO RIVOLTO AGLI OPERATORI DEI SERVIZI, DELLE COMUNITÀ DI ACCOGLIENZA E AI RAPPRESENTANTI DELLE ASSOCIAZIONI DI FAMIGLIE AFFIDATARIE

Igino Bozzetto, psicologo psicoterapeuta, docente del Centro Terapia per la Famiglia di Padova e Palermo.Paola Baglioni, assistente sociale, formatrice degli adulti, p. o.Assessorato Interventi Sociali Comune di Vicenza, coordinatrice servizi per minori.Paola Marmocchi, psicologa psicoterapeuta, responsabile SpazioGiovani, Ausl di Bologna.Simona Cassani, psicologaMichela Tannini, psicologa

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Igino Bozzetto: Buongiorno a tutti, iniziamo questa giornata formativa facendo una presentazione incrociata, io presento Paola Baglioni e lei presenta me. Faremo una prima parte in cui cercheremo di descrivere il nostro punto di vista su preadolescenza e adolescenza e poi toccherà a voi lavorare in modo particolare su un caso, nella seconda parte.

Paola è una delle mie cape per 9 h. settimanali della mia vita professionale, è responsabile di tre servizi/strutture all’interno dell’Assessorato agli interventi sociali del Comune di Vicenza, un centro che interviene nei casi di maltrattamento e abuso sessuale, un Servizio Affidi interdistrettuale ed inoltre gestisce l’organizzazione di un Centro per le famiglie. Lei è il catalizzatore di queste tre strutture, da tempo lavora in questa direzione e nel tempo ha affinato una sua dote particolare, cioè quella di essere una formatrice, di organizzare le idee proponendole e restando sempre attaccata a quello che è il feedback degli altri. È madre di una preadolescente che tra l’altro è amica di mio figlio che è preadolescente. Personalmente siamo quindi immersi nel discorso preadolescenza.

Paola Baglioni: Igino è un collega, un amico e una fonte inesauribile di stupore. E’ uno psicologo, psicoterapeuta che ho avuto la possibilità di scegliere all’interno dell’attività che svolgo di coordinamento. Da molti anni è rimasto affascinato dal lavoro sistemico e da lì la sua formazione personale l’ha portato ad essere uno di quegli operatori che non ha paura di sporcarsi le mani con il sociale. Questa è una delle cose per cui lavoro volentieri con lui nel senso che riesce a darmi quella dimensione psicologica senza perdere di vista quello che è il lavoro

PREADOLESCENTI E ADOLESCENTI IN SITUAZIONE DI TUTELA, ELEMENTI DI DIFFICOLTÀ COMPORTAMENTALE E RELAZIONALE DEI RAGAZZI ACCOLTI IN AFFIDO E IN COMUNITÀ SINTESI GIORNATA DEL 15 FEBBRAIO 2007

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necessario con le famiglie, che è un integrazione del lavoro sociale. Lavora poco per me, lavora molto nella formazione in quanto lavora per il Centro di terapia familiare di Padova e Palermo. Si occupa da diversi anni di counselling.Condividiamo l’esperienza di aver avuto figli insieme a scuola, solo che il suo essendo maschio è preadolescente, la mia essendo femmina è gia nel pieno dell’adolescenza… sono in due fasi della vita diversa, nonostante abbiano solo un mese di differenza l’uno dall’altra.

Igino Bozzetto: inizio con un tradimento, siete di Bologna e sicuramente avrete visto un concerto di Guccini, quindi saprete con quale canzone inizia i concerti… “Canzone per un’amica” è una canzone che parla della morte di un’amica. Io prendo spunto da lui e solitamente inizio spesso le mie formazioni con il lucido di un quadro perché è polisemantico e va sempre bene. Stavolta però inizio con un esercizio percettivo che mi è stato inviato tempo fa da un collega.

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Vorrei che guardaste questa figura con attenzione. La domanda è: i colori dei quadrati A e B sono uguali?

SEI BRAVO CON I COLORI?

ALLORA GUARDA LA FIGURA CHE SEGUE ...

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I COLORI DEI QUADRATI

“A” E “B” SONO UGUALI!?

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NOO?!!?!!!

MEGLIO GUARDARE DI NUOVO...

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SEI CONVINTO?!

TORNA INDIETRO SE VUOI...

E NO...

NESSUNO HA CAMBIATO I COLORI DEI QUADRATI

QUANDO ERANO ISOLATI...

SEI APPENA STATO TESTIMONE DI UN FATTO

IMPORTANTISSIMO...

COME FUNZIONA IL TUO CERVELLO....

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LUI SI SFORZA AL MASSIMO PER VEDERE QUEI

QUADRATI COME DOVREBBERO ESSERE... UNO

NERO E L’ALTRO BIANCO... NON IMPORTA SE SONO

DELLO STESSO COLORE... I QUADRATI ADIACENTI

DICONO CHE HANNO COLORI DIFFERENTI... E

IL TUO CERVELLO TI FÀ VEDERE LA COSA......

DIFFERENTE....

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NON DIVENTARE NERVOSO.. QUESTO É

IMPORTANTISSIMO... QUESTO CI DA UNA

MAGGIORE PRECISIONE NELLA

VISUALIZZAZIONE....É

COSÌ CHE RIUSCIREMO A VEDERE PIÙ DETTAGLI IN

TUTTI I PAESAGGI CHE NOI VEDIAMO TUTTI I

GIORNI...PIÙ CONTRASTI TRA I COLORI....

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È SOLO UNA PROVA DEL FATTO CHE NON SONOIMPORTANTI LE COSE CHE ESISTONO NEL MONDO INTORNO A TE...LA COSA PIÙ IMPORTANTE È COME TU PERCEPISCI QUESTO MONDO!!BYE, BYE!! by Felipe Viegas

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Come avete notato, la nostra prima modalità di vedere ci dice che i quadrati hanno colori differenti, però se vengono ricontestualizzati li vediamo identici. Questo esercizio, per introdurre un’idea e cioè: ciò che dobbiamo tenere in considerazione rispetto all’adolescenza e alla preadolescenza, è il modo in cui le vediamo. In termini di fenomenologia si chiama Noesis (la modalità con cui si vedono le cose), Noema è ciò che si vede, quindi l’adolescenza è ciò che noi vediamo. Quello che cerchiamo di fare oggi è darvi un modo con cui vedere l’adolescenza.Il modo ha a che fare con un’idea sistemica, sono andato a cercare sul vocabolario e ciò che è venuto fuori è: “l’adolescenza è quella fase dell’età evolutiva che va dagli 11 ai 18 anni, distingue due fasi, dagli 11 ai 14 e dai 14 ai 18, la preadolescenza e l’adolescenza. Parla di forma alloerotica di pensiero logico e sottolinea la fragilità somatica e psicologica dell’individuo. Il tardo adolescente sviluppa un mondo fantastico di ipotesi sociali etico e politiche, lo sviluppo logico formale aiuta a maturare schemi sociali, la socialità è spesso l’equivalente della solidarietà con pari, che può essere più o meno buona, gli schemi di personalità sono la risultante di fattori naturali e culturali. Ambiente e fattori culturali concorrono a determinare lo sviluppo di ciascuno”. Ho trovato una descrizione molto individualista, cioè legata alla rappresentazione dell’individuo, si sottolinea solo nell’ultima parte che ci sono dei fattori culturali che potrebbero formare l’adolescente nella sua crescita. Questo che ho riassunto è uno dei modo di “vedere” l’adolescenza. Noi tra le varie possibilità ne abbiamo scelta una, un’idea che abbiamo individuato in alcuni autori che la portano avanti, uno dei quali è Baldascini, Direttore dell’Istituto di Psicoterapia relazionale di Napoli. Vorremmo oggi fissare l’attenzione su un concetto che riteniamo utile, l’idea di mobilità intersistemica.La vicenda adolescenziale, evento critico tra altri, (molti di noi usano un termine che ormai è diventata uno stereotipo linguistico “la crisi adolescenziale”), prova la forza e il limite del legame individuo-famiglia-collettività.

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Questi tre punti costruiscono dei legami, e l’adolescenza è quell’evento critico che prova la forza e il limite di quei legami. Rispetto all’adolescenza ci sono tre legami fondamentali, tre considerazioni di base: 1. l’adolescente ha l’obiettivo di trasformarsi 2. la trasformazione è garantita dal legame di appartenenza 3. questa trasformazione è resa possibile da un processo che viene chiamato mobilità intersistemica

Apro una parentesi a proposito di legame: quando voi vi rappresentate il termine relazione, solitamente avete in mente almeno 2 persone …Noi proponiamo un’idea semplice: l’unità minima di misurazione della relazione è la triade, noi partiamo da questo concetto perché è quello che ci aiuta di più a capire il concetto di mobilità intersistemica. C’è un bellissimo libro che consiglio a tutti di leggere, che è di due autrici, Fivaz e Cordoza, “Il triangolo primario”, che è il frutto di una ricerca che consiste nel mettere insieme un padre, una madre e un bambino di pochi mesi con delle consegne precise. Formavano un triangolo filmato da telecamere che riprendevano tutte le interazioni di questo nucleo e le consegne erano molto semplici: 1. La madre e il bambino giocano insieme, il padre osserva 2. Il padre e il bambino giocano e la madre osserva 3. Madre, padre e bambino giocano assieme 4. Madre e padre interagiscono mentre il bambino osservaQueste posizioni interattive rimandano ad abilità psicologiche: • La capacità di stare nel rapporto con un altro • La capacità di starne fuori • La capacità di interagire contemporaneamente con due partner senza sottrarsi né escludere alcunoNelle routine quotidiane queste situazioni interattive non si configurano come momenti tra di loro segmentati ma secondo sequenze diversificate, caratterizzate da transizioni che scandiscono il passaggio da una forma di interazione ad un’altra.La struttura della transizione consiste nelle due fasi di DECOSTRUZIONE (della configurazione precedente) e RICOSTRUZIONE (della nuova configurazione)Questo comporta la possibilità di svincolarsi da un legame ed affidarsi

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ad un altro. Questa modalità di comportamento appartiene a tutte le fasi della vita. Anche l’adolescenza può essere vista con queste modalità di rappresentare/organizzare le relazioni, per cui l’appartenenza dell’adolescente viene attivata con il sistema relazionale familiare, con il sistema relazionale dei pari e con il sistema degli adulti significativi. Se un ragazzo/a si muove dentro questi sistemi può crescere in modo sano.

Leggo un passaggio di Baldascini: la mobilità intersistemica consente all’adolescente di utilizzare le risorse che sono presenti nei diversi sistemi di riferimento. L’appartenenza al sistema familiare permette di attingere protezione e partecipare al sistema relazionale degli adulti, significa ricavare una spinta per impegnarsi nella realizzazione del successo, arrivare a degli obiettivi. Queste spinte coniugandosi con quelle che derivano dall’appartenere al sistema dei coetanei, il quale sostiene la trasgressione e l’opposizione al mondo adulto e familiare, danno la possibilità all’adolescente, nella sua mobilità intersistemica, di sperimentare il cambiamento e tollerare le ansie della crescita.L’adolescenza quindi è qualcosa che ha a che fare con la mobilità tra vari sistemi di appartenenza. La mobilità intersistemica serve a diventare un adulto normale (persona che è in grado di servirsi, in caso di necessità, delle funzioni dei sistemi relazionali che hanno permesso la sua realizzazione).Un altro passaggio, per dire come l’appartenenza e la mobilità tra i sistemi abbia dei riscontri individuali, cioè ogni ragazzo/a che si muove tra i sistemi rappresenta se stesso in una determinata maniera. Sempre Baldascini dice “a strutture relazionali interpersonali, corrispondono strutture relazionali intrapsichiche legate al sentire, all’essere e al pensare”: 1. sistema motorio-istintuale: è la spinta ad agire che permette ad ogni individuo di conservare automaticamente la propria vita, di riconoscere se stesso, di avere le sue sensazioni; 2. sistema emozionale : è la spinta a essere quelle particolari emozioni che emergono con più forza;

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3. sistema cognitivo: è la spinta a conoscere, ad andare oltre i confini dell’esistenza emozionale;Un adolescente è equilibrato nel momento in cui mette insieme questi tre sistemi e si muove tra essi. Possono comunque esserci dei momenti in cui un sistema è prevalente rispetto ad altri.Vi faccio un esempio: mio figlio Guido ha due amici, Giulio e Filippo. Come si comportano questi tre ragazzi di fronte ad un nuovo programma per computer? Guido si comporta attivando il sistema motorio istintivo (non guarda le regole e comincia a battere sui tasti e dopo un po’, dopo vari errori trova il modo per far funzionare il programma), Giulio legge le istruzioni, coglie i passaggi e poi li ripete (sistema cognitivo), Filippo partecipa e poi si mette a ridere, poi torna serio (sistema emozionale). Questi sistemi che in quel determinato momento vengono attivati, appartengono ad una storia, ad un contesto in cui sono stati favoriti rispetto ad altri. Nel periodo adolescenziale, nei rapporti con se stesso e con l’altro (genitori, adulti significativi, coetanei), si mettono in gioco i repertori emozionale, cognitivo e comportamentale.Guido nasce in un contesto in cui l’idea è che se si muove è un ragazzo sano, Giulio nasce in un sistema di adulti in cui il cognitivo fa parte del modo di stare insieme, Filippo appartiene ad una coppia genitoriale in cui per il padre si fa sempre una gran fatica a capire cosa stia provando mentre la mamma è molto chiara rispetto alle sue emozioni. I contesti relazionali in cui sono cresciuti hanno portato questi ragazzi a sperimentare in modo prevalente un sistema piuttosto che un altro.

La mobilità intersistemica l’abbiamo definita come un passaggio che facilita l’evoluzione e la trasformazione dell’adolescente, però talvolta gli adolescenti sono il frutto dell’immobilità intersistemica e cioè appartengono ad un unico dei tre sistemi, si sono fissati su quello e non riescono a fare il passaggio e ad utilizzare gli altri sistemi.Allora vi leggo il passaggio dal libro “Relazioni terapeutiche e adolescenti multiproblematici. L’esperienza della Rotonda”. Edizione: Franco Angeli. “Nel 1979 avevamo aperto presso il servizio pubblico il Centro di Terapia Familiare, centinaia di storie diverse in oltre 10 anni di attività, molti i fattori comuni, pochi straordinari o eccezionali, storie

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di madri rifiutate che rifiutavano i propri figli, storie di padri deboli incapaci di essere padri, storie di malattie organiche che devastavano la capacità della famiglia di reggere il peso di un destino ostile, storie di genitori in lite, storie di genitori incapaci a comunicare fra loro, storie di madri e di padri che stringevano alleanze disperate con uno dei propri figli, giungendo al punto da utilizzarli involontariamente come strumento contro l’altro genitore. Ragazzini nati già vecchi, uomini nell’aspetto con affetti da bambini, giovani donne troppo grasse, troppo magre, troppo belle, troppo brutte, ragazzi con la pelle butterata incapaci di guardarsi allo specchio, terrorizzati dalla propria immagine, incapaci di uscire di casa, di avere amicizie, ragazzi con tic devastanti, con angosce infinite, uomini mancati spaventati dal futuro e capaci di proteggersi dal muro nero dell’angoscia solo cadendo nel sintomo psichiatrico o nell’uso di sostanze, ragazzi che vedono la vita come uno strumento per darsi la morte”.Molti di voi avranno riconosciuto qualche ragazzo/a con cui hanno a che fare. Riprendo a leggere “d’altra parte, in nessuna età della vita, l’energia fluisce in modo così abbondante come nell’adolescenza, i riflessi sono veloci, le possibilità di apprendimento enormi, le cariche affettive corrono come fiumi in piena e il cambiamento così rapido da non poter essere previsto. Il rapporto tra stabilità e instabilità diventa difficile e i problemi consistenti sono alle porte di quella famiglia in cui i genitori sono abituati a routine che non prevedono il cambiamento”.Qui descrive molto bene l’irruenza con cui l’adolescente affronta la vita. Quando c’è un blocco o nel sistema dei pari o nel sistema familiare, quando c’è un immobilità intersistemica l’adolescente sviluppa dei comportamenti che possono essere a rischio per se stesso e per gli altri.Vi faccio un esempio attraverso un’esperienza fatta in una comunità in cui ho fatto una supervisione.

NitaiRagazzo di 12 anni , da 2 inserito in una comunità educativa. Frequenta la seconda media.Gli educatori portano la sua storia in supervisione perché nell’ultimo periodo è diventato una “testa calda”, ha aumentato le provocazioni

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e i comportamenti simmetrici sia a scuola che in comunità. Riesce ad attivare emozioni di rabbia negli adulti che intervengono e le punizioni (fare i compiti da solo, non usare la play-station), hanno l’effetto di farlo diventare momentaneamente agnellino.La spiegazione di tali comportamenti, condivisa da tutti gli operatori, li mette in relazione con i rientri dalla famiglia che sono diventati più frequenti e hanno aumentato la tensione. Nitai è il secondo figlio di una coppia di genitori separati; la madre è una persona debole e vulnerabile all’alcool; il padre recentemente si è accoppiato con una nuova compagna la quale non desidera avere rapporti con Nitai. La sorella maggiore, di 19 anni, è in pratica adottata dai nonni paterni.

I comportamenti “rischiosi” sono descritti in termini di: • mancanza di rispetto • sfida all’adulto • passaggi all’azione (sbatte lo stendino della biancheria addosso al muro dopo essere stato ripreso da un educatore per il fatto di avere picchiato con una penna sulla testa di un compagno di comunità)

L’allargamento del campo osservativo permette agli educatori di situare il comportamento di Nitai dentro alcuni schemi relazionali che gli provocano confusione: 1. La comunità ha il compito di riferire al padre sul buono o cattivo funzionamento del figlio, l’educatore dice quindi al padre che Nitai si è comportato male, il padre, che aveva minacciato il figlio di togliergli quell’unica attività svolta insieme a lui, sciare, se si fosse comportato male, dopo aver ascoltato il rendiconto dell’educatore, porta comunque il figlio sulle piste di neve. 2. Il progetto subisce continue evoluzioni soprattutto perché basato su premesse diverse dei partecipanti: il padre dice al figlio che è in comunità perché è un “arto marcio” mentre l’assistente sociale gli dice che la sua permanenza dipende dalla situazione familiare. 3. In base alle premesse Nitai riceve messaggi diversi:

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per il padre tornare a casa dipende dai comportamenti adeguati che il figlio dovrà mettere in campo, per l’assistente sociale può tornare se la situazione familiare cambierà, la madre pensa che essere in comunità è un’ingiustizia, per gli educatori non è lui che deve decidere ma l’assistente sociale e il Tribunale per i Minorenni.

Diventa più chiaro allora che il comportamento di Nitai ha a che fare con la relazione affettiva, con la relazione di attaccamento che non ha sperimentato nella sua famiglia; in pratica non è voluto dal padre, che è preso dalla storia con la compagna e con la quale ha intenzione di fare figli, non è pensato dalla madre, presa dalla sua storia di debolezza e di ritiro dal mondo, non è nemmeno voluto dai nonni che si sono rifatti con la sorella maggiore né da quest’ultima che ha trovato un proprio equilibrio.Il comportamento può essere visto come un messaggio rivolto a chiunque cerchi di entrare in relazione affettiva con lui e ha lo scopo di riposizionarlo in una dimensione di controllo della relazione.Proviamo a spiegarlo meglio attraverso l’idea di comportamento utile, quando cioè un comportamento a rischio è utile nel senso dell’evoluzione dell’adolescente.Lascio la parola a Paola Baglioni.

Paola Baglioni: io me la sono raccontata così questa storia, ci sono sistemi interni (l’agire, l’emotivo e il cognitivo) che l’adolescente utilizza, che sono in connessione tra loro e che fanno riferimento anche al contesto di vita che attraversa (famiglia, gruppo dei pari e gruppo degli adulti). Quando il ragazzo è sano questi sistemi funzionano tutti, quando il ragazzo ha un disturbo attua comportamenti a rischio.Silvia Bonino, prof.ssa di Psicologia dello sviluppo afferma “Per comprendere le funzioni dei comportamenti a rischio occorre fare riferimento al rapporto attivo tra l’adolescente e il suo contesto di vita, le azioni a rischio sono per l’adolescente modalità dotate di senso utilizzate in uno specifico momento della vita ed in un particolare contesto per raggiungere obiettivi ritenuti significativi sul piano personale e sociale”. Quindi i comportamenti a rischio, così come i comportamenti sani,

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servono a sviluppare due capacità: 1. la propria autonomia, la propria identità di adulto (ubriacarsi può essere un modo per dire ai genitori sto crescendo e sono diverso da te); 2. l’appartenere ad una comunità, sentirsi parte della società (andare allo stadio con le spranghe può essere un modo per sentirsi parte della compagnia).Di fronte a comportamenti a rischio forse il nostro compito, come educatori, operatori, famiglie affidatarie… è di aprire delle alternative, di mostrare che ci sono comportamenti sani che hanno lo stesso significato di quelli a rischio. Cito Giovanni Pascoli “la ricerca è perenne ma si fa sempre più intensa nelle ore del vespro e della notte”. Questa frase riferita all’adolescenza mi fa venire in mente il concetto di soglia e di confine, se pensiamo che l’adolescenza è una fase di passaggio, la persona che la sta vivendo ha due possibilità: rimanere sulla soglia oppure attraversarla e andare oltre il confine (stai passando il limite). In questo caso bisogna aiutarli a ridefinire quali sono i limiti e bisogna aiutarli ad abitare la soglia. Per molti adolescenti è una sofferenza vivere sulla soglia e allora la nostra funzione è quella di aiutarli in questa transizione.

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Bibliografia

• E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery, Il triangolo primario, Raffaello Cortina Editore, 2000;• M. Mariotti, R. Frison, Relazioni terapeutiche e adolescenti multiproblematici, Franco Angeli, 2000;• G. Cecchin, M.C. Koch, “I piedi nel piatto”, in Connessioni “Orizzonti, cornici, prospettive”, vol. 10, 2002;• L. Baldascini, Vita da adolescenti. Gli universi relazionali, le appartenenze, le trasformazioni, Franco Angeli, 1993;• L. Baldascini, “L’adolescente tra appartenenze e trasformazioni”, in Terapia Familiare n. 44, 1994;• S. Bonino, Il fascino del rischio negli adolescenti, Giunti, 2005.

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Igino Bozzetto: partiamo dai disagi di cui abbiamo parlato l’altro giorno dicendo che non tutti i disagi provati dagli adolescenti si traducono in disturbi che abbisognano di interventi articolati e seri, anche se purtroppo a volta succede.

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quarta edizione (APA, 1994) il disturbo borderline è caratterizzato da una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e da una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; 2) un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione; 3) alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili; 4) impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto come ad esempio spendere eccessivamente, promiscuità sessuale, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate, ecc.; 5) ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante; 6) instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore (per es., episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni); 7) sentimenti cronici di vuoto; 8) rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (per es., frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici);

IL LAVORO DI RETE SINTESI DEL 22 FEBBRAIO 2007

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9) ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress.

Quando ci sono quattro, cinque elementi che ricorrono nel tempo, questo quadro compone il disturbo bordeline di personalità. Tale disturbo viene aiutato ad esistere attraverso la compartecipazione dei sistemi che hanno a che fare con il ragazzo.

Laura Colangelo, in un suo articolo contenuto nel numero 78 della rivista Terapia familiare (2005), propone l’ipotesi che il Disturbo Borderline di Personalità sia “l’esito di un processo comprensibile solo se si tengono in considerazione tre livelli interconnessi: il livello semantico, quello sistemico-relazionale e quello delle risposte istituzionali che si sono succedute”.

A LIVELLO SEMANTICO: le famiglie si situano su una polarità vincente/perdente.Nella storia di Milos, la madre musulmana è stata ripudiata dal marito ortodosso (il padre gli ha imposto di sposare una moglie serba, 1992) e presenta una fragilità psichica, agli occhi di Milos è una perdente.

Attività e determinazione sono modalità vincenti, arrendevolezza e lasciarsi andare sono perdenti. Non si può scappare dalla logica perché la relazione con l’altro è centrale per la definizione del sé.Il risultato è un’escalation del confronto competitivo che regola le relazioni.La ricerca di visibilità del ragazzo porta a condotte provocatorie che espongono a conseguenze sociali: abuso di alcol o sostanze stupefacenti, uso incongruo di psicofarmaci, spendere e giocare in modo patologico, provocare un’escalation simmetrica (Milos al campo da calcio)

Incontro Milos per la prima volta in una partita di calcio, è in quinta elementare e ad un certo punto della partita comincia a passeggiare dentro al campo, avanti e indietro. Gli allenatori lo chiamano dicendogli di uscire dal campo, ma lui esce solo dopo del tempo, quando l’allenatore comincia a corrergli dientro.

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Per lui questa cosa era una sfida, una provocazione che va letta dentro la polarità vincente/perdente: essere vincenti significa essere determinati, arrivare fino in fondo. L’identità di Milos si costruisce in questo modo.

A LIVELLO SISTEMICO – RELAZIONALE: il figlio è preso dentro la dinamica della coppia e del rapporto con le famiglie estese e va a indicare l’adeguatezza o meno di uno o di entrambi i genitori. Spesso ciò attiva un processo in cui il figlio cerca visibilità attraverso le sue azioni. Il vissuto è quello di non essere visti (Milos non è visto dal padre e quando raggiunge la madre nemmeno da lei).

IL LIVELLO DELLA RISPOSTA ISTITUZIONALE: le istituzioni vengono sempre più coinvolte e quando subentra la diagnosi che dà lo statuto di sintomi, l’effetto è duplice. Quello che porta con sé la diagnosi a volte è anche un processo di cronicizzazione che da una parte aiuta a creare una tregua, ma dall’altra mette il ragazzo dentro un processo di altro tipo. I passaggi che riguardano la storia di Milos sono stati più o meno questi: 1. i vicini di casa o i genitori al parco segnalano i comportamenti di Milos 2. la scuola interviene per attivare l’assistente sociale 3. il servizio prende in carico la situazione dopo il ricovero della madre in psichiatria 4. Milos va in comunità 5. cominciano i comportamenti a rischio (in bici in contromano in strada molto trafficata, altalena digiuno/abbuffate, fughe, provocazioni scolastiche ) 6. intervento della NPI, disturbi dell’umore, farmaci, aggressioni agli educatori e ai compagni di comunità 7. fughe e atti incongrui (girare a petto nudo in stazione ferroviaria) 8. intervento della polizia 9. ricovero in psichiatria 10. comunità terapeutica

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Nel nostro cercar di capire come essere di aiuto a Milos, abbiamo pensato che mettere insieme a parlare quegli operatori che in quel momento erano attivi, fosse utile.Abbiamo chiamato questo “incontro di rete”.Avevamo sperimentato questa modalità nel campo della tutela quando bisogna prendere una decisione in una situazione complessa e articolata. All’incontro hanno partecipano tutti gli operatori e la famiglia, alla famiglia abbiamo chiesto di portare chi volesse affinché potesse esser d’aiuto. L’incontro di rete è un incontro molto difficile da attivare anche perché pensiamo che sia sempre molto complicato parlare di un caso e dire certe cose in presenza della famiglia, ma quando questo succede abbiamo notato che la famiglia acquista molta più fiducia negli operatori.

Nel caso di Milos è stato fatto questo incontro di rete al quale hanno partecipato la responsabile del servizio (Paola Baglioni), lo psicologo (Igino Bozzetto), il neuropsichiatra infantile, il pediatra, gli operatori della comunità, l’assistente sociale, la mamma e Milos, tutti i soggetti che in quel momento erano parte attiva nella vita di Milos.

Paola Baglioni: Ma che cosa intendiamo per lavoro di rete?

Gli operatori hanno maturato un’idea di loro stessi e dei servizi nei quali agiscono come esaustivi e, di fronte a una società “ipercomplessa”, dove le cose si presentano normalmente in maniera sempre più intricata, dove la stessa individuazione del problema risulta difficile, sono entrati inevitabilmente in crisi.Per dirla con le parole di Folgheraiter, docente dell’Università di Trento che lavora molto sul sociale ed è autore di numerosi testi su queste problematiche: ci si interroga principalmente su quale sia il senso, il significato delle professioni di aiuto negli attuali contesti societari, ritenendo che gran parte delle analisi sulla crisi delle politiche pubbliche di Welfare abbiano trascurato questa componente, la si può definire come crisi di “impotenza rispetto ad una presunta possibilità di manipolazione dei singoli problemi e dei singoli disagi del cittadino in stato di bisogno”.

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L’aiuto è stato, quindi, pensato come un’azione centrata sul caso (sulla persona-utente considerata solo come portatore di disagio) da parte di vari operatori sociali, trasformati in veri e propri terapeuti medici.Questo modello di intervento si è rivelato insufficiente per far fronte alla complessità dei problemi sociali in quanto, come ci dice F. Folgheraiter, “difficilmente si lasciano ricondurre a schemi operativi”.Di fronte a questo stato di cose, è diventata allora sempre più urgente la necessità di un cambiamento (che peraltro sta gradatamente emergendo e i cui segni sono già evidenti), che conduca “verso una ‘reticolazione’ della cura sociale” (relazione tra le persone) e quindi verso una maggiore integrazione negli interventi per il benessere.Il lavoro di rete opera sinergicamente “con i sistemi”, non tenta di ripararli uno a uno; agisce a partire dai punti di forza, non diagnostica ed attacca i punti di debolezza; crea coinvolgimento, movimenti ed automatismi nel sociale, non isola un sistema (la famiglia) dagli altri (altre famiglie, altri interessati, ecc.) per trafiggerlo con tattiche e contro-tattiche terapeutiche, come fossero freccette acuminate, dentro una stanza di terapia; crea cura, maturazione o sviluppo (dunque: anche riduzione o risanamento della “patologia”) procedendo a latere di eventuali o possibili patologie; crea premesse al benessere, non lo realizza direttamente di propria mano.Un approccio idoneo a “gestire ordini di complessità maggiori”, di andare alla ricerca di soluzioni che risultano essere il risultato, “l’effetto cumulato di fattori differenziati che si riallacciano ad unum come tanti nodi di una rete”, di considerare tutti gli elementi del problema prima e della soluzione poi, come strettamente collegati fra loro.La “filosofia” su cui questo approccio si regge induce a considerare la realtà come reticolare. Punto nodale è il convincimento che, per far fronte con successo alle varie situazioni problematiche, è necessario considerarle come fenomeni relazionali in quanto solo così si riesce a comprenderle a fondo.In quest’ottica, dunque, la singola persona colpita da disagi non è considerata una realtà isolata, ma una persona che vive in un certo ambiente e che si trova a confrontarsi e a intessere relazioni con altre persone che, inevitabilmente, influenzano in negativo o in positivo il suo livello di benessere sociale.

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I problemi individuali vanno, quindi, visti come strettamente correlati al tessuto relazionale, alla qualità dell’ambiente in cui la persona è inserita.Ecco allora che nel lavoro di rete l’intervento non si focalizza sul singolo soggetto che prova il disagio, ma piuttosto sulla sua rete di relazioni che risulta essere carente o disturbata. L’intervento non si pone l’obiettivo di evidenziarne i punti deboli, ciò che non va, per poi eventualmente porvi rimedio, ma di valorizzarne, attivarne, mobilizzarne e organizzarne, tramite interventi strategici, le potenzialità naturali, le risorse umane.La crisi del Welfare State lo si può considerare, sottolinea Folgheraiter, come un vero e proprio “accelleratore della riscoperta delle reti sociali di supporto”.Queste reti che rappresentano l’informale (le relazioni familiari, amicali, di aiuto/mutuo-aiuto), rivestono una grande importanza nei processi di cura delle persone anziane, dei minori a rischio, dei malati di mente ecc., proprio perché “riescono a soddisfare i bisogni di aiuto concreto assieme ai cosiddetti bisogni psicologici: di affetto, di rassicurazione, di accettazione, di integrazione della personalità”, cose che invece non riescono a fare i servizi istituzionali, o meglio riescono a farlo solo in parte.Il lavoro di rete prevede il pieno coinvolgimento e la corresponsabilizzazione delle persone portatrici del problema e della loro rete personale di aiuto; in passato si era soliti guardare all’utente semplicemente come a “qualcuno che riceve l’aiuto”.Si tratta, quindi, di liberare gli utenti “da un ruolo prevalentemente passivo contrassegnato da diritti e garanzie assistenziali, quali potenziali destinatari dei benefici per riconoscerli come partner attivi, potenziali definitori dei propri bisogni “.Gli operatori sociali che adottano l’approccio di rete, impegnati quindi ad attivare, a facilitare, a organizzare relazioni dentro la comunità, possono infatti accrescere e allargare la capacità, il potere (community empowerment) che la comunità ha di accogliere al proprio interno i suoi problemi, le sue difficoltà; sempre però in un’ottica integrata con i servizi formali che operano al suo interno.

Atteggiamento relazionale e principio dell’indeterminazione.

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L’operatore deve trovare il modo giusto per accostarsi armonicamente a queste relazioni. Per riuscire in questo intento è indispensabile che egli tenga a freno il suo attivismo interventista e sappia attendere, con la convinzione che la sua azione, seppur essenziale nel processo di aiuto, è parziale, manca di una parte: quella dei diretti interessati e di coloro che ne sono coinvolti. L’aiuto, o se si vuole la soluzione, è relazione e quindi “non si trova già fatta nella cerchia degli interessati” così come neppure “si trova già fatta nella cerchia degli operatori coinvolti“; si costruisce solo strada facendo, con lo sforzo congiunto dell’una e dell’altra parte che di per sé sono insufficienti ma che, se opportunamente amalgamate, possono compensarsi o migliorare le loro reciproche debolezze, con l’unico risultato di divenire più efficaci.In altre parole, deve sentire che dietro a questo modo di pensare e di agire vi è un operatore che ha assunto un atteggiamento che Folgheraiter chiama “relazionale”, atteggiamento che mette in crisi l’operatore e che gli richiede un grande sforzo interiore proprio perché apparentemente antiprofessionale. Egli infatti, per essere in linea con questa logica, deve per forza di cose ridimensionarsi, accettare di farsi mettere in discussione e soprattutto non sentirsi più competente di ogni altro a risolvere i problemi, anzi molto spesso, ci dice il nostro autore, si trova in condizioni tali da dover accettare l’idea che ciò che fa l’utente per se stesso è più importante di quello che possa fare egli stesso, in prima persona.Viene a perdere così quella centralità e quella capacità esclusiva di risolvere i problemi degli altri, che gli è propria nei contesti tradizionali dell’operare nei servizi sociali.Nel lavoro di rete di fronte a un dato problema deve regnare inizialmente una certa indeterminatezza sul da farsi.Il professionista operatore sociale, se vuole procedere reticolarmente deve tollerare la frustrazione di non capire, di non sapere e di dover operare nell’incertezza.“Un operatore sicuro, che sa già cosa deve fare e non si chiede se ciò che vuole fare possa essere anche diverso, è un esperto irrigidito dalla propria apparente sicurezza, e come tale inadeguato alla

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complessità”.Procedendo in questa maniera si lascia aperta la possibilità di poter percorrere varie strade, senza però conoscere esattamente quale sia quella giusta; niente è predefinito, niente è imposto gerarchicamente.Una cosa soltanto, ci ricorda Folgheraiter, deve essere chiara fin dall’inizio all’operatore esperto: la direzione seppur generica in cui muoversi, l’orientamento da dare all’azione di aiuto, il resto (dove arrivare, come arrivarci) lo deciderà con gli interessati in itinere.Egli, nell’intervento di aiuto, funge da “guida”, ma è una guida particolare il cui compito è sostanzialmente quella di collaborare con i suoi interlocutori per cercare di capire assieme, rispetto alle sollecitazioni che emergono, quale sia, fra i tanti, il percorso migliore da seguire.Alla fine però, ci fa notare l’autore, sono gli interessati che devono avere l’ultima parola e decidere se si sia o meno effettivamente prodotto un miglioramento della situazione iniziale. Va detto, infatti, che non sempre un intervento di aiuto si conclude con il ritrovamento della soluzione giusta, a volte si arriva solamente a individuare il modo più sicuro per poter proseguire.

La sala si divide in sottogruppi per lavorare su alcuni casi portati dai partecipanti. La consegna che viene data ai gruppi riguarda la costruzione della “Mappa delle relazioni sociali” rispetto al caso che viene analizzato.I casi : 1. S. è un bullo, fuma e consuma alcol, fa giochi pericolosi 2. C. è lenta cognitivamente, utilizza il malessere fisico per evitare le relazioni con i pari, è ossessivamente attaccata a relazioni virtuali ed è attratta dai coetanei marginali 3. A. fa uso di alcol, è aggressivo 4. T. ha agiti fisici contro gli educatori, dipendenza dai giochi di ruolo, stato di ansietà, fuga dalla realtà 5. M. chiuso, non comunica le emozioni, il suo umore è variabile, oscilla tra la dipendenza e l’autonomia 6. A. mostra insicurezza e richiede di essere accompagnata nel

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percorso di autonomia 7. L. velocizza una serie di autonomie sposa un ragazzo straniero irregolare

La mappa è divisa in 4 quadranti, il primo ha a che fare con la famiglia, il secondo con gli amici, il terzo con la scuola/lavoro e il quarto con il resto, cioè con tutte quelle relazioni che il ragazzo ha sviluppato nell’ ambito dello sport, della religione, della politica, del tempo libero, della comunità…

La mappa si utilizza tenendo in considerazione anche tre cerchi: il ragazzo è al centro e appartiene a tutti quadranti. Il primo cerchio è il mondo delle relazioni più importanti, senza le quali non si può esistere, il secondo è il mondo delle relazioni importanti, ma non vitali, e il terzo è quello delle relazioni superficiali.

Ciò che emerge dai lavori di gruppo è l’esistenza di una rete di persone e ambiti più o meno importante, dentro la quale vivono e si muovono i

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ragazzi presi in esame.

Igino Bozzetto: se provassimo a costruire la mappa di Milos, nel primo quadrante, quello familiare, troveremmo la mamma e l’ex marito della mamma nel primo e nel secondo cerchio, nel quadrante delle amicizie ci sarebbe un amico nel cerchio delle relazioni superficiali, nel quadrante del resto troveremmo invece, posizionati nei diversi cerchi, alcuni operatori della prima comunità che lo ha ospitato, alcuni operatori dei servizi sociali ed alcuni della comunità che attualmente lo sta ospitando. Il quattro quadrante, quello delle relazioni scuola/lavoro sarebbe vuoto perché in questo momento Milos non sta facendo nulla. L’idea che l’operatore si fa di Milos leggendo la mappa, è che in questo momento sia fisso sulle relazioni familiari, che ci sia qualcosa che gli impedisce di muoversi verso gli altri sistemi. Quindi come operatori dobbiamo cercare di intervenire aiutando Milos ad esplorare gli altri ambiti.

Scopo della mappa quindi è capire la rete esistente del ragazzo e le sue relazioni.

Una volta costruita e letta la mappa, il compito dell’operatore è quello di essere guida, di dire non ho la soluzione ma “posso provare a coordinare la rete esistente”.Il lavoro di rete ci consente di pensare alla forza delle relazioni, nessuno è importante ma tutti assumono importanza in quanto facente parte di un sistema più complesso.Il nostro ruolo è quello di vedere se c’è una mobilità del ragazzo in tutte le sfere oppure in blocco, fare in modo che il ragazzo riduca le energie e il tempo che dedica solo ad una sfera, che lo immobilizza, e che si sblocchi rispetto agli altri sistemi, dedicando quindi più tempo alle altre relazioni.

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Bibliografia

• F. Folgheraiter, Operatori sociali e lavoro di rete. Saggi sul mestiere di altruista nelle società complesse, Centro Studi Erickson, 1994;• M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori editore, 2003;• P. W. Barnett, Comunicazione e condizione umana, Franco Angeli, 2003;• G. Cecchin, “Revisione dei concetti di ipotizzazione, circolarità e neutralità: la curiosità come quarta linea guida”, in Ecologia della mente, 1987;• L. Colangelo, “Il Disturbo border line di personalità come esito di un processo di costruzione sociale”, in Terapia Familiare n. 78, 2005;• V. Ugazio, Storie permesse e storie proibite, Bollati Boringhieri, 1998;• E. Euli, Casca il mondo. Giocare con la catastrofe. Una nuova pedagogia del cambiamento, La Meridiana, 2007;• F. Olivetti Manukian, “Possiamo ancora cambiare”, in Animazione sociale, vol. 8-9, 2006.

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IL RAPPORTO TRA ADULTO L’ACCOGLIENTE E L’ADOLESCENTE, LA GESTIONE DEL CONFLITTO SINTESI GIORNATA DEL 27 FEBBRAIO 2007

Paola Marmocchi introduce il tema dell’adulto accogliente attraverso una illustrazione dei cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni che hanno modificato le relazioni adulto-adolescente all’interno della famiglia e degli altri contesti di crescita; • Dalla famiglia estesa alla famiglia nucleare che ha comportato una riduzione delle figure di riferimento e di accudimento interno al contesto familiare, una perdita di senso di appartenenza e l’eliminazione di conflittualità che marcavano differenze e linee generazionali con una predominante ruolo di socializzazione esterna alla famiglia. • Modificazione dei ruoli genitoriali Le madri sempre più impegnate all’esterno, con richieste di parità ed un notevole carico organizzativo ed emotivo legato alla prevalente gestione femminile della famiglia. I padri non rappresentano più l’autorità, la regola, il limite, il maschile che differenzia; questa materializzazione ha portato a rapporti più connotati dall’affettività ma alla mancanza di una funzione paterna. • Ruolo dei figli, in genere cercati, più in età avanzata, superinvestiti affettivamente, con una socializzazione precoce ed organizzata. • Tutto ciò ha segnato il passaggio che Pietropolli Charmet definisce dalla famiglia etica alla famiglia affettiva (“I nuovi adolescenti”). C’è più dialogo, più attenzione al benessere del figlio, più rispetto per le inclinazioni personali, minori conflitti e più aspettative di successo. In genere si evita il conflitto, lo scontro, per alcuni genitori sembra impossibile dire no, dare limiti e regole.

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Sembrano mancare le barriere generazionali; a volte si alterna permissivismo e autoritarismo, c’è simmetria nel rapporto adulto-adolescente.Manca un terzo, un “ordine sociale superiore” a cui fare riferimento per crescere; manca il rispetto della regola autorevole in quanto posta dall’adulto, sembra non esistere più la regola autorità/anteriorità, cioè il ripetto e il confronto, anche conflittuale, con la generazione precedente, che rappresenta l’ordine sociale e la possibilità di crescere, differenziandosi (“L’epoca delle passioni tristi”).Gli adolescenti si identificano prevalentemente con i pari, nuova famiglia entro cui trovare calore e identità, con il rischio di annullare le differenze che fanno crescere. La realtà mediatica, prepotente ed invadente, è diventata vero nuovo membro del contesto familiare; confonde realtà e finzione, appiattisce l’elaborazione, il dubbio, spettacolarizza e banalizza sentimenti e relazioni. L’uso che gli adolescenti fanno dei nuovi mezzi di comunicazione indica il nuovo paradigma: esisto solo se vengo visto attraverso queste forme di condivisione e diffusione dei messaggi e delle comunicazioni.Questi media veicolano valori sociali sempre più basati sul consumo; l’ideologia neo-liberista propone come unico valore la merce, per il possesso della quale non ci sono più limiti.I genitori soddisfano, spesso anticipandoli, i bisogni materiali, a scapito di quelli affettivi di ascolto, cura, interesse, impegno nella relazione, a volte troppo faticosi ed impegnativi per adulti sempre più stressati, logorati da impegni e ritmi frenetici o da rapporti di coppia frustranti.Tutto ciò ha portato ad adolescenti più fragili, incapaci di tollerare l’attesa, il dolore, la frustrazione, il limite.Infatti oggi si parla di patologie narcisistiche, la patologia del vuoto, della noia, della mancanza di stimoli, della incapacità di elaborare, mentalizzare, attendere la soddisfazione di un bisogno. Tutto ciò si esprime allora con azioni rischiose, a volte per sé a volte per gli altri. Quelle delle ragazze si esprimono in genere sul corpo, quelle dei maschi all’esterno.Alcune ricerche hanno dimostrato che circa un 12% degli adolescenti

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soffre di una psicopatologia, mentre un 15% può essere definito vulnerabile, cioè in difficoltà rispetto al percorso di crescita; molti adolescenti comunque attraversano questa fase senza dimostrare una sofferenza e un disagio particolari.Gli adolescenti di cui si occupano gli operatori presenti sono in genere quelli con relazioni più disturbate, che hanno subito traumi, abusi, maltrattamenti e che sono cresciuti in contesti che non hanno offerto quelle condizioni necessarie per una crescita sana.Questi adolescenti difficili suscitano negli operatori intense emozioni; la relazione con loro può essere imprevedibile, difficile da gestire e espone al rischio di fare confusione fra sé e l’altro.Questi adolescenti, per la loro tendenza ad agire le emozioni sul piano comportamentale, rendono complesso e precario il mantenimento del ruolo e dell’identità professionale. Essi spesso tendono ad usare il contesto di cura per distanziarsi dalla propia sofferenza, frammentandola in uno “spazio psichico allargato”.

A questo punto possiamo tentare di identificare attraverso un lavoro in sottogruppi quelle che sono le caratteristiche dell’adulto che si relaziona con gli adolescenti.

Paola Marmocchi propone di dividersi in 3 sottogruppi, ognuno dei quali avrà un facilitatore, Simona Cassani, Michela Tannini, Paola Marmocchi.La consegna che viene data è quella di identificare le caratteristiche dell’adulto che facilitano la relazione con l’adolescente e quelle che la ostacolano. Ad integrazione del lavoro in sottogruppi si illustrano quelle che lo psicologo statunitense C. Rogers, appartenente all’area della Psicologia Umanistica, ha definito le condizioni necessarie e sufficienti per la relazione di aiuto. (“Un modo di essere, Psicoterapia e relazioni umane”)Egli teorizzò, a partire dall’ambito della psicoterapia per estendere le sue riflessioni ad ogni relazione di aiuto, che la presenza nel facilitatore

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di alcune caratteristiche permettono all’altro di riprendere il cammino e la crescita interrotti e di progredire verso una situazione di maggior benessere.Ritroviamo in queste descrizioni molte caratteristiche che sono state identificate nel lavoro di gruppo:

EMPATIA

Si intende la capacità dell’operatore di comprendere in modo profondo l’esperienza emozionale dell’altro, senza giudizi, valutazioni, ma cercando di mettersi veramente nei panni della persona che si cerca di aiutare. Parliamo quindi di un ascolto attento, partecipe e rispettoso, che cerchi di comprendere ma non faciliti una eccessiva identificazione, che può diventare fonte di confusione. Occorre cioè vedere il mondo “come se” si fosse l’altro, ma non confondersi con l’altro. La comprensione empatica necessita anche di una verbalizzazione da parte dell’operatore, che deve comunicare all’altro ciò che ha compreso della sua esperienza.

ACCETTAZIONE POSITIVA INCONDIZIONATA

L’altro può fidarsi, aprirsi e permettersi di esplorare il suo mondo interno solo se si sente profondamente accettato per quello che è, nella sua essenza più profonda, nelle sue sofferenze, esperienze, caratteristiche. Ciò non significa che l’operatore accetta ogni comportamento, rispetto al quale potrà esprimere una valutazione, ma non c’è preconcetto o valutazione rispetto alla persona, che viene accettata per com’è.

CONGRUENZA

Si intende la necessità che l’operatore sia in contatto e consapevole delle proprie emozioni e vissuti presenti in ogni relazione, ma anche delle proprie rappresentazioni mentali rispetto all’adolescenza, che possono influire sulla relazione. Il ricordo della propria adolescenza, l’avere o meno figli adolescenti, le propie conflittualità sono variabili molto significative, che possono portare ad una eccessiva identificazione

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con l’adolescente, fino a rischiare di essere confusivi o complici, o sostituirsi ai genitori o al contrario, allearsi con gli aspetti di ribellione dell’adolescente.

Gli adolescenti difficili possono scatenare emozioni e reazioni molto potenti negli operatori, generando difese a volte massicce rispetto alle ansie suscitate negli adulti e nelle istituzioni, che possono manifestarsi attraverso varie modalità difensive: • Prendere le distanze • Passaggi all’atto • Agire come altre persone significative hanno agito nella vita di questi ragazzi • Giocare il ruolo della vittima/persecutore/salvatore

L’operatore che si trova a contatto con questi adolescenti difficili dovrebbe essere il più possibile una figura adulta “sufficientemente sana”, in grado cioè di offrire una relazione continuativa, coerente, cooperativa, di costituire cioè quella base sicura in grado di aiutare i ragazzi a riprendere un percorso di crescita.Proiezioni e attribuzioni di ruolo possono, se diventano fissi e non elaborati, creare confusione e pericolo sia per l’integrazione della personalità che per il corretto funzionamento dell’istituzione di cura.Infatti possono esservi proiezioni e attribuzioni reciproche anche fra diversi operatori o diversi servizi, soprattutto in periodi di cambiamento e particolare stress a livello organizzativo, per cui gli aspetti emotivi intensi e non elaborati creano confusione e disagio a discapito di un buon lavoro.

Spesso si rende necessario anche per gli operatori sospendere il fare per riflettere sia con i colleghi che con supervisori esterni.

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LAVORO IN SOTTOGRUPPI

Il lavoro in sottogruppi, ciascuno dei quali composto da una ventina di persone e da un facilitatore, aveva lo scopo di coinvolgere attivamente i partecipanti in una riflessione inerente la relazione tra figure adulte e adolescenti e, in particolare, la dimensione del conflitto, a partire dalle esperienze vissute, in modo che queste ultime rappresentassero la base per l’integrazione teorica.Durante la prima fase del lavoro in sottogruppi si è chiesto ai partecipanti di pensare a quali caratteristiche della figura educativa potessero a loro avviso facilitare la relazione con l’adolescente e quali invece potessero ostacolarla. Dalla discussione all’interno di ogni sottogruppo, poi condivisa in plenaria, è emerso un generale consenso nell’identificare tutta una serie di caratteristiche facilitanti (e, di converso, ostacolanti) il rapporto tra la figura adulta e l’adolescente che potevano poi esser ricondotte sostanzialmente a quelle che Rogers ha definito “le tre condizioni necessarie e sufficienti” per creare una relazione di aiuto, rappresentandone diverse possibili declinazioni.

Condizioni facilitanti:chiarezza di ruoli e funzionicapacità di dare dei limitiascolto non giudicanteaccoglienza, contenimento e protezionecondivisioneconfronto, trasparenzavalorizzazione dell’altro, restituzione delle sue risorseempatiaautoconsapevolezzafiduciacoerenzaflessibilitàcuriosità, apertura al mondocapacità di tener presente il contesto in cui vive e la rete relazionaleaccettazione

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Condizioni ostacolanti:rigiditàincoerenzamancanza di limiti e di senso di realtàconfusione di ruoli e funzioniincapacità di mettersi in giocoindifferenzastile autoritario/permissivoinvadenzaatteggiamento giudicantemancanza di trasparenza, non chiarezzachiusura

Nella seconda fase del lavoro, invece, ad ogni sottogruppo è stato chiesto di riflettere sulla parola “conflitto” attraverso un brainstorming a partire dal quale si è poi attivata una discussione che ha permesso di toccare e vivere la complessità di questo termine. Pur con le dovute differenze, è emerso come in tutti i partecipanti la parola “conflitto” evocasse inizialmente rappresentazioni e vissuti negativi, richiamando concetti come quello di guerra, violenza, rottura del legame, mancanza di incontro e di comunicazione, rabbia ed emozioni soverchianti e distruttive. Di conseguenza, la figura adulta per essere educativa avrebbe dovuto evitare il conflitto e, in particolare, tutte quelle emozioni ad esso collegate, specialmente la rabbia, considerate “sbagliate”, immature e pericolose.Durante la discussione, tuttavia, in ogni sottogruppo si è poi arrivati a problematizzare questa visione così negativa del conflitto e si sono aperte molte strade di riflessione circa la possibilità che potesse rivestire anche un ruolo positivo all’interno di ogni relazione, tra cui quella tra figura educativa adulta e adolescente, dove assume un significato particolare su cui occorre interrogarsi. La questione fondamentale, che ha preso pian piano forma, è risultata essere quella di una gestione “sana”del conflitto da parte dell’adulto, che sia cioè funzionale alla crescita della relazione. Questa gestione “sana”, come è emerso dalle riflessioni, non chiede a quest’ultimo tanto di evitare le emozioni “sbagliate”e il conflitto stesso bensì di assumersi il ruolo di contenerlo, pensarlo, significarlo per poi

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riportarlo nel modo più costruttivo possibile all’interno di una relazione comunque fondata su quei presupposti emersi durante la prima fase del lavoro.

IL CONFLITTOA conclusione del lavoro nei sottogruppi si presentano alcuni cenni teorici:

Zingarelli, 2001

:: Scontro armato, combattimento:: Contrasto, scontro, urto aspro e prolungato di idee,opinioni e simili

CONFLITTO(ideogramma cinese)

:: Pericolo:: Opportunità

Il conflitto non è di per sé buono né cattivo

Può essere uno spazio di creatività, in cui attivare competenze di negoziazione e comunicazione

:: Buona comunicazione:: Giusta distanza:: Minor danno

Da una visione agonistica del conflitto

Ad una visione del conflitto come evento

:: ecologico:: reversibile:: riparabile:: negoziabile

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STILI EDUCATIVI DI FRONTE AL CONFLITTO:

PERMISSIVO fuga, rinuncia, arrendevolezza, sconfitta

AUTORITARIO vittoria ad ogni costo, utilizza ricatti, minacce, forza DEMOCRATICOmantiene la relazione, prevede flessibilità e confronto, è centrato sul benessere reciproco e sulla ricerca di soddisfazione dei bisogni di entrambi

Abilità di base

:: Pensare al conflitto come un problema da gestire non come una guerra da combattere:: Frenare l’impulsività e attendere prima di agire:: Evitare il muro contro muro. Valorizzare e rispettare i contenuti e le ragioni dell’altro:: Non rimproverare l’altro ma esprimere in prima persona ciò che si pensa e si sente:: Non avere paura a dire no quando è necessario

• G. Pietropolli Charmet, I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida, Raffaello Cortina Editore, 2000.

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Bibliografia• C. Rogers, Un modo di essere, Martinelli, 1993;• M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004;• Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti, Io non vinco, tu non perdi. Un kit per promuovere l’educazione alla pace e la gestione dei conflitti tra ragazzi, UNICEF, Roma, 2004.

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indagineconoscitiva 2005/2006

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indagineconoscitiva 2005/2006

ACCOGLIERE I BAMBINI IN COMUNITÀ

Mariagnese Cheli Psicologa, Responsabile del Centro Specialistico Il Faro, Ausl di BolognaChiara Boresi Assistente Sociale Specialista, Ausl di Bologna Sara Giacopuzzi Assistente Sociale Specialista de Il Faro, Comune di Bologna

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1Il Centro Provinciale contro gli abusi e i maltrattamenti all’infanzia “Il Faro”, gestito dall’Ausl di Bologna, è composto da un’equipe multiprofessionale e svolge le proprie attività grazie ad un’apposita convenzione che coinvolge la Provincia di Bologna, il Comune di Bologna, il Policlinico S.Orsola-Malpighi, le Aziende Sanitarie Locali di Bologna e di Imola, il Consorzio dei Servizi Sociali di Imola e il Servizio Sociale Minori del Dipartimento di Giustizia Minorile.L’indagine qualitativa è stata finanziata con appositi fondi dell’Amm.ne Provinciale e Regionale ed è stata realizzata grazie alla preziosa collaborazione di tutte le realtà intervistate e al contributo scientifico della Prof.ssa Bruna Zani dell’Università di Bologna.

ACCOGLIERE I BAMBINI IN COMUNITÀ

Il contributo illustra l’indagine conoscitiva, realizzata nel 2005/06 dal Centro Specialistico “Il Faro” di Bologna1 sulle risorse per l’accoglienza dei bambini ed adolescenti allontanati dalla famiglia di origine per necessità protettive e riparative, presenti e attive nel territorio provinciale.

1. Percorso metodologico Conoscere in modo approfondito le risorse presenti sul territorio al fine di rispettare l’appropriatezza degli invii, degli interventi e dei costi, capire quali nodi operativi gli educatori si trovano quotidianamente ad affrontare e quali risorse sono messe in campo per fronteggiare l’accompagnamento di bambini danneggiati da esperienze traumatiche nel loro sviluppo. Queste alcune delle curiosità che hanno sostenuto il progetto, condotto in collaborazione e in condivisione con il Coordinamento Provinciale delle Comunità e con la Commissione Tutela Minori della Provincia. L’indagine conoscitiva ha previsto la mappatura aggiornata di tutte le risorse presenti in provincia (dati aggiornati al 31.01.06), attraverso la realizzazione di interviste semi-strutturate. Si è tenuto conto di quelle

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aree di indagine a nostro avviso cruciali per determinare l’identità di ogni singola comunità: il progetto istituzionale, la tipologia degli utenti, standard e caratteristiche strutturali, professionalità degli operatori, il percorso di presa in carico individuale e lo stile di funzionamento della vita comunitaria, gli strumenti di progettazione e valutazione delle attività, il rapporto con i servizi, con il territorio e con la famiglia d’origine.

2.Tipologia delle comunità intervistateSul territorio provinciale sono attive 47 strutture di accoglienza di cui:2 comunità di pronta accoglienza destinate a minori in situazione di grave pregiudizio che richiedono una risposta urgente e temporanea di ospitalità;19 comunità socio educative, destinate a preadolescenti ed adolescenti per i quali non è possibile, per un periodo anche prolungato, la permanenza nel nucleo familiare originario;3 comunità di tipo famigliare, caratterizzate dalla convivenza continuativa e stabile di due o più adulti che offrono un rapporto di tipo genitoriale ed un ambiente familiare sostituivo;13 case famiglia che accolgono persone con caratteristiche diverse, prive di ambiente familiare idoneo, allo scopo di garantire un ambiente di vita caratterizzato da un clima di disponibilità affettiva con rapporti individualizzati. Il personale è composto da due persone, preferibilmente una figura maschile e una figura femminile.Poiché la maggioranza delle case famiglia attive nel territorio provinciale fa capo ad un’Associazione religiosa e presentano una forte analogia filosofica, abbiamo intervistato un campione rappresentativo.In totale sono state intervistate 36 strutture.

3. Caratteristiche dei bambini ed adolescenti accoltiAl 31.01.2006 sono inseriti nelle strutture provinciali 270 minori: 168 maschi e 102 femmine, di cui 123 di origine italiana e 147 di differente etnia. L’età media di ingresso in comunità educativa si attesta sui 14 anni circa, mentre quella di ingresso in comunità familiare è attorno ai 7 anni. I bambini ed adolescenti stranieri sono accolti sia in comunità miste

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(in totale 28)5 , sia in comunità dedicate alla sola accoglienza di minori stranieri. Queste ultime sono sorte direttamente per rispondere al bisogno specifico di accoglienza, oppure si sono trasformate in seguito per rispondere ad una progressiva presenza di bambini/adolescenti migranti sul nostro territorio esplosa verso la fine degli anni ’90. La maggior parte delle strutture accoglie sia maschi sia femmine, solo 10 comunità differenziano l’accoglienza in base al sesso del minore. 3.1 Ragazzi stranieriLe maggiori criticità individuate dagli operatori che lavorano con minori stranieri ruotano attorno alla necessità di approfondire la cultura di provenienza del minore, alle implicazioni psicologiche ad essa connesse. Non a caso sta diffondendosi la figura del mediatore culturale straniero e, in talune comunità, la figura educatore-mediatore culturale. Anche la mancanza o scarsa conoscenza della storia e anamnesi famigliare pregressa dei ragazzi o anche semplicemente i dati anagrafici utili ad identificarli, è percepito come un ostacolo rilevante nella costruzione di una relazione interpersonale. La maggior parte degli operatori intervistati dichiara un vissuto di esclusione quando i ragazzi utilizzano la loro lingua per non farsi capire; molto avvertita è la fatica nella gestione dei conflitti (regole, autorevolezza, aggressività), la difficoltà ad accogliere e a comprendere le problematiche di tipo psichiatrico. Sentita è l’esigenza di accedere ad una supervisione di gruppo per elaborare non solamente le situazioni dei minori accolti, ma anche i vissuti dell’operatore nella gestione quotidiana. Le lunghe attese per garantire loro un sostegno psicologico non facilitano certamente l’individuazione di una progettualità futura, questo limite si aggrava quando vi è difficoltà o incertezza ad ottenere la regolarizzazione del ragazzo prossimo al compimento della maggiore età. In generale è auspicata la possibilità di essere “collegati in rete” con altre comunità di accoglienza e di meglio conoscere ed utilizzare le risorse del territorio per facilitare l’integrazione sociale.3.2 Bambini e adolescenti vittime di abuso sessuale

5 Queste comunità si rivolgono anche alla fascia 0-14 anni mentre le altre accolgono esclusivamente preadolescenti e adolescenti.

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13 comunità accolgono minori vittime di abuso sessuale, mentre 23 riferiscono situazioni multiformi di abuso (sessuale, fisico, psicologico, grave trascuratezza). Solamente una comunità educativa si definisce come risorsa specializzata per l’abuso sessuale.Non sono esenti dall’impatto con il fenomeno le comunità per minori stranieri, nelle quali la maggior parte delle adolescenti risulta vittima di violenza sessuale. È tuttavia sottolineata la differente natura del disagio psichico manifestato dalle giovani vittime della prostituzione rispetto a quello delle vittime di abuso sessuale intrafamiliare: le prime esprimono per lo più comportamenti antisociali e difficoltà di adattamento ad un nuovo stile di vita, le seconde manifestano una maggiore sofferenza intrapsichica che deteriora complessivamente il piano affettivo, relazionale e comportamentale. Congelamento affettivo, bassa autostima, problemi scolastici, comportamenti seduttivi e manipolativi, chiusura e confusione rispetto alla propria storia, ben illustrano la complessità che si pone all’educatore nella gestione quotidiana del bambino abusato.Gli interventi diagnostici e di cura sul minore vittima di abuso sono in genere richiesti ai servizi, solo in 4 casi la comunità si è dotata di risorse specializzate interne. Molti bambini/adolescenti vittime di abuso sessuale sono reduci da fallimentari esperienze di affido e di adozione (dato non quantificato ma purtroppo ricorrente nelle interviste), esprimono talvolta una sessualità aggressiva, incontenibile e tendono a riprodurre su coetanei o bambini più piccoli l’abuso o a porsi come oggetto sessuale. Quest’ultimo aspetto pone rilevanti questioni sul versante della gestione delle dinamiche di gruppo, un comportamento che preoccupa molto gli educatori che spesso non sanno come gestirlo e come intervenire adeguatamente. Le difficoltà maggiormente riscontrate riguardano la capacità di instaurare un rapporto di fiducia, di improntare relazioni affettive fondate sull’empatia. Da qui il bisogno degli educatori di accedere alla supervisione, in quanto spazio mentale per elaborare e condividere le emozioni a volte intense e “disturbanti” suscitate dall’abuso sessuale (impotenza, paura, rabbia, disgusto…), alla risorsa formativa per quanto riguarda le responsabilità professionali e giuridiche, ai supporti specialistici interni/esterni per gestire le dinamiche gruppali, strumenti

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non sempre garantiti3.3 La famiglia di originePer quanto riguarda i minori stranieri emerge che il progetto migratorio risulta sostanzialmente programmato e “pilotato” dalla famiglia di origine; conseguentemente, si osserva uno scarso o nullo coinvolgimento dei parenti nel progetto educativo specie se si prefigura il rischio di rientro del figlio, vissuto come fallimento del progetto migratorio. La comunità è percepita prevalentemente come occasione di riscatto sociale ed economico e la dimensione temporale futura assume contorni sufficientemente predefiniti, a differenza dei minori collocati in struttura per evidente inadeguatezza della famiglia biologica.Nelle altre realtà emerge un panorama variegato e complesso sul versante dei rapporti con le famiglie di origine. Molto avvertito è il tema del recupero delle capacità genitoriali, nella quasi totalità dei casi ritenuta una funzione propria dei servizi sociosanitari, non sempre tuttavia garantita. Un operatore ha ben sintetizzato tale nodo cruciale “il rapporto con le famiglie è tenuto in prevalenza dai servizi, ma a volte non hanno tempo per lavorare con i genitori: così il bambino lavora su di sé e fa passi in avanti, mentre la famiglia non cresce e non è pronta a riprendersi il figlio”. L’impressione ricavata dalle interviste è che la funzione di valutazione per il recupero delle capacità genitoriali sia piuttosto svincolata dal progetto complessivo di accoglienza, scarsamente pensata come passaggio necessario già nella fase iniziale del progetto di intervento. Il recupero si connota come azione esterna alla comunità, salvo alcune eccezioni in cui tale funzione è co-gestita.Molti sforzi sono orientati ad evitare il pericolo di restituire al bambino/adolescente un’immagine negativa della sua famiglia e, al contempo, a difendere il luogo dell’accoglienza dalle sue possibili ingerenze e influenze negative. La struttura è percepita come uno spazio il più possibile “neutro” dedicato al bambino. Alcune realtà (6 in totale) offrono spazi e personale per lo svolgimento di incontri protetti. Il rischio è tuttavia rappresentato dal pericolo di pensare che lo spazio neutro sia solo spazio del e per il bambino e non un luogo in cui accogliere anche le sue relazioni significative.È talvolta colta una sorta di sfiducia nei confronti dei genitori da parte degli

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operatori dei servizi, che sta indirizzando alcune comunità ad instaurare canali privilegiati di collaborazione con quelle realtà operative invianti che garantiscono maggiormente la presa in carico complessiva della famiglia, già nella fase iniziale del progetto di inserimento del minore in struttura. È interessante rilevare che nelle realtà in cui è consolidata la supervisione interna, appare maggiormente diffusa la consapevolezza di attivare in ogni caso una qualche forma di consenso con la famiglia, al fine di evitare il pericolo di cronicizzare una sostituzione di fatto delle funzioni genitoriali. Si è potuto constatare, infatti, che la regolarità dei rapporti tra comunità e famiglia di origine facilita lo sviluppo di modalità collaborative e al contempo contenitive del conflitto di lealtà che spesso imprigiona i piccoli ospiti.Nelle interviste emerge una considerazione essenziale: il ruolo cruciale del servizio nella costruzione di una relazione collaborativa tra risorsa e famiglia biologica; quest’ultima diviene via via più aperta e disponibile a possibili sviluppi di maggior coinvolgimento se supportata nella fase critica iniziale, susseguente all’allontanamento. Al contempo, se la comunità avverte il sostegno del servizio, sembra più disponibile ad accogliere le istanze della famiglia biologica. Quest’ultima sembra a sua volta modificare l’iniziale atteggiamento diffidente, squalificante, rivendicativo, aggressivo o di contrapposizione, quando avverte maggiore apertura da parte della comunità, probabilmente, quando sente accolta la paura di essere espropriata del figlio e riesce a superare lo stigma del proprio fallimento.Complessivamente, emerge una maggiore disponibilità delle realtà a funzionamento famigliare, in particolare le Case Famiglia, a “mettersi in gioco” con le famiglie d’origine, ad esprimere un atteggiamento di minor “delega” ai servizi della gestione del rapporto, pur nel rispetto delle disposizioni emanate dal servizio inviante e dall’autorità giudiziaria.Vale la pena chiedersi se ciò può correlarsi a maggiori difficoltà della famiglia biologica nel rapportarsi con quelle realtà che, percepite come “istituzionali”, evocano un confronto non paritetico.Le maggiori criticità sono comprensibilmente rilevate nelle situazioni in cui l’allontanamento non è consensuale bensì “coatto” vale a dire deciso dall’autorità giudiziaria e dal servizio (purtroppo la quasi totalità dei casi) ambito nel quale le relazioni possono divenire assai

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problematiche. Negli altri casi il panorama relazionale acquista ben differenti connotazioni perché è condiviso il senso di ciò che si deve mettere in campo per la tutela del figlio. In tal senso si orienta la prospettiva relazionale riferita dagli operatori impegnati con i minori d’età stranieri e non accompagnati: i rapporti con la famiglia d’origine o con i parenti, quando non rimangono “nell’ombra”, si semplificano e divengono collaborativi poiché fondati sul consenso. La comunità è identificata come una preziosa occasione di riscatto sociale, economico, educativo e questo pensiero è trasmesso dalla famiglia con convinzione al figlio.Dalla nostra indagine emerge che i tempi di permanenza sono contenuti entro l’anno per circa il 40% della popolazione minorile accolta in comunità, mentre circa il 60% registra tempi di permanenza superiori ai 2-3 anni (il 7% oltre i 4 anni). Si tratta un dato a nostro avviso significativo, poiché testimonia la non temporaneità dell’allontanamento nella maggior parte delle situazioni. Sarebbe tuttavia riduttivo limitare la causa alla scarsità o inefficacia degli interventi di recupero sulle famiglie di origine anche se certamente ha una notevole influenza. Un altro dato emerge con rilevante preoccupazione: il consistente aumento dei casi di allontanamento giudiziario. La maggior parte dei bambini/adolescenti accolti è interessata a provvedimenti emessi dall’Autorità Giudiziaria. La contrazione degli interventi protettivi fondati sul consenso della famiglia costituisce uno dei principali fattori maggiormente incidenti sulla durata dei tempi di permanenza e induce a riflettere su un altro rischio: che la risorsa per l’accoglienza si trasformi in una sorta di “ultima spiaggia” per il minore, che i tempi siano destinati a protrarsi perché non vi sono altre possibilità, come sembra essere il caso di molte Case Famiglia, più disponibili delle altre risorse ad accogliere minori portatori di gravi handicap sia fisici sia psichici.

4. Progetto educativo e vita comunitariaDal punto di vista del progetto educativo in generale (filosofia ispiratrice, obiettivi, riferimenti valoriali, metodologia, tipologia delle prestazioni offerte, organigramma, regolamento interno), emerge un panorama molto variegato. Le comunità sono nate e cresciute come risposta alle

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richieste del territorio dove sono localizzate, trasformandosi in funzione di problemi ed esigenze delle realtà locali. Al di là delle differenze riconducibili alla tipologia dell’ente gestore (cooperativa, ente locale, associazioni, congregazioni religiose), che ne configura anche una diversa filosofia legata alla propria storia e alla propria specifica “missione”, secondo il Coordinamento Nazionale delle Comunità per Minori (CNCM) è possibile individuare alcuni elementi comuni di un modello che si può considerare condiviso (Cesarini, 2004):• costruzione di un progetto individualizzato in collaborazione con il servizio inviante • centralità della relazione con il minore• articolazione interna in piccolo gruppo, per costruire una dimensione di familiarità (salvaguardia di ritmi e clima familiare)• personalizzazione degli spazi interni• rapporti stretti con il territorio• ricerca di possibili alleanze con la famiglia di origine, se ritenute non pregiudizievoli per il minore• il riconoscimento ai servizi territoriali delle funzioni di coordinamento, monitoraggio, controllo e regia della presa in carico.Un contributo importante all’individuazione di un modello di riferimento per le comunità è offerto dalle riflessioni di Emiliani e Bastianoni (2000): le autrici analizzano in particolare le condizioni che consentono all’ambiente comunità di esercitare una funzione realmente protettiva nei confronti dei minori, attraverso la relazione con adulti significativi, capaci di promuovere un cambiamento nella definizione di sé e del significato attribuito alla propria condizione di svantaggio, riducendo la catena di reazioni negative vissute.Queste indicazioni sono realizzate concretamente nell’esperienza delle strutture da noi prese in considerazione. È generalmente sottolineata l’importanza della gestione del quotidiano, del prendersi cura e del raggiungimento della massima autonomia personale possibile, ambiti cui è assegnata grande attenzione e importanza: le routine (il momento del pranzo/cena in comune, la preparazione dei pasti), i compiti, così come gli aspetti relativi alla convivenza (porre regole, limiti, norme e farle rispettare).

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Molto avvertito è il tema della gestione dei conflitti che sottende l’interrogarsi sugli effetti derivanti da stili educativi differenti nell’approcciare ed affrontare il continuo “mettere alla prova” dei minori: “c’è chi è più accogliente, chi più dialogico, chi più normativo”, ci sono diverse modalità con cui si prendono le decisioni. Nella costruzione del progetto educativo particolare importanza è data all’incontro con il servizio per conoscere il “caso”, alla definizione dei tempi e degli obiettivi fra cui il ricongiungimento familiare, oppure l’autonomia personale (se vicino alla maggiore età) o il rimanere in comunità. Quest’ultima eventualità significa mantenimento del proprio ambiente di vita: stessa scuola, personalizzazione del luogo in cui vive, farla diventare casa propria, invitando amici, supporto al senso di vergogna dei più grandi a rivelare che si vive in comunità, all’ importanza della rielaborazione dei motivi per cui si è in comunità.Nello specifico, le due Comunità di pronta accoglienza esaminate condividono il principio ispiratore del lavoro e dell’esperienza comunitaria in quanto strumento principale per aiutare il/la ragazzo/a a maturare un senso di appartenenza ad un luogo, a mettersi in relazione con l’esterno, con i servizi, con tutte le opportunità. Le Comunità educative esprimono modelli educativi di riferimento differenziati sul versante della teoria adottata (freudiana, lacaniana, sistemica ecc.), ma l’elemento che le accomuna ed è ritenuto strumento “principe” è costituito dal lavoro d’équipe e dal raggiungimento della massima autonomia del minore accolto promuovendone lo sviluppo delle potenzialità cognitive, affettive e sociali.La vita comunitaria è scandita dai ritmi e dalle routine sia all’interno sia all’esterno della struttura, prestando attenzione alle difficoltà di ciascuno dei ragazzi ed alle dinamiche che si creano nel gruppo dei coetanei. La suddivisione dei compiti è importante affinché i ragazzi sentano la struttura come se fosse casa propria e questo è essenziale per aiutarli nella conquista dell’autonomia e nell’autogestione.Gli educatori svolgono funzioni di cura, ascolto, contenimento, protezione, valorizzazione, sostegno e si fanno garanti del mantenimento del rispetto delle regole di convivenza.Per quanto riguarda le Comunità di tipo famigliare nella fase di accoglienza l’obiettivo principale è quello di rendere meno

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traumatico possibile l’allontanamento del minore dal nucleo familiare d’appartenenza, sia curandone lo spazio fisico, sia prestando particolare cura nei comportamenti e nel linguaggio verbale e non verbale. Dopo un periodo di osservazione del/lla minore la presa in carico avviene dal punto di vista educativo.La vita quotidiana in struttura recupera la normalità della scansione temporale dei pasti, degli impegni scolastici e di studio, delle attività ricreative e sportive in un clima relazionale di collaborazione e condivisione, di sostegno nel percorso di raggiungimento dell’autonomia.Nelle comunità di tipo famigliare ad orientamento religioso le famiglie sono ispirate da principi cristiani di tolleranza, di pazienza, di amore, rivolti alla condivisione di ciò che si possiede e all’accoglienza dei bisognosi, mosse dalla convinzione che insieme si è in grado di avere più forza e più risorse per aiutare gli altri. I problemi che nascono all’interno delle famiglie sono superati grazie all’aiuto reciproco ed alla collaborazione fraterna.La maggioranza delle Case famiglia intervistate sono d’ispirazione cattolica ed esprimono una consolidata esperienza di accoglienza e di volontariato attivo sul territorio. Alcune famiglie vivono in un unico contesto residenziale, altre solo nello stesso territorio. Trascorrono una vita semplice, fondata sulla preghiera e la condivisione, che si realizza con il servizio al prossimo.Si creano relazioni fondate sul modello della famiglia naturale, all’insegna della complementarietà dei ruoli. Una caratteristica che contraddistingue le case famiglia afferenti alle istituzioni di tipo religioso è la disponibilità ad accogliere quasi indistintamente chi ha bisogno. Una risorsa importante è rappresentata dalla solidarietà all’interno della rete di conoscenze e relazioni che gravitano attorno alle case famiglia. La finalità è quella di garantire alle persone in stato di difficoltà, di abbandono, di emarginazione la possibilità di vivere in un contesto di vita familiare che faciliti, attraverso relazioni stabili, affettivamente significative, personalizzate, il processo di crescita della persona e l’evoluzione positiva della situazione di disagio in cui si trovano.Dato che lo scopo è favorire e sviluppare le capacità personali che portano verso l’autonomia, l’accoglienza si protrae per il tempo

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necessario al superamento delle problematiche che l’hanno richiesta e finché sussistono le condizioni. Il tema del raggiungimento della maggiore età non è avvertito in modo così pressante come nelle comunità educative. La gestione della vita quotidiana è quella tipica delle famiglie numerose: al mattino i ragazzi vanno a scuola o al lavoro; tutti danno una mano, i più grandi aiutano i più piccoli.

5. Professionalità degli operatori e bisogni formativiDall’analisi dei nostri dati emerge un panorama soddisfacente sul piano della professionalità acquisita. Le professionalità presenti sono in genere educatori professionali (corsi regionali), molti laureati in Scienze dell’Educazione o in Psicologia, alcuni assistenti sociali.Si distinguono due Comunità il cui personale ha effettuato un percorso di analisi personale e formazione psicoanalitica. In rari casi gli operatori non hanno una qualifica professionale specifica, altri stanno attualmente facendo un percorso di riqualificazione. Gli operatori delle Comunità per minori stranieri non accompagnati fruiscono di corsi organizzati dalla stessa cooperativa e hanno partecipato a corsi regionali per educatori e mediatori culturali.Nelle altre realtà, la situazione varia, a seconda del livello di istruzione e della preparazione specifica della coppia che gestisce la Casa: in genere la carenza di preparazione specifica è compensata da una lunga esperienza di accoglienza, dalla partecipazione a corsi regionali, dal confronto con altri gruppi di genitori.Le 3 Comunità familiari sono una realtà molto variegata, con alcuni membri educatori professionali, altri con l’esperienza di essere genitori, altri ancora ricorrono all’aiuto reciproco e alla collaborazione tra famiglie della stessa comunità di appartenenza, come le Case famiglia. Le 2 Comunità di Pronta accoglienza hanno persone in formazione (studenti universitari) nel primo caso e operatori giudiziari nel secondo.Si è ampiamente sottolineata, nella ricca letteratura sull’argomento concernente le comunità di accoglienza, l’importanza della funzione riparativa ricoperta dall’adulto di riferimento per il bambino/ragazzo provenente da esperienze “malevolenti”, una funzione strutturante, una sorta di “impalcatura” (Bastianoni, 2000) che possa consentire

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ai minori accolti in comunità di cambiare la traiettoria evolutiva superando difficoltà, acquisendo competenze relazionali e sociali. Questa funzione cruciale per la salute mentale di molti ragazzi sembra contrastare con l’immagine professionale svalutante nutrita da molti intervistati soprattutto in quelle realtà in cui non è garantito il supporto alla funzione educativa. Quello dell’educatore è pensato per lo più come un mestiere in cui si è sottoposti alla frustrazione in maniera totale; spesso i riconoscimenti sono lenti rispetto a quanto è investito nel lavoro.Un aspetto evidenziato riguarda, infatti, la percezione di una scarsa considerazione come categoria professionale: il sentirsi “la nuova classe operaia”, operatori pagati poco, inquadrati con qualifiche inferiori al titolo posseduto, con contratti a termine, a fronte di un carico di lavoro pesante e impegnativo; questo spiega il turnover alto presente in diverse strutture e il rischio di burnout. Bisogni ora opportunamente accolti dalla Regione Emilia Romagna che si è impegnata a promuovere le attività di formazione permanente degli adulti e degli operatori impegnati nelle strutture di accoglienza, introducendo anche la supervisione come risorsa cui accedere almeno mensilmente.Altro aspetto che emerge nelle interviste riguarda una sorta di autoreferenzialità con cui gli Enti che gestiscono le diverse strutture impostano la formazione: forse manca una regia complessiva o momenti di confronto a livello sovraordinato (provinciale), che diano maggiore unitarietà alle esperienze in corso, individuando basi di riferimento condivise e comuni a tutti, pur nel rispetto delle singole specificità.

6. Rapporti con i servizi e il territorioNella nostra realtà provinciale le comunità operano in un panorama organizzativo dei servizi alquanto diversificato e disomogeneo per quanto riguarda la gestione delle deleghe sui minori, aspetto percepito con criticità poiché foriero di differenti stili di lavoro. Le principali variabili per poter garantire il buon andamento progettuale sono individuate nella chiarezza circa il ruolo del referente del servizio, nella reciproca conoscenza delle proprie e altrui risorse, nella chiara definizione delle modalità di richiesta di inserimento (non solo dettata dall’urgenza, ma meditata sulla base delle caratteristiche del minore,

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della sua famiglia e della risorsa di accoglienza individuata) e dei tempi di permanenza. Anche la definizione preliminare della tempistica e delle finalità delle verifiche, il luogo in cui si effettuano, chi vi partecipa e la chiarezza circa le responsabilità sono considerate variabili sostanziali per l’efficacia del progetto educativo.Emerge, in ogni caso, un sistema complessivo soddisfacente di relazioni con i servizi invianti. Gli aspetti più critici sono individuati, prevalentemente, nella difficoltà dei servizi a garantire una presenza costante e continuativa a causa dell’elevato turn-over dei professionisti sociali, nella confusione dei ruoli tra operatori sociali e operatori sanitari rispetto alla referenza sul caso, nella difficoltà a garantire la presa in carico specialistica dei minori e delle loro famiglie.Un quadro più definito e soddisfacente emerge dalle interviste con operatori delle comunità che accolgono minori stranieri: la collaborazione con i servizi è maggiormente strutturata, con verifiche frequenti e contatti continuativi. Il Comune di Bologna ha istituito, nell’ambito del Settore Servizi Sociali Area Emergenza Minori un servizio specialistico, con operatori dedicati. Lo stile di lavoro è consolidato e collaudato.Rispetto al tema dei rapporti tra comunità e ambiente sociale abbiamo rilevato che le case famiglia evidenziano una collaudata rete di solidarietà con altre famiglie e con la parrocchia. In generale il volontariato è lo strumento privilegiato attraverso cui si concretizza il rapporto con il territorio. È un volontariato che “entra in struttura” offrendo ai bambini aiuto nei compiti, accompagnamenti per gli spostamenti dei ragazzini per gli acquisti ecc.Si registra inoltre “l’offrire al territorio il proprio spazio” per la realizzazione di convegni, seminari, feste, proiezione filmati ecc. In alcuni casi la struttura diventa anche sede di tirocini, stage e campi di lavoro. Il rapporto con l’associazionismo, il terzo settore, la parrocchia, gli scout è ritenuto, da tutte le strutture, fondamentale poiché offre un ventaglio di opportunità e di risorse molto ampio.Nelle comunità educative o di tipo famigliare che si occupano di stranieri i rapporti con il territorio sono definiti buoni e consolidati nel tempo, emerge un’integrazione con il tessuto sociale del quartiere di riferimento.

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In alcune realtà, prevalentemente le case famiglia, la posizione isolata non sempre facilita i contatti, i collegamenti e i percorsi di autonomia dei minori inseriti. Non sono esenti dal problema alcune comunità educative che non hanno scelto la collocazione fisica ma vi si sono dovute adattare per necessità.

Conclusioni L’indagine ha permesso l’emersione di una grande e variegata ricchezza di risorse di accoglienza, affiancata ad un generale sforzo di superare le “ingessature istituzionali”, per rispondere ai bisogni nascenti e alle continue trasformazioni sociali. È diffuso il bisogno di disporre di ulteriori strumenti di lettura per fronteggiare problematiche delicate e sempre più complesse come i minori stranieri, le vittime di abusi, ragazzi che soffrono di disturbi psichiatrici. Tale consapevolezza, tuttavia, sembra contrastare con una immagine professionale svalutata, ancora poca riconosciuta e con scarse risorse di sostegno professionale cui accedere. Si sottolinea l’importanza di consolidare azioni comuni e sinergiche fra comunità e servizi sociosanitari per garantire il lavoro di recupero della famiglia. In quest’ottica occorre compiere lo sforzo di assumere una conseguente metodologia flessibile, poco “burocratica” e sistemica per ricomporre, in un quadro organico, il progetto complessivo di accoglienza. Tale obiettivo deve porre le proprie basi, in primo luogo, sul terreno della reciproca conoscenza, delle proprie ed altrui risorse, organizzazione e modalità di funzionamento, al fine di evitare che vi siano bambini più “fortunati” di altri in quanto tutelati da reti organizzative più efficaci e consolidate di altre.

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• A. Angeli, S. Gallello, “Comunità e familiari di minori allontanati”, in Prospettive Sociali e Sanitarie, n.12, 2004;• P. Bastianoni, Interazioni in comunità, Carocci, 2000;• C. Boresi, M. Cheli, S. Giacopuzzi, I. Pagliata, C. Ricciutello, B. Zani, Le risorse per l’accoglienza dei bambini e degli adolescenti: un’indagine conoscitiva nella Provincia di Bologna, Azienda USL di Bologna;• F. Cesarini, “Coordinamento Nazionale delle Comunità per minori”, in Quaderni del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, n.33, 2004;• CISMAI, Requisiti di qualità dei centri residenziali che accolgono minori vittime di maltrattamento e abuso, 2001;• F. Emiliani, P. Bastianoni,“Riflessioni conclusive: criteri di valutazione”, in P. Bastianoni, Interazioni in comunità, Carocci, 2000;• F. Montecchi, Dal bambino minaccioso al bambino minacciato, Franco Angeli, 2005;• E. Quarello, A. Angeli, “La gestione dei comportamenti sintomatici dei bambini vittime di abuso sessuale accolti in comunità”, in Maltrattamento e abuso all’infanzia, Vol. 4, n.1, 2002.

Bibliografia

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FORMAZIONE E RICERCA SUI BAMBINI E RAGAZZI ACCOLTI IN AFFIDO E IN COMUNITA’

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PROVINCIA DI BOLOGNAASSESSORATO ALLA SANITàE SERVIZI SOCIALI

COORDINAMENTO TECNICO PROVINCIALE PER L’AFFIDAMENTO FAMILIARE

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